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1 Enrico Berti Individualità biologica e artificio Il mio intervento, per la sezione del programma in cui è stato collocato, cerca di rispondere a uno degli interrogativi formulati nell’invito a questo convegno, cioè: “Quale uso fare dei risultati conoscitivi che le scienze empiriche della vita ci mettono a disposizione e delle tecniche che da tali risultati conoscitivi si sviluppano, in modo che tale uso renda la nostra vita più umanamente rigogliosa e fiorente?”. Il risultato delle scienze della vita, in particolare della genetica, sul quale vorrei concentrare l’attenzione è la scoperta del DNA. Questa è avvenuta, come è noto, nel corso degli anni ’50 del ’900, ad opera di James Watson e Francis Crick, i quali riuscirono a descrivere, avvalendosi anche delle ricerche di altri scienziati, la struttura del DNA, cioè di uno dei due acidi di cui è formato il nucleo delle cellule.Watson e Crick scoprirono che le molecole di DNA sono formate da due catene di nucleotidi, disposte a forma di eliche intrecciate tra di loro, per cui al momento della divisione della cellula le due eliche si separano e su ciascuna di esse se ne costruisce un’altra, in modo da ricostituire la struttura primitiva. In tal modo il DNA può riprodursi senza cambiare la sua struttura, salvo che per errori occasionali, o mutazioni. Per questa scoperta Watson e Crick ottennero nel 1962 il premio Nobel per la medicina. La rilevanza filosofica di questa scoperta fu messa in luce qualche anno più tardi, oltre che da Jacques Monod nel suo famoso libro Il caso e la necessità 1 , da un biologo americano di origine tedesca, Max Delbrück (1906-1981), che ottenne a sua volta nel 1969 il premio Nobel per la medicina per le sue ricerche sui virus batteriofagi, in un articolo dedicato ad Aristotele dal titolo ironico, allusivo ad una nota cantilena tedesca, Aristotle-totle-totle, che indica il continuo riproporsi di un nome (Mariandle) 2 . In esso Delbrück sostenne che, se fosse possibile dare un premio Nobel alla memoria, esso dovrebbe essere conferito ad Aristotele per la scoperta del principio implicito nel DNA. Nelle sue opere biologiche, infatti, Aristotele sostiene che il germe da cui si sviluppa l’embrione, che per lui è solo il seme maschile (Aristotele non aveva il microscopio per vedere l’ovulo femminile), non è un mini-uomo, come credeva Ippocrate, bensì un principio formale, cioè un “piano di sviluppo”, un “programma”, contenente una serie di informazioni (così Delbrück traduce i termini aristotelici eidos e morphê). Questo principio agisce come una causa motrice, cioè trasmette alla materia, costituita dal sangue mestruale fornito dalla madre, una serie di impulsi meccanici, cioè di movimenti, i quali fanno sì che la materia si organizzi in modo da formare l’uno 1 J. Monod, Le hasard et la nécessité, Paris 1970 (trad. it., Caso e necessità, Milano, Mondadori 1972). 2 M. Delbrück, Aristotle-totle-totle, in J. Monod and E. Borek (a cura di), Of microbes and life, Columbia University, New York- London 1971, pp. 50-55.

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Enrico Berti

Individualità biologica e artificio

Il mio intervento, per la sezione del programma in cui è stato collocato, cerca di rispondere a

uno degli interrogativi formulati nell’invito a questo convegno, cioè: “Quale uso fare dei risultati

conoscitivi che le scienze empiriche della vita ci mettono a disposizione e delle tecniche che da tali

risultati conoscitivi si sviluppano, in modo che tale uso renda la nostra vita più umanamente

rigogliosa e fiorente?”.

Il risultato delle scienze della vita, in particolare della genetica, sul quale vorrei concentrare

l’attenzione è la scoperta del DNA. Questa è avvenuta, come è noto, nel corso degli anni ’50 del

’900, ad opera di James Watson e Francis Crick, i quali riuscirono a descrivere, avvalendosi anche

delle ricerche di altri scienziati, la struttura del DNA, cioè di uno dei due acidi di cui è formato il

nucleo delle cellule.Watson e Crick scoprirono che le molecole di DNA sono formate da due catene

di nucleotidi, disposte a forma di eliche intrecciate tra di loro, per cui al momento della divisione

della cellula le due eliche si separano e su ciascuna di esse se ne costruisce un’altra, in modo da

ricostituire la struttura primitiva. In tal modo il DNA può riprodursi senza cambiare la sua struttura,

salvo che per errori occasionali, o mutazioni. Per questa scoperta Watson e Crick ottennero nel

1962 il premio Nobel per la medicina.

