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CENTRO ALTI STUDI PER LA DIFESA
CENTRO MILITARE DI STUDI STRATEGICI
Nicola Pedde
Information campaign del DAESH
contro l’Occidente
(Codice AL-SA-08)
Il Centro Militare di Studi Strategici (Ce.Mi.S.S.) è un organismo istituito nel 1987 che gestisce,
nell’ambito e per conto della Difesa, la ricerca su temi di carattere strategico. Tale attività permette
di accedere, valorizzandoli, a strumenti di conoscenza ed a metodologie di analisi indispensabili per
dominare la complessità degli attuali scenari e necessari per il raggiungimento degli obiettivi che le
Forze Armate, e più in generale la collettività nazionale, si pongono in tema di sicurezza e difesa.
La mission del Centro, infatti, nasce dalla ineludibile necessità del Ministero della Difesa di svolgere
un ruolo di soggetto attivo all’interno del mondo della cultura e della conoscenza scientifica
interagendo efficacemente con tale realtà, contribuendo quindi a plasmare un contesto culturale
favorevole, agevolando la conoscenza e la comprensione delle problematiche di difesa e sicurezza,
sia presso il vasto pubblico che verso opinion leader di riferimento.
Più in dettaglio, il Centro:
● effettua studi e ricerche di carattere strategico politico-militare;
● sviluppa la collaborazione tra le Forze Armate e le Università, centri di ricerca italiani, stranieri ed
Amministrazioni Pubbliche;
● forma ricercatori scientifici militari;
● promuove la specializzazione dei giovani nel settore della ricerca;
● pubblica e diffonde gli studi di maggiore interesse.
Le attività di studio e di ricerca sono prioritariamente orientate al soddisfacimento delle esigenze
conoscitive e decisionali dei Vertici istituzionali della Difesa, riferendosi principalmente a situazioni
il cui sviluppo può determinare significative conseguenze anche nella sfera della sicurezza e difesa.
Il Ce.Mi.S.S. svolge la propria opera avvalendosi di esperti civili e militari, italiani e stranieri, che
sono lasciati liberi di esprimere il proprio pensiero sugli argomenti trattati.
(Codice AL-SA-08)
CENTRO ALTI STUDI PER LA DIFESA
CENTRO MILITARE DI STUDI STRATEGICI
Nicola Pedde
Information campaign del DAESH
contro l’Occidente
Information campaign del DAESH contro l’Occidente
NOTA DI SALVAGUARDIA
Quanto contenuto in questo volume riflette esclusivamente il pensiero dell’autore, e non quello del Ministero della Difesa né delle eventuali Istituzioni militari e/o civili alle quali l’autore stesso appartiene.
NOTE Le analisi sono sviluppate utilizzando informazioni disponibili su fonti aperte. Questo volume è stato curato dal Centro Militare di Studi Strategici Direttore Amm. Div. Mario Caruso Vice Direttore – Capo Dipartimento Sociologia Militare Col. c (li.) s.SM Andrea Carrino Progetto grafico Massimo Bilotta - Roberto Bagnato Autore Nicola Pedde Stampato dalla tipografia del Centro Alti Studi per la Difesa
Centro Militare di Studi Strategici Dipartimento Sociologia Militare
Palazzo Salviati Piazza della Rovere, 83 - 00165 – Roma
tel. 06 4691 3203 - fax 06 6879779 e-mail [email protected]
Chiusa a dicembre 2016
ISBN 978-88-99468-51-4
5
INDICE
ABSTRACT
p. 7
PARTE I
La parabola di una Nazione artificiale e della sua complessa
società
p.
9
Dalla caduta dell’impero ottomano al partito Ba’th p. 10
Il partito Ba’th p. 12
Saddam Hussein p. 14
Le tre guerre di Saddam: Iran-Iraq, Kuwait e guerra del Golfo,
l’invasione USA
p. 18
L’Iraq post ba’thista dal 2003 ad oggi p. 20
PARTE II
La genesi dello Stato Islamico
p.
25
L’islamismo sunnita in Iraq p. 25
L’Esercito degli Uomini dell’Ordine dei Naqshbandi p. 27
Le origini dell’ISIS e il ruolo di al-Zarqawi p. 32
L’ISIS di al Baghdadi e la separazione da al Qaeda p. 33
La diffusione globale del Daesh p. 37
PARTE III
La comunicazione strategica dello Stato Islamico come
innovazione
p.
41
I pilastri della comunicazione dell’ISIS p. 42
La teoria dei sei elementi narrativi di Charlie Winter p. 44
La struttura organizzativa del sistema di comunicazione strategica
dell’ISIS
p. 46
L’Al Hayat Media Centre p. 47
L’uso di tecnologie e applicazioni criptate p. 50
La narrativa della com/strat dell’ISIS in contrapposizione a quella di
Al Qaeda
p. 52
I media dello Stato Islamico: l’agenzia Amaq p. 54
I media dello Stato Islamico: la radio Al Bayan p. 56
6
I media dello Stato Islamico: la rivista Dabiq p. 57
I media dello Stato Islamico: la rivista Rumiyah p. 58
PARTE IV
Contropropaganda e risposta alla capacità tecnico-
organizzativa dell’ISIS
p.
60
La risposta economica e cinetica alla capacità attrattiva dello Stato
Islamico
p. 61
La risposta ideologica alla narrativa dello Stato Islamico p. 65
a. Ideazione di un piano contro-narrativo p. 66
b. Reinserimento degli ex combattenti p. 69
c. Promozione degli obiettivi di integrazione professionale e sociale p. 70
d. Lotta al settarismo, tribalismo e fazionalismo p. 71
e. Costruzione di modelli partecipativi giovanili p. 72
Ipotesi di sviluppo di una contro-narrativa a sostegno delle missioni
condotte dalle FFAA in teatro operativo
p.
73
CONCLUSIONI p. 79
Nota sul CeMiSS e nota sull’autore p. 81
7
ABSTRACT
Lo Stato Islamico - o Daesh, dal suo acronico arabo - è una formazione jihadista atipica e
del tutto differente dalle molte che oggi si dividono la scena del fondamentalismo nei molti
conflitti che interessano il Medio Oriente.
Lo Stato Islamico è il prodotto della disgregazione politica e sociale dell’Iraq post-invasione,
della mancata riconciliazione nazionale e del crescente settarismo confessionale che giorno
dopo giorno rischia di trascinare la regione nel baratro di un conflitto senza fine.
Sorto da una matrice eterogenea che include le forze dell’ex apparato ba’thista di Saddam
Hussein e del radicalismo sunnita, lo Stato Islamico si è posto al tempo stesso come nemico
della maggioritaria comunità sciita irachena ma anche delle formazioni islamiste tradizionali
di estrazione qaedista, divenendo in breve tempo una struttura del tutto autonoma e
preminente in Iraq e in Siria.
Caratterizzato da ambizioni territoriali e politiche - raffigurate idealmente nel Califfato – lo
Stato Islamico si pone al tempo stesso come una forza locale, interessata a difendere il
proprio ruolo e territorio, e un attore globale alla ricerca di una proiezione internazionale.
Altamente sovrastimato sul piano militare, la forza e la tenuta dello Stato Islamico è entrata
pericolosamente in crisi da quando le forze irachene e della comunità internazionale hanno
lanciato sistematici attacchi alle sue roccaforti in Siria e in Iraq.
Contrariamente a qualsiasi altra precedente organizzazione jihadista, tuttavia, lo Stato
Islamico ha impostato una strategia di comunicazione costruita secondo principi moderni e
innovativi, veicolando l’informazione in modo appropriato a differenti contesti sociali, ed
ottenendo straordinari risultati di visibilità e diffusione.
Attraverso la spettacolarizzazione della violenza e del terrore, lo Stato Islamico ha
effettivamente costituito un nuovo capitolo nelle modalità di comunicazione del jihadismo
verso la regione e l’Occidente, contribuendo in tal modo ad ingigantire la percezione della
propria immagine e del proprio potenziale.
Il presente studio individua e analizza le radici storiche e sociali che hanno determinato il
contesto in cui lo Stato Islamico è sorto e si è imposto, anche a danno di molte altre forze
del jihadismo, individuandone i tratti essenziali e tracciandone un bilancio aggiornato e
completo dell’operato.
Viene poi individuata ed analizzata la struttura della comunicazione strategica
dell’organizzazione, spiegandone le logiche di creazione del modello narrativo e i canali di
diffusione della produzione, individuando i tratti innovativi e qualitativi di un modello del tutto
nuovo e tristemente efficace di comunicazione.
8
Vengono infine individuati i tratti generali e particolari di una possibile strategia di contrasto
al modello comunicativo dello Stato Islamico, individuando potenziali azioni atte da un lato
a contenerne l’efficacia di diffusione e dall’altro la capacità di ricezione del piano generale
narrativo.
Lo studio illustra e commenta inoltre il vasto panorama di diffusione mediatico dello Stato
Islamico, individuandone le centrali operative e creative, quelle produttive e quelle della
distribuzione, offrendo un’esaustiva panoramica sulla produzione editoriale cartacea,
televisiva e radiofonica dell’organizzazione che certamente più di ogni altra sino ad oggi è
riuscita nel processo di spettacolarizzazione del terrore e della violenza.
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PARTE I
La parabola di una Nazione artificiale e della sua complessa società
Per comprendere come lo Stato Islamico abbia potuto sorgere e consolidarsi in Iraq, un
paese con tradizioni tutto sommato pluraliste e spiccatamente laiche sino a non pochi anni
fa, è necessario ripercorre gli elementi salienti della storia del paese nell’ultimo secolo,
individuando le responsabilità e le circostanze che hanno favorito soprattutto la nascita e il
consolidamento del settarismo.
È infatti in questo ambito, più che in una generica lotta ai valori dell’occidente e alla sua
proiezione politica in Medio Oriente, che devono essere individuati i cromosomi di uno
scontro artificialmente alimentato dall’incompetenza delle potenze coloniali prima, e dagli
interessi di détente della Guerra Fredda poi.
Le dinamiche storiche dell’Iraq permettono quindi di apprezzare non solo l’evoluzione della
politica che ha regolato i rapporti interni ed esterni al paese, ma anche e soprattutto la
trasformazione di una società transitata dal torpore dell’equilibrio politico garantito
dall’Impero Ottomano ai rigori di una feroce dittatura terminata con una delle più disastrose
operazioni militari mai condotte dall’Occidente.
Confermando ancora una volta, dopo quasi un secolo, come la gestione delle dinamiche
politiche e sociali della regione non può e non potrà mai avvenire attraverso manifestazioni
d’imperio o l’uso di una forza che non tenga conto delle particolari prerogative della società
locale.
Lo Stato Islamico, in sintesi, è quindi il prodotto dell’incapacità locale ed internazionale di
individuare meccanismi di coesione all’interno di società tradizionali, con ancora spiccate
tendenze tribali e un forte radicamento ideologico confessionale.
È quindi necessario affrontare l’analisi dello Stato Islamico ponendosi in una posizione
neutra e pronta a coglierne sfumature che vanno ben oltre il modesto limite imposto dallo
stereotipo del radicalismo religioso o del fanatismo, preparandosi ad accettare una realtà
che spesso si scontra con le principali metodologie interpretative applicate alla realtà sociale
della regione.
Lo Stato Islamico, quindi, non è un temibile nemico militare (come emerge anche
dall’esperienza di combattimento più recente contro le sue formazioni), ma rappresenta la
pericolosissima risposta ad un problema grave e a tutt’oggi irrisolto nella formazione e nel
consolidamento di un’identità nazionale irachena che possa finalmente superare le
elementari quanto odiose barriere del settarismo e della miope visione tribale.
10
Dalla caduta dell’impero ottomano al partito Ba’th
La genesi dell’ISIS è in un certo qual modo intimamente connessa alla storia stessa del
paese, e alla traumatica spartizione del territorio mesopotamico all’indomani del crollo
dell’Impero Ottomano.
Allo scoppio della prima guerra mondiale la Gran Bretagna inviò un contingente militare in
quello che è l’odierno Iraq, con l’intento di sottrarlo al controllo dell’Impero Ottomano,
schieratosi al fianco della Germania nel conflitto.
La missione si rivelò ben presto tutt’altro che semplice, e la Mesopotamia Expeditionary
Force al comando del generale Charles Townshend venne respinta, accerchiata e sconfitta
nella cittadina di Kut Al-Amara nel 1916.
Ciononostante, la regione mesopotamica veniva segretamente spartita – insieme a buona
parte del Levante e del Golfo Persico – negli accordi siglati dal britannico Mark Sykes e dal
francese François Picot, il 16 novembre del 1916, determinando sulla carta un insieme
geografico del tutto svincolato dalla realtà sociale del territorio, ponendo in tal modo le basi
per quell’insieme di fattori che avrebbe da allora impresso una deriva critica all’intero Medio
Oriente.
Gli eventi che portarono al collasso dell’Impero Ottomano transitarono attraverso la rivolta
araba del 1916 guidata dallo sceicco Al-Husayn e al consolidamento di quello che sarebbe
diventato il regno saudita, ma anche alla ripresa dei combattimenti in Iraq da parte degli
inglesi, che nel 1917 al comando di Stanley Maude riuscirono a conquistare Bagdad.
Iniziò in tal modo a prendere forma e corpo quell’insieme territoriale che in pochi anni
avrebbe assunto la connotazione di un insieme di piccoli Stati organizzati secondo le
esigenze di dominio della Gran Bretagna e della Francia, amministrati per lo più da
minoranze etniche o confessionali, determinando un costante stato di conflittualità sociale
ed un ruolo di naturale moderazione e dominio per le potenze coloniali.
Già nell’estate del 1920 si registrò la prima rivolta sciita in Iraq, in cui si lamentava l’arbitraria
decisione di porre l’amministrazione del paese nelle mani della minoranza sunnita, dando
avvio al primo episodio di una lunga serie di violenze settarie.
La Gran Bretagna, ostacolata dagli Stati Uniti nell’intento di annettere l’Iraq come colonia e
dovendo ripiegare sull’opzione di un protettorato, favorì l’istituzione di una monarchia
nell’agosto del 1921, nominando sovrano dell’Iraq l’hascemita Faysal ibn Al-Husayn, figlio
dello sceicco che capeggiò la rivolta araba.
Con l’avvento della monarchia prese avvio anche il consolidamento del ruolo delle comunità
sunnite, che rappresentavano l’aristocrazia militare ed amministrativa di retaggio ottomano
ma che erano minoritarie sul territorio, ancora in prevalenza a vocazione rurale.
11
Si andò in tal modo a delineare il quadro organico di quel dualismo settario che portò
progressivamente l’Iraq in direzione di un autoritarismo di estrazione militare fortemente
promosso dai quadri sunniti delle forze armate, di ispirazione pan-arabista e fortemente
condizionati dopo la seconda guerra mondiale dalle dinamiche geopolitiche della Guerra
fredda.
Il consolidamento del ruolo egemonico inglese sul paese si determinò a partire dalla metà
degli anni Venti, quando vennero firmate le prime concessioni petrolifere, che giustificarono
anche lo stazionamento di basi militari britanniche sul suolo iracheno.
Alla morte del sovrano nel 1933, ascese al trono il figlio Ghazi dando avvio ad un turbolento
periodo di instabilità politica, costruita sul ricorso al nazionalismo arabo e alla crescita del
ruolo delle forze armate nella vita istituzionale del paese, che non terminò con la morte
accidentale del sovrano nel 1939.
La successione si presentò subito difficoltosa, avendo l’erede al trono Faysal II appena
quattro anni, rendendo necessario un mandato di reggenza nelle mani dello zio Abdullah
che dovette gestire tuttavia un crescente sentimento di ostilità verso le invasive forze
britanniche presenti sul territorio iracheno, complice anche lo scoppio del secondo conflitto
mondiale e l’apparente opportunità di emancipazione offerta da un più intenso legame con
la Germania nazista e l’Italia fascista.
Successivamente alle rocambolesche vicende del 1940-41, quando il primo ministro filo-
nazista Rashid Ali Al-Kaylani aveva tentato di imporre una decisiva sterzata anti-britannica
riuscendo a detronizzare il reggente con un colpo di Stato e a sostituirlo con l’emiro Sharaf,
la Gran Bretagna dichiarò guerra all’Iraq inviando truppe dall’India e iniziando un conflitto
che si protrasse fino al 31 maggio del 1941 quando, in seguito all’armistizio e alla fuga di
Al-Kaylani, venne imposto un governo filo-britannico.
La rilevanza dell’Iraq era data, soprattutto, dalla sempre più abbondante produzione
petrolifera che costituiva non solo un fattore economico primario ma anche un elemento
strategico di fondamentale importanza, stante i crescenti consumi imposti dal conflitto.
La possibilità che l’Iraq – così come il vicino Iran – potesse cadere nell’orbita un sodalizio
favorevole all’asse aveva allarmato non solo i britannici – che di fatto gestivano la locale
produzione quasi in autonomia – ma anche gli Stati Uniti, che appoggiarono quindi la politica
interventista di Londra.
Non meno traumatico fu il periodo del dopoguerra, caratterizzato nella regione da un deciso
ritorno del sentimento panarabo, culminato con il conflitto del 1948 contro
l’autoproclamazione dell’indipendenza dello Stato di Israele, cui l’Iraq partecipò
disastrosamente insieme all’Egitto, la Siria, il Libano e la Transgiordania.
12
Una fase di generale ripresa dell’economia prese avvio nel 1952, con l’ascesa al trono del
re Faysal II, divenuto maggiorenne, intenzionato ad avviare un processo di modernizzazione
del paese che portò avanti conducendo una coraggiosa politica sia nazionale sia estera,
attraverso la quale abbracciò una sempre più intensa alleanza con gli Stati Uniti e i paesi
europei, anche in chiave anti-sovietica.
Tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta l’intero Medio Oriente era in
grande fermento ed al tempo stesso in subbuglio, con la definizione di alleanze che
portarono l’Egitto e la Siria ad unirsi nella Repubblica Araba Unita (RAU) nel 1958, poi
estesa allo Yemen del Nord. L’Iraq e la Giordania risposero con una labile alleanza regionale
– l’Unione Araba – mai sfociata in vera e propria fusione, e nel 1963 l’Iraq arrivò al punto di
considerare una partecipazione nella RAU, modificando addirittura la propria bandiera per
adeguarla a quella del sodalizio a guida egiziana.
La monarchia irachena, tuttavia, aveva cessato di esistere il 14 luglio del 1958 quando, con
un colpo di stato promosso dal generale Abd Al-Karim Qassim di ispirazione fortemente
anti-britannica, il sovrano e l’ex reggente vennero barbaramente assassinati, cui seguì la
proclamazione della repubblica.
Una nuova svolta politica interessò l’Iraq, che abbandonò le sue posizioni filo-occidentali
per avviare una sorta di non-allineamento che, tuttavia, finì ben presto per avvicinarsi alle
posizioni dell’Egitto prima e dell’Unione Sovietica poi.
Il partito Ba’th
La principale sorgente dell’antagonismo politico al generale Qassim si generò in seno al
partito Ba’th, una formazione politica originariamente sorta in Siria in cui erano confluiti
diversi movimenti di ispirazione pan-arabista ed anti-britannica, a loro volta eredi di quella
generazione politica che aveva promosso il legame con l’Asse durante la seconda guerra
mondiale.
Il Partito Ba’th Arabo Socialista – nella sua denominazione originaria – era stato fondato nel
1940 in Siria da Zaki al-Arzusi, Michel Aflaq e Salah Al-Din Al-Bitar, alawita il primo, cristiano
ortodosso il secondo e musulmano sunnita il terzo.
Il partito, dichiaratamente aconfessionale, era stato concepito in seno al prolifico dibattito
culturale del comunismo internazionale dal quale, tuttavia, si distanziò ben presto per
favorire un approccio più squisitamente nazionalista e panarabo sulla spinta dell’entusiasmo
che la seconda guerra mondiale aveva generato nel contrasto sia alla Gran Bretagna che
alla Francia, espressioni del colonialismo.
13
Le fortune del partito Ba’th iniziano negli anni Cinquanta, con la fusione nel 1952 con il
Partito Socialista Arabo fondato qualche anno prima da Akram Al-Hurani, che permetterà la
trasformazione del Ba’th da movimento di estrazione borghese a forza politica di massa.
A partire dai primi anni Cinquanta, il Ba’th si espanse dalla Siria all’Iraq e alla Giordania,
con l’imperativo di dar vita ad un partito il cui compito primario fosse quello di promuovere
l’unità araba e i valori del socialismo, nell’ambito di una sua concezione squisitamente locale
che si allontanava dal marxismo, ripudiando il concetto di lotta di classe ed anzi aprendo ad
una concezione dell’economia basata sulla libera iniziativa e sul ruolo dell’impresa privata,
fondendo quindi in un ibrido politico di nuova concezione i principi religiosi dell’Islam e del
Cristianesimo con quelli del nazionalismo arabo.
La penetrazione del Ba’th in Iraq avvenne a partire dal 1949, per iniziativa di un eterogeneo
gruppo di attivisti, di estrazione alawita e sunnita.
Anche la gemmazione irachena del partito ereditò la strutturazione organica della
formazione siriana, composta dalle firga (le unità più piccole, composte da un minimo di 12
aderenti), le shu’ba (le sezioni che raccoglievano più firga) e le fir (aggregazioni di shu’ba
su scala provinciale). Un’organizzazione di stampo quasi militare, espressione di quel rigore
associativo che caratterizzava la gran parte delle unità di estrazione socialista.
L’evoluzione della branca irachena del partito Ba’th fu alquanto lenta, potendo tuttavia
crescere velocemente all’indomani del colpo di Stato promosso da Qassim che,
nell’abbattere la monarchia, concesse anche il pluralismo politico favorendo la libera attività
del partito Ba’th che usciva in tal modo dalla clandestinità riscuotendo un crescente
consenso in seno alla società irachena.
L’antagonismo del partito Ba’th al ruolo del presidente Qassim si costruì su basi confuse, di
fatto amalgamate dal solo ideale panarabista, che portarono al tentativo di assassinio del
presidente nel 1959 e ad una dura fase di repressione in conseguenza della quale molti
degli aderenti furono arrestati o costretti alla fuga in Siria e Giordania.
La nuova fase di clandestinità portò ad un sodalizio tra il partito Ba’th e i vertici delle forze
armate, che sempre più condividevano il timore per la crescita delle formazioni comuniste,
appoggiando in tal modo l’ideale panarabista e nazionalista.
Nel 1963 il partito Ba’th e i militari riuscirono ad organizzare un nuovo colpo di Stato, che
questa volta riuscì, provocando la morte di Qassim e di molti ufficiali ritenuti fedeli all’ex
presidente o simpatizzanti del partito comunista.
Il nuovo contesto politico fu tuttavia caratterizzato da continue violenze e ambizioni personali
di un gran numero di esponenti del partito e delle forze armate, determinando
14
l’ingovernabilità di fatto del paese e provocando la progressiva disgregazione del Ba’th
come partito transnazionale.
Emerse in questo contesto la figura del colonnello Mundhir Al-Wandawi, che nel 1963 si
impadronì di fatto della componente irachena del partito, provocando la definitiva scissione
dalla componente originaria siriana e costituendo una nuova entità esclusivamente
irachena, di stampo autoritario.
Con la nascita del nuovo partito Ba’th iracheno e l’ascesa di Al-Wandawi mutano
radicalmente gli equilibri interni al partito che sino a quel momento si era mantenuto
strenuamente in una collocazione del tutto aconfessionale. Prima del 1963, sebbene il dato
non avesse pressoché alcuna rilevanza nella gestione delle linee strategiche del partito, il
musulmani sunniti costituivano quasi il 49% dei membri, mentre gli sciiti erano poco più del
23%, i drusi il 7% e i cristiani il 17%. Dal 1963 in poi, invece, la rilevanza della componente
sunnita all’interno del Ba’th crebbe velocemente, trasformandosi in breve tempo in
maggioritaria, sino a raggiungere il valore dell’85%.
Il partito Ba’th diventò quindi uno strumento di potere di fatto in mano alla sola componente
sunnita, minoritaria demograficamente nel paese ma sin dagli anni Venti collocata al vertice
del sistema istituzionale del paese. In tal modo l’elemento confessionale tornò a giocare un
ruolo preminente nella dinamica politica irachena, alimentando un settarismo poi esploso
nel 2003 con la caduta di Saddam Hussein.
Un rapido colpo di Stato si consumò nuovamente, nel 1968, con l’ascesa di un gruppo di
ufficiali di ispirazione nasseriana guidati dal generale Abd Al-Asalm Arif, abbattuto ancora
una volta dal partito Ba’th il 17 luglio dello stesso anno, con un sodalizio politico cui partecipò
anche la locale struttura della Fratellanza Musulmana e una componente curda, portando
al potere il presidente Ahmed Hassan Al-Bakr.
