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CENTRO ALTI STUDI PER LA DIFESA CENTRO MILITARE DI STUDI STRATEGICI Nicola Pedde Information campaign del DAESH contro l’Occidente (Codice AL-SA-08)

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CENTRO ALTI STUDI PER LA DIFESA

CENTRO MILITARE DI STUDI STRATEGICI

Nicola Pedde

Information campaign del DAESH

contro l’Occidente

(Codice AL-SA-08)

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Il Centro Militare di Studi Strategici (Ce.Mi.S.S.) è un organismo istituito nel 1987 che gestisce,

nell’ambito e per conto della Difesa, la ricerca su temi di carattere strategico. Tale attività permette

di accedere, valorizzandoli, a strumenti di conoscenza ed a metodologie di analisi indispensabili per

dominare la complessità degli attuali scenari e necessari per il raggiungimento degli obiettivi che le

Forze Armate, e più in generale la collettività nazionale, si pongono in tema di sicurezza e difesa.

La mission del Centro, infatti, nasce dalla ineludibile necessità del Ministero della Difesa di svolgere

un ruolo di soggetto attivo all’interno del mondo della cultura e della conoscenza scientifica

interagendo efficacemente con tale realtà, contribuendo quindi a plasmare un contesto culturale

favorevole, agevolando la conoscenza e la comprensione delle problematiche di difesa e sicurezza,

sia presso il vasto pubblico che verso opinion leader di riferimento.

Più in dettaglio, il Centro:

● effettua studi e ricerche di carattere strategico politico-militare;

● sviluppa la collaborazione tra le Forze Armate e le Università, centri di ricerca italiani, stranieri ed

Amministrazioni Pubbliche;

● forma ricercatori scientifici militari;

● promuove la specializzazione dei giovani nel settore della ricerca;

● pubblica e diffonde gli studi di maggiore interesse.

Le attività di studio e di ricerca sono prioritariamente orientate al soddisfacimento delle esigenze

conoscitive e decisionali dei Vertici istituzionali della Difesa, riferendosi principalmente a situazioni

il cui sviluppo può determinare significative conseguenze anche nella sfera della sicurezza e difesa.

Il Ce.Mi.S.S. svolge la propria opera avvalendosi di esperti civili e militari, italiani e stranieri, che

sono lasciati liberi di esprimere il proprio pensiero sugli argomenti trattati.

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(Codice AL-SA-08)

CENTRO ALTI STUDI PER LA DIFESA

CENTRO MILITARE DI STUDI STRATEGICI

Nicola Pedde

Information campaign del DAESH

contro l’Occidente

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Information campaign del DAESH contro l’Occidente

NOTA DI SALVAGUARDIA

Quanto contenuto in questo volume riflette esclusivamente il pensiero dell’autore, e non quello del Ministero della Difesa né delle eventuali Istituzioni militari e/o civili alle quali l’autore stesso appartiene.

NOTE Le analisi sono sviluppate utilizzando informazioni disponibili su fonti aperte. Questo volume è stato curato dal Centro Militare di Studi Strategici Direttore Amm. Div. Mario Caruso Vice Direttore – Capo Dipartimento Sociologia Militare Col. c (li.) s.SM Andrea Carrino Progetto grafico Massimo Bilotta - Roberto Bagnato Autore Nicola Pedde Stampato dalla tipografia del Centro Alti Studi per la Difesa

Centro Militare di Studi Strategici Dipartimento Sociologia Militare

Palazzo Salviati Piazza della Rovere, 83 - 00165 – Roma

tel. 06 4691 3203 - fax 06 6879779 e-mail [email protected]

Chiusa a dicembre 2016

ISBN 978-88-99468-51-4

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INDICE

ABSTRACT

p. 7

PARTE I

La parabola di una Nazione artificiale e della sua complessa

società

p.

9

Dalla caduta dell’impero ottomano al partito Ba’th p. 10

Il partito Ba’th p. 12

Saddam Hussein p. 14

Le tre guerre di Saddam: Iran-Iraq, Kuwait e guerra del Golfo,

l’invasione USA

p. 18

L’Iraq post ba’thista dal 2003 ad oggi p. 20

PARTE II

La genesi dello Stato Islamico

p.

25

L’islamismo sunnita in Iraq p. 25

L’Esercito degli Uomini dell’Ordine dei Naqshbandi p. 27

Le origini dell’ISIS e il ruolo di al-Zarqawi p. 32

L’ISIS di al Baghdadi e la separazione da al Qaeda p. 33

La diffusione globale del Daesh p. 37

PARTE III

La comunicazione strategica dello Stato Islamico come

innovazione

p.

41

I pilastri della comunicazione dell’ISIS p. 42

La teoria dei sei elementi narrativi di Charlie Winter p. 44

La struttura organizzativa del sistema di comunicazione strategica

dell’ISIS

p. 46

L’Al Hayat Media Centre p. 47

L’uso di tecnologie e applicazioni criptate p. 50

La narrativa della com/strat dell’ISIS in contrapposizione a quella di

Al Qaeda

p. 52

I media dello Stato Islamico: l’agenzia Amaq p. 54

I media dello Stato Islamico: la radio Al Bayan p. 56

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6

I media dello Stato Islamico: la rivista Dabiq p. 57

I media dello Stato Islamico: la rivista Rumiyah p. 58

PARTE IV

Contropropaganda e risposta alla capacità tecnico-

organizzativa dell’ISIS

p.

60

La risposta economica e cinetica alla capacità attrattiva dello Stato

Islamico

p. 61

La risposta ideologica alla narrativa dello Stato Islamico p. 65

a. Ideazione di un piano contro-narrativo p. 66

b. Reinserimento degli ex combattenti p. 69

c. Promozione degli obiettivi di integrazione professionale e sociale p. 70

d. Lotta al settarismo, tribalismo e fazionalismo p. 71

e. Costruzione di modelli partecipativi giovanili p. 72

Ipotesi di sviluppo di una contro-narrativa a sostegno delle missioni

condotte dalle FFAA in teatro operativo

p.

73

CONCLUSIONI p. 79

Nota sul CeMiSS e nota sull’autore p. 81

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ABSTRACT

Lo Stato Islamico - o Daesh, dal suo acronico arabo - è una formazione jihadista atipica e

del tutto differente dalle molte che oggi si dividono la scena del fondamentalismo nei molti

conflitti che interessano il Medio Oriente.

Lo Stato Islamico è il prodotto della disgregazione politica e sociale dell’Iraq post-invasione,

della mancata riconciliazione nazionale e del crescente settarismo confessionale che giorno

dopo giorno rischia di trascinare la regione nel baratro di un conflitto senza fine.

Sorto da una matrice eterogenea che include le forze dell’ex apparato ba’thista di Saddam

Hussein e del radicalismo sunnita, lo Stato Islamico si è posto al tempo stesso come nemico

della maggioritaria comunità sciita irachena ma anche delle formazioni islamiste tradizionali

di estrazione qaedista, divenendo in breve tempo una struttura del tutto autonoma e

preminente in Iraq e in Siria.

Caratterizzato da ambizioni territoriali e politiche - raffigurate idealmente nel Califfato – lo

Stato Islamico si pone al tempo stesso come una forza locale, interessata a difendere il

proprio ruolo e territorio, e un attore globale alla ricerca di una proiezione internazionale.

Altamente sovrastimato sul piano militare, la forza e la tenuta dello Stato Islamico è entrata

pericolosamente in crisi da quando le forze irachene e della comunità internazionale hanno

lanciato sistematici attacchi alle sue roccaforti in Siria e in Iraq.

Contrariamente a qualsiasi altra precedente organizzazione jihadista, tuttavia, lo Stato

Islamico ha impostato una strategia di comunicazione costruita secondo principi moderni e

innovativi, veicolando l’informazione in modo appropriato a differenti contesti sociali, ed

ottenendo straordinari risultati di visibilità e diffusione.

Attraverso la spettacolarizzazione della violenza e del terrore, lo Stato Islamico ha

effettivamente costituito un nuovo capitolo nelle modalità di comunicazione del jihadismo

verso la regione e l’Occidente, contribuendo in tal modo ad ingigantire la percezione della

propria immagine e del proprio potenziale.

Il presente studio individua e analizza le radici storiche e sociali che hanno determinato il

contesto in cui lo Stato Islamico è sorto e si è imposto, anche a danno di molte altre forze

del jihadismo, individuandone i tratti essenziali e tracciandone un bilancio aggiornato e

completo dell’operato.

Viene poi individuata ed analizzata la struttura della comunicazione strategica

dell’organizzazione, spiegandone le logiche di creazione del modello narrativo e i canali di

diffusione della produzione, individuando i tratti innovativi e qualitativi di un modello del tutto

nuovo e tristemente efficace di comunicazione.

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Vengono infine individuati i tratti generali e particolari di una possibile strategia di contrasto

al modello comunicativo dello Stato Islamico, individuando potenziali azioni atte da un lato

a contenerne l’efficacia di diffusione e dall’altro la capacità di ricezione del piano generale

narrativo.

Lo studio illustra e commenta inoltre il vasto panorama di diffusione mediatico dello Stato

Islamico, individuandone le centrali operative e creative, quelle produttive e quelle della

distribuzione, offrendo un’esaustiva panoramica sulla produzione editoriale cartacea,

televisiva e radiofonica dell’organizzazione che certamente più di ogni altra sino ad oggi è

riuscita nel processo di spettacolarizzazione del terrore e della violenza.

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PARTE I

La parabola di una Nazione artificiale e della sua complessa società

Per comprendere come lo Stato Islamico abbia potuto sorgere e consolidarsi in Iraq, un

paese con tradizioni tutto sommato pluraliste e spiccatamente laiche sino a non pochi anni

fa, è necessario ripercorre gli elementi salienti della storia del paese nell’ultimo secolo,

individuando le responsabilità e le circostanze che hanno favorito soprattutto la nascita e il

consolidamento del settarismo.

È infatti in questo ambito, più che in una generica lotta ai valori dell’occidente e alla sua

proiezione politica in Medio Oriente, che devono essere individuati i cromosomi di uno

scontro artificialmente alimentato dall’incompetenza delle potenze coloniali prima, e dagli

interessi di détente della Guerra Fredda poi.

Le dinamiche storiche dell’Iraq permettono quindi di apprezzare non solo l’evoluzione della

politica che ha regolato i rapporti interni ed esterni al paese, ma anche e soprattutto la

trasformazione di una società transitata dal torpore dell’equilibrio politico garantito

dall’Impero Ottomano ai rigori di una feroce dittatura terminata con una delle più disastrose

operazioni militari mai condotte dall’Occidente.

Confermando ancora una volta, dopo quasi un secolo, come la gestione delle dinamiche

politiche e sociali della regione non può e non potrà mai avvenire attraverso manifestazioni

d’imperio o l’uso di una forza che non tenga conto delle particolari prerogative della società

locale.

Lo Stato Islamico, in sintesi, è quindi il prodotto dell’incapacità locale ed internazionale di

individuare meccanismi di coesione all’interno di società tradizionali, con ancora spiccate

tendenze tribali e un forte radicamento ideologico confessionale.

È quindi necessario affrontare l’analisi dello Stato Islamico ponendosi in una posizione

neutra e pronta a coglierne sfumature che vanno ben oltre il modesto limite imposto dallo

stereotipo del radicalismo religioso o del fanatismo, preparandosi ad accettare una realtà

che spesso si scontra con le principali metodologie interpretative applicate alla realtà sociale

della regione.

Lo Stato Islamico, quindi, non è un temibile nemico militare (come emerge anche

dall’esperienza di combattimento più recente contro le sue formazioni), ma rappresenta la

pericolosissima risposta ad un problema grave e a tutt’oggi irrisolto nella formazione e nel

consolidamento di un’identità nazionale irachena che possa finalmente superare le

elementari quanto odiose barriere del settarismo e della miope visione tribale.

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Dalla caduta dell’impero ottomano al partito Ba’th

La genesi dell’ISIS è in un certo qual modo intimamente connessa alla storia stessa del

paese, e alla traumatica spartizione del territorio mesopotamico all’indomani del crollo

dell’Impero Ottomano.

Allo scoppio della prima guerra mondiale la Gran Bretagna inviò un contingente militare in

quello che è l’odierno Iraq, con l’intento di sottrarlo al controllo dell’Impero Ottomano,

schieratosi al fianco della Germania nel conflitto.

La missione si rivelò ben presto tutt’altro che semplice, e la Mesopotamia Expeditionary

Force al comando del generale Charles Townshend venne respinta, accerchiata e sconfitta

nella cittadina di Kut Al-Amara nel 1916.

Ciononostante, la regione mesopotamica veniva segretamente spartita – insieme a buona

parte del Levante e del Golfo Persico – negli accordi siglati dal britannico Mark Sykes e dal

francese François Picot, il 16 novembre del 1916, determinando sulla carta un insieme

geografico del tutto svincolato dalla realtà sociale del territorio, ponendo in tal modo le basi

per quell’insieme di fattori che avrebbe da allora impresso una deriva critica all’intero Medio

Oriente.

Gli eventi che portarono al collasso dell’Impero Ottomano transitarono attraverso la rivolta

araba del 1916 guidata dallo sceicco Al-Husayn e al consolidamento di quello che sarebbe

diventato il regno saudita, ma anche alla ripresa dei combattimenti in Iraq da parte degli

inglesi, che nel 1917 al comando di Stanley Maude riuscirono a conquistare Bagdad.

Iniziò in tal modo a prendere forma e corpo quell’insieme territoriale che in pochi anni

avrebbe assunto la connotazione di un insieme di piccoli Stati organizzati secondo le

esigenze di dominio della Gran Bretagna e della Francia, amministrati per lo più da

minoranze etniche o confessionali, determinando un costante stato di conflittualità sociale

ed un ruolo di naturale moderazione e dominio per le potenze coloniali.

Già nell’estate del 1920 si registrò la prima rivolta sciita in Iraq, in cui si lamentava l’arbitraria

decisione di porre l’amministrazione del paese nelle mani della minoranza sunnita, dando

avvio al primo episodio di una lunga serie di violenze settarie.

La Gran Bretagna, ostacolata dagli Stati Uniti nell’intento di annettere l’Iraq come colonia e

dovendo ripiegare sull’opzione di un protettorato, favorì l’istituzione di una monarchia

nell’agosto del 1921, nominando sovrano dell’Iraq l’hascemita Faysal ibn Al-Husayn, figlio

dello sceicco che capeggiò la rivolta araba.

Con l’avvento della monarchia prese avvio anche il consolidamento del ruolo delle comunità

sunnite, che rappresentavano l’aristocrazia militare ed amministrativa di retaggio ottomano

ma che erano minoritarie sul territorio, ancora in prevalenza a vocazione rurale.

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Si andò in tal modo a delineare il quadro organico di quel dualismo settario che portò

progressivamente l’Iraq in direzione di un autoritarismo di estrazione militare fortemente

promosso dai quadri sunniti delle forze armate, di ispirazione pan-arabista e fortemente

condizionati dopo la seconda guerra mondiale dalle dinamiche geopolitiche della Guerra

fredda.

Il consolidamento del ruolo egemonico inglese sul paese si determinò a partire dalla metà

degli anni Venti, quando vennero firmate le prime concessioni petrolifere, che giustificarono

anche lo stazionamento di basi militari britanniche sul suolo iracheno.

Alla morte del sovrano nel 1933, ascese al trono il figlio Ghazi dando avvio ad un turbolento

periodo di instabilità politica, costruita sul ricorso al nazionalismo arabo e alla crescita del

ruolo delle forze armate nella vita istituzionale del paese, che non terminò con la morte

accidentale del sovrano nel 1939.

La successione si presentò subito difficoltosa, avendo l’erede al trono Faysal II appena

quattro anni, rendendo necessario un mandato di reggenza nelle mani dello zio Abdullah

che dovette gestire tuttavia un crescente sentimento di ostilità verso le invasive forze

britanniche presenti sul territorio iracheno, complice anche lo scoppio del secondo conflitto

mondiale e l’apparente opportunità di emancipazione offerta da un più intenso legame con

la Germania nazista e l’Italia fascista.

Successivamente alle rocambolesche vicende del 1940-41, quando il primo ministro filo-

nazista Rashid Ali Al-Kaylani aveva tentato di imporre una decisiva sterzata anti-britannica

riuscendo a detronizzare il reggente con un colpo di Stato e a sostituirlo con l’emiro Sharaf,

la Gran Bretagna dichiarò guerra all’Iraq inviando truppe dall’India e iniziando un conflitto

che si protrasse fino al 31 maggio del 1941 quando, in seguito all’armistizio e alla fuga di

Al-Kaylani, venne imposto un governo filo-britannico.

La rilevanza dell’Iraq era data, soprattutto, dalla sempre più abbondante produzione

petrolifera che costituiva non solo un fattore economico primario ma anche un elemento

strategico di fondamentale importanza, stante i crescenti consumi imposti dal conflitto.

La possibilità che l’Iraq – così come il vicino Iran – potesse cadere nell’orbita un sodalizio

favorevole all’asse aveva allarmato non solo i britannici – che di fatto gestivano la locale

produzione quasi in autonomia – ma anche gli Stati Uniti, che appoggiarono quindi la politica

interventista di Londra.

Non meno traumatico fu il periodo del dopoguerra, caratterizzato nella regione da un deciso

ritorno del sentimento panarabo, culminato con il conflitto del 1948 contro

l’autoproclamazione dell’indipendenza dello Stato di Israele, cui l’Iraq partecipò

disastrosamente insieme all’Egitto, la Siria, il Libano e la Transgiordania.

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Una fase di generale ripresa dell’economia prese avvio nel 1952, con l’ascesa al trono del

re Faysal II, divenuto maggiorenne, intenzionato ad avviare un processo di modernizzazione

del paese che portò avanti conducendo una coraggiosa politica sia nazionale sia estera,

attraverso la quale abbracciò una sempre più intensa alleanza con gli Stati Uniti e i paesi

europei, anche in chiave anti-sovietica.

Tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta l’intero Medio Oriente era in

grande fermento ed al tempo stesso in subbuglio, con la definizione di alleanze che

portarono l’Egitto e la Siria ad unirsi nella Repubblica Araba Unita (RAU) nel 1958, poi

estesa allo Yemen del Nord. L’Iraq e la Giordania risposero con una labile alleanza regionale

– l’Unione Araba – mai sfociata in vera e propria fusione, e nel 1963 l’Iraq arrivò al punto di

considerare una partecipazione nella RAU, modificando addirittura la propria bandiera per

adeguarla a quella del sodalizio a guida egiziana.

La monarchia irachena, tuttavia, aveva cessato di esistere il 14 luglio del 1958 quando, con

un colpo di stato promosso dal generale Abd Al-Karim Qassim di ispirazione fortemente

anti-britannica, il sovrano e l’ex reggente vennero barbaramente assassinati, cui seguì la

proclamazione della repubblica.

Una nuova svolta politica interessò l’Iraq, che abbandonò le sue posizioni filo-occidentali

per avviare una sorta di non-allineamento che, tuttavia, finì ben presto per avvicinarsi alle

posizioni dell’Egitto prima e dell’Unione Sovietica poi.

Il partito Ba’th

La principale sorgente dell’antagonismo politico al generale Qassim si generò in seno al

partito Ba’th, una formazione politica originariamente sorta in Siria in cui erano confluiti

diversi movimenti di ispirazione pan-arabista ed anti-britannica, a loro volta eredi di quella

generazione politica che aveva promosso il legame con l’Asse durante la seconda guerra

mondiale.

Il Partito Ba’th Arabo Socialista – nella sua denominazione originaria – era stato fondato nel

1940 in Siria da Zaki al-Arzusi, Michel Aflaq e Salah Al-Din Al-Bitar, alawita il primo, cristiano

ortodosso il secondo e musulmano sunnita il terzo.

Il partito, dichiaratamente aconfessionale, era stato concepito in seno al prolifico dibattito

culturale del comunismo internazionale dal quale, tuttavia, si distanziò ben presto per

favorire un approccio più squisitamente nazionalista e panarabo sulla spinta dell’entusiasmo

che la seconda guerra mondiale aveva generato nel contrasto sia alla Gran Bretagna che

alla Francia, espressioni del colonialismo.

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Le fortune del partito Ba’th iniziano negli anni Cinquanta, con la fusione nel 1952 con il

Partito Socialista Arabo fondato qualche anno prima da Akram Al-Hurani, che permetterà la

trasformazione del Ba’th da movimento di estrazione borghese a forza politica di massa.

A partire dai primi anni Cinquanta, il Ba’th si espanse dalla Siria all’Iraq e alla Giordania,

con l’imperativo di dar vita ad un partito il cui compito primario fosse quello di promuovere

l’unità araba e i valori del socialismo, nell’ambito di una sua concezione squisitamente locale

che si allontanava dal marxismo, ripudiando il concetto di lotta di classe ed anzi aprendo ad

una concezione dell’economia basata sulla libera iniziativa e sul ruolo dell’impresa privata,

fondendo quindi in un ibrido politico di nuova concezione i principi religiosi dell’Islam e del

Cristianesimo con quelli del nazionalismo arabo.

La penetrazione del Ba’th in Iraq avvenne a partire dal 1949, per iniziativa di un eterogeneo

gruppo di attivisti, di estrazione alawita e sunnita.

Anche la gemmazione irachena del partito ereditò la strutturazione organica della

formazione siriana, composta dalle firga (le unità più piccole, composte da un minimo di 12

aderenti), le shu’ba (le sezioni che raccoglievano più firga) e le fir (aggregazioni di shu’ba

su scala provinciale). Un’organizzazione di stampo quasi militare, espressione di quel rigore

associativo che caratterizzava la gran parte delle unità di estrazione socialista.

L’evoluzione della branca irachena del partito Ba’th fu alquanto lenta, potendo tuttavia

crescere velocemente all’indomani del colpo di Stato promosso da Qassim che,

nell’abbattere la monarchia, concesse anche il pluralismo politico favorendo la libera attività

del partito Ba’th che usciva in tal modo dalla clandestinità riscuotendo un crescente

consenso in seno alla società irachena.

L’antagonismo del partito Ba’th al ruolo del presidente Qassim si costruì su basi confuse, di

fatto amalgamate dal solo ideale panarabista, che portarono al tentativo di assassinio del

presidente nel 1959 e ad una dura fase di repressione in conseguenza della quale molti

degli aderenti furono arrestati o costretti alla fuga in Siria e Giordania.

La nuova fase di clandestinità portò ad un sodalizio tra il partito Ba’th e i vertici delle forze

armate, che sempre più condividevano il timore per la crescita delle formazioni comuniste,

appoggiando in tal modo l’ideale panarabista e nazionalista.

Nel 1963 il partito Ba’th e i militari riuscirono ad organizzare un nuovo colpo di Stato, che

questa volta riuscì, provocando la morte di Qassim e di molti ufficiali ritenuti fedeli all’ex

presidente o simpatizzanti del partito comunista.

Il nuovo contesto politico fu tuttavia caratterizzato da continue violenze e ambizioni personali

di un gran numero di esponenti del partito e delle forze armate, determinando

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l’ingovernabilità di fatto del paese e provocando la progressiva disgregazione del Ba’th

come partito transnazionale.

Emerse in questo contesto la figura del colonnello Mundhir Al-Wandawi, che nel 1963 si

impadronì di fatto della componente irachena del partito, provocando la definitiva scissione

dalla componente originaria siriana e costituendo una nuova entità esclusivamente

irachena, di stampo autoritario.

Con la nascita del nuovo partito Ba’th iracheno e l’ascesa di Al-Wandawi mutano

radicalmente gli equilibri interni al partito che sino a quel momento si era mantenuto

strenuamente in una collocazione del tutto aconfessionale. Prima del 1963, sebbene il dato

non avesse pressoché alcuna rilevanza nella gestione delle linee strategiche del partito, il

musulmani sunniti costituivano quasi il 49% dei membri, mentre gli sciiti erano poco più del

23%, i drusi il 7% e i cristiani il 17%. Dal 1963 in poi, invece, la rilevanza della componente

sunnita all’interno del Ba’th crebbe velocemente, trasformandosi in breve tempo in

maggioritaria, sino a raggiungere il valore dell’85%.

Il partito Ba’th diventò quindi uno strumento di potere di fatto in mano alla sola componente

sunnita, minoritaria demograficamente nel paese ma sin dagli anni Venti collocata al vertice

del sistema istituzionale del paese. In tal modo l’elemento confessionale tornò a giocare un

ruolo preminente nella dinamica politica irachena, alimentando un settarismo poi esploso

nel 2003 con la caduta di Saddam Hussein.

