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VALERIA DATTILO INTERSOGGETTIVITA’. Dai neuroni mirror alla sfera pubblica

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INTERSOGGETTIVITA’. Dai neuroni mirror alla sfera pubblica

Valeria Dattilo

Pubblicato da Mistral Service sas Via U. Bonino, 3, 98100 Messina (Italy)

Questo libro e’ distribuito come un lavoro “Open Access”. Ogni lettore può scaricare, copiare e

usare il presente volume purché autore e casa editrice siano opportunamente citati.

AVVISO IMPORTANTE L'editore non si assume nessuna responsabilità per qualsiasi svantaggio o danno derivante dalle informazioni, raccomandazioni o consigli elencati dovute all’uso di materiale, illustrazione, metodo o idea contenuti nel presente volume. Opinioni ed affermazioni contenute in questo libro appartengono all’Autore e non all’Editore. Inoltre, l’Editore non si assume nessuna responsabilità per l'accuratezza delle informazioni contenute nel presente volume. Pubblicato: Ottobre, 2014

Questo libro in forma elettronica e’ disponibile sul sito www.mistralservice.it INTERSOGGETTIVITA’. Dai neuroni mirror alla sfera pubblica Valeria Dattilo ISBN: 978-88-98161-06-5

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Ringrazio il mio maestro Paolo Virno e Daniele Gambarara per i

consigli che mi hanno dato e per l’attenta lettura di una prima versione

di questo lavoro. Dedico questo libro a Francesco de Pascale, per una

quantità di motivi che sarebbe difficile elencare: in una parola, grazie.

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INDICE

Introduzione p. 5

I. Gallese: lo “spazio noi-centrico” e l’intersoggettività originaria p. 7

1.1 Il fondamento neurofisiologico della mente sociale p. 8

1.2 Imitazione, empatia, mentalismo p. 10

1.3 Simulazione incarnata p. 12

1.4 Tirando le fila... p. 13

II. Winnicott: l’analisi del linguaggio come fenomeno transizionale p. 16

2.1 Dall’interazione diadica madre-bambino alla costituzione di un Io autonomo p. 16

2.2 La materializzazione dello spazio potenziale: gli oggetti transizionali

p. 18

2.3 La localizzazione dell’esperienza culturale: il gioco p. 19

2.4 Un esempio di fenomeno transizionale: il linguaggio p. 20

III. Vygotskij e Clark: la dimensione pubblica della mente p. 22

3.1 La funzione del linguaggio egocentrico nella teoria di Piaget p. 23

3.2 Vygotskij: natura e destino del linguaggio egocentrico p. 25

3.3 Pensiero verbale p. 29

3.4 Clark: l’estensione della mente p. 31

3.5 Il linguaggio come strumento esterno p. 35

Conclusione p. 37

Bibliografia p. 41

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Introduzione

“Das schönste Glück des denkenden Menschen ist, das Erforschliche erforscht zu haben und das Unerforschliche ruhig verehren”.

*“La più grande fortuna dell’uomo pensante consiste nell’aver esplorato 1’esplorabile e nell’onorare in tutta pace l’inesplorabile”].

Goethe

L’idea di questo libro è quella di far vedere come si possa parlare di socialità della mente a diversi gradi e da diversi punti di vista. Nello specifico, affronteremo lo studio delle relazioni interpersonali al fine di mettere in luce il tratto essenziale della mente umana, il suo carattere sociale, al fine di comprendere come sia organizzata la mente individuale. Chiariremo, dunque, l’importanza che ha il linguaggio verbale come fenomeno sociale analizzando anche le forme più sofisticate e più articolate di interazione sociale, quali sono appunto quelle in cui interviene il linguaggio verbale, al fine di mettere in luce la sua diretta responsabilità nella strutturazione e ristrutturazione del pensiero umano.

Studiare la natura dei rapporti intersoggettivi è stato ed è ancora uno dei grandi temi della filosofia e, oggi come mai, delle scienze moderne.

Per affrontare questo tema partiremo dalla teoria dell’intersoggettività originaria proposta da Vittorio Gallese nel saggio Neuroscienza delle relazioni sociali con lo scopo di introdurre il concetto di “spazio noi-centrico”. Analizzeremo, dunque, la sua concezione secondo cui la relazione dell’animale umano con i propri simili è garantita da meccanismi neurofisiologici che si basano sul funzionamento di una serie di neuroni mirror.

La seconda tappa sarà quella di analizzare la teoria degli oggetti transizionali, attraverso l’opera di Donald Winnicott Gioco e realtà, al fine

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di introdurre il concetto di “spazio potenziale” e di analizzare il linguaggio verbale, appunto, come fenomeno transizionale.

Discuteremo, infine, di alcuni degli aspetti del testo di Lev Vygotskij Pensiero e linguaggio, in cui lo psicologo sovietico ha dimostrato, contrastando le teorie di un altro grande psicologo svizzero, Jean Piaget, che il linguaggio, inteso come strumento e segno, vincola molto il bambino durante lo sviluppo ed è, soprattutto, alla base della strutturazione diretta del pensiero umano e, di conseguenza (almeno secondo questa concezione) delle relazioni sociali. Mentre Piaget, infatti, postula l’esistenza di una mente autistica, cioè prima individuale e poi sociale, Vygotskij propone l’esistenza di una mente che prima è sociale (interpsichica) e che poi diventa individuale (intrapsichica).

Il tutto a suffragare l’ipotesi di un linguaggio che, dunque, è prima di tutto esterno e sociale e che ristruttura e struttura il pensiero del bambino.

Chiuderemo con un accenno alle ricerche di Andy Clark, scienziato cognitivo post-classico e continuatore delle tesi vygotskijane. In particolare faremo riferimento al suo testo Natural-born cyborges. Minds, technologies, and the future of human intelligence.

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Capitolo1 Gallese: lo “spazio noi-centrico” e l’intersoggettività originaria

In questo capitolo analizziamo le risposte di un importante neurofisiologo italiano ed autore del saggio Neuroscienza delle relazioni sociali, Vittorio Gallese.

Qual è l’elemento alla base delle relazioni sociali ed interpersonali? Come facciamo a sapere con certezza di avere a che fare con un altro animale umano e, dunque, linguistico?

1.1 Il fondamento neurofisiologico della mente sociale Secondo la teoria di Gallese, alla base dell’intersoggettività vi sono

dei meccanismi neurofisiologici che ci permettono di interpretare e comprendere l’agire degli altri. Gallese, infatti, è autore1 di una tra le scoperte neurologiche più importanti, quella dei cosiddetti “mirror neurons”. “Quando – in altre parole – osserviamo un nostro simile compiere una certa azione si attivano, nel nostro cervello, le stesse cellule che entrano in funzione quando siamo noi stessi a compiere quel gesto”2.

Il neurofisiologo italiano, in sostanza, sostiene che la relazione dell’animale umano con i propri simili viene garantita da una intersoggettività originaria, innata. Egli, quindi, altro non fa che avanzare l’ipotesi dell’esistenza di uno spazio noi-centrico, spazio sub-personale e pre-individuale, tale cioè da precedere la formazione di ogni singolo, ossia la costituzione dell’individuo. Spazio, questo, condiviso con gli altri e che è il risultato dell’attività della simulazione incarnata, ovvero “il mettersi nei panni dell’altro” per comprendere il suo agire, considerando l’altro come identico a noi. Esiste, dunque, una mente sociale prima ancora che si formi una mente individuale. Vi è un “noi” prima della formazione di un “io”.

1Rizzolatti G., Fogassi L., Gallese V. 2002; Motor and cognitive functions of the ventral premotor cortex;

in Current opinion in Neurobiology, 12: 149-154. 2 La citazione è ripresa da una intervista a Gallese pubblicata sul Manifesto del 22 giugno 2005 a cura di

Felice Cimatti.

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Tale tesi, quella di un’intersoggettività innata, è stata ipotizzata anche da altri autori. L’antecedente filosofico lo possiamo trovare già in Aristotele:

“Se vivere vuol dire sentire e conoscere, il co-vivere equivale a cosentire e co-conoscere òòìò ì]” (EE 1244b 24-26), [Lo Piparo, 2003, p. 28].

Il verbo greco (synaisthànesthai), infatti, è il verbo che traduce quello odierno di co-sentire 3 . Tale termine indica una comunicazione di sensazioni o sensorialità comunicata che è condivisa. Una capacità condivisa di co-sentire le sensazioni altrui.

Tale tesi, tuttavia, la possiamo rintracciare anche in autori più recenti quali Winnicott e Vygotskij4. Donald Winnicott, infatti, con la teoria degli oggetti transizionali, affermerà l’esistenza di una zona intermedia, fra l’io e il non-io, che predomina nella prima infanzia. Così anche per Vygotskij, lo sviluppo va dalla mente sociale alla mente individuale.

L’innovazione della teoria di Gallese, dunque, sta nell’aver trovato il fondamento neurofisiologico del co-sentire o, meglio, della mente sociale. Per il neuroscienziato italiano, tuttavia, la socialità della mente non è una caratteristica specie-specifica. Essa, infatti, è presente anche in specie diverse dalla nostra, come ad esempio in primati non umani quali i macachi, ma anche in specie evolutivamente lontane da noi quali le api e le formiche. Si tratta di animali che, oltre a vivere in gruppo, mostrano una forma di organizzazione sociale molto complessa tanto da essere definiti da Aristotele “animali cittadini o politici”. Sono animali “cittadini”, oltre l’uomo, “l’ape, la vespa, la formica, la gru”.