Al-Bakr, originario della città di Tikrit, riuscì nell’intento di trasformare in chiave ancora più
esclusiva il ruolo del Ba’th, verticalizzando la catena di comando ed imponendo un nucleo
di controllo di fatto familiare e tribale all’interno del partito, in cui progressivamente emerse
e spiccò la figura del cugino, Saddam Hussein.
Saddam Hussein
La figura di Saddam è molto importante nella genesi dell’ISIS. Fu Saddam, infatti, a gestire
a partire dal 1964 – su incarico del cugino Al-Bakr – il rapporto con le frange di ispirazione
confessionale del partito, concedendo qualche riconoscimento al ruolo della religione nella
Costituzione e nell’impianto normativo del paese, ma anche finanziando organizzazioni
15
religiose sunnite costituite come baluardo al dominante ruolo di una società a maggioranza
sciita.
Ed è all’interno di queste organizzazioni, sostenute o semplicemente tollerate, che
ritroviamo infatti la matrice di quello che sarà poi il contesto in cui sorgerà e fiorirà il Daesh,
come ad esempio nel caso della setta sufi della Naqshbandiyya.
Saddam Hussein nacque ad Al-Awja, nelle vicinanze di Tikrit, il 28 aprile del 1937, in una
famiglia di umili origini dedita all’allevamento del bestiame. Aderì giovane al partito Ba’th,
nel quale militò sin dai tempi della presidenza Qassim, al cui tentativo di omicidio del 1958
si suppone abbia partecipato, dovendo poi riparare all’estero, in Siria. Lì Saddam entrò in
contatto con Michael Aflaq, grazie al quale diventò non solo un membro effettivo del partito,
ma acquisì anche una sempre più elevata posizione gerarchica.
Saddam Hussein si spostò poi in Egitto nel 1959, dove visse fino al 1963, simpatizzando
per il nazionalismo arabo di Nasser e maturando la propria coscienza politica e rientrando
nel 1964 in Iraq, dove venne tuttavia arrestato per ordine del presidente Abdul Rahman Arif
che ne temeva giustamente il potenziale.
Fuggito di prigione e ricongiuntosi con le locali cellule del partito Ba’th, Saddam iniziò una
rapida carriera scalando i ranghi dell’organizzazione e venendo nominato, da Ahmed
Hassan Al-Bakr, Segretario Generale del Comando Regionale, assumendo in tal modo un
ruolo rilevante nel colpo di Stato del 1968 che depose Arif e impose Al-Bakr come nuovo
presidente dell’Iraq e che a sua volta nominò Saddam come suo vice.
Un altro elemento per la comprensione della storia del Daesh è connesso proprio al ruolo
di Saddam Hussein, in questa fase, cui fu dato incarico di creare il primo servizio di
intelligence del paese e l’apparato delle forze scelte che successivamente prenderà il nome
di Guardia Repubblicana. Due strutture che giocheranno un ruolo fondamentale nella
creazione dei movimenti che si opporranno all’occupazione americana prima, e che
andranno in parte a costituire il Daesh poi.
Il controllo delle forze più qualificate dell’apparato di sicurezza nazionale garantirà da quel
momento a Saddam una straordinaria forza politica e militare, che gli consentirà di
accrescere il proprio ruolo politico enormemente, arrivando a controllare e determinare le
scelte di politica economica del paese e a beneficiare in prima persona dei crescenti profitti
generati dall’industria del petrolio (nazionalizzata nel 1972).
Saddam Hussein promosse tuttavia anche una coraggiosa politica sociale che favorì la
decisa crescita dell’alfabetizzazione e dell’istruzione, modernizzando un paese rimasto di
fatto paralizzato dalle molteplici vicissitudini politiche che si erano susseguita dalla fine della
seconda guerra mondiale.
16
Dal 1973 nominato Vice Presidente, pur non avendo mai fatto parte delle Forze Armate,
Saddam fortificò il ruolo delle forze armate, gratificò i reparti scelti e l’intelligence e promosse
una consistente campagna autocelebrativa in larga misura costruita sui progressi nel campo
dell’economia e delle infrastrutture, venendo gradualmente percepito come un innovatore e
un modernizzatore.
L’industria del petrolio divenne lo strumento principale della crescita politica e
dell’affermazione personale di Saddam Hussein, grazie anche alla vertiginosa crescita dei
prezzi del 1973, in quello che passò alla storia come lo “shock petrolifero”1.
Lo sviluppo economico promosso da Saddam Hussein permise di definire politiche di
promozione dei servizi sociali e di crescita che mai erano state sperimentate prima di allora
nel paese, contribuendo ulteriormente ad accrescere la fama di Saddam come politico
avveduto e capace.
Il sistema educativo nazionale impose l’obbligatorietà delle scuole primarie, abbattendo
drasticamente i valori dell’analfabetismo e promuovendo lo sviluppo delle scuole e delle
università nazionali, che iniziarono in tal modo a generare un sempre più consistente
numero di figure professionali qualificate sia nei settori tecnici che in quelli sanitari e dello
sviluppo, permettendo in breve tempo un salto qualitativo senza precedenti del sistema
sanitario nazionale, di quello dell’assistenza sociale e dell’apparato pubblico.
1 La crisi petrolifera del 1973 derivò dall’improvvisa diminuzione dei flussi petroliferi garantiti
dall’OPEC (l’organizzazione dei paesi produttori, che all’epoca rappresentava oltre il 60% della produzione mondiale), in conseguenza di una crisi politica consumatosi con i paesi occidentali all’indomani della guerra dello Yom Kippur, quando l’Egitto e la Siria cercarono di invadere Israele. Quando, dopo sole tre settimane, fu chiaro che la guerra era perduta per gli attaccanti, i paesi arabi – che il conflitto avevano sostenuto quasi unanimemente – adottarono una strategia punitiva contro il paesi occidentali – sostenitori di Israele – riducendo le esportazioni del 25% e provocando un aumento dei prezzi vertiginoso. Gli Stati Uniti e l’Olanda subirono un blocco totale delle esportazioni di petrolio fino al 1975, determinando complessivamente una crisi energetica che rallentò la produzione industriale e scatenò una crisi senza precedenti nelle economie dell’intero pianeta. Quello che passò alla storia come lo “shock petrolifero” fu tuttavia un boomerang per i paesi produttori. La gran parte dei paesi occidentali, infatti, investì ingenti capitali per l’esplorazione e la produzione di petrolio sul proprio territorio e in aree diverse dal Medio Oriente, favorendo in tal modo un vertiginoso aumento della produzione nel corso degli anni successivi nel continente americano, in Africa e nella stessa Europa, determinando non solo un crollo dei prezzi ma anche la fine dell’OPEC quale dominus delle politiche petrolifere mondiali. L’organizzazione dei produttori, a partire dai primi anni Ottanta, si trovò a transitare nel ruolo di “moderatore” del mercato petrolifero, adottando costanti politiche di tagli produttivi (le cosiddette quote) per calmierare il mercato e mantenere i prezzi [segue] [continua] entro “forbici” di prezzo accettabili per le economie della regione. Una sconfitta totale, in sintesi, che non solo determinò la fine del monopolio energetico mediorientale, ma diede anche un poderoso impulso allo sviluppo delle energie alternative e soprattutto alle tecnologie per lo sfruttamento delle energie rinnovabili, facendo lentamente avviare il mercato energetico verso una fase di transizione – ancora in atto – di sostituzione del petrolio con altre sorgenti di energia, fossili e non.
17
Parimenti venne potenziato il ruolo e la capacità operativa delle forze armate, determinando
una sorta di “casta” militare fedele al presidente e alle istituzioni e a queste legata
dall’interesse della continuità e della crescita. Un sodalizio che resisterà a lungo e che
costituirà anch’esso un elemento di fondamentale importanza nella successiva creazione
del Daesh.
L’Iraq degli anni Settanta era quindi un enorme cantiere, grazie alla capacità di investire i
proventi petroliferi in una enorme progettualità pubblica che aveva in poco tempo mutato la
fisionomia del paese, facendo rapidamente transitare in direzione della modernità e dello
sviluppo grazie all’avveduta politica economica delle istituzioni del governo Al-Bakr, di cui
Saddam si dimostrava il più solerte esecutore.
Il prezzo dello sviluppo, tuttavia, veniva pagato con una progressiva svolta autoritaria del
sistema politico che trasformava sé stesso in vera e propria dittatura autoritaria, severa ed
austera nei confronti di ogni forma di opposizione, dove il dissenso venne progressivamente
silenziato a favore di una corale quanto sempre meno spontanea forma di celebrazione per
il governo ed il partito.
I primi a fare le spese di questo crescente clima di autoritarismo furono i curdi, le cui
aspirazioni autonomistiche vennero sistematicamente e progressivamente frustrate,
soprattutto in conseguenza dell’incremento delle attività produttive dell’industria petrolifera
nell’area di Kirkuk. Parimenti repressiva fu la politica di gestione delle istanze della comunità
sciita, progressivamente soffocate all’interno del nazionalismo iracheno e dell’indirizzo
centrale settario dettato dalla minoranza sunnita.
Nel 1972 l’Iraq firmò un Trattato di Amicizia e Cooperazione con l’Unione Sovietica,
entrando progressivamente nell’orbita dell’alleanza con Mosca, soprattutto in conseguenza
del contestuale e sempre maggiore sviluppo di un sentimento filo-americano del vicino Iran,
che, sotto la guida dello Scià Mohammad Reza Pahlevi, aveva intrapreso anch’esso un
poderoso programma di modernizzazione e di potenziamento delle forze armate. L’Iraq e
l’Iran sembrarono in quel momento riuscire anche a comporre la lungamente trascinata
diatriba per la definizione del limite territoriale lungo il corso dello Shatt e-Arab, il canale che
divide a sud i due paesi, firmando nel 1975 l’Accordo di Algeri che sembrava mettere la
parola fine al problema.
L’anno successivo, nel 1976, Saddam Hussein venne nominato generale delle forze armate,
completando in questo modo il processo di crescita politica che lo aveva portato in un
decennio ad essere non solo l’erede naturale di Al-Bakr ma anche e soprattutto l’uomo più
in vista dell’intero apparato governativo.
18
Le condizioni di salute del presidente Al-Bakr peggiorarono significativamente nella seconda
metà degli anni Settanta, in conseguenza dell’età e del precario quadro clinico complessivo,
favorendo in tal modo una graduale e sempre più completa crescita del ruolo di Saddam,
che dal 1976 in poi sarà di fatto il vero leader politico nazionale.
L’effettiva transizione avvenne il 16 luglio del 1979, quando Al-Bakr si dimise trasferendo
l’incarico a Saddam Hussein, in quella che fu percepita come una serena e del tutto
volontaria e spontanea transizione.
Al contrario, invece, il processo di sostituzione era stato accelerato da Saddam per impedire
il completamento del progetto politico voluto da Al-Bakr e relativo alla definizione di una
fusione tra l’Iraq e la Siria, in conseguenza della quale Hafez al-Asad avrebbe assunto la
carica di vice-presidente, mettendo seriamente a repentaglio le ambizioni di Saddam
Hussein.
Non appena nominato presidente, Saddam epurò 68 esponenti del partito Ba’th,
successivamente fucilandone 22, con l’accusa di tradimento. In questo modo rimosse
immediatamente ogni residua traccia di sostegno al precedente presidente, costruendo da
quel momento un ruolo del tutto personale al vertice del partito e del paese.
Intimorito dalla rivoluzione islamica che pochi mesi prima aveva deposto lo Scià in Iran,
minacciando di esportare la rivoluzione nell’intera regione, Saddam Hussein intraprese una
feroce campagna di repressione contro tutte quelle forze che – potenzialmente o
concretamente – potevano minacciare il suo ruolo e quello del dominio del partito Ba’th. Ne
fecero le spese soprattutto le minoranza curde e le organizzazioni di stampo sciita che,
accusate di complottare al fianco dell’Iran, vennero sistematicamente vessate.
Le tre guerre di Saddam: Iran-Iraq, Kuwait e guerra del Golfo, l’invasione americana
Mentre sotto la guida Al-Bakr l’Iraq aveva intrapreso il cammino della modernizzazione e
dello sviluppo, facendo registrare oltre un decennio di relativa pace e di stabilità per il paese,
la nomina a presidente di Saddam Hussein provocò il rapido collasso di questa strategia.
Nel 1980, subdolamente spinto dalla gran parte delle monarchie del Golfo e dagli stessi
Stati Uniti, accettò di dichiarare guerra all’Iran convinto di una rapida vittoria e di una
remunerativa gestione della pace con lo storico nemico iraniano.
La guerra prese sin da subito una piega ben diversa dalle aspettative, e quello che nelle
valutazioni dei militari avrebbe dovuto essere un paese in ginocchio, piegato da una
sanguinosa rivoluzione e provato dalla mancanza di aiuti internazionali, si rivelò invece un
osso duro. L’Iran non solo resistette all’attacco iracheno, ma nel giro di due anni riuscì a
contrattaccare penetrando profondamente in territorio iracheno.
19
Quella che per l’Iran divenne una sorta di guerra santa per consolidare il ruolo della
rivoluzione e della sua leadership, per l’Iraq fu al contrario una disastrosa avventura militare
alla quale non si riuscì a mettere fine prima del 1988 per l’intransigenza della Guida
Suprema dell’Iran Ruollah Khomeini, che non intendeva concedere alcuno spazio negoziale
all’Iraq, ormai in profonda crisi.
Fu l’ONU a ristabilire la pace e determinare la cessione di ostilità che provocarono circa un
milione di vittime sui due fronti, annullando ogni progresso ottenuto dai due paesi nei
vent’anni precedenti e gettando l’Iraq di Saddam Hussein in una crisi economica dalla quale
non si sarebbe mai più risollevato.
Oberato dai debiti contratti con le monarchie arabe durante il conflitto – le stesse che lo
avevano spinto in direzione di quella che appariva una facile operazione militare contro un
nemico debole e provato dalla rivoluzione – Saddam Hussein entrò in una dinamica di
progressiva crisi con i suoi ex alleati, soprattutto quando alcuni di questi iniziarono
pressantemente a richiedere la restituzione delle somme erogate all’Iraq durante la guerra.
Il Kuwait si rifiutò di concedere all’Iraq una dilazione per la restituzione dei 30 miliardi di
dollari erogati dallo stesso, anche in sede OPEC, dove rifiutò la proposta di Bagdad di
operare tagli alla produzione per aumentare il costo del petrolio.
Ne derivò una crisi politica senza precedenti, nell’ambito della quale Saddam Hussein più
volte fece riferimento alla storica subordinazione del Kuwait all’Iraq durante il periodo
dell’impero Ottomano, minacciando il paese e dando spazio ai nazionalisti che da sempre
avevano sostenuto l’esigenza di annettere il Kuwait come la 19a provincia.
Si innescò quindi una spirale di crisi, alimentata anche dalla denuncia irachena di una
alquanto improbabile produzione petrolifera del Kuwait su giacimenti iracheni, che portò
Saddam Hussein ad ordinarne l’invasione, il 2 agosto del 1990, con una fulminea azione
che travolse in poche ore le blande resistenze del paese.
La comunità internazionale si schierò nettamente a favore del Kuwait e contro l’Iraq, dando
un ultimatum a Saddam Hussein per il ritiro delle proprie forze militari. Ancora una volta,
tuttavia, Saddam sottovalutò le intenzioni dell’avversario, ritenendo presente un margine
negoziale che invece non venne in alcun modo concesso, e subendo il 16 gennaio
successivo il poderoso attacco di una coalizione internazionale che in breve tempo
sconfisse gli iracheni in Kuwait, senza tuttavia minacciare il ruolo di Saddam Hussein in Iraq.
I dieci anni che seguirono furono caratterizzati dall’embargo e dalla profonda crisi
economica del paese, aggravata da una sempre più autoritaria concezione del potere da
parte di Saddam Hussein, che non esitò ad impiegare nuovamente la forza contro tutte
quelle minacce percepite all’interno del paese.
20
Nel 1991, subito dopo la sconfitta in Kuwait, soppresse nel sangue la rivolta sciita nel sud
del paese, ed altrettanta violenza venne impiegata nei confronti dei curdi che manifestavano
ambizioni indipendentiste. Gli anni Novanta furono testimoni di una profonda frattura tra la
comunità sciita e quella sunnita del paese, con la progressiva radicalizzazione del ruolo
autoritario del governo e la creazione di apparati paramilitari di chiara estrazione
confessionale. Un altro fattore di grande importanza per comprendere il successivo sviluppo
del Daesh e il consolidamento del suo ruolo.
Più volte la comunità internazionale intervenne in Iraq a protezione delle no-fly-zone imposte
dalle Nazioni Unite, provocando ulteriore distruzione e miseria in un paese ormai allo sfascio
e governato con una brutalità senza precedenti da Saddam Hussein e dalla sempre più
ristretta cerchia di fedelissimi che lo seguì fino alla fine.
Successivamente ai noti fatti dell’11 settembre del 2001, l’Iraq entrò nuovamente nella
spirale di una crisi con gli Stati Uniti, che, nella spasmodica ricerca di un nemico visibile e
concreto cui addebitare le responsabilità – morali, più che materiali – dell’attacco dell’11
settembre, finirono per trasformare nuovamente l’Iraq in un obiettivo della politica militare
statunitense.
Accusato di detenere e produrre armi di distruzione di massa – con accuse rivelatesi poi del
tutto infondate, e che generarono comunque un profondo dissenso in seno alla comunità
internazionale – l’Iraq venne nuovamente attaccato e invaso il 20 marzo del 2003, venendo
definitivamente conquistato in meno di tre settimane.
Saddam Hussein si rese irreperibile, l’esercito venne dissolto e sembrò aprirsi a quel punto
una nuova fase per il martoriato paese, che ben presto ripiombò tuttavia in una nuova e ben
peggiore fase di conflittualità.
Il 13 dicembre del 2003 Saddam Hussein venne catturato vicino a Tikrit, consegnato alle
nuove autorità politiche del paese, processato ed infine giustiziato il 30 dicembre del 2006.
L’Iraq post ba’thista dal 2003 ad oggi
L’ultimo elemento storico di interesse per comprendere il fenomeno jihadista connesso
all’ascesa del Daesh è certamente da individuarsi nella più recente evoluzione storica del
paese, successivamente all’intervento della coalizione a guida americana che nel 2003
pone fine al governo di Saddam Hussein.
L’intera operazione militare del 2003 in Iraq è stata oggetto di pesanti critiche a livello
internazionale, soprattutto per l’appurata ed ormai certa consapevolezza dell’assenza di
armi di distruzione di massa nelle mani del regime iracheno alla data dell’invasione.
21
La decisione di invadere l’Iraq è stata il prodotto di una complessa fase politica negli Stati
Uniti, costruita sulla necessità di offrire all’opinione pubblica americana una politica di
intervento chiara e decisa, che si è tuttavia dovuta misurare con l’impossibilità di adottare
una strategia di confronto tradizionale e simmetrica contro una tipologia di minaccia così
impalpabile e sfuggente come quella rappresentata dal terrorismo.
L’operazione militare condotta in Afghanistan per colpire Al Qaeda e il regime dei Talebani,
che aveva dato ospitalità a Osama Bin Laden e alla sua organizzazione, era stata condotta
in modo fulmineo ed efficace, senza tuttavia portare alla cattura del leader terroristico più
ricercato del pianeta, dando impulso a quella continuità e indeterminatezza della cosiddetta
“guerra al terrorismo” che avrebbe non solo trasformato l’operazione in Afghanistan in un
conflitto vero e proprio, ma esteso la portata dell’intervento anche all’Iraq.
In sintesi, le motivazioni che spinsero l’amministrazione statunitense ad attaccare l’Iraq, pur
nella consapevolezza che non sarebbero state trovate armi di distruzione di massa2, sono
da individuarsi nella ricerca di un’operatività militare che potesse ingenerare nell’opinione
pubblica americana la sensazione di una effettiva, efficace e capace di risposta
dell’apparato militare e di intelligence ai tragici fatti dell’11 settembre del 2001.
Saddam Hussein, che da oltre dieci anni rappresentava la principale sorgente di instabilità
regionale nel Golfo, si trovò quindi a pagare il prezzo di una lotta al terrorismo con la quale
il suo regime aveva effettivamente ben poco a che spartire, diventando l’obiettivo di una
rovinosa missione tutt’ora in atto.
Il principale errore strategico commesso dagli Stati Uniti nella condotta della guerra all’Iraq
è stato certamente quello di voler dissolvere l’intero apparato istituzionale, incluse le forze
armate, azzerando di fatto in un sol colpo non solo l’intera expertise amministrativa e della
sicurezza del paese, ma anche e soprattutto provocando il collasso economico della
comunità sunnita – che costituiva l’ossatura del sistema pubblico iracheno - ed esponendola
contestualmente alle vendette della maggioranza sciita.
Alla caduta del regime venne quindi disciolto e bandito il partito Ba’th, che entrò ben presto
in clandestinità insieme a numerosi esponenti delle ex forze armate – e soprattutto della ex
Guardia Repubblicana – anch’esse disciolte dalle forze americane e ricostituite solo in una
fase successiva.
L’amministrazione dello Stato venne posta provvisoriamente sotto il controllo degli
americani, e presieduta da una figura politica irachena, Ahmed Chalabi.
2 Come evidente dalla documentazione della Commissione di inchiesta che indagò sul conflitto e
le sue cause, vedasi al rapporto disponibile su https://9-11commission.gov/report/ 911Report.pdf
22
L’esperienza politica dell’amministrazione provvisoria e del governo Cahalabi fu disastrosa,
fallendo sistematicamente in ogni tentativo di riconciliazione nazionale, favorendo quindi la
creazione di un nuovo governo iracheno cui si giunse dopo le elezioni del gennaio del 2005,
da cui scaturirono la nuova costituzione e le elezioni parlamentari del successivo dicembre.
Il governo del paese, ormai saldamente nelle mani della maggioranza sciita, iniziò a
pregiudicare i diritti e le prerogative economico-sociali della comunità sunnita, all’interno
della quale si formarono numerose organizzazioni terroristiche (di resistenza, nella narrativa
sunnita) che iniziarono a colpire violentemente le istituzioni e le forze di occupazione
militare.
Molte di queste organizzazioni erano composte inizialmente da ex appartenenti al partito
Ba’th e alla Guardia Repubblicana, disponendo quindi di vasti arsenali occultati prima della
caduta del regime e di uomini ben addestrati e motivati.
La guerriglia e il terrorismo colpirono soprattutto la capitale, le forze della coalizione militare
internazionale e le regioni abitate prevalentemente dalle comunità sciite, innescando un
meccanismo di violenza che crebbe esponenzialmente e finì per attrarre in Iraq un sempre
maggiore numero di combattenti stranieri, ideologicamente motivati ed attratti dal modello
jihadista di Al Qaeda.
Abu Musab Al Zarqawi divenne in breve tempo il leader iracheno della locale gemmazione
di Al Qaeda, operando progressivamente in sempre più stretto contatto anche con tutte
quelle organizzazioni jihadiste di espressione ba’athista ed ex militare, con cui si generò
una sinergia tremendamente pericolosa che consentì un’escalation violentissima del
conflitto.
La sinergia tra le due formazioni, provenienti da posizioni ideologicamente molto diverse tra
loro, consentì di combinare elementi logistici e tecnico-operativi sino ad allora impensabili
nel confronto con le forze di internazionali di occupazione e quelle locali del nuovo governo,
manifestando una capacità operativa del tutto nuova ed altamente preoccupante per la
comunità internazionale.
La simbiosi transitò anche per una precisa e dettagliatamente studiata formula di
comunicazione, impostata sulla concezione più antiquata e radicale dell’islamismo, nella
ricerca di una narrativa locale che potesse richiamare senza ambiguità il primordiale
confronto tra sunniti e sciiti, nell’ottica di un’affermazione ideologica e militare mai
sperimentata prima in Iraq.
L’Iraq divenne al tempo stesso il crocevia di tutti i jihadisti internazionali, andando ad
ingrossare le fila di una sterminata serie di organizzazioni di piccole e grandi dimensioni,
che nello scontro settario con gli sciiti e in quello ideologico con gli occidentali plasmarono
23
la propria nuova identità e legittimarono le nuove catene di comando di un jihadismo che
era ormai solo nominalmente espresso dalla tradizionale linea di comando presieduta da
Osama Bin Laden.
La spettacolarizzazione del terrorismo divenne in tal modo il principale elemento distintivo
della nuova e più cruenta fase dello scontro in Iraq, con rapimenti ed esecuzioni di ostaggi
ispirati alla più retrograda interpretazione della sharia e ad uso e consumo soprattutto dei
sempre più numerosi media presenti sul territorio, pronti a diffondere ed amplificare la
brutalità del jihadismo.
