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IMPRENDITORIALITÀ E ISTITUZIONI NELLO SVILUPPO LOCALE.UN CONFRONTO TRA MODELLI DIVERSI DI AREE SISTEMA AD ECONOMIA DIFFUSA
di Giancarlo Provasi
“I veri problemi non hanno soluzione ma storia”Nicolás Gómez Dávila, Escolios, I, 477
1. Sviluppo e vitalità delle aree sistema ad economia diffusa.
Come si può evincere anche dai contributi della prima parte di questo volume, le
ragioni di interesse per lo studio dello sviluppo locale sono molteplici. Da quelle di
carattere teorico generale, che vedono nei sistemi locali ad economia diffusa dei
“laboratori” privilegiati per l’analisi dei complessi e cangianti rapporti tra economia e
società, a quelle più immediatamente pratiche, che sono alla ricerca di formule di
politica industriale per affrontare le nuove sfide dei sistemi locali in questa era di
globalizzazione o per verificare l’esportabilità dei loro modelli alle aree periferiche del
sottosviluppo. Nel caso specifico dell’Italia poi, l’interesse è mosso non solo dal rilievo
che l’economia distrettuale è venuta ad assumere nello sviluppo del Paese o dalle
potenzialità che essa potrebbe appunto dischiudere per lo sviluppo del Mezzogiorno, ma
anche – come bene dimostra la riflessione di autori quali Barca e Arrighetti-Seravalli1 –
dalle possibili chiavi di lettura che tale prospettiva offre per una interpretazione più
generale dello sviluppo economico italiano e dei sempre difficili rapporti tra economia e
istituzioni che lo hanno caratterizzato.
Questo contributo (con la ricerca che ne è alla base) si colloca più sul primo che sul
secondo versante. In una fase di profondi cambiamenti nei rapporti tra economia e
società (si pensi solo alla crisi del fordismo e alle novità sul piano sociale, politico e
organizzativo che questa ha comportato), ma anche di ripensamento dei modelli
interpretativi di tali rapporti, è sembrato utile ripercorrere la storia di alcune aree
sistema ad economia diffusa per poterne cogliere, se possibile da una prospettiva nuova
e più efficace, gli elementi costitutivi – elementi che, come la letteratura sul tema ha già
1 Barca 1997; Arrighetti-Seravalli 1999.
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avuto modo di mettere in evidenza ampiamente, si collocano giusto nel punto critico di
snodo tra mercato, società e politica. Se tale prospettiva interpretativa risulterà davvero
più convincente, ne potranno conseguire anche delle indicazioni pratiche e politiche per
nuove e più efficaci formule di architettura istituzionale.
I fondamenti della prospettiva teorica che questo contributo intende mettere alla
prova sono sinteticamente ma efficacemente presentati nel saggio di Leonardo Parri
nella prima parte di questo volume. L’idea di un attore sociale dotato di una razionalità
perfettamente orientata allo scopo, capace di operare senza limiti di calcolo e di raccolta
di informazioni col fine esclusivo di massimizzare le proprie utilità, è alla base – a ben
vedere – non del solo mainstream economico di matrice neoclassica ma di una buona
parte anche dei modelli di political economy applicati allo sviluppo locale. E’ infatti il
presupposto di attori sociali razionali e auto-interessati a portare il fuoco della maggior
parte di queste analisi esclusivamente sulla dimensione regolativa delle istituzioni, sulla
loro capacità di modificare ex post le convenienze degli attori e di risolvere per tale via i
problemi che derivano dalle esternalità o dai costi di transazione. Viceversa l’approccio
che si intende qui adottare presuppone degli attori sociali mossi da una razionalità
cognitiva. A fronte dei limiti soggettivi della mente umana e, soprattutto, della
intrinseca incertezza dell’ambiente, gli attori ipotizzati da tale approccio si lasciano
guidare nella definizione e nel perseguimento dei loro obiettivi da quadri cognitivi che
derivano in larga misura dal contesto sociale di appartenenza, ma che possono essere
modificati attraverso processi individuali di creazione di nuova conoscenza.
L’adeguatezza di tali nuove conoscenze si presume venga testata pragmaticamente nel
confronto con la realtà e attraverso la competizione sociale. L’ambiente (naturale e
sociale) svolge pertanto una funzione selettiva, confermando e rafforzando con incentivi
positivi le conoscenze più efficaci e smentendo e indebolendo invece con incentivi
negativi quelle inadeguate. Si viene così a determinare un processo evolutivo di
apprendimento sociale, vale a dire un processo di adozione da parte della società dei
quadri cognitivi che risultano più efficaci rispetto al contesto contingente.
Senza entrare per ora nel merito della non linearità di un tale processo evolutivo2,
risulta evidente come una siffatta prospettiva teorica non possa limitarsi a considerare la
2 Per una analisi più approfondita delle conseguenze di una tale non linearità si veda Provasi 1995°.
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sola dimensione regolativa delle istituzioni. Si suppone infatti che le istituzioni sociali
non intervengano solo ex post, per risolvere i problemi di coordinamento e
cooperazione posti da attori auto-interessati, ma operino anche costitutivamente sulle
motivazioni e sui quadri cognitivi degli attori e ne condizionino ex ante le finalità e la
scelta dei mezzi atti a raggiungerle. Condizionano, non determinano: l’approccio
cognitivista evolutivo – a differenza dei paradigmi funzionalisti o culturalisti che
concepiscono una relazione di dipendenza degli individui dalla società e dalla cultura di
appartenenza – presuppone infatti una dinamica aperta, di reciproca influenza tra la
generazione individuale di conoscenza (frutto della ragione e delle esperienze
idiosincratiche dei singoli individui) e l’apprendimento sociale (frutto della adozione
selettiva delle conoscenze più efficaci). Anche se la non linearità può produrre
significativi effetti di path dependence (di condizionamento della dinamica evolutiva da
parte degli stati passati del sistema), l’esito del processo resta sempre – come ricorda
opportunamente Parri – parzialmente aperto e imprevedibile. Soprattutto ciascun
sistema mantiene una propria unicità, una specificità che deriva dalla diversità delle
soluzioni e dei percorsi di sviluppo adottabili.
Qualcuno, giunti a questo punto, potrebbe chiedersi quale contenuto euristico e,
soprattutto, quale contributo pratico possano fornire modelli che affermino in via di
principio l’imprevedibilità degli esiti e l’equifinalità delle soluzioni adottate. Non è
questa la sede per entrare nel merito di una discussione filosofica circa un possibile
diverso rapporto (riflessivo e “clinico” anziché previsivo e normativo) tra le scienze
sociali e il loro oggetto di studio. Spero comunque di poter fornire qualche elemento
concreto di risposta a tale legittimo interrogativo a partire dall’oggetto specifico di
questo studio: lo sviluppo dei sistemi locali ad economia diffusa.
La domanda, alla radice del problema, è stata efficacemente posta da Gianfranco
Viesti in un suo recente studio sui distretti industriali del nostro paese3: “perché quelli sì
e altri no?”; perché alcune aree sistema hanno prodotto soluzioni economiche di
successo, in grado di reggere al meglio la competitività sia nazionale che internazionale
e di superare con forza e creatività le crisi e i momenti di difficoltà che pure le hanno
segnate, e altre invece si dimostrano deboli, scarsamente competitive, fortemente
3 Viesti 2000, p. 164.
4
dipendenti nel loro sviluppo dal ciclo economico generale, quando non relegate in
condizioni permanenti di marginalità e di sottosviluppo? Verrebbe da usare una qualità
propria degli organismi viventi: perché alcune aree sistema sono dotate di una forte
vitalità che non appartiene invece ad altre?