Gallese, ed il suo gruppo di ricerca, hanno localizzato per primi l’esistenza di questo gruppo di neuroni premotori nella corteccia cerebrale dei primati superiori come le scimmie. Successivamente, questo gruppo di neuroni, che si attivano non solo quando un primate compie azioni e/o movimenti con la mano, ma ogni qualvolta che esso vede qualcuno compiere la stessa azione, è stato rintracciato anche nella corteccia premotoria del cervello umano. Per questo motivo tali neuroni sono stati

3 L’espressione è utilizzata da Franco Lo Piparo.

4 Le teorie di tali autori verranno poi riprese e approfondite più avanti, nei prossimi capitoli.

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definiti “neuroni mirror” o “neuroni specchio”, in quanto vedendo l’altro compiere un’azione, in noi si attivano quegli stessi neuroni che si attivano quando siamo noi a compiere l’azione.

Tale gruppo di neuroni, precisamente, sono localizzati nella parte ventrale del lobo frontale inferiore dell’area 44 e 45 (cfr. fig. 1), appartenenti alla regione di Broca, regione preposta al linguaggio. La scoperta era stata fatta precedentemente su alcuni tipi di scimmie dove il sistema-specchio è stato individuato nella zona F5 (cfr fig. 2).

Fig. 1 Encefalo umano

Fig. 1.2 Encefalo scimmia

Negli esseri umani tali neuroni, quelli dell’area 44 e 45, non rispecchiano solo la meccanicità dell’azione osservata, ma anche la loro finalizzazione, contrariamente ad altre specie cui la consapevolezza di fini e scopi è negata. Negli esseri umani si tratta, invece, di un immedesimarsi con la finalità del gesto che si sta osservando.

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Tutto questo meccanismo presuppone alla base un concetto importante che è quello di “identità sociale”: le somiglianze che uniscono il nostro interlocutore a noi; il riconoscere gli altri come persone simili a noi. “L’identità sociale – in pratica – è importante perché garantisce agli individui la capacità di meglio predire le conseguenze del comportamento altrui. L’attribuzione di uno status di identità agli altri individui consente infatti di contestualizzare automaticamente il loro comportamento” [Gallese 2003, p. 16]. A rendere possibile il riconoscimento degli altri umani come nostri simili, a caratterizzare la relazione di identità sé-altro e, dunque, a promuovere la comunicazione intersoggettiva, l’imitazione e l’attribuzione di intenzioni agli altri, è un sistema multiplo di condivisione (shared manifold) basato sui neuroni specchio. Vedremo nel prossimo paragrafo quali sono le forme alla base della mente sociale.

1.2 Imitazione, empatia, mentalismo

Imitazione, empatia e mentalismo vengono considerate tre diverse forme di interazione con gli altri accomunate da un’unica caratteristica che è alla base delle relazioni intersoggettive o interpersonali: la presenza di uno spazio interpersonale condiviso, multimodale, che è stato definito noi-centrico. A definire lo spazio interpersonale condiviso vi è un meccanismo comune a queste tre diverse forme di rapporti interpersonali. Tale meccanismo è quello della “simulazione incarnata” (embodied simulation). “Incarnata” proprio perché passa per il nostro corpo-cervello, indipendente dal linguaggio e definita dall’attività dei neuroni mirror. Si parte dal soggetto per capire le intenzioni altrui.

Analizzeremo, dunque, quelle che sono le differenze fra queste tre diverse forme di socializzazione. Inizieremo dall’imitazione.

L’imitazione consiste nel ripetere le azioni di qualcun altro nell’eseguire i movimenti che si osservano: “quando ripetiamo le azioni di qualcun altro, traduciamo i movimenti osservati in movimenti eseguiti” [ivi, p. 14]. A proposito del concetto di imitazione, Gallese ha ripreso gli studi di Meltzoff5 per quanto riguarda la descrizione nel neonato di due tipi di imitazione: una imitazione precoce più una forma di imitazione più matura. La prima, l’imitazione precoce, è una forma di imitazione che

5 Per approfondimenti sugli articoli di Meltzoff rimandiamo alle indicazioni bibliografiche contenute in

Ferretti 2003.

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scompare intorno al terzo mese di vita. Il secondo tipo di imitazione, invece, consiste nella capacità di comprendere il significato di ciò che viene imitato.

E’ bene sottolineare come le ricerche di Meltzoff interessino e vengano citate da Gallese al fine di sottolineare non quella che è la differenza fra i due tipi di imitazione, ma come entrambe queste forme di imitazione condividano una caratteristica comune: la presenza di uno spazio noi-centrico, indipendente dal linguaggio. L’imitazione precoce è infatti un esempio che ci aiuta a capire meglio l’intelligenza sociale in quanto mostra che i legami e le relazioni interpersonali sono stabiliti all’esordio della vita, quando il soggetto cosciente non si è ancora costituito, senza precludere tuttavia la costituzione di uno spazio primitivo “se-altro”.

Per quanto riguarda l’empatia, il termine deriva dal greco sỳn pàthos, ed è inteso come la disposizione spirituale a condividere i sentimenti altrui. E’ da sottolineare come con esso Gallese non intenda il semplice comprendere quando una persona sia triste o felice, ma anche “l’immedesimarsi in”, “l’essere in immediata sintonia”, “il provare immediatamente lo stesso sentimento di un altro”. E’ intesa come la simpateticità, il sentire condiviso tra neuroni mirror, indipendente dal linguaggio, da proposizioni, dall’interpretazione di menti altrui (mentalismo) e dalla ToM (Premark e Woodruff, 1978), teoria della mente che si basa sull’attribuire stati mentali quali intenzioni, credenze e desideri alla mente altrui (psicologia del senso comune o Folk Psychology).

Precedentemente, altri autori, fra cui Max Scheler, padre fondatore dell’antropologia filosofica, in Essenze e forme della simpatia (1980), aveva distinto durante la sua analisi fenomenologica della vita etica, l’empatia dalla simpatia, considerando quest’ultima come il fondamento di tutti i possibili rapporti intersoggettivi, come avente un ruolo importante nella definizione dei valori morali. Secondo Scheler il termine Einfühlung6, tradotto in italiano con empatia, è inteso come una specie di “immedesimazione”, ovvero l’unificazione del proprio “io” con quello di un altro, che si verifica negli affetti (da qui la distinzione con Einsfühlung o unipatia, che si verifica non solo negli affetti). Si tratta, però, di un’unione

6 Il termine è di derivazione husserliana.

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inconscia e automatica. Questo elemento, infatti, fa parte della cosiddetta sfera del “contagio emotivo”, processo involontario che si basa sulla diffusione per contatto degli stati emotivi e non presuppone alcuna conoscenza dei sentimenti di gioia e dolore provati dagli altri. Da qui la differenza con il termine simpatia che presuppone, invece, un’unione consapevole e riflessiva; dunque, la simpatia, ovvero la partecipazione all’emozione altrui presuppone un’adesione consapevole.

Infine, il mentalismo. Esso è la capacità di “leggere la mente” altrui: “quando osserviamo il comportamento altrui, siamo verosimilmente in grado di comprenderne il significato e le ragioni che lo hanno prodotto”.

In ognuno di questi tre diversi tipi di relazioni interpersonali ci confrontiamo con oggetti solo apparentemente diversi (azioni, emozioni e sensazioni, pensieri). Secondo Gallese, infatti, tutti i possibili livelli d’interazione interpersonale riposano sullo stesso meccanismo funzionale alla base della nostra capacità di empatizzare: la simulazione incarnata. Essa, infatti, si compie prima ancora che ci sia una mente individuale: senza, dunque, il linguaggio, ovvero senza l’interpretazione proposizionale o atteggiamenti proposizionali del tipo “credo che…”, “suppongo che…”, ecc. Ciò perché esiste un livello di base delle nostre relazioni interpersonali che non prevede l’uso esplicito di atteggiamenti proposizionali.

Nel prossimo paragrafo approfondiremo meglio quest’ultimo aspetto, ovvero, come questo livello di base consista in processi di simulazione incarnata mediante i quali possiamo costituire uno spazio interpersonale condiviso.

1.3 Simulazione incarnata “Se mentre siedo in un ristorante vedo qualcuno dirigere la mano

verso una tazzina di caffè, comprenderò immediatamente che il mio vicino di tavolo sta per sorseggiare quella bevanda. Il punto cruciale è: come faccio?” [ivi, p. 25]. Secondo la teoria della simulazione non è necessaria un’interpretazione proposizionale per comprendere una situazione come quella suesposta de “il bere del caffè da parte di un uomo che si trova seduto in un ristorante”. Usando questa teoria, infatti, giungiamo a comprendere un’azione, come quella in questione, in modo “immediato” e “automatico” grazie alla funzione dei neuroni mirror che costituiscono il

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substrato delle forme della socialità della mente, precedentemente esposte. Ciò è reso possibile grazie alla simulazione incarnata - un processo automatico, inconscio e pre-riflessivo - che ci permette di simulare l’agire di un’altra persona, di trasformarci nell’altro, di diventare l’altro. Si tratta di un singolo meccanismo che è in grado di fornire un sostrato comune ad aspetti apparentemente differenti delle relazioni interpersonali. Essa ha, dunque, il ruolo di fornire modelli delle inter-azioni che si instaurano fra un organismo ed il suo ambiente: è un ingrediente essenziale della capacità di ogni sistema cervello/corpo di modellare le proprie inter-azioni con il mondo.

Gallese, in definitiva, si occupa di dare una risposta in termini neurofisiologici alla socialità della mente analizzando nello specifico il meccanismo di funzionamento dei neuroni mirror, e limitandosi, dunque, ad analizzare tipi di interazione che precedono lo sviluppo del linguaggio, senza prendere in considerazione forme più sofisticate ed articolate di interazione sociale, quali sono appunto quelle in cui interviene il linguaggio verbale.