La compresenza di gruppi locali e formazioni internazionali portò ad una graduale
trasformazione delle unità terroristiche, che sopravvissero all’eliminazione di Al Zarqawi il 7
giugno del 2006 articolandosi poi in gruppi di diversa natura e composizione, con obiettivi
che sempre più si spingevano al di fuori dei confini dell’Iraq.
L’originale fenomeno dell’insorgenza, in cui erano confluiti un buon numero di ex militari e
membri del disciolto partito Ba’th, si trasformò quindi lentamente dando vita ad un insieme
di formazioni spesso estremamente eterogenee e con obiettivi molto diversi tra loro.
Mentre l’insorgenza originale continuava a concentrarsi sul ruolo e sul territorio della
comunità sunnita, soprattutto nell’area che sarà conosciuta come il Triangolo Sunnita (dalla
forma dell’area compresa tra le città di Tikrit, Ramadi e Bagdad), il jihadismo di matrice
internazionale punterà su una maggiore mobilità regionale, partecipando a diversi conflitti e
cercando di mantenere vivo lo spirito transnazionale dell’originale formazione di Al Qaeda.
La violenza crebbe esponenzialmente a partire dal 2006, colpendo non solo le forze della
coalizione internazionale e quelle del risorto governo iracheno ma rivolgendosi sempre più
a danno della popolazione di confessione sciita, colpendo indiscriminatamente luoghi di
culto, aree residenziali e centri urbani, in un crescendo di violenza e terrore che spinse gran
parte della comunità internazionale – e poi anche gli stessi Stati Uniti – a lasciare il territorio
dell’Iraq dopo un sommario trasferimento dei poteri alle debolissime nuove autorità locali.
Un ultimo, ma non certo meno significativo, elemento per comprendere le radici del
fenomeno jihadista che portarono al consolidamento del Daesh, è senza dubbio quello della
radicalizzazione del settarismo politico.
Con l’elezione nel maggio del 2006 di Nuri Al-Maliki alla carica di Primo Ministro, la deriva
settaria crebbe esponenzialmente in una sorta di vendetta postuma per l’operato violento di
Saddam Hussein negli oltre vent’anni del suo brutale regime. La componente politica sciita
di governo incrementò con sistematica tenacia e violenza la propria azione nella provincia
dell’Anbar e più in generale nel cosiddetto Triangolo Sunnita, elevando a tal punto il livello
24
della conflittualità da provocare un profondo risentimento anche nell’ambito di quelle
comunità che avevano sino ad allora sempre cooperato con le autorità centrali di Bagdad.
Il risultato di questa politica settaria, spregiudicata e inutile fu quello di generare un’ondata
senza precedenti di attentati terroristici, trasformando in tal modo la crisi irachena in una
vera e propria guerra civile, dove il tributo di sangue maggiore fu come sempre corrisposto
dalle comunità della locale società civile.
Il vero e principale problema alimentato da questa insensata politica repressiva fu tuttavia
quello di favorire una nuova coesione tra formazioni della galassia jihadista, dando vita a
quelle strutture che dopo poco si raccolsero sotto la bandiera dello Stato Islamico, nell’ottica
di un consolidamento del potere sunnita e della determinazione di una autonomia statuale
rispetto a quella del governo centrale a guida sciita.
Una débâcle, per l’Iraq, che in breve tempo non solo ripiombò nella più selvaggia delle
violenze, ma che subì anche la perdita di ampie zone del territorio ad opera del nuovo
sedicente Califfato.
La gestione del disastro militare e politico dell’Iraq entrò in una nuova fase – tutt’ora in corso
– con l’elezione del Primo Ministro Haider Al-Abadi nel settembre del 2014, che ereditò il
collasso dell’operatività militare e la perdita dei territori conquistati dall’ISIS, dovendo
ricostruire una strategia cooperativa ed una sorta di piano di coesione nazionale per lanciare
solo due anni dopo un’offensiva per la riconquista del paese.
Al-Abadi, certamente più accorto e cauto del suo predecessore, subentrò nell’incarico
tuttavia in una fase di profonda demoralizzazione delle forze armate nazionali, dovendo al
tempo stesso gestire l’irruenza e spesso l’arroganza delle non poche milizie paramilitari
sciite nel frattempo auto-costituitesi e in breve tempo divenute il principale e più efficace
strumento militare nazionale.
La presenza e il ruolo delle milizie sciite, per quanto indispensabili nella condotta della lotta
allo Stato Islamico, ripropongono tuttavia per Al-Abadi ancora una volta il rischio di una
deriva settaria, imponendo una moderazione ed una diplomazia politica costruita sul filo del
rasoio e sempre a rischio di precipitare nel confronto tra le due principali comunità
confessionali del paese.
25
PARTE II
La genesi dello Stato Islamico
La storia dello Stato Islamico è costruita sulla travagliata transizione di potere
dall’autoritarismo del partito Ba’th al successivo governo dell’Iraq esercitato dalla
maggioranza sciita del paese, che ha inutilmente sprecato l’occasione della coesione
nazionale.
Una dolorosa transizione che ha portato la comunità sunnita del paese, che oggi
rappresenta poco più del 40% della popolazione, se non a sostenere certamente a non
avversare la nascita e lo sviluppo di organizzazioni jihadiste di matrice ultra-radicale, resesi
poi autonome dalla rete di Al Qaeda ed autoproclamatesi Califfato.
Una dolorosissima parentesi che sembra solo adesso chiudersi, lasciando tuttavia irrisolti i
nodi della convivenza civile e pacifica tra le due comunità confessionali, ed imponendo la
ricerca di soluzioni urgenti e condivise non solo sul piano della comunità internazionale ma
soprattutto su quello nazionale.
Per comprendere dinamiche storiche e politiche dello Stato Islamico è quindi necessario
ripercorrere la storia e l’evoluzione dell’islamismo sunnita in Iraq, la nascita e il
consolidamento del jihadismo e il consolidamento di quelle forze che si sono
progressivamente radicalizzate dando vita ad una gemmazione di Al Qaeda prima, e ad una
nuova quanto improbabile rivitalizzazione del Califfato poi.
Un percorso non lineare e non facilmente comprensibile se non contestualmente al
particolare ed unico sviluppo della politica e della società irachena, di cui il Daesh è piena
ed esclusiva espressione.
L’islamismo sunnita in Iraq
La principale componente dell’islamismo sunnita iracheno è sempre stata quella
rappresentata dalla Fratellanza Musulmana (al-Ikhwan al-Muslimun), sorta nel paese nel
1948 grazie al ruolo della Società per la Salvezza della Palestina e largamente influenzata
dall’organizzazione madre egiziana.
La Fratellanza combinava in tal modo la causa palestinese con il problema dell’unità araba
di espressione musulmana, riconducendo la radice di tutti i problemi della regione ad una
diffusa devianza dal rispetto dei valori tradizionali islamici.
Il principale nemico della Fratellanza Musulmana – in Iraq come in buona parte dell’intero
Medio Oriente – era l’ideologia marxista e la diffusione dei partiti comunisti che dopo la fine
della seconda guerra mondiale proliferavano e si moltiplicavano all’interno del mondo arabo
e islamico.
26
Il periodo di relativo pluralismo politico che dalla fine degli anni Quaranta caratterizzò l’Iraq
– fino alla presa del potere da parte di Qassem nel 1958 – permise la nascita e il
consolidamento di una locale filiazione della Fratellanza Musulmana in Iraq nel 1951, che
ben presto divenne il principale elemento politico e sociale della comunità sunnita.
È grazie alla Fratellanza che il sistema scolastico iracheno si sviluppa e progredisce sino a
diventare uno dei più avanzati del Medio Oriente, attraverso l’approccio costruttivo e
moderato della visione sociale dell’Ikhwan, che rifiuta nettamente il settarismo tra le quattro
principali scuole dell’Islam ma che al tempo stesso combatte l’occidentalizzazione dei
costumi e la diffusione del marxismo e del nazionalismo.
Il manifesto della Fratellanza Musulmana irachena – non dissimile da quello della
componente madre e delle altre gemmazioni regionali è certamente innovativo per l’epoca
in cui viene proposto. Pluralismo religioso e politico, rappresentatività, distribuzione delle
terre, diritto al lavoro per le donne, rappresentanze sindacali e promozione della
cittadinanza comune come elemento identitario costituiscono la parte principale di un
modello aggregativo politico e sociale che cerca di emergere da un passato fatto di conflitti
e dominazione straniera, nell’ottica di un sodalizio religioso a carattere trasversale e
globale3.
Con il colpo di stato del 1968 e il consolidamento del ruolo del partito Ba’th, la Fratellanza
Musulmana irachena è costretta all’esilio, ricostituendosi come partito solo nel 1991 in Gran
Bretagna con il nome di Partito Islamico Iracheno.
Il partito continuò a promuovere i valori della tradizionale piattaforma politica pur restando
in esilio, ritenendo che Saddam Hussein potesse essere in breve tempo sollevato da un
colpo di stato o da un’azione militare guidata dagli Stati Uniti. Eventualità che si materializzò
tuttavia solo dodici anni più tardi, con l’operazione militare che portò gli Stati Uniti a
rovesciare il regime di Saddam, gettando tuttavia al tempo stesso il paese nel caos più
profondo, dopo la dissoluzione delle forze armate e dell’apparato statale.
A partire dal 1991, tuttavia, dopo la cocente sconfitta militare in Kuwait e l’isolamento
internazionale, Saddam Hussein abbracciò ipocritamente la religione islamica
trasformandola in uno strumento di potere e riconoscimento di suo personale ed esclusivo
interesse, dando ampio impulso alla costruzione di centinaia di nuove moschee e
alimentando una concezione dell’Islam sunnita funzionale alla marginalizzazione degli sciiti
e di tutte le componenti pluraliste.
3 Fuller, Graham E., “Islamist politics in Iraq after Saddam Hussein”, United States Institute for
Peace, Special Report n. 108, Agosto 2003.
27
Saddam Hussein incaricò il suo vice, il generale Izzat Ibrahim al-Douri, di coltivare rapporti
con le cellule più radicali dell’islamismo sunnita, in parte finanziandole in funzione della
necessità di dare vita e corpo ad una sorta di struttura paramilitare della resistenza da
impiegare nell’eventualità in cui gli sciiti si fossero nuovamente ribellati, o qualora gli Stati
Uniti avessero nuovamente impiegato la forza contro l’Iraq.
Saddam manifestò anche una certa apertura nei confronti della Fratellanza Musulmana, tra
il 2001 e il 2003, sebbene questa non abbia mai ricambiato le aperture formulate da Saddam
tramite al-Douri, mantenendo una posizione defilata all’estero4.
Al collasso dell’apparato istituzionale iracheno nel 2003, la Fratellanza Musulmana ritenne
maturi i tempi per un ritorno in Iraq, senza tuttavia considerare come e quanto la
disgregazione sociale post-bellica avesse di fatto profondamente mutato gli equilibri anche
all’interno della stessa comunità sunnita.
La violenza più cieca che regnava in tutto l’Iraq all’indomani della caduta del regime favorì
in tal modo l’emergere di quei gruppi che avevano fatto della lotta armata e della resistenza
la loro bandiera, penalizzando enormemente tutte le forze politiche e confessionali che al
contrario ritenevano di potersi imporre attraverso un processo di riconciliazione nazionale e
di ricostruzione istituzionale dello Stato.
L’esplosione del più feroce settarismo e la continua repressione delle forze statunitensi nei
confronti della comunità sunnita, alla ricerca dei vertici del disciolto partito Ba’th e degli ex
quadri di regime, provocò in breve tempo una svolta drasticamente radicale del confronto.
L’insorgenza sunnita ben presto marginalizzò le componenti più moderate, abbracciando al
contrario una concezione radicale e parimenti settaria, favorendo l’emergere di nuovi piccoli
gruppi che scaturivano come gemmazioni spurie delle più grandi e consolidate
organizzazioni islamiste sunnite.
In breve tempo lo spazio di manovra per la Fratellanza Musulmana si ridusse drasticamente,
riducendosi alla blanda partecipazione politica post-regime e al consolidamento di forze
politiche senza grandi prospettive nel sempre più deteriorato panorama della politica e della
sicurezza irachena.
L’Esercito degli Uomini dell’Ordine dei Naqshbandi
Tra le molte sigle dell’insorgenza irachena, una menzione particolare deve necessariamente
essere fatta per l’Esercito degli Uomini dell’Ordine dei Naqshbandi, organizzazione militante
sunnita costituita – idealmente, più che materialmente – sulla pre-esistente struttura
4 Op. cit.
28
irachena dell’Ordine dei Naqshbandi, gruppo sufico costituito nel 14° secolo per iniziativa di
Baha-ud-Din Naqshband Bukhari.
Il sufismo è storicamente radicato nell’esperienza politica e sociale del territorio in cui oggi
ha sede la nazione irachena. Due confraternite in particolare, la Qadiriya e la Naqshbandiya,
hanno svolto un ruolo importante nella vita sociale e politica del paese, partecipando
attivamente ai grandi mutamenti istituzionali e alla costruzione delle infrastrutture politiche
e sociali del paese. Sebbene di origini antichissime – le prime confraternite risalgono al 14°
secolo – le organizzazioni sufiche tornarono prepotentemente alla ribalta alla metà del 19°
secolo, svolgendo un ruolo preminente nella politica e nella società locale sino alla fine degli
anni Cinquanta.
Tollerate da Saddam Hussein in virtù del loro approccio non violento e di fatto nazionalista,
molte delle organizzazioni sufiche sopravvissero anche alla dittatura, andando in parte a
costituire il perno ideologico ed organizzativo del fenomeno dell’insorgenza.
Non sono disponibili notizie precise ed affidabili circa la costituzione dell’organizzazione,
sebbene appaia credibile una sua istituzione già nei primi mesi successivi all’intervento
militare statunitense in Iraq, nel 2003.
Spesso citata con l’acronimo derivante dal nome arabo, JRTN (Jaysh Rijal At-Tariqa al-
Naqshabandiya), l’organizzazione presenta sin dall’inizio un forte connotato nazionalista e
ba’thista, idealmente animato dalla necessità di proteggere il sufismo Naqshabandi di
derivazione irachena.
Uomini del Naqshbandi parteciparono senza dubbio all’insorgenza che, tra il 2003 e il 2006,
colpì tanto le forze della coalizione multinazionale presente in Iraq, sia quelle della
maggioranza sciita che dopo il 2003 aveva di fatto assunto il controllo politico del paese.
Ciononostante, il nome dell’organizzazione conosciuta come Esercito degli Uomini
dell’Ordine dei Naqshbandi emerse solo successivamente all’esecuzione dell’ex presidente
Saddam Hussein, il 30 dicembre del 20065.
Il JRTN ha operato principalmente nell’area dei Bagdad, nella provincia dell’Anbar e in
quella di Ninive, conseguendo inizialmente numerose vittorie sulle forze militari governative
e sulle diverse milizie che popolano l’Iraq sin dalla caduta del regime di Saddam Hussein.
Numerosi ex appartenenti alla Guardia Repubblicana, alle forze speciali del disciolto
esercito iracheno e a quello che un tempo fu il potente servizio di intelligence di Saddam
Hussein aderirono al progetto militare del JRTN, soprattutto grazie al ruolo dell’ex generale
5 Mapping Militant Organizations, Jaysh Rijal al-tariqa al-Naqshbandia (JRTN), Stanford
University, 2010.
29
Izzat Ibrahim al-Douri, già esponente di spicco dell’apparato politico e militare del regime
ba’thista.
È grazie ad al-Douri che, prima ancora del collasso del regime, un numero sempre maggiore
di esponenti del partito e delle forze armate viene introdotto negli ambienti del sufismo
Naqshbandi, dando vita ad una sorta di organizzazione segreta più tardi in larga parte
confluita nell’organizzazione dell’insorgenza conosciuta come JRTN6.
Il travaso di questa capacità militare permetterà al JRTN di operare con incisività e rigore
organizzativo, divenendo in breve tempo una della organizzazioni più temute del panorama
dell’insorgenza irachena.
L’organizzazione del JRTN fu sin dapprincipio intrisa dai principi e dai valori del sufismo
sunnita, ed in tal modo l’architettura organizzativa assunse le caratteristiche di un ibrido
ideologico-militare costruito su ruoli di diretta derivazione della tradizione islamica. In
particolar modo, l’apparato militare venne strutturato in cellule composte da 6-12
combattenti al massimo, guidate da un “Emiro” la cui responsabilità territoriale veniva
stabilita da un vertice presieduto da uno “Sceicco” e composto da “Emiri” di rango superiore.
Una commistione di misticismo religioso e rigore militare derivante dal connubio delle
preesistenti matrici sufiche e ba’thiste, che avranno la capacità di imprimere un particolare
e pressoché unico connotato ideologico alla struttura del JRTN.
L’Esercito degli Uomini dell’Ordine dei Naqshbandi fu tra i primi a fare largo ricorso ai media,
filmando di sovente le proprie azioni e diffondendole poi attraverso la rete internet grazie ad
un’articolata quanto capillare rete di contatti che favoriva la circolazione e la distribuzione
dei materiali senza temere i frequentissimi oscuramenti dei siti da parte delle forze militari
statunitensi.
Il JRTN fu in grado di operare e diffondere la propria comunicazione anche attraverso alcuni
canali televisivi basati sulla piattaforma satellitare al-Ray7.
La missione del JRTN è essenzialmente quella di osteggiare il governo a guida sciita del
paese e ristabilire la posizione e il ruolo della componente sunnita e del partito Ba’th,
attraverso il ricorso ad uno spiccato nazionalismo e alla memoria di quello che fu il regime
di Saddam Hussein.
Al-Douri ha cercato costantemente il contatto con le altre organizzazioni dell’insorgenza e
le formazioni jihadiste, nell’intento di assurgere a capofila di un più vasto movimento
nazionale di lotta contro la presenza straniera e il governo a guida sciita.
6 Bakier, Abdul Hameed, "Ex-Baathists Turn to Naqshbandi Sufis to Legitimize Insurgency", The
Jamestown Foundation, 28 July 2008. 7 Knights, Michael, “Saddam Hussein’s Faithful Friend, the King of Clubs, Might Be the Key to
Saving Iraq”, New Republic, 24 June 2014.
30
In quest’ottica ha cercato attivamente di collaborare con numerose delle principali sigle
dell’insorgenza irachena, tra cui anche l’iniziale struttura dello Stato Islamico, fornendo armi,
munizioni, esplosivi e capacità organizzative (sul territorio) costruite dal JRTN grazie alla
pregressa struttura di appoggio militare su cui l’organizzazione aveva potuto contare8.
Dopo un’iniziale forma di collaborazione, le sorti del JRTN e delle formazioni jihadiste di
estrazione salafita si separarono, trasformandosi progressivamente in vera e propria ostilità,
con scontri sempre più frequenti e spietatamente cruenti9.
Molto è stato scritto sul JRTN nel corso degli ultimi anni, sostenendo soprattutto che
l’organizzazione avesse sviluppato una forma di simbiosi con le forze di Al Qaeda prima e
dello Stato Islamico poi. In realtà il rapporto tra l’Esercito degli Uomini dell’Ordine dei
Naqshbandi e il jihadismo di estrazione salafita è stato solo temporaneo ed unicamente
motivato dalla ricerca di una sinergia che non solo è mancata, ma è poi sfociata in aperta
conflittualità. A negare questo rapporto fu per primo il generale James Nixon, comandante
delle forze militari statunitensi nelle regioni di Diyala e Kirkouk, ricordando come il JRTN
avesse un’impronta squisitamente nazionalista e di estrazione ba’thista, fortemente
permeata dalla presenza di ex ufficiali dell’esercito un tempo fedele a Saddam Hussein10.
Nel 2014 alcune sorgenti di stampa occidentali avevano ventilato l’ipotesi di un tentativo da
parte degli americani di avvicinare gli esponenti del JRTN per convincerli ad aderire ad un
progetto relativo alla costituzione di una Guardia Nazionale irachena formata da tutte le
principali forze del contesto sciita e sunnita. Tale ipotesi venne seccamente smentita da un
comunicato diramato dallo stesso JRTN il 2 dicembre del 2014, con il quale negavano di
aver preso parte ad una riunione organizzata dagli Stati Uniti per la creazione di una Guardia
nazionale irachena sotto il comando del governo di Hayder al-Abadi11.
La notizia destò interesse in quanto lasciò intendere che le forze statunitensi fossero pronte
a riconoscere il ruolo e la posizione del JRTN e, conseguentemente, del pluriricercato al-
Douri, nell’ottica di un dialogo di riconciliazione nazionale che tuttavia non trovò mai effettivo
sbocco nella pratica.
Ogni tentativo di engagement con al-Douri venne quindi presumibilmente abbandonato,
riprendendo vigore la sua ricerca che, con ogni probabilità, si concluse nell’aprile del 2015
8 Jawad al-Tamini, Aymenn, “Iraq crisis: Key players in the Sunni rebellion”, BBC News, 26 June
2015. 9 Greenfield, Daniel, “Al-Qaeda and Saddam’s Men Already Shooting At
Eachother”, FrontPage. David Horowitz Freedom Center, 28 June 2014. 10 Gilles Munier, “Iraq: la resistance naqshaband”, in Afrique Asie, Ottobre 2009. 11 Jawad al-Tamini, Aymenn, “The Naqshbandi Army’s current situation in Iraq”, 26 dicembre
2014.
31
nel corso di un’azioni in cui si ritiene che al-Douri sia stato ucciso in un villaggio della
provincia di Salahuddin.
Con la presunta morte dell’ex vice di Saddam Hussein tornò prepotentemente agli onori
della cronaca il dibattito relativo alla presunta collaborazione del JRTN con lo Stato Islamico,
di fatto ponendo il Daesh come una sorta di evoluzione, o gemmazione, dello stesso JRTN.
La realtà di questo rapporto è tuttavia ben più complessa e al tempo stesso fragile.
La mancata cooperazione tra le formazioni qaediste e le quelle del JRTN avevano infatti
provocato una netta frattura tra le forze dell’Esercito degli Uomini dell’Ordine dei
Naqshbandi tra il 2009 e il 2013, determinando un generale raffreddamento del rapporto tra
il JRTN e le formazioni jihadiste di estrazione salafita
Con la scissione dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante dalla componente tradizionale
di Al Qaeda in Iraq, tuttavia, sembrerebbe essere stato riavviato il dialogo tra le milizie al
comando di al-Douri e quelle del Daesh.
Questo sodalizio sarebbe scaturito nell’estate del 2014, in concomitanza con la conquista –
praticamente incruenta – di un terzo dell’Iraq da parte dello Stato Islamico, e con la
contestuale sconfitta delle deboli forze militari del governo centrale di Bagdad a Mosul e in
buona parte delle province di Ninive e dell’Anbar.
Il JRTN avrebbe non solo fornito appoggio militare e logistico alle forze dello Stato Islamico,
ma avrebbe anche sostenuto la necessità di annunciare la creazione del Califfato nell’ampio
territorio sotto il loro controllo a cavallo del confine tra Iraq e Siria12.
Il sodalizio non avrebbe avuto tuttavia vita lunga, in conseguenza soprattutto della violenza
esercitata dagli uomini del Daesh sulle comunità cristiane del nord e del centro dell’Iraq,
massacrate brutalmente. Il settarismo anti-cristiano avrebbe provocato infatti dissensi tra i
non pochi elementi di estrazione cristiana dell’ex Ba’th poi confluiti nel JRTN, provocando
ancora una volta la frattura con le formazioni jihadiste.
La cooperazione tra il JRTN e le forze dello Stato Islamico è stata quindi in sintesi modesta,
di breve durata ed unicamente motivata dal tentativo (soprattutto da parte di al-Douri) di
creare un fronte comune di resistenza irachena che nei fatti non è mai stato possibile
costituire. La cooperazione è stata quindi quasi sempre assicurata dal JRTN in direzione
delle unità qaediste prima e dello Stato Islamico poi, venendo sistematicamente frustrata
dall’impossibilità di costituire un fronte nazionalista e squisitamente iracheno che potesse
far convergere la lotta verso quello che veniva considerato il governo fantoccio di Bagdad e
dei suoi dante causa internazionali.
12 Dettmer, Jamie, “He served Saddam. He served ISIS. Now Al Douri may be dead”, The Daily
Beast, 17 aprile 2015.
32
Molto è stato scritto su questo sodalizio, ipotizzando una sintesi operativa che in realtà non
è mai effettivamente avvenuta, determinando nel corso soprattutto degli ultimi due anni
addirittura un’aperta conflittualità sul terreno13.
Le origini dell’ISIS e il ruolo di al-Zarqawi
Lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (ISIS), o più semplicemente lo Stato Islamico, o
ancora Daesh dall’acronimo delle sue lettere in arabo, è un’organizzazione jihadista di
matrice salafita sorta dalla trasformazione della precedente struttura della Jama’at al-
Tawhid wal-Jihad (JTJ, Organizzazione del Monoteismo e della Guerra Santa).