La rilevanza filosofica di questa scoperta fu messa in luce qualche anno più tardi, oltre che da

Jacques Monod nel suo famoso libro Il caso e la necessità1, da un biologo americano di origine

tedesca, Max Delbrück (1906-1981), che ottenne a sua volta nel 1969 il premio Nobel per la

medicina per le sue ricerche sui virus batteriofagi, in un articolo dedicato ad Aristotele dal titolo

ironico, allusivo ad una nota cantilena tedesca, Aristotle-totle-totle, che indica il continuo riproporsi

di un nome (Mariandle)2. In esso Delbrück sostenne che, se fosse possibile dare un premio Nobel

alla memoria, esso dovrebbe essere conferito ad Aristotele per la scoperta del principio implicito nel

DNA. Nelle sue opere biologiche, infatti, Aristotele sostiene che il germe da cui si sviluppa

l’embrione, che per lui è solo il seme maschile (Aristotele non aveva il microscopio per vedere

l’ovulo femminile), non è un mini-uomo, come credeva Ippocrate, bensì un principio formale, cioè

un “piano di sviluppo”, un “programma”, contenente una serie di informazioni (così Delbrück

traduce i termini aristotelici eidos e morphê). Questo principio agisce come una causa motrice, cioè

trasmette alla materia, costituita dal sangue mestruale fornito dalla madre, una serie di impulsi

meccanici, cioè di movimenti, i quali fanno sì che la materia si organizzi in modo da formare l’uno

1 J. Monod, Le hasard et la nécessité, Paris 1970 (trad. it., Caso e necessità, Milano, Mondadori 1972). 2 M. Delbrück, Aristotle-totle-totle, in J. Monod and E. Borek (a cura di), Of microbes and life, Columbia University, New York- London 1971, pp. 50-55.

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dopo l’altro i vari organi, a cominciare dal cuore, sino all’individuo completo che si presenta al

momento della nascita3.

Secondo Delbrück, il pensiero di Aristotele in generale è stato completamente frainteso a

causa del modo in cui esso è rientrato nella cultura occidentale, cioè attraverso la teologia della

scolastica cristiana (e, aggiungo io, prima ancora musulmana), la quale ha creato una totale barriera

di incomprensioni fra teologi e scienziati, da Tommaso d’Aquino alla mistica di oggi, cattolica,

protestante e legata all’LSD (così si esprime lo scienziato americano). Un nuovo sguardo

sull’Aristotele biologo – conclude Delbrück – può portare ad una più chiara comprensione dei

concetti di fine, verità e rivelazione, e forse a qualcosa di meglio che la mera coesistenza tra noi,

studiosi di scienze naturali, e i nostri colleghi delle altre facoltà.

Un significativo esempio di tale fraintendimento è costituito dalla dottrina tomistica della

generazione, a lungo fatta propria dalla Chiesa cattolica e richiamata in tempi recenti da un filosofo

non digiuno di studi biologici quale Jacques Maritain e da un teologo al tempo stesso genetista

quale il padre Norman Ford. Aristotele scrive infatti che gli embrioni umani hanno anzitutto l’anima

vegetativa, cioè quella che appartiene anche alle piante, poi quella sensitiva, che appartiene a tutti

gli animali, ed infine quella intellettiva, che è propria dell’uomo, perché “non si diventa

contemporaneamente animale e uomo, né animale e cavallo”4. Basandosi su questo passo,

Tommaso d’Aquino ha sostenuto che l’anima vegetativa è in potenza rispetto all’anima sensitiva e

questa è in potenza rispetto all’anima intellettiva, “come appare evidente nella generazione umana,

in cui il feto vive dapprima della vita della pianta, poi della vita dell’animale e infine della vita

dell’uomo”5. E poiché Aristotele in un passo successivo afferma che “solo l’intelletto viene da fuori

(thurathen, lett. da fuori della porta) e lui solo è divino”6, Tommaso pensa immediatamente, da

creazionista cristiano, alla creazione dell’anima intellettiva da parte di Dio ed alla sua infusione

nell’embrione in un periodo del suo sviluppo che varia dal quarantesimo giorno per i maschi al

novantesimo per le femmine, e conclude in tono perentorio: “Haereticum est dicere quod anima

intellectiva traducatur cum semine”7. L’eresia in questione è il cosiddetto “traducianesimo”,

professato nell’antichità da Tertulliano in polemica con l’eccessivo spiritualismo degli gnostici.