Il concetto di vitalità si presta bene a indicare la qualità distintiva dei sistemi locali di
successo. La vitalità è la capacità di cogliere tempestivamente le opportunità positive
offerte dalla contingenza e di saper resistere a quelle negative. Non è pertanto un
equivalente, meramente tautologico, del concetto di successo o di performance
(relative) di sviluppo. Queste seconde attengono infatti alla combinazione (fortunata) di
vitalità e di contingenza positiva. Non si può escludere (almeno in via teorica) che
particolari circostanze positive possano favorire nel breve periodo un determinato
sistema, ma difficilmente questo saprà difendere la propria competitività nel lungo
periodo se manca di vitalità intrinseca. Al contrario, un sistema vitale saprà reagire alle
avversità di breve periodo e saprà costruire il proprio successo di lungo periodo
sfruttando al meglio tutte le occasioni che gli si offriranno. La vitalità deve quindi
contemplare non solo una capacità di reazione di breve periodo, perché – come amava
ricordare Keynes – “nel lungo periodo saremo tutti morti”, ma anche una capacità pro-
attiva, di anticipazione e di costruzione di strategie di lungo periodo. L’uomo e le
società umane si differenziano infatti dagli organismi biologici meramente adattivi per
la loro capacità di “fare un passo indietro per poterne fare due avanti”, per la capacità
cioè di concepire con il pensiero dei “mondi possibili” e di mettere in atto le strategie
necessarie per realizzarli senza cadere nelle trappole adattive di “massimi locali”4. Così
definita, la vitalità può divenire un efficace concetto euristico, capace di accordare, da
un lato, l’unicità e il peso dei fattori contingenti in qualsivoglia processo di sviluppo e,
dall’altro, la possibilità di generalizzare quegli elementi che possono “fare la differenza”
e sui quali intervenire.
Ma allora, cosa fa davvero la differenza? da quali fattori dipende la vitalità di un
sistema locale di sviluppo? Tornando a Viesti, egli riferisce che alla domanda “Quale è
stato il fattore più importante per lo sviluppo di Putignano?” la risposta è stata: “la testa
4 Per una ampia riflessione su queste caratteristiche degli esseri umani e della società si veda Elster
1983.
5
dei putignanesi” e continua affermando che si tratta di una risposta assai meno banale di
quanto possa sembrare5. In effetti, che la vitalità di un area di sviluppo locale dipenda
principalmente dalle motivazioni e dagli orientamenti diffusi tra i suoi abitanti è una
ipotesi teorica non banale. Sulle orme di Schumpeter è possibile sostenere infatti che lo
sviluppo economico dipende dall’imprenditorialità, dalla capacità cioè di alcuni
individui di rompere gli schemi economici (tecnologici e di mercato) consolidati e di
generare nuove conoscenze e innovazione. Dal punto di vista dell’economista austriaco,
l’imprenditorialità è dunque un fenomeno squisitamente individuale: solo attori dotati di
autonomia possono rompere le routine consolidate e generare innovazione e sviluppo6.
Per questo non è affatto banale affermare che la differenza sta “nella testa” degli
individui e non in fattori strutturali o culturali che appartengano al sistema sociale in
quanto tale. Tuttavia esistono almeno due aspetti, essenziali per sciogliere la risposta
ellittica dei putignanesi sulle ragioni del loro sviluppo e che obbligano a prendere in
conto nella spiegazione anche la dimensione sociale e istituzionale.
Il primo concerne la diversa propensione ad intraprendere, o in altri termini la
diffusione di “teste imprenditive” che si possono riscontrare in una determinata realtà.
Di per sé, anche un solo imprenditore (particolarmente capace e/o fortunato) può
decretare il successo economico di un’area sistema. Da un punto di vista evolutivo, per
altro, è richiesta una varietà minima di esperienze imprenditive perché si possa dare una
certa probabilità che qualcuna di esse risulti adeguata al contesto e perciò in grado di
esprimere strategie vincenti. Si dovrà tornare più avanti su questo aspetto della varietà
minima richiesta, che risulta centrale nella riflessione che si intende sviluppare in questa
sede. Per ora basti segnalare che la propensione ad intraprendere (al di là dei contenuti
che ciascun imprenditore potrà poi porre in essere nella sua autonomia individuale) è
fortemente condizionata dal contesto socio-istituzionale di appartenenza. Dipende infatti
dalla dimensione costitutiva del quadro istituzionale – dimensione che, come la grande
tradizione weberiana sullo “spirito del capitalismo” ha esemplarmente mostrato,
condiziona in profondità la “definizione della realtà” degli individui che ne fanno parte.
5 Viesti 2000, p. 165.6 Per una analisi esaustiva delle diverse teorie sull’imprenditorialità e per lo sviluppo di un modello
cognitivista (seppure diverso nelle premesse epistemologiche di fondo da quello qui perseguito) si vedaHarper 1996.
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Il secondo aspetto ha a che fare invece con la diversa capacità dei quadri istituzionali
nel selezionare (positivamente e negativamente) le soluzioni imprenditive proposte.
Tale capacità è funzione piuttosto della dimensione regolativa delle istituzioni. Dalle
norme giuridiche e dalle regole sociali dipendono infatti sia la circolazione delle
informazioni che la distribuzione degli incentivi che sovrintendono al rafforzamento e
alla generalizzazione delle soluzioni positive e all’indebolimento ed eliminazione di
quelle negative. Vi sono due possibili errori nei processi di selezione socio-istituzionale,
che possono condizionare negativamente, per un verso o per l’altro, lo sviluppo7: quello
di eliminare prematuramente soluzioni che potrebbero risultare nel lungo periodo
vincenti e quello di mantenere troppo a lungo soluzioni destinate al fallimento. I diversi
sistemi istituzionali, a seconda del mix di regole che li caratterizzano, possono
propendere verso errori del primo o del secondo tipo e possono così selezionare
eccessivamente, riducendo oltre misura la varietà interna, o piuttosto tollerare situazioni
inefficienti, con un inutile dispendio di risorse.
Anche queste poche osservazioni dovrebbero risultare sufficienti a convincere il
lettore circa il rilievo che i quadri istituzionali assumono nel determinare il grado di
vitalità che un sistema è in grado di esprimere. Pur all’interno di un approccio
individualista metodologico, che riconosce il rilievo teorico dell’autonomia degli attori
individuali, il quadro istituzionale dunque conta e può fare la differenza. Come ci
ricorda Parri, è un istituzionalismo “ben temperato”, a là Boudon, quello che serve per
comprendere, nel rispetto dell’unicità dei percorsi e dell’imprevedibilità degli esiti, i
processi evolutivi di sviluppo di un sistema economico-sociale. A condizione appunto
che non si ricada in una qualche forma di determinismo ma si ponga al centro
dell’analisi il rapporto tra la dimensione micro e quella macro, tra imprenditorialità e
istituzioni. Sarà l’indagine comparativa sviluppata nelle pagine seguenti a fornire
contenuti specifici al percorso interpretativo che si va delineando e a permettere la
formulazione di un giudizio più articolato sull’efficacia di architetture istituzionali
diverse con riferimento alla vitalità imprenditiva di un area sistema. Prima è però
necessario sviluppare qualche ulteriore considerazione di carattere generale per meglio
orientare l’analisi empirica successiva.
7 Si veda Aoki-Murdock-Okuno Fujivara 1997, p. 34.
7
2. Imprenditorialità e istituzioni.
La “creazione di conoscenza”, nel caso dell’imprenditore schumpeteriano, non è
riducibile alla sola dimensione cognitiva. L’incertezza con cui tale produzione di
conoscenza è costretta a misurarsi impone infatti di assumersi “il rischio”della verifica
pratica della bontà della medesima e mette dunque in gioco necessariamente anche una
dimensione motivazionale. L’imprenditore deve non solo raggiungere cognitivamente
una propria convinzione circa l’idea di business che intende perseguire e sulle migliori
strategie per attuarla ma deve anche decidere con quale livello di determinazione
intenda perseguire il proprio corso di azione, o in altri termini quale orizzonte temporale
deve assumere per verificare l’efficacia delle proprie scelte a fronte dell’incertezza del
contesto. Un orizzonte troppo breve (ovvero un impegno motivazionale debole) può
condurre a corsi di azione miopi e opportunisti: si finisce col tener conto solo delle
convenienze immediate, adattandosi reattivamente ai mutevoli e spesso casuali stati
dell’ambiente e rinunciando a strategie di più ampio respiro; uno troppo lungo (ovvero
un eccesso di “visione” e di impegno motivazionale nel perseguirla) può indurre a
strategie che cadono nell’hayekiano “abuso della ragione”: si mantengono corsi di
azione nonostante le smentite dell’ambiente, giustificandoli con possibili risultati futuri,
tanto posposti nel tempo da risultare praticamente inverificabili, ed esponendosi così al
rischio di esiti catastrofici.