Il JTJ venne costituito nel 1999 dal giordano Abu Musab al-Zarqawi, con l’intento di
promuovere azioni terroristiche di matrice anti-occidentale in Giordania, aderendo all’ampio
network informale delle organizzazioni terroristiche di matrice salafita create dalla galassia
dei predicatori wahhabiti in Medio Oriente e Asia Centrale14.
Il processo di radicalizzazione di Al Zarqawi (il cui vero nome si ritiene essere Ahmed Fadeel
al-Nazal al-Khalayleh) si costruì attraverso un’infanzia di povertà e privazioni, che lo
spinsero prima nell’ambito della criminalità comune e poi in Afghanistan, dopo essere
entrato in contatto con religiosi wahhabiti che ne determinano una profonda trasformazione.
Dal 1989 al 1992 si recò in Afghanistan dove conobbe Osama bin Laden e ricevette un
addestramento militare che cercò di utilizzare per la costituzione di gruppi jihadisti in
Giordania, dove rientrò nel 1992 venendo ben presto arrestato.
Rilasciato nel 1999, dovette fuggire ben presto in Pakistan perché accusato di aver
partecipato al tentativo di far esplodere un Hotel ad Amman la notte di capodanno del 2000.
Qui incontrò nuovamente Osama bin Laden, da cui ricevette una donazione con la quale
aprì un centro di addestramento jihadista ad Herat, in Afghanistan, dove attirò decine di
giovani giordani radicalizzati dall’esperienza carceraria, costituendo il JTJ (che in realtà
sorse a sua volta sulle ceneri di una precedente cellula conosciuta come Jund Al Sham).
Sarà la guerra in Afghanistan a fornire ad al-Zarqawi il primo fronte operativo in cui misurare
la capacità della sua organizzazione, che sarà tuttavia ben presto costretta alla fuga dopo
l’attacco da parte degli Stati Uniti nel 2001. Ferito e braccato dai servizi di intelligence di
numerosi paesi occidentali e da quelli Giordani, al-Zarqawi iniziò un peregrinare di cui si
hanno tracce confuse sino al 2004, transitando per l’Iran, l’Iraq e la Siria15.
13 Al-Rashed, Abdulrahman, “The sufist Izzat al-Douri and the extremist ISIS”, Al Arabiya, 20 aprile
2015. 14 Weaver, Mary Ann, “The short, violent life of Abu Musab al-Zarqawi”, Atlantic Monthly, Luglio-
Agosto 2006. 15 Op.cit.
33
Con l’occupazione americana dell’Iraq e la caduta del regime di Saddam Hussein, al-
Zarqawi si trasferì a Bagdad, dove la sua organizzazione dapprima operò in completa
indipendenza e poi il 17 ottobre del 2004 aderì ufficialmente alla rete di al Qaeda mutando
nome in Tanzim Qaidat al-Jihad fi Bilad al-Rafidayn, o più semplicemente al Qaeda in Iraq.
Il consolidamento di al-Zarqawi in Iraq coincide con un incremento esponenziale non solo
della violenza ma anche della brutalità adottata nella condotta delle azioni e nella gestione
dei prigionieri. Imbevuto di tradizione wahhabita e ritenendo necessario mostrare un volto
spietato e primordiale dell’Islam nei confronti dei suoi nemici, al Zarqawi iniziò a seminare
letteralmente il terrore in buona parte dell’Iraq, spesso colpendo indiscriminatamente anche
la popolazione sunnita e progressivamente provocando la reazione della stessa al Qaeda
di Bin Laden, che riteneva tanta efferatezza nei confronti dei civili del tutto controproducente
rispetto all’obiettivo di conquistare la fiducia e il sostegno della popolazione.
Al Zarqawi cercò spasmodicamente di riunire sotto un’unica bandiera l’intera comunità
dell’insorgenza irachena, arrivando nel 2006 a proclamare il Consiglio dei Mujahedeen e-
Shura, una sorta di ideale struttura unitaria entro cui far confluire tutte le cellule jihadiste
alleate.
Il progetto riuscì solo parzialmente e l’incremento delle operazioni militari americane
provocò la morte di al Zarqawi il 7 giugno 2006, facendo in tal modo emergere al vertice
dell’organizzazione Abu Ayyub al-Masri.
Questi cercò di consolidare il controllo centralizzato delle organizzazioni jihadiste avviato da
al-Zarqawi, ma con la morte di quest’ultimo si determinò un confuso periodo di gestione nel
vertice dell’organizzazione, dove più volte la figura di Abu Omar al-Baghdadi venne ritenuta
essere preminente rispetto a quella di al-Masri. L’organizzazione intensificò sempre più la
spettacolarizzazione della violenza, ingenerando da una parte la sensazione di invincibilità
dell’organizzazione ma anche determinando una sempre più netta spaccatura con i vertici
di Al Qaeda, che vedevano nell’uso spropositato della violenza una strategia fallimentare e
controproducente.
Questo stato di cose si protrasse sino al 2010, quando nel corso di un’operazione militare
nei pressi di Tikrit, condotta congiuntamente dalle forze statunitensi e irachene, sia al-Masri
che Abu Omar al-Baghdadi vennero uccisi.
L’ISIS di al-Baghdadi e la separazione da al Qaeda
Con la morte contestuale di quelli che per quasi due anni apparvero come i vertici del
Consiglio dei Mujahedeen e-Shura, emerse alla leadership dell’organizzazione Ibrahim
Awad Ibrahim al-Badri, detto Abu Bakr al-Baghdadi.
34
Originario del distretto di Samarra, dove nacque (si suppone) il 28 luglio del 1971, del
passato di al-Baghdadi si conosce molto poco. Studente coranico mediocre, ha vissuto
quasi in disparte sino alla caduta del regime nel 2003, quando ha aderito ad alcune delle
organizzazioni jihadiste di matrice sunnita rimanendo tuttavia sempre una figura di secondo
piano almeno sino a poco prima della morte di al-Masri e di Abu Omar al-Baghdadi.
Nessuna delle informazioni sul suo passato e sulla sua formazione religiosa è mai stata
validata da prove certe, e continua ad aleggiare sulla figura di al-Baghdadi una doppia aura,
l’una costruita sul ruolo dell’erudito con anni di studi coranici avanzati, l’altra che lo vorrebbe
invece una sorta di impostore, senza reali titoli e competenze giuridico-religiose ed emerso
quindi quasi per caso al vertice dell’organizzazione.
Con l’ascesa di al-Baghdadi al vertice del Consiglio, il 16 maggio del 2010, il nome
dell’organizzazione venne definitivamente mutato in Stato Islamico dell’Iraq (come aveva di
fatto già disposto il suo predecessore), continuando ad includere al suo interno la struttura
conosciuta come Al Qaeda in Iraq.
Anche al-Baghdadi confermò la volontà di incrementare l’azione militare e spettacolarizzare
l’uso della violenza, colpendo ripetutamente Bagdad e la comunità sciita e facendo largo
uso di kamikaze ed autobombe.
Con lo scoppio della guerra civile in Siria, al-Baghdadi comprese quale potenziale potesse
celarsi dietro il collasso dell’autorità governativa siriana in buona parte delle regioni orientali
del paese, lanciando un’offensiva su vasta scala contro le forze regolari siriane così come
contro le forze di opposizione al regime, riuscendo progressivamente ad impadronirsi di una
vasta area di territorio lungo il corso del fiume Eufrate, e stabilendo a Raqqa lo stesso
capoluogo di quello che di lì a poco sarà annunciato come il Califfato.
Gli arsenali abbandonati dell’esercito siriano e le installazioni petrolifere caduto sotto il
controllo dell’ISIS riuscirono per lungo tempo a fornire ad al-Baghdadi non solo una
poderosa capacità militare, ma anche una consistente rendita economica grazie alla
commercializzazione del greggio con un vasto numero di attori regionali, statuali e non.
La guerra in Siria e le ambizioni del Califfato, poi pomposamente annunciato il 29 giugno
2014, determinarono tuttavia la definitiva rottura con la rete di al Qaeda, con cui l’ISIS entrò
in diretta contrapposizione soprattutto in Siria.
L’8 aprile del 2013, al Baghdadi annunciò la creazione dello Stato Islamico dell’Iraq e del
Levante, affermando che la cellula qaedista siriana di Jabhat al Nusra veniva inglobata nella
nuova organizzazione e posta sotto il comando operativo dell’ISIS.
La notizia venne prontamente confutata da Abu Mohammad al-Julani, al vertice di Jabhat
al Nusra, e confermata dallo stesso vertice di Al Qaeda, Ayman al-Zawahiri, che anzi
35
ordinava lo scioglimento dell’ISIS e il ritorno degli uomini di al-Baghdadi all’interno dei confini
iracheni16.
Na derivò una spaccatura epocale, con la separazione delle due organizzazioni e l’avvio di
una fase di aperta ostilità che, soprattutto in Siria, determinò una sorta di partizione del
territorio tra le due fazioni un tempo alleate.
Ayman al-Zawairi tentò addirittura una mediazione, inviando in Siria Abu Khaled al-Suri, suo
uomo di fiducia, con l’incarico di individuare i margini per un soluzione del problema sorto
con l’arbitraria separazione dell’ISIS dalla rete di al Qaeda. Abu Khaled al-Nuri venne
tuttavia assassinato in circostanze poco chiare nel febbraio del 2014, determinando una
nuova e più intensa conflittualità tra l’ISIS e Jabhat al-Nusra, senza che alcuna soluzione
potesse essere anche solo lontanamente immaginata17.
Sebbene sempre presentatasi come una formazione anti al-Asad in Siria, un discreto
margine di perplessità è stato destato dall’ambiguità sia di al-Baghdadi sia di Bashar al-
Asad nella condotta di un conflitto che in realtà li ha visti combattere tra loro solo
sporadicamente.
Lo Stato Islamico ha sempre cercato di evitare lo scontro diretto con le forze militari del
regime di Damasco, concentrandosi al contrario sui suoi oppositori cui ha sottratto posizioni
e armi consolidando la sua area di influenza lungo le sponde del fiume Eufrate.
Al tempo stesso, a partire dalla fine del 2011, Bashar al-Asad, compreso di essere oggetto
di un attacco su più fronti anche con il consenso di alcuni attori regionali, liberò un enorme
numero di jihadisti dalla prigione di Damasco, permettendo a molti di questi di unirsi alle
forze dell’ISIS.
Bashar al-Asad ha quindi scientemente deciso di non ingaggiare alcun reale combattimento
con le forze dell’ISIS nella consapevolezza che questi avrebbero indebolito i suoi più temibili
avversari, Jabhat al Nusra e il Free Syrian Army.
Anche al-Baghdadi ha tuttavia adottato la medesima strategia, definendo di fatto una sorta
di tregua con le forze regolari siriane, posticipando l’eventualità di uno scontro ad una fase
successiva.
Anche in Siria, tuttavia, l’ISIS ha applicato la strategia del terrore e della
spettacolarizzazione della violenza, colpendo soprattutto le minoranze cristiane e le forze di
opposizione politica al regime di Bashar al-Asad, ingenerando quell’immagine di invincibilità
16 Manyuan, Dong, “The rise of ISIS: impacts and future”, China Institute for Contemporary
Studies, 14 novembre 2014. 17 Sly, Liz, “Al Qaeda disavows any ties with radical Isalmist ISIS group in Syria, Iraq”, The
Washington Post, 3 febbraio 2014.
36
che è invece rapidamente sfumata in occorrenza dei pochi ma significativi scontri che
l’hanno interessata soprattutto a partire dalla fine del 2015.
Il consolidamento del ruolo dell’ISIS è tuttavia stato favorito anche dall’adozione di una
politica violentemente settaria e repressiva da parte dell’ex primo ministro iracheno Nouri
al-Maliki, che ha sistematicamente vessato le comunità sunnite irachene sino al punto di
spingerle prima alla rivolta e poi ad accettare passivamente nel corso del 2014
l’occupazione da parte dello Stato Islamico di oltre un terzo del territorio iracheno18.
A parte qualche scaramuccia durante la conquista di Mosul, il resto del territorio iracheno
caduto sotto il controllo dello Stato Islamico è stato occupato senza alcuno spargimento di
sangue da parte ella comunità sunnita, che ha anzi accolto benevolmente nella maggior
parte dei villaggi e delle città le forze dello Stato Islamico che hanno catturato o messo in
fuga un enorme numero di soldati regolari iracheni, catturando al tempo stesso ingenti
quantitativi di armi e munizioni.
La conquista delle province dell’Anbar e di Ninive del giugno 2014 ha tuttavia coinciso anche
con la massiccia divulgazione di immagini e filmati delle decine di esecuzioni condotte ogni
giorno contro i soldati dell’esercito iracheno caduti nelle mani del Daesh, rafforzando la
convinzione a livello internazionale della necessità di un intervento mirato per eradicare la
presenza dello Stato Islamico dalla regione.
Il vero successo politico di al-Baghdadi, tuttavia, è stato quello di sostituirsi ad Al Qaeda sul
piano globale nella rappresentazione del jihadismo che combatte, registrando un crescente
successo in termini di affiliazioni (o sedicenti tali), dichiarazioni di lealtà e subordinazione.
Il Daesh è divenuto in sintesi la nuova frontiera cui il jihadismo oggi guarda nella prospettiva
di una collocazione globale e sempre più radicale, coltivando successi non solo in Medio
Oriente e in Africa ma anche e soprattutto in Europa, dove ha saputo conquistare numeri
sempre maggiori di giovani islamici radicalizzati o semplicemente emarginati dal tessuto
sociale e familiare di provenienza, dando vita ad una nuova generazione di jihadisti molto
diversa da quella del passato e certamente più complessa da individuare e neutralizzare.
Sul fronte iracheno e siriano, invece, dopo la disastrosa disfatta del giugno 2014, le forze
irachene sono riuscite a riorganizzarsi grazie al consistente aiuto della comunità
internazionale, progressivamente riconquistando nella seconda metà del 2016 buona parte
dei territori caduti sotto il controllo dello Stato Islamico solo due anni prima, e dimostrando
per la prima volta all’opinione pubblica nazionale e internazionale quanto e come il Daesh
18 “What are the origins of Daesh?”, Anadolu Agency, 29 dicembre 2015.
37
non sia quella forza militare imbattibile di cui i media avevano esaltato la brutalità e la
capacità.
Il processo di riconquista del territori delle province dell’Anbar e di Ninive avviene oggi grazie
alla rinnovata capacità dell’esercito iracheno ma anche e soprattutto grazie alla capacità
militare delle milizie sciite, espressione di quel contesto politico, religioso e sociale che ha
tuttavia determinato attraverso un esasperato settarismo il problema dello scontro con le
comunità sunnite e il consolidamento del jihadismo.
La radicalizzazione del rapporto tra le comunità confessionali dell’Iraq resta a tutt’oggi
irrisolta, ponendo un grave problema per il premier al-Abadi, che dovrà dimostrarsi ben più
saggio e pragmatico del suo predecessore nella gestione del rapporto con le comunità
sunnite, non solo adottando politiche coesive ma anche cercando di cancellare l’immagine
negativa, violenta e settaria di quella politica che ha contribuito nel corso degli ultimi tredici
anni a dividere e lacerare la società irachena.
La vera sconfitta dello Stato Islamico, in sintesi, può avvenire solo attraverso l’abbandono
del settarismo come strategia politica e mediante il ricorso a politiche sociali ed economiche
inclusive e garantiste. Un obiettivo oggi difficile da conseguire, che richiederà uno sforzo
collettivo in direzione di un processo di riconciliazione nazionale lento e costruito su piccoli
ma stabili passi.
La diffusione globale del Daesh
A partire dal 2014, e in particolar modo successivamente alla frattura politica che porta lo
Stato Islamico ad interrompere il sodalizio ideologico ed operativo con la rete di Al Qaeda,
la struttura del Daesh inizia ad emergere come un modello di riferimento per molti dei
principali gruppi jihadisti internazionali.
Dall’Africa al Medio Oriente, attraverso l’Asia Centrale sino al Sud Est Asiatico, si
moltiplicano in breve tempo le organizzazioni jihadiste che platealmente fanno atto di
sottomissione e lealtà alla struttura dello Stato Islamico, dando l’impressione di una capacità
di diffusione globale e potenzialmente inarrestabile.
A farne le spese, prima di ogni altra entità, è la rete di Al Qaeda, che vede decine di propri
sostenitori abbandonare progressivamente la rete creata da Bin Laden per abbracciare
quella che appare essere la nuova frontiera del jihadismo internazionale.
Lo Stato Islamico ha una straordinaria capacità attrattiva perché offre alle organizzazioni
jihadiste globali un modello di intervento ed una percezione del proprio ruolo ormai non più
riscontrabile nelle strategie del qaedismo, profondamente mutate e limitate dopo la morte di
Osama Bin Laden.
38
È soprattutto la capacità mediatica del Daesh ad avere un ruolo preminente nella capacità
di proselitismo sulle strutture minori, fornendo non solo una nuova identità a gruppi altrimenti
marginali nel contesto del radicalismo islamico, ma anche una visibilità spesso mai
conseguita attraverso il proprio ruolo.
L’adesione alla rete dello Stato Islamico è quindi nella maggior parte dei casi meramente
opportunistica e simbolica, e si manifesta attraverso il semplice mutamento di nome delle
organizzazioni e l’adozione di una comunicazione e una narrativa del messaggio costruita
sul modello del Daesh, e quindi attraverso un uso smisurato e spettacolare della violenza.
Sotto il profilo ideologico, tuttavia, sono scarsissime le reali osmosi con la struttura centrale
irachena, limitandosi il più delle volte a mere prese di contatto tra leader, o scambi di
messaggi e incoraggiamenti alla lotta.
Buona parte delle organizzazioni che tra il 2014 e il 2016 manifestano pubblicamente la
propria adesione alla rete dello Stato Islamico in realtà non subiscono alcun sostanziale
mutamento organizzativo e operativo, limitandosi ad incrementare la propria comunicazione
verso l’esterno diffondendo soprattutto le nuove denominazioni.
Da Boko Haram in Nigeria ad Ansar al-Sharia in Libia, così come la vasta galassia di sigle
più o meno note in tutto il continente asiatico, le strutture jihadiste che aderiscono al
sodalizio dello Stato Islamico restano pressoché invariate nella loro struttura di vertice,
organizzativa ed operativa.
Al contrario, tuttavia, il sistema dei media occidentali ha dato ampio risalto alla notizia,
enfatizzando il rischio connesso a questa trasformazione, arbitrariamente incrementando la
percezione della soglia di rischio per l’Europa. Ne è derivata una sorta di psicosi, in un certo
qual modo ancora in atto, che ha interessato la gran parte degli apparati di sicurezza
europea, spesso distogliendoli dalle priorità connesse soprattutto alla gestione dei foreign
fighters e dei processi di radicalizzazione sul continente europeo.
Particolare attenzione hanno chiaramente riscosso gli attentati commessi in Francia e in
Belgio, laddove tuttavia la radice delle spinte motivazionali delle cellule che hanno
ripetutamente colpito i due paesi deve essere analizzata ed interpretata secondo concezioni
del tutto differenti e distinte rispetto alle spinte motivazionali dei combattenti del Daesh in
Iraq.
Ha egregiamente analizzato questo fenomeno lo studioso francese Oliver Roy, che ha
definito generazionale e nichilista la rivolta dei jihadisti europei, e non quindi il prodotto di
una radicalizzazione della comunità musulmana19.
19 Roy, Olivier, “Le djihadisme est un révolte générationelle et nihiliste”, Le Monde, 24 novembre
2015.
39
Per quanto lo Stato Islamico abbia potuto esportare il proprio nome, quindi, il fenomeno
jihadista di cui è portatore non ha saputo e potuto trovare reale radicamento al di fuori della
tradizionale area di dislocazione delle forze del Daesh.
Lo Stato Islamico è quindi un fenomeno puramente e squisitamente espresso
dall’evoluzione della realtà politica e sociale dell’Iraq, che ha saputo e potuto espandersi in
Siria solo ed esclusivamente al fine di ampliare la propria capacità operativa ed economica,
senza tuttavia mutare o innovare la locale dimensione dello scontro.
Il Daesh nasce e si sviluppa come una realtà sunnita costruita sul terreno della società
irachena, fortemente favorito dalla contestuale radicalizzazione dello scontro settario con la
maggioranza sciita di governo emersa successivamente al 2003. È quindi un fenomeno del
tutto locale ed in alcun modo globale, che ha saputo affermarsi grazie alla
compartecipazione nell’organizzazione di elementi qualificati di provenienza militare e più
in generale amministrativa ed organizzativa.
Il Daesh ha saputo effettuare un vero e proprio salto di qualità nel settore della
comunicazione, spettacolarizzando la violenza e portandola grazie ai social media nelle
case degli occidentali, sino ad allora abituati ad una percezione della violenza e degli scontri
decisamente più tradizionale, e soprattutto mediata.
Nonostante tale capacità comunicativa, tuttavia, la reale capacità operativa e logistica
dell’ISIS è stata più volte di fatto smentita nel corso di quelle operazioni militari – del tutto
sporadiche, almeno fino al 2016 – condotte dalla comunità internazionale contro le forze del
Daesh. A dispetto dell’immagine offerta nei comunicati e nei filmati di propaganda, l’ISIS ha
dimostrato non solo di non poter reggere l’urto di un conflitto tradizionale con forze meglio
organizzate ed equipaggiate, ma ha soprattutto dimostrato di non aver saputo garantire alla
popolazione civile sotto il suo dominio alcun reale beneficio rispetto al passato, perdendo
progressivamente quel consenso che ne aveva permesso il radicamento in Iraq e favorendo
la riconquista di buona parte dei territori controllati a partire dal 2014.
Alla luce di queste considerazioni è possibile tracciare un bilancio fortunatamente non
positivo né tantomeno possibilista sul futuro dello Stato Islamico. In Iraq la rinnovata
capacità delle forze armate nazionali – sostenute dalle milizie sciite e da un poderoso quanto
defilato supporto dei paesi occidentali – ha determinato la perdita di buona parte dei territori
occupati a partire dal 2014, e sembra imminente allo stato attuale non solo la perdita di
Mosul - che rappresenta un polo insostituibile per l’economia dell’organizzazione – ma
anche di quasi tutti i caposaldi regionali nelle province dell’Anbar e di Ninive.
40
L’ingresso della Russia e dell’Iran nel conflitto siriano ha poi mutato radicalmente il quadro
delle opzioni strategiche dell’ISIS anche in Siria, dove – seppur con estrema lentezza – è
iniziata la fase di riconquista delle aree occupate dallo Stato Islamico.
La morsa in cui l’ISIS rischia di essere intrappolato a cavallo del confine tra Siria e Iraq,
pone oggi concretamente un interrogativo per le forze dell’autoproclamato Califfato, i cui
spazi di manovra sembrano assottigliarsi sempre più, senza alcuna reale soluzione in
termini di ri-dislocazione territoriale.
Lo Stato Islamico – quello autentico e localizzato in Iraq e Siria – è di fatto sconfitto, o
prossimo alla sconfitta finale. L’obiettivo è quindi oggi quello di impedire che le sue cellule
disperse nel post-conflitto possano costituire delle future metastasi nel contesto politico e
sociale dell’Iraq, attraverso una corretta e capillare politica di riconciliazione nazionale
costruita sulla effettiva capacità e volontà di accettare un pluralismo e una partecipazione
identitaria sino ad oggi sistematicamente frustrata.
Si tratta di una sfida impegnativa e complessa per il premier al-Abadi, che deve oggi
ricostruire la società irachena utilizzando ciò che resta di quell’identità nazionale fatta
sistematicamente a pezzi dal ba’thismo prima e dal settarismo poi, attraverso la profonda
ed ancor oggi aperta ferita, dell’occupazione straniera, della guerra civile e della violenza
provocata da un’evoluzione del concetto di jihadismo che ha così profondamente ferito l’Iraq
e la sua società.
41
Parte III
La comunicazione strategica dello Stato Islamico come innovazione
Il principale elemento di successo nel consolidamento del ruolo e della percezione operativa
dello Stato Islamico è stato senza dubbio rappresentato innovativa capacità di
comunicazione e dalla spettacolarizzazione della violenza attraverso un uso spregiudicato
quanto capillare delle immagini e dei video prodotti professionalmente dai propri media
team.
Sebbene anche la rete di Al Qaeda avesse in passato investito molto sulla comunicazione,
adottando anch’essa modelli e tecniche certamente innovativi, l’esperienza del Daesh si
colloca su un piano nettamente differente, altamente professionale e strategicamente
pianificato.
