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INTRODUZIONE

L’evento si è svolto domenica 18 settembre 2017 e si è sviluppato in due momenti:

1. stage di Arti Marziali, presso la palestra dell’Oratorio di Caravaggio, aperto a

tutti coloro che desideravano conoscere queste discipline, sperimentare alcune

tecniche di difesa personale.

2. Tavola rotonda, presso il teatro San Carlo, per iniziare a prendere coscienza del

fenomeno del bullismo, alla presenza di professionisti del settore, scuola,

parrocchia e amministrazione comunale.

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Sono intervenuti:

KARATE M° Libero Michelini

KRAV MAGA M° Paolo Bosco

KICK BOXING M° Andrea Corbetta

MMA M° Roberto Suardi

AIKIDO M° Andrea Anzalone

Dott. Ireneo Mascheroni

Direttore dei consultori familiari Accreditati di Treviglio e Caravaggio (coop. Sociale

AGAPE)

Mons. Angelo Lanzeni

Parroco di Caravaggio

Claudia Ariuolo

Consigliere comunale - Educatore Professionale c/o ATS di Bergamo

Dott.ssa Elena Foppa

Psicologa c/o Centro Antiviolenza - SportelloDonna – SIRIO CSF Soc, Coop soc a.r.l

ONLUS

Prof. Giuseppe Di Sipio

Dirigente Scolastico Istituto Comprensivo Mastri Caravaggini

Avvocato Laura Rossoni

Avvocato esperto in diritto di famiglia e dei Minori

Dott.ssa Silvia Colnaghi

Antropologa e Etnologa

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Prima parte

Stage di Arti marziali: la parola ai Maestri

Pensando al Bullismo e Arti Marziali

Al giorno d’oggi quanti giovani si sentono fieri di essere dei bravi ragazzi? Molto pochi.

Un titolo da perdenti; preferiscono assumere quello stupido comportamento da persone dure e

insensibili per imitare i coetanei ad essere meglio all’interno della compagnia: una moda che ha

contribuito allo sviluppo del bullismo, che si sta imponendo con una frequenza impressionante sia

tra i bambini che gli adolescenti.

Ultimamente i giornali riportano troppo spesso casi di bullismo che accadono nelle scuole o per

strada, con episodi molto gravi e non sono mancati fatti gravissimi di bullismo che, a lungo andare,

hanno portato le giovani vittime ad uno stato di forte depressione, e instabilità psicologica e

purtroppo, a dei casi di suicidio. Ma perché si verificano questi fenomeni che coinvolgono ragazzi

in azioni negative e talvolta piene di cattiverie per colpire dei compagni che spesso hanno l’unica

colpa di essere troppo buoni per reagire?

Per capire a fondo la questione bisogna analizzare i personaggi e le situazioni che entrano in gioco:

i bulli, le vittime, le reazioni. I bulli si ritengono dei leader; per comandare e manipolare hanno

bisogno di qualcuno più debole che non faccia parte del gruppo per coprirlo di insulti, preso in giro,

per deriderlo e ferirlo in qualunque maniera.

Ma cosa si nasconde dietro questa figura? Si tratta di ragazzi con problemi famigliari, ragazzi che

non sanno gestire la loro aggressività , senza regole e rispetto, che esercitano atti di violenza e di

sopruso e trovano una via per sfogarsi; oppure l’eccessiva autostima e il bisogno di essere sempre al

centro dell’attenzione. L’elemento chiave è comunque la vittima. E’ un ragazzo riservato educato

che spesso si trova isolato, non sufficientemente integrato nella scuola o nella cerchia di amici, che

ha paura delle sue reazioni e di quelle degli altri e il più delle volte non si confida con nessuno. E

questo è l’errore più grande perché il silenzio non aiuta a risolvere il problema anzi lo aggrava. Con

questo fenomeno si sta mettendo in risalto la prepotenza, ma soprattutto il voler essere protagonisti

e sostenitori di tutto quello che è illegale, non permesso, per il gusto di fare qualcosa di illecito

senza pensare che in tale modo si colpisce la sensibilità della vittima che è cosi costretta per paura a

subire uno stress umiliante.

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Il problema deve essere affrontato su più fronti; sono gli educatori, gli insegnanti, i genitori le forze

dell’ordine le associazioni e le società sportive, in particolar modo le Arti Marziali, che dovrebbero

far capire ai ragazzi che i veri valori sono altri e che la prepotenza e l’insensibilità verso i compagni

e soprattutto i più deboli non sono degne delle persone civili.

Le Arti Marziali che hanno come scopo lo studio e la diffusione del Tradizionale, nel pieno rispetto

dei principi che ne fanno un mezzo davvero straordinario per lo sviluppo e la crescita armonica

delle persone.

Essendo un M° di Karate- Do Tradizionale, parlerò del Karate come riferimento a un'Arte Marziale

,

il Karate infatti impostato e trasmesso secondo i principi della tradizione, attraverso un lavoro

armonico e completo sulla triplice dimensione fisica, emozionale e mentale, favorisce il riequilibrio

e l’armonizzazione di queste tre componenti, consentendo al giovane di migliorare il carattere, di

sviluppare disciplina e autocontrollo, di acquisire maggiore consapevolezza di se e degli altri.

A.S.D. A.C. Kanyukai Keiko International Traditional Shotokan Goshin Karate-Do M°

Michelini Libero

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Kickboxing e difesa personale vs bullismo.

Circoscrivere il bullismo solo nel ambito scolastico è riduttivo. Sotto il nome di Mobbing, stalking

ed altro si cela lo stesso principio che anima il “bullo”: prevaricazione, dominio, violenza fisica e

psicologica sono elementi comuni sia nei contesti scolastici che lavorativi, ma anche in situazioni di

ordinaria quotidianità.

Il contributo contro il bullismo che può dare la pratica di uno sport da combattimento o di un

sistema di difesa personale è quello relativo alla disciplina attraverso un allenamento mirato e volto

ad accrescere l’allievo fisicamente e psicologicamente. L’istruttore ha un ruolo importante in questo

contesto in quanto, oltre a seguire e formare gli allievi, deve creare e mantenere un clima di

reciproco rispetto contenendo le eventuali esuberanze e stimolando le qualità positive di ognuno pur

rispettandone le diversità fisiche e caratteriali; inoltre deve essere un esempio positivo soprattutto

per i soggetti giovani facilmente influenzabili dagli esempi negativi.

M° Andrea Corbetta

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MMA e Bullismo

Questa è solo la mia idea personale da praticante e appassionato di arti marziali e la mia opinione

riguardo alle arti marziali collegate al bullismo.

Ritengo che ci potrebbe essere una connessione positiva tra le due cose, ma credo che sia molto

difficile da far capire alla gente che non pratica abitualmente. Per chi pratica arti marziali da tanti

anni, la cosa è più facile da vedere e da intuire.

L'idea che solitamente hanno le persone o i genitori, è quella di ritenere che la pratica delle arti

marziali contribuisca a peggiorare la situazione, portando magari il proprio figlio a subire di più o a

reagire con più violenza e cattiveria rispetto a quello che sta subendo.

Condivido pienamente questa preoccupazione, magari reagire alzando le mani in questi casi fa

correre il rischio di ottenere l'effetto contrario!

Il messaggio che vorrei trasmettere alle persone in questa giornata è qualcosa di più importante,e va

oltre la parte “esterna” in cui si impara a muovere le mani.

Io da piccolo non ho mai ricevuto per fortuna atti di bullismo vero e proprio, a parte le solite litigate

di scuola, ma ho comunque subito alcune situazioni che anche se pur leggere, crescendo hanno

influenzato molto il mio carattere in modo negativo.

Posso solo immaginare comunque al giorno d'oggi, nei casi di vero bullismo, come possa essere

veramente devastante per un ragazzino!

Dal mio punto di vista va bene imparare una disciplina marziale, ma ritengo molto più importante

crearsi un carattere attraverso la pratica costante ,cosa che aiuta una persona fragile a comunicare e

trovare quel tantino di coraggio per parlare con gli altri e di affrontare le situazioni negative,

esperienze negative che poi si trascinano per tutta la vita crescendo.

Da piccolo e anche crescendo ho sempre avuto difficoltà a sentirmi a pari degli altri, ero nervoso,

insicuro e facevo fatica a legare con altre persone!

Adesso, a distanza di anni, e con la pratica, ho acquisito autocontrollo e più sicurezza nell'affrontare

tutte le difficoltà che possono presentarsi nell'ambito lavorativo o nei rapporti con le altre persone.

M° Roberto Suardi

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Bullismo: una spirale da rompere – L’uso strategico delle arti marziali

come supporto per affrontare e gestire il fenomeno del Bullismo

Aikido

Per evitare di ridurre le potenzialità offerte dall’Aikido non procederemo con una sua definizione,

in quanto se da un lato la definizione è un supporto, dall’altro ricordiamo ciò che Oscar Wilde ha

scritto ne “Il ritratto di Dorian Gray”: <<Definire è limitare>>.

L’aikido offre infatti, allo stesso tempo, molto più e molto meno di quanto generalmente non si

creda; “molto più”, perché apre all’incontro tra culture, “molto meno” poiché non dà particolare

enfasi alle cosiddette tecniche.

La pratica dell’Aikido comporta in effetti il confronto con una cultura altra rispetto alla nostra

(occidentale ed europea in particolare). Una cultura che presenta uno scarto1 significativo rispetto

alle nostre categorie di pensiero.

1

Nei presenti appunti troverete molti riferimenti al “cantiere” aperto tra Occidente e Cina dal filosofo e

sinologo Francois Jullien. Riteniamo che il suo lavoro possa essere utile anche a quella nicchia di mondo

rappresentato dalle arti marziali (in particolare dall’Aikido) che ha subito il pregiudizio etnocentrico. Proprio

a causa di questo pregiudizio i praticanti queste discipline non si sono accorti del reale potenziale e delle

risorse a loro disposizione. E’ mancato un vero scarto culturale. Per la nozione di “scarto” e di “tra” cfr. F.

Jullien, Contro la comparazione. Lo “scarto” e il “tra”. Un altro accesso all’alterità, Mimesis: << parlare della

diversità delle culture nei termini di differenza disinnesca in anticipo ciò che l’altro dell’altra cultura può

apportare di esterno e di inatteso, al tempo stesso sorprendente e sconcertante, disorientante e incongruo. Il

concetto di differenza ci colloca fin dall’inizio in una logica di integrazione – di classificazione e di

specificazione – e non di scoperta. La scoperta non è un metodo (p.41). (…)fare uno scarto significa uscire

dalla norma, procedere in modo inconsueto, operare uno spostamento rispetto a ciò che ci si aspetta e a ciò

che è convenzionale. In breve vuol dire rompere il quadro di riferimento e arrischiarsi altrove, temendo

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Il praticante verrà condotto in una sorta di “cantiere” sempre aperto tra Europa e Cina/Giappone, un

ponte che lo farà metaforicamente spostare da un luogo all’altro mettendolo alla prova sia

fisicamente sia mentalmente, in modo da apprezzare l’utilità dello scarto e i benefici del divario tra

due modi di pensare e vivere.

L’incontro con un Arte, con una disciplina Marziale che affonda le radici nel lontano Giappone e

che viene praticata in un luogo chiamato dojo2, diventa per il bambino e in generale per il praticante

un luogo di scoperta, l’inizio di un’avventura che non ha limiti talmente è vasta.

Nella pratica dell’Aikido sin dal primo giorno di allenamento, si portano i bambini, i giovani e

meno giovani a porre l’attenzione sulla respirazione (prima la propria e poi su quella del

compagno). Si evidenziano i momenti in cui si inspira, si espira, si resta in apnea, i muscoli e gli

organi coinvolti.

Se in occidente si vive in una cultura dell’essere, in estremo oriente si vive in una cultura

respiratoria evidenzia Francois Jullien.

Le forme o tecniche arriveranno successivamente, dopo aver imparato le fondamenta/basi

dell’aikido, prime fra tutte la postura e la respirazione3 appunto.

Il termine giapponese che indica “respirazione” – kokyu- per il fatto stesso di essere composto sia

dal pittogramma ko=espirare sia dal pittogramma kyu=inspirare rappresenta un importante indizio

della polarità relazionale che caratterizza la cultura giapponese. Proprio nell’elemento più

fondamentale per la vita, la respirazione, i giapponesi ripropongono l’interazione di yin e yang che,

a livello macrocosmico, permette la regolazione del processo dei 10000 esseri, in sostanza la

regolazione del mondo. In Cina/Giappone si ha un approccio di tipo relazionale, circolatorio delle

energie (veicolate a partire dalla respirazione), un approccio in cui polarità opposte e

complementari inter-agiscono fra loro e “lavorano” nel processo del reale4

altrimenti di arenarsi (p.45)>>. 2

Dojo viene tradotto con “luogo dove si pratica la Via”. Il maestro Pierre Chassang citando il Maestro N. Tamura

diceva: <<Il Dojo è al tempo stesso un campo di battaglia e un luogo di culto>> 3

Cfr .Nobuyoshi Tamura., AIKIDŌ, Marseille 1986; Malcom Tiki Shewan kokyu-et-kokyu-ryoku-dans-les-budos-et-

l-aikido 4 F. Jullien precisa: <<invece di dire essenza e modalità unitarie io mi esprimo in termini di relazione>>. Intervento

presso l’Università di Parigi, Saggezza o filosofia, la via o la verità. Con riferimento al termine “processo” vedi, F.

Jullien, Processo o creazione. Introduzione al pensiero dei letterati cinesi, tr. it di E. Pasini, M. Porro, Parma,

Pratiche 1991

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Respirare per il bambino diventa un momento di attenzione a sé, a ciò che avviene al proprio

interno e allo scambio con l’esterno; in seguito diventa un momento di attenzione alle relazioni con

gli altri. Si scopre l’importanza del momento di transizione tra espirazione e inspirazione,

transizione che evidenzia uno “scarto” “vitale” sia tra i due momenti respiratori (inspirazione ed

espirazione) sia tra respirazioni complete che ritmano e rappresentano il continuo processo di

rinnovamento della vita.

Qualcuno in passato ci ha chiesto, in modo molto pragmatico, come possa la respirazione essere

utile alla vittima o al bullo5 ed abbiamo risposto che la consapevolezza che il giovane acquisisce, a

partire dalla propria respirazione, troverà applicazione in tutti gli aspetti dell’allenamento di aikido:

si partirà dalla gestione della respirazione silenziosa, si passerà a quella fragorosa (quando si

eserciterà nel kiai6

) per arrivare al coordinamento respiro-gesto nelle cadute al suolo e

nell’esecuzione delle forme/tecniche sino ad arrivare o meglio a tornare ad un gesto spontaneo

permeato dal Kokyu ryoku7 (forza del respiro) e da esso vivificato.

Siamo certi che, per una vittima di bullismo, apprendere che, partendo dalla propria respirazione,

possa imparare a salvare il proprio corpo (significato delle “cadute” ukemi ), avere la forza di

“urlare” consapevolmente in pubblico (kiai) e gestire le relazioni fisiche con i compagni siano

potenti leve per accrescere la sua autostima e motivarlo a migliorare le sue potenzialità, anzi, sarà

proprio l’accresciuta autostima che gli permetterà di fargli comprendere che potrà gestire in modo

efficace i futuri rapporti di forza che incontrerà nel corso della sua crescita e nel corso della vita.

I piccoli passi fatti con il desiderio di imparare e di mettersi alla prova costituiscono gli scalini che

portano ai grandi cambiamenti.

Per quanto riguarda il bullo, iniziare con l’esercitarsi nel controllare la propria respirazione ed

essere stimolato da un approccio altro alle relazioni umane, veicolato tramite l’allenamento

proposto dall’aikido, può, altresì, portare a significativi cambiamenti come nel caso della vittima.

5 Questa separazione tra teoria e pratica è proprio uno dei tipici esempi di pensiero greco occidentale ed è

significativo che chi pone la questione in oggetto non consideri sufficientemente “pratico” già lo scarto tra oriente

ed occidente in nuce nell’idea stessa di respirazione che apre le porte ad uno scambio estremamente proficuo di

riflessioni. Restando comunque nel campo della pragmatica è immediato ai nostri occhi l’utilità di imparare a “tirare

il fiato”, a “spezzare il fiato”, a “rallentare la respirazione”, a “controllare i battiti cardiaci”. Chi impara a gestire la

respirazione (la transizione tra i propri vuoti e pieni) avrà buone probabilità di gestire le relazioni più complicate (i

vuoti e pieni di tipo sociale).

Cfr. anche Taisen Deshimaru, Lo zen e le arti marziali, SE, pag. 44 6

Il kiai è una sorta di manifestazione sonora, emessa tramite la respirazione, della concentrazione delle proprie

energie in un gesto determinato. 7

Cfr. N. Tamura, Aikido, op.cit.; Malcom Tiki Shewan op. cit.

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Vuoto e pieno, assenza presenza, sono esempi di come l’oriente approcci i rapporti che sono di tipo

relazionali-respiratori sia che si tratti di oggetti, sia che si tratti di persone. La tensione tra le

polarità opposte e complementari yin-yang rappresenta il paesaggio naturale del pensiero estremo

orientale (in Cinese lo stesso kanji usato per designare la parola “paesaggio” venendo tradotto con

“montagne”-“acqua” ne indica la polarità in tensione).