Un rapido colpo di Stato si consumò nuovamente, nel 1968, con l’ascesa di un gruppo di

ufficiali di ispirazione nasseriana guidati dal generale Abd Al-Asalm Arif, abbattuto ancora

una volta dal partito Ba’th il 17 luglio dello stesso anno, con un sodalizio politico cui partecipò

anche la locale struttura della Fratellanza Musulmana e una componente curda, portando

al potere il presidente Ahmed Hassan Al-Bakr.

Al-Bakr, originario della città di Tikrit, riuscì nell’intento di trasformare in chiave ancora più

esclusiva il ruolo del Ba’th, verticalizzando la catena di comando ed imponendo un nucleo

di controllo di fatto familiare e tribale all’interno del partito, in cui progressivamente emerse

e spiccò la figura del cugino, Saddam Hussein.

Saddam Hussein

La figura di Saddam è molto importante nella genesi dell’ISIS. Fu Saddam, infatti, a gestire

a partire dal 1964 – su incarico del cugino Al-Bakr – il rapporto con le frange di ispirazione

confessionale del partito, concedendo qualche riconoscimento al ruolo della religione nella

Costituzione e nell’impianto normativo del paese, ma anche finanziando organizzazioni

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religiose sunnite costituite come baluardo al dominante ruolo di una società a maggioranza

sciita.

Ed è all’interno di queste organizzazioni, sostenute o semplicemente tollerate, che

ritroviamo infatti la matrice di quello che sarà poi il contesto in cui sorgerà e fiorirà il Daesh,

come ad esempio nel caso della setta sufi della Naqshbandiyya.

Saddam Hussein nacque ad Al-Awja, nelle vicinanze di Tikrit, il 28 aprile del 1937, in una

famiglia di umili origini dedita all’allevamento del bestiame. Aderì giovane al partito Ba’th,

nel quale militò sin dai tempi della presidenza Qassim, al cui tentativo di omicidio del 1958

si suppone abbia partecipato, dovendo poi riparare all’estero, in Siria. Lì Saddam entrò in

contatto con Michael Aflaq, grazie al quale diventò non solo un membro effettivo del partito,

ma acquisì anche una sempre più elevata posizione gerarchica.

Saddam Hussein si spostò poi in Egitto nel 1959, dove visse fino al 1963, simpatizzando

per il nazionalismo arabo di Nasser e maturando la propria coscienza politica e rientrando

nel 1964 in Iraq, dove venne tuttavia arrestato per ordine del presidente Abdul Rahman Arif

che ne temeva giustamente il potenziale.

Fuggito di prigione e ricongiuntosi con le locali cellule del partito Ba’th, Saddam iniziò una

rapida carriera scalando i ranghi dell’organizzazione e venendo nominato, da Ahmed

Hassan Al-Bakr, Segretario Generale del Comando Regionale, assumendo in tal modo un

ruolo rilevante nel colpo di Stato del 1968 che depose Arif e impose Al-Bakr come nuovo

presidente dell’Iraq e che a sua volta nominò Saddam come suo vice.

Un altro elemento per la comprensione della storia del Daesh è connesso proprio al ruolo

di Saddam Hussein, in questa fase, cui fu dato incarico di creare il primo servizio di

intelligence del paese e l’apparato delle forze scelte che successivamente prenderà il nome

di Guardia Repubblicana. Due strutture che giocheranno un ruolo fondamentale nella

creazione dei movimenti che si opporranno all’occupazione americana prima, e che

andranno in parte a costituire il Daesh poi.

Il controllo delle forze più qualificate dell’apparato di sicurezza nazionale garantirà da quel

momento a Saddam una straordinaria forza politica e militare, che gli consentirà di

accrescere il proprio ruolo politico enormemente, arrivando a controllare e determinare le

scelte di politica economica del paese e a beneficiare in prima persona dei crescenti profitti

generati dall’industria del petrolio (nazionalizzata nel 1972).

Saddam Hussein promosse tuttavia anche una coraggiosa politica sociale che favorì la

decisa crescita dell’alfabetizzazione e dell’istruzione, modernizzando un paese rimasto di

fatto paralizzato dalle molteplici vicissitudini politiche che si erano susseguita dalla fine della

seconda guerra mondiale.

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Dal 1973 nominato Vice Presidente, pur non avendo mai fatto parte delle Forze Armate,

Saddam fortificò il ruolo delle forze armate, gratificò i reparti scelti e l’intelligence e promosse

una consistente campagna autocelebrativa in larga misura costruita sui progressi nel campo

dell’economia e delle infrastrutture, venendo gradualmente percepito come un innovatore e

un modernizzatore.

L’industria del petrolio divenne lo strumento principale della crescita politica e

dell’affermazione personale di Saddam Hussein, grazie anche alla vertiginosa crescita dei

prezzi del 1973, in quello che passò alla storia come lo “shock petrolifero”1.

Lo sviluppo economico promosso da Saddam Hussein permise di definire politiche di

promozione dei servizi sociali e di crescita che mai erano state sperimentate prima di allora

nel paese, contribuendo ulteriormente ad accrescere la fama di Saddam come politico

avveduto e capace.

Il sistema educativo nazionale impose l’obbligatorietà delle scuole primarie, abbattendo

drasticamente i valori dell’analfabetismo e promuovendo lo sviluppo delle scuole e delle

università nazionali, che iniziarono in tal modo a generare un sempre più consistente

numero di figure professionali qualificate sia nei settori tecnici che in quelli sanitari e dello

sviluppo, permettendo in breve tempo un salto qualitativo senza precedenti del sistema

sanitario nazionale, di quello dell’assistenza sociale e dell’apparato pubblico.

1 La crisi petrolifera del 1973 derivò dall’improvvisa diminuzione dei flussi petroliferi garantiti

dall’OPEC (l’organizzazione dei paesi produttori, che all’epoca rappresentava oltre il 60% della produzione mondiale), in conseguenza di una crisi politica consumatosi con i paesi occidentali all’indomani della guerra dello Yom Kippur, quando l’Egitto e la Siria cercarono di invadere Israele. Quando, dopo sole tre settimane, fu chiaro che la guerra era perduta per gli attaccanti, i paesi arabi – che il conflitto avevano sostenuto quasi unanimemente – adottarono una strategia punitiva contro il paesi occidentali – sostenitori di Israele – riducendo le esportazioni del 25% e provocando un aumento dei prezzi vertiginoso. Gli Stati Uniti e l’Olanda subirono un blocco totale delle esportazioni di petrolio fino al 1975, determinando complessivamente una crisi energetica che rallentò la produzione industriale e scatenò una crisi senza precedenti nelle economie dell’intero pianeta. Quello che passò alla storia come lo “shock petrolifero” fu tuttavia un boomerang per i paesi produttori. La gran parte dei paesi occidentali, infatti, investì ingenti capitali per l’esplorazione e la produzione di petrolio sul proprio territorio e in aree diverse dal Medio Oriente, favorendo in tal modo un vertiginoso aumento della produzione nel corso degli anni successivi nel continente americano, in Africa e nella stessa Europa, determinando non solo un crollo dei prezzi ma anche la fine dell’OPEC quale dominus delle politiche petrolifere mondiali. L’organizzazione dei produttori, a partire dai primi anni Ottanta, si trovò a transitare nel ruolo di “moderatore” del mercato petrolifero, adottando costanti politiche di tagli produttivi (le cosiddette quote) per calmierare il mercato e mantenere i prezzi [segue] [continua] entro “forbici” di prezzo accettabili per le economie della regione. Una sconfitta totale, in sintesi, che non solo determinò la fine del monopolio energetico mediorientale, ma diede anche un poderoso impulso allo sviluppo delle energie alternative e soprattutto alle tecnologie per lo sfruttamento delle energie rinnovabili, facendo lentamente avviare il mercato energetico verso una fase di transizione – ancora in atto – di sostituzione del petrolio con altre sorgenti di energia, fossili e non.

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Parimenti venne potenziato il ruolo e la capacità operativa delle forze armate, determinando

una sorta di “casta” militare fedele al presidente e alle istituzioni e a queste legata

dall’interesse della continuità e della crescita. Un sodalizio che resisterà a lungo e che

costituirà anch’esso un elemento di fondamentale importanza nella successiva creazione

del Daesh.

L’Iraq degli anni Settanta era quindi un enorme cantiere, grazie alla capacità di investire i

proventi petroliferi in una enorme progettualità pubblica che aveva in poco tempo mutato la

fisionomia del paese, facendo rapidamente transitare in direzione della modernità e dello

sviluppo grazie all’avveduta politica economica delle istituzioni del governo Al-Bakr, di cui

Saddam si dimostrava il più solerte esecutore.

Il prezzo dello sviluppo, tuttavia, veniva pagato con una progressiva svolta autoritaria del

sistema politico che trasformava sé stesso in vera e propria dittatura autoritaria, severa ed

austera nei confronti di ogni forma di opposizione, dove il dissenso venne progressivamente

silenziato a favore di una corale quanto sempre meno spontanea forma di celebrazione per

il governo ed il partito.

I primi a fare le spese di questo crescente clima di autoritarismo furono i curdi, le cui

aspirazioni autonomistiche vennero sistematicamente e progressivamente frustrate,

soprattutto in conseguenza dell’incremento delle attività produttive dell’industria petrolifera

nell’area di Kirkuk. Parimenti repressiva fu la politica di gestione delle istanze della comunità

sciita, progressivamente soffocate all’interno del nazionalismo iracheno e dell’indirizzo

centrale settario dettato dalla minoranza sunnita.

Nel 1972 l’Iraq firmò un Trattato di Amicizia e Cooperazione con l’Unione Sovietica,

entrando progressivamente nell’orbita dell’alleanza con Mosca, soprattutto in conseguenza

del contestuale e sempre maggiore sviluppo di un sentimento filo-americano del vicino Iran,

che, sotto la guida dello Scià Mohammad Reza Pahlevi, aveva intrapreso anch’esso un

poderoso programma di modernizzazione e di potenziamento delle forze armate. L’Iraq e

l’Iran sembrarono in quel momento riuscire anche a comporre la lungamente trascinata

diatriba per la definizione del limite territoriale lungo il corso dello Shatt e-Arab, il canale che

divide a sud i due paesi, firmando nel 1975 l’Accordo di Algeri che sembrava mettere la

parola fine al problema.

L’anno successivo, nel 1976, Saddam Hussein venne nominato generale delle forze armate,

completando in questo modo il processo di crescita politica che lo aveva portato in un

decennio ad essere non solo l’erede naturale di Al-Bakr ma anche e soprattutto l’uomo più

in vista dell’intero apparato governativo.

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Le condizioni di salute del presidente Al-Bakr peggiorarono significativamente nella seconda

metà degli anni Settanta, in conseguenza dell’età e del precario quadro clinico complessivo,

favorendo in tal modo una graduale e sempre più completa crescita del ruolo di Saddam,

che dal 1976 in poi sarà di fatto il vero leader politico nazionale.

L’effettiva transizione avvenne il 16 luglio del 1979, quando Al-Bakr si dimise trasferendo

l’incarico a Saddam Hussein, in quella che fu percepita come una serena e del tutto

volontaria e spontanea transizione.

Al contrario, invece, il processo di sostituzione era stato accelerato da Saddam per impedire

il completamento del progetto politico voluto da Al-Bakr e relativo alla definizione di una

fusione tra l’Iraq e la Siria, in conseguenza della quale Hafez al-Asad avrebbe assunto la

carica di vice-presidente, mettendo seriamente a repentaglio le ambizioni di Saddam

Hussein.

Non appena nominato presidente, Saddam epurò 68 esponenti del partito Ba’th,

successivamente fucilandone 22, con l’accusa di tradimento. In questo modo rimosse

immediatamente ogni residua traccia di sostegno al precedente presidente, costruendo da

quel momento un ruolo del tutto personale al vertice del partito e del paese.

Intimorito dalla rivoluzione islamica che pochi mesi prima aveva deposto lo Scià in Iran,

minacciando di esportare la rivoluzione nell’intera regione, Saddam Hussein intraprese una

feroce campagna di repressione contro tutte quelle forze che – potenzialmente o

concretamente – potevano minacciare il suo ruolo e quello del dominio del partito Ba’th. Ne

fecero le spese soprattutto le minoranza curde e le organizzazioni di stampo sciita che,

accusate di complottare al fianco dell’Iran, vennero sistematicamente vessate.

Le tre guerre di Saddam: Iran-Iraq, Kuwait e guerra del Golfo, l’invasione americana

Mentre sotto la guida Al-Bakr l’Iraq aveva intrapreso il cammino della modernizzazione e

dello sviluppo, facendo registrare oltre un decennio di relativa pace e di stabilità per il paese,

la nomina a presidente di Saddam Hussein provocò il rapido collasso di questa strategia.

Nel 1980, subdolamente spinto dalla gran parte delle monarchie del Golfo e dagli stessi

Stati Uniti, accettò di dichiarare guerra all’Iran convinto di una rapida vittoria e di una

remunerativa gestione della pace con lo storico nemico iraniano.

La guerra prese sin da subito una piega ben diversa dalle aspettative, e quello che nelle

valutazioni dei militari avrebbe dovuto essere un paese in ginocchio, piegato da una

sanguinosa rivoluzione e provato dalla mancanza di aiuti internazionali, si rivelò invece un

osso duro. L’Iran non solo resistette all’attacco iracheno, ma nel giro di due anni riuscì a

contrattaccare penetrando profondamente in territorio iracheno.

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Quella che per l’Iran divenne una sorta di guerra santa per consolidare il ruolo della

rivoluzione e della sua leadership, per l’Iraq fu al contrario una disastrosa avventura militare

alla quale non si riuscì a mettere fine prima del 1988 per l’intransigenza della Guida

Suprema dell’Iran Ruollah Khomeini, che non intendeva concedere alcuno spazio negoziale

all’Iraq, ormai in profonda crisi.

Fu l’ONU a ristabilire la pace e determinare la cessione di ostilità che provocarono circa un

milione di vittime sui due fronti, annullando ogni progresso ottenuto dai due paesi nei

vent’anni precedenti e gettando l’Iraq di Saddam Hussein in una crisi economica dalla quale

non si sarebbe mai più risollevato.

Oberato dai debiti contratti con le monarchie arabe durante il conflitto – le stesse che lo

avevano spinto in direzione di quella che appariva una facile operazione militare contro un

nemico debole e provato dalla rivoluzione – Saddam Hussein entrò in una dinamica di

progressiva crisi con i suoi ex alleati, soprattutto quando alcuni di questi iniziarono

pressantemente a richiedere la restituzione delle somme erogate all’Iraq durante la guerra.

Il Kuwait si rifiutò di concedere all’Iraq una dilazione per la restituzione dei 30 miliardi di

dollari erogati dallo stesso, anche in sede OPEC, dove rifiutò la proposta di Bagdad di

operare tagli alla produzione per aumentare il costo del petrolio.

Ne derivò una crisi politica senza precedenti, nell’ambito della quale Saddam Hussein più

volte fece riferimento alla storica subordinazione del Kuwait all’Iraq durante il periodo

dell’impero Ottomano, minacciando il paese e dando spazio ai nazionalisti che da sempre

avevano sostenuto l’esigenza di annettere il Kuwait come la 19a provincia.

Si innescò quindi una spirale di crisi, alimentata anche dalla denuncia irachena di una

alquanto improbabile produzione petrolifera del Kuwait su giacimenti iracheni, che portò

Saddam Hussein ad ordinarne l’invasione, il 2 agosto del 1990, con una fulminea azione

che travolse in poche ore le blande resistenze del paese.

La comunità internazionale si schierò nettamente a favore del Kuwait e contro l’Iraq, dando

un ultimatum a Saddam Hussein per il ritiro delle proprie forze militari. Ancora una volta,

tuttavia, Saddam sottovalutò le intenzioni dell’avversario, ritenendo presente un margine

negoziale che invece non venne in alcun modo concesso, e subendo il 16 gennaio

successivo il poderoso attacco di una coalizione internazionale che in breve tempo

sconfisse gli iracheni in Kuwait, senza tuttavia minacciare il ruolo di Saddam Hussein in Iraq.

I dieci anni che seguirono furono caratterizzati dall’embargo e dalla profonda crisi

economica del paese, aggravata da una sempre più autoritaria concezione del potere da

parte di Saddam Hussein, che non esitò ad impiegare nuovamente la forza contro tutte

quelle minacce percepite all’interno del paese.

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Nel 1991, subito dopo la sconfitta in Kuwait, soppresse nel sangue la rivolta sciita nel sud

del paese, ed altrettanta violenza venne impiegata nei confronti dei curdi che manifestavano

ambizioni indipendentiste. Gli anni Novanta furono testimoni di una profonda frattura tra la

comunità sciita e quella sunnita del paese, con la progressiva radicalizzazione del ruolo

autoritario del governo e la creazione di apparati paramilitari di chiara estrazione

confessionale. Un altro fattore di grande importanza per comprendere il successivo sviluppo

del Daesh e il consolidamento del suo ruolo.

Più volte la comunità internazionale intervenne in Iraq a protezione delle no-fly-zone imposte

dalle Nazioni Unite, provocando ulteriore distruzione e miseria in un paese ormai allo sfascio

e governato con una brutalità senza precedenti da Saddam Hussein e dalla sempre più

ristretta cerchia di fedelissimi che lo seguì fino alla fine.

Successivamente ai noti fatti dell’11 settembre del 2001, l’Iraq entrò nuovamente nella

spirale di una crisi con gli Stati Uniti, che, nella spasmodica ricerca di un nemico visibile e

concreto cui addebitare le responsabilità – morali, più che materiali – dell’attacco dell’11

settembre, finirono per trasformare nuovamente l’Iraq in un obiettivo della politica militare

statunitense.

Accusato di detenere e produrre armi di distruzione di massa – con accuse rivelatesi poi del

tutto infondate, e che generarono comunque un profondo dissenso in seno alla comunità

internazionale – l’Iraq venne nuovamente attaccato e invaso il 20 marzo del 2003, venendo

definitivamente conquistato in meno di tre settimane.

Saddam Hussein si rese irreperibile, l’esercito venne dissolto e sembrò aprirsi a quel punto

una nuova fase per il martoriato paese, che ben presto ripiombò tuttavia in una nuova e ben

peggiore fase di conflittualità.

Il 13 dicembre del 2003 Saddam Hussein venne catturato vicino a Tikrit, consegnato alle

nuove autorità politiche del paese, processato ed infine giustiziato il 30 dicembre del 2006.

L’Iraq post ba’thista dal 2003 ad oggi

L’ultimo elemento storico di interesse per comprendere il fenomeno jihadista connesso

all’ascesa del Daesh è certamente da individuarsi nella più recente evoluzione storica del

paese, successivamente all’intervento della coalizione a guida americana che nel 2003

pone fine al governo di Saddam Hussein.

L’intera operazione militare del 2003 in Iraq è stata oggetto di pesanti critiche a livello

internazionale, soprattutto per l’appurata ed ormai certa consapevolezza dell’assenza di

armi di distruzione di massa nelle mani del regime iracheno alla data dell’invasione.

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La decisione di invadere l’Iraq è stata il prodotto di una complessa fase politica negli Stati

Uniti, costruita sulla necessità di offrire all’opinione pubblica americana una politica di

intervento chiara e decisa, che si è tuttavia dovuta misurare con l’impossibilità di adottare

una strategia di confronto tradizionale e simmetrica contro una tipologia di minaccia così

impalpabile e sfuggente come quella rappresentata dal terrorismo.

L’operazione militare condotta in Afghanistan per colpire Al Qaeda e il regime dei Talebani,

che aveva dato ospitalità a Osama Bin Laden e alla sua organizzazione, era stata condotta

in modo fulmineo ed efficace, senza tuttavia portare alla cattura del leader terroristico più

ricercato del pianeta, dando impulso a quella continuità e indeterminatezza della cosiddetta

“guerra al terrorismo” che avrebbe non solo trasformato l’operazione in Afghanistan in un

conflitto vero e proprio, ma esteso la portata dell’intervento anche all’Iraq.

In sintesi, le motivazioni che spinsero l’amministrazione statunitense ad attaccare l’Iraq, pur

nella consapevolezza che non sarebbero state trovate armi di distruzione di massa2, sono

da individuarsi nella ricerca di un’operatività militare che potesse ingenerare nell’opinione

pubblica americana la sensazione di una effettiva, efficace e capace di risposta

dell’apparato militare e di intelligence ai tragici fatti dell’11 settembre del 2001.

Saddam Hussein, che da oltre dieci anni rappresentava la principale sorgente di instabilità

regionale nel Golfo, si trovò quindi a pagare il prezzo di una lotta al terrorismo con la quale

il suo regime aveva effettivamente ben poco a che spartire, diventando l’obiettivo di una

rovinosa missione tutt’ora in atto.

Il principale errore strategico commesso dagli Stati Uniti nella condotta della guerra all’Iraq

è stato certamente quello di voler dissolvere l’intero apparato istituzionale, incluse le forze

armate, azzerando di fatto in un sol colpo non solo l’intera expertise amministrativa e della

sicurezza del paese, ma anche e soprattutto provocando il collasso economico della

comunità sunnita – che costituiva l’ossatura del sistema pubblico iracheno - ed esponendola

contestualmente alle vendette della maggioranza sciita.

Alla caduta del regime venne quindi disciolto e bandito il partito Ba’th, che entrò ben presto

in clandestinità insieme a numerosi esponenti delle ex forze armate – e soprattutto della ex

Guardia Repubblicana – anch’esse disciolte dalle forze americane e ricostituite solo in una

fase successiva.

L’amministrazione dello Stato venne posta provvisoriamente sotto il controllo degli

americani, e presieduta da una figura politica irachena, Ahmed Chalabi.

2 Come evidente dalla documentazione della Commissione di inchiesta che indagò sul conflitto e

le sue cause, vedasi al rapporto disponibile su https://9-11commission.gov/report/ 911Report.pdf

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L’esperienza politica dell’amministrazione provvisoria e del governo Cahalabi fu disastrosa,

fallendo sistematicamente in ogni tentativo di riconciliazione nazionale, favorendo quindi la

creazione di un nuovo governo iracheno cui si giunse dopo le elezioni del gennaio del 2005,

da cui scaturirono la nuova costituzione e le elezioni parlamentari del successivo dicembre.

Il governo del paese, ormai saldamente nelle mani della maggioranza sciita, iniziò a

pregiudicare i diritti e le prerogative economico-sociali della comunità sunnita, all’interno

della quale si formarono numerose organizzazioni terroristiche (di resistenza, nella narrativa

sunnita) che iniziarono a colpire violentemente le istituzioni e le forze di occupazione

militare.

Molte di queste organizzazioni erano composte inizialmente da ex appartenenti al partito

Ba’th e alla Guardia Repubblicana, disponendo quindi di vasti arsenali occultati prima della

caduta del regime e di uomini ben addestrati e motivati.

La guerriglia e il terrorismo colpirono soprattutto la capitale, le forze della coalizione militare

internazionale e le regioni abitate prevalentemente dalle comunità sciite, innescando un

meccanismo di violenza che crebbe esponenzialmente e finì per attrarre in Iraq un sempre

maggiore numero di combattenti stranieri, ideologicamente motivati ed attratti dal modello

jihadista di Al Qaeda.

Abu Musab Al Zarqawi divenne in breve tempo il leader iracheno della locale gemmazione

di Al Qaeda, operando progressivamente in sempre più stretto contatto anche con tutte

quelle organizzazioni jihadiste di espressione ba’athista ed ex militare, con cui si generò

una sinergia tremendamente pericolosa che consentì un’escalation violentissima del

conflitto.

La sinergia tra le due formazioni, provenienti da posizioni ideologicamente molto diverse tra

loro, consentì di combinare elementi logistici e tecnico-operativi sino ad allora impensabili

nel confronto con le forze di internazionali di occupazione e quelle locali del nuovo governo,

manifestando una capacità operativa del tutto nuova ed altamente preoccupante per la

comunità internazionale.

La simbiosi transitò anche per una precisa e dettagliatamente studiata formula di

comunicazione, impostata sulla concezione più antiquata e radicale dell’islamismo, nella

ricerca di una narrativa locale che potesse richiamare senza ambiguità il primordiale

confronto tra sunniti e sciiti, nell’ottica di un’affermazione ideologica e militare mai

sperimentata prima in Iraq.

L’Iraq divenne al tempo stesso il crocevia di tutti i jihadisti internazionali, andando ad

ingrossare le fila di una sterminata serie di organizzazioni di piccole e grandi dimensioni,

che nello scontro settario con gli sciiti e in quello ideologico con gli occidentali plasmarono

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la propria nuova identità e legittimarono le nuove catene di comando di un jihadismo che

era ormai solo nominalmente espresso dalla tradizionale linea di comando presieduta da

Osama Bin Laden.

La spettacolarizzazione del terrorismo divenne in tal modo il principale elemento distintivo

della nuova e più cruenta fase dello scontro in Iraq, con rapimenti ed esecuzioni di ostaggi

ispirati alla più retrograda interpretazione della sharia e ad uso e consumo soprattutto dei

sempre più numerosi media presenti sul territorio, pronti a diffondere ed amplificare la

brutalità del jihadismo.