1.4 Tirando le fila… Arrivati a questo punto ci verrebbe da chiedere: qual è, dunque, la

prerogativa del comportamento sociale dell’animale linguistico rispetto all’animale non umano, quali ad esempio quello delle api o delle formiche? Qual è la linea di confine tra la specie umana e le altre specie che caratterizza la socialità della mente? Abbiamo visto come per Gallese ci sia un livello di base che non prevede atteggiamenti proposizionali. Cosa accade, allora, quale novità si introduce nella socialità della mente, quando irrompe il linguaggio verbale? I neuroni mirror sono senza dubbio dei punti fermi all’interno della nozione di natura umana, ma c’è qualcosa di questa che in casi estremi non ci permette una comprensione immediata e automatica di una data situazione. Ciò è dovuto alle più grandi capacità dell’uomo, le facoltà del pensiero concettuale e del linguaggio verbale, che lo hanno distinto da tutte le altre specie. La simulazione incarnata è minata dagli atteggiamenti proposizionali. A nostro parere il co-sentire (synaisthànesthai), il sentire in comune con gli altri, è l’unico elemento che distingue il comportamento sociale delle api o delle formiche da quello dell’uomo. Esso è il fondamento biologico delle società animali. Basti pensare ad esempio al comportamento della gazzella

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dinanzi al leone. Il suo è un comportamento, una “reazione” puramente automatica, istintiva, meccanica caratterizzata dalla fissità. E gli esempi sono innumerevoli. Basti citare un esempio tratto dal testo di Konrad Lorenz, L’aggressività, in cui viene ripreso lo schema comportamentale di corteggiamento e accoppiamento di un Lepidottero Satiride, l’Hipparchia semele L., studiato sperimentalmente più di vent’anni fa da Tinbergen7 e colleghi. “Il maschio di questo lepidottero esibisce in fase di pre-copula una sequenza di azioni istintive che, nella migliore delle ipotesi, avrebbe questo sviluppo: a) slancio del maschio in volo verso la femmina che passa svolazzando; b) atterraggio della coppia; c) accerchiamento stretto del maschio che si pone davanti alla femmina; d) tremolio delle ali, e) battito caratteristico delle ali e rotazione delle antenne; f) inchino del maschio che permette così alle clave antennali della femmina di entrare in contatto con le zone odorifere situate sulla faccia superiore dell’ala anteriore maschile; g) spostamento circolare del maschio dietro la femmina; h) copula”. E’ stato dimostrato come la serie di reazioni si scateni in modo rigido, seguendo delle regole ben precise, quasi un codice d’onore, e come questa serie di reazioni si scateni anche se viene presentato al maschio del Satiride numerosi “oggetti” di diversa grandezza, forme, colore ecc. Questo meccanismo di percezione dell’oggetto e azione, che negli animali è un tutt’uno, in quanto è inteso come meccanismo innato, istintivo legato alla sopravvivenza, era stato definito da Jakob Von Uexküll (1934) “ciclo funzionale di percezione e azione”.

A proposito della distinzione tra Welt, il mondo dell’animale umano, e Umwelt, l’ambiente, Von Uexküll si era proposto di analizzare l’ambiente della zecca, al fine di dimostrare come le sue “azioni” siano dipendenti e finalizzate a soddisfare i suoi bisogni (cacciare, mangiare, ecc.). Per vedere gli oggetti come distaccate dalle sue azioni, bisognerebbe, dunque, che “l’ambiente venga percepito non più soltanto attraverso gli occhi, ma lo si cominci a vedere anche, e soprattutto, attraverso lo schermo del linguaggio8”. Ciò che invece è peculiare dell’animale umano, dunque, come aveva già analizzato Renè Descartes nel Discorso sul metodo (1637), è il “linguaggio” e l’uso della “ragione” che ci permette di uscire dagli automatismi tipici delle “reazioni” degli animali. Le nostre azioni sono

7 N. Tinbergen, The study of instinct, Oxford 1951.

8 Cimatti 2002, La mente silenziosa, p. 32.

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libere da questo vincolo naturale, il reagire al fine di sopravvivere. Non dobbiamo rispondere per forza e direttamente ad uno stimolo. L’animale umano, infatti, grazie al linguaggio, diventa “consapevole” e “autocosciente”. Ciò perché ci permette di agire o comportarci diversamente. Ci permette, in pratica, di mediare la risposta ad un dato stimolo. Non sempre infatti agiamo utilizzando la soluzione che consideriamo più giusta, come nel caso della gazzella con il leone “correre”, ma spesso si agisce in maniera contraria. Lo stesso Konrad Lorenz, padre dell’etologia, definì il comportamento dell’uomo come l’unico animale in cui è presente uno squilibrio preoccupante tra i suoi istinti aggressivi e i modi per inibirli o sfogarli. Con ciò non vogliamo affermare che il comportamento umano e in particolare il comportamento sociale umano sia determinato soltanto dalla ragione e dall’uso del linguaggio, ma come non sia, dunque, l’identità sociale, il luogo comune, il co-sentire che ci distingue. Bensì ciò che ci distingue è la diversità, la ricchezza sociale, ed il linguaggio che sono peculiarità propriamente umane.

A conclusione di questo discorso ci siamo posti un’ulteriore domanda: fino a che punto questi meccanismi di simulazione possono spiegare l’interagire con gli altri? A tal proposito, e con ciò apriamo il secondo capitolo, analizzando la possibilità che il linguaggio si trovi in uno spazio intermedio fra l’interno e l’esterno facendo riferimento al testo Playing and Reality di Donald Winnicott.

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Capitolo 2 Winnicott: l’analisi del linguaggio come fenomeno transizionale.

In questo capitolo analizziamo l’importanza che la teoria degli oggetti e dei fenomeni transizionali, dovuta a Donald Woods Winnicott, assume nella fase dello sviluppo dell’“io” del bambino per poi estendere questa teoria ad un’accurata analisi del linguaggio come “fenomeno transizionale” e ad una definizione di natura umana in termini di rapporti interpersonali. Vediamo, dunque, come sia possibile dare una definizione triadica di natura umana e non più diadica basata sulla coppia interno/esterno.

2.1 Dall’interazione diadica madre-bambino alla costituzione di un Io autonomo

Lo psicologo inglese nei suoi studi focalizza l’attenzione, più che sullo sviluppo psichico del bambino, sul rapporto madre-bambino. Secondo Winnicott, dalla nascita, madre e bambino sono in completa simbiosi. Il bambino si identifica con la madre: “lei è il bambino e il bambino è lei” [Winnicott 1957, 1965]. Secondo questa teoria, dunque, il bambino nel guardare il volto della madre, vede se stesso, e la mamma guardando il bambino, si vede nel modo in cui egli la vede9. Questa congettura prende il nome di “ipotesi dello specchio” dalla definizione di stade du miroir (stadio dello specchio) dello psicoanalista francese Jaques Lacan. Ma, contrariamente a Lacan il quale pensa allo specchio in termini di sviluppo dell’“io individuale”, Winnicott considera “specchio” il volto della madre: “il precursore dello specchio è la faccia della madre”10.

In questa fase, dunque, il “sé” (“io”) non si differenzia dall’“altro” (“non io”). Dunque, per usare un’espressione winnicottiana, “io all’inizio sono insieme a un altro essere umano”. Un esempio di ciò è il fatto che all’inizio i bambini quando piangono si tranquillizzano solo con la madre, e successivamente attraverso quelli che Winnicott definirà “oggetti transizionali” come succhiotti, peluche, coperte etc. etc.

E’ da questa fase in poi che ha inizio un’acquisizione di sensazioni ed attività elementari che arriveranno a formare un’unità, ovvero il suo “io”,

9 Per approfondimenti rimandiamo alle indicazioni bibliografiche contenute in Ferraris ed altri 2001.

10 Winnicott 1971, trad. it. 1974, Gioco e realtà, p. 189.

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quello che il teorico dell’arco di vita, Erik Erikson, definirà l’”io sono”, ovvero la sintesi tra identificazioni passate, senso o consapevolezza di sé e degli altri.

Il processo di sviluppo va dall’illusione alla disillusione. All’inizio, la madre dovrà fornire al bambino l’illusione che il suo seno sia parte del bambino (identità bambino-seno); successivamente, la madre dovrà poco a poco disilludere il bambino. E’ nel secondo semestre che intervengono i fenomeni chiamati degli oggetti transizionali: esperienze intermedie che calmano sensazioni spiacevoli come l’angoscia. Si tratta di forte attaccamento affettivo da parte del bambino a giocattoli o altri oggetti. Ed è sempre in quest’ambito, quello dei fenomeni e oggetti transizionali, che nasce e si sviluppa il gioco. Dunque, nella strutturazione dell’Io autonomo, l’“io” della madre ha una funzione di contenimento (holding), ovvero ha la funzione di adattarsi ai bisogni e alle necessità del bambino, come si può vedere nelle seguenti figure.

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2.2 La materializzazione dello spazio potenziale: gli oggetti transizionali

L’idea singolare che scaturisce dalla lettura del testo di Winnicott, Playing and Reality, è l’esistenza di un luogo, area intermedia di esperienza umana “tra le cose percepite e quelle concepite” [Winnicott 1974, p. 13] che non si trova né dentro, né fuori all’individuo. “La membrana limitante del sé unitario”, così viene definita da Winnicott quest’area intermedia, neutra, di illusione che non verrà messa in dubbio, svolge un ruolo importante in fenomeni come quello del gioco, inteso come uso di simboli, della creatività artistica, intesa come “fenomeno universale” in quanto appartiene al fatto di essere vivi (è il mettersi in rapporto con il proprio percepire), del sogno, dello sviluppo dell’Io etc. etc. Più avanti vedremo come questo concetto di “area intermedia” possa essere applicata anche a quell’importante avvenimento evolutivo che risulta essere il linguaggio.