Tensione tra le polarità che i bambini affronteranno, gradualmente passando da pratiche individuali

a pratiche a coppie e a esercizi in gruppi. Esercizi che verranno svolti reciprocamente, in modo

alternato, scambiandosi i rispettivi ruoli. Ecco apparire un nuovo binomio: chi esegue la forma e chi

la subisce (aite-uchi, uke-tori) in continua alternanza di ruoli.

Si impara ad affrontare una delle più elementari paure, quella di cadere8 e farsi male, approcciando

l’impatto con il suolo (la materassina su cui ci si allena), imparando a rotolare dolcemente e senza

far assumere spigolosità al proprio corpo. La naturale conseguenza di questi esercizi è una

stupefacente soddisfazione del praticante nel vedere come è possibile divertirsi “cadendo” per terra.

In seguito si studierà la strategia e la conseguente gestione del rapporto con l’altro: rapporto di

forza, conflitto, rapporto fisico e dialettico con l’altro. Il tutto partendo da esercizi con i quali è il

corpo il principale strumento (utensile) di apprendimento. <<La mano informa il cervello>> era

solito dire il Maestro Pierre Chassang9 e il Maestro Tamura avrebbe aggiunto che “l’aikido esprime

per mezzo del corpo l’ordine dell’universo”.

Dall’incontro/tensione con l’altro, con il compagno di lavoro (in un ambiente protetto come è

appunto il dojo), può emergere la capacità di risolvere i problemi se impariamo a non focalizzarci

su di essi. E’ infatti proprio la focalizzazione che crea il cosiddetto “effetto tunnel” che limita e

ostruisce la strada all’individuazione di quei fattori che possono far propendere a nostro vantaggio

la situazione in essere e, nel caso concreto (aikidoisticamente parlando), a trasformare a nostro

favore il processo tecnico in corso.

Una semplice “presa” al polso comporta, spesso, sia in chi la subisce sia in chi la esegue l’effetto di

far perdere l’attenzione alla propria postura, alla propria respirazione e all’ambiente circostante per

concentrarsi, invece, unicamente nel punto in cui avviene il contatto fisico. Si resta talmente “presi”

8

Cfr. Vedi Gaku Homma, Aikido per la vita, Phasar edizioni, pag. 69 cap. 10 – Cadere è naturale 9

Pierre Chassang, Aikido. Dis-nous ce que tu sais, autopubblicato. Per un approfondimento relativo a come viene

inteso ”corpo” in Cina e Giappone vedi anche Marcello Ghilardi pluralità del "corpo" e F. Jullien, La grande

immagine non ha forma, Colla Editore.; Shitao, Discorsi sulla pittura del monaco zucca amara. A cura di M.

Ghilardi; Cfr. anche N. Tamura, Aikido - Etichetta e Disciplina, Ed. Mediterranee, pag. 21:<< l’aikido esprime per

mezzo del corpo l’ordine dell’universo>>

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dal ripetere meccanicamente gli stessi strattoni per tentare invano di liberarsi o, nel caso di chi

afferra, per cercare di tenere più forte per non perdere la presa, da perdere, invece, la capacità di

pensare altrimenti. Paul Watzlawick evidenziava come in molti casi sono proprio le soluzioni

tentate a mantenere il problema o ad aggravarlo10

. Ci auto-blocchiamo, restiamo invischiati nelle

nostre fissazioni che, scavando solchi sempre più profondi, ci rendono difficile uscirne e vedere

altre soluzioni.

Questo è un tipico caso in cui ci sono le condizioni per suggerire ai praticanti che a volte il lasciarsi

andare, il “rilasciare la tensione11”, comporta come conseguenza la soluzione del problema, in

quanto si possono trasformare le sfavorevoli condizioni iniziali, in cui si era in stallo, bloccati per

un eccesso di pieno e una carenza di vuoto, in un processo in cui l’improvviso rilassamento e la

conseguente mancanza di “appoggio” alla presa comporta un vuoto funzionale a dinamizzare la

relazione, rimettendo in gioco nuovi momenti-opportunità. Nuovi momenti di transizione

contenenti quei fattori di supporto che, se individuati sul nascere, possono essere indirizzati con

poco sforzo in modo da far propendere a nostro favore la nuova situazione innescata.

Altrettanto utile potrebbe essere suggerire di porre l’accento sulla “durata” e sulla “pazienza”:

infatti, nel momento in cui si viene afferrati dal compagno, si potrebbe evidenziare come la forza

dell’avversario non duri per sempre, anzi, più questo stringe e più i suoi muscoli si stancano, di

conseguenza, chi è afferrato, se resta attento, vigile (disponibile12

e aperto), può individuare il

momento in cui la situazione comincia a trasformarsi, in modo da individuare immediatamente i

primi indizi di cambiamento e sfruttare così a proprio vantaggio il momento-opportunità più

10

Cfr. Watzlawick, P., Beavin, J.H., Jackson, D.D. (1967). Pragmatica della comunicazione umana. Roma:

Astrolabio e Watzlawick, P., Weakland, J.H., Fisch, R. (1974). Change. La formazione e la soluzione dei problemi. Roma:

Astrolabio; cfr anche Nardone, G., Fiorenza, A. (1995). L'intervento strategico nei contesti educativi. Comunicazione e

problem-solving per i problemi scolastici. Milano: Giuffrè.; Nardone, G., Giannotti, E., Rocchi, R. (2001). Modelli di

famiglia. Milano: Ponte alle Grazie

11

Vale anche per chi afferra, in quanto una presa salda ma rilassata permette di un migliore adattamento ai

cambiamenti. Cfr anche Taisen Deshimaru, Lo zen e le arti marziali, SE, p. 67 dove si collega il “lasciar la presa” e il

raggiungere la “spontaneità”.

12

<<In Cina la disposizione del saggio è fondata sulla disponibilità: ovvero un’apertura dove tutto rimane possibile. In

effetti, ciò che fa dell’uomo un saggio, in Cina, è il non fermarsi mai in una posizione precisa e statica>> in

Intervista Francois Jullien a cura di Andrea Mayer, tr. di Elena Acuti

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adeguato nel processo che sta maturando13

. Ci si può liberare dalla presa con grande semplicità,

senza forzare, proprio nel momento in cui si individua il vuoto di forza del compagno14

.

In questi casi siamo soliti evidenziare l’utilità di imparare a prendere coscienza proprio di quei

momenti di passaggio e transizione che si sperimentano tra una posizione di pieno e una di vuoto,

tra un momento di vantaggio e uno di svantaggio, con lo stesso impegno con cui si pratica la

respirazione per affinare la propria consapevolezza della transizione tra15

inspirazione ed

espirazione.

L’Aikido contribuisce ad affinare i sensi per individuare le transizioni più sottili sia tra stati fisici

sia tra quelli emotivi; questa attività di auto-investigazione contribuisce, a propria volta, a

migliorare ciò che viene chiamata padronanza di sé16

.

Altra strategia possibile è quella di sfruttare la resistenza dell’altro per innescare il cambiamento

favorevole17

: spingo il braccio del compagno per ottenere una controspinta di reazione che

canalizzo a mio vantaggio.

Si può vincere in modo facile, anzi questo è uno dei più significativi insegnamenti di Sun Tzu.

Quelli sopra riportati sono elementari esempi di Strategia che possiamo dire essere indiretta e tipica

dell’estremo oriente rispetto a quella diretta ed immediata tipica di noi europei.

Probabilmente il barone Von Clausevitz18

, nelle stesse situazioni, avrebbe elaborato un

piano/modello tale da avere i mezzi per distruggere l’avversario nel minor tempo possibile e con il

13

Cfr. Trattato dell'efficacia, tr. it. di M. Porro, Torino, Einaudi 1998 14

E’ un esercizio per affinare la propria sensibilità ai cambiamenti. 15

Il concetto di “tra” può essere approfondito nell’aikido parlando del “ma” giapponese che viene tradotto in modo

incompleto e superficiale con “distanza” (“ma-ai”). 16

Cfr. Kenji Tokitsu, Lo Zen e la via del karate, SugarCo, pag. 9.<<In questo tipo di lotta bisogna prima cogliere

l’altro ed essere consapevoli di sé>> 17

Sulla “prescrizione del sintomo” cfr Watzlawick, P., Beavin, J.H., Jackson, D.D. (1967). Pragmatica della

comunicazione umana. Roma: Astrolabio. Watzlawick, P., Weakland, J.H., Fisch, R. (1974). Change. La formazione e la

soluzione dei problemi. Roma: Astrolabio

18

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maggior danno ravvisabile. Sun Tzu19

predilige invece il conquistare uno stato intatto o vincere

senza combattere.

Nella nostra esperienza abbiamo notato che il secondo approccio strategico rappresenta, per i

giovani, una preziosa scoperta. Essi stessi si divertono a trovare innumerevoli applicazioni nella vita

di tutti i giorni (in famiglia, a scuola, con gli amici, in oratorio) e questa loro applicazione al gioco

“vinci facile” contribuisce a rafforzare la fiducia nelle proprie capacità. Il gioco lavora in modo

discreto (non forzato), con tempi lunghi, contribuendo a porre le condizioni necessarie affinché si

inneschi o si rafforzi il processo di cambiamento che vede il giovane diventare consapevole delle

proprie possibilità di controllo/gestione di una situazione in cui l’avversario è più forte (o sembra

tale).

Tuttavia, il passaggio tra lo stato di impotenza e frustrazione causata da atti di bullismo e quello di

gestione e controllo rientra nei cambiamenti che richiedono tempo, una durata lunga (anche anni), e

deve essere accompagnato dal supporto e dalla solidarietà di tutti gli attori coinvolti nel processo

educativo. Si tratta di un intervento sistemico con uno scambio di informazioni continuo e

approfondito che ha come centro la famiglia del bambino e come periferia tutte le aggregazioni

sociali che lo vedono coinvolto e con le quali interagisce abitualmente.

La formazione, l’educazione, l’esempio tramite gli esercizi praticati nel dojo aiutano a migliorare,

nel bambino e nel praticante in generale, a seconda dei casi, autostima, fiducia in sé stesso,

autocontrollo, autodisciplina, gestione delle relazioni, a condizione che l’allievo sia seguito da un

maestro20

che sappia dare l’esempio e sappia trasmettere ai discenti il piacere dell’allenamento,

della scoperta e della ricerca.21

Attività queste che lo stesso insegnante non cessa di praticare

proprio perché arricchito dalle sempre nuove relazioni dipendenti dagli allievi: si può dire, anzi, che

è egli stesso che apprende22

dai praticati più di quanto loro non apprendano da lui. In effetti è lui

Cfr. Carl von Clausewitz, Della Guerra, Milano, Mondadori, 1997 19

Cfr. L'arte della guerra, Milano, Oscar Mondadori, 2003 20

Parleremo qui di “maestro” in senso generico senza distinguerlo da “insegnante”, “educatore”, “istruttore” ecc. 21

Cfr. Daniel Pennac, Come un romanzo, Feltrinelli, citando Jean-Jacques Rousseau, Emilio, Laterza: <<…Un mezzo

più sicuro di tutta questa roba, e quello che da sempre si dimentica, è il desiderio di apprendere. Date al bambino

questo desiderio poi lasciate da parte le tavole (…), ogni metodo sarà buono per lui….>> 22

Vedi N. Tamura, Aikido - Etichetta e Disciplina, Ed. Mediterranee, pag. 14:<< Insegnare è apprendere>>

(significativo anche la traduzione data al titolo originale – Etiquette et Transmission. Ndr); vedi anche pag. 14-16 cap.

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che ha già appreso la strategia della disponibilità, la capacità di rimanere aperto al cambiamento e di

individuarne i minimi indizi, per cui è avvantaggiato nell’apprendimento rispetto a chi inizia gli

allenamenti pieno di nozioni che lo limitano e bloccano. Il maestro non aggiunge informazioni,

semmai le toglie, ma a partire da sé stesso. Quando abbiamo i polmoni pieni di aria non possiamo

più respirare se non li svuotiamo. In particolare è nell’inter che compone la parola “inter-relazione”

tra allievo e maestro che avviene la scoperta di sé e dell’altro (un po’ come avviene nel dia del

dia-logo).

Questa considerazione vale in generale, ma vale soprattutto e ancora di più nel caso di situazioni

delicate come quella del bullismo o nei casi di violenza.

In apertura accennavo al fatto che spesso le arti marziali offrono più di quanto non ci si aspetti per il

fatto che esse rappresentano una cultura altra rispetto alla nostra. Rappresentano un vero e proprio

“scarto” culturale, dove per “scarto” intendo una “distanza”, una “frattura” a cui non siamo abituati

e che, come abbiamo visto con gli esempi esposti in precedenza, risulta essere un’utilissima risorsa

strategica per riflettere e studiare su ciò che ci è più vicino, sul nostro abituale modo di pensare e di

affrontare le cose.

Il maestro, come accennavamo in precedenza, è la persona che ha la capacità di tenere in “tensione”

i poli di questo “scarto” culturale e di stimolare la curiosità dei praticanti in modo che si inneschi

un processo virtuoso di approfondimento e ricerca reciproca che aiuti a non trascurare “l’impensato

del proprio pensiero” (cfr Francois Jullien). Parafrasando questa citazione ed applicandola

all’Aikido, potremmo dire: “ per non trascurare l’impraticato della nostra pratica”.

Quando si varca la porta della palestra, in realtà, si varca la soglia di un “dojo” (luogo dove si

pratica la “via”). Quando si incontra un maestro di Aikido questo probabilmente instaurerà un

rapporto discreto ma globale nelle relazioni che legano l’allievo, la sua famiglia e gli amici:

maggiore è il numero delle persone coinvolte nella relazione, più essa è foriera di informazioni utili

alla scoperta.

L’insegnante, pag. 20-21 cap. Finalità dell’insegnamento, pag. 24-32 Metodo d’insegnamento. Sulle caratteristiche

personali del “Maestro” cfr anche Giangiorgio Pasqualotto, East & West. Identità e dialogo interculturale, Ed. Marsilio,

pag. 81 e seguenti; Miyamoto Musashi, Il libro dei cinque anelli, Ed. Mediterranee, pag. 47:<<(Il maestro)…deve

conoscere le capacità e i limiti dei suoi collaboratori e deve stimolarli quando è opportuno senza tuttavia pretendere

l’impossibile. Anche la strategia militare deve seguire questa linea di condotta (…) nulla deve essere trascurato (…)>>

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In Giappone era tradizione che si dovessero portare lettere di presentazione di persone conosciute al

fine di essere accettati come candidati per la pratica; non dimentichiamo che parliamo di disciplina

marziale. Gli allievi potevano trasferirsi a vivere nella casa del maestro, occuparsi della pulizia

della casa e prendersi cura delle occupazioni quotidiane dello stesso. Il maestro si interessava

dell’attività lavorativa del praticante e poteva coinvolgere i più adatti nell’insegnamento . Spesso,

infine, il maestro assumeva la paternità spirituale del giovane ed in alcuni casi, quando non aveva

discendenti, era usanza che adottasse un proprio studente o un terzo al fine di trasmettere la propria

Arte.

Il maestro è un “esempio” sia per gli aspetti teorico-pratici sia per quelli relazionali - strategici.

Mostra il percorso ma non forza il cammino dei praticanti. Si adatta ad ognuno di loro in base alle

loro necessità cercando di far germogliare le potenzialità di ciascuno23

. In occidente utilizziamo, in

modo analogo, ma non identico, il termine “ educare” - educere – nel senso di tirar fuori ciò che è

già dentro l’allievo.

In ogni modo il maestro non si atteggia né a guida né a mero accompagnatore, diciamo piuttosto

che, in quanto “nato prima” (significato di “sensei”), è semplicemente “più avanti” nella via e ne

suggerisce il percorso, segnala gli ostacoli, influenza24

gli allievi con il proprio esempio. E’ in grado

di farsi vuoto per meglio accogliere le osservazioni e gli stimoli che gli allievi gli offrono: uno

svuotamento utile per accumulare nuovo potenziale. Corregge sé stesso e così facendo accresce la

propria disponibilità verso gli altri. Con discrezione si farà più presente o più assente a seconda

delle circostanze ma praticherà sempre con gli allievi25

.

Proprio questa sensibilità sottile sarà un utile supporto nei casi di bullismo al fine di individuare le

differenti tipologie di attori di fronte a lui. Sappiamo infatti che non esistono solo il bullo e la

vittima ma molte altre figure ancora, alcune delle quali insidiose, difficili da riconoscere perché

23

Con riferimento allo sviluppo delle potenzialità cfr. Fondamenti del Judo in quaderni del Bu-Sen Kyu Shin Do a

cura di H. Asaki e C. Barioli, pag. 80 << Shuyoo – coltivazione del corpo: sviluppo della tendenza naturale di ogni

persona>> 24

Il termine qui è da intendersi solo con accezione positiva e non negativa. 25

Cfr Daniel Pennac op. cit. pag. 76,:<<quel professore non inculcava un sapere, regalava quel che sapeva. (…)

l’uomo che legge ad alta voce ci eleva all’altezza el libro. Dà veramente da leggere!>>

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sovrapponibili fra loro e ambivalenti (es. vittima provocatrice)26

. Indichiamo le principali figure e

rimandiamo agli esperti per gli adeguati approfondimenti e distinzioni:

Vittima passiva, vittima reattiva

Bullo leader, bullo freddo, bullo aggressivo, bullo ansioso-agitato, bullo spavaldo, bullo amico

Figure ambivalenti: emarginato violento, vittima ambigua, vittima provocatrice.