La compresenza di gruppi locali e formazioni internazionali portò ad una graduale

trasformazione delle unità terroristiche, che sopravvissero all’eliminazione di Al Zarqawi il 7

giugno del 2006 articolandosi poi in gruppi di diversa natura e composizione, con obiettivi

che sempre più si spingevano al di fuori dei confini dell’Iraq.

L’originale fenomeno dell’insorgenza, in cui erano confluiti un buon numero di ex militari e

membri del disciolto partito Ba’th, si trasformò quindi lentamente dando vita ad un insieme

di formazioni spesso estremamente eterogenee e con obiettivi molto diversi tra loro.

Mentre l’insorgenza originale continuava a concentrarsi sul ruolo e sul territorio della

comunità sunnita, soprattutto nell’area che sarà conosciuta come il Triangolo Sunnita (dalla

forma dell’area compresa tra le città di Tikrit, Ramadi e Bagdad), il jihadismo di matrice

internazionale punterà su una maggiore mobilità regionale, partecipando a diversi conflitti e

cercando di mantenere vivo lo spirito transnazionale dell’originale formazione di Al Qaeda.

La violenza crebbe esponenzialmente a partire dal 2006, colpendo non solo le forze della

coalizione internazionale e quelle del risorto governo iracheno ma rivolgendosi sempre più

a danno della popolazione di confessione sciita, colpendo indiscriminatamente luoghi di

culto, aree residenziali e centri urbani, in un crescendo di violenza e terrore che spinse gran

parte della comunità internazionale – e poi anche gli stessi Stati Uniti – a lasciare il territorio

dell’Iraq dopo un sommario trasferimento dei poteri alle debolissime nuove autorità locali.

Un ultimo, ma non certo meno significativo, elemento per comprendere le radici del

fenomeno jihadista che portarono al consolidamento del Daesh, è senza dubbio quello della

radicalizzazione del settarismo politico.

Con l’elezione nel maggio del 2006 di Nuri Al-Maliki alla carica di Primo Ministro, la deriva

settaria crebbe esponenzialmente in una sorta di vendetta postuma per l’operato violento di

Saddam Hussein negli oltre vent’anni del suo brutale regime. La componente politica sciita

di governo incrementò con sistematica tenacia e violenza la propria azione nella provincia

dell’Anbar e più in generale nel cosiddetto Triangolo Sunnita, elevando a tal punto il livello

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della conflittualità da provocare un profondo risentimento anche nell’ambito di quelle

comunità che avevano sino ad allora sempre cooperato con le autorità centrali di Bagdad.

Il risultato di questa politica settaria, spregiudicata e inutile fu quello di generare un’ondata

senza precedenti di attentati terroristici, trasformando in tal modo la crisi irachena in una

vera e propria guerra civile, dove il tributo di sangue maggiore fu come sempre corrisposto

dalle comunità della locale società civile.

Il vero e principale problema alimentato da questa insensata politica repressiva fu tuttavia

quello di favorire una nuova coesione tra formazioni della galassia jihadista, dando vita a

quelle strutture che dopo poco si raccolsero sotto la bandiera dello Stato Islamico, nell’ottica

di un consolidamento del potere sunnita e della determinazione di una autonomia statuale

rispetto a quella del governo centrale a guida sciita.

Una débâcle, per l’Iraq, che in breve tempo non solo ripiombò nella più selvaggia delle

violenze, ma che subì anche la perdita di ampie zone del territorio ad opera del nuovo

sedicente Califfato.

La gestione del disastro militare e politico dell’Iraq entrò in una nuova fase – tutt’ora in corso

– con l’elezione del Primo Ministro Haider Al-Abadi nel settembre del 2014, che ereditò il

collasso dell’operatività militare e la perdita dei territori conquistati dall’ISIS, dovendo

ricostruire una strategia cooperativa ed una sorta di piano di coesione nazionale per lanciare

solo due anni dopo un’offensiva per la riconquista del paese.

Al-Abadi, certamente più accorto e cauto del suo predecessore, subentrò nell’incarico

tuttavia in una fase di profonda demoralizzazione delle forze armate nazionali, dovendo al

tempo stesso gestire l’irruenza e spesso l’arroganza delle non poche milizie paramilitari

sciite nel frattempo auto-costituitesi e in breve tempo divenute il principale e più efficace

strumento militare nazionale.

La presenza e il ruolo delle milizie sciite, per quanto indispensabili nella condotta della lotta

allo Stato Islamico, ripropongono tuttavia per Al-Abadi ancora una volta il rischio di una

deriva settaria, imponendo una moderazione ed una diplomazia politica costruita sul filo del

rasoio e sempre a rischio di precipitare nel confronto tra le due principali comunità

confessionali del paese.

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PARTE II

La genesi dello Stato Islamico

La storia dello Stato Islamico è costruita sulla travagliata transizione di potere

dall’autoritarismo del partito Ba’th al successivo governo dell’Iraq esercitato dalla

maggioranza sciita del paese, che ha inutilmente sprecato l’occasione della coesione

nazionale.

Una dolorosa transizione che ha portato la comunità sunnita del paese, che oggi

rappresenta poco più del 40% della popolazione, se non a sostenere certamente a non

avversare la nascita e lo sviluppo di organizzazioni jihadiste di matrice ultra-radicale, resesi

poi autonome dalla rete di Al Qaeda ed autoproclamatesi Califfato.

Una dolorosissima parentesi che sembra solo adesso chiudersi, lasciando tuttavia irrisolti i

nodi della convivenza civile e pacifica tra le due comunità confessionali, ed imponendo la

ricerca di soluzioni urgenti e condivise non solo sul piano della comunità internazionale ma

soprattutto su quello nazionale.

Per comprendere dinamiche storiche e politiche dello Stato Islamico è quindi necessario

ripercorrere la storia e l’evoluzione dell’islamismo sunnita in Iraq, la nascita e il

consolidamento del jihadismo e il consolidamento di quelle forze che si sono

progressivamente radicalizzate dando vita ad una gemmazione di Al Qaeda prima, e ad una

nuova quanto improbabile rivitalizzazione del Califfato poi.

Un percorso non lineare e non facilmente comprensibile se non contestualmente al

particolare ed unico sviluppo della politica e della società irachena, di cui il Daesh è piena

ed esclusiva espressione.

L’islamismo sunnita in Iraq

La principale componente dell’islamismo sunnita iracheno è sempre stata quella

rappresentata dalla Fratellanza Musulmana (al-Ikhwan al-Muslimun), sorta nel paese nel

1948 grazie al ruolo della Società per la Salvezza della Palestina e largamente influenzata

dall’organizzazione madre egiziana.

La Fratellanza combinava in tal modo la causa palestinese con il problema dell’unità araba

di espressione musulmana, riconducendo la radice di tutti i problemi della regione ad una

diffusa devianza dal rispetto dei valori tradizionali islamici.

Il principale nemico della Fratellanza Musulmana – in Iraq come in buona parte dell’intero

Medio Oriente – era l’ideologia marxista e la diffusione dei partiti comunisti che dopo la fine

della seconda guerra mondiale proliferavano e si moltiplicavano all’interno del mondo arabo

e islamico.

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Il periodo di relativo pluralismo politico che dalla fine degli anni Quaranta caratterizzò l’Iraq

– fino alla presa del potere da parte di Qassem nel 1958 – permise la nascita e il

consolidamento di una locale filiazione della Fratellanza Musulmana in Iraq nel 1951, che

ben presto divenne il principale elemento politico e sociale della comunità sunnita.

È grazie alla Fratellanza che il sistema scolastico iracheno si sviluppa e progredisce sino a

diventare uno dei più avanzati del Medio Oriente, attraverso l’approccio costruttivo e

moderato della visione sociale dell’Ikhwan, che rifiuta nettamente il settarismo tra le quattro

principali scuole dell’Islam ma che al tempo stesso combatte l’occidentalizzazione dei

costumi e la diffusione del marxismo e del nazionalismo.

Il manifesto della Fratellanza Musulmana irachena – non dissimile da quello della

componente madre e delle altre gemmazioni regionali è certamente innovativo per l’epoca

in cui viene proposto. Pluralismo religioso e politico, rappresentatività, distribuzione delle

terre, diritto al lavoro per le donne, rappresentanze sindacali e promozione della

cittadinanza comune come elemento identitario costituiscono la parte principale di un

modello aggregativo politico e sociale che cerca di emergere da un passato fatto di conflitti

e dominazione straniera, nell’ottica di un sodalizio religioso a carattere trasversale e

globale3.

Con il colpo di stato del 1968 e il consolidamento del ruolo del partito Ba’th, la Fratellanza

Musulmana irachena è costretta all’esilio, ricostituendosi come partito solo nel 1991 in Gran

Bretagna con il nome di Partito Islamico Iracheno.

Il partito continuò a promuovere i valori della tradizionale piattaforma politica pur restando

in esilio, ritenendo che Saddam Hussein potesse essere in breve tempo sollevato da un

colpo di stato o da un’azione militare guidata dagli Stati Uniti. Eventualità che si materializzò

tuttavia solo dodici anni più tardi, con l’operazione militare che portò gli Stati Uniti a

rovesciare il regime di Saddam, gettando tuttavia al tempo stesso il paese nel caos più

profondo, dopo la dissoluzione delle forze armate e dell’apparato statale.

A partire dal 1991, tuttavia, dopo la cocente sconfitta militare in Kuwait e l’isolamento

internazionale, Saddam Hussein abbracciò ipocritamente la religione islamica

trasformandola in uno strumento di potere e riconoscimento di suo personale ed esclusivo

interesse, dando ampio impulso alla costruzione di centinaia di nuove moschee e

alimentando una concezione dell’Islam sunnita funzionale alla marginalizzazione degli sciiti

e di tutte le componenti pluraliste.

3 Fuller, Graham E., “Islamist politics in Iraq after Saddam Hussein”, United States Institute for

Peace, Special Report n. 108, Agosto 2003.

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Saddam Hussein incaricò il suo vice, il generale Izzat Ibrahim al-Douri, di coltivare rapporti

con le cellule più radicali dell’islamismo sunnita, in parte finanziandole in funzione della

necessità di dare vita e corpo ad una sorta di struttura paramilitare della resistenza da

impiegare nell’eventualità in cui gli sciiti si fossero nuovamente ribellati, o qualora gli Stati

Uniti avessero nuovamente impiegato la forza contro l’Iraq.

Saddam manifestò anche una certa apertura nei confronti della Fratellanza Musulmana, tra

il 2001 e il 2003, sebbene questa non abbia mai ricambiato le aperture formulate da Saddam

tramite al-Douri, mantenendo una posizione defilata all’estero4.

Al collasso dell’apparato istituzionale iracheno nel 2003, la Fratellanza Musulmana ritenne

maturi i tempi per un ritorno in Iraq, senza tuttavia considerare come e quanto la

disgregazione sociale post-bellica avesse di fatto profondamente mutato gli equilibri anche

all’interno della stessa comunità sunnita.

La violenza più cieca che regnava in tutto l’Iraq all’indomani della caduta del regime favorì

in tal modo l’emergere di quei gruppi che avevano fatto della lotta armata e della resistenza

la loro bandiera, penalizzando enormemente tutte le forze politiche e confessionali che al

contrario ritenevano di potersi imporre attraverso un processo di riconciliazione nazionale e

di ricostruzione istituzionale dello Stato.

L’esplosione del più feroce settarismo e la continua repressione delle forze statunitensi nei

confronti della comunità sunnita, alla ricerca dei vertici del disciolto partito Ba’th e degli ex

quadri di regime, provocò in breve tempo una svolta drasticamente radicale del confronto.

L’insorgenza sunnita ben presto marginalizzò le componenti più moderate, abbracciando al

contrario una concezione radicale e parimenti settaria, favorendo l’emergere di nuovi piccoli

gruppi che scaturivano come gemmazioni spurie delle più grandi e consolidate

organizzazioni islamiste sunnite.

In breve tempo lo spazio di manovra per la Fratellanza Musulmana si ridusse drasticamente,

riducendosi alla blanda partecipazione politica post-regime e al consolidamento di forze

politiche senza grandi prospettive nel sempre più deteriorato panorama della politica e della

sicurezza irachena.

L’Esercito degli Uomini dell’Ordine dei Naqshbandi

Tra le molte sigle dell’insorgenza irachena, una menzione particolare deve necessariamente

essere fatta per l’Esercito degli Uomini dell’Ordine dei Naqshbandi, organizzazione militante

sunnita costituita – idealmente, più che materialmente – sulla pre-esistente struttura

4 Op. cit.

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irachena dell’Ordine dei Naqshbandi, gruppo sufico costituito nel 14° secolo per iniziativa di

Baha-ud-Din Naqshband Bukhari.

Il sufismo è storicamente radicato nell’esperienza politica e sociale del territorio in cui oggi

ha sede la nazione irachena. Due confraternite in particolare, la Qadiriya e la Naqshbandiya,

hanno svolto un ruolo importante nella vita sociale e politica del paese, partecipando

attivamente ai grandi mutamenti istituzionali e alla costruzione delle infrastrutture politiche

e sociali del paese. Sebbene di origini antichissime – le prime confraternite risalgono al 14°

secolo – le organizzazioni sufiche tornarono prepotentemente alla ribalta alla metà del 19°

secolo, svolgendo un ruolo preminente nella politica e nella società locale sino alla fine degli

anni Cinquanta.

Tollerate da Saddam Hussein in virtù del loro approccio non violento e di fatto nazionalista,

molte delle organizzazioni sufiche sopravvissero anche alla dittatura, andando in parte a

costituire il perno ideologico ed organizzativo del fenomeno dell’insorgenza.

Non sono disponibili notizie precise ed affidabili circa la costituzione dell’organizzazione,

sebbene appaia credibile una sua istituzione già nei primi mesi successivi all’intervento

militare statunitense in Iraq, nel 2003.

Spesso citata con l’acronimo derivante dal nome arabo, JRTN (Jaysh Rijal At-Tariqa al-

Naqshabandiya), l’organizzazione presenta sin dall’inizio un forte connotato nazionalista e

ba’thista, idealmente animato dalla necessità di proteggere il sufismo Naqshabandi di

derivazione irachena.

Uomini del Naqshbandi parteciparono senza dubbio all’insorgenza che, tra il 2003 e il 2006,

colpì tanto le forze della coalizione multinazionale presente in Iraq, sia quelle della

maggioranza sciita che dopo il 2003 aveva di fatto assunto il controllo politico del paese.

Ciononostante, il nome dell’organizzazione conosciuta come Esercito degli Uomini

dell’Ordine dei Naqshbandi emerse solo successivamente all’esecuzione dell’ex presidente

Saddam Hussein, il 30 dicembre del 20065.

Il JRTN ha operato principalmente nell’area dei Bagdad, nella provincia dell’Anbar e in

quella di Ninive, conseguendo inizialmente numerose vittorie sulle forze militari governative

e sulle diverse milizie che popolano l’Iraq sin dalla caduta del regime di Saddam Hussein.

Numerosi ex appartenenti alla Guardia Repubblicana, alle forze speciali del disciolto

esercito iracheno e a quello che un tempo fu il potente servizio di intelligence di Saddam

Hussein aderirono al progetto militare del JRTN, soprattutto grazie al ruolo dell’ex generale

5 Mapping Militant Organizations, Jaysh Rijal al-tariqa al-Naqshbandia (JRTN), Stanford

University, 2010.

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Izzat Ibrahim al-Douri, già esponente di spicco dell’apparato politico e militare del regime

ba’thista.

È grazie ad al-Douri che, prima ancora del collasso del regime, un numero sempre maggiore

di esponenti del partito e delle forze armate viene introdotto negli ambienti del sufismo

Naqshbandi, dando vita ad una sorta di organizzazione segreta più tardi in larga parte

confluita nell’organizzazione dell’insorgenza conosciuta come JRTN6.

Il travaso di questa capacità militare permetterà al JRTN di operare con incisività e rigore

organizzativo, divenendo in breve tempo una della organizzazioni più temute del panorama

dell’insorgenza irachena.

L’organizzazione del JRTN fu sin dapprincipio intrisa dai principi e dai valori del sufismo

sunnita, ed in tal modo l’architettura organizzativa assunse le caratteristiche di un ibrido

ideologico-militare costruito su ruoli di diretta derivazione della tradizione islamica. In

particolar modo, l’apparato militare venne strutturato in cellule composte da 6-12

combattenti al massimo, guidate da un “Emiro” la cui responsabilità territoriale veniva

stabilita da un vertice presieduto da uno “Sceicco” e composto da “Emiri” di rango superiore.

Una commistione di misticismo religioso e rigore militare derivante dal connubio delle

preesistenti matrici sufiche e ba’thiste, che avranno la capacità di imprimere un particolare

e pressoché unico connotato ideologico alla struttura del JRTN.

L’Esercito degli Uomini dell’Ordine dei Naqshbandi fu tra i primi a fare largo ricorso ai media,

filmando di sovente le proprie azioni e diffondendole poi attraverso la rete internet grazie ad

un’articolata quanto capillare rete di contatti che favoriva la circolazione e la distribuzione

dei materiali senza temere i frequentissimi oscuramenti dei siti da parte delle forze militari

statunitensi.

Il JRTN fu in grado di operare e diffondere la propria comunicazione anche attraverso alcuni

canali televisivi basati sulla piattaforma satellitare al-Ray7.

La missione del JRTN è essenzialmente quella di osteggiare il governo a guida sciita del

paese e ristabilire la posizione e il ruolo della componente sunnita e del partito Ba’th,

attraverso il ricorso ad uno spiccato nazionalismo e alla memoria di quello che fu il regime

di Saddam Hussein.

Al-Douri ha cercato costantemente il contatto con le altre organizzazioni dell’insorgenza e

le formazioni jihadiste, nell’intento di assurgere a capofila di un più vasto movimento

nazionale di lotta contro la presenza straniera e il governo a guida sciita.

6 Bakier, Abdul Hameed, "Ex-Baathists Turn to Naqshbandi Sufis to Legitimize Insurgency", The

Jamestown Foundation, 28 July 2008. 7 Knights, Michael, “Saddam Hussein’s Faithful Friend, the King of Clubs, Might Be the Key to

Saving Iraq”, New Republic, 24 June 2014.

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In quest’ottica ha cercato attivamente di collaborare con numerose delle principali sigle

dell’insorgenza irachena, tra cui anche l’iniziale struttura dello Stato Islamico, fornendo armi,

munizioni, esplosivi e capacità organizzative (sul territorio) costruite dal JRTN grazie alla

pregressa struttura di appoggio militare su cui l’organizzazione aveva potuto contare8.

Dopo un’iniziale forma di collaborazione, le sorti del JRTN e delle formazioni jihadiste di

estrazione salafita si separarono, trasformandosi progressivamente in vera e propria ostilità,

con scontri sempre più frequenti e spietatamente cruenti9.

Molto è stato scritto sul JRTN nel corso degli ultimi anni, sostenendo soprattutto che

l’organizzazione avesse sviluppato una forma di simbiosi con le forze di Al Qaeda prima e

dello Stato Islamico poi. In realtà il rapporto tra l’Esercito degli Uomini dell’Ordine dei

Naqshbandi e il jihadismo di estrazione salafita è stato solo temporaneo ed unicamente

motivato dalla ricerca di una sinergia che non solo è mancata, ma è poi sfociata in aperta

conflittualità. A negare questo rapporto fu per primo il generale James Nixon, comandante

delle forze militari statunitensi nelle regioni di Diyala e Kirkouk, ricordando come il JRTN

avesse un’impronta squisitamente nazionalista e di estrazione ba’thista, fortemente

permeata dalla presenza di ex ufficiali dell’esercito un tempo fedele a Saddam Hussein10.

Nel 2014 alcune sorgenti di stampa occidentali avevano ventilato l’ipotesi di un tentativo da

parte degli americani di avvicinare gli esponenti del JRTN per convincerli ad aderire ad un

progetto relativo alla costituzione di una Guardia Nazionale irachena formata da tutte le

principali forze del contesto sciita e sunnita. Tale ipotesi venne seccamente smentita da un

comunicato diramato dallo stesso JRTN il 2 dicembre del 2014, con il quale negavano di

aver preso parte ad una riunione organizzata dagli Stati Uniti per la creazione di una Guardia

nazionale irachena sotto il comando del governo di Hayder al-Abadi11.

La notizia destò interesse in quanto lasciò intendere che le forze statunitensi fossero pronte

a riconoscere il ruolo e la posizione del JRTN e, conseguentemente, del pluriricercato al-

Douri, nell’ottica di un dialogo di riconciliazione nazionale che tuttavia non trovò mai effettivo

sbocco nella pratica.

Ogni tentativo di engagement con al-Douri venne quindi presumibilmente abbandonato,

riprendendo vigore la sua ricerca che, con ogni probabilità, si concluse nell’aprile del 2015

8 Jawad al-Tamini, Aymenn, “Iraq crisis: Key players in the Sunni rebellion”, BBC News, 26 June

2015. 9 Greenfield, Daniel, “Al-Qaeda and Saddam’s Men Already Shooting At

Eachother”, FrontPage. David Horowitz Freedom Center, 28 June 2014. 10 Gilles Munier, “Iraq: la resistance naqshaband”, in Afrique Asie, Ottobre 2009. 11 Jawad al-Tamini, Aymenn, “The Naqshbandi Army’s current situation in Iraq”, 26 dicembre

2014.

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nel corso di un’azioni in cui si ritiene che al-Douri sia stato ucciso in un villaggio della

provincia di Salahuddin.

Con la presunta morte dell’ex vice di Saddam Hussein tornò prepotentemente agli onori

della cronaca il dibattito relativo alla presunta collaborazione del JRTN con lo Stato Islamico,

di fatto ponendo il Daesh come una sorta di evoluzione, o gemmazione, dello stesso JRTN.

La realtà di questo rapporto è tuttavia ben più complessa e al tempo stesso fragile.

La mancata cooperazione tra le formazioni qaediste e le quelle del JRTN avevano infatti

provocato una netta frattura tra le forze dell’Esercito degli Uomini dell’Ordine dei

Naqshbandi tra il 2009 e il 2013, determinando un generale raffreddamento del rapporto tra

il JRTN e le formazioni jihadiste di estrazione salafita

Con la scissione dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante dalla componente tradizionale

di Al Qaeda in Iraq, tuttavia, sembrerebbe essere stato riavviato il dialogo tra le milizie al

comando di al-Douri e quelle del Daesh.

Questo sodalizio sarebbe scaturito nell’estate del 2014, in concomitanza con la conquista –

praticamente incruenta – di un terzo dell’Iraq da parte dello Stato Islamico, e con la

contestuale sconfitta delle deboli forze militari del governo centrale di Bagdad a Mosul e in

buona parte delle province di Ninive e dell’Anbar.

Il JRTN avrebbe non solo fornito appoggio militare e logistico alle forze dello Stato Islamico,

ma avrebbe anche sostenuto la necessità di annunciare la creazione del Califfato nell’ampio

territorio sotto il loro controllo a cavallo del confine tra Iraq e Siria12.

Il sodalizio non avrebbe avuto tuttavia vita lunga, in conseguenza soprattutto della violenza

esercitata dagli uomini del Daesh sulle comunità cristiane del nord e del centro dell’Iraq,

massacrate brutalmente. Il settarismo anti-cristiano avrebbe provocato infatti dissensi tra i

non pochi elementi di estrazione cristiana dell’ex Ba’th poi confluiti nel JRTN, provocando

ancora una volta la frattura con le formazioni jihadiste.

La cooperazione tra il JRTN e le forze dello Stato Islamico è stata quindi in sintesi modesta,

di breve durata ed unicamente motivata dal tentativo (soprattutto da parte di al-Douri) di

creare un fronte comune di resistenza irachena che nei fatti non è mai stato possibile

costituire. La cooperazione è stata quindi quasi sempre assicurata dal JRTN in direzione

delle unità qaediste prima e dello Stato Islamico poi, venendo sistematicamente frustrata

dall’impossibilità di costituire un fronte nazionalista e squisitamente iracheno che potesse

far convergere la lotta verso quello che veniva considerato il governo fantoccio di Bagdad e

dei suoi dante causa internazionali.

12 Dettmer, Jamie, “He served Saddam. He served ISIS. Now Al Douri may be dead”, The Daily

Beast, 17 aprile 2015.

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Molto è stato scritto su questo sodalizio, ipotizzando una sintesi operativa che in realtà non

è mai effettivamente avvenuta, determinando nel corso soprattutto degli ultimi due anni

addirittura un’aperta conflittualità sul terreno13.