La materializzazione di quest’area, definita anche spazio potenziale, avviene grazie agli oggetti transizionali: oggetti intermedi fra il soggetto e l’ambiente.

Ma vediamo qualche esempio di oggetto transizionale:

l’orsacchiotto o il bordo di una coperta tanto amati dai bambini nei primi mesi di vita;

un pezzo di stoffa tenuto in bocca; balbettii, come “mam”, “ta”, “da” etc. etc.; una ninna-nanna.

Gli esempi riportati da Winnicott [1974] sono innumerevoli. Per questioni di spazio ci siamo limitati a riportare solo i più importanti. Tali fenomeni compaiono all’incirca tra i quattro, sei, otto e dodici mesi di vita del bambino.

Gli oggetti transizionali sono, dunque, il primo processo di “non me” compiuto dal bambino. Diventa qui importante il comparire della negazione “non”. Negando l’io allo stesso tempo lo si afferma: comincia qui la vera fase di strutturazione dell’io stesso. La definizione che da’ Winnicott di questo termine, “non me”, è la seguente: “non è l’oggetto, naturalmente, che è transizionale. L’oggetto rappresenta la transizione di

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un bambino da uno stato di essere fuso con la madre ad uno stato di essere in rapporto con la madre come qualcosa di esterno e separato” [Winnicott 1974, p. 43]. Tale termine descrive, dunque, il viaggio del bambino nei primi mesi di vita, dalla realtà soggettiva a quella oggettiva, nonché la radice del simbolismo. E’ pur vero che tali oggetti stanno per il seno o per la madre stessa (oggetto del primo rapporto), ma ciò che è interessante è la loro duplice funzione paradossale, ovvero il fatto di essere simboli di separazione e unione allo stesso tempo con la madre, di illusione e realtà. Il bambino si illude che tali oggetti possano sostituire il seno materno, ma allo stesso tempo sono qualcosa di reale che permette al bambino una certa rassicurazione, conforto, difesa contro le angosce molto profonde che lo colpiscono nei primi stadi dello sviluppo emozionale. E’ sì illusione, ma allo stesso tempo è l’unico medium, mediatore che permette al bambino questa rassicurazione.

Tracce di questa duplice funzione di illusione/realtà a proposito della letteratura, le troviamo intorno alla fine dell’800 nelle opere dello scrittore Federico De Roberto. Secondo De Roberto la letteratura è sì finzione, illusione ma allo stesso tempo è l’unico mezzo che ci permette di andare oltre; anche se falsa è più vera e più salda nella propria interiorità. Si parte da un processo di illusione, quello della finzione della letteratura, definita “menzogna romantica” per usare le parole del filosofo francese Renè Girard, per arrivare ad un processo di disillusione, quello della verità romanzesca, cioè del romanzo.

Nel prossimo paragrafo analizzeremo meglio come fenomeni transizionali, quali il gioco, trovino la loro origine in questo luogo intermedio.

2.3 La localizzazione dell’esperienza culturale: il gioco

La più grande novità introdotta dallo psicoanalista inglese, è quella di aver individuato la localizzazione dell’esperienza culturale. Essa viene intesa da Winnicott come un derivato del gioco. L’attività ludica si espande poi nel vivere creativo e nell’intera vita culturale dell’uomo. Sono esempi di esperienza culturale: l’arte, la religione, la filosofia ecc. Da qui l’importanza di questo luogo, definito spazio potenziale, che si trova tra l’individuo e l’ambiente, e che non si oppone alla realtà psichica interna o al mondo reale, quel grande serbatoio costituito da un insieme di elementi

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che consideriamo come “non me”, ma è di gran lunga più importante per quel che riguarda la spiegazione anche di alcuni fenomeni che compaiono poi nella vita adolescenziale o adulta di un individuo, come l’assuefazione alla droga, il rubare, il feticismo ecc. Questo spazio intermedio è, dunque, ciò che nella prima fase dello sviluppo del bambino unisce e separa allo stesso tempo il bambino e la madre, paradosso, questo, che va considerato come tale, senza, dunque, dover essere per forza risolto per meglio comprendere appieno l’importanza del ruolo di questo spazio.

Nelle fasi successive, quest’area, ha una notevole importanza nelle relazioni di gruppo, nei rapporti interpersonali tra individuo e società o mondo. Gioco ed esperienze culturali sono ciò che uniscono il “non me” da “me”. Vi è, dunque, un continuum fra i fenomeni transizionali, il gioco, il gioco condiviso e le esperienze culturali successive. E’ nel giocare, da qui l’importanza fondamentale che quest’area ha per l’individuo, che sia un bambino o un adulto, sono in grado di essere creativi. Ed è, cosa molto importante ai fini del nostro discorso, proprio in ciò che l’individuo scopre il “sé”. Fino a quando il neonato non differenzia la sua esistenza da quella degli oggetti intorno a lui, non avrà coscienza di sè.

Vedremo nel prossimo paragrafo come questa consapevolezza di sè sia possibile grazie ad un altro fenomeno transizionale e come il concetto di natura umana possa essere pensato diversamente rispetto alla concezione classica.

2.4 Un esempio di fenomeno transizionale: il linguaggio

“Due cose riempiono l’animo di sempre nuova e crescente ammirazione: il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me”. Partendo da questa celebre frase di Immanuel Kant, il filosofo tedesco autore delle tre Critiche, tenteremo di porre un ulteriore questione. Per Kant, la legge morale si trova dentro di noi (“in me”), come un qualcosa di dato a priori, mentre le leggi del cielo come un qualcosa che si trova fuori di noi (“sopra di me”), e che si sono formate nel divenire naturale. La questione che vogliamo sollevare in questo paragrafo è: e se anche la legge morale, definita nella Critica della ragion pratica come la manifestazione della ragione (in greco lògos, in latino verbum, in tedesco Vernunft), dunque, qualcosa che è un tutt’uno con il fatto di possedere il

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linguaggio, si trovasse, per dirla con Winnicott, in una “zona intermedia” dalla quale poi scaturiscono l’interno e l’esterno?

Fra le migliori chiavi di lettura che abbiamo analizzato a sostegno di questa ipotesi, quella del linguaggio come fenomeno transizionale, c’è quella illustrata in precedenza di Donald Winnicott. Partendo dalle sue ipotesi siamo giunti a considerare l’azione linguistica come un qualcosa che si colloca sul limine, confine fra “io” e “non-io”, interno ed esterno. Si tratta, dunque, di un fenomeno che non è né totalmente interno, innato in gergo chomskiano, a priori in gergo kantiano, né totalmente esterno, come volevano i behavioristi, fra cui Skinner. Tale spazio, abbiamo visto, è stato definito da Winnicott “spazio potenziale”, o meglio, “spazio intermedio all’agire”: l’entrare in rapporto con la realtà esterna, condivisa, e alla contemplazione, l’entrare in rapporto con la realtà psichica interna. Tale spazio, contrariamente agli altri due, quello interno che è determinato biologicamente e quello esterno che è patrimonio comune, è variabile in quanto si tratta del prodotto delle esperienze della singola persona realizzate interagendo con l’ambiente in cui vive. Abbiamo visto anche come la “materializzazione” di questo spazio avvenga tramite gli oggetti transizionali, le cosiddette res pubblicae, le cose del rapporto, intermedie tra il soggetto e l’ambiente. Tali oggetti non caratterizzano esclusivamente la prima infanzia ma anche l’esperienza adulta. Ne sono un esempio: l’arte, con i suoi prodotti artistici, la religione, con i suoi sacramenti, e la cultura, solo per citarne alcuni.

Abbiamo dunque analizzato la risposta alternativa di un importante studioso, Winnicott, alla domanda: dove ci troviamo quando viviamo esperienze culturali del tipo leggere un libro, ascoltare della musica o quando compiamo attività creative del tipo giocare a pallone, insomma detto più semplicemente, quando ci divertiamo?

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Capitolo 3

Vygotskij e Clark: la dimensione pubblica della mente.

“Non la coscienza degli uomini determina il loro essere ma, al contrario, il loro essere sociale determina la loro coscienza”

Marx

A conclusione di questo libro vorremmo soffermarci sul problema della natura del pensiero verbale, ovvero del rapporto tra pensiero e linguaggio. Abbiamo visto, infatti, nel primo capitolo, come la relazione sociale immediata, non mediata dal linguaggio, non possa essere definita una vera e propria “relazione” ma piuttosto una sorta di legame inconscio, automatico, che fa parte di quello che abbiamo definito sfera del “contagio emotivo”, che ci avvicina molto di più al mondo animale, cioè ad un’interazione di tipo primitivo e limitata, piuttosto che al mondo umano. Successivamente, abbiamo visto il ruolo fondamentale svolto dal linguaggio nel delimitare il confine tra “io” e “non-io”, tra l’essere solo coscienti e l’essere autocoscienti.

Date queste premesse vedremo, in questo capitolo, come il linguaggio non solo strutturi, costruisca direttamente il pensiero ma, anche, come esso sia alla base delle relazioni sociali. Analizzeremo, dunque, le novità introdotte, rispetto alla psicologia tradizionale, dallo studioso sovietico Lev Semenovic Vygotskij, autore di Pensiero e Linguaggio [1934]. Vygotskij, influenzato dalle ricerche dello psicologo svizzero Jean Piaget sul comportamento linguistico dei bambini in età prescolare, ammette l’esistenza di un “discorso intrapsichico”, una sorta di flusso dialogico interno alla coscienza individuale, che ha origine nell’infanzia, e che continua nell’età adulta. Dopo aver esposto le basi sulle quali si regge l’egocentrismo infantile dello psicologo svizzero, analizzeremo la risposta che i due autori daranno alla domanda: lo sviluppo del pensiero infantile va dal linguaggio individuale al linguaggio socializzato o, al contrario, dal linguaggio sociale del bambino al linguaggio interno?