Le diverse propensioni motivazionali individuali si combinano poi con l’effetto
regolativo del quadro istituzionale. Questo può presentare, come si è detto, una
attitudine a commettere errori selettivi del primo piuttosto che del secondo tipo, dunque
riequilibrando o invece piuttosto rafforzando i bias (verso la miopia o l’eccesso di
previdenza nelle decisioni) indotti dalle configurazioni motivazionali presenti. Lo snodo
critico, in cui questo rapporto tra propensioni individuali e selezione sociale può essere
letto in tutta la sua complessità e problematicità, è quello relativo all’assunzione e
gestione del “rischio imprenditoriale”. Se il rischio è inscindibile dall’azione
imprenditoriale, dai meccanismi che lo governano finirà col dipendere in larga misura la
dinamica stessa della creazione di conoscenza e dunque l’innovazione. Al rischio
imprenditoriale risultano infatti strettamente commisurati gli incentivi sociali alla
produzione di conoscenza e all’innovazione. Profitto economico e prestigio sociale
8
sono le ricompense che la società riconosce a coloro che hanno rischiato con successo
una innovazione e la loro entità è una qualche funzione della dimensione del rischio
connesso all’innovazione introdotta: quanto più impegnativa (in termini di investimenti)
e radicale (in termini di incertezza sul possibile esito) la soluzione tentata, tanto
maggiori il profitto e il prestigio che ne potranno derivare qualora la soluzione si riveli
ex post efficace. Profitto e prestigio non svolgono solo una funzione di incentivo sociale
all’assunzione del rischio imprenditoriale, operano anche come meccanismo di rinforzo
nei processi di selezione. Gli imprenditori che abbiano avuto successo (e che si presume
perciò abbiano qualità imprenditive superiori) disporranno di maggiori capitali
(conseguenza sia del possibile rinvestimento dei profitti accumulati che della capacità di
mobilitare capitali altrui grazie al prestigio accumulato) per avviare altre e più
impegnative sperimentazioni innovative. Quelli meno capaci, viceversa, disporranno di
minori risorse (sia proprie che altrui) e il loro peso nel processo evolutivo verrà
ridimensionato negativamente.
A livello individuale, la propensione al rischio varierà in funzione dell’entità della
ricompensa sociale ad esso connessa e del rapporto tra risorse impegnate nello
specifico corso d’azione rischioso e risorse totali su cui si può contare. Tale valutazioni,
ancorché non sottratte agli schemi cognitivi e motivazionali individuali, risentono
(come si è già notato) dei modelli culturali diffusi nonché del quadro regolativo in
essere. Il valore della ricompensa è infatti sempre commisurato alle aspettative: ritorni
che, a fronte di certe aspettative, risultano modesti e scarsamente incentivanti possono,
in altri contesti sociali e con diverse aspettative, essere ritenuti assolutamente
interessanti. Del resto, la ricompensa sociale al rischio imprenditoriale è sempre, come
si è detto, sia materiale (profitto) che morale (prestigio) e il mix tra le due componenti è
fortemente dipendente dal contesto culturale d’appartenenza. Culturalmente e
socialmente condizionata è anche la dimensione della posta che si è disposti a mettere in
gioco rispetto alle risorse disponibili. Società caratterizzate da una forte componente di
ceto renderanno infatti gli individui più restii a “giocarsi tutto” rispetto a società che
privilegino la mobilità e attribuiscano scarso rilievo agli stili di vita acquisiti.
Analogamente culture che sanzionino fortemente con la perdita di prestigio sociale gli
insuccessi economici disincentiveranno l’attitudine “a rischiare errori”, mentre culture
più tolleranti – attente a discernere tra errori frutto di scarsa serietà o impegno ed errori
9
viceversa conseguenti allo stato di incertezza – incoraggeranno la propensione
innovativa.
Al di là comunque di questi aspetti storicamente specifici, in via teorica generale si
può plausibilmente affermare che la propensione al rischio da parte dei singoli attori
dipenderà (a parità di altre condizioni) dalla dimensione dei rischi che essi saranno
chiamati ad assumersi a partire dalle condizioni strutturali (tecnologiche, organizzative
e di mercato) entro cui operano. Quanto più la dimensione media delle poste in gioco
aumenta, tanto più ridotto risulterà essere il numero di attori disposti ad assumersi
direttamente e interamente i rischi imprenditoriali connessi a tale configurazione
tecnico-economica. Ed è a questo punto che entra in gioco il quadro istituzionale nelle
sue componenti specificamente regolative. Le istituzioni economiche ma anche quelle
economicamente rilevanti (per usare la classificazione weberiana riproposta da Parri)
possono infatti agire da agenzie di socializzazione del rischio imprenditoriale. Questa
funzione risulta particolarmente evidente con riferimento alle istituzioni economiche:
mercati e istituzioni finanziarie, regole di corporate governance, norme (di diritto o di
fatto) relative alla flessibilità delle relazioni di lavoro permettono di condividere in
misura maggiore o minore con altri (siano essi shareholders o stakeholders) il rischio
d’impresa. Ma seppure in modo meno diretto e immediatamente manifesto, anche le
altre istituzioni politiche e sociali possono incidere significativamente sulla possibilità
di condividere socialmente i rischi imprenditivi. Le azioni dei governi (locali o
nazionali) possono ridurre significativamente i rischi di impresa, sia trasferendo alla
collettività parte dei costi relativi alla produzione di innovazione che assumendosi
l’onere di intervenire con ammortizzatori sociali nei processi di selezione di mercato. E’
da attribuire poi principalmente al merito della letteratura sullo sviluppo delle aree ad
economia diffusa l’aver richiamato l’attenzione sulla funzione di istituzioni quali la
famiglia, le relazioni fiduciarie di comunità o i rapporti di reciprocità sociale nel
permettere il trasferimento ad altri di parte almeno del rischio imprenditoriale in capo al
singolo.
Su questi aspetti tornerà nel dettaglio l’analisi comparativa successiva, quello che
importa qui ancora notare è che la vitalità imprenditiva può essere indebolita sia da un
difetto che da un eccesso di socializzazione del rischio. Un sistema istituzionale che non
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sappia socializzare adeguatamente i rischi e metta di conseguenza gli attori individuali
di fronte ad una situazione di palese sproporzione tra dimensione soggettiva dei rischi
che essi sono disposti ad assumersi e dimensione oggettiva degli stessi si condannerà
alla sterilità per carenza di azioni imprenditive. Viceversa un sistema che ecceda nella
condivisione sociale dei rischi va incontro a due inconvenienti di segno opposto.
Innanzitutto quello di disincentivare l’assunzione del rischio imprenditoriale da parte
dei singoli: la socializzazione – per non risultare lesiva dei principi di fairness e per
poter essere accettata socialmente – comporta una qualche redistribuzione (non
necessariamente perfetta ma comunque socialmente riconoscibile) delle ricompense
connesse al rischio e di conseguenza produce un effetto di livellamento nei differenziali
di profitto e prestigio che finisce con l’indebolire progressivamente il potere motivante
degli stessi. La funzione che lega propensione imprenditiva e socializzazione dei rischi
di impresa è dunque una funzione concava (ad U rovesciata): in un primo tratto la
propensione sale al crescere della socializzazione, raggiunto il punto massimo ottimale
ridiscende quale conseguenza di un effetto disincentivante della stessa. Pertanto, anche
se sono possibili (e non solo in via teorica) sistemi in grado di distribuire centralmente
le risorse prodotte così da socializzare interamente il rischio imprenditoriale (è il caso
del socialismo di stato), tali sistemi risultano nei fatti condannati all’immobilismo per il
venir meno degli stimoli individuali all’innovazione. Vanno poi incontro anche ad un
secondo (se possibile anche più grave) inconveniente. L’eccesso di socializzazione
comporta infatti la concentrazione delle risorse disponibili lungo un unico percorso
innovativo che, se dovesse risultare fallimentare, potrebbe condurre ad esiti catastrofici.
In altri termini, si verrebbe in tal modo a vanificare il meccanismo, fondamentalmente
di tipo assicurativo, su cui si regge in ultima istanza la socializzazione del rischio
imprenditoriale.
L’impossibilità a calcolare in termini di probabilità oggettiva il rischio – a fronte
dell’incertezza radicale che caratterizza le scelte imprenditoriali veramente innovative8
– può indurre in verità, anche lontano da situazioni limite quale quella appena ipotizzata
di economie pianificate centralmente, sia a comportamenti di azzardo morale da parte
8 Per una distinzione tra rischio (calcolabile in termini di probabilità oggettive) e incertezza (stimabile
al più solo in termini di probabilità soggettiva) si veda Elster 1993, pp. 46 e ss..
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dei singoli che di sovraesposizione al rischio da parte del sistema nel suo complesso.