Le origini dell’ISIS e il ruolo di al-Zarqawi

Lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (ISIS), o più semplicemente lo Stato Islamico, o

ancora Daesh dall’acronimo delle sue lettere in arabo, è un’organizzazione jihadista di

matrice salafita sorta dalla trasformazione della precedente struttura della Jama’at al-

Tawhid wal-Jihad (JTJ, Organizzazione del Monoteismo e della Guerra Santa).

Il JTJ venne costituito nel 1999 dal giordano Abu Musab al-Zarqawi, con l’intento di

promuovere azioni terroristiche di matrice anti-occidentale in Giordania, aderendo all’ampio

network informale delle organizzazioni terroristiche di matrice salafita create dalla galassia

dei predicatori wahhabiti in Medio Oriente e Asia Centrale14.

Il processo di radicalizzazione di Al Zarqawi (il cui vero nome si ritiene essere Ahmed Fadeel

al-Nazal al-Khalayleh) si costruì attraverso un’infanzia di povertà e privazioni, che lo

spinsero prima nell’ambito della criminalità comune e poi in Afghanistan, dopo essere

entrato in contatto con religiosi wahhabiti che ne determinano una profonda trasformazione.

Dal 1989 al 1992 si recò in Afghanistan dove conobbe Osama bin Laden e ricevette un

addestramento militare che cercò di utilizzare per la costituzione di gruppi jihadisti in

Giordania, dove rientrò nel 1992 venendo ben presto arrestato.

Rilasciato nel 1999, dovette fuggire ben presto in Pakistan perché accusato di aver

partecipato al tentativo di far esplodere un Hotel ad Amman la notte di capodanno del 2000.

Qui incontrò nuovamente Osama bin Laden, da cui ricevette una donazione con la quale

aprì un centro di addestramento jihadista ad Herat, in Afghanistan, dove attirò decine di

giovani giordani radicalizzati dall’esperienza carceraria, costituendo il JTJ (che in realtà

sorse a sua volta sulle ceneri di una precedente cellula conosciuta come Jund Al Sham).

Sarà la guerra in Afghanistan a fornire ad al-Zarqawi il primo fronte operativo in cui misurare

la capacità della sua organizzazione, che sarà tuttavia ben presto costretta alla fuga dopo

l’attacco da parte degli Stati Uniti nel 2001. Ferito e braccato dai servizi di intelligence di

numerosi paesi occidentali e da quelli Giordani, al-Zarqawi iniziò un peregrinare di cui si

hanno tracce confuse sino al 2004, transitando per l’Iran, l’Iraq e la Siria15.

13 Al-Rashed, Abdulrahman, “The sufist Izzat al-Douri and the extremist ISIS”, Al Arabiya, 20 aprile

2015. 14 Weaver, Mary Ann, “The short, violent life of Abu Musab al-Zarqawi”, Atlantic Monthly, Luglio-

Agosto 2006. 15 Op.cit.

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Con l’occupazione americana dell’Iraq e la caduta del regime di Saddam Hussein, al-

Zarqawi si trasferì a Bagdad, dove la sua organizzazione dapprima operò in completa

indipendenza e poi il 17 ottobre del 2004 aderì ufficialmente alla rete di al Qaeda mutando

nome in Tanzim Qaidat al-Jihad fi Bilad al-Rafidayn, o più semplicemente al Qaeda in Iraq.

Il consolidamento di al-Zarqawi in Iraq coincide con un incremento esponenziale non solo

della violenza ma anche della brutalità adottata nella condotta delle azioni e nella gestione

dei prigionieri. Imbevuto di tradizione wahhabita e ritenendo necessario mostrare un volto

spietato e primordiale dell’Islam nei confronti dei suoi nemici, al Zarqawi iniziò a seminare

letteralmente il terrore in buona parte dell’Iraq, spesso colpendo indiscriminatamente anche

la popolazione sunnita e progressivamente provocando la reazione della stessa al Qaeda

di Bin Laden, che riteneva tanta efferatezza nei confronti dei civili del tutto controproducente

rispetto all’obiettivo di conquistare la fiducia e il sostegno della popolazione.

Al Zarqawi cercò spasmodicamente di riunire sotto un’unica bandiera l’intera comunità

dell’insorgenza irachena, arrivando nel 2006 a proclamare il Consiglio dei Mujahedeen e-

Shura, una sorta di ideale struttura unitaria entro cui far confluire tutte le cellule jihadiste

alleate.

Il progetto riuscì solo parzialmente e l’incremento delle operazioni militari americane

provocò la morte di al Zarqawi il 7 giugno 2006, facendo in tal modo emergere al vertice

dell’organizzazione Abu Ayyub al-Masri.

Questi cercò di consolidare il controllo centralizzato delle organizzazioni jihadiste avviato da

al-Zarqawi, ma con la morte di quest’ultimo si determinò un confuso periodo di gestione nel

vertice dell’organizzazione, dove più volte la figura di Abu Omar al-Baghdadi venne ritenuta

essere preminente rispetto a quella di al-Masri. L’organizzazione intensificò sempre più la

spettacolarizzazione della violenza, ingenerando da una parte la sensazione di invincibilità

dell’organizzazione ma anche determinando una sempre più netta spaccatura con i vertici

di Al Qaeda, che vedevano nell’uso spropositato della violenza una strategia fallimentare e

controproducente.

Questo stato di cose si protrasse sino al 2010, quando nel corso di un’operazione militare

nei pressi di Tikrit, condotta congiuntamente dalle forze statunitensi e irachene, sia al-Masri

che Abu Omar al-Baghdadi vennero uccisi.

L’ISIS di al-Baghdadi e la separazione da al Qaeda

Con la morte contestuale di quelli che per quasi due anni apparvero come i vertici del

Consiglio dei Mujahedeen e-Shura, emerse alla leadership dell’organizzazione Ibrahim

Awad Ibrahim al-Badri, detto Abu Bakr al-Baghdadi.

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Originario del distretto di Samarra, dove nacque (si suppone) il 28 luglio del 1971, del

passato di al-Baghdadi si conosce molto poco. Studente coranico mediocre, ha vissuto

quasi in disparte sino alla caduta del regime nel 2003, quando ha aderito ad alcune delle

organizzazioni jihadiste di matrice sunnita rimanendo tuttavia sempre una figura di secondo

piano almeno sino a poco prima della morte di al-Masri e di Abu Omar al-Baghdadi.

Nessuna delle informazioni sul suo passato e sulla sua formazione religiosa è mai stata

validata da prove certe, e continua ad aleggiare sulla figura di al-Baghdadi una doppia aura,

l’una costruita sul ruolo dell’erudito con anni di studi coranici avanzati, l’altra che lo vorrebbe

invece una sorta di impostore, senza reali titoli e competenze giuridico-religiose ed emerso

quindi quasi per caso al vertice dell’organizzazione.

Con l’ascesa di al-Baghdadi al vertice del Consiglio, il 16 maggio del 2010, il nome

dell’organizzazione venne definitivamente mutato in Stato Islamico dell’Iraq (come aveva di

fatto già disposto il suo predecessore), continuando ad includere al suo interno la struttura

conosciuta come Al Qaeda in Iraq.

Anche al-Baghdadi confermò la volontà di incrementare l’azione militare e spettacolarizzare

l’uso della violenza, colpendo ripetutamente Bagdad e la comunità sciita e facendo largo

uso di kamikaze ed autobombe.

Con lo scoppio della guerra civile in Siria, al-Baghdadi comprese quale potenziale potesse

celarsi dietro il collasso dell’autorità governativa siriana in buona parte delle regioni orientali

del paese, lanciando un’offensiva su vasta scala contro le forze regolari siriane così come

contro le forze di opposizione al regime, riuscendo progressivamente ad impadronirsi di una

vasta area di territorio lungo il corso del fiume Eufrate, e stabilendo a Raqqa lo stesso

capoluogo di quello che di lì a poco sarà annunciato come il Califfato.

Gli arsenali abbandonati dell’esercito siriano e le installazioni petrolifere caduto sotto il

controllo dell’ISIS riuscirono per lungo tempo a fornire ad al-Baghdadi non solo una

poderosa capacità militare, ma anche una consistente rendita economica grazie alla

commercializzazione del greggio con un vasto numero di attori regionali, statuali e non.

La guerra in Siria e le ambizioni del Califfato, poi pomposamente annunciato il 29 giugno

2014, determinarono tuttavia la definitiva rottura con la rete di al Qaeda, con cui l’ISIS entrò

in diretta contrapposizione soprattutto in Siria.

L’8 aprile del 2013, al Baghdadi annunciò la creazione dello Stato Islamico dell’Iraq e del

Levante, affermando che la cellula qaedista siriana di Jabhat al Nusra veniva inglobata nella

nuova organizzazione e posta sotto il comando operativo dell’ISIS.

La notizia venne prontamente confutata da Abu Mohammad al-Julani, al vertice di Jabhat

al Nusra, e confermata dallo stesso vertice di Al Qaeda, Ayman al-Zawahiri, che anzi

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ordinava lo scioglimento dell’ISIS e il ritorno degli uomini di al-Baghdadi all’interno dei confini

iracheni16.

Na derivò una spaccatura epocale, con la separazione delle due organizzazioni e l’avvio di

una fase di aperta ostilità che, soprattutto in Siria, determinò una sorta di partizione del

territorio tra le due fazioni un tempo alleate.

Ayman al-Zawairi tentò addirittura una mediazione, inviando in Siria Abu Khaled al-Suri, suo

uomo di fiducia, con l’incarico di individuare i margini per un soluzione del problema sorto

con l’arbitraria separazione dell’ISIS dalla rete di al Qaeda. Abu Khaled al-Nuri venne

tuttavia assassinato in circostanze poco chiare nel febbraio del 2014, determinando una

nuova e più intensa conflittualità tra l’ISIS e Jabhat al-Nusra, senza che alcuna soluzione

potesse essere anche solo lontanamente immaginata17.

Sebbene sempre presentatasi come una formazione anti al-Asad in Siria, un discreto

margine di perplessità è stato destato dall’ambiguità sia di al-Baghdadi sia di Bashar al-

Asad nella condotta di un conflitto che in realtà li ha visti combattere tra loro solo

sporadicamente.

Lo Stato Islamico ha sempre cercato di evitare lo scontro diretto con le forze militari del

regime di Damasco, concentrandosi al contrario sui suoi oppositori cui ha sottratto posizioni

e armi consolidando la sua area di influenza lungo le sponde del fiume Eufrate.

Al tempo stesso, a partire dalla fine del 2011, Bashar al-Asad, compreso di essere oggetto

di un attacco su più fronti anche con il consenso di alcuni attori regionali, liberò un enorme

numero di jihadisti dalla prigione di Damasco, permettendo a molti di questi di unirsi alle

forze dell’ISIS.

Bashar al-Asad ha quindi scientemente deciso di non ingaggiare alcun reale combattimento

con le forze dell’ISIS nella consapevolezza che questi avrebbero indebolito i suoi più temibili

avversari, Jabhat al Nusra e il Free Syrian Army.

Anche al-Baghdadi ha tuttavia adottato la medesima strategia, definendo di fatto una sorta

di tregua con le forze regolari siriane, posticipando l’eventualità di uno scontro ad una fase

successiva.

Anche in Siria, tuttavia, l’ISIS ha applicato la strategia del terrore e della

spettacolarizzazione della violenza, colpendo soprattutto le minoranze cristiane e le forze di

opposizione politica al regime di Bashar al-Asad, ingenerando quell’immagine di invincibilità

16 Manyuan, Dong, “The rise of ISIS: impacts and future”, China Institute for Contemporary

Studies, 14 novembre 2014. 17 Sly, Liz, “Al Qaeda disavows any ties with radical Isalmist ISIS group in Syria, Iraq”, The

Washington Post, 3 febbraio 2014.

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che è invece rapidamente sfumata in occorrenza dei pochi ma significativi scontri che

l’hanno interessata soprattutto a partire dalla fine del 2015.

Il consolidamento del ruolo dell’ISIS è tuttavia stato favorito anche dall’adozione di una

politica violentemente settaria e repressiva da parte dell’ex primo ministro iracheno Nouri

al-Maliki, che ha sistematicamente vessato le comunità sunnite irachene sino al punto di

spingerle prima alla rivolta e poi ad accettare passivamente nel corso del 2014

l’occupazione da parte dello Stato Islamico di oltre un terzo del territorio iracheno18.

A parte qualche scaramuccia durante la conquista di Mosul, il resto del territorio iracheno

caduto sotto il controllo dello Stato Islamico è stato occupato senza alcuno spargimento di

sangue da parte ella comunità sunnita, che ha anzi accolto benevolmente nella maggior

parte dei villaggi e delle città le forze dello Stato Islamico che hanno catturato o messo in

fuga un enorme numero di soldati regolari iracheni, catturando al tempo stesso ingenti

quantitativi di armi e munizioni.

La conquista delle province dell’Anbar e di Ninive del giugno 2014 ha tuttavia coinciso anche

con la massiccia divulgazione di immagini e filmati delle decine di esecuzioni condotte ogni

giorno contro i soldati dell’esercito iracheno caduti nelle mani del Daesh, rafforzando la

convinzione a livello internazionale della necessità di un intervento mirato per eradicare la

presenza dello Stato Islamico dalla regione.

Il vero successo politico di al-Baghdadi, tuttavia, è stato quello di sostituirsi ad Al Qaeda sul

piano globale nella rappresentazione del jihadismo che combatte, registrando un crescente

successo in termini di affiliazioni (o sedicenti tali), dichiarazioni di lealtà e subordinazione.

Il Daesh è divenuto in sintesi la nuova frontiera cui il jihadismo oggi guarda nella prospettiva

di una collocazione globale e sempre più radicale, coltivando successi non solo in Medio

Oriente e in Africa ma anche e soprattutto in Europa, dove ha saputo conquistare numeri

sempre maggiori di giovani islamici radicalizzati o semplicemente emarginati dal tessuto

sociale e familiare di provenienza, dando vita ad una nuova generazione di jihadisti molto

diversa da quella del passato e certamente più complessa da individuare e neutralizzare.

Sul fronte iracheno e siriano, invece, dopo la disastrosa disfatta del giugno 2014, le forze

irachene sono riuscite a riorganizzarsi grazie al consistente aiuto della comunità

internazionale, progressivamente riconquistando nella seconda metà del 2016 buona parte

dei territori caduti sotto il controllo dello Stato Islamico solo due anni prima, e dimostrando

per la prima volta all’opinione pubblica nazionale e internazionale quanto e come il Daesh

18 “What are the origins of Daesh?”, Anadolu Agency, 29 dicembre 2015.

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non sia quella forza militare imbattibile di cui i media avevano esaltato la brutalità e la

capacità.

Il processo di riconquista del territori delle province dell’Anbar e di Ninive avviene oggi grazie

alla rinnovata capacità dell’esercito iracheno ma anche e soprattutto grazie alla capacità

militare delle milizie sciite, espressione di quel contesto politico, religioso e sociale che ha

tuttavia determinato attraverso un esasperato settarismo il problema dello scontro con le

comunità sunnite e il consolidamento del jihadismo.

La radicalizzazione del rapporto tra le comunità confessionali dell’Iraq resta a tutt’oggi

irrisolta, ponendo un grave problema per il premier al-Abadi, che dovrà dimostrarsi ben più

saggio e pragmatico del suo predecessore nella gestione del rapporto con le comunità

sunnite, non solo adottando politiche coesive ma anche cercando di cancellare l’immagine

negativa, violenta e settaria di quella politica che ha contribuito nel corso degli ultimi tredici

anni a dividere e lacerare la società irachena.

La vera sconfitta dello Stato Islamico, in sintesi, può avvenire solo attraverso l’abbandono

del settarismo come strategia politica e mediante il ricorso a politiche sociali ed economiche

inclusive e garantiste. Un obiettivo oggi difficile da conseguire, che richiederà uno sforzo

collettivo in direzione di un processo di riconciliazione nazionale lento e costruito su piccoli

ma stabili passi.

La diffusione globale del Daesh

A partire dal 2014, e in particolar modo successivamente alla frattura politica che porta lo

Stato Islamico ad interrompere il sodalizio ideologico ed operativo con la rete di Al Qaeda,

la struttura del Daesh inizia ad emergere come un modello di riferimento per molti dei

principali gruppi jihadisti internazionali.

Dall’Africa al Medio Oriente, attraverso l’Asia Centrale sino al Sud Est Asiatico, si

moltiplicano in breve tempo le organizzazioni jihadiste che platealmente fanno atto di

sottomissione e lealtà alla struttura dello Stato Islamico, dando l’impressione di una capacità

di diffusione globale e potenzialmente inarrestabile.

A farne le spese, prima di ogni altra entità, è la rete di Al Qaeda, che vede decine di propri

sostenitori abbandonare progressivamente la rete creata da Bin Laden per abbracciare

quella che appare essere la nuova frontiera del jihadismo internazionale.

Lo Stato Islamico ha una straordinaria capacità attrattiva perché offre alle organizzazioni

jihadiste globali un modello di intervento ed una percezione del proprio ruolo ormai non più

riscontrabile nelle strategie del qaedismo, profondamente mutate e limitate dopo la morte di

Osama Bin Laden.

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È soprattutto la capacità mediatica del Daesh ad avere un ruolo preminente nella capacità

di proselitismo sulle strutture minori, fornendo non solo una nuova identità a gruppi altrimenti

marginali nel contesto del radicalismo islamico, ma anche una visibilità spesso mai

conseguita attraverso il proprio ruolo.

L’adesione alla rete dello Stato Islamico è quindi nella maggior parte dei casi meramente

opportunistica e simbolica, e si manifesta attraverso il semplice mutamento di nome delle

organizzazioni e l’adozione di una comunicazione e una narrativa del messaggio costruita

sul modello del Daesh, e quindi attraverso un uso smisurato e spettacolare della violenza.

Sotto il profilo ideologico, tuttavia, sono scarsissime le reali osmosi con la struttura centrale

irachena, limitandosi il più delle volte a mere prese di contatto tra leader, o scambi di

messaggi e incoraggiamenti alla lotta.

Buona parte delle organizzazioni che tra il 2014 e il 2016 manifestano pubblicamente la

propria adesione alla rete dello Stato Islamico in realtà non subiscono alcun sostanziale

mutamento organizzativo e operativo, limitandosi ad incrementare la propria comunicazione

verso l’esterno diffondendo soprattutto le nuove denominazioni.

Da Boko Haram in Nigeria ad Ansar al-Sharia in Libia, così come la vasta galassia di sigle

più o meno note in tutto il continente asiatico, le strutture jihadiste che aderiscono al

sodalizio dello Stato Islamico restano pressoché invariate nella loro struttura di vertice,

organizzativa ed operativa.

Al contrario, tuttavia, il sistema dei media occidentali ha dato ampio risalto alla notizia,

enfatizzando il rischio connesso a questa trasformazione, arbitrariamente incrementando la

percezione della soglia di rischio per l’Europa. Ne è derivata una sorta di psicosi, in un certo

qual modo ancora in atto, che ha interessato la gran parte degli apparati di sicurezza

europea, spesso distogliendoli dalle priorità connesse soprattutto alla gestione dei foreign

fighters e dei processi di radicalizzazione sul continente europeo.

Particolare attenzione hanno chiaramente riscosso gli attentati commessi in Francia e in

Belgio, laddove tuttavia la radice delle spinte motivazionali delle cellule che hanno

ripetutamente colpito i due paesi deve essere analizzata ed interpretata secondo concezioni

del tutto differenti e distinte rispetto alle spinte motivazionali dei combattenti del Daesh in

Iraq.

Ha egregiamente analizzato questo fenomeno lo studioso francese Oliver Roy, che ha

definito generazionale e nichilista la rivolta dei jihadisti europei, e non quindi il prodotto di

una radicalizzazione della comunità musulmana19.

19 Roy, Olivier, “Le djihadisme est un révolte générationelle et nihiliste”, Le Monde, 24 novembre

2015.

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Per quanto lo Stato Islamico abbia potuto esportare il proprio nome, quindi, il fenomeno

jihadista di cui è portatore non ha saputo e potuto trovare reale radicamento al di fuori della

tradizionale area di dislocazione delle forze del Daesh.

Lo Stato Islamico è quindi un fenomeno puramente e squisitamente espresso

dall’evoluzione della realtà politica e sociale dell’Iraq, che ha saputo e potuto espandersi in

Siria solo ed esclusivamente al fine di ampliare la propria capacità operativa ed economica,

senza tuttavia mutare o innovare la locale dimensione dello scontro.

Il Daesh nasce e si sviluppa come una realtà sunnita costruita sul terreno della società

irachena, fortemente favorito dalla contestuale radicalizzazione dello scontro settario con la

maggioranza sciita di governo emersa successivamente al 2003. È quindi un fenomeno del

tutto locale ed in alcun modo globale, che ha saputo affermarsi grazie alla

compartecipazione nell’organizzazione di elementi qualificati di provenienza militare e più

in generale amministrativa ed organizzativa.

Il Daesh ha saputo effettuare un vero e proprio salto di qualità nel settore della

comunicazione, spettacolarizzando la violenza e portandola grazie ai social media nelle

case degli occidentali, sino ad allora abituati ad una percezione della violenza e degli scontri

decisamente più tradizionale, e soprattutto mediata.

Nonostante tale capacità comunicativa, tuttavia, la reale capacità operativa e logistica

dell’ISIS è stata più volte di fatto smentita nel corso di quelle operazioni militari – del tutto

sporadiche, almeno fino al 2016 – condotte dalla comunità internazionale contro le forze del

Daesh. A dispetto dell’immagine offerta nei comunicati e nei filmati di propaganda, l’ISIS ha

dimostrato non solo di non poter reggere l’urto di un conflitto tradizionale con forze meglio

organizzate ed equipaggiate, ma ha soprattutto dimostrato di non aver saputo garantire alla

popolazione civile sotto il suo dominio alcun reale beneficio rispetto al passato, perdendo

progressivamente quel consenso che ne aveva permesso il radicamento in Iraq e favorendo

la riconquista di buona parte dei territori controllati a partire dal 2014.

Alla luce di queste considerazioni è possibile tracciare un bilancio fortunatamente non

positivo né tantomeno possibilista sul futuro dello Stato Islamico. In Iraq la rinnovata

capacità delle forze armate nazionali – sostenute dalle milizie sciite e da un poderoso quanto

defilato supporto dei paesi occidentali – ha determinato la perdita di buona parte dei territori

occupati a partire dal 2014, e sembra imminente allo stato attuale non solo la perdita di

Mosul - che rappresenta un polo insostituibile per l’economia dell’organizzazione – ma

anche di quasi tutti i caposaldi regionali nelle province dell’Anbar e di Ninive.

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L’ingresso della Russia e dell’Iran nel conflitto siriano ha poi mutato radicalmente il quadro

delle opzioni strategiche dell’ISIS anche in Siria, dove – seppur con estrema lentezza – è

iniziata la fase di riconquista delle aree occupate dallo Stato Islamico.

La morsa in cui l’ISIS rischia di essere intrappolato a cavallo del confine tra Siria e Iraq,

pone oggi concretamente un interrogativo per le forze dell’autoproclamato Califfato, i cui

spazi di manovra sembrano assottigliarsi sempre più, senza alcuna reale soluzione in

termini di ri-dislocazione territoriale.

Lo Stato Islamico – quello autentico e localizzato in Iraq e Siria – è di fatto sconfitto, o

prossimo alla sconfitta finale. L’obiettivo è quindi oggi quello di impedire che le sue cellule

disperse nel post-conflitto possano costituire delle future metastasi nel contesto politico e

sociale dell’Iraq, attraverso una corretta e capillare politica di riconciliazione nazionale

costruita sulla effettiva capacità e volontà di accettare un pluralismo e una partecipazione

identitaria sino ad oggi sistematicamente frustrata.

Si tratta di una sfida impegnativa e complessa per il premier al-Abadi, che deve oggi

ricostruire la società irachena utilizzando ciò che resta di quell’identità nazionale fatta

sistematicamente a pezzi dal ba’thismo prima e dal settarismo poi, attraverso la profonda

ed ancor oggi aperta ferita, dell’occupazione straniera, della guerra civile e della violenza

provocata da un’evoluzione del concetto di jihadismo che ha così profondamente ferito l’Iraq

e la sua società.

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Parte III

La comunicazione strategica dello Stato Islamico come innovazione

Il principale elemento di successo nel consolidamento del ruolo e della percezione operativa

dello Stato Islamico è stato senza dubbio rappresentato innovativa capacità di

comunicazione e dalla spettacolarizzazione della violenza attraverso un uso spregiudicato

quanto capillare delle immagini e dei video prodotti professionalmente dai propri media

team.

Sebbene anche la rete di Al Qaeda avesse in passato investito molto sulla comunicazione,

adottando anch’essa modelli e tecniche certamente innovativi, l’esperienza del Daesh si

colloca su un piano nettamente differente, altamente professionale e strategicamente

pianificato.