Il maestro deve essere attento a tutto, ai minimi indizi, senza tuttavia farsi vedere attento in quanto

l’attenzione può essere considerata una sorta di riconoscimento sociale che il bullo ricerca (ecco un

altro esempio di ciò che chiamiamo presenza-assenza).

Il bullismo è un’attività antisociale altamente negativa che il maestro deve prevenire o quanto

meno bloccare sul nascere intervenendo in modo immediato, immancabile e ineluttabile con la

sanzione adeguata27

alla situazione, senza un coinvolgimento personale manifesto (che lo faccia

percepire aggressivo). La sanzione e l’atteggiamento sono esempi importanti sia per il bullo, che ha

la possibilità di rendersi conto dell’errore, sia per la vittima che si sente al sicuro. Azione –

reazione, condizione- conseguenza applicate in ogni ambiente collegato agli attori in gioco ne

permette la maturazione. Da qui l’importanza dello scambio di informazioni, per il tramite dei

genitori, con tutti i centri di aggregazione sociale ivi compreso le forze dell’ordine qualora si

dovessero ravvisare estremi di reato o situazioni limite.

Primo dovere del maestro è quindi intervenire per bloccare ogni comportamento antisociale.

Dopodiché tempo, pratica, pazienza ed esempio potranno influenzare positivamente i giovani,

contribuendo a far crescere persone sicure di sé e consapevoli delle proprie capacità. Si devono

coltivare le condizioni affinché i giovani possano maturare il loro pieno potenziale, così come per

26

Cfr fra tutti: Olweus D., Bullismo a scuola. Ragazzi oppressi, ragazzi che opprimono", Giunti Editori; Guarino A.,

Lancellotti R., Serantoni G. (2011) Bullismo: aspetti giuridici, teorie psicologiche e tecniche di intervento;

http://www.educabimbi.it/bullismo-libro-online/ ; http://www.generazioniconnesse.it/index.php?s=3 ;

http://www.carabinieri.it/cittadino/consigli/tematici/questioni-di-vita/il-bullismo/il-bullismo ;

http://www.azzurro.it/it/informazioni-e-consigli/consigli/bullismo/che-cos%E2%80%99%C3%A8-il-bullismo 27

La sanzione non dovrà mai essere di tipo violento ma certamente potrà essere fisica come quella di far eseguire

piegamenti sulle gambe al bullo, farlo restare nella “posizione del cavaliere” (kibadachi) per un certo tempo, far

eseguire piegamenti sulle braccia (se si tratta di bambini o adolescenti bisogna avere l’accortezza di fargli mantenere

le ginocchia a terra per evitare che lo sforzo sia eccessivo per l’ossatura non ancora adeguata). In sostanza la

sanzione diventa un esempio per gli altri e un “toccasana” per il bullo. Si dovrà anche vietare ai compagni di

schernire il punito.

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far crescere una pianta non ci si può mettere a tirarla per le foglie ma solo zapparle intorno,

concimarla e innaffiarla. Questa metafora spiega chiaramente che il “non agire” taoista -<< wu wei

er wu bu no wei28

(non fare nulla in modo che nulla non sia fatto/ non fare nulla ma che nulla non

sia fatto) non ha niente a che vedere con il nichilismo o l’abbandono di qualunque attività, bensì

con il mettersi in fase29

con il processo del mondo.

A lungo termine la pratica marziale contribuirà ad aumentare l’autostima della vittima e ad

indirizzare il bullo verso la comprensione dei propri errori. E’ necessario, a questo fine, che i

bambini vengano avviati alla pratica marziale sin dall’infanzia. Intendo dire che prima i giovani

vengono avviati all’Aikido più facile è risolvere le situazioni negative in cui incorrono; al contrario,

più si ritarda più risulterà difficile. Questo succede quando le vittime di bullismo superano i 15/16

anni mentre, se si tratta di bulli, si ha qualche possibilità di successo in più.

Ai genitori raccomandiamo di non forzare il proprio figlio a frequentare un corso di Aikido, bullo o

vittima che sia. Non portatelo in palestra con la speranza che impari a controllarsi o a difendersi :

tutto ciò è inutile se non si inter-agisce sinergicamente a tutti i livelli sociali a partire dai rapporti

inter-famigliari.

Da ultimo, ma non per importanza, accenniamo allo “scarto” tra occidente e Giappone per quanto

riguarda il metodo di insegnamento.

Dal lato europeo troviamo la modellizzazione. Dal lato Cinese e Giapponese troviamo la

maturazione del potenziale della situazione come ha ben illustrato nelle sue opere il filosofo e

sinologo francese Francois Jullien.

Da un lato troviamo la progettualità30

per obiettivi tipica delle nostre istituzioni scolastiche che

combattono il bullismo ricercando la ripetibilità scientifica di un progetto/modello a livello

28

F. Jullien, Trattato dell’efficacia, op.cit.; La grande Immagine non ha forma, op. cit. 29

“Essere in fase” è un’espressione usata da F. Jullien. In Aikido parliamo di armonia e di armonizzazione che

tuttavia possono dare adito a confusioni. 30

Cfr ad es: http://ita.tabby.eu/il-progetto-tabby.html contro il bullismo oppure http://www.tabby.eu/.Vedi anche Atti

del seminario di studio: Difesa personale, prevenzione del bullismo e sicurezza sociale, a cura di Luca Elid e Marco

Bussetti all’interno del progetto: “Formazione degli insegnanti di educazione fisica di ogni ordine e grado delle

scuole della Lombardia sulle scienze motorie e sportive nelle scuole” (www.irrelombardia.it) promosso dalla

Direzione Scolastica Regionale della Lombardia, dalla Direzione Generale Sport della Regione Lombardia,

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nazionale o locale; dall’altro incontriamo la propensione alla trasformazione del processo in corso,

della situazione/relazione.

Da una parte si tende ad agire con piani e modelli disegnando i fini e predisponendone i mezzi;

dall’altra si pongono le condizioni affinché maturi il potenziale della situazione. Da un lato si agisce

in modo locale e diretto, dall’altro si trasforma in modo globale e silenziosamente.

Quante risorse abbiamo a nostra disposizione! Sfruttiamole tutte a nostro vantaggio per sconfiggere

il bullismo!

L’Akido e le arti marziali, come dicevamo in precedenza, possono contribuire a risolvere questo

fenomeno a condizione che tutte le differenti forme di aggregazione sociale facciano sistema:

famiglia, scuola, oratorio, associazioni sportive, culturali, CRE, scout, centri di ascolto ed

assistenza, forze dell’ordine, ecc. Queste forme di aggregazione sociale devono inter-agire fra loro

tramite le persone ad esse preposte al fine di combattere e sradicare la negatività che accompagna il

bullismo, facendo sistema con spirito di solidarietà e collaborazione.

Concludiamo evidenziando i potenziali rischi cui si può andare incontro nella frequentazione di

palestre, dojo e in genere di ambienti che hanno a che vedere con l’oriente. Qui aleggia sempre il

pesante rischio non tanto di farsi male fisicamente, quanto quello che il bambino si faccia male

moralmente o psicologicamente. Questo accade quando il (pseudo) maestro ha, da una parte, come

modello l’oriente esotico e vive l’Aikido come una sorta di facile disciplina di vago sviluppo

personale - perché incapace di seguire il rigore ed i sacrifici che l’arte richiede- e dall’altra quando

confonde autorevolezza con autoritarietà. L’accettazione acritica delle istruzioni, la mancanza di

verifica dia-logica (e non solo), la mancanza di regole condivise (ma solo imposte), comporta il

facile plagio dell’allievo, con il rischio di cadere nel “gurismo” e nel “settarismo31”. Rischi questi

che potrebbero causare danni ben più gravi dei motivi per cui ci si vuole avvicinare alla disciplina

dall’Agenzia scolastica – Nucleo Territoriale Lombardia e LITOS A. Steiner di Milano.

Per progetti Aikido-Scuola vedi http://www.amicidellaikido.it/grandi/EcoBergamoApr2013.jpg Amicidellaikido –

IIS Guglielmo Oberdan, Gestione dei Rapporti di Forza 31

http://www.amicidellaikido.it/images/attitudine.pdf - Amicidellaikido, Praticare con tutti, :<< Con questi

“ismo” intendiamo l’aspetto più negativo dell’essere guru, o meglio, combattiamo un diffuso atteggiamento che

consiste nel nascondersi dietro maschere di sedicenti maestri di vita per fuorviare, traviare i propri allievi limitandone il

senso critico e la libertà, per assoggettarli invece all’obbedienza più passiva. Cfr anche Stanley Milgram, Obbedienza

all’autorità, Einaudi>>.

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marziale. Ed è qui che la relazione tra Maestro e Genitore assume tutta la sua importanza strategica:

inter-relazione per confronto, indagine e verifica reciproca, nell’interesse dell’Allievo-Figlio.

Gli Amicidellaikido vi aspettano per praticare tutti insieme. A presto.

Qui di seguito riportiamo le indicazioni per una corretta pratica esposte nel dojo del fondatore

dell’aikido dal 1938, condivise da tutti i praticanti

Disposizioni per la pratica – testo affisso nel dojo di O-Sensei dal 1931

Un colpo, in Aikido, può decidere per la vita o per la morte.

Durante la pratica, obbedite alle istruzioni di chi dirige il corso.

Non trasformate la pratica in un assurda prova di forza.

I- L’Aikido è una disciplina attraverso la quale, per mezzo dell’UNO si possono raggiungere i

diecimila esseri.

Anche con un solo avversario, non bisogna occuparsi unicamente di chi abbiamo davanti; è

necessario praticare restando attenti alle quattro e alle otto direzioni.

II- Bisogna lavorare in un clima di gioia.

III- L’insegnamento di chi tiene il corso, non rappresenta che un frammento dell’Aikido.

IV- Quando sarete pervenuti alla conoscenza attraverso il corpo, la ricerca, l’allenamento

quotidiano e costante di sé stessi, vi permetteranno il reale uso delle meraviglie dell’Aikido

V- L’allenamento giornaliero comincia con TAI NO HENKA, in seguito si pratica sempre più

intensamente senza superare i propri limiti, ciò permette anche a persone anziane, di praticare

con piacere per raggiungere lo scopo della pratica senza il rischio di farsi male.

VI- L’Aikido è una ricerca che tende, attraverso l’esercizio del corpo e dello spirito, a

plasmare un uomo dal cuore retto.

Tutte le tecniche, senza eccezione, sono segrete e non possono essere mostrate senza cautela a

chi non pratica.

Bisogna evitare di insegnare l’Aikido a chi potrebbe farne un cattivo uso.

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Riepiloghiamo i punti accennati in questo incontro

Aikido ponte tra culture: luogo di scoperta per il bambino

Respirazione e i processi relazionali: tensione tra opposti complementari yin-yang

Strategia della disponibilità: individuare le trasformazioni in corso: affinamento della

sensibilità

Importanza strategica del gioco per la maturazione del bambino: “divertirsi cadendo” –

“vinci facile”

Interrelazione sistemica per combattere il bullismo

La figura del maestro-sensei

Tipologie di bulli e vittime

Interventi: caratteristiche della punizione

Metodo di insegnamento: progetto e modello o adattamento e maturazione

Rischi delle arti marziali

Disposizioni per la pratica dell’aikido 1938

M° Andrea Anzalone

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Seconda parte

Tavola rotonda

CONVEGNO “BULLISMO: UNA SPIRALE DA ROMPERE”

CARAVAGGIO DOMENICA 18 SETTEMBRE 2016

A cura del dr. Ireneo Mascheroni*

L’ iniziativa di sensibilizzazione e contrasto al fenomeno del bullismo “Una spirale da rompere” si

caratterizza per alcuni elementi di particolare rilievo.

Il momento è promosso congiuntamente da diverse associazioni che praticano ed insegnano arti

marziali - Karate – Krav Maga – Kick boxing – MMA – Aikido - che intendono così offrire

un'occasione di confronto su come queste discipline possono aiutare ad affrontare e gestire il

fenomeno del bullismo in chiave non solo di “difesa personale”, ma soprattutto pedagogica,

relazionale, culturale. Una proposta che, realizzata in questo modo, rappresenta un caso abbastanza

raro nel panorama delle iniziative di formazione su questo particolare tema.

La seconda caratteristica di rilievo è il fatto che queste associazioni sportive hanno chiamato a

riflettere sul tema del bullismo diversi soggetti sociali – mondo ecclesiale, scuola, amministrazione

comunale, servizi sociosanitari come i consultori privati accreditati di Treviglio e Caravaggio e il

Centro Antiviolenza della coop. Sirio - ad indicare il fatto che il fenomeno del bullismo, e in

generale della gestione dei conflitti, riguarda più ambiti, interessa più agenzie educative, a

cominciare dalla famiglia. E’ convinzione di tutti che il fenomeno vada affrontato in un’ottica di

collaborazione sistemica tra agenzie, su un piano che è prima di tutto educativo e culturale.

Ma di che cosa stiamo parlando? Cos’è il bullismo? Il bullismo viene definito comunemente come

un’oppressione, psicologica o fisica, ripetuta e continuata nel tempo, perpetuata da una persona

- o da un gruppo di persone - più potente nei confronti di un’altra persona percepita come più

debole32

. Così uno studente è oggetto di bullismo quando viene esposto ripetutamente, nel corso del

32

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tempo, alle azioni offensive messe in atto da parte di uno o più compagni. Un comportamento

‘bullo’ è un tipo di azione che mira deliberatamente a far del male o a danneggiare; spesso è

persistente, talvolta dura per settimane, mesi, persino anni ed è difficile difendersi per coloro che ne

sono vittime. Alla base della maggior parte dei comportamenti sopraffattori c’è un abuso di potere e

un desiderio di intimidire e dominare.

Dalle diverse definizioni sopra presentate, è possibile ricavare alcuni elementi comuni che

delineano il fenomeno nella sua specificità:

• L’intenzionalità. Gli atti bullistici sono intenzionali, deliberati: il bullo agisce con l’intenzione e

lo scopo preciso di dominare sull’altra persona, di offenderla e di causarle danni o disagi.

• La persistenza nel tempo. Sebbene anche un singolo fatto grave possa essere considerato una

forma di bullismo, di solito gli episodi sono ripetuti nel tempo e si verificano con una frequenza

piuttosto elevata.

• L’asimmetria della relazione. La relazione tra bullo e vittima è di tipo asimmetrico: viene ad

instaurarsi una disuguaglianza di forza e di potere, per cui uno dei due sempre prevarica e l’altro

sempre subisce, senza riuscire a difendersi. La differenza di potere tra il bullo e la vittima deriva

essenzialmente dalla forza fisica. Altri fattori che intervengono sono la differenza di età (i bulli

sono generalmente bambini più grandi) o il genere sessuale (il ruolo di bullo è generalmente agito

da maschi mentre le vittime possono essere indifferentemente maschi o femmine). Spesso gli

episodi di bullismo vedono coinvolto un singolo soggetto contro un altro; è però altrettanto

frequente il caso in cui a mettere in atto le prepotenze sia un gruppetto di 2 o 3 persone ai danni di

una sola vittima.

Gli episodi di prepotenza si possono manifestare con diverse modalità, più o meno esplicite e più o

meno evidenti. Due sono le principali forme di bullismo: diretto e indiretto. Il bullismo diretto è

costituito dai comportamenti aggressivi e prepotenti più visibili e può essere agito in forme sia

fisiche sia verbali. Il bullismo diretto fisico consiste nel picchiare, prendere a calci e a pugni,

spingere, dare pizzicotti, graffiare, mordere, tirare i capelli, appropriarsi degli oggetti degli altri o

Farrington, D. P. (1993d). Understanding and preventing bullying

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rovinarli.

Il bullismo di tipo indiretto, invece, si gioca più sul piano psicologico, è meno evidente e più

difficile da individuare, ma non per questo meno dannoso per la vittima. Esempi di bullismo

indiretto sono l’esclusione dal gruppo dei coetanei, l’isolamento, l’uso ripetuto di smorfie e gesti

volgari, la diffusione di pettegolezzi e calunnie sul conto della vittima, il danneggiamento dei

rapporti di amicizia.

Il bullismo è una tra le possibili manifestazioni di aggressività messe in atto dai bambini e dagli

adolescenti. Sebbene non sia sempre semplice riconoscere ad un primo sguardo le differenti

tipologie di comportamenti aggressivi, è però possibile distinguere quelli più specificamente

riconducibili alla categoria “bullismo” da quelli che, invece, non entrano a far parte di questo

fenomeno.