Lo Stato Islamico si dota quindi di veri e propri professionisti della comunicazione, non solo
dotati di spiccate qualità tecnico-artistiche nella progettazione e produzione dei materiali,
ma anche e soprattutto capaci di ideare e realizzare prodotti specificamente pensati per
un’audience squisitamente occidentale.
Con il Deash si passa quindi dal prodotto semi-artigianale di Al Qaeda, fondamentalmente
concepito e realizzato per un pubblico mediorientale, ad un vero e proprio nuovo stile
narrativo che combina la tradizione islamica e l’iconografia del jihadismo con un una tecnica
di produzione moderna e di chiaro stampo occidentale20.
La comunicazione del Daesh diventa quindi una sorta di spot, in ogni sua manifestazione
mediatica, con il chiaro obiettivo di essere compreso, in un certo senso apprezzato (sotto il
profilo stilistico in particolar modo) e di ingenerare timore in un’audience di cultura
squisitamente occidentale.
La gamma della produzione e della diffusione è articolata e scadenzata secondo i canoni
operativi di una moderna media factory, facendo largo ricorso ai social media e
all’iconografia patinata dei magazine dell’organizzazione, che con cadenza regolare –
soprattutto nei primi tempi – introducono una nuova metodologia comunicativa all’interno
del sistema culturale occidentale.
L’audience del Daesh non è tuttavia solo la comunità europea e nord-americana di
tradizione cristiana. L’organizzazione si prefigge sin da subito l’esigenza di veicolare anche
un messaggio chiaro ed accattivante per le sempre più grandi comunità islamiche presenti
in occidente, nel chiaro intento di recuperare alla causa del Califfato soprattutto i giovani
radicalizzati ed emarginati delle periferie urbane europee e statunitensi, offrendo un
20 Ridout, T.A., “Resisting Daesh’s Message: On Strategic Communications in War”, The
Huffington Post, 2 agosto 2016.
42
messaggio concepito secondo chiavi comunicative di differente natura, in modo da poter
indirizzare qualsiasi prodotto di comunicazione a cluster di audience differenti tra loro per
cultura, fede, sesso ed età.
I pilastri strategici della comunicazione dell’ISIS
La comunicazione strategica dell’ISIS è quindi strutturata su quattro pilastri meta-narrativi,
che corrispondono ad altrettanti obiettivi di comunicazione dell’organizzazione, in direzione
di due contesti di audience molto distinti tra loro21.
a. Narrativa politica
La narrativa politica ha come obiettivo quello di trasferire al primo cluster di riferimento,
l’audience occidentale, e al secondo, l’audience della comunità islamica, due distinti
messaggi.
I messaggi per il primo cluster sono:
─ veicolare l’immagine statuale del Califfato e la sua solidità
─ fornire informazione, saturando ogni altro canale informativo
I messaggi per il secondo cluster sono invece:
─ favorire reclutamento e permanenza nei ranghi delle milizie
─ trasferire i principi ideologici del Califfato
b. Narrativa morale
La narrativa morale è essenzialmente diretta alla sola comunità musulmana, per
trasferire attraverso l’ideologia i connotati della corruzione morale dell’occidente e la
fallacità delle democrazie liberali, denunciando l’ipocrisia del mondo occidentale, ed
offrendo al tempo un’alternativa di riscatto attraverso l’interpretazione originale e più
pura dell’Islam. L’ISIS è quindi in questa chiave interpretativa una sorta di salvatore
della umma islamica, cui offre non solo uno strumento interpretativo ma anche un
contesto pratico entro cui esercitare i principi etici dell’Islam.
c. Narrativa religiosa
La narrativa religiosa è forse il contesto più complesso tra quelli della narrativa
strategica dell’ISIS, dovendosi misurare con una conflittualità interna al mondo
musulmano che spazia dall’interpretazione corretta dei principi religiosi sino alla
definizione dell’eresia.
L’elemento principale della narrativa religiosa in termini comunicativi è tuttavia quello
della legittimazione dello Stato Islamico, costruita sull’imposizione di un dogma che non
21 Pellerin, Clara, “Communicating Terror: an Analysis of ISIS Communication Strategy”, Science
Po, Kuwait Program, Primavera 2006.
43
condanna solo i non credenti, ma anche i musulmani che non riconoscono la necessità
di favorire, o non sostengono la costituzione, del Califfato.
Il trasferimento di questi elementi di comunicazione al cluster dell’audience occidentale
deve tuttavia transitare attraverso i principi dell’ideologia, trasformati per essere
comprensibili in un ambito privo di strumenti interpretativi teologici o semplicemente
dottrinali.
d. Narrativa sociale
La narrativa sociale ha come scopo primario quello di trasmettere la paura e il senso di
ineluttabilità della vittoria dell’ISIS ad entrambi i cluster di riferimento. La paura viene a
tal scopo articolata attraverso il messaggio della violenza, nella sua forma più selvaggia
e primitiva, rompendo i canoni tradizionali dell’etica e del rispetto dell’uomo tipici della
società occidentale, imprimendo in tal modo l’idea di un connotato quasi soprannaturale
dell’avversario22.
La narrativa sociale serve tuttavia anche a screditare nell’ambito del cluster
dell’audience musulmana. Screditare significa demonizzare e delegittimare ogni altra
componente politica o jihadista della galassia islamista, attribuendo al solo Stato
Islamico il ruolo guida nella lotta contro l’oppressione e la decadenza occidentale.
In quest’ambito, Al Qaeda rappresenta il primo elemento di interesse per il Daesh, in
una lotta per la supremazia che non accetta condivisione degli spazi.
La narrativa sociale ha infine il non trascurabile compito di promuovere la memoria dei
martiri e il senso di appartenenza alla comunione del Califfato.
22 “Strategic Communications – East and South”, Report n. 30, European Institute for Security
Studies, Parigi, Luglio 2016.
44
I criteri strategici della narrativa dell’ISIS, elaborazione dell’autore.
Ne consegue che il modello narrativo dell’ISIS è alquanto complesso, ed articolato in modo
da soddisfare una pluralità di target audience diversi tra loro per cultura, fede, età e
collocazione geografica.
Il criterio dominante della narrazione è quello della legittimazione e dell’esaltazione del ruolo
dello Stato Islamico, visto di volta in volta attraverso chiavi interpretative dirette ad
influenzare target diversi con messaggi precisi. Esiste quindi una vasta produzione, ad
esempio, di materiale divulgativo per i giovani e soprattutto i giovanissimi, tesa a consolidare
non solo l’immagine di forza del Califfato, ma anche e soprattutto quella della sua legittimità
come migliore opzione per i giovani musulmani. Aderire e proteggere il Califfato è in questo
senso oggetto di emancipazione e crescita individuale e di gruppo per i giovani, sulla
falsariga di quello che la moda, lo status e più in generale il consumismo attribuisce ai loro
omologhi della società occidentale.
La teoria dei sei elementi narrativi di Charlie Winter
Secondo Charlie Winter, Senior Research Associate della Georgia State University, sono
sei gli elementi ricorrenti della strategia narrativa dell’ISIS, e più precisamente la brutalità, il
perdono, il vittimismo, la guerra, l’appartenenza e l’utopia23.
23 Winter, Charlie, “The Virtual Caliphate: Understanding Islamic State’s Propaganda Strategy”,
QuilliamFoundation, 2015.
45
Tutti e sei gli elementi coesistono secondo Winter in un bilanciamento costante, che
impedisce il prevalere dell’uno sugli altri. In tal modo, secondo l’esperto, la comunicazione
dell’ISIS è un prodotto articolato e complesso, in cui l’elemento della brutalità coesiste con
gli altri nella medesima misura, venendo esaltato come primario solo dagli osservatori
occidentali, che in tal modo non ne comprendono appieno il significato nell’insieme
omogeneo della narrativa complessiva.
È una considerazione interessante, quella di Winter, che permette di configurare il progetto
narrativo dell’ISIS nella sua interezza, cogliendone il significato e la strategia complessiva
senza cadere nell’errore di privilegiare uno o più elementi a danno di altri.
L’elemento della violenza e della brutalità sulle vittime designate rappresenta in tal modo il
linguaggio attraverso il quale l’ISIS comunica al target audience internazionale la
spietatezza con cui il Califfato intende gestire gli infedeli e i nemici dell’Islam, non lasciando
alcuno scampo e offrendo come alternativa solo la conversione. Il messaggio impatta anche
sulle comunità locali che, in tal modo, sono scoraggiate dall’ingaggiare un combattimento
con chi – in caso di cattura – non solo non avrà pietà, ma adotterà nei loro confronti una
brutalità senza precedenti.
Un elemento di forte impatto, parte della narrativa sociale dell’ISIS, che ha saputo
concretamente realizzare i suoi obiettivi letteralmente terrorizzando la popolazione civile e
buona parte delle forze armate irachene per lungo tempo, scoraggiando qualsiasi iniziativa
militare contro le forze del Daesh.
All’elemento della violenza e della brutalità, largamente diffuso in occidente come prova
della necessità di promuovere l’impegno internazionale contro l’ISIS, tuttavia, deve essere
abbinato il meno noto ricorso da parte dello Stato Islamico alla narrativa del perdono, che -
come afferma Winter24 - costituisce la compensazione della brutalità ed offre alla sola target
audience locale la prospettiva della salvezza.
La narrativa del vittimismo e della potenza sono invece parte di uno stesso insieme, che nel
medesimo contesto spiegano perché sia necessaria la lotta – oppressione, decadenza, ecc.
– e come questa sia affrontata con maestria e capacità, non lasciando scampo al nemico.
In questo non si risparmiano informazioni sulle tecniche di combattimento impiegate,
sull’addestramento svolto o sulle armi impiegate, lasciando intendere come il complesso di
questi elementi conferisca una capacità superiore ed ineguagliabile alle forze del Califfato.
Da tutto ciò ne derivano quindi gli ultimi due elementi narrativi, di cui il primo è
l’appartenenza, attraverso la comunanza di obiettivi e la condivisione dell’ideologia, e il
24 Op.Cit.
46
secondo è l’utopia, e quindi l’obiettivo di lungo termine, dove l’ISIS propone un sistema
sociale alternativo, rivoluzionario ed antitetico con quello tradizionale imposto dalle culture
decadenti ed oscene del mondo occidentale.
La struttura organizzativa del sistema di comunicazione strategica dell’ISIS
La considerazione generale espressa da chi studia il fenomeno mediatico connesso alla
narrativa dello Stato Islamico è concorde. L’ISIS dispone non solo di uno staff tecnicamente
preparato e culturalmente adeguato alla veicolazione di messaggi complessi e in direzione
di target audience diverse tra loro, ma è capace di un coordinamento della comunicazione
avanzato e di concezione efficiente e moderna, mutuato quasi certamente da omologhe
esperienze occidentali e traslato nell’ottica di una localizzazione islamica e mediorientale25.
Un giudizio di eccellenza che deve far riflettere sulla capacità e la possibilità di contrastare
la comunicazione strategica dell’ISIS con mezzi tradizionali, imponendo al contrario la
necessità di una ridefinizione della strategia comunicativa occidentale nella regione e più in
generale sulle comunità del mondo musulmano26.
Non sono disponibili dati precisi ed affidabili circa l’effettiva composizione della struttura di
comunicazione del Daesh, sebbene se ne possa dedurre l’ampiezza e la delocalizzazione
geografica dalla constatazione di alcuni elementi. Secondo J.M. Berger e Jonathon Morgan,
ricercatori della Brookings Institution, non meno di 45.000 profili Twitter sarebbero
direttamente gestiti dall’organizzazione, lasciando ben intendere il numero di addetti
impiegati nella gestione di una tale massa di account27.
Appare quindi chiaramente come la struttura organizzativa che gestisce la comunicazione
strategica del Daesh sia multi-dimensionale, caratterizzata da un approccio estremamente
dinamico e funzionale, e capace di una gestione ampia e variegata di target.
Il primo e più importante elemento per comprendere la struttura organizzativa della
componente di comunicazione dell’ISIS è quello di tenere presente come la stessa sia
modellata sulla falsariga della struttura di comando e di combattimento, e quindi suddivisa
in entità territoriali minori, i Wilayat (o province), con un grado di autonomia disomogeneo a
seconda del paese e del tipo di presenza sul territorio28.
25 Farley, Robert, “Five ISIS Weapons of War America Should Fear”, The National Interest, 25
settembre 2014 26 Pellerin, Clara, Op.Cit. 27 Berger, J.M., Morgan, Jonathon, “The Isis Twitter Census”, The Brookings Institution, Analysis
Paper, 20 marzo 2015. 28 Azoulay, Rivka, “Islamic State franchising: Tribes, Transnational jihadi networks and
generational shifts”, CRU Report, Clingendael, The Hague, 2015.
47
La struttura operativa della comunicazione è invece articolata su un moderno ed efficiente
mix di funzioni e media, coordinati ed articolati su più prodotti e formati. Il controllo centrale
è affidato alla struttura dell’Al Hayat Media Centre, posto direttamente sotto il controllo della
struttura centrale di comando dell’ISIS, e da questa dipendono tutte le attività di
comunicazione e di divulgazione mediatica.
L’informazione ricorrente – intesa come quella di più frequente divulgazione, stante la
difficoltà di poter attribuire una cadenza temporale tradizionale alla struttura comunicativa
dell’ISIS - è affidata all’agenzia di stampa Amaq, che diffonde poi capillarmente i propri
messaggi soprattutto attraverso i social media, facendo largo impiego di Twitter e Facebook.
All’agenzia di stampa si affiancano una stazione radiofonica, l’Al Bayan, e due magazine a
cadenza variabile, il Dabiq e il Rumiya, entrambi diffusi sia in arabo che in inglese e,
saltuariamente, in altre lingue.
I differenti media sono invece supportati esternamente da strutture che producono contenuti
testuali, fotografici e video di alta qualità, che vengono poi ritrasmessi da tutte le antenne
periferiche del sistema nei più differenti formati.
L’Al Hayat Media Centre
L’Al Hayat è strutturato su una sezione centrale di coordinamento, presieduta si suppone
da un Chief of Media Operations29, da cui dipendono gerarchicamente le sezioni periferiche
dislocate nei vari Wilayat. Una netta distinzione organizzativa riguarda le sezioni periferiche
dell’Iraq e della Siria, preminenti sulle altre, e quelle dislocate negli altri paesi della regione
e dell’Africa30.
Il centro è supportato dalla Fondazione Al-Furqan, basata in Pakistan e in Afghanistan e da
non confondersi con quella di ben diversa natura basata a Londra, che provvede a fornire
adeguata copertura finanziaria e capacità professionale al centro.
La funzione primaria del centro è quella di ideare, pianificare e diffondere la compagna di
comunicazione strategica dell’ISIS nell’ambito dei più diversi cluster di interesse.
In particolar modo, quattro risultano essere i target primari identificati dal centro:
- Audience globale di cultura non araba e non musulmana
- Audience globale di cultura araba e di religione musulmana
29 Non c’è consenso tra glia analisti circa l’effettiva presenza di un Chief of Meda Operations,
sebbene molte testimonianze raccolta da prigionieri o ex appartenenti all’organizzazione lascerebbero ritenere verosimile la presenza di questa figura. Molte speculazioni sono [segue] [continua] state fatte circa l’identità del coordinatore, senza tuttavia poter disporre di nessun elemento utile alla reale e precisa identificazione.
30 “Strategic Communications – East and South”, Op.Cit.
48
- Audience regionale di cultura araba e di religione musulmana in aeree occupate
dell’ISIS
- Audience regionale di cultura araba e di religione musulmana in aree non occupate
dall’ISIS
Ognuno dei target primari prevede un’attività di comunicazione e divulgazione strutturata su
target multipli secondari, al fine di massimizzare i risultati attesi dal piano di comunicazione
strategica.
L’Al Hayat Media Centre è il collettore di tutta la produzione audio, video e testuale
dell’organizzazione, dove gli elementi informativi vengono assemblati e prodotti in funzione
dei diversi contesti di divulgazione, realizzando professionalmente filmati, gallerie
fotografiche, musiche e documenti di testo.
La struttura organizzativa dell’Al Hayat Media Centre, elaborazione dell’autore.
Una delle attività che assorbe maggiormente le strutture dell’Al Hayat è il monitoraggio e il
rimpiazzo degli account di comunicazione sospesi o “hackerati” dalla rete degli oppositori,
nell’intento da un lato di mantenere aggiornata la rosa delle sorgenti distributive e dall’altra
contrastare i tentativi di delegittimazione o diffamazione attraverso la gestione di fake.
L’utilizzo dei forum è invece essenzialmente destinato alla gestione del reclutamento su
scala regionale e globale, oltre che al trasferimento di messaggi e alla gestione di
sporadiche comunicazioni tra cellule dell’organizzazione. Mentre un gran numero di forum
è stato utilizzato da account riconducibili alla rete di comunicazione dell’Al Hayat, la stessa
organizzazione non sembra impegnata nella gestione diretta di nessuno di questi, ben
conscia della facile capacità di individuazione e della conseguente sospensione del servizio.
49
A tal fine preferisce servirsi di strutture terze, utilizzando soprattutto i servizi di
messaggistica interna per eludere i controlli e favorire la comunicazione la gestione dei
rapporti con potenziali elementi da reclutare.
Ad ulteriore dimostrazione di come la struttura del Daesh sia il prodotto di un fattore sociale
prettamente iracheno, è bene evidenziare come la gran parte degli account impiegati sui
social media sia registrato e gestito dall’Iraq e dalla Siria, impiegando all’80%l’arabo come
lingua di comunicazione31.
L’impiego dei social media avviene in modo estremamente professionale, senza mai
coinvolgere il vertice operativo dell’organizzazione per minimizzare i rischi di identificazione
e successiva eliminazione. L’utilizzo dei social media è quindi limitato alla diffusione della
comunicazione strategica e alla gestione della messaggistica di base con le cellule sul
terreno e i potenziali soggetti da reclutare, utilizzando tuttavia accorgimenti particolari sulla
sicurezza e la riservatezza, in modo da prolungare quanto più possibile la vita degli account
ed impedirne al tempo stesso l’identificazione.
Viene fatto largo uso delle app disponibili per la telefonia mobile, come nel caso di “The
Dawn of Glad Tidings”, che simula le funzioni della più famosa “Thunderclap” e permette il
regolare aggiornamento dei gruppi e dei singoli utenti32.
La comunicazione sui social media viene elaborata in modo da massimizzare i risultati
distributivi per ogni singolo strumento, utilizzando in tal modo Twitter primariamente per la
diffusione dei comunicati, delle notizie quotidiane e dei link alle pagine diffuse in rete, e
Facebook al contrario come piattaforma di fidelizzazione attraverso la quale soprattutto
gestire le foto, i video e i contatti con le reti globali e i potenziali candidati al reclutamento33.
Particolare menzione deve essere dedicata alla sezione di produzione video, gestita da
elementi di assoluta professionalità non solo in possesso delle nozioni generali della
produzione cinematografica, ma anche e soprattutto della conoscenza degli strumenti e
delle tecnologie – soprattutto nella post-produzione – più avanzate di settore.
31 Azoulay, Rivka, Op.Cit. 32 Farwell, James P., “How ISIS uses social media”, Survival Editor’s Blog, IISS, 2 ottobre 2014. 33 Può essere interessante notare come un deciso incremento si sia registrato, a partire dal 2016,
nell’utilizzo di Telegram, con l’apertura di numerosi nuovi canali, tra cui alcuni in lingua italiana, come nel caso di Khalifa News. Telegram si presta ad essere un ottimo veicolo di distribuzione per i materiali infografici, mentre ha destato interesse ed al tempo stesso preoccupazione la creazione di un canale dedicato interamente gestito in lingua italiana. Non pochi hanno associato il lancio di questo canale alla maggiore visibilità delle truppe italiane durante l’avvio della battaglia lanciata dal governo iracheno per la riconquista di Mosul, ponendo l’accento sulla possibilità di un maggiore interesse verso il paese in previsione di possibili azioni ostili ai contingenti impegnati in teatro operativo.
50
L’analisi dei video di molte delle esecuzioni filmate e poi trasmesse attraverso la rete ha
dimostrato come la produzione sia a volte durata giorni, transitando aggiustamenti di post-
produzione di livello comparabile a quello cinematografico professionale, con il risultato di
un prodotto del tutto nuovo rispetto all’artigianale e grossolana capacità produttiva ad
esempio di Al Qaeda o delle struttura a questa associate.
I video dall’Al Hayat sono veri e propri prodotti di prima fascia qualitativa, spesso realizzati
soprattutto tenendo conto i criteri produttivi e le modalità espressive più vicine ai canoni
culturali del mondo occidentale, realizzando in tal modo video che – seppur nella loro
tragicità e violenza – hanno capacità di essere compresi da un’audience diversa da quella
locale mediorientale.
Particolare attenzione viene accordata alla componente musicale e linguistica dei prodotti
audiovisivi, rendendoli in tal modo immediatamente comprensibili e fruibili dal target
audience di riferimento. La musica di accompagnamento, quasi sempre presente, è oggi
studiata per essere declinata in diversi contesti culturali e linguistici, massimizzando il tal
modo il risultato atteso.
Alla tradizionale camera fissa dei primitivi filmati un tempo realizzati dal jihadismo di
estrazione qaedista, si sostituisce oggi la capacità offerta da più angoli di ripresa e dal
conseguente articolato montaggio di immagini ed audio, non trascurando elementi come la
luce, il bilanciamento del bianco e ogni altra possibile accortezza capace di contribuire alla
realizzazione di prodotti audiovisivi complessivamente realizzati con perizia
cinematografica.
La produzione odierna dell’ISIS offre quindi una qualità garantita dall’impiego di
strumentazioni e tecniche che rappresentano lo stato dell’arte della tecnica di produzione
cinematografica e televisiva, assicurando un rendimento qualitativo mai sperimentato prima
nell’ambito della comunicazione dei gruppi jihadisti.
L’uso di tecnologie e applicazioni criptate
Ha destato scalpore, dopo gli attentati di Parigi del novembre del 2015, il commento
espresso dall’ex vice direttore della CIA, Michael Morrell, secondo cui gli attentatori
potrebbero aver impiegato tecnologie criptate per comunicare con le strutture dell’ISIS in
Iraq e in Siria, confermato pochi giorni dopo anche un’anonima fonte della sicurezza
francese34.
34 Gallagher, Sean, “ISIS using encrypted apps for communinications; former intel officials blame
Snowden”, Ars Technica, 16 novembre 2015.
51
Secondo gli investigatori, l’ISIS starebbe impiegando applicazioni per la telefonia mobile di
natura commerciale, criptate con algoritmi professionali che ne rendono estremamente
difficile il controllo, incrementando enormemente la capacità di coordinamento dei team
impegnati nelle azioni suicide.
Mentre è ben noto l’uso di programmi come Telegram, soprattutto al fine della diffusione di
canali tematici e contenuti ad uso della propaganda, ciò che preoccupa i servizi di
intelligence occidentale è l’impiego di applicazioni commerciali criptate al solo fine della
comunicazione, e quindi meno visibili e di conseguenza intercettabili.
Poco dopo i fatti di Parigi è stato individuato, durante le successive operazioni contro le
cellule presenti in Francia e Belgio, un documento di 34 pagine prodotto da una società
kuwaitiana di sicurezza informatica dove si fornivano indicazioni per l’uso di tecnologie
criptate. Il documento, in realtà prodotto per sostenere l’azione degli attivisti politici dei diritti
umani e i giornalisti in Medio Oriente, è stato adottato anche dalle cellule jihadiste europee
ed ha costituito la base per la gestione delle comunicazioni tra i principali gruppi operanti tra
la Francia e il Belgio35.
Il documento rappresenta una vera e propria guida operativa alla sicurezza informatica,
fornendo istruzioni per mitigare in modo considerevole il rischio di intercettazione attraverso
il ricorso a semplici procedure ed espedienti adattabili alla gran parte delle azioni richieste
dalla comunicazione.
Sono quindi indicate le modalità di accesso e gestione di Twitter in modalità sicura, viene
suggerito di utilizzare account di posta elettronica gestiti da società non statunitensi
(menzionando espressamente il servizio offerto da Ushmail o da ProtonMail) o ancora una
lunga serie di consigli sui telefoni criptati (come Cryptophone o BlackPhone).
Altri suggerimenti contenuti nel documento sono quelli relativi alla connettività senza far uso
di Internet, tramite applicazioni per la telefonia mobile che consentono di scambiare
messaggi e file fino a 200 metri di distanza, totalmente criptati e di difficilissima
individuazione.
Altro capitolo del documento è quello relativo all’accesso al deep web, con indicazioni sui
browser e sulle procedure da impiegare per impedire l’identificazione automatica da parte
dei software e quella manuale da parte degli hacker.