Lo Stato Islamico si dota quindi di veri e propri professionisti della comunicazione, non solo

dotati di spiccate qualità tecnico-artistiche nella progettazione e produzione dei materiali,

ma anche e soprattutto capaci di ideare e realizzare prodotti specificamente pensati per

un’audience squisitamente occidentale.

Con il Deash si passa quindi dal prodotto semi-artigianale di Al Qaeda, fondamentalmente

concepito e realizzato per un pubblico mediorientale, ad un vero e proprio nuovo stile

narrativo che combina la tradizione islamica e l’iconografia del jihadismo con un una tecnica

di produzione moderna e di chiaro stampo occidentale20.

La comunicazione del Daesh diventa quindi una sorta di spot, in ogni sua manifestazione

mediatica, con il chiaro obiettivo di essere compreso, in un certo senso apprezzato (sotto il

profilo stilistico in particolar modo) e di ingenerare timore in un’audience di cultura

squisitamente occidentale.

La gamma della produzione e della diffusione è articolata e scadenzata secondo i canoni

operativi di una moderna media factory, facendo largo ricorso ai social media e

all’iconografia patinata dei magazine dell’organizzazione, che con cadenza regolare –

soprattutto nei primi tempi – introducono una nuova metodologia comunicativa all’interno

del sistema culturale occidentale.

L’audience del Daesh non è tuttavia solo la comunità europea e nord-americana di

tradizione cristiana. L’organizzazione si prefigge sin da subito l’esigenza di veicolare anche

un messaggio chiaro ed accattivante per le sempre più grandi comunità islamiche presenti

in occidente, nel chiaro intento di recuperare alla causa del Califfato soprattutto i giovani

radicalizzati ed emarginati delle periferie urbane europee e statunitensi, offrendo un

20 Ridout, T.A., “Resisting Daesh’s Message: On Strategic Communications in War”, The

Huffington Post, 2 agosto 2016.

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messaggio concepito secondo chiavi comunicative di differente natura, in modo da poter

indirizzare qualsiasi prodotto di comunicazione a cluster di audience differenti tra loro per

cultura, fede, sesso ed età.

I pilastri strategici della comunicazione dell’ISIS

La comunicazione strategica dell’ISIS è quindi strutturata su quattro pilastri meta-narrativi,

che corrispondono ad altrettanti obiettivi di comunicazione dell’organizzazione, in direzione

di due contesti di audience molto distinti tra loro21.

a. Narrativa politica

La narrativa politica ha come obiettivo quello di trasferire al primo cluster di riferimento,

l’audience occidentale, e al secondo, l’audience della comunità islamica, due distinti

messaggi.

I messaggi per il primo cluster sono:

─ veicolare l’immagine statuale del Califfato e la sua solidità

─ fornire informazione, saturando ogni altro canale informativo

I messaggi per il secondo cluster sono invece:

─ favorire reclutamento e permanenza nei ranghi delle milizie

─ trasferire i principi ideologici del Califfato

b. Narrativa morale

La narrativa morale è essenzialmente diretta alla sola comunità musulmana, per

trasferire attraverso l’ideologia i connotati della corruzione morale dell’occidente e la

fallacità delle democrazie liberali, denunciando l’ipocrisia del mondo occidentale, ed

offrendo al tempo un’alternativa di riscatto attraverso l’interpretazione originale e più

pura dell’Islam. L’ISIS è quindi in questa chiave interpretativa una sorta di salvatore

della umma islamica, cui offre non solo uno strumento interpretativo ma anche un

contesto pratico entro cui esercitare i principi etici dell’Islam.

c. Narrativa religiosa

La narrativa religiosa è forse il contesto più complesso tra quelli della narrativa

strategica dell’ISIS, dovendosi misurare con una conflittualità interna al mondo

musulmano che spazia dall’interpretazione corretta dei principi religiosi sino alla

definizione dell’eresia.

L’elemento principale della narrativa religiosa in termini comunicativi è tuttavia quello

della legittimazione dello Stato Islamico, costruita sull’imposizione di un dogma che non

21 Pellerin, Clara, “Communicating Terror: an Analysis of ISIS Communication Strategy”, Science

Po, Kuwait Program, Primavera 2006.

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condanna solo i non credenti, ma anche i musulmani che non riconoscono la necessità

di favorire, o non sostengono la costituzione, del Califfato.

Il trasferimento di questi elementi di comunicazione al cluster dell’audience occidentale

deve tuttavia transitare attraverso i principi dell’ideologia, trasformati per essere

comprensibili in un ambito privo di strumenti interpretativi teologici o semplicemente

dottrinali.

d. Narrativa sociale

La narrativa sociale ha come scopo primario quello di trasmettere la paura e il senso di

ineluttabilità della vittoria dell’ISIS ad entrambi i cluster di riferimento. La paura viene a

tal scopo articolata attraverso il messaggio della violenza, nella sua forma più selvaggia

e primitiva, rompendo i canoni tradizionali dell’etica e del rispetto dell’uomo tipici della

società occidentale, imprimendo in tal modo l’idea di un connotato quasi soprannaturale

dell’avversario22.

La narrativa sociale serve tuttavia anche a screditare nell’ambito del cluster

dell’audience musulmana. Screditare significa demonizzare e delegittimare ogni altra

componente politica o jihadista della galassia islamista, attribuendo al solo Stato

Islamico il ruolo guida nella lotta contro l’oppressione e la decadenza occidentale.

In quest’ambito, Al Qaeda rappresenta il primo elemento di interesse per il Daesh, in

una lotta per la supremazia che non accetta condivisione degli spazi.

La narrativa sociale ha infine il non trascurabile compito di promuovere la memoria dei

martiri e il senso di appartenenza alla comunione del Califfato.

22 “Strategic Communications – East and South”, Report n. 30, European Institute for Security

Studies, Parigi, Luglio 2016.

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I criteri strategici della narrativa dell’ISIS, elaborazione dell’autore.

Ne consegue che il modello narrativo dell’ISIS è alquanto complesso, ed articolato in modo

da soddisfare una pluralità di target audience diversi tra loro per cultura, fede, età e

collocazione geografica.

Il criterio dominante della narrazione è quello della legittimazione e dell’esaltazione del ruolo

dello Stato Islamico, visto di volta in volta attraverso chiavi interpretative dirette ad

influenzare target diversi con messaggi precisi. Esiste quindi una vasta produzione, ad

esempio, di materiale divulgativo per i giovani e soprattutto i giovanissimi, tesa a consolidare

non solo l’immagine di forza del Califfato, ma anche e soprattutto quella della sua legittimità

come migliore opzione per i giovani musulmani. Aderire e proteggere il Califfato è in questo

senso oggetto di emancipazione e crescita individuale e di gruppo per i giovani, sulla

falsariga di quello che la moda, lo status e più in generale il consumismo attribuisce ai loro

omologhi della società occidentale.

La teoria dei sei elementi narrativi di Charlie Winter

Secondo Charlie Winter, Senior Research Associate della Georgia State University, sono

sei gli elementi ricorrenti della strategia narrativa dell’ISIS, e più precisamente la brutalità, il

perdono, il vittimismo, la guerra, l’appartenenza e l’utopia23.

23 Winter, Charlie, “The Virtual Caliphate: Understanding Islamic State’s Propaganda Strategy”,

QuilliamFoundation, 2015.

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Tutti e sei gli elementi coesistono secondo Winter in un bilanciamento costante, che

impedisce il prevalere dell’uno sugli altri. In tal modo, secondo l’esperto, la comunicazione

dell’ISIS è un prodotto articolato e complesso, in cui l’elemento della brutalità coesiste con

gli altri nella medesima misura, venendo esaltato come primario solo dagli osservatori

occidentali, che in tal modo non ne comprendono appieno il significato nell’insieme

omogeneo della narrativa complessiva.

È una considerazione interessante, quella di Winter, che permette di configurare il progetto

narrativo dell’ISIS nella sua interezza, cogliendone il significato e la strategia complessiva

senza cadere nell’errore di privilegiare uno o più elementi a danno di altri.

L’elemento della violenza e della brutalità sulle vittime designate rappresenta in tal modo il

linguaggio attraverso il quale l’ISIS comunica al target audience internazionale la

spietatezza con cui il Califfato intende gestire gli infedeli e i nemici dell’Islam, non lasciando

alcuno scampo e offrendo come alternativa solo la conversione. Il messaggio impatta anche

sulle comunità locali che, in tal modo, sono scoraggiate dall’ingaggiare un combattimento

con chi – in caso di cattura – non solo non avrà pietà, ma adotterà nei loro confronti una

brutalità senza precedenti.

Un elemento di forte impatto, parte della narrativa sociale dell’ISIS, che ha saputo

concretamente realizzare i suoi obiettivi letteralmente terrorizzando la popolazione civile e

buona parte delle forze armate irachene per lungo tempo, scoraggiando qualsiasi iniziativa

militare contro le forze del Daesh.

All’elemento della violenza e della brutalità, largamente diffuso in occidente come prova

della necessità di promuovere l’impegno internazionale contro l’ISIS, tuttavia, deve essere

abbinato il meno noto ricorso da parte dello Stato Islamico alla narrativa del perdono, che -

come afferma Winter24 - costituisce la compensazione della brutalità ed offre alla sola target

audience locale la prospettiva della salvezza.

La narrativa del vittimismo e della potenza sono invece parte di uno stesso insieme, che nel

medesimo contesto spiegano perché sia necessaria la lotta – oppressione, decadenza, ecc.

– e come questa sia affrontata con maestria e capacità, non lasciando scampo al nemico.

In questo non si risparmiano informazioni sulle tecniche di combattimento impiegate,

sull’addestramento svolto o sulle armi impiegate, lasciando intendere come il complesso di

questi elementi conferisca una capacità superiore ed ineguagliabile alle forze del Califfato.

Da tutto ciò ne derivano quindi gli ultimi due elementi narrativi, di cui il primo è

l’appartenenza, attraverso la comunanza di obiettivi e la condivisione dell’ideologia, e il

24 Op.Cit.

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secondo è l’utopia, e quindi l’obiettivo di lungo termine, dove l’ISIS propone un sistema

sociale alternativo, rivoluzionario ed antitetico con quello tradizionale imposto dalle culture

decadenti ed oscene del mondo occidentale.

La struttura organizzativa del sistema di comunicazione strategica dell’ISIS

La considerazione generale espressa da chi studia il fenomeno mediatico connesso alla

narrativa dello Stato Islamico è concorde. L’ISIS dispone non solo di uno staff tecnicamente

preparato e culturalmente adeguato alla veicolazione di messaggi complessi e in direzione

di target audience diverse tra loro, ma è capace di un coordinamento della comunicazione

avanzato e di concezione efficiente e moderna, mutuato quasi certamente da omologhe

esperienze occidentali e traslato nell’ottica di una localizzazione islamica e mediorientale25.

Un giudizio di eccellenza che deve far riflettere sulla capacità e la possibilità di contrastare

la comunicazione strategica dell’ISIS con mezzi tradizionali, imponendo al contrario la

necessità di una ridefinizione della strategia comunicativa occidentale nella regione e più in

generale sulle comunità del mondo musulmano26.

Non sono disponibili dati precisi ed affidabili circa l’effettiva composizione della struttura di

comunicazione del Daesh, sebbene se ne possa dedurre l’ampiezza e la delocalizzazione

geografica dalla constatazione di alcuni elementi. Secondo J.M. Berger e Jonathon Morgan,

ricercatori della Brookings Institution, non meno di 45.000 profili Twitter sarebbero

direttamente gestiti dall’organizzazione, lasciando ben intendere il numero di addetti

impiegati nella gestione di una tale massa di account27.

Appare quindi chiaramente come la struttura organizzativa che gestisce la comunicazione

strategica del Daesh sia multi-dimensionale, caratterizzata da un approccio estremamente

dinamico e funzionale, e capace di una gestione ampia e variegata di target.

Il primo e più importante elemento per comprendere la struttura organizzativa della

componente di comunicazione dell’ISIS è quello di tenere presente come la stessa sia

modellata sulla falsariga della struttura di comando e di combattimento, e quindi suddivisa

in entità territoriali minori, i Wilayat (o province), con un grado di autonomia disomogeneo a

seconda del paese e del tipo di presenza sul territorio28.

25 Farley, Robert, “Five ISIS Weapons of War America Should Fear”, The National Interest, 25

settembre 2014 26 Pellerin, Clara, Op.Cit. 27 Berger, J.M., Morgan, Jonathon, “The Isis Twitter Census”, The Brookings Institution, Analysis

Paper, 20 marzo 2015. 28 Azoulay, Rivka, “Islamic State franchising: Tribes, Transnational jihadi networks and

generational shifts”, CRU Report, Clingendael, The Hague, 2015.

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La struttura operativa della comunicazione è invece articolata su un moderno ed efficiente

mix di funzioni e media, coordinati ed articolati su più prodotti e formati. Il controllo centrale

è affidato alla struttura dell’Al Hayat Media Centre, posto direttamente sotto il controllo della

struttura centrale di comando dell’ISIS, e da questa dipendono tutte le attività di

comunicazione e di divulgazione mediatica.

L’informazione ricorrente – intesa come quella di più frequente divulgazione, stante la

difficoltà di poter attribuire una cadenza temporale tradizionale alla struttura comunicativa

dell’ISIS - è affidata all’agenzia di stampa Amaq, che diffonde poi capillarmente i propri

messaggi soprattutto attraverso i social media, facendo largo impiego di Twitter e Facebook.

All’agenzia di stampa si affiancano una stazione radiofonica, l’Al Bayan, e due magazine a

cadenza variabile, il Dabiq e il Rumiya, entrambi diffusi sia in arabo che in inglese e,

saltuariamente, in altre lingue.

I differenti media sono invece supportati esternamente da strutture che producono contenuti

testuali, fotografici e video di alta qualità, che vengono poi ritrasmessi da tutte le antenne

periferiche del sistema nei più differenti formati.

L’Al Hayat Media Centre

L’Al Hayat è strutturato su una sezione centrale di coordinamento, presieduta si suppone

da un Chief of Media Operations29, da cui dipendono gerarchicamente le sezioni periferiche

dislocate nei vari Wilayat. Una netta distinzione organizzativa riguarda le sezioni periferiche

dell’Iraq e della Siria, preminenti sulle altre, e quelle dislocate negli altri paesi della regione

e dell’Africa30.

Il centro è supportato dalla Fondazione Al-Furqan, basata in Pakistan e in Afghanistan e da

non confondersi con quella di ben diversa natura basata a Londra, che provvede a fornire

adeguata copertura finanziaria e capacità professionale al centro.

La funzione primaria del centro è quella di ideare, pianificare e diffondere la compagna di

comunicazione strategica dell’ISIS nell’ambito dei più diversi cluster di interesse.

In particolar modo, quattro risultano essere i target primari identificati dal centro:

- Audience globale di cultura non araba e non musulmana

- Audience globale di cultura araba e di religione musulmana

29 Non c’è consenso tra glia analisti circa l’effettiva presenza di un Chief of Meda Operations,

sebbene molte testimonianze raccolta da prigionieri o ex appartenenti all’organizzazione lascerebbero ritenere verosimile la presenza di questa figura. Molte speculazioni sono [segue] [continua] state fatte circa l’identità del coordinatore, senza tuttavia poter disporre di nessun elemento utile alla reale e precisa identificazione.

30 “Strategic Communications – East and South”, Op.Cit.

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- Audience regionale di cultura araba e di religione musulmana in aeree occupate

dell’ISIS

- Audience regionale di cultura araba e di religione musulmana in aree non occupate

dall’ISIS

Ognuno dei target primari prevede un’attività di comunicazione e divulgazione strutturata su

target multipli secondari, al fine di massimizzare i risultati attesi dal piano di comunicazione

strategica.

L’Al Hayat Media Centre è il collettore di tutta la produzione audio, video e testuale

dell’organizzazione, dove gli elementi informativi vengono assemblati e prodotti in funzione

dei diversi contesti di divulgazione, realizzando professionalmente filmati, gallerie

fotografiche, musiche e documenti di testo.

La struttura organizzativa dell’Al Hayat Media Centre, elaborazione dell’autore.

Una delle attività che assorbe maggiormente le strutture dell’Al Hayat è il monitoraggio e il

rimpiazzo degli account di comunicazione sospesi o “hackerati” dalla rete degli oppositori,

nell’intento da un lato di mantenere aggiornata la rosa delle sorgenti distributive e dall’altra

contrastare i tentativi di delegittimazione o diffamazione attraverso la gestione di fake.

L’utilizzo dei forum è invece essenzialmente destinato alla gestione del reclutamento su

scala regionale e globale, oltre che al trasferimento di messaggi e alla gestione di

sporadiche comunicazioni tra cellule dell’organizzazione. Mentre un gran numero di forum

è stato utilizzato da account riconducibili alla rete di comunicazione dell’Al Hayat, la stessa

organizzazione non sembra impegnata nella gestione diretta di nessuno di questi, ben

conscia della facile capacità di individuazione e della conseguente sospensione del servizio.

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A tal fine preferisce servirsi di strutture terze, utilizzando soprattutto i servizi di

messaggistica interna per eludere i controlli e favorire la comunicazione la gestione dei

rapporti con potenziali elementi da reclutare.

Ad ulteriore dimostrazione di come la struttura del Daesh sia il prodotto di un fattore sociale

prettamente iracheno, è bene evidenziare come la gran parte degli account impiegati sui

social media sia registrato e gestito dall’Iraq e dalla Siria, impiegando all’80%l’arabo come

lingua di comunicazione31.

L’impiego dei social media avviene in modo estremamente professionale, senza mai

coinvolgere il vertice operativo dell’organizzazione per minimizzare i rischi di identificazione

e successiva eliminazione. L’utilizzo dei social media è quindi limitato alla diffusione della

comunicazione strategica e alla gestione della messaggistica di base con le cellule sul

terreno e i potenziali soggetti da reclutare, utilizzando tuttavia accorgimenti particolari sulla

sicurezza e la riservatezza, in modo da prolungare quanto più possibile la vita degli account

ed impedirne al tempo stesso l’identificazione.

Viene fatto largo uso delle app disponibili per la telefonia mobile, come nel caso di “The

Dawn of Glad Tidings”, che simula le funzioni della più famosa “Thunderclap” e permette il

regolare aggiornamento dei gruppi e dei singoli utenti32.

La comunicazione sui social media viene elaborata in modo da massimizzare i risultati

distributivi per ogni singolo strumento, utilizzando in tal modo Twitter primariamente per la

diffusione dei comunicati, delle notizie quotidiane e dei link alle pagine diffuse in rete, e

Facebook al contrario come piattaforma di fidelizzazione attraverso la quale soprattutto

gestire le foto, i video e i contatti con le reti globali e i potenziali candidati al reclutamento33.

Particolare menzione deve essere dedicata alla sezione di produzione video, gestita da

elementi di assoluta professionalità non solo in possesso delle nozioni generali della

produzione cinematografica, ma anche e soprattutto della conoscenza degli strumenti e

delle tecnologie – soprattutto nella post-produzione – più avanzate di settore.

31 Azoulay, Rivka, Op.Cit. 32 Farwell, James P., “How ISIS uses social media”, Survival Editor’s Blog, IISS, 2 ottobre 2014. 33 Può essere interessante notare come un deciso incremento si sia registrato, a partire dal 2016,

nell’utilizzo di Telegram, con l’apertura di numerosi nuovi canali, tra cui alcuni in lingua italiana, come nel caso di Khalifa News. Telegram si presta ad essere un ottimo veicolo di distribuzione per i materiali infografici, mentre ha destato interesse ed al tempo stesso preoccupazione la creazione di un canale dedicato interamente gestito in lingua italiana. Non pochi hanno associato il lancio di questo canale alla maggiore visibilità delle truppe italiane durante l’avvio della battaglia lanciata dal governo iracheno per la riconquista di Mosul, ponendo l’accento sulla possibilità di un maggiore interesse verso il paese in previsione di possibili azioni ostili ai contingenti impegnati in teatro operativo.

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L’analisi dei video di molte delle esecuzioni filmate e poi trasmesse attraverso la rete ha

dimostrato come la produzione sia a volte durata giorni, transitando aggiustamenti di post-

produzione di livello comparabile a quello cinematografico professionale, con il risultato di

un prodotto del tutto nuovo rispetto all’artigianale e grossolana capacità produttiva ad

esempio di Al Qaeda o delle struttura a questa associate.

I video dall’Al Hayat sono veri e propri prodotti di prima fascia qualitativa, spesso realizzati

soprattutto tenendo conto i criteri produttivi e le modalità espressive più vicine ai canoni

culturali del mondo occidentale, realizzando in tal modo video che – seppur nella loro

tragicità e violenza – hanno capacità di essere compresi da un’audience diversa da quella

locale mediorientale.

Particolare attenzione viene accordata alla componente musicale e linguistica dei prodotti

audiovisivi, rendendoli in tal modo immediatamente comprensibili e fruibili dal target

audience di riferimento. La musica di accompagnamento, quasi sempre presente, è oggi

studiata per essere declinata in diversi contesti culturali e linguistici, massimizzando il tal

modo il risultato atteso.

Alla tradizionale camera fissa dei primitivi filmati un tempo realizzati dal jihadismo di

estrazione qaedista, si sostituisce oggi la capacità offerta da più angoli di ripresa e dal

conseguente articolato montaggio di immagini ed audio, non trascurando elementi come la

luce, il bilanciamento del bianco e ogni altra possibile accortezza capace di contribuire alla

realizzazione di prodotti audiovisivi complessivamente realizzati con perizia

cinematografica.

La produzione odierna dell’ISIS offre quindi una qualità garantita dall’impiego di

strumentazioni e tecniche che rappresentano lo stato dell’arte della tecnica di produzione

cinematografica e televisiva, assicurando un rendimento qualitativo mai sperimentato prima

nell’ambito della comunicazione dei gruppi jihadisti.

L’uso di tecnologie e applicazioni criptate

Ha destato scalpore, dopo gli attentati di Parigi del novembre del 2015, il commento

espresso dall’ex vice direttore della CIA, Michael Morrell, secondo cui gli attentatori

potrebbero aver impiegato tecnologie criptate per comunicare con le strutture dell’ISIS in

Iraq e in Siria, confermato pochi giorni dopo anche un’anonima fonte della sicurezza

francese34.

34 Gallagher, Sean, “ISIS using encrypted apps for communinications; former intel officials blame

Snowden”, Ars Technica, 16 novembre 2015.

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Secondo gli investigatori, l’ISIS starebbe impiegando applicazioni per la telefonia mobile di

natura commerciale, criptate con algoritmi professionali che ne rendono estremamente

difficile il controllo, incrementando enormemente la capacità di coordinamento dei team

impegnati nelle azioni suicide.

Mentre è ben noto l’uso di programmi come Telegram, soprattutto al fine della diffusione di

canali tematici e contenuti ad uso della propaganda, ciò che preoccupa i servizi di

intelligence occidentale è l’impiego di applicazioni commerciali criptate al solo fine della

comunicazione, e quindi meno visibili e di conseguenza intercettabili.

Poco dopo i fatti di Parigi è stato individuato, durante le successive operazioni contro le

cellule presenti in Francia e Belgio, un documento di 34 pagine prodotto da una società

kuwaitiana di sicurezza informatica dove si fornivano indicazioni per l’uso di tecnologie

criptate. Il documento, in realtà prodotto per sostenere l’azione degli attivisti politici dei diritti

umani e i giornalisti in Medio Oriente, è stato adottato anche dalle cellule jihadiste europee

ed ha costituito la base per la gestione delle comunicazioni tra i principali gruppi operanti tra

la Francia e il Belgio35.

Il documento rappresenta una vera e propria guida operativa alla sicurezza informatica,

fornendo istruzioni per mitigare in modo considerevole il rischio di intercettazione attraverso

il ricorso a semplici procedure ed espedienti adattabili alla gran parte delle azioni richieste

dalla comunicazione.

Sono quindi indicate le modalità di accesso e gestione di Twitter in modalità sicura, viene

suggerito di utilizzare account di posta elettronica gestiti da società non statunitensi

(menzionando espressamente il servizio offerto da Ushmail o da ProtonMail) o ancora una

lunga serie di consigli sui telefoni criptati (come Cryptophone o BlackPhone).

Altri suggerimenti contenuti nel documento sono quelli relativi alla connettività senza far uso

di Internet, tramite applicazioni per la telefonia mobile che consentono di scambiare

messaggi e file fino a 200 metri di distanza, totalmente criptati e di difficilissima

individuazione.

Altro capitolo del documento è quello relativo all’accesso al deep web, con indicazioni sui

browser e sulle procedure da impiegare per impedire l’identificazione automatica da parte

dei software e quella manuale da parte degli hacker.