Una prima categoria di comportamenti non classificabili come bullismo è quella degli atti

particolarmente gravi, che più si avvicinano ad un vero e proprio reato. Attaccare un coetaneo con

coltellini o altri oggetti pericolosi, fare minacce pesanti, procurare ferite fisiche gravi, commettere

furti di oggetti molto costosi, compiere molestie o abusi sessuali sono condotte che rientrano nella

categoria dei comportamenti antisociali e devianti e non sono in alcun modo definibili come

“bullismo”.

Allo stesso modo, i comportamenti cosiddetti “quasi aggressivi”, che spesso si verificano tra

coetanei, non costituiscono forme di bullismo. I giochi turbolenti e le “lotte”, particolarmente

diffusi tra i maschi, o la presa in giro “per gioco” non sono definibili come bullismo in quanto

implicano una simmetria della relazione, cioè una parità di potere e di forza tra i due soggetti

implicati e una alternanza dei ruoli prevaricatore/prevaricato.

A contribuire alla difficoltà di distinguere con chiarezza che cosa sia il bullismo e, soprattutto, ad

ostacolare gli interventi per contrastarlo, giocano un ruolo di rilievo alcuni pregiudizi e luoghi

comuni diffusi nell’immaginario collettivo:

• il bullismo, in fondo, è solo “una ragazzata”. Al contrario, gli atti bullistici sono tutt’altro

che un gioco, anche se spesso i bulli si nascondono dietro a questa giustificazione per evitare

la punizione.

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• Il bullismo fa parte della crescita, è una fase normale che serve a “rafforzarsi”. In realtà

il bullismo non è un fenomeno fisiologicamente connesso alla crescita e non serve affatto a

rinforzare, ma crea disagio e sofferenza sia in chi lo subisce che in chi lo esercita.

• Chi subisce le prepotenze dovrebbe imparare a difendersi. La vittima non è in grado di

difendersi da sola e il continuo subire prepotenze non la aiuta certo a imparare a farlo, ma

aumenta il suo senso di impotenza.

• Le caratteristiche esteriori della vittima rivestono un ruolo fondamentale. Si pensa

comunemente che ad influire in modo decisivo nella “designazione della vittima”

intervengano l’aspetto fisico e alcuni particolari esteriori come l’essere in sovrappeso, avere

i capelli rossi, portare gli occhiali, avere un difetto di pronuncia. In realtà molti bambini

possiedono tali caratteristiche, senza per questo essere vittime di atti di bullismo. Piuttosto,

spesso i bulli portano tali elementi come “giustificazione” per i loro gesti.

• Il bullismo è un fenomeno proprio delle zone più povere e degradate, è più diffuso nelle

grandi città, nelle scuole e nelle classi più numerose. Tali convinzioni non trovano riscontro

nella realtà. Il bullismo è infatti altrettanto diffuso nelle zone più benestanti dal punto di

vista socioeconomico, così come nelle scuole e nelle classi meno numerose.

• Il bullismo deriva dalla competizione per ottenere buoni voti a scuola. Talvolta si crede

che il bullo agisca aggressivamente in seguito alle frustrazioni per i ripetuti fallimenti

scolastici: questa opinione non ha fondamento, anche perché sia i bulli che le vittime

ottengono a scuola voti più bassi della media.

• Il bullo ha una bassa autostima e al di là delle apparenze è ansioso e insicuro. Il bullo è

un soggetto con un forte bisogno di dominare sugli altri ed è incapace di provare empatia.

Generalmente non soffre di insicurezza o ansia, e la sua autostima è nella norma o

addirittura superiore alla media.

Permettetemi infine di fare cenno ad una forma particolare di bullismo oggi molto attuale, al quale

anche i nostri consultori accreditati di Treviglio e Caravaggio stanno dedicando una particolare

attenzione proponendo percorsi di formazione specifici agli alunni delle scuole del territorio,

nell’ambito dei progetti di educazione alla affettività sostenuti dall’ATS di Bergamo. Sto parlando

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del cyber bullismo, definito come una forma di bullismo fatta attraverso l'uso di tecnologie

digitali: internet e telefoni cellulari vengono utilizzati per minacciare, spaventare o impedire le

comunicazioni.33

Squilli anonimi, messaggi con minacce, insulti in chat sono esempi di

cyberbullismo. Questo fenomeno presenta differenze particolari rispetto al bullismo: anonimato,

assenza di contatto diretto tra cyberbullo e vittima, invisibilità della vittima; assenza di limiti

spazio-temporali; deresponsabilizzazione e diminuzione del senso di colpa, visibilità. Un fenomeno

al quale è necessario prestare la massima attenzione.

Entriamo nel dibattito:

Mons. Angelo Lanzeni, presbitero della Diocesi di Cremona, arciprete della comunità dei

Santi Fermo e Rustico in Caravaggio, la parrocchia più grande della diocesi di Cremona con

oltre 14.000 abitanti. Il contrasto ad ogni forma di violenza e la promozione di una cultura

della convivenza, della tolleranza e del rispetto è impegno di tutte le realtà del territorio.

A lui chiediamo: come la comunità cristiana si lascia interpellare dai fenomeni di violenza

che in particolare tra i ragazzi possono prendono vita nell’ambito delle realtà ecclesiali?

Quali possono essere le responsabilità della comunità cristiana?

Claudia Ariuolo, consigliere comunale di maggioranza dell’AC di Caravaggio e presidente

della commissione "Qualità della vita". Claudia Ariuolo è Educatore Professionale

dipendente dell' ATS di Bergamo; per molti anni ha svolto il ruolo di educatore presso il CSE

(Centro socio educativo) per disabili, prima di Spirano e poi di Caravaggio (ora denominato

CDD - Centro Diurno Disabili). Da circa 10 anni lavora al Centro screening oncologici

sempre all'ATS occupandosi di programmi di prevenzione secondaria per quanto riguarda i

carcinomi del colon retto, mammella, cervice uterina.

Le chiediamo: cosa la A.C. può mettere in campo per sostenere i cittadini – in particolare

le fasce più giovani – a prevenire ed affrontare le situazioni disagio e di prevaricazione che

si possono presentare e promuovere relazioni sociali improntate a rispetto e dialogo?

Dott.ssa Elena Foppa, psicologa presso il “Centro Antiviolenza- Sportello Donna” della

Coop. Sociale Sirio, una realtà che da anni opera a favore delle donne vittime di violenza. Al

tema della violenza di genere - che drammaticamente occupa in questi ultimi anni le pagine

dei giornali per l’aumento del numero dei casi di femminicidio - anche Regione Lombardia e

33 http://www.iccroce.org/joomla3/images/05.Genitori/SmartWeb/Documentazione/04.Cyber-Bullismo.pdf ?

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i servizi del nostro territorio stanno rispondendo attraverso la creazione di una Rete

Interistituzionale per la prevenzione ed il contrasto alla violenza di genere. Le chiediamo:

sulla base della esperienza professionale di questi anni quale ruolo gioca la famiglia

nell’educare i ragazzi a gestire in modo positivo i conflitti, l'aggressività? In che senso la

famiglia è considerata un modello nell'assunzione di comportamenti improntati a

correttezza, rispetto, solidarietà?

Prof. Giuseppe di Sipio, è Dirigente Scolastico dell’Istituto comprensivo Mastri Caravaggini

di Caravaggio; il prof. Di Sipio ha lavorato in questa scuola come vicario dell’allora Preside

Tadini per circa 10 anni; attualmente al settimo anno di dirigenza alla Mastri, dopo aver

diretto l’allora scuola media Vailati di Crema per tre anni. L’Istituto comprende, dal 1°

settembre 2012, tutte le scuole statali dell’obbligo di Caravaggio e delle frazioni di Masano e

Vidalengo, con scuole dell’infanzia, primarie e secondaria di I grado e alunni compresi

perciò dai 3 ai 14 anni.

Abbiamo visto che il ruolo della scuola è fondamentale rispetto al tema che stiamo

trattando. La scuola ha da sempre incrociato e posto grande attenzione a questo

fenomeno. Quale ruolo possono dunque giocare gli insegnati, la scuola nel suo

complesso nell’affrontare in modo corretto ed efficace il fenomeno del bullismo? Quale

alleanza è possibile stringere tra la scuola., la famiglia e le diverse agenzie educative che

si occupano dell'educazione dei ragazzi? A quali valori si ispirano le linee educative

della scuola nel contrastare il fenomeno del bullismo?

La dott.ssa Silvia Colnaghi, ha conseguito la laurea magistrale in antropologia culturale ed

etnologia presso l'università di Bologna, e attualmente segue un master dell'università di

Modena riguardante l'intercultura in ambito sanitario, lavorativo, sociale e del welfare che

prende in esame il fenomeno migratorio in tutti i suoi aspetti socio-culturali (leggi e

politiche sulla migrazione, chi sono i migranti e cosa vuol dire essere rifugiato/richiedente

asilo/migrante economico, come si interfacciano con i nuovi cittadini le istituzioni e in

particolare il sistema sanitario, come cambiano le classi nelle scuole, ecc.)

In particolare, si è occupata di mediazione culturale all'interno delle strutture sanitarie,

inizialmente nel lavoro di tesi sui mediatori nell'ospedale pubblico Sant'Orsola di Bologna, e

attualmente presso uno dei centri di salute mentale dell'AUSL bolognese, con un gruppo di

psicoterapeuti che lavora su pazienti (adulti) stranieri e disagio mentale.

Il suo punto di vista può risultare molto utile ed interessante per comprendere meglio il

fenomeno del bullismo sotto il profilo delle radici sociali che lo alimenta e della descrizione

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dei profili dei protagonisti degli atti di bullismo (il bullo, le vittime, gli spettatori).

Le chiediamo: a partire dalla sua esperienza come vede il fenomeno del bullismo? Quale

ruolo rivestono i protagonisti principali? Possiamo considerare gli “spettatori” –come

co-protagonisti delle azioni di prevaricazione a cui assistono? Quali le responsabilità di

ciascun attore?

L’ Avv. Claudia Rossoni, lavora da anni nel nostro territorio nell’ambito del diritto di

famiglia e della tutela delle donne e dei minori. Le chiediamo un aggiornamento sugli

aspetti giuridici e sugli strumenti di tutela dei minori vittime di bullismo.

dr. Ireneo Mascheroni,

direttore dei consultori familiari accreditati

di Treviglio e Caravaggio

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LA COMUNITA’ CRISTIANA DAVANTI AL FENOMENO DEL BULLISMO

Don Angelo Lanzeni

Parroco di Caravaggio

La comunità cristiana, in ogni suo membro, non può non sentirsi interpellata da un fenomeno che sembra

avere radici lontane, nel tempo e nella storia delle relazioni umane.

C’è una possibilità che il bullismo abbia sempre abitato tra noi, che non sia una novità di questi tempi. E’ un

fatto però che ce ne occupiamo più che in passato, che gli abbiamo dato un nome, che lo conosciamo meglio:

se non è aumentato il fenomeno – ma non è facile a dirsi perché in passato non lo si monitorava come ora – è

cresciuta la percezione. E’ emerso. Come sta a dimostrare questo incontro dal titolo emblematico “Bullismo:

una spirale da rompere”, promosso dall’associazione sportiva Amici dell’Aikido che si occupa di insegnare

arti marziali.

Da una recente seria ricerca che fotografa l’idea che gli italiani hanno del bullismo emerge un dato

interessante anche per la nostra conversazione. Parto da questo contributo per poi raccogliere alcune

considerazioni circa la responsabilità che una comunità cristiana deve avvertire in ordine a questo problema.

Stando alle statistiche sulla percezione: la parola bullismo evoca termini come violenza, prepotenza,

prevaricazione nei confronti dei più deboli. Gli intervistati lo associano soprattutto alla violenza fisica più o

meno incisiva (97,4%) e all’aggressione verbale (minacce, prese in giro, appellativi dispregiativi, 90,2%)

Meno percepito il bullismo indiretto (l’esclusione, la diffusione di menzogne sulla vittima), sentito dal 62%

degli interpellati, che al 60,9% chiamano in causa la versione cyber, quella che implica l’utilizzo dei cellulari

e Internet per diffondere immagini e parole volte a screditare chi viene preso di mira. Si pensa che a

scatenarlo siano soprattutto aspetti caratteriali della vittima, ma vengono citati anche l’aspetto fisico, la

corporatura, la situazione economica. Molti intervistati associano il tema ai comportamenti dei ragazzi in età

da scuola media e sono in molti a credere che il fenomeno sia cresciuto negli ultimi 5 anni.

Elevata, 40%, è la percezione del campione che ammette di aver subito prevaricazioni di questo tipo. E si

tratta di coloro che hanno del problema una percezione più realistica. Sono convinti che non è solo la

violenza fisica a far male, sanno che entra nelle scuole prestissimo, fin dalla scuola dell’infanzia, sanno che

si viene presi di mira anche per le condizioni economiche in cui si versa, per le caratteristiche della famiglia,

per la religione, per l’origine geografica.

Di fatto superata risulta la convinzione antiquata che la prevaricazione sia uno strumento per fortificare il

carattere. Hanno capito quasi tutti che si tratta di una distorsione che va combattuta. Ma come?

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Me lo chiedo a partire dalla consapevolezza della responsabilità che una comunità cristiana riconosce alla

base del proprio impegno educativo. Senza pretendere di essere esaustivo mi concentro su alcuni

atteggiamenti imprescindibili, da promuove o da evitare.

Il bullismo, come ogni forma di prevaricazione, va combattuto alla radice promuovendo la cultura

dell’accoglienza, che nasce dal rispetto dell’altro considerato, in ottica cristiana, non un avversario, un

nemico da umiliare, ma un fratello da amare. I cristiani sono convinti che in ogni uomo e ogni donna si

rifletta un raggio luminoso del volto di Dio. Soprattutto nei più fragili – ricorda il Vangelo – Dio si rivela

nella sua forma più riconoscibile. “Chi accoglie voi accoglie me – dice Gesù ai suoi discepoli – e chi

accoglie me accoglie il Padre mio che sta nei cieli”. C’è una relazione profonda tra l’uomo, ogni uomo, e

Gesù, e grazie a lui con Dio.

Nel discorso così definito degli ultimi tempi al capitolo 24 di Matteo, Gesù indica le opere di misericordia e

delinea con chiarezza il suo pensiero: “Ogni volta che avete fatto (o non avete fatto) queste cose a uno dei

più piccoli di questi miei fratelli, lo avete (o non lo avete) fatto a me”.

Il bullismo si vince e si sradica solo con una reale presa in carico delle proprie responsabilità educative. Una

comunità cristiana prigioniera delle proprie paure, arroccata a difesa delle proprie tradizioni, non disponibile

al rinnovamento, è terreno fertile per il sorgere di atteggiamenti di negazione dell’altro e della sua diversità.

Questo produce il cancro dell’esclusione violenta e del rifiuto pregiudiziale dell’altro in quanto altro e

diverso da sé.

Papa Francesco nell’Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium, il piano programmatico del suo pontificato,

richiama le comunità cristiane al loro impegno primario di evangelizzare la vita.

“Il grande rischio del mondo attuale, con la sua molteplice e opprimente offerta di consumo, è una tristezza

individualistica che scaturisce dal cuore comodo e avaro, dalla ricerca malata di piaceri superficiali, dalla

coscienza isolata. Quando la vita interiore si chiude nei propri interessi non vi è più spazio per gli altri, non

entrano più i poveri, non si ascolta più la voce di Dio, non si gode più della dolce gioia del suo amore, non

palpita l’entusiasmo di fare il bene. Anche i credenti corrono questo rischio, certo e permanente…” (EG,2).

E propone una via da percorrere: prendere l’iniziativa, coinvolgersi, accompagnare, fruttificare e festeggiare

“La Chiesa in uscita è la comunità di discepoli missionari che prendono l’iniziativa, che coinvolgono, che

accompagnano, che fruttificano e festeggiano… La comunità evangelizzatrice sperimenta che il Signore ha

preso l’iniziativa, l’ha preceduta nell’amore, e per questo essa sa fare il primo passo, sa prendere l’iniziativa

senza paura, andare incontro, cercare i lontani e arrivare agli incroci delle strade per invitare gli esclusi. Vive

un desiderio inesauribile di offrire misericordia, frutto dell’aver sperimentato l’infinita misericordia del

Padre e la sua forza diffusiva… La comunità evangelizzatrice si mette mediante opere e gesti nella vita

quotidiana degli altri, accorcia le distanze, si abbassa fino all’umiliazione se è necessario, e assume la vita

umana, toccando la carne sofferente di Cristo nel popolo. Gli evangelizzatori hanno così “odore di pecore” e

queste ascoltano la loro voce…” (EG, 24)

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Solo intervenendo alla radice del male che è all’origine del fenomeno del bullismo possiamo sperare di

debellare questa piaga, causa di innumerevoli sofferenze, spesso sommerse, soprattutto nei primi anni di vita,

con conseguenze sulla propria personalità inimmaginabili, che si ripercuotono nel tempo.