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3.1 La funzione del linguaggio egocentrico nella teoria di Piaget

Il punto centrale su cui ruota tutta la teoria del linguaggio infantile di Piaget è l’egocentrismo del pensiero infantile11. “Abbiamo cercato di ricondurre all’egocentrismo – dice Piaget – la maggior parte dei caratteri della logica infantile”. Egli definisce il pensiero egocentrico come una forma di pensiero transitoria, intermedia tra il pensiero autistico o individuale e il pensiero intelligente o sociale tipico, quest’ultimo, degli adulti. Salta subito agli occhi questa duplice funzione paradossale del pensiero egocentrico, vale a dire quella di essere vicino e lontano allo stesso tempo a queste due forme di pensiero, quello autistico e sociale. Si tratta, dunque, per Piaget, di una forma intermedia tra il pensiero autistico e quello logico. “Il pensiero del bambino è più egocentrico del nostro – spiega Piaget – ed esso sta tra l’autismo propriamente detto e il pensiero socializzato”.

Lo schema su cui si basa Piaget è il seguente: Pensiero Autistico Non Verbale – Linguaggio Egocentrico e Pensiero Egocentrico – Linguaggio Socializzato e Pensiero Logico.

Sono manifestazioni dirette dell’egocentrismo infantile:

Il sincretismo La difficoltà della presa di coscienza L’incapacità all’introspezione Etc. etc.

Il pensiero egocentrico, un pensiero egoistico, asociale e

subconscio, in cui domina la logica dell’azione anziché quella del pensiero, caratterizza lo sviluppo del bambino fino all’età di sette-otto anni. “Se si ammette che sono egocentriche le tre prime categorie, da noi stabilite, del linguaggio infantile (ripetizione, monologo e monologo collettivo), il pensiero del bambino è ancora egocentrico nella sua stessa espressione verbale in una proporzione che va dal 44% al 47% a sei anni e mezzo”.

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Le sue analisi scaturiscono dall’osservazione di un gruppo di bambini nella Casa dei Piccoli

dell’istituto Rousseau a Ginevra.

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Lo psicologo svizzero divide il linguaggio infantile in:

1. Linguaggio egocentrico o individuale, tipico dei bambini. 2. Linguaggio socializzato, tipico degli adulti.

Piaget definisce la funzione del primo tipo di linguaggio, come un linguaggio utilizzato dal bambino per “parlare a se stesso”, per giocare con le parole. “Questo linguaggio è egocentrico, tanto perché il bambino parla solo di sé, quanto soprattutto perché egli non cerca in alcun modo di porsi dal punto di vista dell’interlocutore” [Piaget 1923, trad. it.p. 8]. Mentre definisce il secondo tipo di linguaggio, quello socializzato, come un linguaggio utilizzato dal bambino per scambiare realmente delle idee con altre, per comunicare veramente qualcosa. Ma quali sono le cause che generano il linguaggio egocentrico? I pilastri su cui si regge il linguaggio egocentrico sono tre:

1. La ripetizione pura o ecolalia. 2. Il monologo puro. 3. Il monologo a due o collettivo.

1) Nei primi anni di vita il bambino ama ripetere e imitare le parole, i suoni che sente, senza preoccuparsi della presenza di un interlocutore. Il punto cruciale è: perché lo fa? Secondo Piaget si tratta di meccanismi inconsci, che accompagnano le attività infantili: il gioco, i disegni etc. Per usare la metafora utilizzata da Piaget, il linguaggio egocentrico e le tre categorie su cui si basa, accompagnano le attività ed esperienze psichiche del bambino senza interferire con esse, così come l’accompagnamento, in un’esibizione musicale, segue la melodia principale senza mutare o interferire nel corso della melodia principale. E’ noto il suo esempio, quello di un bambino di circa cinque anni che mentre stava disegnando un tram, ripete la frase, senza interrompere il disegno, di un altro bambino distante da lui e che senza rivolgersi a lui o a qualcun altro, aveva detto: “Un signore che è buffo”. Si tratta di discorsi a intermittenza, ellittici, che non sono rivolti ad un interlocutore, ma bensì la loro funzione è quella di procurare piacere nel ripetere delle parole, nel sentirle udire.

2) Di questa seconda forma di linguaggio egocentrico, la fabulazione, ne è una conseguenza importante per la sua comprensione e

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in generale per comprendere il linguaggio infantile. In questo caso il bambino non si serve delle parole semplicemente per accompagnare o accelerare le sue azioni o movimenti, ma per produrre una realtà, agendo attraverso la parola, senza avere contatti con cose o persone. In questo caso il bambino, dimentica l’azione e non fa altro che parlare ad alta voce, senza preoccuparsi se gli altri lo stanno ascoltando o meno.

3) Per quanto riguarda, invece, la terza forma di linguaggio egocentrico, si tratta di una “pseudo-informazione”, di un annuncio verbale senza, però, la funzione di comunicazione. E’ definito “collettivo” o “esteriore”, in quanto il “monologare” avviene dinanzi alla presenza di altre persone, credendo che gli altri lo ascoltino, senza preoccuparsi però di essere compreso o meno, da qui la differenza con il monologo puro.

3.2 Vygotskij: natura e destino del linguaggio egocentrico

In contrasto con la teoria di Piaget, Vygotskij pone l’attenzione sul ruolo formativo dell’ambiente che circonda il bambino, a livello storico-culturale o sociale. Per Vygotskij lo sviluppo del bambino dipende dall’ambiente culturale in cui vive, per cui un bambino che vive nella savana ha un ambiente culturale diverso da un bambino che vive in città, di conseguenza gli strumenti culturali con cui ognuno di loro viene a contatto sono diversi. Piaget, invece, non prende in considerazione i fattori culturali, ovvero l’appartenenza a un gruppo, ceto sociale etc., che condizionano le risposte del bambino. A lui interessa soltanto descrivere le differenze del comportamento mentale del bambino, a seconda dell’età, rispetto al comportamento mentale dell’adulto. Mentre per lo psicologo sovietico, non solo lo sviluppo intellettivo del bambino ha un andamento dinamico, ma egli attribuisce anche particolare importanza a uno degli “strumenti” di questo sviluppo: il “linguaggio”.

Così, se in un primo momento il linguaggio è sociale, cioè serve soprattutto a comunicare, verso i sei-sette anni diventa egocentrico e poi interiore, permettendo al bambino di riflettere su un problema senza tener conto dell’ambiente. Lo psicologo sovietico, infatti, esamina la tesi dell’egocentrismo del pensiero infantile da una prospettiva del tutto nuova. Per Vygotskij, infatti, l’egocentrismo non è uno stadio intermedio tra il pensiero autistico e quello socializzato, non è, dunque, il punto di partenza dal quale poi si sviluppano le forme successive del pensiero.

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Nello spiegare ciò sposta la sua attenzione verso l’ambiente che circonda il bambino. Contrariamente a Piaget, per cui l’ambiente esterno è visto come esterno alla persona, e che dirige lo sviluppo del pensiero infantile tramite meccanismi di costrizione e pressione. Egli, rivaluta la funzione del sociale, della dimensione sociale o pubblica, considerando il bambino come soggetto delle relazioni sociali, come facente parte del sociale, in completa simbiosi fin dalla nascita.

In che cosa consiste realmente il processo di socializzazione? Per Piaget consiste nel fatto che il bambino comincia a pensare non più solo per sé, ma adatta il suo pensiero a quello degli altri. Per Vygotskij consiste, invece, nell’attività pratica del bambino, nell’essere un tutt’uno con la realtà, nel fondersi con l’esperienza. E’, dunque, la situazione sociale l’elemento fondamentale originale che ha rivoluzionato il modo di intendere la funzione egocentrica del linguaggio.

Ciò che vogliamo dimostrare ai fini di questa tesi è come il linguaggio egocentrico possa essere considerato sì uno stadio intermedio nello sviluppo del linguaggio, ma che va da quello esterno a quello interno e non viceversa. In Piaget abbiamo visto come il linguaggio sociale sia il risultato finale dello sviluppo del pensiero e come il linguaggio egocentrico scompaia in età scolare. Per rendere più chiara l’idea possiamo provare a rappresentare graficamente lo sviluppo del linguaggio egocentrico secondo la sua teoria. Esso può essere rappresentato da una curva che è al suo massimo sviluppo all’età di tre anni e che decresce man mano ci si avvicina all’età scolare, dei sette anni, fino appunto a scomparire.

Fig. 3.1 Sviluppo e destino del linguaggio egocentrico secondo la teoria di Piaget.

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E’ proprio contro questa concezione che si dirigono le ricerche di Vygotskij: “La funzione iniziale del linguaggio è la funzione della comunicazione, del legame sociale, dell’azione su coloro che sono attorno, sia dalla parte degli adulti che dalla parte del bambino. Così il primo linguaggio del bambino è puramente sociale; *…+ Solo più tardi, nel processo della crescita, il linguaggio sociale del bambino, che è multifunzionale, si sviluppa secondo il principio della differenziazione in funzioni particolari e ad una certa età deve differenziarsi nettamente in linguaggio egocentrico e comunicativo” [Vygotskij 1934, trad. it. p. 57]. Il bambino trasferisce, dunque, le forme sociali di comportamento nella sfera delle funzioni psicologiche personali (introiezione) e non inversamente. Il processo va dalla funzione interpsichica o preindividuale a quella intrapsichica, che coincide con la costituzione di un io autonomo.