Uno degli esecutori degli attentati in Belgio del marzo 2015, Najim Lachouri, avrebbe

comunicato lungamente dal suo rifugio di Bruxelles con un non meglio identificato jihadista

35 Szoldra, Pail, “15 secure apps ISIS terrorists are using to communicate online”, Business Insider

UK, 20 novembre 2015.

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dell’ISIS in Siria, di nome Abu Ahmed, dal quale avrebbe ricevuto istruzioni e consigli sulla

progettazione e sulla conduzione dell’attacco.

Tutte le comunicazioni sarebbero avvenute per mezzo di Telegram - un normale software

criptato commerciale – poi individuato sul suo computer, abbandonato in uno dei tre rifugi

di Bruxelles dove si era nascosto36.

Hanno rivelato i dettagli di questo episodio i vertici della polizia francese e di quella belga,

a margine dell’operazione che ha permesso la cattura dell’unico elemento sopravvissuto

agli attacchi dell’aeroporto e della metropolitana di Bruxelles, confermando come anche

l’applicazione Wahtsapp fosse stata frequentemente utilizzata dai terroristi per la gestione

delle loro comunicazioni.

L’episodio ha riacceso il dibattito relativo alla disponibilità di applicazioni commerciali

criptate, per le quali le autorità di un gran numero di paesi chiede agli sviluppatori i codici di

accesso per poter monitorare l’attività dei gruppi criminali che se ne servono. Richiesta cui

le società si oppongono da sempre, rivendicando la necessità di garantire tutti gli utenti che

se ne servono, pena il crollo commerciale della distribuzione di questa tipologia di prodotti.

Il poderoso incremento nell’utilizzo di applicazioni criptate è spesso combinato con

l’adozione di criteri di trasferimento delle informazioni e dei dati basato sull’impiego di più

device e più strumenti di comunicazione, rendendo in tal modo pressoché impossibile

l’identificazione e l’accesso all’informazione. È attraverso queste tecniche che l’applicazione

diviene solo il primo tassello di una procedura combinata di trasferimento che rimanda ad

una successiva, o più di una, ulteriore applicazione, rendendo l’attività investigativa e la

ricerca fisica del dato praticamente impossibile anche per le agenzie di intelligence dotate

delle più sofisticate tecnologie intrusive.

La narrativa della comunicazione strategica dell’ISIS in contrapposizione a quella di

Al Qaeda

Una delle più impegnative attività della cellula di comunicazione dello Stato Islamico è

costituita dal costante sostegno al dibattito in seno alla comunità musulmana – sia regionale

che globale – sulle differenze dottrinali con le altre organizzazioni e in particolar modo con

Al Qaeda.

Questo dibattito si è reso necessario dopo la frattura del 2014 tra l’organizzazione di Al

Baghdadi e quella di Al Zawahiri e la conseguente confusione diffusasi in seno alle principali

componenti della lotta jihadista.

36 Rotella, Sebastian, “The Dark Side of Privacy: How ISIS Communications Go Undetected”,

Pacific Standard, 29 luglio 2016.

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La dottrina di entrambi gli schieramenti è costruita su veri e propri arbìtri interpretativi, rifiutati

tanto dagli studiosi islamici quanto dalla gran parte della massa della comunità musulmana,

attraverso una selezione di versi del Corano e una loro interpretazione funzionale agli

obiettivi perseguiti. Ciò che in sintesi sia Al Qaeda che lo Stato Islamico hanno compiuto è

una rivisitazione in chiave del tutto strumentale dei principi religiosi e giuridici espressi dal

Corano, costruendo modelli dottrinali propri, nuovi e a modo loro originali.

Lo Stato Islamico considera come suoi mufti i sauditi Ozman al-Zazeh al-Asiri e Omar al-

Qahtani, e il bahreinita Turki Ben Ali, ed in particolare quest’ultimo, già allievo di Abu

Mohamed al-Maqdisi.

Una prima profonda differenza dottrinale tra lo Stato Islamico e Al Qaeda è data dal

superamento del concetto di seniority (asbaqiyya) all’interno del dibattito teologico e

giurisprudenziale, come dimostrato dall’aperta rottura tra Turki Bel Ali e il suo ex mentore

al-Maqdisi, consumatasi nell’ambito della più vasta frattura tra Al Qaeda e il Daesh nella

gestione del rapporto con Jabhat al Nusra in Siria nel 2014.

Turki Ben Ali ha sostenuto la legittimità del predominio dello Stato Islamico, scontrandosi

quindi con le posizioni di condanna di al-Maqdisi, che ha in tal modo palesato in

quell’occasione il suo sostegno ad Al Qaeda.

La componente dottrinale maggioritaria del jihadismo ha in tal modo condannato la

posizione di Turki Bel Ali e dello Stato Islamico, accusandola di devianza e di incompatibilità

con la posizione dei principali esponenti religiosi di orientamento salafita, determinando una

frattura ideologica su cui è stata costruita l’immagine della controparte come takfir, e quindi

infedele e miscredente.

Lo Stato Islamico ha poi costruito buona parte della sua narrativa dottrinale sull’ineluttabilità

della violenza, quale strumento necessario per combattere le armate degli infedeli in una

sorta di scenario apocalittico connesso alla mitologia dell’ultima battaglia di Dabiq contro le

armate “romane”, intese come conquistatrici ed impersonificate oggi dagli Stati Uniti (da cui

il nome delle due riviste).

Anche Al Qaeda ha da sempre considerato la violenza come strumento necessario per

mondare il Medio Oriente dalle potenze occidentali, eludendo anch’essa in tal modo i principi

della giurisprudenza islamica sulla guerra, costruiti sui limiti dei conflitti e sulla protezione

dei non combattenti.

Sia lo Stato Islamico che Al Qaeda sono animate dalla volontà di fare ordine prioritariamente

all’interno della grande umma islamica, eliminando l’apostasia e l’eresia. In quest’ottica,

dove gli sciiti rappresentano l’eresia e tutti coloro che si oppongono alla creazione del

Califfato l’apostasia, ne deriva che il campo avversario è ampio ed eterogeneo.

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L’esperienza del Daesh è transitata attraverso l’iniziale priorità della lotta contro l’eresia,

caratterizzando in tal modo la visione dottrinaria dell’organizzazione come espressione di

un retaggio squisitamente iracheno.

Con l’intensificarsi dell’impegno militare statunitense – ed occidentale, più in generale –

contro i capisaldi dello Stato Islamico a partire dal 2015, l’interpretazione delle priorità è

mutata all’interno della concezione dottrinale del Daesh, favorendo una concentrazione

dello sforzo bellico in direzione dell’apostasia, e quindi della minaccia più diretta ed

incombente sulla sicurezza del Califfato.

In termini più generali, quindi, le differenze dottrinali tra lo Stato Islamico ed Al Qaeda sono

relativamente poche e potenzialmente sanabili. Ciò che divide le due organizzazioni è quindi

la lotta per il predominio nel contesto del jihadismo e la ricerca di una legittimità primigenia

nella conduzione di quella “necessaria battaglia” per l’unione della Sunna islamica.

Al Qaeda continua a sostenere che la brutalità gratuita e la violenza applicata dallo Stato

Islamico sia una devianza ed una controproducente politica di coesione all’interno del

mondo musulmano, denunciando la teatralità della barbarie del Daesh e il sadismo dei suoi

adepti.

Non meno complessa la questione del Califfato, che lo Stato Islamico sostiene di aver già

fondato e che AL Qaeda rifiuta sostenendo che i tempi e le condizioni non siano ancora

mature, rifiutando di fatto ogni ipotesi di Califfatto realizzato e dominato dalla figura di al-

Baghdadi ed influenzato dall’interpretazione “sciariatica” di Turki Ben Ali.

Lo scontro tre le due organizzazioni principali del jihadismo è quindi in larga misura costruito

sulla ricerca di un predominio che l’una rifiuta di concedere e riconoscere all’altra,

fortemente intriso di personalismi e di interpretazioni religiose del tutto arbitrarie e funzionali

ad una visione dell’Islam totalmente asservita al controllo delle proprie prerogative politiche

ed economiche.

I media dello Stato Islamico: l’agenzia Amaq

L’agenzia Amaq, costituita il 14 agosto del 2014 in Iraq, cerca di apparire nelle vesti di una

vera e propria agenzia stampa dedicata alla diffusione della cronaca delle principali

evoluzioni politiche e della sicurezza in Medio Oriente.

Si tratta al contrario di un’articolata agenzia creata allo scopo di diffondere le informazioni e

la propaganda dello Stato Islamico, da cui si è sempre dichiarata indipendente nonostante

l’evidenza derivante dall’accesso privilegiato alle informazioni e la velocità di diramazione.

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L’agenzia Amaq è solitamente la fonte più veloce ed immediata nel riportare le rivendicazioni

degli attentati e delle azioni condotte dal Daesh, collocandosi in una posizione alquanto

ambigua del panorama editoriale iracheno.

La linea editoriale dell’agenzia è alquanto ambigua e costruita sulla necessità di difendere

il paradossale ruolo di indipendenza che ha cercato di sostenere sin dall’inizio delle attività

in occasione dell’assedio alla città curda di Kobane.

Da allora l’Amaq si è caratterizzata per essere il principale erogatore di informazioni sullo

Stato Islamico e sulla sua narrativa politica, sebbene quasi sempre all’interno di un format

costruito per sembrare pluralista e super partes.

La diffusione delle notizie avviane attraverso la rete internet, sotto forma di comunicati il più

delle volte scritti in lingua araba, e attraverso applicazioni della telefonia mobile, dove Amaq

ha sviluppato una propria app37 denominata Arawi, e anche attraverso un canale Telegram.

La strategia comunicativa di Amaq è costruita su una fragile credibilità accreditata dall’uso

di un lessico apparentemente neutro e incondizionato, che invece è strumentale alla

diffusione della narrativa ideologica del Daesh sotto forma di comunicati che hanno come

scopo primario quello di legittimare il ruolo e la battaglia del Califfato.

Si ritiene che sia controllata direttamente dall’Al Hayat Media Centre, da cui riceva le

informazioni e le direttive circa le tecniche di comunicazione e divulgazione delle

informazioni e della narrativa di sostegno alla causa dello Stato Islamico.

Secondo Rukmini Callimachi, giornalista del New York Times, l’agenzia Amaq è stata creata

con il chiaro intento di poter essere percepita come esterna al Daesh e del tutto indipendente

dalla sua causa, utilizzando un linguaggio giornalistico caratterizzato da una “patina di

obiettività” che, sebbene non sufficiente a convincere l’audience occidentale, sembra

tuttavia avere un certo successo in Iraq e in Siria38.

Il sito statunitense di informazioni specializzato sul jihadismo “SITE – Intelligence Group

Entrerprise”, che spesso traduce le informazioni diffuse di Amaq, riconosce l’agenzia come

espressione diretta dello Stato Islamico, sostenendo che a partire dal 2016 circa ha iniziato

a comunicare secondo i canoni di una vera e propria agenzia governativa, collocandosi in

tal modo in un ambito del tutto particolare e senza precedenti del panorama editoriale

internazionale.

37 Applicazione che risulta essere stata clonata più volte – probabilmente da paesi occidentali – a

fine presumibilmente di individuare e monitorare i simpatizzanti del Daesh. 38 Callimachi, Rukmini, “A News Agency With Scoops Directly for ISIS, and a Veneer of

Objectivity”, New York Times, 14 gennaio 2016.

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Un particolare di non poco conto su cui la stampa e gli esperti internazionali non hanno

saputo dare risposta concerne l’ubicazione fisica della sede dell’agenzia, ufficialmente in

Iraq sebbene senza mai specificare in quale luogo. Si ritiene che la gestione di Amaq sia

assicurata da una redazione geograficamente distribuita in più località e organizzata su una

redazione organizzata orizzontalmente, subordinata alle direttive dell’Al Hayat ma senza

una vera e propria catena di comando propria. Questo permetterebbe all’agenzia non solo

una grande flessibilità nella catena di produzione dell’informazione ma anche la sicurezza

di poter sopravvivere ad attacchi da parte delle forze locali o delle forze aeree internazionali.

I media dello Stato Islamico: la radio Al Bayan

La stazione radiofonica Al Bayan trasmette in Iraq e Siria presentandosi ufficialmente come

emittente dello Stato Islamico, e da circa un anno ha aggiunto la Libia al suo network

geografico di produzione e trasmissione delle informazioni.

Il formato narrativo dell’emittente è multiplo, sebbene caratterizzato da un’impronta

significativa dei temi a sfondo religioso, politico e di informazione.

La trasmissione, analogica e terrestre su poco meno di una decina di frequenze, è garantita

da otto uffici regionali, in Iraq (Falluja, Mosul, Tikrit), Siria (Palmira, Raqqah) e Libia

(Bengasi, Derna e Sirte) e da un numero imprecisato di antenne di ripetizione del segnale

collocate in una vasta area del Medio Oriente. Si ritiene che il segnale sia spesso ripreso e

ripetuto anche da stazioni radio terze che, pur non essendo in alcun modo connesse ad Al

Bayan, ne condividano i principi e le finalità favorendone la diffusione.

La lingua di diffusione principale è l’arabo, sebbene siano numerosi i programmi offerti

anche in curdo, inglese, francese e russo, nell’intento soprattutto di alimentare il timore

dell’ISIS e la sua percezione di forza militare potente e determinata anche all’interno del

territorio controllato dalle forze governative del regime di Bashar al-Asad in Siria.

La centrale primaria di trasmissione è a Mosul ed opera sulla frequenza principale MHz

92,50 e sulla secondaria MHz 99,30.

La gran parte dei programmi radiofonici trasmessi da Al Bayan sono strutturati su veri e

propri format costruiti e gestiti professionalmente dagli operatori, suddivisi secondo un

palinsesto articolato.

I programmi di informazione, sebbene fortemente di parte, si sono caratterizzati per

puntualità e precisione dell’informazione, conquistandosi in tal modo una fama di affidabilità

che ne permette di sovente la citazione anche da parte dei media occidentali quando

interessati a commentare fatti di cronaca relativi al ruolo dello Stato Islamico.

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La programmazione del palinsesto è pensata per servire al 70% circa l’audience locale

all’interno dei territori già controllati dallo Stato Islamico e al 30% per fornire elementi di

comunicazione in direzione soprattutto dei paesi occidentali. I giornalisti impiegano

visibilmente “note di linguaggio” che tendono a ripetersi e confermarsi quali elementi della

narrativa nel corso delle diverse trasmissioni, fornendo in tal modo utili indicazioni circa le

priorità comunicative dello Stato Islamico.

Una parte non trascurabile della produzione è dedicata alla divulgazione religiosa della

dottrina del Daesh, con soventi interviste ad esponenti religiosi regionali.

Dopo la conquista di Sirte da parte delle milizie di Misurata, in Libia, la programmazione

radiofonica delle locali cellule di radio Al Bayan a Sirte e Derna sembra essersi ridotta

drasticamente, probabilmente riducendosi alla sola diffusione dalla provincia di Bengasi.

All’inizio del 2016 è stata lanciata un’applicazione per telefonia mobile, basata su tecnologia

Android, per la ricezione della programmazione direttamente sul telefono cellulare. A darne

notizia è stato il sito di informazione Vocativ, specializzato nell’analisi della comunicazione

jihadista nel deep web, unico posto dove l’app è disponibile39.

I media dello Stato Islamico: la rivista Dabiq

Il nome Dabiq della prima rivista dello Stato Islamico si riferisce all’omonima cittadina

siriana, oggi occupata dalle forze del Daesh, a cui lo Stato Islamico attribuisce un grande

valore simbolico nella narrativa religiosa e politica del Califfato.

Alcuni sostengono che il Profeta Maometto abbia indicato la cittadina di Dabiq (anche nota

come al Amaq, da cui il nome dell’agenzia di stampa) come il luogo dove avverrà l’ultimo

scontro con i “romani” (da Rum, nome arabo dei bizantini), nella marcia per la conquista di

Costantinopoli40.

La cittadina, in prossimità del confine tra Siria e Turchia, oggi conta non più di 3000 abitanti

e oltre al valore simbolico della narrativa coranica costituisce un avamposto strategico per

il controllo dei flussi terrestri nelle aree controllate dal Daesh.

Il nome di Dabiq è stato quindi scelto come simbolo iconografico per il lancio della prima

rivista dello Stato Islamico, pubblicata in formato digitale a partire dal 5 luglio 2014 da una

redazione ubicata a Raqqa e con ramificazioni in Siria e in Iraq, a Mosul.

39 Tasch, Barbara, “ISIS has reportedly released its firts Android app”, Business Insider UK, 2

febbraio 2016. 40 “Dabiq: Why is Syrian town so important for IS?”, BBC, 4 ottobre 2016.

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Lo sforzo editoriale dietro la rivista è risultato ingente sin dall’inizio, traducendo ogni numero

in diverse lingue, favorendo soprattutto l’inglese al fine di massimizzare la distribuzione in

direzione del cluster audience occidentale.

La distribuzione della rivista avviene inizialmente attraverso il deep web, da cui viene

prelevata e poi redistribuita attraverso una fitta rete di account di varia natura sia email che

sui social media.

Le finalità primarie della rivista sono quelle relative alla legittimazione dello Stato Islamico e

del Califfato, del reclutamento attraverso la narrativa epica del combattimento contro gli

infedeli e, non ultima, la diffusione della paura e della percezione di ineluttabilità della vittoria

del Daesh.

La rivista è realizzata in modo estremamente professionale, facendo ampio uso di immagini

e grafica realizzata ad hoc per arricchire e corredare gli articoli. Il prodotto è studiato per

essere fruito da diversi utenti finali, eterogenei per credo, cultura ed età, con un occhio di

riguardo alla trasmissione della narrativa della comunicazione strategica del Daesh, che sul

prodotto ha visibilmente investito risorse e capacità.

Le pubblicazioni non hanno seguito una cadenza regolare e questo, secondo gli analisti,

riflette le evidenti difficoltà dello Stato Islamico, soprattutto a partire dagli ultimi mesi del

201541:

- 5 luglio 2015, Il ritorno del Califfato;

- 27 luglio 2014, Il diluvio;

- 10 settembre 2014, Una chiamata all’Egira;

- 11 ottobre 2014, La crociata fallita;

- 21 novembre 2014, Consolidamento ed espansione;

- 29 dicembre 2014, Al Qaeda in Waziristan: una testimonianza dall’interno;

- 12 febbraio 2015, Dall’ipocrisia all’apostasia: l’estinzione della “zona grigia;”

- 30 marzo 2015, la Sharia, da sola, governerà l’Africa;

- 21 maggio 2015, Loro pianificano e Dio pianifica;

- 13 luglio 2015, La legge di Dio e le leggi degli uomini;

- 9 agosto 2015, Dalle battaglie di Al-Azhab alla guerra delle coalizioni;

- 18 novembre 2015, Solo il terrore;

- 19 gennaio 2016, I Radidah, da ibn Saba a Dajjal;

- 13 aprile 2016, La confraternita dei Murtadd;

- 31 luglio 2016, Rompi la croce.

41 Jihadology, http://jihadology.net/category/dabiq-magazine/

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I media dello Stato Islamico: Rumiyah

Dopo alcuni mesi di ritardo nella pubblicazione di Dabiq, il 6 settembre del 2016 lo Stato

Islamico ha avviato la distribuzione di una nuova rivista dal titolo Rumiyah (Roma in arabo,

ma anche la città dei Rum, bizantini, occupanti di Costantinopoli, in un diretto riferimento

alla caduta dell’impero romano d’Oriente).

La scelta del nome appare sin dal principio volutamente ambigua, volendo allo stesso tempo

lanciare un messaggio al cristianesimo e alla devianza del mondo musulmano, che sarà

sconfitto appunto a Dabiq, luogo della battaglia finale con i Rum.

Non è ben chiaro se la nuova rivista intenda sostituire Dabiq o se al contrario si affiancherà

a questa occupandosi di temi differenti e con un numero decisamente inferiore di pagine,

ed è altrettanto confusa la cadenza che il giornale intende assumere nel prossimo futuro.

Come nel caso di Dabiq, anche Rumiyah è pubblicato in diverse lingue, adottando lo stesso

sforzo iconografico e grafico che aveva caratterizzato la qualità della precedente rivista.

Sono usciti ad oggi cinque numeri della rivista, da settembre del 2016 al gennaio del 2017,

e tutti sono stati caratterizzati dalla natura squisitamente veicolare dei messaggi contenuti,

incitando gli aderenti a colpire le comunità di infedeli in diversi modi (coltello, camion, ecc.)

fornendo indicazioni utili sul come massimizzare l’effetto dell’attacco.

La rivista sembra quindi rispondere non più primariamente alle esigenze di comunicazione

e legittimazione dello Stato Islamico, quanto ad incitare all’azione gli aderenti e i

simpatizzanti, dimostrando di essere uno strumento di comunicazione adottato per

rispondere alle impellenti esigenze di protezione dell’integrità territoriale ed organizzativa

del Daesh.

La pubblicazione è stata lanciata nel momento di maggiore difficoltà per lo Stato Islamico

soprattutto in Iraq, in conseguenza del successo nell’avanzata delle truppe dell’esercito

regolare iracheno sia nella provincia dell’Anbar che in quella di Ninive, con l’inizio di un

assedio a Mosoul che potrebbe prefigurare il collasso generale del Califfato in Iraq e

conseguentemente in Siria. Non in pochi sono quindi convinti che la nuova rivista sia stata

concepita e distribuita attraverso i tradizionali canali del deep web, allo scopo di incitare alla

lotta nel disperato tentativo di assicurare ancora la protezione degli interessi e della struttura

del Daesh, per la prima volta terribilmente in pericolo sotto i colpi dell’attacco sferrato dagli

iracheni e dalle forze della coalizione internazionale42.

42 McKernan, Bethan, “Isis’ new magazine Rumiyah shows the terror group is struggling to adjust

to losses’”, Independent, 6 settembre 2016.

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PARTE IV

Contropropaganda e risposta alla capacità tecnico-organizzativa dell’ISIS in termini

di comunicazione

La risposta alla capacità dell’ISIS sul piano della comunicazione strategica e della

competenza tecnico-artistica di produzione dei supporti mediatici deve avvenire

necessariamente all’interno di un triplo binario, economico, cinetico e ideologico.

Obiettivo di questo studio è l’approfondimento del terzo piano di intervento, sebbene per

completezza si affronterà anche un rapido accenno iniziale alle differenti opzioni praticabili

sul piano economico e cinetico.

L’obiettivo generale dell’azione sul piano ideologico è invece rappresentato dalla sfida da

un lato per ideare un profilo di contro-narrativa ideologico-religiosa e dall’altro per creare un

modello comunicativo altrettanto efficace per veicolare messaggi e proposte ad un target

audience vasto ed eterogeneo per cultura, età, fede ed esperienza.

Solo una pluralità di fattori, come detto, può concorrere nel tentativo di competere con il

modello attrattivo dello Stato Islamico, favorendo una traslazione dei suoi simpatizzanti ed

aderenti in direzione di un progetto politico e sociale alternativo a quello del Califfato.

È quindi opportuno ricordare chiaramente quali siano le principali cause che hanno

determinato il successo dell’ascesa dell’ISIS, insistendo ancora una volta sul fattore

geografico che vede limitato all’Iraq, e in subordine alla Siria, il radicamento effettivo

dell’organizzazione.

Le principali cause che hanno favorito la nascita e il consolidamento dello Stato Islamico

sono otto, da individuarsi più precisamente in:

- collasso o indebolimento degli apparati governativi;

- decadimento del sistema economico-produttivo;

- incremento della disoccupazione e dell’emigrazione;

- incremento della violenza e della conflittualità;

- ascesa di nuove élite politico-militari, economiche e sociali;

- ricorso al settarismo come strumento di dominazione politica;

- incremento del tribalismo e del settarismo confessionale;

- decadimento del pluralismo politico e dei valori democratici.

L’insieme di questi fattori è peraltro il risultato di un processo di transizione da una fase

politica caratterizzata da un lungo periodo di autoritarismo e conflittualità, sia interna che

regionale, in conseguenza della quale l’Iraq in particolar modo aveva patito un costante

declino economico.

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La nascita e lo sviluppo dell’ISIS sono quindi il prodotto delle aspettative frustrate dalla

mancata transizione pluralista e democratica una volta vinto l’autoritarismo e l’emergere

invece del settarismo e di una violenza repressa da anni di mancato sviluppo delle più

elementari regole della democrazia.

Per combattere il fenomeno del radicalismo islamico, sorto e sviluppatosi come alternativa

al caos e al vuoto lasciato dalla mancata capacità di garantire una effettiva transizione, è

quindi chiaro che deve essere fornita una risposta credibile che non sia basata solo ed

esclusivamente su programmi di sostegno alla sicurezza (security centered) ma al contrario

impostata sulla soddisfazione di tutte le esigenze primarie della società locale, fornendo

quelle garanzie che rendono insostenibile il paragone con il modello violento offerto dal

jihadismo e dal settarismo.