Uno degli esecutori degli attentati in Belgio del marzo 2015, Najim Lachouri, avrebbe
comunicato lungamente dal suo rifugio di Bruxelles con un non meglio identificato jihadista
35 Szoldra, Pail, “15 secure apps ISIS terrorists are using to communicate online”, Business Insider
UK, 20 novembre 2015.
52
dell’ISIS in Siria, di nome Abu Ahmed, dal quale avrebbe ricevuto istruzioni e consigli sulla
progettazione e sulla conduzione dell’attacco.
Tutte le comunicazioni sarebbero avvenute per mezzo di Telegram - un normale software
criptato commerciale – poi individuato sul suo computer, abbandonato in uno dei tre rifugi
di Bruxelles dove si era nascosto36.
Hanno rivelato i dettagli di questo episodio i vertici della polizia francese e di quella belga,
a margine dell’operazione che ha permesso la cattura dell’unico elemento sopravvissuto
agli attacchi dell’aeroporto e della metropolitana di Bruxelles, confermando come anche
l’applicazione Wahtsapp fosse stata frequentemente utilizzata dai terroristi per la gestione
delle loro comunicazioni.
L’episodio ha riacceso il dibattito relativo alla disponibilità di applicazioni commerciali
criptate, per le quali le autorità di un gran numero di paesi chiede agli sviluppatori i codici di
accesso per poter monitorare l’attività dei gruppi criminali che se ne servono. Richiesta cui
le società si oppongono da sempre, rivendicando la necessità di garantire tutti gli utenti che
se ne servono, pena il crollo commerciale della distribuzione di questa tipologia di prodotti.
Il poderoso incremento nell’utilizzo di applicazioni criptate è spesso combinato con
l’adozione di criteri di trasferimento delle informazioni e dei dati basato sull’impiego di più
device e più strumenti di comunicazione, rendendo in tal modo pressoché impossibile
l’identificazione e l’accesso all’informazione. È attraverso queste tecniche che l’applicazione
diviene solo il primo tassello di una procedura combinata di trasferimento che rimanda ad
una successiva, o più di una, ulteriore applicazione, rendendo l’attività investigativa e la
ricerca fisica del dato praticamente impossibile anche per le agenzie di intelligence dotate
delle più sofisticate tecnologie intrusive.
La narrativa della comunicazione strategica dell’ISIS in contrapposizione a quella di
Al Qaeda
Una delle più impegnative attività della cellula di comunicazione dello Stato Islamico è
costituita dal costante sostegno al dibattito in seno alla comunità musulmana – sia regionale
che globale – sulle differenze dottrinali con le altre organizzazioni e in particolar modo con
Al Qaeda.
Questo dibattito si è reso necessario dopo la frattura del 2014 tra l’organizzazione di Al
Baghdadi e quella di Al Zawahiri e la conseguente confusione diffusasi in seno alle principali
componenti della lotta jihadista.
36 Rotella, Sebastian, “The Dark Side of Privacy: How ISIS Communications Go Undetected”,
Pacific Standard, 29 luglio 2016.
53
La dottrina di entrambi gli schieramenti è costruita su veri e propri arbìtri interpretativi, rifiutati
tanto dagli studiosi islamici quanto dalla gran parte della massa della comunità musulmana,
attraverso una selezione di versi del Corano e una loro interpretazione funzionale agli
obiettivi perseguiti. Ciò che in sintesi sia Al Qaeda che lo Stato Islamico hanno compiuto è
una rivisitazione in chiave del tutto strumentale dei principi religiosi e giuridici espressi dal
Corano, costruendo modelli dottrinali propri, nuovi e a modo loro originali.
Lo Stato Islamico considera come suoi mufti i sauditi Ozman al-Zazeh al-Asiri e Omar al-
Qahtani, e il bahreinita Turki Ben Ali, ed in particolare quest’ultimo, già allievo di Abu
Mohamed al-Maqdisi.
Una prima profonda differenza dottrinale tra lo Stato Islamico e Al Qaeda è data dal
superamento del concetto di seniority (asbaqiyya) all’interno del dibattito teologico e
giurisprudenziale, come dimostrato dall’aperta rottura tra Turki Bel Ali e il suo ex mentore
al-Maqdisi, consumatasi nell’ambito della più vasta frattura tra Al Qaeda e il Daesh nella
gestione del rapporto con Jabhat al Nusra in Siria nel 2014.
Turki Ben Ali ha sostenuto la legittimità del predominio dello Stato Islamico, scontrandosi
quindi con le posizioni di condanna di al-Maqdisi, che ha in tal modo palesato in
quell’occasione il suo sostegno ad Al Qaeda.
La componente dottrinale maggioritaria del jihadismo ha in tal modo condannato la
posizione di Turki Bel Ali e dello Stato Islamico, accusandola di devianza e di incompatibilità
con la posizione dei principali esponenti religiosi di orientamento salafita, determinando una
frattura ideologica su cui è stata costruita l’immagine della controparte come takfir, e quindi
infedele e miscredente.
Lo Stato Islamico ha poi costruito buona parte della sua narrativa dottrinale sull’ineluttabilità
della violenza, quale strumento necessario per combattere le armate degli infedeli in una
sorta di scenario apocalittico connesso alla mitologia dell’ultima battaglia di Dabiq contro le
armate “romane”, intese come conquistatrici ed impersonificate oggi dagli Stati Uniti (da cui
il nome delle due riviste).
Anche Al Qaeda ha da sempre considerato la violenza come strumento necessario per
mondare il Medio Oriente dalle potenze occidentali, eludendo anch’essa in tal modo i principi
della giurisprudenza islamica sulla guerra, costruiti sui limiti dei conflitti e sulla protezione
dei non combattenti.
Sia lo Stato Islamico che Al Qaeda sono animate dalla volontà di fare ordine prioritariamente
all’interno della grande umma islamica, eliminando l’apostasia e l’eresia. In quest’ottica,
dove gli sciiti rappresentano l’eresia e tutti coloro che si oppongono alla creazione del
Califfato l’apostasia, ne deriva che il campo avversario è ampio ed eterogeneo.
54
L’esperienza del Daesh è transitata attraverso l’iniziale priorità della lotta contro l’eresia,
caratterizzando in tal modo la visione dottrinaria dell’organizzazione come espressione di
un retaggio squisitamente iracheno.
Con l’intensificarsi dell’impegno militare statunitense – ed occidentale, più in generale –
contro i capisaldi dello Stato Islamico a partire dal 2015, l’interpretazione delle priorità è
mutata all’interno della concezione dottrinale del Daesh, favorendo una concentrazione
dello sforzo bellico in direzione dell’apostasia, e quindi della minaccia più diretta ed
incombente sulla sicurezza del Califfato.
In termini più generali, quindi, le differenze dottrinali tra lo Stato Islamico ed Al Qaeda sono
relativamente poche e potenzialmente sanabili. Ciò che divide le due organizzazioni è quindi
la lotta per il predominio nel contesto del jihadismo e la ricerca di una legittimità primigenia
nella conduzione di quella “necessaria battaglia” per l’unione della Sunna islamica.
Al Qaeda continua a sostenere che la brutalità gratuita e la violenza applicata dallo Stato
Islamico sia una devianza ed una controproducente politica di coesione all’interno del
mondo musulmano, denunciando la teatralità della barbarie del Daesh e il sadismo dei suoi
adepti.
Non meno complessa la questione del Califfato, che lo Stato Islamico sostiene di aver già
fondato e che AL Qaeda rifiuta sostenendo che i tempi e le condizioni non siano ancora
mature, rifiutando di fatto ogni ipotesi di Califfatto realizzato e dominato dalla figura di al-
Baghdadi ed influenzato dall’interpretazione “sciariatica” di Turki Ben Ali.
Lo scontro tre le due organizzazioni principali del jihadismo è quindi in larga misura costruito
sulla ricerca di un predominio che l’una rifiuta di concedere e riconoscere all’altra,
fortemente intriso di personalismi e di interpretazioni religiose del tutto arbitrarie e funzionali
ad una visione dell’Islam totalmente asservita al controllo delle proprie prerogative politiche
ed economiche.
I media dello Stato Islamico: l’agenzia Amaq
L’agenzia Amaq, costituita il 14 agosto del 2014 in Iraq, cerca di apparire nelle vesti di una
vera e propria agenzia stampa dedicata alla diffusione della cronaca delle principali
evoluzioni politiche e della sicurezza in Medio Oriente.
Si tratta al contrario di un’articolata agenzia creata allo scopo di diffondere le informazioni e
la propaganda dello Stato Islamico, da cui si è sempre dichiarata indipendente nonostante
l’evidenza derivante dall’accesso privilegiato alle informazioni e la velocità di diramazione.
55
L’agenzia Amaq è solitamente la fonte più veloce ed immediata nel riportare le rivendicazioni
degli attentati e delle azioni condotte dal Daesh, collocandosi in una posizione alquanto
ambigua del panorama editoriale iracheno.
La linea editoriale dell’agenzia è alquanto ambigua e costruita sulla necessità di difendere
il paradossale ruolo di indipendenza che ha cercato di sostenere sin dall’inizio delle attività
in occasione dell’assedio alla città curda di Kobane.
Da allora l’Amaq si è caratterizzata per essere il principale erogatore di informazioni sullo
Stato Islamico e sulla sua narrativa politica, sebbene quasi sempre all’interno di un format
costruito per sembrare pluralista e super partes.
La diffusione delle notizie avviane attraverso la rete internet, sotto forma di comunicati il più
delle volte scritti in lingua araba, e attraverso applicazioni della telefonia mobile, dove Amaq
ha sviluppato una propria app37 denominata Arawi, e anche attraverso un canale Telegram.
La strategia comunicativa di Amaq è costruita su una fragile credibilità accreditata dall’uso
di un lessico apparentemente neutro e incondizionato, che invece è strumentale alla
diffusione della narrativa ideologica del Daesh sotto forma di comunicati che hanno come
scopo primario quello di legittimare il ruolo e la battaglia del Califfato.
Si ritiene che sia controllata direttamente dall’Al Hayat Media Centre, da cui riceva le
informazioni e le direttive circa le tecniche di comunicazione e divulgazione delle
informazioni e della narrativa di sostegno alla causa dello Stato Islamico.
Secondo Rukmini Callimachi, giornalista del New York Times, l’agenzia Amaq è stata creata
con il chiaro intento di poter essere percepita come esterna al Daesh e del tutto indipendente
dalla sua causa, utilizzando un linguaggio giornalistico caratterizzato da una “patina di
obiettività” che, sebbene non sufficiente a convincere l’audience occidentale, sembra
tuttavia avere un certo successo in Iraq e in Siria38.
Il sito statunitense di informazioni specializzato sul jihadismo “SITE – Intelligence Group
Entrerprise”, che spesso traduce le informazioni diffuse di Amaq, riconosce l’agenzia come
espressione diretta dello Stato Islamico, sostenendo che a partire dal 2016 circa ha iniziato
a comunicare secondo i canoni di una vera e propria agenzia governativa, collocandosi in
tal modo in un ambito del tutto particolare e senza precedenti del panorama editoriale
internazionale.
37 Applicazione che risulta essere stata clonata più volte – probabilmente da paesi occidentali – a
fine presumibilmente di individuare e monitorare i simpatizzanti del Daesh. 38 Callimachi, Rukmini, “A News Agency With Scoops Directly for ISIS, and a Veneer of
Objectivity”, New York Times, 14 gennaio 2016.
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Un particolare di non poco conto su cui la stampa e gli esperti internazionali non hanno
saputo dare risposta concerne l’ubicazione fisica della sede dell’agenzia, ufficialmente in
Iraq sebbene senza mai specificare in quale luogo. Si ritiene che la gestione di Amaq sia
assicurata da una redazione geograficamente distribuita in più località e organizzata su una
redazione organizzata orizzontalmente, subordinata alle direttive dell’Al Hayat ma senza
una vera e propria catena di comando propria. Questo permetterebbe all’agenzia non solo
una grande flessibilità nella catena di produzione dell’informazione ma anche la sicurezza
di poter sopravvivere ad attacchi da parte delle forze locali o delle forze aeree internazionali.
I media dello Stato Islamico: la radio Al Bayan
La stazione radiofonica Al Bayan trasmette in Iraq e Siria presentandosi ufficialmente come
emittente dello Stato Islamico, e da circa un anno ha aggiunto la Libia al suo network
geografico di produzione e trasmissione delle informazioni.
Il formato narrativo dell’emittente è multiplo, sebbene caratterizzato da un’impronta
significativa dei temi a sfondo religioso, politico e di informazione.
La trasmissione, analogica e terrestre su poco meno di una decina di frequenze, è garantita
da otto uffici regionali, in Iraq (Falluja, Mosul, Tikrit), Siria (Palmira, Raqqah) e Libia
(Bengasi, Derna e Sirte) e da un numero imprecisato di antenne di ripetizione del segnale
collocate in una vasta area del Medio Oriente. Si ritiene che il segnale sia spesso ripreso e
ripetuto anche da stazioni radio terze che, pur non essendo in alcun modo connesse ad Al
Bayan, ne condividano i principi e le finalità favorendone la diffusione.
La lingua di diffusione principale è l’arabo, sebbene siano numerosi i programmi offerti
anche in curdo, inglese, francese e russo, nell’intento soprattutto di alimentare il timore
dell’ISIS e la sua percezione di forza militare potente e determinata anche all’interno del
territorio controllato dalle forze governative del regime di Bashar al-Asad in Siria.
La centrale primaria di trasmissione è a Mosul ed opera sulla frequenza principale MHz
92,50 e sulla secondaria MHz 99,30.
La gran parte dei programmi radiofonici trasmessi da Al Bayan sono strutturati su veri e
propri format costruiti e gestiti professionalmente dagli operatori, suddivisi secondo un
palinsesto articolato.
I programmi di informazione, sebbene fortemente di parte, si sono caratterizzati per
puntualità e precisione dell’informazione, conquistandosi in tal modo una fama di affidabilità
che ne permette di sovente la citazione anche da parte dei media occidentali quando
interessati a commentare fatti di cronaca relativi al ruolo dello Stato Islamico.
57
La programmazione del palinsesto è pensata per servire al 70% circa l’audience locale
all’interno dei territori già controllati dallo Stato Islamico e al 30% per fornire elementi di
comunicazione in direzione soprattutto dei paesi occidentali. I giornalisti impiegano
visibilmente “note di linguaggio” che tendono a ripetersi e confermarsi quali elementi della
narrativa nel corso delle diverse trasmissioni, fornendo in tal modo utili indicazioni circa le
priorità comunicative dello Stato Islamico.
Una parte non trascurabile della produzione è dedicata alla divulgazione religiosa della
dottrina del Daesh, con soventi interviste ad esponenti religiosi regionali.
Dopo la conquista di Sirte da parte delle milizie di Misurata, in Libia, la programmazione
radiofonica delle locali cellule di radio Al Bayan a Sirte e Derna sembra essersi ridotta
drasticamente, probabilmente riducendosi alla sola diffusione dalla provincia di Bengasi.
All’inizio del 2016 è stata lanciata un’applicazione per telefonia mobile, basata su tecnologia
Android, per la ricezione della programmazione direttamente sul telefono cellulare. A darne
notizia è stato il sito di informazione Vocativ, specializzato nell’analisi della comunicazione
jihadista nel deep web, unico posto dove l’app è disponibile39.
I media dello Stato Islamico: la rivista Dabiq
Il nome Dabiq della prima rivista dello Stato Islamico si riferisce all’omonima cittadina
siriana, oggi occupata dalle forze del Daesh, a cui lo Stato Islamico attribuisce un grande
valore simbolico nella narrativa religiosa e politica del Califfato.
Alcuni sostengono che il Profeta Maometto abbia indicato la cittadina di Dabiq (anche nota
come al Amaq, da cui il nome dell’agenzia di stampa) come il luogo dove avverrà l’ultimo
scontro con i “romani” (da Rum, nome arabo dei bizantini), nella marcia per la conquista di
Costantinopoli40.
La cittadina, in prossimità del confine tra Siria e Turchia, oggi conta non più di 3000 abitanti
e oltre al valore simbolico della narrativa coranica costituisce un avamposto strategico per
il controllo dei flussi terrestri nelle aree controllate dal Daesh.
Il nome di Dabiq è stato quindi scelto come simbolo iconografico per il lancio della prima
rivista dello Stato Islamico, pubblicata in formato digitale a partire dal 5 luglio 2014 da una
redazione ubicata a Raqqa e con ramificazioni in Siria e in Iraq, a Mosul.
39 Tasch, Barbara, “ISIS has reportedly released its firts Android app”, Business Insider UK, 2
febbraio 2016. 40 “Dabiq: Why is Syrian town so important for IS?”, BBC, 4 ottobre 2016.
58
Lo sforzo editoriale dietro la rivista è risultato ingente sin dall’inizio, traducendo ogni numero
in diverse lingue, favorendo soprattutto l’inglese al fine di massimizzare la distribuzione in
direzione del cluster audience occidentale.
La distribuzione della rivista avviene inizialmente attraverso il deep web, da cui viene
prelevata e poi redistribuita attraverso una fitta rete di account di varia natura sia email che
sui social media.
Le finalità primarie della rivista sono quelle relative alla legittimazione dello Stato Islamico e
del Califfato, del reclutamento attraverso la narrativa epica del combattimento contro gli
infedeli e, non ultima, la diffusione della paura e della percezione di ineluttabilità della vittoria
del Daesh.
La rivista è realizzata in modo estremamente professionale, facendo ampio uso di immagini
e grafica realizzata ad hoc per arricchire e corredare gli articoli. Il prodotto è studiato per
essere fruito da diversi utenti finali, eterogenei per credo, cultura ed età, con un occhio di
riguardo alla trasmissione della narrativa della comunicazione strategica del Daesh, che sul
prodotto ha visibilmente investito risorse e capacità.
Le pubblicazioni non hanno seguito una cadenza regolare e questo, secondo gli analisti,
riflette le evidenti difficoltà dello Stato Islamico, soprattutto a partire dagli ultimi mesi del
201541:
- 5 luglio 2015, Il ritorno del Califfato;
- 27 luglio 2014, Il diluvio;
- 10 settembre 2014, Una chiamata all’Egira;
- 11 ottobre 2014, La crociata fallita;
- 21 novembre 2014, Consolidamento ed espansione;
- 29 dicembre 2014, Al Qaeda in Waziristan: una testimonianza dall’interno;
- 12 febbraio 2015, Dall’ipocrisia all’apostasia: l’estinzione della “zona grigia;”
- 30 marzo 2015, la Sharia, da sola, governerà l’Africa;
- 21 maggio 2015, Loro pianificano e Dio pianifica;
- 13 luglio 2015, La legge di Dio e le leggi degli uomini;
- 9 agosto 2015, Dalle battaglie di Al-Azhab alla guerra delle coalizioni;
- 18 novembre 2015, Solo il terrore;
- 19 gennaio 2016, I Radidah, da ibn Saba a Dajjal;
- 13 aprile 2016, La confraternita dei Murtadd;
- 31 luglio 2016, Rompi la croce.
41 Jihadology, http://jihadology.net/category/dabiq-magazine/
59
I media dello Stato Islamico: Rumiyah
Dopo alcuni mesi di ritardo nella pubblicazione di Dabiq, il 6 settembre del 2016 lo Stato
Islamico ha avviato la distribuzione di una nuova rivista dal titolo Rumiyah (Roma in arabo,
ma anche la città dei Rum, bizantini, occupanti di Costantinopoli, in un diretto riferimento
alla caduta dell’impero romano d’Oriente).
La scelta del nome appare sin dal principio volutamente ambigua, volendo allo stesso tempo
lanciare un messaggio al cristianesimo e alla devianza del mondo musulmano, che sarà
sconfitto appunto a Dabiq, luogo della battaglia finale con i Rum.
Non è ben chiaro se la nuova rivista intenda sostituire Dabiq o se al contrario si affiancherà
a questa occupandosi di temi differenti e con un numero decisamente inferiore di pagine,
ed è altrettanto confusa la cadenza che il giornale intende assumere nel prossimo futuro.
Come nel caso di Dabiq, anche Rumiyah è pubblicato in diverse lingue, adottando lo stesso
sforzo iconografico e grafico che aveva caratterizzato la qualità della precedente rivista.
Sono usciti ad oggi cinque numeri della rivista, da settembre del 2016 al gennaio del 2017,
e tutti sono stati caratterizzati dalla natura squisitamente veicolare dei messaggi contenuti,
incitando gli aderenti a colpire le comunità di infedeli in diversi modi (coltello, camion, ecc.)
fornendo indicazioni utili sul come massimizzare l’effetto dell’attacco.
La rivista sembra quindi rispondere non più primariamente alle esigenze di comunicazione
e legittimazione dello Stato Islamico, quanto ad incitare all’azione gli aderenti e i
simpatizzanti, dimostrando di essere uno strumento di comunicazione adottato per
rispondere alle impellenti esigenze di protezione dell’integrità territoriale ed organizzativa
del Daesh.
La pubblicazione è stata lanciata nel momento di maggiore difficoltà per lo Stato Islamico
soprattutto in Iraq, in conseguenza del successo nell’avanzata delle truppe dell’esercito
regolare iracheno sia nella provincia dell’Anbar che in quella di Ninive, con l’inizio di un
assedio a Mosoul che potrebbe prefigurare il collasso generale del Califfato in Iraq e
conseguentemente in Siria. Non in pochi sono quindi convinti che la nuova rivista sia stata
concepita e distribuita attraverso i tradizionali canali del deep web, allo scopo di incitare alla
lotta nel disperato tentativo di assicurare ancora la protezione degli interessi e della struttura
del Daesh, per la prima volta terribilmente in pericolo sotto i colpi dell’attacco sferrato dagli
iracheni e dalle forze della coalizione internazionale42.
42 McKernan, Bethan, “Isis’ new magazine Rumiyah shows the terror group is struggling to adjust
to losses’”, Independent, 6 settembre 2016.
60
PARTE IV
Contropropaganda e risposta alla capacità tecnico-organizzativa dell’ISIS in termini
di comunicazione
La risposta alla capacità dell’ISIS sul piano della comunicazione strategica e della
competenza tecnico-artistica di produzione dei supporti mediatici deve avvenire
necessariamente all’interno di un triplo binario, economico, cinetico e ideologico.
Obiettivo di questo studio è l’approfondimento del terzo piano di intervento, sebbene per
completezza si affronterà anche un rapido accenno iniziale alle differenti opzioni praticabili
sul piano economico e cinetico.
L’obiettivo generale dell’azione sul piano ideologico è invece rappresentato dalla sfida da
un lato per ideare un profilo di contro-narrativa ideologico-religiosa e dall’altro per creare un
modello comunicativo altrettanto efficace per veicolare messaggi e proposte ad un target
audience vasto ed eterogeneo per cultura, età, fede ed esperienza.
Solo una pluralità di fattori, come detto, può concorrere nel tentativo di competere con il
modello attrattivo dello Stato Islamico, favorendo una traslazione dei suoi simpatizzanti ed
aderenti in direzione di un progetto politico e sociale alternativo a quello del Califfato.
È quindi opportuno ricordare chiaramente quali siano le principali cause che hanno
determinato il successo dell’ascesa dell’ISIS, insistendo ancora una volta sul fattore
geografico che vede limitato all’Iraq, e in subordine alla Siria, il radicamento effettivo
dell’organizzazione.
Le principali cause che hanno favorito la nascita e il consolidamento dello Stato Islamico
sono otto, da individuarsi più precisamente in:
- collasso o indebolimento degli apparati governativi;
- decadimento del sistema economico-produttivo;
- incremento della disoccupazione e dell’emigrazione;
- incremento della violenza e della conflittualità;
- ascesa di nuove élite politico-militari, economiche e sociali;
- ricorso al settarismo come strumento di dominazione politica;
- incremento del tribalismo e del settarismo confessionale;
- decadimento del pluralismo politico e dei valori democratici.
L’insieme di questi fattori è peraltro il risultato di un processo di transizione da una fase
politica caratterizzata da un lungo periodo di autoritarismo e conflittualità, sia interna che
regionale, in conseguenza della quale l’Iraq in particolar modo aveva patito un costante
declino economico.
61
La nascita e lo sviluppo dell’ISIS sono quindi il prodotto delle aspettative frustrate dalla
mancata transizione pluralista e democratica una volta vinto l’autoritarismo e l’emergere
invece del settarismo e di una violenza repressa da anni di mancato sviluppo delle più
elementari regole della democrazia.
Per combattere il fenomeno del radicalismo islamico, sorto e sviluppatosi come alternativa
al caos e al vuoto lasciato dalla mancata capacità di garantire una effettiva transizione, è
quindi chiaro che deve essere fornita una risposta credibile che non sia basata solo ed
esclusivamente su programmi di sostegno alla sicurezza (security centered) ma al contrario
impostata sulla soddisfazione di tutte le esigenze primarie della società locale, fornendo
quelle garanzie che rendono insostenibile il paragone con il modello violento offerto dal
jihadismo e dal settarismo.