Questi dilemmi cominciano ad essere studiati soprattutto da coloro che si occupano di
regole di stabilità dei sistemi finanziari9. E’ infatti possibile, almeno in via teorica,
concepire architetture istituzionali più o meno efficaci nel risolvere tali dilemmi. Questo
sarà appunto il compito delle pagine seguenti. La Figura 1 riassume invece in modo
sintetico lo schema delle relazioni sinora sviluppato.
Figura 1. Le principali relazioni del modello
3. I casi considerati dalla ricerca.
L’analisi comparativa si avvarrà principalmente (anche se non esclusivamente) della
ricostruzione delle quattro aree di sviluppo locale (Casarano, Montebelluna, Sassuolo e
9 Si veda ad esempio Fiocca, 2000.
Performance disviluppo
Contingenza
VITALITÀ
IMPRENDITORIALITÀ
QUADROISTUTUZIONALE
Dimensionecognitiva
Dimensionemotivazionale
Regole di socializ-zazione del rischio Modelli culturali
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Vigevano) prese in esame nella seconda parte del presente volume10. Il disegno della
ricerca ha individuato i quattro casi di studio a partire da una preliminare analisi delle
caratteristiche economiche e socio-istituzionali dei medesimi, così da poter disporre di
un insieme significativo di esperienze storico-empiriche coerenti con gli obiettivi e con
le ipotesi teoriche sopra richiamate. Preliminarmente, in questo paragrafo, si darà conto
di tale scelta.
Il primo criterio considerato nella selezione dei casi è stato quello di disporre di
quattro realtà locali con un diverso grado di vitalità. Di vitalità e non di performance
(relative) di sviluppo, perché – come si è cercato di argomentare più sopra – è la prima
e non la seconda a costituire la variabile dipendente del modello. La scelta è caduta così
su due aree distrettuali, Sassuolo e Montebelluna, che per performance economiche di
medio lungo periodo, ma soprattutto per capacità di reagire positivamente ai momenti di
crisi (che pure hanno segnato la loro storia) e per dinamicità della classe imprenditoriale
locale possono essere senz’altro annoverati tra i distretti italiani a più elevata vitalità. A
queste si è aggiunto il distretto di Casarano: un’area di sviluppo locale del
Mezzogiorno, ormai ben consolidata, con performance di sviluppo (come per tutte le
aree del sud) nettamente più ridotte di quelle delle aree sistema del nord-est e del centro,
ma tuttavia con una vitalità interna che in questi ultimi anni si è estrinsecata in un
ambizioso tentativo di uscir fuori dalle debolezze economiche e istituzionali della
società meridionale attraverso la prassi dei patti territoriali d’area. Come caso, per così
dire, “di controllo” si è scelto infine il distretto di Vigevano: un’area sistema che
appartiene invece al nord sviluppato, con livelli di prodotto interno e in generale di
sviluppo chiaramente superiori a quelli di Casarano (anche se inferiori rispetto a quelli
di Sassuolo e Montebelluna), ma caratterizzato non solo da una crisi economica del
comparto produttivo storico dell’area (il calzaturiero) ma anche e soprattutto da una
crisi di continuità generazionale e di più generale sfiducia nel futuro della sua classe
imprenditoriale. Quattro casi dunque che offrono un intervallo di variazione della
variabile dipendente sufficientemente ampio e significativo ai fini della comparazione
che si intende svolgere.
10 Curata da Lino Codara ed Erica Morato per i casi di Casarano e Montebelluna e da Giangiacomo
Bravo e Elisabetta Merlo per i casi di Sassuolo e Vigevano.
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L’analisi qualitativa, per altro, dovendo necessariamente operare su un numero
ridotto di casi, deve garantirsi un insieme di essi sufficientemente vario anche per
quanto concerne la configurazione delle variabili esplicative ipotizzate dal modello. La
scelta si è così indirizzata verso distretti significativamente diversi sia per struttura
d’impresa che per quadro istituzionale. Sotto il primo profilo i quattro distretti si
differenziano in maniera evidente. Con riferimento infatti alla cluster analysis svolta da
Ivana Paniccia su 24 aree di sviluppo locale11, i distretti di Sassuolo e Montebelluna
ricadono all’interno del primo cluster, caratterizzato da una forte presenza di imprese
medio-grandi, con un significativo livello di automazione, managerializzazione e
terziarizzazione interna, che ricorrono a rapporti di subfornitura formalizzati con le
numerose piccole imprese presenti nell’area, e con una forza lavoro di tipo tradizionale,
mediamente scolarizzata e a prevalenza di lavoro maschile. Vigevano rientra invece nel
secondo cluster, che si distingue per un elevato tasso di terziarizzazione non industriale
e un peso declinante del settore manifatturiero, segno questo più di debolezza che di
forza, almeno in assenza (come nel caso del distretto in questione, seppure non di altri
appartenenti al medesimo cluster) di strategie di sviluppo veramente innovative rispetto
alla tradizione manifatturiera. Casarano infine risulta ricompreso nel quarto cluster, a
cui appartengono anche altre aree distrettuali che l’autrice definisce “embrionali”. Si
tratta di aree localizzate prevalentemente nel sud, con una struttura industriale
polarizzata tra poche grandi imprese, fortemente integrate verticalmente, e numerose
micro imprese, che operano però per lo più come subfornitori di imprese esterne al
distretto. Evidenti sono poi i segni di una perdurante marginalità economica e sociale:
elevati tassi di disoccupazione e di inattività, bassi tassi di scolarità, reddito pro capite al
di sotto della media nazionale.
Rispetto ai quattro tipi che emergono dalla cluster analysis considerata, manca un
caso rappresentativo del terzo cluster, che include i distretti definiti “canonici”. Si tratta
di aree contraddistinte da una struttura economica composta prevalentemente di medio-
piccole imprese, che risultano per altro fortemente integrate tra loro secondo un modello
di specializzazione flessibile, grazie ai rapporti informali e fiduciari che ne
caratterizzano le relazioni economiche. Basso è il livello di terziarizzazione, così come
11 Paniccia 1999.
14
scarsa è la percentuale di impiegati presenti e il tasso di managerializzazione. Tipiche
anche le caratteristiche sociali che accompagnano questa configurazione, segnata dalla
presenza di famiglie allargate, da un forte senso di appartenenza alla comunità locale e
da una formazione prevalentemente tecnica e acquisita direttamente sul posto di lavoro.
Come nota l’autrice, i sistemi locali attribuibili a questo tipo sono assai più ridotti
numericamente12 di quanto non faccia ritenere la letteratura sui distretti, conseguenza
forse delle condizioni particolarmente impegnative che assetti economici siffatti
richiedono per il loro funzionamento. La ricerca presentata in questo volume non ha
comunque trascurato un caso di questo tipo per la sua (supposta) scarsa rilevanza
empirica nell’insieme delle aree distrettuali italiane. Non lo ha considerato nella parte
empirica di ricostruzione dei casi solo perché ha ritenuto di poter utilizzare ai fini della
analisi comparativa i risultati del lavoro che alcuni dei partecipanti13 a questo ricerca
hanno condotto in un recente passato su un area distrettuale, quella di Lumezzane, che
può essere a tutti gli effetti considerata conforme al modello dei distretti “canonici”,
ancorché non inclusa nel campione considerato da Paniccia.
Anche sotto il profilo istituzionale poi, i casi presi in considerazione sembrano poter
assolvere alla completezza delle configurazioni empiriche ritenute teoricamente
interessanti. Con riferimento alla ricerca di Arrighetti-Seravalli già citata14 – che
individua quattro diversi cluster di configurazione delle istituzioni intermedie presenti a
livello provinciale – i casi considerati coprono tutti e quattro i modelli ivi delineati.
Casarano ricade infatti all’interno del cluster che connota le province meridionali,
caratterizzate da limitatezza e debolezza dei quadri istituzionali, sia con riferimento ai
governi locali che alle associazioni economiche. L’analisi successiva valuterà quanto
l’evoluzione più recente, segnata principalmente dal patto territoriale d’area, abbia
12 Nel set considerato dall’autrice (composto come si è detto da 24 aree) ricadono entro questo cluster
solo i distretti di Prato, Sant’Elpidio e Santa Croce.13 L’analisi successiva farà principalmente riferimento per Lumezzane a Provasi 1995b e, per la parte
storica, a Belfanti 1996. Sui modelli motivazionali e sugli orientamenti cognitivi degli imprenditorilumezzanesi si veda anche Provasi 1999.