Per riuscire nell’impresa occorre una grande coalizione educativa. Famiglia, parrocchia, scuola, istituzioni,

associazioni, la società civile nella sua totalità, unite per un progetto educativo condiviso, possono insieme

raggiungere l’obiettivo. Solo procedendo nella stessa direzione, a partire dai nostri consueti luoghi di vita, è

possibile costruire una città abitabile, poiché “gli ambienti in cui viviamo influiscono sul nostro modo di

vedere la vita, di sentire e di agire. Al tempo stesso, nella nostra stanza, nella nostra casa, nel nostro luogo di

lavoro e nel nostro quartiere facciamo uso dell’ambiente per esprimere la nostra identità”. (Laudato Si, 147).

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EDUCARE CONTRO IL BULLISMO

Claudia Ariuolo

Consigliere comunale

Innanzitutto, voglio ringraziare gli organizzatori dell’evento per aver offerto ai cittadini di

Caravaggio una grande opportunità: quella di affrontare e parlare di un fenomeno sempre più in

ascesa come quello del bullismo, e ringrazio vivamente per l’invito rivolto all’Amministrazione

comunale a prenderne parte, invito accolto favorevolmente anche con il patrocinio dell’evento.

Il fenomeno del bullismo è sempre più in crescita, i dati sono preoccupanti.

Il bullismo è indubbiamente diventato un problema sociale, un problema urgente, dove occorre

investire sulla prevenzione e sulla promozione del benessere della persona, non lasciando come unica

soluzione l’atto punitivo. Un’amministrazione comunale non può e non deve rimanerne indifferente

a tale fenomeno perché è un disagio che è anche espresso da alcuni suoi cittadini.

Le espressioni di disagio possono essere molteplici e derivanti da fattori dell’ambiente in cui il

soggetto vive, non solo l’ambiente famigliare ma anche quello sociale: anche se è consolidato che il

fenomeno è agito soprattutto nell’ambito della scuola, luogo dove bambini e adolescenti passano la

maggior parte del loro tempo, tuttavia, non sono da sottovalutare altri ambienti sociali quali quelli

sportivi, l’oratorio, luoghi più appartati del nostro territorio come giardinetti, bar, discoteche, la

strada, ecc..

In un’ottica di prevenzione occorre tenere conto che gli atti di bullismo appaiono sempre più diversi:

ad esempio, l’espressione della scarsa tolleranza e della non accettazione verso chi è diverso per

etnia, religione, per orientamento sessuale, per caratteristiche psico-fisiche, il prendere di mira chi è

indifeso. Ciò si deve molto alla disinformazione e al pregiudizio che ne consegue. Ma è anche

diventato un fenomeno agito attraverso la tecnologia: i parla sempre di più, ultimamente, del

fenomeno del Cyberbullismo. Inoltre, talvolta, è agito anche da chi non ti aspetti: le “amiche”.

Queste sono le tristi notizie dei nostri giorni. E non dimentichiamoci che il bullismo può in alcuni

casi indurre la vittima al suicidio.

Anche se scuola e famiglia sono i soggetti principali deputati a far si che tali atteggiamenti mentali e

culturali cambino, essendo i luoghi educativi per eccellenza, non di meno lo deve essere

un’amministrazione comunale, che deve concorrere a promuovere tutte le azioni necessarie a far sì

che tali atteggiamenti cambino.

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Infatti, se non si agisce su questo fenomeno con prontezza e sollecitudine, ciò potrebbe comportare

sul futuro dei bambini/ragazzi il rischio, molto alto, di sviluppare da adulti un comportamento

antisociale e delinquenziale o depressivo, con una ricaduta ancora più negativa sulla comunità, con

alti costi sociali in termini di risorse economiche, di sicurezza della comunità, di servizi.

Per questo servono tutti gli strumenti necessari che, devono essere forniti a tutti quelli che fanno parte

della vita quotidiana del bambino/adolescente: genitori, insegnanti, allenatori, catechisti, educatori in

generale.

Perciò, un’azione da mettere in campo dovrebbe essere quella di costituire una rete multidisciplinare

(scuola, parrocchia, forze dell’ordine, psicologi, assistenti sociali, avvocati, amministrazione,

allenatori), per monitorare costantemente l’evoluzione del fenomeno e cercare di trovare le strategie

per arginarlo e trovare soluzione laddove è possibile.

Pertanto il compito di un’amministrazione comunale, che è l’istituzione più vicina ai cittadini e la

prima alla quale essi si rivolgono per i loro bisogni, dovrebbe essere quello di rendere migliore il

territorio, per aumentare il benessere della comunità, in maniera che tutti se ne sentano parte,

diventando essi stessi attori di miglioramento.

Questo può avvenire attraverso una partecipazione attiva, prendendo parte concretamente all’azione

civica in tutte le sue forme, soprattutto quella solidale, con un occhio di riguardo a chi si sente fuori,

non coinvolto nella comunità in cui vive e anche a chi si chiama fuori dalla comunità e quindi

esprime un disagio. Il bullo, mi vien da dire, a volte si crea una sua comunità parallela (baby gang).

Educare i cittadini a prendersi cura del bene comune, al senso delle istituzioni, non è solo un compito

per adulti ma riguarda tutti in modo speciale bambini e adolescenti che si preparano a essere i

cittadini del futuro, cittadini del mondo consapevoli e di sani principi, perciò non possiamo

permetterci che ci arrivino da “bulli”.

Perché il bullo è l’esatto contrario del cittadino consapevole, colui che ha cuore la democrazia e i

suoi valori, perché il bullo vuole sopraffare l’altro, non è in grado di dialogare e intessere relazioni

paritarie, nega ogni uguaglianza, non sa cosa vogliano dire democrazia e solidarietà, usa la violenza

per comunicare. I bulli esprimono il loro disagio socio-culturale attraverso il disimpegno morale, il

disprezzo delle regole di convivenza civica, la mancanza di etica della responsabilità e la mancanza

di senso della legalità.

Per cercare di prevenire il bullismo è necessario far crescere nei bambini e negli adolescenti la

responsabilità individuale e sociale delle proprie azioni e delle proprie parole.

Allo stesso modo, l’intenzione è anche quella di “salvare” le vittime.

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Perciò, ha senso che l’amministrazione comunale concorra a creare uno stato di benessere attraverso

alcune azioni molto concrete, quali:

-favorire il coinvolgimento delle forze dell’ordine, delle istituzioni religiose, ma anche dei

cittadini per un monitoraggio costante dei punti di criticità del territorio, controllo del

vicinato;

progettare interventi preventivi come favorire la partecipazione dei cittadini alla vita sociale,

promuovere il benessere sociale e contrastare il degrado ambientale e il disagio sociale;

patrocinare interventi formativi che promuovano l’educazione alla legalità e alla buona

cittadinanza, attiva, corresponsabile e solidale e favorire l’integrazione sociale;

far rivivere i luoghi pubblici come centri d’incontro e aggregazione, per favorire il controllo

sociale del territorio;

educare i giovani, cittadini del domani, alla cura della nostra città nel rispetto dei valori di

libertà e democrazia diretta e partecipata;

rendere noti e ben visibili tutti i contatti per favorire la denuncia delle violenze subite o viste.

Purtroppo, non esiste una ricetta magica per fermare questo fenomeno, ma tutti abbiamo il dovere di

provarci.

Un ringraziamento speciale va ai maestri di Aikido, Karate, Krav Maga, MMA, Kick-boxing che, nel

corso dello stage multidisciplinare, ci hanno insegnato alcune tecniche di difesa personale e,

soprattutto, ci hanno insegnato come nel praticare arti marziali, s’imparano il rispetto di sé e degli

altri, la disciplina e il rispetto delle regole e dell’avversario, s’impara che nella vita non si è sempre

vincenti e dominanti, ma capita di essere perdenti e dominati. Si diventa più sicuri di sé e si acquista

più autostima diventando meno timidi.

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IL BULLISMO: IL PUNTO DI VISTA DI UN CENTRO ANTIVIOLENZA

A cura della dott.ssa Elena Foppa, psicologa psicoterapeuta, operatrice del centro antiviolenza

cooperativa Sirio csf Treviglio.

Negli ultimi anni sempre più spesso si è sentito parlare di bullismo all’interno delle scuole e in quei

contesti nei quali è forte la presenza dei ragazzi. Ma quali sono le caratteristiche di questo fenomeno?

Quando si parla di bullismo si fa riferimento a quei comportamenti violenti ed aggressivi che

vengono perpetrati da una persona, o da un gruppo di persone, nei confronti di una persona

considerata debole, a causa di caratteristiche personali, caratteriali o di fattori socio-culturali. Tali

comportamenti possono essere di natura fisica (calci, spintoni, pugni, schiaffi, sputi, aggressioni di

natura sessuale), psicologica (isolamento ed esclusione dal gruppo dei pari, maldicenze), verbale

(offese, ingiurie, minacce, prese in giro).

Ciò che distingue gli atti di bullismo da altre forme di aggressione sono l’intenzionalità di provocare,

di causare un danno alla vittima, la reiterazione degli atti, ossia la persistenza nel tempo di tali

comportamenti aggressivi e una relazione asimmetrica, dove gli attori coinvolti sono uno nella

posizione di bullo (aggressore) e l’altro nella posizione di vittima. Un’altra caratteristica del bullismo

è la mancanza di empatia del “bullo”, ossia l’incapacità di immedesimarsi e di comprendere il vissuto

emotivo dell’altro.

Il bullismo può assumere due diverse forme di manifestazione:

bullismo diretto: si verifica ogni qualvolta l’aggressore si relaziona direttamente alla vittima;

bullismo indiretto: il bullo non agisce direttamente sulla vittima ma ne danneggia le relazioni

sociali e i rapporti interpersonali;

Solitamente, oltre al bullo e alla vittima, in tali dinamiche sono coinvolti anche altri attori: il

complice che “alimenta” con il suo comportamento (ridendo, etc…) il perpetrarsi degli atti ai danni

della vittima, e gli spettatori, ossia tutte quelle persone che assistono agli episodi di aggressione senza

prendervi parte.

È importante non confondere, durante l’infanzia, episodi di bullismo con episodi di aggressività e/o

di vandalismo. sino ai 7/8 anni non si può parlare di atti di bullismo che implicano l’intenzionalità di

provocare un danno, in quanto sino a quella età il bambino non è in grado di comprendere e

prevedere le conseguenze delle proprie azioni. ciò non significa che un bambino non commetta azioni

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che provochino danni ad altri ma tali azioni sono prive delle tre caratteristiche fondamentali del

bullismo, ossia l’intenzionalità, la dannosità e la continuità temporale.

Il punto di vista di un centro antiviolenza rispetto al fenomeno del bullismo è un punto di

osservazione particolare in quanto tale fenomeno viene letto e significato come una delle possibili

conseguenze del maltrattamento che si vive, si respira all’interno della dimensione familiare.

È stato ampiamente dimostrato come il bullismo sia una conseguenza che si manifesta nel lungo

periodo della violenza assistita, termine con il quale si fa riferimento a qualsiasi forma di violenza

(fisica, verbale, psicologica, sessuale, economica) agita nei confronti di figure di attaccamento

importanti per il bambino/a (un genitore o dei fratelli) e di cui il bambino/a ne fa esperienza diretta

(assiste ad episodi di violenza) od esperienza indiretta (il bambino/a pur non assistendo direttamente

ad episodi di violenza ne è a conoscenza). Assistere alla violenza di un genitore nei confronti

dell’altro genera, nel bambino/a confusione rispetto a cosa sia violenza, affetto e intimità,

provocando delle conseguenza a livello cognitivo, fisico e relazionale. il bambino che cresce

all’interno di una dinamica maltrattante avrà come punti di riferimento delle figure genitoriali che, da

un lato vengono vissute come minacciose dall’altro spaventate e terrorizzate. soprattutto, apprendono

che l’uso della violenza è “normale” nelle relazioni.

In una ricerca sul bullismo a scuola è stato evidenziato come il 61% dei bambini vittime di violenza

assistita sia diventato un “bullo” e il 71% dei bambini vittime di atti di bullismo siano vittime di

violenza assistita all’interno delle mura domestiche (Baldry A.C., 2003).

Al fine di prevenire il manifestarsi di episodi di bullismo, riteniamo indispensabile e fondamentale

l’intervento educativo dei genitori, i quali hanno il ruolo di educare i propri figli non solo rispetto a

tutto il bagaglio di conoscenze e risorse necessarie per vivere all’interno della propria cultura e

società ma soprattutto hanno la responsabilità di fornire ai propri figli un’educazione emotiva, ossia

insegnare loro a conoscere, riconoscere ed esprimere le proprie e le altrui emozioni, nonché i propri

bisogni. Aiutare i propri figli a riconoscere ed esprimere le proprie emozioni e i propri bisogni

significa aiutarli a trovare il modo per gestirle nella modalità più efficace; saper gestire le emozioni

evita il ricorso alla violenza o ad altre modalità disfunzionali.

NOTE BIBLIOGRAFICHE:

Baldry A.C., Bullying in schools and exposure to domestic violence, in Child Abuse and Neglect, 27,

713-732, (2003);

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Bullismo: il punto di vista di un operatore della scuola

Prof. Giuseppe di Sipio

La mission fondamentale della scuola ci porta ad evidenziare, del fenomeno bullismo, soprattutto gli

aspetti educativi e di prevenzione; il fenomeno interroga gli operatori scolastici su quali siano le

cause, quali gli interventi educativi che i docenti possano porre in essere per affrontare e, soprattutto,

per prevenire gli episodi di bullismo. Ciò in considerazione della specifica fascia di età dei nostri

alunni, utenti di un Istituto comprensivo del I ciclo, che comprende bambini e preadolescenti dai 3 ai

14/15 anni. Non si vuole con questo escludere che in questa fascia di età possano emergere episodi di

bullismo e la nostra scuola infatti non è sprovvista di strumenti, procedure e strategie per l’affronto

del problema; punti di riferimento al riguardo sono il nostro Regolamento di Istituto e l’attenzione

puntuale che docenti e Dirigenza hanno sempre rivolto anche a piccoli episodi che avrebbero potuto,

se non affrontati tempestivamente, degenerare verso forme di bullismo. Episodi affrontati sempre in

sinergia tra operatori della scuola e in collaborazione

con le famiglie in primo luogo, e con diversi enti esterni, dall’Oratorio ai Servizi sociali.

Anche al fine, dunque, di potenziare i processi autovalutativi interni e per stimolare una seria

autoriflessione di tipo educativo e pedagogico, si impongono, al mondo della scuola e al nostro

istituto in particolare, le domande: chi è il bullo? perché il bullo? Trovare risposte adeguate, anche

solo in via ipotetica, è fondamentale per attivare gli interventi educativi propri della scuola.

Chi è il bullo, dunque e perché il bullo? Il bullo è figlio del deserto di valori - piuttosto che del

proliferare di disvalori - e della carenza, se non dell’assenza, di lineee educative chiare da parte degli

adulti che si occupano, o che si dovrebbero occupare e preoccupare, dell’educazione di bambini e

ragazzi, famiglia in primo luogo, ma non solo. Assenza di valori e carenza di linee educative sono

strettamente collegati, giacché linee educative definite possono scaturire solo da un quadro di valori

di riferimento, che spesso gli adulti hanno smarrito. Quando poi anziché valori positivi i riferimenti

degli adulti sono disvalori, le linee educative sono forse presenti, ma si rischia che indirizzino a

comportamenti negativi.

Quando bambini e ragazzi non hanno indicazioni chiare e coerenti di cosa è giusto e cosa è sbagliato

– essi leggono infatti la realtà che li circonda, fino alla conquista dell’autonomia di pensiero,

processo lungo e complesso, con gli occhi degli adulti - si danno ai loro giochi, non avendo

consapevolezza della gravità di quello che a volte fanno. E il termine giochi è qui volutamente

utilizzato, il più delle volte infatti l’intenzione reale e dichiarata dei nostri discenti è di voler solo

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giocare, mostrando scarsa consapevolezza della gravità dei comportamenti agiti e, a volte, scarsa

capacità di distinguere tra realtà prossima, mondo virtuale, fantasia.

Una delle principali consapevolezze di cui mancano questi ragazzi infatti, è proprio quella di quanta

sofferenza, anche fisica ma soprattutto psicologica, a volte possano procurare all’altro. Scarsa o

mancata consapevolezza, che è legata all’assenza, in loro, del valore solidarietà e/o alla presenza del

disvalore io solo e i miei bisogni, veri o presunti, al centro del mondo. Il mondo degli adulti chi li

circonda dovrà forse chiedersi se li stiamo educando anche a sentire empatia, a riconoscere, a saper

controllare e gestire le emozioni, proprie e del proprio prossimo.

La responsabilità degli adulti è quindi decisiva, anche in riferimento ad un altro elemento

fondamentale del processo educativo: la coerenza educativa tra adulti, in particolare tra famiglia e

scuola. Concordare tra genitori, tra docenti della stessa classe, della stessa scuola e tra insegnanti e

genitori, le linee educative e gli interventi, confrontarsi sui valori di riferimento cui si ispira l’azione

formativa, è determinante.