Da ciò Maritain ha tratto, nel 1967, la tesi che anche san Tommaso era evoluzionista, perché

ammetteva, sia pure nello sviluppo dell’embrione e non ancora nell’evoluzione della specie, dei

mutamenti sostanziali, cioè delle vere e proprie forme di generazione e corruzione, nel senso che

l’embrione ad un certo punto perderebbe la forma che lo animava, sia essa l’anima vegetativa prima

3 Aristotele, De generatione animalium I 18 e 21-22. 4 Ivi, II 3, 736 a 35-b 2. 5 Thom. Aq., Summa Contra Gentiles, III, 22. 6 Aristotele, De gen. an. II 3, 736 b 28-29. 7 Thom. Aq., Summa Theol. I, q. 118, a 2, c.

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o l’anima sensitiva poi, per far posto ad una forma superiore, cioè l’anima intellettiva8. E padre

Ford, nel suo fortunato libro When did I begin? (1988), si fa forte di Tommaso e di Aristotele per

difendere la tesi sostenuta dal “Rapporto Warnock”, secondo cui fino al 14° giorno, momento in cui

si forma nell’embrione la “stria primitiva”, primo elemento del sistema nervoso, l’embrione non

possiede ancora un’individualità, perché è formato da cellule totipotenti e quindi può ancora

dividersi9.

In realtà Tommaso nella sua lettura di Aristotele, qui come altrove, era totalmente

condizionato dalla cultura neoplatonizzante e agostiniana che dominava il medioevo, al punto da

dimenticare che per Aristotele una sostanza non può avere più forme, nemmeno successivamente, e

l’uomo possiede una sola anima, quella intellettiva, la quale contiene in sé potenzialmente quella

vegetativa e quella sensitiva, come un poligono contiene in sé il quadrangolo e il triangolo, nel

senso che sviluppa prima le facoltà vegetative (nutrirsi e crescere), poi quelle sensitive (percepire e

muoversi) ed infine quelle intellettive (pensare, volere, ecc.), ma restando sempre la stessa anima10.

Nel De generatione animalium, infatti, Aristotele dice che gli embrioni umani hanno in potenza

tutte e tre e anime, vegetativa, sensitiva e intellettiva11, e che “lo sperma trasporta il principio

animatore, il quale, in tutti gli animali dotati di intelligenza, è separato”12, cioè può svolgere

funzioni anche immateriali, quali il pensiero. L’affermazione che “solo l’intelletto viene da fuori”,

come ha mostrato da tempo un grande studioso di Aristotele e della sua dottrina dell’intelletto, Paul

Moraux, non rispecchia il pensiero di Aristotele, ma fa parte di una discussione dialettica in cui

Aristotele espone il punto di vista dei Platonici13.

Ciò significa, in termini di scienza moderna, che il DNA umano è presente sin dall’inizio nel

nucleo delle cellule che formano prima lo zigote (cellula risultante dall’unione dei due gameti,

maschile e femminile), poi la morula (insieme di quattro cellule), poi la blastocisti (insieme di più

cellule) ed infine l’embrione vero e proprio. E il genoma umano, cioè l’insieme dei circa 25.000

geni che formano i cromosomi contenuti nello zigote, di cui è stata recentemente (alla fine degli

anni ‘90) descritta l’intera mappa, è formato da DNA umano, il quale è diverso, sia pure di