14 Arrighetti-Seravalli 1999. A differenza del lavoro di Paniccia che considera i distretti, quello diArrighetti-Seravalli considera come unità minime di analisi le province. Almeno in primaapprossimazione però si può ritenere che gli assetti istituzionali caratterizzanti un’area distrettualepossono essere ricompresi all’interno della configurazione istituzionale provinciale a cui tale areaappartiene.
15
superato (o possa in prospettiva superare) e in quali termini questi limiti. Vigevano
appartiene invece al modello tipico della aree del “triangolo industriale”, con estensioni
nelle province della pianura veneta. In queste aree si registra una presenza significativa
dei governi locali, ma limitata ad interventi di tipo infrastrutturale. L’associazionismo,
se si esclude quello di rappresentanza degli interessi delle grandi imprese, risulta invece
complessivamente piuttosto debole. Al medesimo cluster deve per altro essere
ricondotto anche il caso di Lumezzane (provincia di Brescia): una indagine più
approfondita (realizzabile appunto mediante gli studi di caso, ma impossibile attraverso
una metodologia quantitativa quale quella adottata da Arrighetti-Seravalli) permetterà –
nel prosieguo di questo contributo – di individuare le ragioni della differente vitalità
espressa dalle due aree sistema. Montebelluna, insieme alla provincia di Treviso, integra
poi la fattispecie del modello proprio delle aree a forte localismo economico (il nord-est,
ma anche – secondo le risultanze di Arrighetti-Seravalli – alcune province del centro e
del nord-ovest): debolezza complessiva dei governi locali e delle associazioni di
rappresentanza, ruolo significativo delle associazioni tecnico-economiche e del sistema
di banche locali. Sassuolo infine, con buona parte delle province “rosse” emiliane e del
centro Italia, appartiene ad un diverso modello, caratterizzato da una più articolata ed
equilibrata configurazione istituzionale, con una presenza significativa
dell’associazionismo di rappresentanza anche degli interessi artigiani e della piccola e
media industria e una notevole capacità dei governi locali e delle istituzioni economiche
di “fare rete” e di creare per tale via esternalità positive per il sistema economico nel suo
complesso.
Facendo sintesi delle risultanze dei lavori di Paniccia e Arrighetti-Seravalli (e
integrandoli con la cospicua letteratura secondaria utilizzata nel corso della ricerca) si
può dunque pervenire ad una prima approssimativa tipologia delle aree sistema presenti
nel nostro paese e qui rappresentate dai distretti presi in considerazione. La prima
dimensione considerata, in coerenza con la griglia teorica sviluppata nei paragrafi
precedenti, è quella dell’imprenditorialità. Schematicamente si possono classificare le
aree sistema in funzione della forza o debolezza del sistema d’impresa presente, sia che
la forza si esprima attraverso una struttura gerarchizzata, a partire da alcune imprese
leader operanti sul territorio, sia che derivi dall’integrazione di un tessuto vitale di
piccole e medie imprese a specializzazione flessibile. La debolezza, viceversa, potrà
trarre origine sia da una struttura caratterizzata dalla presenza di medio-grandi imprese
integrate verticalmente ma fragili economicamente che da un tessuto di piccole e
piccolissime imprese incapaci di fare sistema. La seconda dimensione contempla,
sinteticamente, il grado di influenza delle istituzioni economicamente rilevanti, siano
esse rappresentate dai governi locali e/o dal sistema di rappresentanza collettiva degli
interessi e dalle agenzie economiche. La Figura 2 presenta il risultato di questa
preliminare classificazione.
Figura 2. I casi considerati rispetto alle di
I casi considerati sembrano dunque in
teorico della ricerca. E’ interessante anche
nella sua semplicità e almeno in prima app
riscontrate nella variabile dipendente de
Discriminante sembra essere soprattutto i
Montebelluna – che, come si è visto, occup
– si contraddistinguono anche per la pre
esercitare una leadership forte sull’econo
Montebelluna, presenta inoltre un quad
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e di equilibrare il
tessuto delle piccole
17
imprese, anche un modello sociale destinato forse a maggiore tenuta anche sul lungo
periodo. E’ la presenza invece di un quadro istituzionale dinamico (a seguito del recente
protagonismo soprattutto dei governi locali della provincia di Lecce15) ad attribuire una
certa vitalità al distretto di Casarano, anche se una analisi più puntuale si renderà
necessaria per cogliere potenzialità e limiti di una tale soluzione. Vigevano infine, che
presenta sia un calante dinamismo imprenditivo che un quadro istituzionale poco
presente nell’accompagnare e rilanciare lo sviluppo economico, si colloca al livello più
basso della vitalità delle aree sistema considerate. Rilevante, al fine delle considerazioni
che verranno di seguito sviluppate, è poi la posizione dei distretti “canonici” come
Lumezzane. Questi sembrano infatti doversi collocare in una posizione intermedia
lungo entrambi le dimensioni della classificazione adottata. Il modello di piccola
impresa integrata in un sistema di specializzazione flessibile si è retto infatti soprattutto
su relazioni di comunità del tutto particolari, che hanno consentito una vitalità “di
sistema”, pur in presenza di piccole imprese in sé non sempre dinamiche e innovative e
di un quadro istituzionale strutturalmente debole. E’ per questo che conviene partire
proprio dal modello “canonico” per analizzare più nel dettaglio (e al di là di un semplice
riscontro multivariato) le complesse relazioni che legano nella realtà dello sviluppo
locale imprenditorialità ed istituzioni.
4. Il “capitale sociale originario” nello sviluppo locale.
Il modello “canonico” può tornare utile infatti come termine di riferimento rispetto al
quale definire appunto le condizioni di possibilità e le varianti (più o meno efficaci) che
si sono storicamente date in assenza di una o più di tali condizioni. Un’ampia e
convergente letteratura ha avuto modo di delineare i tratti essenziali di un distretto
tipico16: (1) una struttura di piccola impresa, caratterizzata da una divisione sociale del
lavoro – detta di specializzazione flessibile – particolarmente efficace perché in grado
di garantire una elevata flessibilità della filiera produttiva nel suo complesso e insieme
15 Di cui per ragioni temporali e di disegno empirico della ricerca il lavoro di Arrighetti-Seravalli non
ha potuto tener conto.16 Il riferimento d’obbligo è al “padre”, riconosciuto universalmente, di tale importante filone di studi:
Giacomo Becattini. Fra i suoi numerosi contributi si veda Becattini 1991. Sulla specializzazione flessibilecome alternativa al modello d’impresa fordista classico si veda anche Piore-Sabel, 1984.
18
una specializzazione di scopo delle singole imprese; (2) la condivisione delle
informazioni tecnologiche e di mercato necessarie al coordinamento dal basso delle
varie attività e alla produzione cooperativa di nuova conoscenza; (3) dei rapporti tra le
imprese di “quasi mercato”: relazioni cioè formalmente di scambio ma innervate da forti
legami fiduciari, resi possibili dalla comune appartenenza ad una comunità di luogo e
tali da permettere appunto la circolazione delle informazioni rilevanti e l’assunzione
credibile di impegni reciproci. Ne consegue un contenimento dei costi di transazione e
il possibile sviluppo – pur all’interno di relazioni parzialmente competitive – di forme
spontanee di cooperazione sociale. Chi scrive ha avuto modo, nella ricostruzione citata
del caso lumezzanese, di mettere in evidenza un corollario importante di questa
configurazione17. La divisione sociale del lavoro appena descritta ha permesso infatti di
contenere (almeno per una lunga fase di sviluppo) le dimensione aziendali e le soglie di
rischio connesse allo sviluppo della attività imprenditoriale, mentre le relazioni parentali
e fiduciarie tipiche di queste realtà hanno agito da efficaci agenzie di socializzazione del
medesimo. Se a ciò si aggiungono alcune condizioni culturali e motivazionali specifiche
(presenti a Lumezzane così come nelle altre realtà distrettuali “canoniche”), è facile
comprendere come queste aree abbiano espresso una elevata propensione soggettiva
all’intraprendere e sviluppato una varietà interna di esperienze imprenditoriali risultata –
almeno per una lunga fase del loro sviluppo – assai efficace da un punto di vista
evolutivo. Non si deve dimenticare per altro che se tale varietà di esperienze ha potuto
essere evolutivamente efficace, ciò è dipeso anche dalla capacità selettiva del sistema
che ha operato mantenendo alta la competizione sia interna (tra le imprese del distretto)
che esterna di mercato e sviluppando una cultura dai forti tratti meritocratici.