Centrali risultano anche nel processo educativo I no che aiutano a crescere. Che siano no sani, chiari,

pochi, che provengano coerentemente da tutti gli adulti educatori, e che siano accompagnati da tanta

disponibilità all’ascolto e da tanta attenzione verso i bisogni veri, soprattutto quelli emotivi, di

bambini e ragazzi. Non quindi il soddisfacimento, magari immediato e comunque nel più breve

tempo possibile, dei miei bisogni, deve guidare l’atteggiamento educativo dell’adulto nei confronti

del bambino/ragazzo, ma prima di tutto il riconoscimento delle vere esigenze. Questo educa, tra

l’altro, ad uscire dal naturale egoismo, a considerare il punto di vista degli altri, a saper procrastinare

il soddisfacimento immediato dei bisogni e a saper gestire la frustrazione.

Servono quindi paletti chiari che traccino una strada che i nostri alunni e figli possano vedere chiara

e seguire senza rischi, per un sano equilibrio emotivo. Troppo spesso gli adulti sembrano invece

preoccupati di evitare loro solo rischi e disagi materiali, anziché educarli ad affrontare anche questi,

parte inevitabile di ogni vita e della stessa condizione umana.

Dobbiamo dunque tornare ad educare alle regole, regole condivise certo, ma regole che, una volta

condivise con tempi, modi e strumenti opportuni, non siano sempre negoziabili e continuamente

negoziate. Li educhiamo così alla cittadinanza, all’esercizio della democrazia, strumento di

convivenza quanto mai delicato, al senso di appartenenza alla comunità e conseguenti, inevitabili

limiti alla libertà individuale senza vincoli, esatto contrario del naturale egocentrismo. In questo

modo, prevenendo il bullismo, educhiamo alla cittadinanza attiva e consapevole, finalità ultima

dell’istituzione scolastica.

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BULLISMO E CYBERBULLISMO: il punto di vista di un avvocato

Avv. Laura Rossoni

Con il termine BULLISMO si intendono una serie di azioni e condotte aggressive attuate da un

singolo o da un gruppo a danno di una vittima scelta in quanto soggetto debole o diverso. La

caratteristica che distingue il bullismo dalle altre condotte reiterate è il fatto che si svolge tra pari,

cioè tra preadolescenti o adolescenti ai danni di ragazzi della stessa fascia d'età. Il bullismo può

essere diretto (più frequentemente attuato dai maschi) quando ci sono degli attacchi aperti: ad

esempio atti di lesione, minacce, insulti, derisioni, offese; oppure può essere indiretto (modalità posta

in essere soprattutto dalle femmine) quando si attua attraverso l'isolamento della vittima, le

maldicenze, i pettegolezzi. Quasi sempre gli episodi di bullismo si manifestano nella scuola o

all'uscita da scuola, oppure hanno la loro origine nel contesto scolastico e si manifestano poi

all'esterno.

Non esiste nel nostro ordinamento giuridico il reato di bullismo in quanto vengono perseguite e

punite le singole azioni lesive. I colpevoli verranno dunque condannati alla pena prevista dal reato

posto in essere: ingiurie, diffamazione, minacce, percosse, lesioni, danneggiamento fino ai casi più

gravi di istigazione al suicidio.

Gli autori del reato vengono giudicati dal Tribunale per i minorenni qualora abbiano agito in età

compresa tra i 14 e i 18 anni. Il processo minorile è regolato dalle disposizioni del D.P.R. 448/88 e,

per quanto da esso non previsto, si osservano le disposizioni del codice di procedura penale. Si tratta

dunque di un vero e proprio processo penale improntato tuttavia al principio della "minima

offensività del processo" perché la finalità è quella educativa e responsabilizzante. Lo scopo del

processo minorile è quello di sviluppare nel minore competenze in grado di regolare i suoi

comportamenti che devono essere ancorati a principi e comportamenti socialmente condivisi. Il

Tribunale per i minorenni è composto da un Presidente, da un altro giudice togato e da due giudici

esperti in psicologia, pediatria, antropologia, sociologia o psichiatria perché accanto al giudizio sulla

colpevolezza o sull'innocenza del minore il Tribunale deve esprimere anche un giudizio sulla

personalità del ragazzo. Innanzitutto andrà accertata la capacità di "intendere e di volere" al momento

della commissione del fatto, intesa come capacità del minorenne di rendersi conto del significato

antisociale del reato compiuto, e di valutarne le conseguenze. Un istituto particolare del processo

minorile è quello della "messa alla prova" per cui il giudice può sospendere il processo per un anno

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(tre anni per i reati per i quali la pena è l'ergastolo o la reclusione non inferiore nel massimo a 12

anni). Durante il periodo di sospensione il minore verrà affidato ai servizi sociali minorili che

elaboreranno un progetto strutturato con regole e obiettivi precisi che il minore dovrà seguire

positivamente, nel progetto verrà coinvolta anche la famiglia del minore e in generale la realtà sociale

nella quale il minore è inserito. All'esito della prova il giudice valuterà l'evoluzione della personalità

del minore e se il comportamento del minore sarà stato ritenuto adeguato, il giudice potrà dichiarare

l'estinzione del reato.

Fra le prescrizioni che il giudice può impartire, particolare importanza ha quella della riparazione

delle conseguenze del reato anche attraverso la conciliazione dell'autore dell'illecito con la persona

offesa dal reato. Accade spesso infatti che il minore non si renda conto che le sue condotte integrino

dei reati e siano causa di sofferenza anche profonda per la vittima. Per questo è fondamentale che

nelle scuole si educhi alla legalità, intesa come rispetto delle regole e consapevolezza dei valori

fondanti della nostra società e della nostra convivenza civile.

E' interessante sapere che responsabile del reato non viene ritenuto solo l'autore materiale dell'azione

lesiva, ma anche tutti coloro i quali abbiano concorso o collaborato nell'ideazione del reato, nella sua

attuazione o, ad esempio, abbiano filmato e incitato l'autore del reato. Nel nostro ordinamento

giuridico infatti esiste l'istituto del concorso di persone del reato in base al quale tutti i soggetti che

hanno contribuito causalmente a commettere l'atto illecito soggiacciono alla stessa pena. Il concorso

può essere materiale quando partecipano più persone all'azione criminosa, si pensi alle violenze di

gruppo, oppure quando vi sono dei complici che collaborano nella ideazione del piano o nella sua

esecuzione ad esempio facendo il palo e controllando che nessuno scopra l'esecutore del delitto. Il

concorso invece è morale quando vi sono dei soggetti che, pur non eseguendo l'atto criminoso,

rafforzano, istigano o agevolano l'azione altrui. Si pensi ai numerosi casi di cronaca nei quali la

vittima viene ripresa con il telefono e poi il filmato viene caricato sul web. In questi casi anche i

soggetti che hanno ripreso la scena vengono puniti con la stessa pena dell'autore del fatto perché si

ritiene abbiano istigato l'esecutore e abbiano amplificato le conseguenze lesive dell'azione criminale.

Accanto alla responsabilità penale del minore vi è la responsabilità civile dei genitori prevista dall'art.

2048 del codice civile che stabilisce una presunzione di colpa a carico degli esercenti la

responsabilità genitoriale per non aver adeguatamente educato il proprio figlio. Si tratta di una

responsabilità oggettiva e presunta in quanto il genitore può liberarsi solo provando di non avere

potuto evitare il fatto. Generalmente quindi i genitori saranno chiamati a rispondere del fatto illecito

dei figli attraverso il risarcimento del danno alla vittima. Anche la scuola può essere chiamata a

rispondere civilmente se ha omesso la vigilanza o se non è stata in grado, per una carenza

organizzativa, di evitare la commissione o la reiterazione di fatti lesivi a danno di un alunno.

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Mentre viene pubblicato il presente opuscolo, è in discussione alla Camera dei Deputati un disegno di

legge di contrasto al "cyberbullismo". Con tale termine viene indicato l'atto di bullismo compiuto da

un soggetto che, prevalentemente attraverso i social network, offende la vittima mediante la

diffusione di materiale denigratorio (testi, foto e immagini). Nella relazione che accompagna il

provvedimento legislativo, viene citata una ricerca di Save the Children secondo cui 2/3 dei minori

italiani riconoscono nel cyberbullismo la principale minaccia presente a scuola, che compromette il

rendimento scolastico, riduce il desiderio di relazioni sociali e ha conseguenze psicologiche anche

gravi. La vittima è scelta in base al criterio della "diversità" come ad esempio la disabilità, la

timidezza, il supposto orientamento sessuale, l'essere straniero o l'abbigliamento non convenzionale.

Spesso il cyberbullismo si manifesta attraverso la dinamica del branco, per cui un soggetto inizia il

comportamento aggressivo e gli altri lo appoggiano, spesso convinti di rimanere nell'anonimato e

assai frequentemente ignari delle gravi sofferenze patite dalla vittima. La legge quindi opera su più

fronti: formando le forze dell'ordine perché le vittime e le loro famiglie possano incontrare

interlocutori competenti quando sporgono denuncia e soprattutto coinvolgendo la scuola perché gli

episodi di cyberbullismo hanno quasi sempre inizio nei contesti scolastici e proseguono poi sulla rete.

Le scuole, si dice nel disegno di legge, hanno un valore strategico per l'educazione alle relazioni

interpersonali e gli insegnanti sono le sentinelle in grado di cogliere il disagio delle vittime e sono un

punto di riferimento indispensabile cui rivolgersi per chiedere aiuto.

Penso che anche il contesto sportivo sia utile per la prevenzione del bullismo perché attraverso lo

sport i ragazzi imparano a rispettare le regole, a rapportarsi agli altri in modo rispettoso e corretto,

talvolta a gestire la loro aggressività e a superare la timidezza. Ringrazio sentitamente gli

organizzatori del convegno perché hanno dimostrato di cogliere pienamente il ruolo educativo e

formativo che fa dello sport un momento indispensabile per la crescita consapevole dei nostri ragazzi.

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Scuola e riti d'iniziazione: uno sguardo antropologico al

fenomeno del bullismo

Dott.ssa Silvia Colnaghi

La giornata di oggi sarà dedicata a un tema di discussione piuttosto delicato, ovvero il bullismo. È un

tema a cui tengo molto e per questo sono molto lieta di vedere che, a livello multidisciplinare, si

abbia voglia di affrontare una discussione aperta in cui ognuno è invitato a esprimere le proprie idee e

a proporre metodi con cui affrontare e gestire il fenomeno.

Un contributo originale al dibattito è certamente, oggi, quello delle arti marziali: è interessante vedere

come lo sport, da sempre motore di aggregazione, e in particolare le arti marziali presentate in questa

giornata, abbiano molto da insegnare quando si spostano da un piano meramente fisico o competitivo

a un piano più "sociale", a un percorso educativo che non si limita a insegnare tecniche e nozioni per

battere l'avversario, ma modi per gestire il conflitto utili per la vita di tutti i giorni. I maestri, come gli

insegnanti, gli educatori, i genitori e le altre figure adulte che ruotano intorno al mondo dei ragazzi,

hanno anch'essi un ruolo nella loro formazione. Insegnare un'arte di "lotta" per antonomasia come

può essere quella marziale significa non solo dare in mano ai ragazzi gli strumenti per difendersi dal

(o offendere il) prossimo, ma anche assumersi la responsabilità di insegnare a usarli con senso critico

e in maniera corretta nei confronti degli altri. Coinvolgere in questo percorso di apprendimento a

tutto tondo anche figure più classicamente associate al cammino formativo dei ragazzi è a mio avviso

un metodo valido per sottolineare questo: ciò che si impara in tappetina non resta e non deve restare

solo in tappetina, ma può arricchire l'esperienza di tutti i giorni e diventare una prospettiva diversa da

cui guardare la stessa realtà che si trova fuori dal dojo, dal luogo di apprendimento. Ogni figura che

si ritrova a insegnare, a interagire con i ragazzi, è parte integrante della formazione di questi, e ha

altresì l'importante compito di essere dare l'esempio. Proprio sul concetto di esempio ci terrei a

spendere due parole in più: l'esempio, per come la vedo io, non significa semplicemente indicare un

comportamento corretto o una serie di valori a cui è meglio fare riferimento rispetto ad altri, ma farne

uno stile di vita proprio mostrando quanto l'impegno, la passione, l'attenzione e il rispetto possano

portare frutti, come possano realmente incidere in maniera positiva sulla nostra vita e su quella degli

altri. In questo contesto, in questa giornata, quello che vedo è anche un altro importante esempio:

quello che vede raggrupparsi persone adulte e con ruoli di vario tipo nella crescita della persona

(sportivi, insegnanti, psicologi, mondo ecclesiastico) che non si girano dall'altra parte di fronte a un

problema, ma discutono assieme per cercare di capirlo e dare qualche possibile soluzione. Un

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esempio di impegno sociale che, se direzionato anche a un possibile incontro con le persone che la

realtà del bullismo la subiscono quasi quotidianamente, può rappresentare un inizio di un percorso

che serve a mostrare a tutti che “ci interessa”, che “ci preoccupiamo”, che “ci siamo” e ci stiamo

muovendo per portare qualcosa di positivo.

Quella di oggi mi sembra quindi una bellissima occasione di confronto anche tra realtà che non

sempre vengono in contatto, ma che fanno parte della stessa comunità e possono dimostrare bene

come dall'unione di più prospettive si possa dare forma a un quadro più completo e sfaccettato del

fenomeno a cui si guarda, per comprenderlo sotto tutti i punti di vista, e in tal modo provare a

ipotizzare nuovi metodi per cambiare la situazione.

Qualche dato introduttivo

Nel 2014 in Italia più del 50% dei ragazzi di età compresa tra gli 11 e i 17 anni ha subito atti

offensivi, discriminatori e/o violenti da parte di coetanei, e circa il 19,8% è vittima assidua di atti

bullismo (almeno una volta al mese, per il 9,8% gli episodi avvengono con cadenza settimanale)34. La

maggiore incidenza si ha nella fascia d'età compresa tra gli 11 e i 13 anni (22,5%) e le vittime sono

34

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prevalentemente ragazze (20,9% rispetto al 18,8% dei ragazzi)35

. Il 15% dei ragazzi di questa fascia

d'età ha invece dichiarato di aver compiuto atti di bullismo36

, e in questa percentuale si trovano sia i

bulli sia chi ha subito atti di bullismo e a sua volta ne perpetra.

Ovviamente il bullismo non riguarda solo le scuole italiane: in Europa ritroviamo una media molto

simile a quella italiana (il 15% dei ragazzi subisce bullismo faccia a faccia, a questo si aggiunge un

8% che subisce atti di bullismo su internet o via cellulare37) mentre negli stati uniti almeno un 77% di

ragazzi ha vissuto un episodio di bullismo durante il suo percorso scolastico, e il 30% subisce o

agisce il bullismo regolarmente38

.

Ho introdotto l'argomento con delle statistiche per sottolineare che, con numeri simili, non si può

considerare il fenomeno del bullismo come un fenomeno individuale, un “problema” tra coetanei,

bensì come un problema diffuso che ha un impatto sociale non indifferente.

Facendo un esercizio anche un po' retorico, se trasformiamo queste percentuali in frazioni forse

avremo un'idea un po' più “umana” dell'impatto: un ragazzo su 5 subisce abitualmente atti di

bullismo, che in una classe di circa 25 persone significa 5 per classe. Si tratta certamente di una

media, ma possiamo ipotizzare quanto il bullismo possa essere pervasivo e radicato in ogni scuola e

sostanzialmente in ogni classe. A maggior ragione quindi, ragionare sul problema per cercare di

arginarlo può avere un impatto reale e importante sulla quotidianità di moltissimi ragazzi e futuri

adulti.

http://www.istat.it/it/archivio/176335

35 http://www.istat.it/it/files/2015/12/Bullismo.pdf?title=Bullismo++tra+i+giovanissimi+-+15%2Fdic%2F2015+-

+Testo+integrale+e+nota+metodologica.pdf

36 http://www.bullyingandcyber.net/it/ecpr/risultati-italia/

37 http://www.ispcc.ie/file/39/1/0_0/BULLYING+STATISTICS.pdf

38 http://www.bullyingstatistics.org/content/school-bullying-statistics.html

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In questo intervento il mio obiettivo è principalmente quello di inquadrare il fenomeno nella sua

dimensione sociale, cercando di fare il punto su come questo sia percepito dai ragazzi (bulli, vittime e

spettatori), dal mondo degli adulti e dai media, cercando di comprendere come mai se ne è iniziato a

parlare tardi (i primi studi sul bullismo, condotti nei paesi scandinavi da Olweus, risalgono agli anni

'70, mentre quelli italiani iniziano nel 1993 con il lavoro della dottoressa Ada Fonzi) e, nel dibattito

pubblico, con toni che spesso tendono a svalutare la pervasività del fenomeno, dando rilevanza a

pochi isolati atti di bullismo come se fossero un'eccezione rispetto alla norma.