Ambito generale d’azione nel contrasto al modello narrativo dello Stato Islamico,

elaborazione dell’autore.

La risposta economica e cinetica alla capacità attrattiva dello Stato Islamico

I principali problemi delle società interessate da fenomeni di radicalizzazione sono

solitamente quelli di natura economico-occupazionale e socio-integrativi, che danno luogo

alla verticalizzazione delle sperequazioni di censo e alla progressiva cristallizzazione della

capacità d’innovazione sul piano economico e produttivo, sfociando quindi in violenza e

partizione dei gruppi sociali in ambiti distinti e solitamente conflittuali tra loro.

Sebbene il presente studio si interessi della componente ideologico-comunicativa del

problema connesso al contrasto al modello attrattivo dello Stato Islamico, non può non

essere fatta menzione delle altre due componenti necessarie al completamento di un piano

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complessivo di contrasto allo Stato Islamico, soprattutto in conseguenza del fatto che una

efficace campagna di contro-informazione deve non solo contrastare il modello avversario

ma anche e soprattutto saper comunicare la propria strategia d’azione che, per l’appunto,

si compone anche di una fase cinetica ed una di intervento economico-sociale.

La competizione con lo Stato Islamico non può quindi avvenire attraverso una sola delle tre

fasi di intervento, e soprattutto non può e non deve essere security centered, e quindi

sviluppata principalmente intorno all’azione cinetica delle componenti militari.

Per combattere lo Stato Islamico sul piano sociale, sottraendo terreno sul piano

dell’attrattiva ideologica, sociale e della sicurezza, è necessario offrire un contro-modello di

forza ed impatto ben superiore, costruito sull’attrattiva della stabilità e della prosperità (qui

si parla di radicalizzazione in Iraq e Siria, vero?).

L’innumerevole mole di studi sulla società mediorientale, e quella irachena in particolar

modo, dimostra come il principale ostacolo alla normalizzazione e alla stabilità è dato

dall’impossibilità di riavviare un meccanismo virtuoso di partecipazione politico-sociale,

abbinato alla mancanza di risorse per la ripresa delle attività economico-produttive.

L’insieme di questi due fattori deve quindi rappresentare il primo tassello di una progettualità

internazionale di intervento costruita sulla effettiva ed efficace ristrutturazione del tessuto

economico, quale elemento di base per la riconnessione di quello sociale, al fine di ristabilire

un sistema di partecipazione politica basato sul pluralismo e sul riconoscimento della

legittimità sociale e politica delle controparti ideologiche, etniche o tribali.

Nessuna ipotesi di intervento può esulare dall’obbligato passaggio attraverso la fase della

riprogettazione economico-produttiva.

Nel caso dell’Iraq, che rappresenta il vero e proprio ambito politico e sociale dove lo Stato

Islamico è sorto e si è sviluppato, la capacità di intervento sul piano economico-produttivo

si presenta ipoteticamente facilitata dalla ricchezza di risorse minerarie del paese, in

particolar modo nel settore degli idrocarburi, potenzialmente utile a fornire il necessario

volano finanziario per la ricostruzione dell’economia nazionale.

L’economia degli idrocarburi costituisce anche elemento di pericolo per la eventuale

trasformazione in rentier state43 delle entità statuali che non riuscirebbero poi ad avviare

reali processi di diversificazione economica e produttiva. Per scongiurare tale possibilità è

necessaria una programmazione di sviluppo orientata alla progressiva diversificazione

attraverso l’investimento in settori non oil-centered della produzione.

43 L’espressione rentier state indica quegli Stati che traggono il loro PIL (in tutto o per buona parte

di esso) dalla rendita assicurata dalla vendita delle risorse naturali locali, come ad esempio gli idrocarburi. Il rentier state è quindi lo “Stato redditiere”, che per definizione beneficia senza progettazione per il futuro (diversificazione) delle proprie ricchezze naturali.

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Il primo piano d’azione per il contrasto al fenomeno del radicalismo islamico in Iraq deve

quindi transitare necessariamente attraverso una riprogettazione delle prerogative di

sviluppo economico ed industriale del paese, formulando strategie costruite sui proventi del

petrolio ma adattandole alla realtà di un paese che ha impellente esigenze di diversificare

in direzione di altri settori della produzione, soprattutto al fine di incrementare l’occupazione

che invece si presenta in costante calo nei settori tecnologici ad elevata automazione.

La conformazione geomorfologica dell’Iraq, con la compresenza di zone aride e secche e

zone umide e fertili, potrebbe favorire lo sviluppo da un lato di una poderosa produzione

agricola e dall’altro di un contestuale sviluppo industriale in settori terzi rispetto al comparto

oil&gas, come ad esempio quelli del manifatturiero44, dell’automotive e dei servizi.

L’Iraq ha una radicata tradizione scolastica che aveva permesso nel corso del tempo il

consolidamento di una struttura di educazione superiore e universitaria di livello elevato,

come nel vicino Iran, su cui sarebbe possibile ricostruire non solo una classe dirigente

capace e preparata ma anche un settore della manodopera altamente qualificato.

La priorità dei processi di sviluppo economico deve quindi essere costruita sulla

diversificazione industriale e sull’incremento esponenziale dell’offerta di lavoro, che

rappresentano gli unici antidoti per una efficace campagna di contrasto al modello radicale

del jihadismo e della violenza politica.

Non è tuttavia pensabile alcuna azione concreta in direzione di qualsiasi ipotesi di sviluppo

economico senza una reale capacità di allargamento della base politica in chiave pluralista

e partecipativa.

Il principale errore commesso dalla comunità internazionale nella conduzione delle attività

che hanno portato alla caduta di Saddam Hussein e alla nascita del nuovo Iraq e stato quello

di accettare – se non addirittura favorire – il senso di rivalsa della comunità sciita dopo i

lunghi e sanguinosi anni della dominazione sunnita del partito Ba’th.

La necessità di cancellare l’esperienza ba’thista e soprattutto l’eredità della lunga gestione

del potere da parte di Saddam, ha determinato l’instaurazione di un sistema

concettualmente simile, gestito questa volta dalla componente maggioritaria e storicamente

vessata nell’esercizio del potere.

È stato soprattutto il premier Nouri al Maliki ad esasperare la relazione tra la comunità sciita

e quella sunnita, attraverso abusi, vessazioni ed arbitrarie formule di convivenza che hanno

alla fine destato dal torpore in cui erano congelate da anni le tendenze più estremiste e

44 Nella sua più ampia accezione.

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radicali della componente sociale sunnita, dando vita dapprima alla locale espressione del

qaedismo e poi ad una ancora più radicale e violenta espressione dell’islamismo salafita.

È quindi evidente come sia necessario investire su una progettualità partecipativa ed

inclusiva, del tutto cancellata dalla memoria collettiva irachena nel corso degli ultimi

quarant’anni circa, al fine di sviluppare – difendendolo strenuamente – un senso di

appartenenza comune che superi anche gli angusti margini del nazionalismo favorendo un

concezione universalistica della gestione del potere politico e dell’amministrazione dello

Stato.

Progetto certamente non facile, soprattutto all’interno di una matrice sociale così degradata

e polarizzata dal problema della sicurezza.

È quindi in quest’ambito che si apre uno spazio per la risposta di tipo cinetico che gli apparati

della sicurezza possono assicurare con efficienza e successo, senza tuttavia mai assurgere

a piano primario dell’intervento necessario.

L’azione degli apparati di sicurezza, esogeni ed endogeni al contesto nazionale iracheno o

regionale, può quindi articolarsi in due distinte direzioni, di cui l’una visibile e percepibile

attraverso l’uso dello strumento militare e l’altra discreta e invisibile attraverso lo strumento

dell’intelligence.

Il piano cinetico su cui è necessario investire transita attraverso la necessità di dimostrarsi

militarmente più forti ed efficienti dell’avversario, l’essere espressione della componente

legittimata a governare e ad assicurare l’azione repressiva e di vigilanza, ma soprattutto

attraverso la capacità di colpire tanto discretamente quanto chirurgicamente i centri

nevralgici del sistema logistico organizzativo avversario.

Gli obiettivi sensibili che è necessario individuare ed eliminare nella catena del valore

dell’apparato propagandistico dello Stato Islamico sono i vertici del sistema di gestione

dell’apparato informativo e propagandistico, certamente individuabili nella struttura dell’Al

Hayat quanto in quella dell’Amaq. L’obiettivo primario di qualsiasi azione sul piano militare

e dell’intelligence deve tuttavia essere rivolto in primo luogo a quella cerniera di raccordo

con il potere religioso e politico dove operano professionalmente gli strateghi della

comunicazione e della divulgazione dottrinale in modo da impedire, ad una bene

organizzata struttura di base, l’accesso all’informazione e ai prodotti della narrativa

collettiva, svuotando in tal modo il contenitore del prodotto.

In tal senso rappresentano vittorie di non poco conto sia l’eliminazione lo scorso 30 agosto

di Abu Muhammad al-Adnani, portavoce del Califfato e pianificatore di primo livello

dell’organizzazione, sia l’eliminazione il 16 settembre scorso di Wail Adil Hasan Salman al-

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Fayad, di fatto una sorta di ministro dell’informazione del Califfato, cui competeva ampia

parte della definizione della comunicazione strategica dell’organizzazione.

Queste due selettive operazioni dimostrano come l’apparato dell’intelligence e della difesa

statunitense abbiano con molta chiarezza e linearità affrontato il problema della

competizione nella narrativa sociale e del conflitto, individuando ed eliminando le sorgenti

intellettuali della strategia propagandistica dell’organizzazione.

L’altro vasto ambito di competizione sul piano cinetico è rappresentato dal deep web e dalla

capacità di gestione di un conflitto digitale che si articola attraverso la distruzione fisica dei

contenuti dell’avversario e la contestuale capacità di diffusione di una contro-narrativa

costruita tuttavia sui solidi pilastri di una riprogettazione economica e politica del paese45.

Il vero tallone d’Achille di chi svolge oggi questa complessa operazione di cyberwar è quindi

rappresentata dalla mancanza di elementi oggettivi da immettere nel circuito

dell’informazione e della propaganda, a causa dell’incapacità del sistema politico ed

economico di definire condizioni attrattive per le componenti del jihadismo e più in generale

delle comunità che rappresentano le minoranze etniche e religiose del paese46.

Il limite espresso dalla capacità cinetica e tecnologica è quindi oggi essenzialmente

riassunto in questi brevi ma esaustivi termini: mancanza di un reale messaggio di contro-

narrativa.

La risposta ideologica alla narrativa dello Stato Islamico

La risposta allo strumento propagandistico e della comunicazione strategica dello Stato

Islamico non può che transitare attraverso una pluralità di azioni sintetizzate nell’ambito di

una strategia chiara e facilmente comprensibile da parte dei ricettori.

Il primo vantaggio strategico della comunità internazionale è certamente dato dalla minore

ampiezza del target audience rispetto a quello cui si rivolge al contrario la propaganda del

Daesh. I paesi occidentali, infatti, possono concedersi la facoltà e il vantaggio di non

investire in comunicazione strategica nei confronti delle proprie target audience culturali

nazionali, potendo quindi concentrare lo sforzo comunicativo sulle sole comunità sociali e

culturali – in parte omogenee – delle aree sotto il controllo dello Stato Islamico e quelle

oggetto della propaganda riferita al reclutamento (e quindi anche il proprio territorio

nazionale, sebbene in direzione di cluster più limitati rispetto a quelli dell’avversario)47.

45 Turkel, Dan, “The US military has a new plan to fight ISIS – and it starts with making the group

‘extremely paranoyd’”, Business Insider UK, 26 aprile 2016. 46 “Why it’s so difficult to counter ISIS on social media”, CBS News, 23 giugno 2015. 47 Tucker, Patrick, “America’s New Plan to fight ISIS Online”, Defense One, 11 gennaio 2016.

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La vera difficoltà per la definizione della strategia di contro-narrazione da impiegare contro

lo Stato Islamico, come già detto, risiede nella necessità di poterla costruire su una

progettualità economica e sociale che prescinde la mera azione comunicativa, di fatto

implicando la sussistenza di elementi materiali e tangibili da porre come contropartita

all’adesione al modello sociale rappresentato dallo Stato Islamico.

In assenza di tali elementi, la contro-narrativa rischia di essere contro-produttiva ed auto-

referenziale, con il concreto rischio non solo di fallire l’obiettivo ma di rinvigorire quella

dell’avversario48.

Alla luce di questa necessaria premessa, quindi, è possibile formulare alcune proposte per

la costruzione di una strategia di contrasto alla pervasività e alla capacità attrattiva dello

Stato Islamico, individuando priorità ed elementi narrativi adeguati all’esigenza di

mutamento dell’orientamento della target audience.

a. Ideazione di un piano contro-narrativo

Se è vero che l’ISIS ha saputo costruire una narrativa basata su un’interpretazione

dottrinale che – per le ragioni più disparate – è riuscita ad attrarre numerosi

simpatizzanti tra le sue fila, è altrettanti vero che questa narrativa è non solo debole sul

piano teologico ma anche soprattutto osteggiata in seno alla più vasta ed ampia

comunità musulmana globale.

È quindi necessario canalizzare i termini di questa contro-narrativa islamica ostile

all’ISIS all’interno di un circuito distributivo che ne valorizzi la conoscenza e la diffusione,

costruendo su questo una percezione allargata e maggioritaria del messaggio.

Un ruolo fondamentale hanno sino ad oggi svolto coloro che spiegano – soprattutto

attraverso video diffusi in chiaro su Youtube49 – i limiti dell’interpretazione dottrinale del

Califfato, riconducendo invece l’utente al piano teologico originale del Corano e degli

studiosi più accreditati e conosciuti, che offrono non solo il giusto quadro entro cui

collocare la dottrina ma soprattutto aiutano ad interpretare, in una chiave sociale

moderna ed adeguata, le più diverse tematiche.

Ne deriva chiaramente la necessità di individuare, sostenere e finanziare lo sviluppo di

una rete capace di promuovere il ruolo di giuristi e teologi capaci di fornire e legittimare

una lettura corretta delle sacre scritture e della loro interpretazione, definendo quindi un

48 Weinstein, Adam, “Here’s how the US should fifght ISIS with social media”, Wired, 3 dicembre

2015 49 “Strategic Communications”, Op.Cit.

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piano di solidità intellettuale e teologica da porre con forza all’apice di qualsiasi altro

piano di dibattito.

Si tratta, in sintesi di imporre la legittimità dell’erudizione e di una lettura del corano che

si discosti pienamente e decisamente da quell’interpretazione wahhabita che al

contrario costituisce il cuore del problema nel rapporto con il jihadismo e l’estremismo.

Tale piano contro-narrativo rischia di porsi in diretta contrapposizione tuttavia con quello

proposto da numerosi paesi alleati dell’occidente, tra cui in primo luogo l’Arabia Saudita

che, nel silenzio più assoluto della comunità internazionale, permette la divulgazione di

un’interpretazione della teologia islamica basata su un concetto antiquato, settario,

violento e fazioso.

Deve quindi essere chiaro come la costruzione di una strategia contro-narrativa possa

incontrare – e quasi certamente incontrerà – ostacoli di natura politica e diplomatica che

dovranno essere risolti con coraggio e determinazione da parte della comunità

internazionale, chiamando alle loro responsabilità quei paesi – anche alleati – che

hanno contribuito alla divulgazione, promozione e al finanziamento della concezione più

radicale e primitiva dell’Islam.

Lo sviluppo di una contro-narrativa deve essere anche impostato allo sviluppo di una

concezione inclusiva e non settaria dell’approccio dottrinale, riconoscendo anche in

questo caso i principi fondanti dell’Islam come imperativi e delegando ad interlocutori

autorevoli e benigni la divulgazione del messaggio in direzione dei credenti.

È necessario sostenere con vigore e con coraggio quelli che in gran parte mondo

musulmano sono i più moderni veicoli della contro-narrativa al Califfato, soprattutto

all’interno delle fasce giovanili, costruita ad esempio su un forte ruolo della satira o

dell’informazione. Queste tipologie narrative sono risultate estremamente popolari in

Medio Oriente, dove la satira gode di una lunga e radicata tradizione soffocata solo in

tempi recenti dall’oscurantismo di matrice wahhabita e salafita.

Parimenti potente e pervasivo è il settore dell’informazione, inteso come

approfondimento dei grandi temi di interesse politico, economico e sociale, attraverso il

quale le masse di giovani musulmani possono affrontare con serenità il dibattito di temi

spesso trattati come tabù all’interno delle comunità periferiche e provinciali.

La produzione di contenuti in queste direzioni, abilmente veicolati attraverso i social

media e i tradizionali canali di diffusione dell’informazione (televisione, radio, internet,

carta stampata, ecc.), possono avere un impatto devastante non solo nel contrastare il

ruolo dell’ISIS o di Al Qaeda, ma anche e soprattutto nel porsi come alternativa a quel

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bigottismo che ancora permea la gran parte delle produzioni locali in Medio Oriente o

nelle comunità della diaspora.

Se un insegnamento l’ISIS ha effettivamente lasciato, questo è quello della necessità di

innovare il messaggio e renderlo fruibile ed appetibile attraverso una complessiva

modernizzazione delle tecniche di produzione e diffusione.

La risposta deve quindi seguire questo percorso nell’ideare e realizzare una contro-

narrativa che sia costruita su canoni estetici e contenuti effettivamente appetibili per la

target audience di riferimento, legittimati dal riconoscimento degli esponenti più

autorevoli della dottrina religiosa e diffusi mediante gli strumenti maggiormente adeguati

a soddisfare i criteri di lettura delle più giovani generazioni.

La contro-narrativa, per essere efficace, deve infine interessarsi dei grandi temi di natura

politica, economica e sociale, fornendo un chiaro quadro di indirizzo entro cui

racchiudere i limiti di ciò che è lecito ed accettabile.

Questo obiettivo non può chiaramente essere raggiunto in assenza di una parimenti

omogenea e credibile strategia politica inclusiva e partecipativa sul piano della politica

reale, con l’adozione di meccanismi che incoraggino all’adesione ed al sostegno delle

legittime entità amministrative dello Stato.

Nel febbraio del 2015, infine, il Consiglio per gli Affari Esteri dell’Unione Europea ha

definito un nuovo piano di comunicazione strategica, costruito in parte su una contro-

narrativa diretta al mondo arabo nell’intento di contrastare la prevalente narrativa

jihadista. Il progetto ha dato vita a quella che è stata nominata la Arab StratCom Task

Force50, il cui scopo è quello di contrastare il fenomeno del radicalismo e di favorire il

dialogo con l’Europa attraverso la public diplomacy e la comunicazione.

Si tratta di un progetto concettualmente interessante ed idealmente utile, costruito

tuttavia senza alcuna convinzione, senza staff e senza reali risorse economiche ed

operative atte a dare sostanza e continuità all’idea. Dimostrando ancora una volta come

l’Occidente non sia ancora riuscito a concepire e realizzare efficaci azioni a sostegno di

una contro-narrativa strategica che possa avere qualche credibile opportunità di

contrasto nei confronti di quella jihadista.

50 “EU strategic communication with the Arab world”, Briefing, European Parliamentary Research

Service, maggio 2016.

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b. Reinserimento degli ex combattenti

Lo Stato Islamico ha avuto un’indubbia capacità attrattiva all’interno delle proprie fila,

lavorando su più leve motivazionali che spaziano dal mero interesse economico alla più

convinta condivisione degli ideali di lotta e di adesione al modello politico del Califfato.

Un progetto di contro-narrativa del Califfato deve quindi cercare prioritariamente di

drenare quanto più possibile la componente combattente del Daesh, definendo percorsi

di reintegrazione che consentano a chi è oggi disamorato dal modello jihadista o più

semplicemente privo di alternativa di poter trovare le necessarie spinte motivazionali

per abbandonare l’organizzazione e cercare il pieno reinserimento nella società.

Questi programmi non sono nuovi né particolarmente complessi da realizzare, ma

devono transitare attraverso una precisa valutazione dei limiti giuridici entro cui possono

essere funzionali e gestibili per l’offerente. È necessario quindi comprendere entro quali

limiti la comunità è interessata e disposta ad accettare il ritorno di individui che – nella

migliore delle ipotesi – si sono macchiati di orrendi crimini e che dovrebbero quindi

essere garantiti da una sorta di amnistia, o perdono, che consenta loro il pieno e

completo reingresso nella società.

Non è infatti ammissibile lanciare programmi di reinserimento che possano poi essere

frustrati dalla necessità o dall’opportunità di limitare la libertà degli individui che

accettano l’offerta di reintegrazione, come l’esperienza sul pentitismo insegna. Né è

facile definire i termini giuridici e morali entro i quali tale offerta possa essere formulata

senza destare effetti controproducenti nella società.

Ciononostante, i programmi di reinserimento sono strategicamente importanti sia per

drenare forze combattenti alla controparte, sia per acquisire informazioni utili al suo

contrasto, determinando sempre un vantaggio competitivo che deve trovare giusto

bilanciamento con l’esigenza di garantire la supremazia del diritto e della legge.

Nel caso del Daesh, i programmi possono essere gestiti su una base multipla, in grado

quindi di offrire soprattutto ai foreign fighters reinserimenti selettivi in Occidente o, dove

non possibile, in selezionati paesi della regione in cui sia possibile ipotizzare un minore

impatto sociale del reingresso di un ex criminale nella società.

L’esperienza della Somalia e del poderoso drenaggio di miliziani dai ranghi dell’Al

Shabaab a quelli dell’esercito federale, costituisce sicuramente un ottimo esempio di

come – nonostante i problemi connessi alla corruzione somala e al parziale successivo

fallimento del progetto – sia possibile prevedere percorsi di reingresso sociale costruiti

su una sorta di compromesso definito nell’ambito del più generale interesse nazionale.

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c. Promozione degli obiettivi di integrazione professionale e sociale

La principale attrattiva che un programma di contro-narrazione può veicolare all’interno

della target audience di riferimento è certamente riferita alle possibilità di integrazione

professionale e sociale offerte e garantite dalle autorità legittime e sovrane del paese.

L’obiettivo della comunicazione strategica deve quindi fortemente puntare ad offrire un

modello competitivo di vita professionale e sociale, costruito sull’immagine di una

serenità che permetta l’integrazione all’interno di una dimensione umana non

caratterizzata dalla violenza e dal sopruso. Un modello esistenziale competitivo quindi

con quello dello Stato Islamico, in ogni caso estraneo alla cultura e alle ambizioni della

gran parte della popolazione, tenuto in piedi dalla sola forza militare e dalla brutalità di

un sistema punitivo che scoraggia il dissenso.

Al contrario, la promozione dei valori dell’integrazione deve puntare a fornire

un’immagine del contesto sociale del tutto differente, stridente per qualità e contesto

rispetto a quella del Califfato, e quindi decisamente preferibile.

Per poter offrire tutto ciò nell’ambito di una nuova progettualità narrativa, tuttavia, è

necessario costruire realmente un modello che permetta da un lato l’integrazione

sociale e dall’altro la capacità di sviluppo professionale, senza ingenerare frustrazioni

dagli effetti decisamente contro-produttivi.

L’esperienza della Tunisia insegna infatti come buona parte dei molti giovani che hanno

lasciato la provincia di Kasserine e dei villaggi delle regioni centromeridionali per unirsi

alle forze dell’ISIS sui monti Chambi o in Libia, hanno effettuato questa scelta non in

ragione di un processo di radicalizzazione quanto in conseguenza dell’insostenibilità

determinata dalla crisi economica e dalla disoccupazione.

Il vantaggio competitivo dell’ISIS è quello di rappresentare per molti una sponda

occupazionale certa, costituendo in tal modo un modello attrattivo ben più forte di

qualsiasi narrativa politica costruita sulle buone intenzioni ma sull’assenza di sbocchi

integrativi e professionali.

In tal senso, quindi, la comunità internazionale deve mutare il proprio approccio di

cooperazione regionale transitando dal sostegno economico canalizzato all’interno di

programmi security centered (cooperazione militare, vendita di armi ed

equipaggiamenti, addestramento, ecc.) verso quelli di cooperazione economica per la

promozione delle attività produttive ed industriali, con una strategia mirata

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all’incremento dell’occupazione e alla crescita economica delle aree oggetto di

intervento51.

La cooperazione militare deve quindi transitare all’interno di un quadro di sostegno

secondario, abbattendo definitivamente l’antiquato quanto improduttivo concetto di

“security first”.

d. Lotta al settarismo, tribalismo e fazionalismo

Sebbene la storia non si faccia con i “se”, sono in molti a chiedersi nella comunità degli

analisti se lo Stato Islamico sarebbe mai sorto in Iraq in assenza di quelle politiche

settarie e miopi attuate soprattutto dal governo di Nouri Al Maliki nei confronti della

componente sociale sunnita.