Ora, la letteratura citata sui distretti, per lo più di matrice e di sensibilità economica,
non ha mai spiegato in modo soddisfacente l’apparente contraddizione tra il requisito di
legami fiduciari forti, esito di relazioni solidaristiche comunitarie, e la presenza di
efficaci meccanismi selettivi meritocratici e di mercato. E’ un indiscutibile merito di
questa letteratura avere rotto con gli schematismi della teoria funzionalista della
modernizzazione, che concepiva lo sviluppo come un processo unilineare, privo di
tensioni tra i diversi livelli (economico, sociale e politico), e avere mostrato come gli
17 Provasi 1995b, p. 86 ss..
19
assetti economico-sociali concreti siano piuttosto soluzioni contingenti, costituite
dall’intreccio di elementi diversi, ciascuno caratterizzato da sue proprie logiche.
Tuttavia non si può dare per scontato che un assetto sociale tradizionale non solo possa
convivere ma possa persino risultare più efficace e funzionale di uno moderno allo
sviluppo di una economia di mercato. Esistono logiche sottostanti (sintetizzabili nelle
classiche dicotomie particolarismo-universalismo e individualismo-collettivismo) la cui
compresenza all’interno del medesimo assetto sociale necessita di una più approfondita
attenzione, quantomeno per coglierne tutte le implicazioni di intreccio e per prevederne
la stabilità o i possibili sbocchi evolutivi. E in effetti, in anni recenti, una letteratura più
sociologica che economica ha cominciato opportunamente a mettere a tema questo
aspetto della interessante (e ricca di insegnamenti) storia dei distretti italiani18.
Lo spunto teorico di questa ulteriore riflessione sulle condizioni sociali dello
sviluppo è venuto dal concetto di “capitale sociale”, sviluppato soprattutto da Pierre
Bourdieu, James Coleman e Alejandro Portes19. Con questo concetto si intende
l’insieme delle relazioni sociali di cui può disporre un soggetto individuale o collettivo e
attraverso le quali si rendono accessibili risorse cognitive e/o normative con cui
realizzare obiettivi altrimenti irraggiungibili20. Nel caso specifico, è il capitale di
relazione a disposizione dei partecipanti della comunità locale che, sovrapponendosi in
parte alle relazioni di mercato, rende possibile la circolazione delle informazioni e la
fiducia che sono alla base del peculiare modello di sviluppo dei distretti sopra delineato.
Non è questa la sede per entrare nel merito di un dibattito promettente ma – almeno a
giudizio di chi scrive – non ancora risolto in modo soddisfacente, basti qui riprendere
due riflessioni che da tale dibattito sono scaturite e che risultano utili ai fini dell’analisi
empirica che si sta sviluppando.
La prima attiene alla produzione del capitale sociale. Come Coleman riconosce, il
capitale sociale, ancorché risorsa utilizzabile individualmente, è un bene collettivo i cui
vantaggi – una volta prodotto – sono appropriabili da tutti i partecipanti alla rete. Ciò
18 Per una efficace aggiornamento su questa letteratura si vedano i contributi apparsi nel numero 57
del dicembre 1999 di “Stato e Mercato” (con saggi tra gli altri di Bagnasco, Pizzorno e Trigilia).19 Bourdieu 1980; Coleman 1990; Portes 1998.20 La definizione è ripresa da Trigilia 1999 ed ha il pregio di una efficace sintesi delle diverse
posizioni del dibattito.
20
rende probabili comportamenti di free riding che possono ostacolare se non impedire
del tutto la produzione di capitale sociale. Coleman infatti, pur non escludendo in via di
principio che si possano dare tentativi intenzionali di produzione dello stesso, sembra
propendere piuttosto per l’ipotesi che la maggior parte delle forme di capitale sociale
vengano generate come sottoprodotto di altre attività. Nel caso specifico dei distretti
“canonici”, dalla presenza di attività di relazione comunitarie preesistenti e dal forte
senso di appartenenza che continua ad accompagnare lo sviluppo industriale di queste
aree. Ma se il capitale sociale di cui hanno beneficiato i distretti è un lascito della
società preesistente (quello che Coleman chiama “capitale sociale originario” o
primordiale), si pongono immediatamente due problemi: (1) quanto una dotazione di
capitale sociale che è il prodotto di relazioni particolaristiche e solidaristiche possa
risultare compatibile con le esigenze individualistiche e universalistiche proprie dello
sviluppo economico moderno e (2) come tali relazioni possano essere rinnovate, dal
momento in cui la diffusione delle relazioni di mercato tende inevitabilmente a
distruggere i lasciti tradizionali.
A questi interrogativi cerca di rispondere la seconda riflessione sopra richiamata.
Questa distingue due tipi di capitale sociale21: per usare i termini proposti da Pizzorno,
il capitale sociale “di solidarietà” e quello “di reciprocità”22. Il primo è il prodotto
secondario appunto di gruppi coesi, spesso caratterizzati da rapporti primari faccia a
faccia, i cui membri risultano legati tra loro da vincoli forti e duraturi. Il secondo è
invece il risultato intenzionale (se non razionale) di individui che reputano conveniente
stabilire relazioni stabili con altri soggetti (non necessariamente legati da rapporti
esclusivi o a forte valenza morale ed emotiva) e ricercano pertanto forme di reciprocità
che permettano un mutuo riconoscimento. Il problema è che la prima forma, che sembra
più facilmente producibile (e anche rinnovabile attraverso forme di solidarietà politiche
non tradizionali), è di dubbia compatibilità con le esigenze di una economia moderna di
mercato; mentre la seconda, che sembra essere quella più consona a tali esigenze, è
anche quella di più di difficile producibilità. La prima forma di capitale sociale si
21 Portes 1998; Flora 1998; Pizzorno 1999.22 Analoghe distinzioni, anche se non perfettamente coincidenti sotto un profilo strettamente
concettuale, si trovano anche in Portes e Flora citati alla nota precedente.
21
caratterizza infatti per relazioni omogenee all’interno ed esclusive verso l’esterno23 e
tende pertanto ad alimentare comportamenti particolaristici che possono nuocere
all’imperativo di varietà e apertura del sistema e ai principi competitivi e non collusivi
di selezione che devono essere posti alla base di una economia vitale24. Ma come hanno
potuto allora i distretti “canonici” sfuggire alla trappola del particolarismo presente
nelle forme omogenee ed esclusive di capitale sociale primordiale? e la loro esperienza
può insegnare qualche cosa per la produzione di forme più moderne ed efficaci
(eterogenee ed inclusive) di capitale sociale?
La ricostruzione che chi scrive ha condotto del caso di Lumezzane sembra far
propendere per una interpretazione che vede come protagonisti di questo processo la
famiglia (e la comunità locale come estensione delle dense relazioni parentali esistenti)
da un lato e il mercato dall’altro. La realtà di Lumezzane ha sviluppato una cultura
improntata sin dall’inizio ad un forte individualismo etico, soprattutto perché costretta
dalla precoce necessità di porre in essere attività manifatturiere e di mercato per
garantire la sopravvivenza della famiglia e della comunità locale. E’ il lento (ma
obbligato) metabolismo del mercato e delle logiche efficientiste della tecnica dentro le
relazioni di solidarietà proprie di una famiglia costretta ad uscir fuori rapidamente dai
ristretti circuiti dell’auto-consumo agricolo, a far sì che imperativi etici e solidaristici
potessero convivere insieme ad un forte spirito individualistico, pragmatico e
acquisitivo, che lo stesso contesto familiare si incaricava di selezionare positivamente
come imperativo irrinunciabile per la sua stessa sopravvivenza. E’ questo equilibrio di
fondo, al cuore dell’istituzione familiare, ad alimentare legami e valori comunitari ma
anche autonomia individuale, volontà di affermazione personale e desiderio di
differenziazione. I legami restano “forti”, alimentati da un senso di appartenenza alla
famiglia e alla comunità vissuto con alta intensità emotiva e morale, ma la
differenziazione che consegue all’autonomia riconosciuta ai singoli obbliga a misurarsi
con una realtà precocemente non omogenea al proprio interno e a definire da subito
criteri di riconoscibilità sociale non basati sulle affinità di appartenenza ma su principi
23 Per questa distinzione tra relazioni omogenee e esclusive vs. relazioni eterogenee e inclusive si veda
Flora 1998.24 Per un assai opportuno richiamo al “lato oscuro”, particolaristico, delle relazioni fiduciarie e per gli
effetti negativi sullo sviluppo di una società moderna e di una economia dinamica si veda Trigilia 1998.