pochissimo, da quello degli altri animali (per esempio da quello dello scimpanzè, di cui è stata 8 J. Maritain, Verso un’idea tomista dell’evoluzione, in Id., “Approches sans entraves”. Scritti di filosofia cristiana, Città Nuova, Roma 1977, vol. I, pp. 87-153. 9 N. M. Ford, Quando comincio io?, Baldini e Castoldi, Milano 1997. 10 Aristotele, De anima II 3, 414 a 29-b 28. 11 Aristotele, De generatione animalium II 3, 736 b 8 ss. 12 Ivi, 737 a 5-15. 13 P. Moraux, A propos du “nous thurathen”chez Aristote, in AA. VV., Autour d’Aristote. Rècueil d’ètudes de philosophie ancienne et mèdiévale offert à Monseigneur A. Mansion, Publications Universitaires de Louvain, Louvain 1955, pp. 255-295. A questo proposito devo correggere quanto ho scritto in un articolo concernente il libro di padre Ford, cioè Quando esiste l’uomo in potenza? La tesi di Aristotele, in M. Mori (a cura), Quale statuto per l’embrione umano? Problemi e prospettive, Politeia Milano 1992, pp. 52-58. Ad esso Ford ha risposto nell’edizione italiana del suo

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descritta ancora più recentemente la mappa), cioè contiene già il programma dell’individuo adulto,

che svilupperà, oltre alla facoltà vegetative, anche quelle sensitive e quelle intellettive.

Tornando ad Aristotele, possiamo affermare che l’individualità biologica è determinata dalla

forma, cioè dall’anima (per Aristotele, come è noto, l’anima non è una sostanza a sé, ma è la forma,

cioè la capacità di vivere e di svolgere tutta una serie di funzioni, propria di un organismo vivente),

la quale è assolutamente individuale. Ciò risulta non tanto dal passo del De anima in cui si afferma

che “ciascun corpo sembra avere la propria forma”14, il quale può alludere anche ad una forma

propria all’intera specie, cioè universale, quanto da un passo famoso della Metafisica in cui si dice:

“Le cause delle cose incluse nella stessa specie sono diverse, non per specie, ma nel senso che per

ogni singolo individuo ce n’è un’altra, la tua materia [sc. il tuo corpo corpo], la tua forma [sc. la tua

anima] e la tua causa motrice [sc. tuo padre] sono diverse dalle mie, mentre per la definizione

universale sono le stesse”15. Qui è risolto anche l’annoso problema se la forma, per Aristotele, sia

universale, come richiede la definizione, o individuale. Come è stato mostrato bene anche in un

articolo recente, essa è universale in potenza, nel senso che, nelle sue caratteristiche essenziali, per

esempio la capacità di pensare o di parlare per l’anima umana, può esistere in tutti gli individui

della stessa specie, ma è individuale in atto, nel senso che esiste sempre in un singolo individuo e

potrebbe esistere anche se questo fosse unico in tutta la sua specie16.

In termini di scienza moderna si può dire, credo, che il DNA umano è uguale in tutti gli

individui della specie umana, essendo diverso da quello di tutti gli altri animali, ma anche che il

DNA di ciascun singolo individuo umano è diverso da quello di tutti gli altri (come, ad esempio, le

impronte digitali), tant’è vero che l’analisi del DNA viene usata oggi anche per i riconoscimenti di

paternità, o per individuare l’autore di un delitto o di una qualsiasi azione, qualora abbia lasciato

tracce contenenti cellule del suo DNA. Questo non è “biologismo”, cioè enfatizzazione eccessiva

dell’aspetto biologico, accusa che viene rivolta alla concezione che fa dipendere l’individualità

dall’identità biologica da fonti spesso involontariamente spiritualistiche17, perché l’essere umano è

fondamentalmente una realtà biologica, cioè un essere vivente, sia pure di vita umana.

Che significa vita “umana”? Aristotele risponderebbe che significa vita vissuta grazie ad

un’anima intellettiva, la quale è un dato genetico, cioè biologico, perché genetica, vale a dire

contenuta nel genoma, è la capacità di pensare, parlare, volere, amare, cioè di svolgere tutte le

libro, pp. 309-322, mentre io sono tornato sull’argomento in La generazione dell’uomo secondo Aristotele, “Bioetica”, 4, 1999, pp. 590-595. 14 Aristotele, De anima I 3, 408 a 23-24. 15 Aristotele, Metafisica XII 5, 1071 a 27-29. 16 R. W. Sharples, Some Thoughts on Aristotelian Form: With Special Reference to Metaphysics Z 8, “Science in Context”, 18, 2005, pp. 93-109. 17 Mi riferisco all’articolo di C. A. Viano, L’embrione è arrivato tra noi, “Iride”, 9, 1996, pp. 541-553, al quale ho risposto in Sostanza e individuazione, “Seconda navigazione. Annuario di filosofia”, 1998, pp. 143-160.