Mentre, dunque, per Piaget il linguaggio egocentrico del bambino rappresenta un’insufficiente socializzazione del linguaggio infantile, secondo, invece, la teoria di Vygotskij, il linguaggio egocentrico del bambino rappresenta il passaggio dalle funzioni interpsichiche, cioè dalle forme di attività sociale, a quelle intrapsichiche, cioè alle funzioni individuali: la socialità interna del bambino è il tratto fondamentale del suo sviluppo. “Nello sviluppo culturale del bambino ogni funzione compare due volte, su due piani: dapprima compare sul piano sociale, poi sul piano psicologico. Prima compare tra due persone, sotto forma di categoria interpsicologica, poi all'interno del bambino, come categoria intrapsicologica” [Vygotskij 1978, trad. it. 1981, p. 163]. Secondo Vygotskij il destino del linguaggio egocentrico non è quello di scomparire in età scolare, ma al contrario, è quello di evolversi e di svilupparsi con l’età del bambino; perciò esso può essere rappresentato con una curva ascendente.

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Fig. 3.2 Sviluppo del linguaggio egocentrico. Secondo Vygotskij va da un minimo di zero all’età di tre anni a un massimo di cento a sette anni.

E’ proprio in questo passaggio (dal linguaggio sociale del bambino di tre anni a quello di sette) che si esprime la separazione del linguaggio interno (per sé) e del linguaggio esterno (per gli altri). Il destino del linguaggio egocentrico è quello di trasformarsi in linguaggio interno. Infatti, durante questo passaggio, il linguaggio egocentrico si allontana dal linguaggio esterno, perdendo la sua vocalizzazione, la sua sonorità, dando l’illusione di scomparire in età scolare; in realtà esso cessa di essere un linguaggio sonoro per divenire un linguaggio interno, in cui vi è un’assenza di vocalizzazione. E’ per questo motivo che il linguaggio egocentrico è considerato il metodo fondamentale per conoscere la natura del linguaggio interno. Possiamo a questo punto definire il linguaggio interno come la scomparsa della parola e l’origine del pensiero.

In tutto questo che funzione ha il linguaggio egocentrico? Esso ha la funzione di “gradino intermedio”, di transizione dal linguaggio esterno a quello interno, mentre per Piaget si trattava di un gradino intermedio dall’autismo e, dunque, dall’individuale al sociale. Lo schema, dunque, su cui si basa Vygotskij è: Linguaggio Sociale-Linguaggio Egocentrico-Linguaggio Interno. Questa è l’idea guida, dominante, di tutta la critica di Vygotskij a Piaget.

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Ma è davvero possibile che esista un linguaggio egocentrico indipendente e distaccato dalla realtà o pensiero realistico, intendendo con quest’ultimo quello dell’obbiettività, del linguaggio e dei concetti logici? Secondo Piaget, come abbiamo visto, la risposta è affermativa. Per Vygotskij la verità, invece, sta nel considerare questi due elementi un’unità. Non esiste, dunque, uno iato o frattura fra i due elementi, ma vi è al contrario un continuum, o per usare le parole di Saussure, questi due elementi possono essere considerati le due facce di uno stesso foglio.

Nel prossimo paragrafo analizzeremo i legami che uniscono il linguaggio egocentrico al linguaggio interno.

3.3 Pensiero verbale

Abbiamo visto come Piaget sia stato il primo a mettere in rilievo la particolare funzione del linguaggio egocentrico del bambino. Noi intendiamo fare un passo in avanti rispetto alla sua teoria analizzando i rapporti di parentela e, dunque, il legame genetico che vi è fra il linguaggio egocentrico e il linguaggio interno. Innanzitutto bisogna chiarire che cosa si intende per linguaggio interno. Il linguaggio interno – così lo definisce Vygotskij – è un linguaggio per se stessi. Può essere definito come il linguaggio egocentrico in profondità, che si sviluppa all’inizio dell’età scolare. Esso, dunque, non precede il linguaggio esterno né lo riproduce nella memoria, ma è all’opposto di quello esterno. Quest’ultimo è il linguaggio per gli altri: è la materializzazione del pensiero nella parola.

Secondo la nostra ipotesi, quindi, il linguaggio egocentrico precede lo sviluppo del linguaggio interno. Data questa premessa, il linguaggio egocentrico può essere considerato come la chiave di lettura del linguaggio interno. Abbiamo visto come per Piaget, il linguaggio egocentrico sia stato definito come un fenomeno concomitante (mentre per Vygotskij si tratta di un fenomeno autonomo), una sorta di accompagnamento delle attività del bambino, destinato a scomparire in età scolare.

Fin qui abbiamo preso, dunque, in considerazione gli aspetti teorici dello sviluppo del linguaggio. Ma quali rapporti esistono tra il linguaggio e il pensiero? Possiamo tentare di dare una risposta riflettendo su alcune ipotesi che sono affiorate nel corso di questa esposizione.

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Abbiamo visto nell’interpretazione di Piaget come il linguaggio non sia un prerequisito per lo sviluppo del pensiero, ma solamente che tra pensiero e linguaggio esiste piuttosto una “circolarità genetica”, ossia che nessuna delle due funzioni è causa od effetto dell’altra. Per quanto riguarda la funzione sociale del linguaggio, secondo Piaget, il linguaggio diventa “socializzato” solo quando il pensiero acquista la caratteristica di “reversibilità”, subendo un decentramento cognitivo. In queste ultime osservazioni di Piaget emerge la principale differenza con il pensiero di Lev Vygotskij *1934+, per il quale non c’è all’inizio alcun legame tra pensiero e linguaggio e nessun rapporto di reciproca dipendenza tra i processi intellettuali e quelli verbali. La relazione tra pensiero e linguaggio infatti si crea solamente durante lo sviluppo della coscienza, e il linguaggio, attraverso la comunicazione. Secondo lo psicologo sovietico, durante la crescita il linguaggio viene a determinare maggiormente i contenuti del pensiero. Al contrario di quanto afferma Piaget, per Vygotskij il linguaggio ha inizialmente la forma di comunicazione sociale e solo successivamente al linguaggio sociale si accompagna il linguaggio di tipo interiore, molto simile al linguaggio egocentrico proposto da Piaget (sincretismo, mancanza di rapporti sintattici tra i componenti di una frase, ecc.). Quest’ultimo all’opposto di quanto sosteneva Piaget, non scompare ma, nel corso dello sviluppo, favorisce il bambino in quanto gli permette di accompagnare le fasi strategiche della soluzione di un problema. Se, ad esempio, un bambino deve addizionare due numeri assistiamo all’elaborazione delle sue ipotesi ad alta voce. Possiamo, dunque, affermare che il bambino trasforma la ricerca risolutiva ad alta voce con l’uso del linguaggio interiore. Perciò, se in un primo momento il pensiero e il linguaggio non hanno un forte legame, con il tempo, finiscono per integrarsi con un processo di interazione reciproca.

In conclusione, il pensiero non coincide con l’espressione verbale; non si esprime nella parola, ma si realizza nella parola. “Per la sua struttura il linguaggio non è un semplice riflesso speculare della struttura del pensiero. Perciò non può vestire il pensiero come un abito confezionato. Il linguaggio non serve come espressione di un pensiero già bello e pronto. Il pensiero, trasformandosi nel linguaggio, si riorganizza e si modifica. Il pensiero non si esprime ma si realizza in una parola” [Vygotskij 1934, trad. it. p. 336]. La parola non è altro che l’unità di pensiero e linguaggio. Questi ultimi, pensiero e linguaggio, sono la chiave di lettura

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per comprendere la natura della coscienza umana. “Se il linguaggio è antico quanto la coscienza, se il linguaggio è la coscienza reale, pratica, che esiste anche per altri uomini e che dunque è la sola esistente anche per me stesso, allora è chiaro che non il solo pensiero, ma tutta la coscienza nel suo insieme è legata nel suo sviluppo a quella della parola” [Vygotskij 1934, trad. it. p. 396]. La funzione della parola è in primo luogo sociale, finalizzata al contatto e all'interazione con gli altri. Poi, man mano che le esperienze sociali si accrescono, il bambino usa il linguaggio come aiuto nella soluzione di problemi interni (una parola può evocare una persona, un animale, un oggetto o situazioni che non sono presenti). Successivamente parlerà a se stesso usando il linguaggio egocentrico.

Il linguaggio egocentrico rappresenta una fase importante della “crescita interna”, il punto di contatto tra il discorso esterno sociale e il pensiero interno. In questo modo il linguaggio acquisisce una seconda funzione (la prima era quella sociale), cioè quella di natura intellettiva, come strumento di strutturazione del pensiero. Il linguaggio interiore ha una natura individuale, privata, silente e permette lo sviluppo della consapevolezza metacognitiva, consapevolezza delle proprie conoscenze, e lo sviluppo delle competenze individuali, che si sviluppa attraverso l’interazione sociale. Di conseguenza il linguaggio umano, la parola, possono essere considerati gli elementi fondamentali che sono alla base delle relazioni sociali. Il linguaggio, che struttura e organizza il comportamento infantile, lo strumento psicologico più importante che ci libera dall’esperienza percettiva, trasformando il pensiero, ci permette di vedere le cose da altri punti, di risolvere problemi diversamente da come farebbe uno scimpanzé dinanzi ad uno ostacolo, grazie al linguaggio interiore, al pensiero verbale, che rende la nostra vita ricca e complessa.

L’importanza delle teorie vygotskijane è stata riconosciuta anche in tempi recenti. Faremo riferimento qui alle ricerche di Andy Clark, scienziato cognitivo post-classico che ha ripreso le teorie dello psicologo sovietico per applicarle alla scienza cognitiva.