22
etici e (almeno potenzialmente) universalistici. Con ciò non si vuole sostenere che il
capitale sociale originario che ha reso possibile lo sviluppo di questa realtà sia
rubricabile senz’altro nella categoria del capitale “di reciprocità”, quanto piuttosto che
sono esistite sin dall’inizio dentro le forme tradizionali del capitale “di solidarietà”
spinte concrete verso forme di relazione più moderne, individualistiche e
universalistiche, e sono stati questi impulsi ad aver consentito l’evoluzione del modello
nella direzione delineata.
Non è detto che questo percorso, molto specifico e quasi certamente irripetibile, sia
comune anche ad altri distretti “canonici”, anche se una certa precocità di esperienze
mercantili e/o manifatturiere (piuttosto che agricole), accompagnate dalla presenza di
culture locali dai forti connotati etico-solidaristici, sembra rintracciabile all’origine di
quasi tutte queste realtà. E se questa ricostruzione ha un minimo di plausibilità, bisogna
allora anche riconoscere che all’origine del modello “canonico” di sviluppo distrettuale
vi sia non già una azione intenzionale e consapevole di un qualche soggetto o istituzione
politica, quanto un processo spontaneo, risultato di condizioni congiunturali particolari
e di un processo evolutivo non governato che ha però dato luogo ad un mix ottimale di
pattern sociali. Che un percorso siffatto sia tuttavia storicamente assai improbabile è
dimostrato non solo dall’eccezionalità (come si è detto) delle esperienze che più si
avvicinano al modello sopra tratteggiato ma – “a contrario” – anche dai casi presi in
considerazione in questa ricerca che si discostano tutti, per un verso o per l’altro, da tale
modello e realizzano percorsi loro propri, con gradi di efficacia per altro non
necessariamente inferiori.
I casi di Casarano e Vigevano sono, per ragioni opposte, emblematici della difficoltà
di mantenere un equilibrio dinamico positivo tra relazioni fiduciarie e rapporti di
mercato. Alcuni studi recenti, in considerazione di una indubbia ripresa di vitalità da
parte di alcune aree sistema meridionali, hanno inteso ripercorrere tali esperienze alla
luce della letteratura sui distretti “canonici” e hanno ritenuto (forse troppo
affrettatamente) di poter rovesciare la tradizionale interpretazione, risalente a Banfield e
ripresa più di recente da Putnam25, secondo la quale all’origine dell’arretratezza e del
sottosviluppo meridionali vi sarebbe l’assenza di virtù morali e civiche, la mancanza di
25 Banfield 1958; Putnam 1993.
23
un capitale di relazione originario capace di creare le condizioni sociali per un sistema
di economia diffusa efficiente e dinamico (come nelle aree del nord-est e del centro).
Anche se le critiche (di metodo) a questa interpretazione “classica” del sottosviluppo
meridionale sono condivisibili26, e assai utili sono risultate essere le indagini empiriche
che hanno tratto origine da tale critica e che hanno permesso di documentare la presenza
di capitale sociale anche nelle aree meridionali27, un rovesciamento meccanico della tesi
sembra nel merito altrettanto fuorviante. Almeno nel caso specifico di Casarano (ma
verosimilmente anche di altre aree meridionali) risulta infatti chiaro come, se non la
mancanza, certo la specificità delle relazioni fiduciarie presenti abbia condizionato in
senso negativo la modernizzazione dell’area e costituisca tuttora una sfida aperta sulla
strada di uno sviluppo economico più equilibrato e socialmente meno marginale.
Le relazioni sociali originarie, indotte soprattutto dalla struttura storica di piccola
proprietà contadina, dalla presenza di un modello nucleare di famiglia e dall’assenza di
un sistema politico-statuale di respiro nazionale, hanno potuto alimentarsi solo
all’interno di logiche di clan che si sono in seguito evolute verso forme di clientelismo
politico-affaristico. Il capitale sociale “di solidarietà” tuttora esistente va dunque
certamente al di là del familismo amorale ipotizzato da Banfield, ma resta fortemente
caratterizzato da relazioni particolaristiche che non possono non nuocere allo sviluppo
di una economia diffusa di tipo moderno. Come si è visto, il modello di sviluppo – lungi
dal riuscire ad esprimere una divisione sociale del lavoro di tipo flessibile specialistico –
si è così retto sulla presenza di poche grandi imprese, che hanno cercato di sopperire
alla mancanza di condizioni sociali favorevoli attraverso una forte integrazione
verticale, e su una miriade di micro-imprese cresciute grazie alla flessibilità e ai bassi
costi del lavoro. Condizioni queste, consentite dalle ampie sacche di manodopera
sommersa e mantenute grazie ai trasferimenti dello stato e alle relazioni particolaristiche
alimentate dal clientelismo politico locale. E’ pur vero che in altre aree del
mezzogiorno, come nel teramano28, la lungimiranza di alcuni uomini politici ha
permesso una evoluzione in senso modernizzante delle relazioni particolaristiche
26 Per una critica puntuale e di metodo all’approccio di Putnam si veda Bagnasco 1999.27 Piselli, 1999; Mutti 1998; Piattoni, 1999.28 Si veda Mutti, 1998.
24
proprie del clientelismo locale. Ma ciò non è avvenuto nelle terre del Salento e la sfida
tuttora aperta (su cui torneremo) è appunto quella di vedere se nuovi assetti istituzionali
(quale quelli indotti dai patti territoriali e dai contratti “di emersione”) possano far
evolvere per via politica i sistemi sociali particolaristici tuttora presenti.
Se Casarano è un caso esemplare delle conseguenze negative della permanenza di
relazioni fiduciarie di tipo particolaristico, Vigevano può essere assunto all’opposto
come modello delle conseguenze altrettanto negative (almeno per una economia diffusa
di piccola impresa) di una espansione prematura e troppo rapida di rapporti
individualistici di mercato. Alla fine dell’800, Vigevano si caratterizzava infatti per un
tessuto assai ricco di relazioni ad elevato contenuto fiduciario, come dimostra la
presenza di associazioni, di iniziative cooperative e di socialità, di circoli economico-
finanziari. E’ lo sviluppo industriale a segnare la disgregazione di quel tessuto. Uno
sviluppo industriale che avviene secondo due logiche assai diverse che – per ragioni
contingenti – si sono storicamente succedute. In una prima fase, un modello di sviluppo
capitalistico classico, come per il resto del “triangolo industriale”, di cui Vigevano
partecipa a tutti gli effetti seppure da una posizione inizialmente periferica e dipendente
da Milano. Uno sviluppo che ha comportato, negli anni da fine secolo sino alla seconda
guerra mondiale, processi sociali di accumulazione capitalistica, proletarizzazione e
progressivo disfacimento dei rapporti fiduciari tradizionali. Poi, negli anni del secondo
dopoguerra, un modello di tipo artigianale e di piccola impresa, reso possibile dalle
modeste economie di scala del settore calzaturiero e dalla presenza di una grande
quantità di operai e lavoranti a domicilio alla ricerca di un riscatto economico e sociale.
Questo secondo modello – che segna lo sviluppo recente del distretto – non ha potuto
peraltro contare su un capitale sociale originario, che era andato distrutto nella fase di
sviluppo precedente e che poteva difficilmente essere rigenerato facendo leva su
appartenenze e specificità comunitarie locali, vista anche la vicinanza geografica e
culturale con una grande area di sviluppo metropolitano quale era Milano. Né ha potuto
avvalersi di una qualche forma di gerarchizzazione interna, posta in capo a una o più
imprese leader, o di coordinamento politico-istituzionale. Su queste assenze si dovrà
tornare. Qui basti osservare che la carenza di un tessuto di relazioni fiduciarie ha
impedito che si producessero quelle condizioni di circolazione delle informazioni e di
divisione sociale del lavoro proprie invece delle aree a specializzazione flessibile.