Riti inclusivi, riti esclusivi

Una delle cause che ha portato al ritardo nello studio del fenomeno, e che ancora ne ostacola una

risoluzione efficace, è che spesso, sia dai genitori che dagli insegnanti, il bullismo è visto come una

sorta di “fase” che i ragazzi devono passare per farsi le ossa, un “rito di iniziazione” dal quale, se si

riesce a uscirne con successo, si può entrare a tutti gli effetti nell'età adulta. Anche i bulli sono

ragazzi che attraversano una “fase”, vuoi l'adolescenza, vuoi la ribellione dai genitori o dal sistema.

Insomma, gli atti di bullismo sono spesso sottovalutati proprio perché un po' di competizione,

“ragazzate”, scherzi, sono “normali” a quell'età, sono una tappa che tutti passano: ma in questo

ragionamento si rischia di includere sia le vere e proprie ragazzate, che sono svolte tra persone

consenzienti o sicuramente in grado di gestire il conflitto in modo paritario, che il bullismo, dove la

disparità tra le due parti è evidente ed è vissuta male.

In antropologia, si definiscono riti di iniziazione l'insieme di riti, culturali e religiosi, che sanciscono

“l'uscita da uno status in funzione dell'entrata in uno status diverso, talora in modo radicale, dal

precedente”39. Van Gennep, antropologo degli inizi del '900, li chiama anche “riti di passaggio”40, in

quanto scandiscono le varie tappe, i vari passaggi di status che l'uomo in tutte le società si ritrova ad

affrontare. Senza scomodare le pratiche di iniziazione di clan e tribù all'altro capo del mondo,

pensiamo ad esempio al matrimonio nella nostra società: il rito, in questo caso, serve ad

accompagnare il passaggio della coppia dal mondo del celibato/nubilato al riconoscimento sociale di

questa come un nuovo nucleo familiare.

Ho voluto usare un esempio comune perché spesso, al termine “rito di iniziazione”, associamo

pratiche e rituali bizzarri, a volte crudeli e violenti, appartenenti esclusivamente ad “altri”, a popoli

39 Carlo Prandi, “Iniziazione” in “Dizionario delle religioni”, Einaudi 1993 p.377

40 A.Van Gennep, “Riti di passaggio”, Bollati Boringhieri 2012

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“primitivi” o “selvaggi”, mentre tutti i giorni abbiamo sotto gli occhi eventi che si possono a tutti gli

effetti definire riti di passaggio: si pensi ai voti del sacerdozio, al cambiamento sociale della donna

che diventa madre, al battesimo, alle cerimonie che assegnano cariche istituzionali. Il punto cruciale

è, appunto, quello che la società percepisce come cambiamento nel ruolo sociale di una persona o di

un gruppo di persone. Anche l'ingresso in confraternite universitarie (vedi i Goliardi in Italia) passa

attraverso pratiche di iniziazione a volte crudeli: i candidati devono superare prove spesso

imbarazzanti e insensate per entrare finalmente a far parte del gruppo ed essere riconosciuti anche

esternamente come membri di quello.

Un altro esempio di rito di iniziazione che forse ci avvicina maggiormente al tema del discorso è, a

mio parere, quello del nonnismo. Il nonnismo si ritrova prevalentemente in ambito militare, dove i

membri più anziani del gruppo, ovvero quelli che si trovano da più tempo in caserma, mettono in atto

una serie di scherzi, più o meno pesanti e ripetitivi (insulti, ma anche furti, lesioni, discriminazioni,

vessazioni di vario tipo) nei confronti delle nuove reclute, anche per lunghi periodi di tempo, allo

scopo di sottolineare l'organizzazione gerarchica e, alla fine del periodo di nonnismo, far entrare le

nuove leve all'interno del gruppo più alto (e di conseguenza queste ripeteranno gli atti di nonnismo

nei confronti dei nuovi arrivati, con un ricambio generazionale continuo).

Gli esempi qui riportati mostrano come il fine dei riti di iniziazione sia l'inclusione in un gruppo

sociale di riferimento, che sia quello dei preti, delle famiglie, degli studenti universitari: inclusione

che passa sì attraverso delle “prove” ma che aiuta la società e i membri di questa a riconoscersi in

determinati ambiti e ad avere, in virtù di questo, vantaggi sul piano sociale (un'immagine migliore

agli occhi degli altri, un senso di appartenenza a un gruppo “superiore” o privilegiato)41.

Insomma, per quanto possano sembrarci banali o violenti, tutti questi riti sono un modo che la società

stessa ha istituito per comunicare quali sono i passaggi cruciali nella vita dei membri di quella società

e per ufficializzare l'evento del passaggio stesso, in modo da rinnovarsi e riconoscersi all'interno di

un corpus di pratiche abituali con cui interpretare la propria organizzazione sociale.

Alla luce di questo è possibile considerare il bullismo un rito di passaggio?

A mio parere un'associazione di questo tipo è molto rischiosa: è vero che chi fa il bullo può farlo per

ragioni di status sociale (“se me la prendo con i più deboli sono un figo, gli altri mi

41 Per un approfondimento sui riti di iniziazione rimando anche al testo di S. Allovio, “Riti d'iniziazione. Antropologi, stoici e finti immortali”, Raffaello Cortina Editore, 2014

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stimeranno/temeranno perché sono il più forte”), ma le sue conseguenze, specialmente per le vittime,

sono tutt'altro che inclusive.

Simile al nonnismo nel metodi (scherzi pesanti, continuità nel compiere atti offensivi, violenti e/o

discriminatori nei confronti della vittima o delle vittime prescelte42), ne manca completamente il fine:

il ragazzo vessato si ritroverà, anziché nel fantomatico “gruppo degli adulti”, in una situazione di

isolamento ed esclusione sociale che può avere ripercussioni anche molto gravi sulla sua vita

adolescenziale e adulta.

Ne consegue, a mio parere, che considerare il bullismo nelle scuole come una tappa del percorso di

formazione dei ragazzi (che impareranno così a farsi valere, a farsi le ossa, a reagire ai soprusi o a

dominare il prossimo per ricavarne vantaggi) sia un rischio che non ci si può permettere: si assegna

un valore in qualche modo positivo (“crescono”, “diventano grandi così”) a situazioni a volte al

limite della criminalità, sminuendo pericolosamente le conseguenze che questi atti possono avere, sia

sui bulli che sulle vittime. I bulli, non ricevendo nessun tipo di rimprovero né dai loro pari né dagli

adulti, e anzi vedendo liquidate le loro azioni come delle “ragazzate”, difficilmente comprenderanno

la gravità delle azioni che stanno compiendo e soprattutto delle conseguenze sulla persona

tormentata, e questo può portare ad alzare l'asticella fino a considerare “scherzi” comportamenti

violenti e crudeli come quello comparso tristemente sulle cronache italiane solo l'anno scorso che

riguarda un ragazzo violentato con un compressore da un gruppo di bulli.43

Dall'altro lato, sottovalutare questi comportamenti porta a non riconoscere i campanelli d'allarme

della vittima, che in un contesto stressante come può essere quello di subire continuamente

atteggiamenti vessatori, possono essere un forte calo dell'autostima, ansia, depressione, senso di

isolamento: un insieme di fattori che in alcuni casi ha portato questi ragazzi e ragazze a tentare il

suicidio, e purtroppo a volte questo è riuscito.44

Per ribadire ulteriormente che quella del bullismo non è una fase vorrei aprire una breve parentesi su

quelle che sono le conseguenze a lungo termine di questi comportamenti.

42 Un interessante e completa spiegazione del fenomeno e delle modalità in cui questo si perpetra all'interno del contesto scolastico rimando allo studio del 2015 condotto dal Telefono Azzurro http://www.scuolavicospinea.it/documenti/TA-DossierBullismo.pdf

43 http://www.corriere.it/cronache/14_ottobre_09/sei-troppo-grasso-perforano-l-intestino-l-aria-compressa-b6db6736-4f8b-11e4-8d47-25ae81880896.shtml

44

http://www.repubblica.it/cronaca/2016/01/18/news/pordenone_ragazzina_di_12_anni_si_lancia_dal_balcone_e_grave-131512560/

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Le vittime, ad esempio, hanno buone probabilità di soffrire di disturbi psicologici in età adulta; i

problemi di autostima (“se mi picchiano tutti i giorni sono un perdente e me lo merito”, “se nessuno

mi aiuta è perché non valgo niente”) vissuti in un'età in cui il carattere è ancora in formazione

possono radicarsi al punto da creare problemi, a volte anche gravi, all'adulto che durante l'infanzia ha

subito il bullismo: disturbi dell'ansia, tendenze autolesioniste e suicide, depressione, disturbi della

personalità.45

Ma non è solo la vita della vittima ad essere potenzialmente segnata. Il bullo, infatti, può a sua volta

soffrire di disturbi sociopatici della personalità, soprattutto se a sua volta è stato una vittima, e ha il

quadruplo delle probabilità rispetto ai suoi coetanei di assumere atteggiamenti criminali in età adulta,

con il doppio delle possibilità di subire pene detentive.46

Anche il mobbing può essere una delle conseguenze a lungo termine del bullismo, e con questo

condivide molte caratteristiche comuni: aggressioni psicofisiche, umiliazioni, insulti, diffusione di

maldicenze su un soggetto da parte di una o più persone nell'ambiente lavorativo. Anche qui il

risultato è l'esclusione di un soggetto dal gruppo di quelli che dovrebbero essere suoi pari (ma anche

da parte dei superiori si possono avere pressioni di questo tipo).

Il bullismo non può essere quindi sottovalutato, non è una cosa “normale” che tutti i ragazzini

passano e da cui si viene fuori con una risata e tutti amici come prima. Sminuirne la pervasività

significa liberare la strada alle problematiche gravi che questo comportamento porta con sé sia

nell'immediato che nel futuro dei ragazzi che lo vivono o lo hanno vissuto.

Con questo chiaramente non intendo dire che in ogni ambiente il bullismo è considerato con

superficialità: in molti si impegnano quotidianamente per cercare di dare soluzioni anche temporanee

per migliorare la vivibilità degli ambienti frequentati dai più giovani. Tuttavia, sia a livello mediatico

che nel dibattito pubblico talvolta tutto questo è trattato con semplicità e senza considerare le cause e

le conseguenze degli atti di bullismo, che non sono considerabili eventi a se stanti e del tutto fuori

dalle norme: hanno radici sociali, hanno conseguenze sulla comunità tutta, in particolare sulla fascia

delle nuove generazioni che rappresenteranno, poi, i nuovi cittadini delle nostre stesse comunità. Non

dare la giusta rilevanza al radicamento del fenomeno, considerarlo come qualcosa che succede e

basta, situazioni che semplicemente sfuggono di mano, non può essere di nessun aiuto nel

45 http://www.thelancet.com/journals/lanpsy/article/PIIS2215-0366%2815%2900165-0/abstract

46 A. Civita, “Il bullismo come fenomeno sociale. Uno studio tra devianza e disagio minorile”, Franco Angeli, 2008

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contrastarlo; bisogna valutarne tutti gli aspetti, allargare la visuale per inglobarlo in una rete di

rapporti sociali su cui è necessario intervenire a tutto tondo se si vuole raggiungere un obiettivo

duraturo nel tempo.

Non solo vittime e bulli: gli spettatori

Fino a qui mi sono soffermata prevalentemente sui protagonisti per così dire “principali” del

bullismo: bulli e vittime. Ma un ruolo molto importante sia per la prevenzione che per la continuità

del fenomeno lo svolgono anche gli spettatori, che distinguerei tra spettatori diretti e spettatori

indiretti.

Gli spettatori diretti sono tutte quelle persone che assistono direttamente agli atti di bullismo:

compagni di classe, insegnanti, genitori dei bulli e delle vittime, che hanno un collegamento diretto

con questi ultimi per il fatto che condividono gli stessi spazi e assistono alle vessazioni, a volte

intervenendo, altre no.

I compagni di classe hanno chiaramente un ruolo importante se si vuol cercare di prevenire il

fenomeno: opporsi ai maltrattamenti, anche se non si subiscono direttamente, significa non lasciare

isolate le vittime, che è fondamentale per il recupero socio-psicologico di queste. Ma significa anche

rapportarsi con i bulli, che da un confronto possono forse imparare o rendersi conto dell'entità delle

proprie azioni. Spesso però, per paura di ripercussioni, i coetanei non intervengono: si corre il rischio

di diventare a propria volta vittima nel momento in cui ci si mette in competizione con il bullo, o si

rischia di essere presi in giro dagli altri se si appoggia la vittima, in genere considerata già in partenza

una persona diversa, “sfigata”, un/una perdente e quindi possibilmente da evitare per non avere

ripercussioni sulla propria immagine nel gruppo di pari. Le dinamiche di gruppo in un'età critica

come quella che va dalla preadolescenza alla fine dell'adolescenza rivestono un ruolo

importantissimo della vita dei ragazzi, e senza una solido appoggio alle spalle (un genitore che

incoraggia a scelte indipendenti, un insegnante che supporta azioni che servono a contrastare il

succedersi di violenze psico-fisiche rivolte verso questo/a o quei compagni), che permette di guardare

anche oltre l'appartenenza a un gruppo quando si tratta di intervenire in maniera “giusta”47 in difesa di

qualcuno, può essere molto difficile affrontare apertamente le situazioni o rivolgersi a qualcuno di

più grande per ricevere l'aiuto necessario.

47 Per “giusta” qui intenderei “conforme alla giustizia” in senso lato, e non un giudizio su cosa è giusto o sbagliato fare in queste situazioni, cosa che nemmeno io so con precisione e che è ancora oggetto di studio.

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Soprattutto l'insegnante (che sia di materie scolastiche, di discipline sportive, di corsi extrascolastici)

ha un ruolo educativo fondamentale in questo contesto, ma spesso non è preparato a gestire situazioni

complesse, e le ragioni possono essere molte: dall'incapacità di cogliere la portata del problema alla

paura vera e propria di subire ritorsioni dal bullo (che spesso non si fa problemi a farsi beffe anche

degli adulti che ruotano attorno al mondo della scuola), dalla scarsa consapevolezza del proprio ruolo

non solo di dispensatore di nozioni ma anche di persona che riveste il ruolo istituzionale di

accompagnare la formazione di nuovi cittadini.

Una maggior tutela dell'insegnate (ricordiamo che è anche una categoria di lavoratori particolarmente

“abbandonata a se stessa”, e per alcuni questo può significare il disinteressarsi ai problemi o per

difendere la propria posizione o perché “non ne vale la pena”48

) e una solida preparazione per

affrontare anche situazioni di disagio potrebbero portare a evitare gli errori che comunemente si

fanno in situazioni problematiche: sgridare il bullo, metterlo in punizione, agendo come se fosse un

episodio a sé stante, ad esempio, può far sentire quest'ultimo ancora più potente, una punizione può

essere un vanto perché si è dato fastidio al sistema, e soprattutto l'assenza di dialogo che un semplice

rimprovero comporta non porterà mai il bullo a rendersi conto della gravità delle sue azioni sia sulla

vittima che sugli altri compagni di classe.

Distogliere lo sguardo, invece, farà sì che il bullo si senta protetto in quanto impunito, più potente in

quanto perfino gli adulti non hanno i mezzi per fermarlo, e soprattutto scoraggerà fortemente la

vittima dal chiedere aiuto a un adulto, dato che l'esempio che ha sotto gli occhi è quello di una

persona che per non avere guai che si disinteressa alla sua sofferenza e alle ingiustizie che sta

subendo, creando così un forte senso di sfiducia nell'istituzione scolastica che si risolve talvolta con

l'abbandono.

Una parentesi a parte la meritano anche i genitori: quante volte, ad esempio, dopo che gli atti di

bullismo si sono trasformati in fatti di cronaca, si è sentito dire da genitori e parenti che “non ci si era

accorti di nulla”, “sembrava una ragazza allegra”, “sono stati solo scherzi finiti male”? I genitori non

si accorgono sempre delle tendenze suicide de figli vessati continuamente dai propri pari, e non

sempre si accorgono o non si rendono conto di avere un figlio che ritiene uno scherzo violentare con

altri una compagna di classe e diffondere il video sui social. Un atteggiamento di superficialità (che

qui non mi sento di accusare in quanto è molto più complesso di quanto possa sembrare comunicare

apertamente con i membri della propria famiglia) può consolidare ancora di più nei ragazzi l'idea che

48 Ricorderei qui anche di come spesso, oltre che sulle sue possibilità e I suoi diritti, l'insegnante non sempre sia formato

o pienamente consapevole dei suoi doveri in quanto pubblico ufficiale

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quello che stanno vivendo non sia considerato importante, e pertanto non possa essere fermato con le

proprie forze, o peggio che la violenza non abbia conseguenze nel “mondo degli adulti”, che è quello

a cui i ragazzi desiderano appartenere e in cui picchiare un compagno o una compagna non ha grande

rilevanza49.

Non è mio intento qui esprimere un giudizio sulla capacità di questi genitori di “fare i genitori”: non

rientro nella categoria e non è il mio campo indagare le problematiche interne a ogni famiglia che

possono portare a situazioni del genere, di questo probabilmente si occuperà meglio la psicologia.

Quello che mi interessa fare è però una riflessione in senso più ampio, e qui entrano in gioco gli

spettatori indiretti, che altri non siamo che noi: la società in senso più ampio all'interno del quale

questo fenomeno si è radicato e continua a creare sofferenza e disagio nei minori.