Le principali responsabilità occidentali nella condotta delle azioni che portarono alla

dissoluzione del partito Ba’th e al sorgere di una nuova realtà istituzionale di fatto

controllata dalla maggioranza sciita sono sicuramente ascrivibili da un lato all’assenza

di qualsiasi sforzo per la promozione del pluralismo e dell’inclusività, e dall’altra

all’annientamento dell’impalcatura amministrativa dello Stato, determinando un

azzeramento totale e repentino dell’immagine stessa dello Stato e della sua

rappresentatività complessiva sul piano nazionale.

A questo errore si è sommato quello di aver dato libero sfogo ad una sorta di rivalsa

confessionale e politica costruita sulla punizione dell’avversario (nell’immagine di un

Ba’th sunnita che esigeva quindi una vendetta sull’intera comunità) e sull’applicazione

della purtroppo ricorrente concezione locale del potere politico in osservanza della

regola dello “zero sum game52”.

L’intervento della comunità internazionale deve quindi oggi spingersi in direzione di

un’azione di lobbying a favore di riforme costituzionali che prevedano l’inclusività e

l’apporto del criterio proporzionale, favorendo in tal modo un ruolo attivo e non

perennemente minoritario dei gruppi etnici e confessionali che non rappresentano la

maggioranza demografica del paese.

La ricerca di un sistema di convivenza politica allargata e partecipativa deve

rappresentare l’obiettivo primario della lotta al settarismo e all’emergere di quei

fenomeni del radicalismo che ne sono la più diretta espressione, imponendo criteri

51 Burwell, Frances G., Hawthorne, Amy, Mezran, Karim, Miller, Elissa, “A transatlantic strategy

for a democratic Tunisia”, Atlantic Council, Giugno 2016 52 Per zero sum game (letteralmente “gioco a somma zero”) si intende la strategia di governo

esclusivo, e quindi ad eliminazione dell’avversario.

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partecipativi laddove la cultura politica locale li rifiuta per tradizione o per uso

consolidato.

Al tempo stesso deve essere evitato l’errore di intervenire nel processo di selezione

locale delle élite e delle formazioni politiche attraverso l’imposizione di canoni e limiti

che soddisfano il solo interesse di alcuni paesi occidentali. L’ingerenza che ha portato

ad esempio alla criminalizzazione del Fronte Islamico di Salvezza algerino prima, e della

Fratellanza Musulmana egiziana poi, deve costituire un monito ferreo su cui costruire i

limiti impenetrabili della futura capacità di partecipazione dell’Occidente alle dinamiche

politiche e sociali locali, nell’intento di promuovere un’evoluzione – e conseguentemente

una crescita – non condizionata delle componenti ideologiche locali del Medio Oriente.

Tra le più nefaste conseguenze di questa politica di ingerenza è certamente da

segnalare il locale diffuso credo secondo cui l’impegno politico non ha alcuna

prospettiva ed utilità se costruito al di fuori degli schemi tollerati dai paesi occidentali.

Convinzione che – giusta o sbagliata che sia in termini di veridicità – ha determinato il

mancato ingresso sulla scena politica di un’enorme massa di individui disillusi ma

potenzialmente utili al fondamentale processo di rinnovamento delle élite locali.

e. Costruzione di modelli partecipativi giovanili

L’Iraq, così come la Siria e la gran parte dei paesi della regione, è caratterizzato da una

piramide demografica alla cui base si colloca una enorme massa giovanile, che, se

calcolata nella fascia di età compresa tra 0 e 35 anni, rappresenta oltre il 60% della

popolazione nazionale.

La gran parte di questa massa giovanile vive all’interno delle principali aree urbane del

paese, ha ricevuto un’istruzione mediamente avanzata e di buona qualità e vive nella

stessa abitazione della famiglia.

Il tasso di disoccupazione dell’Iraq è oggi pari a poco più del 16% (tasso ufficiale), in

netto miglioramento rispetto a quasi il 30% del 2004, sebbene in aumento rispetto alla

media del 15% degli anni compresi tra il 2008 e il 2105. Il tasso di disoccupazione sale

tuttavia di almeno dieci punti percentuali se il margine di indagine si sposta su una fascia

d’età compresa tra 0 e 25 anni, riflettendo proporzioni simili a quelle della maggior parte

dei paesi della regione ed indicando con chiarezza la presenza di un vasto segmento

della popolazione del tutto escluso dal mercato economico e produttivo, altamente

demotivato e senza alcuna reale prospettiva per il futuro.

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Ha pescato a piene mani in questa fascia di popolazione il jihadismo, che ha saputo

offrire guadagni e prospettive a migliaia di giovani disoccupati ed emarginati dalla vita

politica ed economica del paese.

Le strategie di contro-narrativa necessarie oggi in Iraq e in Siria devono tener conto di

questo fattore in modo prioritario, costruendo un linguaggio e una strategia di

coinvolgimento che sia effettivamente in grado di essere percepita come un’alternativa

valida e praticabile, che apra sbocchi professionali ma anche percorsi partecipativi

all’interno della dinamica politica ed amministrativa del paese, nell’ottica di un

rinnovamento generazionale atto a favorire le prerogative delle componenti giovanili.

La comunicazione verso le fasce più giovani della popolazione è per sua natura

complessa, e deve essere veicolata attraverso gli strumenti che effettivamente

rappresentano il veicolo primario di accesso alle fasce giovanili, come i social media e

le app della telefonia mobile.

Mai come oggi appare necessario avvicinare i giovani alla partecipazione politica e alla

costruzione delle linee generali di sviluppo della politica nazionale, cancellando

l’immagine di una società gerontocratica e verticista che impedisce qualsiasi

contaminazione generazionale al di fuori della fascia di controllo delle istituzioni.

La comunità internazionale dovrebbe impegnarsi in questo complesso ambito

demografico portando innovazione e sviluppo, capacità partecipativa e

rappresentatività, aprendo a programmi che favoriscano l’ingresso nelle strutture

politiche e di gestione amministrativa, lavorando sul sociale e sulla possibilità di

perseguire interessi sociali allargati ma riconducibili a fasce d’età giovanili.

Una poderosa ripresa dell’associazionismo sportivo e artistico è inoltre auspicabile nel

paese, dopo quasi due decenni di totale collasso di qualsiasi organizzazione atta alla

promozione di tali ambiti.

Ipotesi di sviluppo di una contro-narrativa a sostegno delle missioni condotte dalle

FFAA in teatro operativo

Tra le principali missioni d’impiego del personale militare delle FFAA italiane all’estero, un

numero significativo di queste è condotta in paesi caratterizzati demograficamente da una

società a maggioranza confessionale musulmana.

Tale caratteristica ha imposto nel corso del tempo significativi adeguamenti nella capacità

di operare in questi contesti, quali banalmente l’impiego di personale con competenze

linguistiche adeguate, esperti d’area con conoscenze politiche, sociali e religiose, mediatori

e molte altre figure professionali.

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L’istituzione delle funzioni CiMiC e PsyOp ha rappresentato un ulteriore tassello di questa

capacità innovativa, determinando standard operativi comuni sul piano internazionale nella

gestione di alcune tra le più importanti azioni a sostegno del ruolo e della sicurezza delle

missioni in teatro operativo.

Se da un lato, tuttavia, questa capacità innovativa ha apportato un notevole contributo alla

gestione delle missioni internazionali, l’assenza in numerose strutture militari di veri e propri

percorsi di carriera specificamente costruiti su queste nuove professionalità ha portato in

alcuni casi alla dispersione delle capacità stesse e alla perdita di una expertise replicabile e

trasmissibile.

Quello che rappresenta spesso un ulteriore elemento di debolezza nella conduzione dei

programmi di cooperazione culturale sul terreno dei teatri operativi è la scarsa capacità di

cooperazione tra enti militari e civili nei programmi di lungo periodo. Se l’esperienza, ad

esempio, di Radio West in Kosovo può essere certamente inserita nei modelli di successo

da cui trarre ispirazione – avendo permesso non solo una collaborazione continuativa tra

enti militari e rappresentanze civili, ma avendo anche permesso il successivo trasferimento

al contesto locale del progetto stesso – molte sono al contrario le iniziative di CiMiC o PsyOp

che, seppur efficaci nella loro individualità, restano purtroppo isolate ed uniche senza la

possibilità di apportare significativi risultati nel medio e nel lungo periodo.

L’esperienza delle missioni condotte dalla FFAA italiane nel corso dell’ultimo decennio, al

contrario, ha dimostrato l’assoluta necessità di instaurare relazioni continuative e costruttive

con la comunità locale, ingaggiandola attraverso una progettualità congiunta atta a garantire

non esclusivamente la realizzazione di opere e infrastrutture ma anche a favorire la

produzione di servizi sociali innovativi e necessari.

In tal ambito, quindi, si registra certamente la necessità di coordinare le attività CiMiC e

Psyop in funzione anche dell’esigenza di costruire una contro-narrativa dottrinale che abbia

come scopo primario quello di impedire – o in ogni caso limitare – il proliferare dei processi

di radicalizzazione all’interno delle fasce sociali presenti nel territorio di operazione dei

contingenti.

Tale azione non può prescindere dall’individuazione degli attori rilevanti sul terreno (key

leaders o key players) nell’ambito delle organizzazioni teologiche e religiose, attraverso un

pre-screening delle strutture stesse, una loro gerarchizzazione e l’individuazione delle

componenti potenzialmente ostili (potentially hostile actors).

La completa mappatura del tessuto ideologico-confessionale costituisce pre-requisito

necessario per la selezione delle controparti, che deve tuttavia transitare attraverso una

necessaria ricognizione della realtà sociale e della sua accettazione.

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In estrema sintesi, deve essere abbandonato il modello di selezione e scelta basato

esclusivamente sulla rispondenza dei desiderata del committente, comprendendo come le

controparti debbano prima di tutto essere accettate, apprezzate e gradite dal proprio

contesto sociale di riferimento.

L’engagement di esponenti della comunità teologico-religiosa si presenta come un’attività

di rilevanza primaria nell’ambito del più generale progetto di costruzione di una contro-

narrativa, sebbene non sia scevra da difficoltà e rischi.

Il primo elemento di complessità è certamente quello rappresentato dalla necessità di

definire la portata complessiva del piano contro-narrativo, articolandone poi lo sviluppo

attraverso “prodotti comunicativi” realmente efficaci e pervasivi. Per soddisfare il primo

requisito è quindi necessario ottenere la collaborazione di esponenti apicali del tessuto

teologico-dottrinale, dotati al tempo stesso di autorevolezza, credibilità e capacità.

Tali caratteristiche devono peraltro esprimere la percezione di un vasto ambito di riferimento

in termini di target-audience.

Il progetto contro-narrativo deve quindi ispirarsi non solo ai valori reali e più tradizionali del

contesto ideologico confessionale di riferimento, ma deve anche essere costruito attraverso

una semantica immediatamente e facilmente percepibile, comprensibile ed accettabile dal

contesto di riferimento della target-audience. L’esperienza di molti dei progetti in materia

non coronati dal successo dimostra come la principale causa di fallimento sia ascrivibile

proprio all’adozione di modelli comunicativi costruiti attraverso il predominio ideologico-

narrativo del committente, spesso non in grado di risultare comprensibile in contesti sociali

differenti o lacerati da crisi di diversa natura. È quindi necessario combinare l’esperienza

del committente con la necessaria esposizione in termini di fiducia nella controparte locale,

definendo un progetto contro-narrativo e divulgativo che sarà in ogni caso testato su

campioni di audience prima dell’effettiva implementazione.

Il test dei progetti e delle strategie di PsyOps su cluster qualificati si sono dimostrati di

fondamentale importanza nell’esperienza più recente dei paesi NATO – si pensi ad esempio

al caso dei Fusion Center in Afghanistan53 - permettendo quegli aggiustamenti altrimenti

pressoché impossibili da adottare in contesti culturali e linguistici differenti e complessi.

Maggiore capacità d’apporto per il committente è invece concessa nell’individuazione e

nella progettazione della strategia distributiva, dove, alla necessaria ricognizione locale sullo

stato dell’arte e sulle abitudini di percezione, potrà essere affiancata una poderosa capacità

53 Connable, Ben, “Military Intelligence Fusion for Complex Operations – A New Paradigm”,

RAND, Occasional Paper, 2012

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innovativa costruita sulla disponibilità tecnologia del committente e/o sulle condizioni di

percezione dell’utenza54.

Il secondo elemento di complessità, nella conduzione e nella gestione dell’engagement dei

key leaders/actors locali, è invece dettato dal rischio di “contaminazione”. L’interesse

economico, di elevamento sociale, di accresciuta leadership o più semplicemente la volontà

di compiacere il committente dell’attività di cooperazione, costituiscono i principali elementi

di rischio per la contaminazione della capacità complessiva di costruzione e realizzazione

dei progetti.

Se è quindi vero che il committente deve avere ben chiaro l’obiettivo che si intende

perseguire, è altrettanto vero che nella costruzione del modello operativo l’apporto del

committente deve limitarsi da una parte alla verifica della fattibilità (È perseguibile? È in linea

con gli standard culturali e sociali della target audience?, ecc.) e dall’altra all’efficacia del

prodotto (raggiunge l’obiettivo prefissato? riscuote apprezzamento?, ecc.).

In tal modo viene mitigato il consistente rischio di “contaminazione”, e cioè quello connesso

al trasferimento alla controparte di elementi culturali, usi, abitudini, linguaggio, ecc. non

consoni o funzionali al perseguimento di una determinata azione all’interno di un contesto

sociale differente da quello del committente.

Lo sviluppo di una progettualità contro-narrativa funzionale al contenimento dei fenomeni di

radicalizzazione e reclutamento da parte delle forze jihadiste, in contesti operativi dispiegati

all’interno di società a maggioranza confessionale islamica, potrebbe transitare attraverso il

fattivo e compiuto coinvolgimento degli elementi più rappresentativi ed autorevoli della

comunità spirituale (imam, teologi, giuristi, ecc.), coordinandone l’azione attraverso una

mirata capacità di comunicazione finalizzata alla dissuasione dei fenomeni eversivi.

L’elemento centrale del messaggio contro-narrativo deve chiaramente tendere alla

promozione dei reali valori espressi dalla religione, dimostrando con piena autorevolezza

l’arbitrarietà delle interpretazioni radicali e la condanna della loro attuazione.

Il messaggio deve avere un connotato sociale estremamente pervasivo, raggiungendo in tal

modo soprattutto l’interno del sistema familiare della società locale, sollecitando l’implicita

collaborazione dei parenti delle potenziali vittime del reclutamento jihadista.

L’obiettivo è quindi quello di costruire un sistema di intervento narrativo che alimenti un

virtuoso processo di riconoscimento all’interno di un modello dato, ponendo le basi per la

54 Giusto a titolo d’esempio, può essere menzionata la capacità – in un contesto caratterizzato

dalla preminenza del mezzo radiofonico/televisivo/informatico/ecc. – di potenziare le capacità di ricezione/trasmissione/download/ecc. influendo in modo esogeno nell’ambito di un contesto determinato da elementi esogeni non modificabili (o difficilmente modificabili).

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sua diffusione e il suo consolidamento all’interno delle unità di base del sistema sociale

locale, e quindi dei nuclei familiari.

L’apporto del committente deve in questo caso rafforzare la capacità di influenza dell’attore

attraverso un sostegno alla diffusione del messaggio e al rafforzamento dell’offerta.

Entra quindi prepotentemente in gioco l’azione del ruolo CiMiC nel sostenere la capacità di

influenza dell’attore, fornendo elementi utili a rafforzarne il messaggio contro-narrativo

(capacità di proporre soluzioni di impiego professionale, di assistenza medico-ospedaliera,

educativa, ecc.) a manifestando in tal modo la disponibilità e buona volontà delle controparti

militari sul territorio (la cd. perception of goodwill).

Il ruolo dell’attore, quindi, si svolge su un duplice binario. Da una parte è necessario far leva

sulla credibilità dell’attore per screditare attraverso una strategia contro-narrativa di tipo

teologico e sociale quella delle controparti ostili (persuasion capacity), mentre dall’altra è

necessario rafforzare la credibilità dell’attore attraverso la capacità di apportare

cambiamenti al contesto (delivery capacity).

La prima capacità è prettamente connessa alle doti dell’attore (e quindi alla capacità del

committente di individuare correttamente i key leader/actor), mentre la seconda ricade in

capo alla capacità del committente di dotare l’attore della necessaria capacità per

intervenire sulle esigenze della target audience, sostituendosi in modo virtuoso ai modelli

reclutativi del jihadismo e del radicalismo.

L’elemento critico nel processo di definizione di tale strategia contro-narrativa è quindi

connesso alla effettiva capacità del committente di poter operare efficacemente nel

contesto, attraverso una adeguata capacità finanziaria ed organizzativa prima, e tecnico-

logistica poi.

L’elemento chiave per la riuscita di un progetto contro-narrativo di tale natura è chiaramente

rappresentato dalla possibilità di poter effettivamente offrire tangibili alternative al ruolo delle

organizzazioni criminali o radicali. Tale capacità è misurabile sia in termini di budget che di

capacità operativa sul terreno, dotando modo adeguato le cellule CiMiC e PsyOp di elementi

negoziali e tecnici atti a compiere il proprio ruolo sul terreno.

L’esperienza della crisi somala e la gestione dei programmi di counternarrative adottati dalla

comunità internazionale tra il 2012 e il 2014, ha dimostrato come la prevalenza del ruolo

sociale su quello militare da parte del contingente internazionale dell’Amisom, sia stata di

gran lunga più efficace rispetto ai precedenti tentativi di consolidamento delle autorità

governative attraverso il solo uso della forza.

Lo sviluppo di una efficace linea di comunicazione attraverso le reti tribali e con l’attiva

partecipazioni delle comunità degli elder ha permesso letteralmente di demolire la capacità

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attrattiva sul piano teologico-dottrinale da parte delle milizie dell’al-Shabaab, mentre

l’accresciuta capacità di offrire impiego agli ex miliziani all’interno delle ricostituite forze

armate federali somale ha drenato la gran parte dei combattenti delle organizzazioni

jihadiste.

Il successivo declino nella capacità di riuscita di questa strategia deve essere individuato

oggi principalmente nella spregiudicata corruzione delle forze governative somale, che

hanno frustrato la capacità di tenuta ed ampliamento dei programmi di de-radicalizzazione,

alimentando nuovamente la capacità attrattiva delle unità jihadiste, il cui driver resta tuttavia

in larghissima misura solo ed esclusivamente di natura economica.

È quindi possibile affermare, in conclusione, che un progetto di contro-narrativa efficace e

credibile può essere attuato solo soddisfacendo alcune condizioni fondamentali e

necessarie:

- capacità concettuale e progettuale > chiarezza dell’obiettivo;

- capacità di selezione degli attori > autorevolezza e riconoscibilità;

- capacità di definizione semantica e pratica > persuasione e attrattività;

- capacità di sostenimento > durata e consolidamento.

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CONCLUSIONI

La capacità narrativa dello Stato Islamico è stata certamente innovativa e capace di mutare

radicalmente il paradigma del rapporto tra entità e target audience riuscendo, per la prima

volta, a produrre un impatto chiaro e significativo anche in contesti culturali diversi da quelli

dell’audience tradizionale.

Questo successo è certamente ascrivibile al fatto di aver saputo adottare una più moderna

e professionale capacità narrativa e tecnico-comunicativa, ma anche grazie ad una

maggiore capacità attrattiva nell’ambito di un contesto sociale altamente degradato,

conflittuale e senza prospettive.

Il vero vantaggio strategico nella comunicazione dello Stato Islamico, senza particolari giri

di parole, è dato dalla possibilità e dalla capacità di offrire qualcosa di tangibile agli

interlocutori, soddisfacendo in tal modo sia una domanda di natura economico-

professionale, sia l’esigenza di spazio nel più ampio tessuto politico-sociale che nel contesto

sociale tradizionale è riservato a pochi.

L’ISIS, in sintesi, ha chiamato a raccolta decine di giovani e meno giovani con la prospettiva

di partecipare in prima persona ad un cambiamento, ad un’innovazione e ad una riscoperta

(anche se in senso deviato) di valori tradizionali e fondanti della società, generando

un’aspettativa e sollecitando la spinta rivoluzionaria e polemica di qualsiasi giovane.

Che il modello reale fosse diverso, brutale, violento e ingiusto poco ha importato in una fase

successiva, quando ormai l’elemento della partecipazione era suggellato dalla presenza e

dalla difficoltà del ritorno.

L’ISIS è stata a lungo vincente per questa ragione, impedendo in modo sistematico la

cronaca dal suo interno, ma affidandola a note narrative artificiali che ne esaltavano l’epica

e la grandiosità, sollecitando la partecipazione e l’ambizione ad un ruolo di moltissimi giovani

emarginati della regione.

Dove l’occidente continua quindi a fallire nel proporre modelli comunicativi alternativi

credibili ed appetibili per i giovani è sul piano dell’offerta. Non è sufficiente saper comunicare

e disporre delle più avanzate tecnologie per farlo. È necessario avere elementi concreti da

abbinare all’offerta, per sollecitare la comparazione e renderla competitiva, sapendo di non

poter ingannare a lungo il proprio target, ormai disilluso da anni di emarginazione, povertà

e violenza.

Per disporre di elementi competitivi nell’offerta, il sistema occidentale deve mutare

radicalmente approccio alla soluzione del problema, investendo prioritariamente nello

sviluppo economico ed infrastrutturale, abbandonando la stantia ed obsoleta logica del

“security first” e generando quindi elementi di interesse per le società locali – soprattutto le

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più giovani – per la prima volta veramente alternative alla violenza e al settarismo su cui

sono stati costruiti gli equilibri sociali della regione nel corso dell’ultima metà di secolo.

In assenza di una capacità di tal fatta, qualsiasi strategia comunicativa, narrativa o

semplicemente operativa risulterà vana e probabilmente controproducente, concedendo

ulteriore vantaggio alla controparte avversaria.

La struttura dell’ISIS è stata finalmente ingaggiata in serio combattimento dopo mesi di stasi

che ne hanno permesso il consolidamento sul terreno e attraverso i media, con una strategia

che ha saputo convincere il mondo di una capacità e di una competenza che in realtà non

è poi stata riscontrata sul terreno.

Questo significa che l’ISIS può essere sconfitto militarmente attraverso un conflitto di tipo

tradizionale, riconquistando temporaneamente quegli spazi geografici che ne hanno

rappresentato l’idea di Califfato per oltre due anni.

Resta tuttavia irrisolto il problema che ne ha permesso la nascita e il consolidamento, che

anche in caso di vittoria militare contro la componente armata del Daesh non tarderà a

riprendere corpo dando vita ad una nuova forma di sodalizio con le medesime prerogative.

L’unica concreta soluzione per rendere percorribile un progetto di lungo termine atto a

favorire la stabilità del paese e la sua rinascita economica e sociale è quindi quello di

operare alla base dei suoi problemi, costruendo una nuova narrativa di coesione sociale

nazionale, favorendo il consolidamento delle norme che riconoscono come valore fondante

la partecipazione e l’inclusione delle minoranze, ed avviando quanto più velocemente

possibile un programma di depotenziamento della spesa militare e della violenza che

permetta di liberare forze fisiche e monetarie per la ricostruzione e il consolidamento

dell’apparato politico ed amministrativo.

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NOTA SUL Ce.Mi.S.S. e NOTA SULL’AUTORE

Ce.Mi.S.S.55

Il Centro Militare di Studi Strategici (Ce.Mi.S.S.) è l'Organismo che gestisce, nell'ambito e

per conto del Ministero della Difesa, la ricerca su temi di carattere strategico.

Costituito nel 1987 con Decreto del Ministro della Difesa, il Ce.Mi.S.S. svolge la propria

opera valendosi di esperti civili e militari, italiani ed esteri, in piena libertà di espressione di

pensiero.

Quanto contenuto negli studi pubblicati riflette quindi esclusivamente l'opinione del

Ricercatore e non quella del Ministero della Difesa.

Nicola Pedde

Nicola Pedde collabora con il Ce.Mi.S.S. dal 2002, prima come

Direttore della Ricerca per l’Osservatorio Strategico sull’Energia

e poi come Direttore della Ricerca per l’Osservatorio Strategico

sul Medio Oriente e il Nord Africa.

Sempre presso il Ce.Mi.S.S. ha condotto attività di ricerca sulla

Libia, la Repubblica Islamica dell’Iran, sul Corno d’Africa e sulla

sicurezza energetica.

55 http://www.difesa.it/SMD_/CASD/IM/CeMiSS/Pagine/default.aspx

foto

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Stampato dalla Tipografia delCentro Alti Studi per la Difesa

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