Ambito generale d’azione nel contrasto al modello narrativo dello Stato Islamico,
elaborazione dell’autore.
La risposta economica e cinetica alla capacità attrattiva dello Stato Islamico
I principali problemi delle società interessate da fenomeni di radicalizzazione sono
solitamente quelli di natura economico-occupazionale e socio-integrativi, che danno luogo
alla verticalizzazione delle sperequazioni di censo e alla progressiva cristallizzazione della
capacità d’innovazione sul piano economico e produttivo, sfociando quindi in violenza e
partizione dei gruppi sociali in ambiti distinti e solitamente conflittuali tra loro.
Sebbene il presente studio si interessi della componente ideologico-comunicativa del
problema connesso al contrasto al modello attrattivo dello Stato Islamico, non può non
essere fatta menzione delle altre due componenti necessarie al completamento di un piano
62
complessivo di contrasto allo Stato Islamico, soprattutto in conseguenza del fatto che una
efficace campagna di contro-informazione deve non solo contrastare il modello avversario
ma anche e soprattutto saper comunicare la propria strategia d’azione che, per l’appunto,
si compone anche di una fase cinetica ed una di intervento economico-sociale.
La competizione con lo Stato Islamico non può quindi avvenire attraverso una sola delle tre
fasi di intervento, e soprattutto non può e non deve essere security centered, e quindi
sviluppata principalmente intorno all’azione cinetica delle componenti militari.
Per combattere lo Stato Islamico sul piano sociale, sottraendo terreno sul piano
dell’attrattiva ideologica, sociale e della sicurezza, è necessario offrire un contro-modello di
forza ed impatto ben superiore, costruito sull’attrattiva della stabilità e della prosperità (qui
si parla di radicalizzazione in Iraq e Siria, vero?).
L’innumerevole mole di studi sulla società mediorientale, e quella irachena in particolar
modo, dimostra come il principale ostacolo alla normalizzazione e alla stabilità è dato
dall’impossibilità di riavviare un meccanismo virtuoso di partecipazione politico-sociale,
abbinato alla mancanza di risorse per la ripresa delle attività economico-produttive.
L’insieme di questi due fattori deve quindi rappresentare il primo tassello di una progettualità
internazionale di intervento costruita sulla effettiva ed efficace ristrutturazione del tessuto
economico, quale elemento di base per la riconnessione di quello sociale, al fine di ristabilire
un sistema di partecipazione politica basato sul pluralismo e sul riconoscimento della
legittimità sociale e politica delle controparti ideologiche, etniche o tribali.
Nessuna ipotesi di intervento può esulare dall’obbligato passaggio attraverso la fase della
riprogettazione economico-produttiva.
Nel caso dell’Iraq, che rappresenta il vero e proprio ambito politico e sociale dove lo Stato
Islamico è sorto e si è sviluppato, la capacità di intervento sul piano economico-produttivo
si presenta ipoteticamente facilitata dalla ricchezza di risorse minerarie del paese, in
particolar modo nel settore degli idrocarburi, potenzialmente utile a fornire il necessario
volano finanziario per la ricostruzione dell’economia nazionale.
L’economia degli idrocarburi costituisce anche elemento di pericolo per la eventuale
trasformazione in rentier state43 delle entità statuali che non riuscirebbero poi ad avviare
reali processi di diversificazione economica e produttiva. Per scongiurare tale possibilità è
necessaria una programmazione di sviluppo orientata alla progressiva diversificazione
attraverso l’investimento in settori non oil-centered della produzione.
43 L’espressione rentier state indica quegli Stati che traggono il loro PIL (in tutto o per buona parte
di esso) dalla rendita assicurata dalla vendita delle risorse naturali locali, come ad esempio gli idrocarburi. Il rentier state è quindi lo “Stato redditiere”, che per definizione beneficia senza progettazione per il futuro (diversificazione) delle proprie ricchezze naturali.
63
Il primo piano d’azione per il contrasto al fenomeno del radicalismo islamico in Iraq deve
quindi transitare necessariamente attraverso una riprogettazione delle prerogative di
sviluppo economico ed industriale del paese, formulando strategie costruite sui proventi del
petrolio ma adattandole alla realtà di un paese che ha impellente esigenze di diversificare
in direzione di altri settori della produzione, soprattutto al fine di incrementare l’occupazione
che invece si presenta in costante calo nei settori tecnologici ad elevata automazione.
La conformazione geomorfologica dell’Iraq, con la compresenza di zone aride e secche e
zone umide e fertili, potrebbe favorire lo sviluppo da un lato di una poderosa produzione
agricola e dall’altro di un contestuale sviluppo industriale in settori terzi rispetto al comparto
oil&gas, come ad esempio quelli del manifatturiero44, dell’automotive e dei servizi.
L’Iraq ha una radicata tradizione scolastica che aveva permesso nel corso del tempo il
consolidamento di una struttura di educazione superiore e universitaria di livello elevato,
come nel vicino Iran, su cui sarebbe possibile ricostruire non solo una classe dirigente
capace e preparata ma anche un settore della manodopera altamente qualificato.
La priorità dei processi di sviluppo economico deve quindi essere costruita sulla
diversificazione industriale e sull’incremento esponenziale dell’offerta di lavoro, che
rappresentano gli unici antidoti per una efficace campagna di contrasto al modello radicale
del jihadismo e della violenza politica.
Non è tuttavia pensabile alcuna azione concreta in direzione di qualsiasi ipotesi di sviluppo
economico senza una reale capacità di allargamento della base politica in chiave pluralista
e partecipativa.
Il principale errore commesso dalla comunità internazionale nella conduzione delle attività
che hanno portato alla caduta di Saddam Hussein e alla nascita del nuovo Iraq e stato quello
di accettare – se non addirittura favorire – il senso di rivalsa della comunità sciita dopo i
lunghi e sanguinosi anni della dominazione sunnita del partito Ba’th.
La necessità di cancellare l’esperienza ba’thista e soprattutto l’eredità della lunga gestione
del potere da parte di Saddam, ha determinato l’instaurazione di un sistema
concettualmente simile, gestito questa volta dalla componente maggioritaria e storicamente
vessata nell’esercizio del potere.
È stato soprattutto il premier Nouri al Maliki ad esasperare la relazione tra la comunità sciita
e quella sunnita, attraverso abusi, vessazioni ed arbitrarie formule di convivenza che hanno
alla fine destato dal torpore in cui erano congelate da anni le tendenze più estremiste e
44 Nella sua più ampia accezione.
64
radicali della componente sociale sunnita, dando vita dapprima alla locale espressione del
qaedismo e poi ad una ancora più radicale e violenta espressione dell’islamismo salafita.
È quindi evidente come sia necessario investire su una progettualità partecipativa ed
inclusiva, del tutto cancellata dalla memoria collettiva irachena nel corso degli ultimi
quarant’anni circa, al fine di sviluppare – difendendolo strenuamente – un senso di
appartenenza comune che superi anche gli angusti margini del nazionalismo favorendo un
concezione universalistica della gestione del potere politico e dell’amministrazione dello
Stato.
Progetto certamente non facile, soprattutto all’interno di una matrice sociale così degradata
e polarizzata dal problema della sicurezza.
È quindi in quest’ambito che si apre uno spazio per la risposta di tipo cinetico che gli apparati
della sicurezza possono assicurare con efficienza e successo, senza tuttavia mai assurgere
a piano primario dell’intervento necessario.
L’azione degli apparati di sicurezza, esogeni ed endogeni al contesto nazionale iracheno o
regionale, può quindi articolarsi in due distinte direzioni, di cui l’una visibile e percepibile
attraverso l’uso dello strumento militare e l’altra discreta e invisibile attraverso lo strumento
dell’intelligence.
Il piano cinetico su cui è necessario investire transita attraverso la necessità di dimostrarsi
militarmente più forti ed efficienti dell’avversario, l’essere espressione della componente
legittimata a governare e ad assicurare l’azione repressiva e di vigilanza, ma soprattutto
attraverso la capacità di colpire tanto discretamente quanto chirurgicamente i centri
nevralgici del sistema logistico organizzativo avversario.
Gli obiettivi sensibili che è necessario individuare ed eliminare nella catena del valore
dell’apparato propagandistico dello Stato Islamico sono i vertici del sistema di gestione
dell’apparato informativo e propagandistico, certamente individuabili nella struttura dell’Al
Hayat quanto in quella dell’Amaq. L’obiettivo primario di qualsiasi azione sul piano militare
e dell’intelligence deve tuttavia essere rivolto in primo luogo a quella cerniera di raccordo
con il potere religioso e politico dove operano professionalmente gli strateghi della
comunicazione e della divulgazione dottrinale in modo da impedire, ad una bene
organizzata struttura di base, l’accesso all’informazione e ai prodotti della narrativa
collettiva, svuotando in tal modo il contenitore del prodotto.
In tal senso rappresentano vittorie di non poco conto sia l’eliminazione lo scorso 30 agosto
di Abu Muhammad al-Adnani, portavoce del Califfato e pianificatore di primo livello
dell’organizzazione, sia l’eliminazione il 16 settembre scorso di Wail Adil Hasan Salman al-
65
Fayad, di fatto una sorta di ministro dell’informazione del Califfato, cui competeva ampia
parte della definizione della comunicazione strategica dell’organizzazione.
Queste due selettive operazioni dimostrano come l’apparato dell’intelligence e della difesa
statunitense abbiano con molta chiarezza e linearità affrontato il problema della
competizione nella narrativa sociale e del conflitto, individuando ed eliminando le sorgenti
intellettuali della strategia propagandistica dell’organizzazione.
L’altro vasto ambito di competizione sul piano cinetico è rappresentato dal deep web e dalla
capacità di gestione di un conflitto digitale che si articola attraverso la distruzione fisica dei
contenuti dell’avversario e la contestuale capacità di diffusione di una contro-narrativa
costruita tuttavia sui solidi pilastri di una riprogettazione economica e politica del paese45.
Il vero tallone d’Achille di chi svolge oggi questa complessa operazione di cyberwar è quindi
rappresentata dalla mancanza di elementi oggettivi da immettere nel circuito
dell’informazione e della propaganda, a causa dell’incapacità del sistema politico ed
economico di definire condizioni attrattive per le componenti del jihadismo e più in generale
delle comunità che rappresentano le minoranze etniche e religiose del paese46.
Il limite espresso dalla capacità cinetica e tecnologica è quindi oggi essenzialmente
riassunto in questi brevi ma esaustivi termini: mancanza di un reale messaggio di contro-
narrativa.
La risposta ideologica alla narrativa dello Stato Islamico
La risposta allo strumento propagandistico e della comunicazione strategica dello Stato
Islamico non può che transitare attraverso una pluralità di azioni sintetizzate nell’ambito di
una strategia chiara e facilmente comprensibile da parte dei ricettori.
Il primo vantaggio strategico della comunità internazionale è certamente dato dalla minore
ampiezza del target audience rispetto a quello cui si rivolge al contrario la propaganda del
Daesh. I paesi occidentali, infatti, possono concedersi la facoltà e il vantaggio di non
investire in comunicazione strategica nei confronti delle proprie target audience culturali
nazionali, potendo quindi concentrare lo sforzo comunicativo sulle sole comunità sociali e
culturali – in parte omogenee – delle aree sotto il controllo dello Stato Islamico e quelle
oggetto della propaganda riferita al reclutamento (e quindi anche il proprio territorio
nazionale, sebbene in direzione di cluster più limitati rispetto a quelli dell’avversario)47.
45 Turkel, Dan, “The US military has a new plan to fight ISIS – and it starts with making the group
‘extremely paranoyd’”, Business Insider UK, 26 aprile 2016. 46 “Why it’s so difficult to counter ISIS on social media”, CBS News, 23 giugno 2015. 47 Tucker, Patrick, “America’s New Plan to fight ISIS Online”, Defense One, 11 gennaio 2016.
66
La vera difficoltà per la definizione della strategia di contro-narrazione da impiegare contro
lo Stato Islamico, come già detto, risiede nella necessità di poterla costruire su una
progettualità economica e sociale che prescinde la mera azione comunicativa, di fatto
implicando la sussistenza di elementi materiali e tangibili da porre come contropartita
all’adesione al modello sociale rappresentato dallo Stato Islamico.
In assenza di tali elementi, la contro-narrativa rischia di essere contro-produttiva ed auto-
referenziale, con il concreto rischio non solo di fallire l’obiettivo ma di rinvigorire quella
dell’avversario48.
Alla luce di questa necessaria premessa, quindi, è possibile formulare alcune proposte per
la costruzione di una strategia di contrasto alla pervasività e alla capacità attrattiva dello
Stato Islamico, individuando priorità ed elementi narrativi adeguati all’esigenza di
mutamento dell’orientamento della target audience.
a. Ideazione di un piano contro-narrativo
Se è vero che l’ISIS ha saputo costruire una narrativa basata su un’interpretazione
dottrinale che – per le ragioni più disparate – è riuscita ad attrarre numerosi
simpatizzanti tra le sue fila, è altrettanti vero che questa narrativa è non solo debole sul
piano teologico ma anche soprattutto osteggiata in seno alla più vasta ed ampia
comunità musulmana globale.
È quindi necessario canalizzare i termini di questa contro-narrativa islamica ostile
all’ISIS all’interno di un circuito distributivo che ne valorizzi la conoscenza e la diffusione,
costruendo su questo una percezione allargata e maggioritaria del messaggio.
Un ruolo fondamentale hanno sino ad oggi svolto coloro che spiegano – soprattutto
attraverso video diffusi in chiaro su Youtube49 – i limiti dell’interpretazione dottrinale del
Califfato, riconducendo invece l’utente al piano teologico originale del Corano e degli
studiosi più accreditati e conosciuti, che offrono non solo il giusto quadro entro cui
collocare la dottrina ma soprattutto aiutano ad interpretare, in una chiave sociale
moderna ed adeguata, le più diverse tematiche.
Ne deriva chiaramente la necessità di individuare, sostenere e finanziare lo sviluppo di
una rete capace di promuovere il ruolo di giuristi e teologi capaci di fornire e legittimare
una lettura corretta delle sacre scritture e della loro interpretazione, definendo quindi un
48 Weinstein, Adam, “Here’s how the US should fifght ISIS with social media”, Wired, 3 dicembre
2015 49 “Strategic Communications”, Op.Cit.
67
piano di solidità intellettuale e teologica da porre con forza all’apice di qualsiasi altro
piano di dibattito.
Si tratta, in sintesi di imporre la legittimità dell’erudizione e di una lettura del corano che
si discosti pienamente e decisamente da quell’interpretazione wahhabita che al
contrario costituisce il cuore del problema nel rapporto con il jihadismo e l’estremismo.
Tale piano contro-narrativo rischia di porsi in diretta contrapposizione tuttavia con quello
proposto da numerosi paesi alleati dell’occidente, tra cui in primo luogo l’Arabia Saudita
che, nel silenzio più assoluto della comunità internazionale, permette la divulgazione di
un’interpretazione della teologia islamica basata su un concetto antiquato, settario,
violento e fazioso.
Deve quindi essere chiaro come la costruzione di una strategia contro-narrativa possa
incontrare – e quasi certamente incontrerà – ostacoli di natura politica e diplomatica che
dovranno essere risolti con coraggio e determinazione da parte della comunità
internazionale, chiamando alle loro responsabilità quei paesi – anche alleati – che
hanno contribuito alla divulgazione, promozione e al finanziamento della concezione più
radicale e primitiva dell’Islam.
Lo sviluppo di una contro-narrativa deve essere anche impostato allo sviluppo di una
concezione inclusiva e non settaria dell’approccio dottrinale, riconoscendo anche in
questo caso i principi fondanti dell’Islam come imperativi e delegando ad interlocutori
autorevoli e benigni la divulgazione del messaggio in direzione dei credenti.
È necessario sostenere con vigore e con coraggio quelli che in gran parte mondo
musulmano sono i più moderni veicoli della contro-narrativa al Califfato, soprattutto
all’interno delle fasce giovanili, costruita ad esempio su un forte ruolo della satira o
dell’informazione. Queste tipologie narrative sono risultate estremamente popolari in
Medio Oriente, dove la satira gode di una lunga e radicata tradizione soffocata solo in
tempi recenti dall’oscurantismo di matrice wahhabita e salafita.
Parimenti potente e pervasivo è il settore dell’informazione, inteso come
approfondimento dei grandi temi di interesse politico, economico e sociale, attraverso il
quale le masse di giovani musulmani possono affrontare con serenità il dibattito di temi
spesso trattati come tabù all’interno delle comunità periferiche e provinciali.
La produzione di contenuti in queste direzioni, abilmente veicolati attraverso i social
media e i tradizionali canali di diffusione dell’informazione (televisione, radio, internet,
carta stampata, ecc.), possono avere un impatto devastante non solo nel contrastare il
ruolo dell’ISIS o di Al Qaeda, ma anche e soprattutto nel porsi come alternativa a quel
68
bigottismo che ancora permea la gran parte delle produzioni locali in Medio Oriente o
nelle comunità della diaspora.
Se un insegnamento l’ISIS ha effettivamente lasciato, questo è quello della necessità di
innovare il messaggio e renderlo fruibile ed appetibile attraverso una complessiva
modernizzazione delle tecniche di produzione e diffusione.
La risposta deve quindi seguire questo percorso nell’ideare e realizzare una contro-
narrativa che sia costruita su canoni estetici e contenuti effettivamente appetibili per la
target audience di riferimento, legittimati dal riconoscimento degli esponenti più
autorevoli della dottrina religiosa e diffusi mediante gli strumenti maggiormente adeguati
a soddisfare i criteri di lettura delle più giovani generazioni.
La contro-narrativa, per essere efficace, deve infine interessarsi dei grandi temi di natura
politica, economica e sociale, fornendo un chiaro quadro di indirizzo entro cui
racchiudere i limiti di ciò che è lecito ed accettabile.
Questo obiettivo non può chiaramente essere raggiunto in assenza di una parimenti
omogenea e credibile strategia politica inclusiva e partecipativa sul piano della politica
reale, con l’adozione di meccanismi che incoraggino all’adesione ed al sostegno delle
legittime entità amministrative dello Stato.
Nel febbraio del 2015, infine, il Consiglio per gli Affari Esteri dell’Unione Europea ha
definito un nuovo piano di comunicazione strategica, costruito in parte su una contro-
narrativa diretta al mondo arabo nell’intento di contrastare la prevalente narrativa
jihadista. Il progetto ha dato vita a quella che è stata nominata la Arab StratCom Task
Force50, il cui scopo è quello di contrastare il fenomeno del radicalismo e di favorire il
dialogo con l’Europa attraverso la public diplomacy e la comunicazione.
Si tratta di un progetto concettualmente interessante ed idealmente utile, costruito
tuttavia senza alcuna convinzione, senza staff e senza reali risorse economiche ed
operative atte a dare sostanza e continuità all’idea. Dimostrando ancora una volta come
l’Occidente non sia ancora riuscito a concepire e realizzare efficaci azioni a sostegno di
una contro-narrativa strategica che possa avere qualche credibile opportunità di
contrasto nei confronti di quella jihadista.
50 “EU strategic communication with the Arab world”, Briefing, European Parliamentary Research
Service, maggio 2016.
69
b. Reinserimento degli ex combattenti
Lo Stato Islamico ha avuto un’indubbia capacità attrattiva all’interno delle proprie fila,
lavorando su più leve motivazionali che spaziano dal mero interesse economico alla più
convinta condivisione degli ideali di lotta e di adesione al modello politico del Califfato.
Un progetto di contro-narrativa del Califfato deve quindi cercare prioritariamente di
drenare quanto più possibile la componente combattente del Daesh, definendo percorsi
di reintegrazione che consentano a chi è oggi disamorato dal modello jihadista o più
semplicemente privo di alternativa di poter trovare le necessarie spinte motivazionali
per abbandonare l’organizzazione e cercare il pieno reinserimento nella società.
Questi programmi non sono nuovi né particolarmente complessi da realizzare, ma
devono transitare attraverso una precisa valutazione dei limiti giuridici entro cui possono
essere funzionali e gestibili per l’offerente. È necessario quindi comprendere entro quali
limiti la comunità è interessata e disposta ad accettare il ritorno di individui che – nella
migliore delle ipotesi – si sono macchiati di orrendi crimini e che dovrebbero quindi
essere garantiti da una sorta di amnistia, o perdono, che consenta loro il pieno e
completo reingresso nella società.
Non è infatti ammissibile lanciare programmi di reinserimento che possano poi essere
frustrati dalla necessità o dall’opportunità di limitare la libertà degli individui che
accettano l’offerta di reintegrazione, come l’esperienza sul pentitismo insegna. Né è
facile definire i termini giuridici e morali entro i quali tale offerta possa essere formulata
senza destare effetti controproducenti nella società.
Ciononostante, i programmi di reinserimento sono strategicamente importanti sia per
drenare forze combattenti alla controparte, sia per acquisire informazioni utili al suo
contrasto, determinando sempre un vantaggio competitivo che deve trovare giusto
bilanciamento con l’esigenza di garantire la supremazia del diritto e della legge.
Nel caso del Daesh, i programmi possono essere gestiti su una base multipla, in grado
quindi di offrire soprattutto ai foreign fighters reinserimenti selettivi in Occidente o, dove
non possibile, in selezionati paesi della regione in cui sia possibile ipotizzare un minore
impatto sociale del reingresso di un ex criminale nella società.
L’esperienza della Somalia e del poderoso drenaggio di miliziani dai ranghi dell’Al
Shabaab a quelli dell’esercito federale, costituisce sicuramente un ottimo esempio di
come – nonostante i problemi connessi alla corruzione somala e al parziale successivo
fallimento del progetto – sia possibile prevedere percorsi di reingresso sociale costruiti
su una sorta di compromesso definito nell’ambito del più generale interesse nazionale.
70
c. Promozione degli obiettivi di integrazione professionale e sociale
La principale attrattiva che un programma di contro-narrazione può veicolare all’interno
della target audience di riferimento è certamente riferita alle possibilità di integrazione
professionale e sociale offerte e garantite dalle autorità legittime e sovrane del paese.
L’obiettivo della comunicazione strategica deve quindi fortemente puntare ad offrire un
modello competitivo di vita professionale e sociale, costruito sull’immagine di una
serenità che permetta l’integrazione all’interno di una dimensione umana non
caratterizzata dalla violenza e dal sopruso. Un modello esistenziale competitivo quindi
con quello dello Stato Islamico, in ogni caso estraneo alla cultura e alle ambizioni della
gran parte della popolazione, tenuto in piedi dalla sola forza militare e dalla brutalità di
un sistema punitivo che scoraggia il dissenso.
Al contrario, la promozione dei valori dell’integrazione deve puntare a fornire
un’immagine del contesto sociale del tutto differente, stridente per qualità e contesto
rispetto a quella del Califfato, e quindi decisamente preferibile.
Per poter offrire tutto ciò nell’ambito di una nuova progettualità narrativa, tuttavia, è
necessario costruire realmente un modello che permetta da un lato l’integrazione
sociale e dall’altro la capacità di sviluppo professionale, senza ingenerare frustrazioni
dagli effetti decisamente contro-produttivi.
L’esperienza della Tunisia insegna infatti come buona parte dei molti giovani che hanno
lasciato la provincia di Kasserine e dei villaggi delle regioni centromeridionali per unirsi
alle forze dell’ISIS sui monti Chambi o in Libia, hanno effettuato questa scelta non in
ragione di un processo di radicalizzazione quanto in conseguenza dell’insostenibilità
determinata dalla crisi economica e dalla disoccupazione.
Il vantaggio competitivo dell’ISIS è quello di rappresentare per molti una sponda
occupazionale certa, costituendo in tal modo un modello attrattivo ben più forte di
qualsiasi narrativa politica costruita sulle buone intenzioni ma sull’assenza di sbocchi
integrativi e professionali.
In tal senso, quindi, la comunità internazionale deve mutare il proprio approccio di
cooperazione regionale transitando dal sostegno economico canalizzato all’interno di
programmi security centered (cooperazione militare, vendita di armi ed
equipaggiamenti, addestramento, ecc.) verso quelli di cooperazione economica per la
promozione delle attività produttive ed industriali, con una strategia mirata
71
all’incremento dell’occupazione e alla crescita economica delle aree oggetto di
intervento51.
La cooperazione militare deve quindi transitare all’interno di un quadro di sostegno
secondario, abbattendo definitivamente l’antiquato quanto improduttivo concetto di
“security first”.
d. Lotta al settarismo, tribalismo e fazionalismo
Sebbene la storia non si faccia con i “se”, sono in molti a chiedersi nella comunità degli
analisti se lo Stato Islamico sarebbe mai sorto in Iraq in assenza di quelle politiche
settarie e miopi attuate soprattutto dal governo di Nouri Al Maliki nei confronti della
componente sociale sunnita.