3.4 Clark: l’estensione della mente In Natural-born cyborges, ad esempio, Andy Clark, scienziato

cognitivo post-classico, tenta di dare una risposta alternativa alla domanda: fino a che punto i meccanismi di simulazione possono spiegare

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l’interagire con gli altri? Clark, spiega come il solo far riferimento a meccanismi neuronali sia insufficiente per spiegare la natura umana. C’è bisogno di uno studio approfondito dei rapporti mente-corpo-ambiente. Nel fare questo vengono ripresi chiaramente gli studi della psicologia russa: “Il punto è che noi possiamo stimolare computazionalmente il processo esterno e di qui, qualche volta far nostre certe competenze cognitive che sono non di meno radicate in manipolazioni del mondo esterno: la scienza cognitiva incontra

la psicologia russa” [Clark 1997, trad. it. p. 48].

Per arrivare a questa unione mente-corpo-ambiente Clark rifiuta la classica distinzione interno/esterno e tenta di risolvere il dualismo cartesiano tra res cogitans e res extensa, introducendo un terzo elemento: l’impalcatura (scaffolding):

“Prima di sera, comunque, spero di convincervi almeno di questo: che l'antico dilemma, il problema mente-corpo, in realtà nasconde in sé un terzo elemento: è il problema del rapporto tra mente, corpo e impalcature [mind-body-scaffolding problem]. È il problema di comprendere in che modo il pensiero e la ragione umana abbiano tratto sostegno da interazioni circolari tra cervelli materiali, corpi materiali e complessi ambienti culturali e tecnologici. Questi ambienti di supporto noi li creiamo, ma sono anche loro a creare noi. Esistiamo, come gli esseri pensanti che siamo, solo grazie a un balletto confuso tra cervelli, corpi e supporti culturali e tecnologici. Comprendere questo nuovo assetto evolutivo è decisivo per la nostra scienza, per i nostri principi morali e

l'immagine di noi stessi sia come specie che come persone” [Clark trad. it, 2004 p. 175].

Clark riprende chiaramente Vygotskij:

“L'idea di impalcatura proviene dal lavoro dello psicologo russo Lev Vygotskij. Vygotskij pose l'accento sul modo in cui l'esperienza di strutture esterne (incluse quelle linguistiche, come parole e proposizioni; vedi il Capitolo 10) può alterare e informare di sé un metodo individuale di calcolo e di comprensione. La tradizione che ne seguì incluse la nozione di una zona di sviluppo prossimale: l'idea era che l'aiuto dell'adulto, offerto in certi momenti decisivi dello sviluppo, avrebbe dato al bambino l'esperienza di azioni riuscite che il bambino da solo non avrebbe dato al bambino l'esperienza di azioni riuscite che il bambino da solo non avrebbe potuto produrre. Offrire un sostegno ai primi esitanti passi di un bambino, che cammina appena, e sostenere un bambino nell'acqua per

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consentirgli movimenti natatori, sarebbero stati i casi esaminati” [Clark 1997, trad. it. p. 34-35].

Il cervello, in pratica, altro non è che il luogo in cui le strutture interne interagiscono direttamente con l’ambiente esterno *scaffolded brain+. Esso diventa una “macchina associativa” capace di collegarsi, creare e subire influenze da artefatti esterni come il linguaggio e la cultura.

L’impalcatura esterna 12 è una qualsiasi struttura presente nell’ambiente che ci permette di semplificare la natura di un compito cognitivo” “Marraffa 2002, Scienza cognitiva, p. 196” (ovvero di un’azione epistemica), come in uno degli esempi utilizzato da Clark, quello del gioco dello Scarabeo, di riorganizzare le tessere con le lettere, ad esempio I O A C (un’azione epistemica), al fine di comporre la parola CIAO. Le tessere fungono in questo caso da impalcatura esterna, in quanto costituiscono una parte del mondo che aiuta il nostro pensiero. Già altri autori prima di Clark avevano tentato di dare una soluzione differente al problema cartesiano della corrispondenza fra res cogitans e res extensa. Tanto per fare un esempio basta pensare a Gottfried Leibniz, autore della Monadologia. Leibniz introdusse a tal proposito il concetto di monade, intesa come ciò che riproduce dentro di noi il mondo esterno, senza aver rapporti con esso, non hanno né porte né finestre, affermava Leibniz. Clark nel suo libro ruota intorno a domande del tipo: perché l’uomo è così diverso dagli altri animali nonostante a livello corporeo e neuronale non ci sono molte differenze? Perché è così difficile costruire un robot pensante decente? Perché la perdita del nostro Pc ci sconvolge così tanto quasi come se a colpirci fosse stato un ictus? Secondo Clark se “la mente è intesa come l’organo fisico della ragione umana, allora non la si può limitare al meccanismo di cellule neuronali”. Precedentemente, tornando a Leibniz, il filosofo vissuto alla fine del XVII secolo aveva affermato che se posto il cervello ad un mulino ed entriamo in esso per visitarne all’interno la sua struttura ciò che vedremo saranno: neuroni, atomi, molecole ecc., che in quanto sostanze materiali possiamo vedere. Pensieri, idee ecc. non sono infatti considerate entità spirituali per il fatto che sono invisibili, ma bensì entità logiche:

12

E’ un concetto vygotskijano.

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“Perché se fingiamo che ci sia una macchina, che possa strutturalmente pensare, sentire, percepire, la si potrà concepire ingrandita, ma in modo tale che abbia conservato le stesse proporzioni, di modo che vi si possa entrare come in un mulino. Supposto questo, si troveranno, visitandone l’interno, solo parti che si spingono reciprocamente, mai qualcosa che spieghi la percezione. Perciò occorre cercarla nella sostanza semplice e non nel composto o macchina. Non si può trovare altro che questo nella sostanza semplice: non vi è nulla in essa al di fuori delle percezioni e dei loro mutamenti. Solo in questo possono consistere tutte le azioni interne delle sostanze semplici”13.

Rimangono, comunque, in sospeso molte domande. Ma allora il linguaggio, i pensieri, dove si trovano? Sono forse fuori dalla mia testa? La risposta che dà Clark è:

“La mente, se deve essere l'organo fisico della ragione umana, semplicemente non può essere vista come limitata e retta all'interno dell'involucro cutaneo. Infatti, essa non ha mai subito simili limitazioni, perlomeno da quando la prima parola dotata di senso fu pronunciata in qualche pianura ancestrale. Ma questo antico processo di infiltrazione sta acquistando forza con l'avvento di word processor, PC, agenti software che con questi coevolvono, dispositivi domestici e d'ufficio che si adattano alle esigenze di chi li utilizza. La mente, oramai, è

sempre meno nella testa”. [Clark trad. it, 2004 p. 169]

Anche questa tesi è chiaramente vygotskijana. Il linguaggio, per Clark, altro non è che “l’artefatto fondamentale”. Esso estende le capacità di una mente naturale. C’è però da fare una precisazione: mentre per Vygotskij il linguaggio struttura il pensiero per Clark esso integra ma non trasforma il “profilo d’elaborazione che condividiamo con gli altri animali” [Clark 1997, p. 175].

Fatto sta che la mente, ormai, è sempre meno nella testa. Appare chiaro, dunque, che essa è stata “progettata” per fondersi con i nostri strumenti, il primo fra tutti il linguaggio. Analizzeremo quest’ultimo aspetto nel prossimo paragrafo.

13

Leibniz, G. W 1970, Monadologia, La Nuova Italia, Firenze.

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3.5 Il linguaggio come strumento esterno

[Kubrick, 1968]

Un’immagine, quella sopra inserita, che ha reso familiare questo aspetto, ovvero come gli utensili siano parte di noi e come lo siano sempre stati, è quella tratta da un noto film di Stanley Kubrick, 2001 Odissea nello spazio (1968). Il film mostra, dando molta importanza alle immagini, come fin dalla prima comparsa dell’uomo, ovvero dal momento in cui i nostri antenati, molto probabilmente un gruppo di scimpanzé, aveva compreso che un semplice “osso” di animale poteva essere utilizzato come utensile, come arnese, è da quel momento che ha avuto origine la grande storia culturale dell’uomo come costruttore di strumenti. Il film infatti, mostra, con un espediente cinematografico-psicanalitico detto “condensazione”, come da un semplice osso utilizzato come strumento si sia passati alla costruzione di navicelle spaziali sempre più sofisticate. La sicurezza con la quale già i nostri antenati o progenitori maneggiavano “arco e freccia” o arnesi di selce come armi per uccidere la selvaggina, può essere paragonata alla sicurezza con la quale noi oggi abbiamo a che fare con computer e nuove tecnologie, quasi come se questi strumenti fossero organi cresciuti sul corpo umano.

Oggi, continuando ancora per poche righe su questa linea, Derrick De Kerckhove, famoso sociologo e teorico della comunicazione, definisce i new media come psicotecnologie ovvero come estensione delle nostre

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facoltà umane (pensiero, linguaggio, visione ecc.). “Così come – afferma De Kerckhove – l’automobile è considerata l’estensione del nostro piede, il cellulare l’estensione della nostra mano, così il computer può essere considerato l’estensione del nostro sistema nervoso centrale: il cervello”. Per accorgerci di tutto ciò basti pensare al “cyberspazio”14, territorio effimero che diventa luogo di convergenza di persone reali. Lo stesso Marshall McLuhan, maestro di De Kerckhove, in una delle sue opere più importanti The medium is the message *1967+, affermò come “we shape our tools and they in turn shape us”, ovvero come “noi creiamo i nostri mezzi, ma come siano essi a loro volta a trasformarci”. In base al mezzo che utilizziamo attraverso il quale il messaggio viene recepito, si crea, dunque, un certo tipo di configurazione mentale.