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funzioni che sono proprie e caratteristiche di un essere umano, e che si aggiungono, nell’essere

umano, a quelle proprie di tutti gli altri animali (sentire, godere, soffrire, ecc.). Ma ciò non vuol dire

che l’individualità umana sia determinata solo dall’identità biologica, ossia dal genoma. Sempre

Aristotele ha teorizzato l’esistenza del “carattere” (êthos), il quale si forma per mezzo dell’abitudine

(ethos), cioè dell’esercizio ripetuto di “azioni” (praxeis), le quali sono frutto di “scelta”

(prohairesis)18. La “vita buona”, cioè il vivere bene, la felicità, di ciascun individuo umano,

richiede anzitutto la formazione di un buon carattere, cioè di un carattere virtuoso, che significa

eccellente, perfetto (“virtù” in greco si dice aretê, che significa eccellenza, perfezione), mediante

l’esercizio delle “virtù etiche”, così chiamate in quanto proprie del carattere. Ad esse si aggiungono

poi le virtù “dianoetiche”, quali la saggezza (phronêsis) e la sapienza (sophia), che tuttavia

suppongono una società giusta, cioè fondata sulla giustizia (virtù etica), e il possesso di amici con

cui fare filosofia, cioè l’amicizia (altra virtù etica).

Non si può dimenticare, infine, la nota affermazione di Aristotele secondo la quale l’uomo

(tutti gli uomini, maschi e femmine, liberi e schiavi), è “per natura”, cioè oggi diremmo

geneticamente, animale politico, vale a dire fatto per vivere nella polis, che dunque solo nella polis

può realizzare pienamente se stesso, cioè “vivere bene”19. Perciò ha ragione Vanna Gessa quando

scrive che “il carattere specifico dell’essere umano, la sua specifica ontologia, consiste nel fatto che

la sua individualità biologica non è definibile come zôê, nuda vita, e necessita di una filosofia e di

un’etica in grado di articolarne l’identità non come qualcosa di estraneo e nemico, ma come

qualcosa di congenere e intimo”20.

Veniamo infine all’uso delle tecniche che si sviluppano dalle scienze per rendere la nostra vita

più umanamente rigogliosa e fiorente. Le tecnologie sviluppate dalle scienze della vita, cioè le

“biotecnologie”, o l’“ingegneria genetica”, permettono anzitutto quella che in Italia è stata

recentemente chiamata la “procreazione assistita”. Anche per Aristotele uno degli ingredienti della

“felicità”, cioè di quella che al seguito di Martha Nussbaum oggi chiamiamo, con metafora

botanica, “vita rigogliosa e fiorente”, è l’avere figli (buoni e che non muoiano precocemente),

probabilmente perché essi realizzano una delle capacità umane21. Sempre lo stesso Aristotele

afferma che l’arte (tekhnê) deve non solo imitare, ma anche aiutare, la natura22. Quindi la

procreazione assistita, che permette la fecondazione in vitro di ovuli altrimenti difficili da

fecondare, mi sembra niente affatto illecita, ma anzi benemerita.

18 Aristotele, Etica Nicomachea III 4, 1111 b 6. 19 Aristotele, Politica I 2, 1253 a 2-3. 20 V. Gessa Kurotschka. Individualità biologica e identità, in corso di stampa, gentilmente inviatomi. 21 Aristotele, Eth. Nic.I 8. 22 Aristotele, Protreptico, fr. 11 Ross.

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L’unico problema etico può nascere quando si rischia, per ottenere un risultato in sé buono, di

ledere qualche diritto, della madre, del padre, o, perché no?, dei figli, cioè degli embrioni, usati

soltanto come mezzi e non, come voleva Kant, anche come fini. Se si potessero sviluppare tutte le

tecniche relative alla procreazione assistita, ed anche ad altro, quali l’uso di cellule staminali per la

ricostruzione di organi malati, senza ledere alcun diritto, cioè senza sacrificare alcun embrione, non

vedrei in tutto questo nessun problema etico. Il problema è solo tecnologico, cioè quello di trovare

siffatte tecnologie, che permettano di ottenere tutti i risultati buoni che si vogliono, senza sacrificare

nessuno.