Quando si parla di società, spesso ci si dimentica che a farne parte sono persone come me e voi,

genitori, figli, adulti che, come in questa giornata, hanno i mezzi per ritrovarsi, discutere, proporre

soluzioni a un problema che non è lontano o altro rispetto a noi, ma si ritrova all'interno di ogni

comunità di cui facciamo parte e su di questa ha un impatto da cui non possiamo prendere le

distanze: pensiamo ai social media, all'uso che ne facciamo quasi quotidianamente, e al fatto che

attraverso quegli stessi social media il bullismo viene sia agito (cyberbullismo) che mostrato, le

immagini di violenza nei confronti dei più deboli ci arrivano sotto agli occhi, sulle varie home page,

e per quanto ognuno possa reagire a suo modo nessuno può definirsi estraneo agli eventi.

Quello che accade all'interno delle scuole, anche se ormai tanti di noi le hanno abbandonate da

tempo, coinvolge tutti noi in prima persona, poiché è lì che si formano le nuove generazioni con cui

ci troveremo presto o tardi a interagire, per cui dovremo decidere o che decideranno per noi sul piano

politico, sociale, culturale. I bulli e le vittime non sono estranei ma membri di un gruppo sociale più

ampio che è quello della comunità in cui sono inseriti, e della società italiana o europea, saranno i

futuri cittadini del mondo.

Per questo credo che un'analisi di quello che noi siamo e che trasmettiamo possa servire a farsi una

vaga idea su quali possano essere strade percorribili per ridurre l'impatto di un fenomeno che a volte

devasta intere esistenze e del quale noi non possiamo essere spettatori neutri.

49 Per un approfondimento sul ruolo degli adulti in contesti di bullismo rimando a A.Meluzzi “Bullismo e cyberbullismo”, Imprimatur editore, 2014, pag. 9- 40. Il resto del saggio è a mio avviso da prendere con le pinze, in quanto svia verso un atteggiamento da “si stava meglio quando si stava peggio” che non rientra nei miei ideali, ma questa prima parte offre una serie di dati interessanti da cui sviluppare una propria riflessione.

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Cosa spinge, in generale, a sottovalutare atti discriminatori o violenti tra ragazzi? Come mai il bullo

si sente, il più delle volte, dalla parte della ragione senza riflettere sulle conseguenze di ciò che fa?

Il bullismo non è un fenomeno nuovo. Dall'alba dei tempi i ragazzi più forti perpetrano soprusi ai

danni dei più deboli, perché questo è quello che la società insegnava: i forti vincono, i deboli

perdono, e se vuoi avere successo nella vita impara a essere il più forte, così da avere il potere, le

ricchezze e una posizione sociale importante. Il fatto che ora si studi e si parli del fenomeno con

nuovi termini è già indice di un cambiamento nel percorso che i valori di una società intraprendono

nel corso della propria storia50. Tuttavia l'idea di fondo non è totalmente cambiata: al più forte si è

recentemente sostituito il più furbo, il più bravo a manipolare gli altri e trarre vantaggio personale

dalle persone senza necessariamente usare la violenza o la minaccia. In ogni caso la società resta

divisa, e in adolescenza questa divisione è ancora più amplificata dal fatto che ancora non ci si è

formati gli strumenti necessari per comprenderne la complessità, tra “vincenti” e “perdenti”.

Attualmente sembra che, nonostante tutti i passi avanti fatti per l'uguaglianza, il rispetto reciproco, la

pace, la parità di genere, l'obiettivo generale a cui spinge la società è quello di trovarsi una propria

posizione nel mondo anche a discapito degli altri. Lo vediamo in continuazione nel mondo del

lavoro, dove a furia di competere si è arrivati a farsi pagare una miseria pur di lavorare al posto di

qualcun altro, o dove pur di fare carriera si è disposti a scendere a compromessi con il proprio tempo

libero, la propria libertà personale e a fare carte false pur di scavalcare gli altri e aggiudicarsi la

posizione.

A livello più ampio, la società ha sempre necessariamente bisogno di distinguersi e porsi a un livello

superiore rispetto a quello che è considerato “altro”, diverso, e quindi non meritevole come invece lo

siamo noi.

Chi sono questi “altri” e perché sentiamo il bisogno di mettere dei confini tra “noi” e “loro”?

50 Mi preme sottolineare qui che la “cultura” di una società non è un elemento fisso e immutabile nel tempo: quello che viene considerato un valore può, nel giro di qualche decennio, tramutarsi in un disvalore, quel che prima era abitudine diffusa può ritrovarsi appannaggio di pochi eletti: un esempio lampante e attuale è quello della medicina, fino a pochi anni fa considerata esclusivamente una cosa per esperti del settore che ora in occasioni sempre più numerose vengono screditati dai propri pazienti che ricercano autonomamente cure alternative per i propri problemi. Sono le persone stesse che contribuiscono attivamente al mutamento dei propri riferimenti culturali, poiché la cultura non è qualcosa che viene dispensata dall'alto su una massa di persone che ricevono passivamente le “istruzioni per l'uso” della propria vita: questo punto è molto importante per comprendere che il cambiamento sociale è possibile e dipende dagli stessi attori sociali coinvolti.

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Quando si parla di antropologia e alterità, generalmente si pensa a usi, costumi e pratiche culturali e

religiose che ci distinguono in macrogruppi a seconda appunto dell'“etnia”51. Gli altri sono quindi

quegli altri popoli, diversi da noi, con cui chiaramente abbiamo poco in comune 52 e da cui ci

differenziamo nettamente per riferimenti culturali e modalità con cui conduciamo la nostra esistenza.

Come osserva Remotti 53 , l'uomo costruisce la sua identità per contrasto rispetto a quello che

percepisce come diverso da sé, ma questo avviene per contrasto non con popoli di cui scarsamente

conosciamo gli usi, bensì con l'alterità che ci è più prossima: quella immediatamente vicino alla

nostra società, quella che conosciamo meglio e da cui ci vogliamo differenziare per marcare

nettamente la nostra superiorità. Gli altri sono quindi i gruppi sociali più svantaggiati, più deboli, che

non hanno modo di rivendicare una propria posizione rispetto all'ideologia dominante: gli emarginati,

gli immigrati, le donne, gli omosessuali e tutti quei gruppi che in qualche modo escono dalla norma

che la società si è data come valore assoluto a cui aspirare.

Ogni giorno tutto l'apparato dei media riporta notizie che parlano con toni spesso allarmistici di

immigrazione, sbarchi, profughi a cui vengono dati i nostri soldi “mentre qui la gente muore di

fame”, delinquenza perpetrata da persone di etnia diversa, allarmismo per atti di terrorismo

internazionale che sì, porta alla luce un problema, ma che parla alla pancia delle persone con toni

controproducenti e che non rendono giustizia alla realtà molto più variegata e pacifica dei gruppi

etnici presenti sul nostro territorio, e soprattutto non contribuisce minimamente alla comprensione del

fenomeno, che ha radici complesse che non sono poi così lontane dalla nostra stessa società.

Il secondo posto, nella cronaca, spetta al cosiddetto “femminicidio”, conclusione tragica di una

violenza che può durare anni da parte di un partner uomo nei confronti di quella che egli ritiene la

“sua” donna, oggetto di proprietà che quando decide di fare di testa sua va punita severamente.

51 Etnia è un edulcorante per la parola razza molto in uso. Cosa formi veramente un'etnia non è ancora completamente chiaro, pertanto è un termine da usare con molta cautela. In antropologia si definisce etnia un gruppo che condivide lingua, usanze e riferimenti culturali e (ma questo non sempre è scontato) un luogo geografico, e che si autodefinisce come tale e si distingue appunto dagli altri gruppi su queste basi. Il rischio che si corre è di spostare il razzismo da un piano genetico qual era in passato a un piano culturale, dando all'etnia, anziché alla razza, un valore assoluto per cui necessariamente “chi è di etnia rom ruba” o “i marocchini sono tutti spacciatori”e altre generalizzazioni simili appannaggio del pensiero razzista di inizio secolo.

52 È molto facile trovare punti di differenza tra noi e i berberi del sahara in quanto usi, costumi e religione. Tuttavia tra le diverse culture presenti nel mondo ci sono molto più punti in comune di quanto non si pensi: in tutte le società le tappe a cui sono associati rituali sono sostanzialmente le stesse, anche se espresse in modi differenti: per tutti sono importanti momenti come la nascita, tutto ciò che è legato al cibo, il passaggio all'età adulta, il matrimonio come unione sociale, tutti i popoli hanno una religione e una serie di riti ad essa associati, tutti celebrano i propri morti: le differenze stanno solo nelle modalità con cui questi momenti sono affrontati.

53 F.Remotti, “Contro l'identità”, Laterza 2007

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I toni con cui questo tema è affrontato sono spesso quelli della lacrima e della commozione facile,

per cui la vittima, “poverina”, stava con un “mostro” che per una fatalità “ha perso la testa”. Ci

dimentichiamo tuttavia del fatto che viviamo in una società in cui ancora la donna è percepita un

gradino sotto rispetto agli uomini, dove non è tutelata nel lavoro, dato che guadagna meno di un

uomo e se per caso decide di andare in maternità non è detto che ritrovi poi il posto che ha lasciato, e

nemmeno nella sua sicurezza è tutelata (lascerei dire all'esperta presente all'incontro quanti centri

antiviolenza hanno dovuto chiudere per mancanza di sovvenzioni da parte dello stato). La donna

viene scoraggiata ad assumere ruoli di responsabilità, e quando ci arriva viene presa in giro54. In

molte famiglie ancora è il matrimonio, e non la laurea, ad esempio, ad essere considerato il momento

più importante della vita della propria figlia. C'è ancora molto da fare per raggiungere la parità che si

professa da anni, e il discorso pubblico è ancora immaturo per affrontare temi complessi e delicati di

questo tipo.

Dall'altro lato, ci sono uomini che considerano le donne proprie pari, che le rispettano e che si

assumono parte della responsabilità nelle decisioni familiari, nella cura dei figli, nella cura della casa

comune, e ancora per una parte di società questi comportamenti li rendono “meno uomini” agli occhi

degli altri. Fortunatamente è una tendenza che sta cambiando, ma non in una maniera appoggiata

anche dalle istituzioni: basti pensare che il congedo di paternità, pur esistendo, è sfruttato in casi

rarissimi e ha una durata assolutamente irrisoria rispetto a quello di maternità, a dimostrazione del

fatto che il ruolo del padre è considerato ancora minoritario e la responsabilità di “allevare la prole” è

tutta della madre.

Un'altra parentesi la aprirei sull'omosessualità, categoria che rientra tra le fasce “deboli” da cui la

società tende a distinguersi: senza scomodare il dibattito su cosa sia conforme o contro natura, si

negano sistematicamente diritti a cittadini assolutamente uguali a tutti gli altri ma con un

orientamento sessuale diverso da quella che viene considerata la norma. In questo caso la

discriminazione è sia culturale (l'omosessualità è vista spessissimo come un'anomalia piuttosto che

una semplicissima diversità che non nuoce a nessuno) sia istituzionale, dato che una parte della

popolazione, che svolge gli stessi lavori e le stesse attività che svolgono tutti gli altri, che partecipa

attivamente alla vita sociale, culturale e politica del paese, non gode delle stesse possibilità di tutti gli

altri di fronte alla legge.

54 Si pensi alla direttrice del CERN di Ginevra, che si è sentita dire sui social che per arrivare dove è arrivata ha dovuto offrire prestazioni sessuali di ogni genere, o alla Boldrini, oggetto continuo di insulti sessisti che prescindono dal suo operato, o dall'astronauta Cristoforetti, che perfino nello spazio si è dovuta sorbire insulti per il suo aspetto fisico.

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I casi sopra citati sono gli esempi forse più lampanti di quell'insieme di gruppi e sottogruppi

scarsamente tutelati che sono vittime di una vera e propria violenza strutturale55, ovvero un tipo di

violenza non fisica ma perpetrata dalle istituzioni che rendono burocraticamente e socialmente

impossibile ad alcune fasce della popolazione l'inserimento a pieno titolo come membri di una

società, negando loro diritti, sostegno, accesso a servizi comunemente accessibili a tutti gli altri.

Conclusioni

Può sembrare che nel capitolo precedente sia andata fuori tema rispetto a quello di cui stiamo

trattando, cioè del fenomeno diffuso del bullismo.

Vorrei quindi chiarire perché il concetto di violenza strutturale applicato alle categorie sopra citate

può aiutarci a capire meglio, e forse porre un freno, a questo fenomeno.

Il motivo per cui ho parlato di stranieri, donne e omosessuali è molto semplice: se guardiamo alle

vittime del bullismo, un 10% di queste è di origine straniera, e più della metà sono ragazze. I ragazzi

e le ragazze omosessuali o presunti tali, poi, costituiscono un'altra percentuale significativa dei

ragazzi e delle ragazze bullizzati56. I soggetti verso cui si perpetra la violenza all'interno delle scuole

sono gli stessi che la società, più in generale, discrimina ed emargina. Sono le stesse persone che,

diverse dallo standard, sono meno tutelate, vengono zittite quando rivendicano i propri diritti, sono

considerate categorie e non membri fondanti della società a cui tutti apparteniamo, ma fino a un certo

punto.Questo mi porta a pensare che il fenomeno del bullismo altro non sia che uno specchio della

società stessa, certamente deformante in quando chi agisce non ha ancora piena consapevolezza del

suo ruolo all'interno di questa società e non ha ancora acquisito i mezzi per comprendere la

complessità che si cela dietro alle apparenze del mondo adulto, ma pur sempre un riflesso di quello

che a livello più ampio costituisce il funzionamento della realtà in cui viviamo: una realtà in cui la

diversità è preferibilmente nascosta anziché valorizzata, dove tutto ciò che è fuori dalla norma viene

tollerato purché non rivendichi nessun diritto, dove il successo passa attraverso l'omologazione a

modelli dominanti.Per questo motivo ritengo che qualunque intervento si svolga per contrastare il

bullismo, questo nonpossa limitarsi alle aule scolastiche o agli altri ambienti in cui il fenomeno è

55 Si veda a tal proposito l'opera di Paul Farmer, medico e antropologo che per primo ha descritto il fenomeno.

56 http://www.istat.it/it/files/2015/12/Bullismo.pdf?title=Bullismo++tra+i+giovanissimi+-+15%2Fdic%2F2015+-+Testo+integrale+e+nota+metodologica.pdf

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presente57. Bisogna anche lavorare in senso più ampio sulla comunità, per far comprendere meglio

fenomeni di cui spesso si sente parlare solo attraverso i toni a volte distorti dei media, e sulle

istituzioni, affinché il senso di uguaglianza e rispetto e valorizzazione delle differenze che è

auspicabile infondere nei ragazzi che agiscono o subiscono il bullismo non resti una “favoletta” che,

una volta finito il percorso scolastico, non trova riscontro nella realtà.

57 A tal proposito e visto il contesto può essere interessante aggiungere che un 10% dei ragazzi vittime di bullismo lo subisce in ambiente sportivo: http://www.azzurro.it/it/informazioni-e-consigli/consigli/bullismo/quanto-%C3%A8-diffuso-il-fenomeno-del-bullismo

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Per informazioni è possibile contattare:

POLIZIA DI STATO 113

CARABINIERI 112

CENTRO ANTIVIOLENZA SIRIO CSF, Treviglio tel: 0363 301773

CONSULTORIO FAMILIARE – PUNTO FAMIGLIA, Caravaggio tel. 036351555

Telefono Azzurro da 25 anni e garantisce a bambini e adolescenti il diritto all’ascolto:

– Il 114 è una linea telefonica di emergenza per segnalare situazioni in cui un bambino o un

adolescente è in pericolo. Possono chiamare adulti e bambini 24 ore su 24, 365 giorni l’anno, sia da

telefonia fissa che da telefonia mobile, gratuitamente.

– l’1.96.96 linea telefonica per bambini e adolescenti che desiderino raccontare piccole e grandi

difficoltà che si trovano a vivere. Alla medesima linea possono rivolgersi anche adulti che intendano

parlare di problemi che coinvolgono minorenni. – Chat telefono azzurro disponibile dal lunedì al venerdì dalle 8 alle 22, sabato e domenica dalle 8

alle 20

Il Ministero della Pubblica Istruzione ha istituito il numero verde 800669696 nell’ambito della

campagna contro la violenza”Smonta il bullo“, attivo dal lunedì al venerdì dalle 10 alle 13 e dalle 14

alle 19. A rispondere sono operatori specializzati come psicologi, insegnanti e personale del

Ministero. Il numero verde è stato attivato, nel corso della campagna di comunicazione “smonta il

bullo”, per: segnalare casi; domandare informazioni generali; chiedere come comportarsi in

situazioni critiche; ricevere sostegno.

Per denunciare episodi di bullismo o spaccio di sostanze stupefacenti a scuola basta inviare

un SMS al 43002 e la segnalazione arriverà in forma anonima alle forze dell’ordine competenti nel

territorio.

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