Con ciò non intendiamo fare un’analisi dettagliata delle nuove tecnologie, bensì dimostrare come la mente umana sia “radicalmente” sociale e come ciò che distingue noi umani da altre specie, sia proprio questa capacità della nostra mente di fondersi con utensili, strumenti, tecnologie, contribuendo alla creazione di un ambiente non biologico ma bensì culturale e come ciò abbia rivoluzionato il rapporto fra pensiero e linguaggio, uno dei temi centrali di questa tesi. Clark, nel tentativo di sfuggire al dualismo cartesiano, in realtà considera il linguaggio come un fenomeno esterno, o meglio, come la “tecnologia cognitiva” fondamentale che ha dato origine a una valanga di sviluppi.

Rimaniamo comunque d’accordo con l’impostazione vygotskijana: è l’avvento del linguaggio umano, diverso dagli altri sistemi di comunicazione animale, che strutturando quello che lo psicologo sovietico stesso ha chiamato “pensiero verbale” rende l’uomo tale. Più di uno, meno di due.

14

Il termine è stato coniato dallo scrittore punk Wiliam Gibson nel romanzo Neuromante (1984).

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Conclusione

In questo libro abbiamo cercato di dimostrare come la socialità o co-vivere degli animali si differenzi dal co-vivere “cittadino” o “politico” (da “pólis”, “città”) degli uomini e come tale differenza sia dovuta ad una specificità naturale del vivere umano che è l’agire linguistico.

Riassumendo le tappe fin qui percorse, possiamo dire che siamo partiti dalla teoria del neurofisiologo italiano, Vittorio Gallese, il quale analizza la relazione dell’animale umano con i propri simili basandosi su meccanismi neurofisiologici, quali i neuroni mirror, che sono alla base dell’intersoggettività originaria o innata, che va a costituire quello che Gallese ha definito “spazio noi-centrico”, spazio sub-personale e pre-individuale che precede la formazione dell’Io. “Credo che questo contributo delle neuroscienze – afferma Gallese in una delle sue interviste più recenti (Cimatti 2005 per il Manifesto del 22 giungo) – possa essere importante nel suscitare nuove riflessioni in ambito etico, politico ed economico. Perché ha messo in luce come la reciprocità che ci lega all'altro sia una nostra condizione naturale, pre-verbale e pre-razionale”.

Gallese spiega, dunque, la socialità o il co-vivere facendo riferimento limitatamente a basi neurofisiologiche comuni a tutte le menti. Fin qui abbiamo dunque analizzato un tipo di relazione sociale immediata, cioè non mediata dal linguaggio. In particolare con questo libro abbiamo voluto cercare di capire cosa cambia nelle relazioni intersoggettive quando entra in gioco il linguaggio verbale.

A tal proposito ci siamo spostati sul piano psicologico, analizzando le novità introdotte nella psicologia, rispetto a quella tradizionale, di due grandi psicologi: l’inglese Donald Winnicott e il sovietico Lev Vygotskij. La novità del primo consiste nell’aver introdotto il concetto di “spazio potenziale”, area intermedia di esperienza umana che si trova tra l’individuo e l’ambiente. Zona intermedia che nelle prime fasi di sviluppo unisce e separa il bambino dalla madre, mentre nelle fasi successive acquista una notevole importanza nelle relazioni di gruppo, nei rapporti interpersonali tra individuo, società o mondo. Secondo lo psicologo inglese, quest’area è caratterizzata dai cosiddetti “oggetti transizionali”, oggetti intermedi tra il soggetto e l’ambiente. Tale area svolge un ruolo importante in fenomeni, quali il gioco, la creatività artistica, il sogno, ecc.

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Ed è proprio attraverso questi fenomeni, definiti da Winnicott, fenomeni transizionali, quali il gioco e le esperienze culturali, che l’individuo scopre il sé. L’aspetto innovativo da noi proposto, è stato quello di considerare anche il linguaggio umano come un fenomeno transizionale, in quanto anch’esso svolge un ruolo fondamentale in questa fase di acquisizione, di consapevolezza di sé, collocando l’azione linguistica sul limine tra io e non io. L'oggetto transizionale è un ponte che aiuta il bambino ad entrare in contatto con la realtà permettendogli di adattarsi ai cambiamenti e di superare le difficoltà. Ogni bambino crea quindi il proprio oggetto transizionale nel momento in cui investe qualcosa di significativamente affettivo e personale. E’ proprio qui che la nostra analisi ha prodotto l’applicazione del concetto di “oggetto transizionale” al linguaggio. Considerando il linguaggio come oggetto transizionale abbiamo messo in mostra il carattere “liminare” del linguaggio, sospeso tra l’ambiente esterno e quello interno proprio del corpo. Siamo giunti a definire il linguaggio come l’oggetto che permette di rompere la linea di confine, limen appunto, tra l’io ed il non-io e che permette al bambino di passare, la transizione appunto, “dal gioco alla realtà”.

Nella parte conclusiva di questo volume abbiamo esaminato le teorie dello psicologo sovietico che, in contrasto con le teorie di Jean Piaget, aveva considerato il linguaggio, inteso come strumento e segno, molto vincolante nello sviluppo del bambino e soprattutto alla base della strutturazione diretta del pensiero umano e delle relazioni sociali. A questa concezione abbiamo fatto seguire quella di Andy Clark, uno dei più importanti scienziati cognitivi post-classici, che spiega il co-vivere estendendo le capacità della mente oltre il cervello, al fine di proporre un’unione tra mente-corpo-ambinte, introducendo un ulteriore elemento: quello dell’impalcatura esterna o scaffolding. Allo stesso modo Clark va oltre la concezione classica. Nel suo ultimo testo, infatti, egli espone la teoria secondo la quale “immaginare, parlare e conoscere non sono il risultato algoritmico di microchip chiusi in una scatola (la nostra testa) ma il frutto di un lavoro sociale tanto quanto mangiare, zappare o pescare” [Clark 2003, trad. it. p. 167]. Abbiamo visto, dunque, come Clark finisca col mettere in discussione delle risposte che la scienza cognitiva classica, ma non solo, aveva dato a domande riguardanti l’essenza stessa del concetto di natura umana. La sua importanza, parlando del concetto di “mente estesa”, sta nell’aver concepito il linguaggio come uno di quegli “strumenti

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esterni” (per usare una felice espressione vygotskijana). Anzi, il più importante strumento tale da permettere la ristrutturazione del modo di pensare dell’essere umano.

Dopo aver esposto i punti salienti di questo nostro lavoro, abbiamo avanzato un’ipotesi, o meglio, abbiamo cercato di trovare le analogie e le consonanze tra le teorie di questi tre grandi autori, soltanto in apparenza così distanti. Per Gallese, infatti, è impossibile spiegare l’intersoggettività neuronale partendo da modelli cognitivi di menti già formate come individui, ma al contrario tutto ciò avviene prima della formazione dell’individuo o singolo “io”. Egli postula, dunque, l’esistenza di uno spazio noi-centrico, che potrebbe essere paragonato a quello che Winnicott definisce spazio potenziale, per il fatto che si tratta in entrambi i casi di un’area che precede la formazione dell’io. Ciò che, infatti, unisce Winnicott e Gallese è che entrambi giudicano questo spazio come una dimensione permanente della vita umana, cioè che perdura per tutta la vita nelle forme di gioco, cultura, arte, che altro non sono se non il proseguimento nobile di questo mondo o area in cui non è possibile la netta separazione fra interno ed esterno, fra “io” e “non io”, fra i neuroni e il linguaggio. Entrambi dunque parlano di uno spazio interpersonale, cioè di uno spazio che condividiamo con gli altri, fin dall’inizio della nostra vita e che continua anche in età adulta ad occupare una consistente porzione del nostro spazio semantico sociale. L’assenza di un soggetto autocosciente non preclude tuttavia la costituzione di uno spazio primitivo “se-altro”, caratterizzando così una forma paradossale d’intersoggettività priva di soggetto. Infine, possiamo notare ancora, come in realtà queste tesi, quella che postulano una mente sociale prima ancora che si formi una mente individuale, sia presente prima ancora in Vygotskij, secondo cui lo sviluppo va dalla mente sociale alla mente individuale. Il processo va dalla funzione interpsichica o preindividuale, cioè dalle forme di attività sociale, a quella intrapsichica, cioè alle funzioni individuali, che coincide con la costituzione di un “io” autonomo. Anche per Vygotskij questo discorso intrapsichico ha origine nell’infanzia e continua in età adulta.

Al termine della nostra analisi siamo dunque giunti alla conclusione che il linguaggio verbale, svolge un ruolo fondamentale nelle relazioni sociali, in quanto permette di delimitare il confine tra io e non io, ovvero tra l’essere solo coscienti e l’essere autocoscienti, di strutturare e

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ristrutturare continuamente il pensiero umano. Il cantiere “natura umana” è aperto: i lavoratori si facciano avanti. C’è posto per tutti. Ma attenti all’uso degli strumenti e dei segni.

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Winnicott, D. W. Playing and Reality; trad.it. Gioco e realtà, Armando Editore, Roma, 1974.

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Valeria Dattilo (23 giugno 1983) ha conseguito il dottorato di ricerca (Ph.D) presso l’Università della Calabria. Si occupa di filosofia del linguaggio ed è la coordinatrice della segreteria della redazione Il Sileno – Onlus sezione scientifica Filosofie(e)Semiotiche, una rivista scientifica on-line. Dal 2012 è anche socia della Società Italiana di Filosofia del Linguaggio (SFL). Tra le sue ultime pubblicazioni scientifiche, si annoverano i seguenti articoli in inglese: “Crisis and Restoration of the form of life in De Martino and Wittgenstein”, Al-Mukhatabat , A Trilingual Journal For Logic Epistemology and Analytical Philosophy, 9 (2014): 139-149. “Geoethics, Neogeography and risk perception: myth, natural and human factors in archaic and postmodern society”, in Earthquakes and their impact on Society, Springer Natural Hazards, Berlin, 2014 (in corso di stampa).

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ISBN: 978-88-98161-06-5