Le principali responsabilità occidentali nella condotta delle azioni che portarono alla
dissoluzione del partito Ba’th e al sorgere di una nuova realtà istituzionale di fatto
controllata dalla maggioranza sciita sono sicuramente ascrivibili da un lato all’assenza
di qualsiasi sforzo per la promozione del pluralismo e dell’inclusività, e dall’altra
all’annientamento dell’impalcatura amministrativa dello Stato, determinando un
azzeramento totale e repentino dell’immagine stessa dello Stato e della sua
rappresentatività complessiva sul piano nazionale.
A questo errore si è sommato quello di aver dato libero sfogo ad una sorta di rivalsa
confessionale e politica costruita sulla punizione dell’avversario (nell’immagine di un
Ba’th sunnita che esigeva quindi una vendetta sull’intera comunità) e sull’applicazione
della purtroppo ricorrente concezione locale del potere politico in osservanza della
regola dello “zero sum game52”.
L’intervento della comunità internazionale deve quindi oggi spingersi in direzione di
un’azione di lobbying a favore di riforme costituzionali che prevedano l’inclusività e
l’apporto del criterio proporzionale, favorendo in tal modo un ruolo attivo e non
perennemente minoritario dei gruppi etnici e confessionali che non rappresentano la
maggioranza demografica del paese.
La ricerca di un sistema di convivenza politica allargata e partecipativa deve
rappresentare l’obiettivo primario della lotta al settarismo e all’emergere di quei
fenomeni del radicalismo che ne sono la più diretta espressione, imponendo criteri
51 Burwell, Frances G., Hawthorne, Amy, Mezran, Karim, Miller, Elissa, “A transatlantic strategy
for a democratic Tunisia”, Atlantic Council, Giugno 2016 52 Per zero sum game (letteralmente “gioco a somma zero”) si intende la strategia di governo
esclusivo, e quindi ad eliminazione dell’avversario.
72
partecipativi laddove la cultura politica locale li rifiuta per tradizione o per uso
consolidato.
Al tempo stesso deve essere evitato l’errore di intervenire nel processo di selezione
locale delle élite e delle formazioni politiche attraverso l’imposizione di canoni e limiti
che soddisfano il solo interesse di alcuni paesi occidentali. L’ingerenza che ha portato
ad esempio alla criminalizzazione del Fronte Islamico di Salvezza algerino prima, e della
Fratellanza Musulmana egiziana poi, deve costituire un monito ferreo su cui costruire i
limiti impenetrabili della futura capacità di partecipazione dell’Occidente alle dinamiche
politiche e sociali locali, nell’intento di promuovere un’evoluzione – e conseguentemente
una crescita – non condizionata delle componenti ideologiche locali del Medio Oriente.
Tra le più nefaste conseguenze di questa politica di ingerenza è certamente da
segnalare il locale diffuso credo secondo cui l’impegno politico non ha alcuna
prospettiva ed utilità se costruito al di fuori degli schemi tollerati dai paesi occidentali.
Convinzione che – giusta o sbagliata che sia in termini di veridicità – ha determinato il
mancato ingresso sulla scena politica di un’enorme massa di individui disillusi ma
potenzialmente utili al fondamentale processo di rinnovamento delle élite locali.
e. Costruzione di modelli partecipativi giovanili
L’Iraq, così come la Siria e la gran parte dei paesi della regione, è caratterizzato da una
piramide demografica alla cui base si colloca una enorme massa giovanile, che, se
calcolata nella fascia di età compresa tra 0 e 35 anni, rappresenta oltre il 60% della
popolazione nazionale.
La gran parte di questa massa giovanile vive all’interno delle principali aree urbane del
paese, ha ricevuto un’istruzione mediamente avanzata e di buona qualità e vive nella
stessa abitazione della famiglia.
Il tasso di disoccupazione dell’Iraq è oggi pari a poco più del 16% (tasso ufficiale), in
netto miglioramento rispetto a quasi il 30% del 2004, sebbene in aumento rispetto alla
media del 15% degli anni compresi tra il 2008 e il 2105. Il tasso di disoccupazione sale
tuttavia di almeno dieci punti percentuali se il margine di indagine si sposta su una fascia
d’età compresa tra 0 e 25 anni, riflettendo proporzioni simili a quelle della maggior parte
dei paesi della regione ed indicando con chiarezza la presenza di un vasto segmento
della popolazione del tutto escluso dal mercato economico e produttivo, altamente
demotivato e senza alcuna reale prospettiva per il futuro.
73
Ha pescato a piene mani in questa fascia di popolazione il jihadismo, che ha saputo
offrire guadagni e prospettive a migliaia di giovani disoccupati ed emarginati dalla vita
politica ed economica del paese.
Le strategie di contro-narrativa necessarie oggi in Iraq e in Siria devono tener conto di
questo fattore in modo prioritario, costruendo un linguaggio e una strategia di
coinvolgimento che sia effettivamente in grado di essere percepita come un’alternativa
valida e praticabile, che apra sbocchi professionali ma anche percorsi partecipativi
all’interno della dinamica politica ed amministrativa del paese, nell’ottica di un
rinnovamento generazionale atto a favorire le prerogative delle componenti giovanili.
La comunicazione verso le fasce più giovani della popolazione è per sua natura
complessa, e deve essere veicolata attraverso gli strumenti che effettivamente
rappresentano il veicolo primario di accesso alle fasce giovanili, come i social media e
le app della telefonia mobile.
Mai come oggi appare necessario avvicinare i giovani alla partecipazione politica e alla
costruzione delle linee generali di sviluppo della politica nazionale, cancellando
l’immagine di una società gerontocratica e verticista che impedisce qualsiasi
contaminazione generazionale al di fuori della fascia di controllo delle istituzioni.
La comunità internazionale dovrebbe impegnarsi in questo complesso ambito
demografico portando innovazione e sviluppo, capacità partecipativa e
rappresentatività, aprendo a programmi che favoriscano l’ingresso nelle strutture
politiche e di gestione amministrativa, lavorando sul sociale e sulla possibilità di
perseguire interessi sociali allargati ma riconducibili a fasce d’età giovanili.
Una poderosa ripresa dell’associazionismo sportivo e artistico è inoltre auspicabile nel
paese, dopo quasi due decenni di totale collasso di qualsiasi organizzazione atta alla
promozione di tali ambiti.
Ipotesi di sviluppo di una contro-narrativa a sostegno delle missioni condotte dalle
FFAA in teatro operativo
Tra le principali missioni d’impiego del personale militare delle FFAA italiane all’estero, un
numero significativo di queste è condotta in paesi caratterizzati demograficamente da una
società a maggioranza confessionale musulmana.
Tale caratteristica ha imposto nel corso del tempo significativi adeguamenti nella capacità
di operare in questi contesti, quali banalmente l’impiego di personale con competenze
linguistiche adeguate, esperti d’area con conoscenze politiche, sociali e religiose, mediatori
e molte altre figure professionali.
74
L’istituzione delle funzioni CiMiC e PsyOp ha rappresentato un ulteriore tassello di questa
capacità innovativa, determinando standard operativi comuni sul piano internazionale nella
gestione di alcune tra le più importanti azioni a sostegno del ruolo e della sicurezza delle
missioni in teatro operativo.
Se da un lato, tuttavia, questa capacità innovativa ha apportato un notevole contributo alla
gestione delle missioni internazionali, l’assenza in numerose strutture militari di veri e propri
percorsi di carriera specificamente costruiti su queste nuove professionalità ha portato in
alcuni casi alla dispersione delle capacità stesse e alla perdita di una expertise replicabile e
trasmissibile.
Quello che rappresenta spesso un ulteriore elemento di debolezza nella conduzione dei
programmi di cooperazione culturale sul terreno dei teatri operativi è la scarsa capacità di
cooperazione tra enti militari e civili nei programmi di lungo periodo. Se l’esperienza, ad
esempio, di Radio West in Kosovo può essere certamente inserita nei modelli di successo
da cui trarre ispirazione – avendo permesso non solo una collaborazione continuativa tra
enti militari e rappresentanze civili, ma avendo anche permesso il successivo trasferimento
al contesto locale del progetto stesso – molte sono al contrario le iniziative di CiMiC o PsyOp
che, seppur efficaci nella loro individualità, restano purtroppo isolate ed uniche senza la
possibilità di apportare significativi risultati nel medio e nel lungo periodo.
L’esperienza delle missioni condotte dalla FFAA italiane nel corso dell’ultimo decennio, al
contrario, ha dimostrato l’assoluta necessità di instaurare relazioni continuative e costruttive
con la comunità locale, ingaggiandola attraverso una progettualità congiunta atta a garantire
non esclusivamente la realizzazione di opere e infrastrutture ma anche a favorire la
produzione di servizi sociali innovativi e necessari.
In tal ambito, quindi, si registra certamente la necessità di coordinare le attività CiMiC e
Psyop in funzione anche dell’esigenza di costruire una contro-narrativa dottrinale che abbia
come scopo primario quello di impedire – o in ogni caso limitare – il proliferare dei processi
di radicalizzazione all’interno delle fasce sociali presenti nel territorio di operazione dei
contingenti.
Tale azione non può prescindere dall’individuazione degli attori rilevanti sul terreno (key
leaders o key players) nell’ambito delle organizzazioni teologiche e religiose, attraverso un
pre-screening delle strutture stesse, una loro gerarchizzazione e l’individuazione delle
componenti potenzialmente ostili (potentially hostile actors).
La completa mappatura del tessuto ideologico-confessionale costituisce pre-requisito
necessario per la selezione delle controparti, che deve tuttavia transitare attraverso una
necessaria ricognizione della realtà sociale e della sua accettazione.
75
In estrema sintesi, deve essere abbandonato il modello di selezione e scelta basato
esclusivamente sulla rispondenza dei desiderata del committente, comprendendo come le
controparti debbano prima di tutto essere accettate, apprezzate e gradite dal proprio
contesto sociale di riferimento.
L’engagement di esponenti della comunità teologico-religiosa si presenta come un’attività
di rilevanza primaria nell’ambito del più generale progetto di costruzione di una contro-
narrativa, sebbene non sia scevra da difficoltà e rischi.
Il primo elemento di complessità è certamente quello rappresentato dalla necessità di
definire la portata complessiva del piano contro-narrativo, articolandone poi lo sviluppo
attraverso “prodotti comunicativi” realmente efficaci e pervasivi. Per soddisfare il primo
requisito è quindi necessario ottenere la collaborazione di esponenti apicali del tessuto
teologico-dottrinale, dotati al tempo stesso di autorevolezza, credibilità e capacità.
Tali caratteristiche devono peraltro esprimere la percezione di un vasto ambito di riferimento
in termini di target-audience.
Il progetto contro-narrativo deve quindi ispirarsi non solo ai valori reali e più tradizionali del
contesto ideologico confessionale di riferimento, ma deve anche essere costruito attraverso
una semantica immediatamente e facilmente percepibile, comprensibile ed accettabile dal
contesto di riferimento della target-audience. L’esperienza di molti dei progetti in materia
non coronati dal successo dimostra come la principale causa di fallimento sia ascrivibile
proprio all’adozione di modelli comunicativi costruiti attraverso il predominio ideologico-
narrativo del committente, spesso non in grado di risultare comprensibile in contesti sociali
differenti o lacerati da crisi di diversa natura. È quindi necessario combinare l’esperienza
del committente con la necessaria esposizione in termini di fiducia nella controparte locale,
definendo un progetto contro-narrativo e divulgativo che sarà in ogni caso testato su
campioni di audience prima dell’effettiva implementazione.
Il test dei progetti e delle strategie di PsyOps su cluster qualificati si sono dimostrati di
fondamentale importanza nell’esperienza più recente dei paesi NATO – si pensi ad esempio
al caso dei Fusion Center in Afghanistan53 - permettendo quegli aggiustamenti altrimenti
pressoché impossibili da adottare in contesti culturali e linguistici differenti e complessi.
Maggiore capacità d’apporto per il committente è invece concessa nell’individuazione e
nella progettazione della strategia distributiva, dove, alla necessaria ricognizione locale sullo
stato dell’arte e sulle abitudini di percezione, potrà essere affiancata una poderosa capacità
53 Connable, Ben, “Military Intelligence Fusion for Complex Operations – A New Paradigm”,
RAND, Occasional Paper, 2012
76
innovativa costruita sulla disponibilità tecnologia del committente e/o sulle condizioni di
percezione dell’utenza54.
Il secondo elemento di complessità, nella conduzione e nella gestione dell’engagement dei
key leaders/actors locali, è invece dettato dal rischio di “contaminazione”. L’interesse
economico, di elevamento sociale, di accresciuta leadership o più semplicemente la volontà
di compiacere il committente dell’attività di cooperazione, costituiscono i principali elementi
di rischio per la contaminazione della capacità complessiva di costruzione e realizzazione
dei progetti.
Se è quindi vero che il committente deve avere ben chiaro l’obiettivo che si intende
perseguire, è altrettanto vero che nella costruzione del modello operativo l’apporto del
committente deve limitarsi da una parte alla verifica della fattibilità (È perseguibile? È in linea
con gli standard culturali e sociali della target audience?, ecc.) e dall’altra all’efficacia del
prodotto (raggiunge l’obiettivo prefissato? riscuote apprezzamento?, ecc.).
In tal modo viene mitigato il consistente rischio di “contaminazione”, e cioè quello connesso
al trasferimento alla controparte di elementi culturali, usi, abitudini, linguaggio, ecc. non
consoni o funzionali al perseguimento di una determinata azione all’interno di un contesto
sociale differente da quello del committente.
Lo sviluppo di una progettualità contro-narrativa funzionale al contenimento dei fenomeni di
radicalizzazione e reclutamento da parte delle forze jihadiste, in contesti operativi dispiegati
all’interno di società a maggioranza confessionale islamica, potrebbe transitare attraverso il
fattivo e compiuto coinvolgimento degli elementi più rappresentativi ed autorevoli della
comunità spirituale (imam, teologi, giuristi, ecc.), coordinandone l’azione attraverso una
mirata capacità di comunicazione finalizzata alla dissuasione dei fenomeni eversivi.
L’elemento centrale del messaggio contro-narrativo deve chiaramente tendere alla
promozione dei reali valori espressi dalla religione, dimostrando con piena autorevolezza
l’arbitrarietà delle interpretazioni radicali e la condanna della loro attuazione.
Il messaggio deve avere un connotato sociale estremamente pervasivo, raggiungendo in tal
modo soprattutto l’interno del sistema familiare della società locale, sollecitando l’implicita
collaborazione dei parenti delle potenziali vittime del reclutamento jihadista.
L’obiettivo è quindi quello di costruire un sistema di intervento narrativo che alimenti un
virtuoso processo di riconoscimento all’interno di un modello dato, ponendo le basi per la
54 Giusto a titolo d’esempio, può essere menzionata la capacità – in un contesto caratterizzato
dalla preminenza del mezzo radiofonico/televisivo/informatico/ecc. – di potenziare le capacità di ricezione/trasmissione/download/ecc. influendo in modo esogeno nell’ambito di un contesto determinato da elementi esogeni non modificabili (o difficilmente modificabili).
77
sua diffusione e il suo consolidamento all’interno delle unità di base del sistema sociale
locale, e quindi dei nuclei familiari.
L’apporto del committente deve in questo caso rafforzare la capacità di influenza dell’attore
attraverso un sostegno alla diffusione del messaggio e al rafforzamento dell’offerta.
Entra quindi prepotentemente in gioco l’azione del ruolo CiMiC nel sostenere la capacità di
influenza dell’attore, fornendo elementi utili a rafforzarne il messaggio contro-narrativo
(capacità di proporre soluzioni di impiego professionale, di assistenza medico-ospedaliera,
educativa, ecc.) a manifestando in tal modo la disponibilità e buona volontà delle controparti
militari sul territorio (la cd. perception of goodwill).
Il ruolo dell’attore, quindi, si svolge su un duplice binario. Da una parte è necessario far leva
sulla credibilità dell’attore per screditare attraverso una strategia contro-narrativa di tipo
teologico e sociale quella delle controparti ostili (persuasion capacity), mentre dall’altra è
necessario rafforzare la credibilità dell’attore attraverso la capacità di apportare
cambiamenti al contesto (delivery capacity).
La prima capacità è prettamente connessa alle doti dell’attore (e quindi alla capacità del
committente di individuare correttamente i key leader/actor), mentre la seconda ricade in
capo alla capacità del committente di dotare l’attore della necessaria capacità per
intervenire sulle esigenze della target audience, sostituendosi in modo virtuoso ai modelli
reclutativi del jihadismo e del radicalismo.
L’elemento critico nel processo di definizione di tale strategia contro-narrativa è quindi
connesso alla effettiva capacità del committente di poter operare efficacemente nel
contesto, attraverso una adeguata capacità finanziaria ed organizzativa prima, e tecnico-
logistica poi.
L’elemento chiave per la riuscita di un progetto contro-narrativo di tale natura è chiaramente
rappresentato dalla possibilità di poter effettivamente offrire tangibili alternative al ruolo delle
organizzazioni criminali o radicali. Tale capacità è misurabile sia in termini di budget che di
capacità operativa sul terreno, dotando modo adeguato le cellule CiMiC e PsyOp di elementi
negoziali e tecnici atti a compiere il proprio ruolo sul terreno.
L’esperienza della crisi somala e la gestione dei programmi di counternarrative adottati dalla
comunità internazionale tra il 2012 e il 2014, ha dimostrato come la prevalenza del ruolo
sociale su quello militare da parte del contingente internazionale dell’Amisom, sia stata di
gran lunga più efficace rispetto ai precedenti tentativi di consolidamento delle autorità
governative attraverso il solo uso della forza.
Lo sviluppo di una efficace linea di comunicazione attraverso le reti tribali e con l’attiva
partecipazioni delle comunità degli elder ha permesso letteralmente di demolire la capacità
78
attrattiva sul piano teologico-dottrinale da parte delle milizie dell’al-Shabaab, mentre
l’accresciuta capacità di offrire impiego agli ex miliziani all’interno delle ricostituite forze
armate federali somale ha drenato la gran parte dei combattenti delle organizzazioni
jihadiste.
Il successivo declino nella capacità di riuscita di questa strategia deve essere individuato
oggi principalmente nella spregiudicata corruzione delle forze governative somale, che
hanno frustrato la capacità di tenuta ed ampliamento dei programmi di de-radicalizzazione,
alimentando nuovamente la capacità attrattiva delle unità jihadiste, il cui driver resta tuttavia
in larghissima misura solo ed esclusivamente di natura economica.
È quindi possibile affermare, in conclusione, che un progetto di contro-narrativa efficace e
credibile può essere attuato solo soddisfacendo alcune condizioni fondamentali e
necessarie:
- capacità concettuale e progettuale > chiarezza dell’obiettivo;
- capacità di selezione degli attori > autorevolezza e riconoscibilità;
- capacità di definizione semantica e pratica > persuasione e attrattività;
- capacità di sostenimento > durata e consolidamento.
79
CONCLUSIONI
La capacità narrativa dello Stato Islamico è stata certamente innovativa e capace di mutare
radicalmente il paradigma del rapporto tra entità e target audience riuscendo, per la prima
volta, a produrre un impatto chiaro e significativo anche in contesti culturali diversi da quelli
dell’audience tradizionale.
Questo successo è certamente ascrivibile al fatto di aver saputo adottare una più moderna
e professionale capacità narrativa e tecnico-comunicativa, ma anche grazie ad una
maggiore capacità attrattiva nell’ambito di un contesto sociale altamente degradato,
conflittuale e senza prospettive.
Il vero vantaggio strategico nella comunicazione dello Stato Islamico, senza particolari giri
di parole, è dato dalla possibilità e dalla capacità di offrire qualcosa di tangibile agli
interlocutori, soddisfacendo in tal modo sia una domanda di natura economico-
professionale, sia l’esigenza di spazio nel più ampio tessuto politico-sociale che nel contesto
sociale tradizionale è riservato a pochi.
L’ISIS, in sintesi, ha chiamato a raccolta decine di giovani e meno giovani con la prospettiva
di partecipare in prima persona ad un cambiamento, ad un’innovazione e ad una riscoperta
(anche se in senso deviato) di valori tradizionali e fondanti della società, generando
un’aspettativa e sollecitando la spinta rivoluzionaria e polemica di qualsiasi giovane.
Che il modello reale fosse diverso, brutale, violento e ingiusto poco ha importato in una fase
successiva, quando ormai l’elemento della partecipazione era suggellato dalla presenza e
dalla difficoltà del ritorno.
L’ISIS è stata a lungo vincente per questa ragione, impedendo in modo sistematico la
cronaca dal suo interno, ma affidandola a note narrative artificiali che ne esaltavano l’epica
e la grandiosità, sollecitando la partecipazione e l’ambizione ad un ruolo di moltissimi giovani
emarginati della regione.
Dove l’occidente continua quindi a fallire nel proporre modelli comunicativi alternativi
credibili ed appetibili per i giovani è sul piano dell’offerta. Non è sufficiente saper comunicare
e disporre delle più avanzate tecnologie per farlo. È necessario avere elementi concreti da
abbinare all’offerta, per sollecitare la comparazione e renderla competitiva, sapendo di non
poter ingannare a lungo il proprio target, ormai disilluso da anni di emarginazione, povertà
e violenza.
Per disporre di elementi competitivi nell’offerta, il sistema occidentale deve mutare
radicalmente approccio alla soluzione del problema, investendo prioritariamente nello
sviluppo economico ed infrastrutturale, abbandonando la stantia ed obsoleta logica del
“security first” e generando quindi elementi di interesse per le società locali – soprattutto le
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più giovani – per la prima volta veramente alternative alla violenza e al settarismo su cui
sono stati costruiti gli equilibri sociali della regione nel corso dell’ultima metà di secolo.
In assenza di una capacità di tal fatta, qualsiasi strategia comunicativa, narrativa o
semplicemente operativa risulterà vana e probabilmente controproducente, concedendo
ulteriore vantaggio alla controparte avversaria.
La struttura dell’ISIS è stata finalmente ingaggiata in serio combattimento dopo mesi di stasi
che ne hanno permesso il consolidamento sul terreno e attraverso i media, con una strategia
che ha saputo convincere il mondo di una capacità e di una competenza che in realtà non
è poi stata riscontrata sul terreno.
Questo significa che l’ISIS può essere sconfitto militarmente attraverso un conflitto di tipo
tradizionale, riconquistando temporaneamente quegli spazi geografici che ne hanno
rappresentato l’idea di Califfato per oltre due anni.
Resta tuttavia irrisolto il problema che ne ha permesso la nascita e il consolidamento, che
anche in caso di vittoria militare contro la componente armata del Daesh non tarderà a
riprendere corpo dando vita ad una nuova forma di sodalizio con le medesime prerogative.
L’unica concreta soluzione per rendere percorribile un progetto di lungo termine atto a
favorire la stabilità del paese e la sua rinascita economica e sociale è quindi quello di
operare alla base dei suoi problemi, costruendo una nuova narrativa di coesione sociale
nazionale, favorendo il consolidamento delle norme che riconoscono come valore fondante
la partecipazione e l’inclusione delle minoranze, ed avviando quanto più velocemente
possibile un programma di depotenziamento della spesa militare e della violenza che
permetta di liberare forze fisiche e monetarie per la ricostruzione e il consolidamento
dell’apparato politico ed amministrativo.
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NOTA SUL Ce.Mi.S.S. e NOTA SULL’AUTORE
Ce.Mi.S.S.55
Il Centro Militare di Studi Strategici (Ce.Mi.S.S.) è l'Organismo che gestisce, nell'ambito e
per conto del Ministero della Difesa, la ricerca su temi di carattere strategico.
Costituito nel 1987 con Decreto del Ministro della Difesa, il Ce.Mi.S.S. svolge la propria
opera valendosi di esperti civili e militari, italiani ed esteri, in piena libertà di espressione di
pensiero.
Quanto contenuto negli studi pubblicati riflette quindi esclusivamente l'opinione del
Ricercatore e non quella del Ministero della Difesa.
Nicola Pedde
Nicola Pedde collabora con il Ce.Mi.S.S. dal 2002, prima come
Direttore della Ricerca per l’Osservatorio Strategico sull’Energia
e poi come Direttore della Ricerca per l’Osservatorio Strategico
sul Medio Oriente e il Nord Africa.
Sempre presso il Ce.Mi.S.S. ha condotto attività di ricerca sulla
Libia, la Repubblica Islamica dell’Iran, sul Corno d’Africa e sulla
sicurezza energetica.
55 http://www.difesa.it/SMD_/CASD/IM/CeMiSS/Pagine/default.aspx
foto
Stampato dalla Tipografia delCentro Alti Studi per la Difesa