25
Le piccole imprese locali restano infatti chiuse in sé stesse, decentrano al più
secondo logiche strumentali di convenienza immediata e perdono così la possibilità di
una qualche innovazione radicale di prodotto (come è avvenuto per Montebelluna) o di
una ricollocazione su mercati di più alta qualità (come riuscirà invece ai distretti
calzaturieri marchigiani). La mancanza di un imprenditore leader, capace di una
soluzione innovativa di per sé in grado di imprimere nuova energia all’intero sistema,
può essere imputata anche al caso, nondimeno la frammentazione del tessuto economico
in una galassia di piccoli imprenditori, caratterizzati da motivazioni di breve periodo e
incapaci di un disegno comune, ha certamente influito negativamente sulle potenzialità
del distretto e ha contribuito a innescare quel circolo vizioso di aspettative negative che
tendono ad auto-realizzarsi e che sono alla radice della grave crisi interna di vitalità che
l’area sta attraversando ormai da alcuni anni. Se le dimensioni di piccola impresa del
settore hanno dunque permesso inizialmente l’assunzione di modesti rischi
imprenditoriali e hanno favorito la propensione ad intraprendere, l’assenza di
meccanismi efficaci di socializzazione del rischio (attraverso relazioni sociali fiduciarie
o altre forme di coordinamento istituzionale) ha ostacolato prospettive di sviluppo di
più ampio respiro e ha finito con il demotivare le stesse nuove generazioni dal
continuare nell’attività d’impresa familiare.
E’ difficile dire se il diverso destino di Montebelluna sia da attribuirsi principalmente
alla presenza di un imprenditore di ampie vedute, che ha saputo cogliere
tempestivamente l’invenzione di un tecnico americano (lo scarpone in plastica) e ha
cambiato la storia economica (e sociale) del distretto. Il caso o l’intuito personale hanno
giocato un ruolo importante, ma la struttura delle relazioni economiche e sociali erano,
in quel passaggio cruciale, ben diverse a Montebelluna che a Vigevano e hanno
favorito, se non l’innovazione in sé, certamente la sua diffusione e la capacità del
distretto di ristrutturasi profondamente intorno ad essa. La realtà del Montello è rimasta
a lungo tagliata fuori dallo sviluppo economico capitalistico, come del resto buona parte
del nord-est pedemontano. Lo sviluppo iniziale del settore calzaturiero avviene così
secondo un modello di piccola impresa artigianale. La presenza (a differenza che a
Lumezzane) di una economia agricola di una certa consistenza ma anche, non bisogna
dimenticarlo, i forti flussi migratori renderanno infatti meno urgente e precoce lo
sviluppo manifatturiero permettendo di mantenere più a lungo una struttura sociale
26
segnata fondamentalmente dalla tipica famiglia patriarcale contadina. La persistenza di
una realtà di piccola proprietà contadina favorirà inoltre il radicamento sociale della
chiesa cattolica, che troverà qui – come nelle altre zone “bianche” del nord – il terreno
ideale per una cultura comunitaria tradizionale, innervata per altro da una struttura
associativa e organizzativa (parrocchie, cooperative di consumo, casse rurali) capillare e
pragmaticamente disponibile a compromessi con le esigenze moderne del mercato. La
struttura artigianale vive dunque per un lungo periodo in simbiosi con questa realtà,
imparando a trarne benefici in termini di sbocchi di mercato, di disponibilità di una
manodopera assuefatta al duro lavoro e resa flessibile dal retroterra agricolo, di flussi
creditizi efficacemente gestiti attraverso le relazioni fiduciarie del mondo cattolico.
Il contesto contadino e associativo cattolico funge così da retroterra per la crescita di
un tessuto solido e diffuso di piccole imprese calzaturiere, la cui sorte avrebbe potuto
comunque non essere tanto diversa da quelle vigevanesi, se l’introduzione dello
scarpone di plastica, con il salto di qualità nel livello degli investimenti necessari e
nell’organizzazione industriale che questa comportava, non avesse imposto una diversa
dinamica all’intero distretto. A differenza che per Vigevano, a Montebelluna lo sviluppo
della grande impresa capitalistica moderna avviene più tardi, quando un tessuto di
piccole e medie imprese di impronta artigianale aveva già avuto modo di affermarsi. E
avviene valorizzando, oltre che le disponibilità di capitali locali mobilitati dalle reti
fiduciarie preesistenti, anche il know how di mestiere che quello stesso tessuto fiduciario
aveva permesso di condividere e accrescere in un lungo lasso di tempo. La grande
impresa impone ritmi più accelerati al processo di crescita economica e di sviluppo di
nuove conoscenze dell’intera area, senza rompere però con il sistema preesistente che
viene mantenuto all’interno di un processo di differenziazione non tanto verticale, di
specializzazione flessibile lungo la filiera, quanto orizzontale, per nuovi segmenti di
mercato.
Sul piano sociale, il nuovo modello di sviluppo permette di non alterare più di tanto
gli equilibri costituiti, imponendo senz’altro una accelerazione dell’intero sistema ma
mantenendo un prezioso ammortizzatore nel tessuto delle imprese artigianali, che
continua a garantire sbocchi possibili per le esigenze di mobilità interna e a svolgere un
compito prezioso di riproduzione delle reti fiduciarie tradizionali. La socializzazione dei
27
rischi di impresa può così avvenire attraverso due sistemi complementari, che si
sviluppano uno sull’altro senza quasi soluzione di continuità: quello delle relazioni
fiduciarie tradizionali e quello più moderno legato al sistema finanziario locale e alla
gerarchizzazione imposta dalla grande impresa. Un sistema di certo assai efficiente sul
piano economico ma, a differenza di quello “canonico”, tale da imporre sul piano
dell’identità culturale del distretto una tensione difficilmente conciliabile nel medio-
lungo periodo: quella tra il solidarismo di fondo delle reti fiduciarie tradizionali e
l’individualismo proprio delle relazioni di mercato e delle gerarchie imposte dalla
grande industria. Tensione tanto più difficile da mediare, se si considera la debolezza
intrinseca del sistema di istituzioni politiche proprie di Montebelluna. Conseguenza
diretta, quest’ultima, del retroterra cattolico che si costruisce sul tessuto di valori e di
solidarietà tradizionali delle campagne e resta troppo legato a tali valori per poter
elaborare una cultura dell'autonomia delle istituzioni politiche.
Sassuolo – a ben vedere – si differenzia dal modello montebellunese solo in questo.
Ridotte all’essenza delle relazioni sottostanti, le due esperienze risultano infatti assai
simili tra loro. Entrambe si reggono su una prima fase artigianale, sviluppata in simbiosi
con un sistema agricolo preesistente (economicamente più ricco e basato sulla
mezzadria, anziché sulla piccola proprietà contadina, quello emiliano); entrambe
conoscono un momento di ristrutturazione conseguente all’introduzione di una
innovazione che obbliga ad un processo di gerarchizzazione e di integrazione verticale
(una innovazione di processo per Sassuolo, la monocottura, anziché di prodotto come
nel caso di Montebelluna); entrambe prosperano sulla complementarietà (non solo
economica ma anche sociale) dei due sistemi. Sassuolo sviluppa però, a differenza di
Montebelluna, un più articolato ed efficace sistema istituzionale di mediazione, basato
su un sistema associativo e di governi locali che si dimostra in grado di far evolvere il
capitale sociale di solidarietà originario nella direzione di una sorta di
neocorporativismo locale. E’ la tradizione socialista prima, e di comunismo riformista
poi, a rendere possibile ciò. Le relazioni fiduciarie originarie hanno qui (come del resto
nella altre aree “rosse” emiliane e del centro) una componente costitutiva di natura
politica, che saprà trarre vantaggio (in anni più recenti) da tale riserva di identità per
sviluppare un sistema efficace di mediazione dei compositi interessi del distretto. La
fitta rete di istituzioni (partito, associazioni di rappresentanza degli interessi, agenzie
creditizie e finanziarie, strutture culturali e ricreative), coordinate da una forza politica
in grado di controllare anche i governi locali (comunali, provinciali e regionali), finisce
per divenire il centro di mediazione e di indirizzo dell'intera area-sistema e per
autoalimentarsi grazie a questa sua conquistata centralità tra mercato e comunità locale.
Quanto questa evoluzione del capitale sociale originario nella direzione di una rinnovata
solidarietà politica possa risultare funzionale allo sviluppo economico e quanto invece
possa andare incontro ai pericoli insiti in una eccessiva socializzazione dei rischi è
questione aperta e su cui si dovrà tornare29.
Il caso di Sassuolo permette comunque di completare il quadro e di trarre alcune
prime conclusioni di carattere generale sulla funzionalità del capitale sociale originario
per lo sviluppo delle aree sistema ad economia diffusa e sulle sue possibili evoluzioni.
Allo scopo ci si può avvalere dello schema qui sotto riportato che incrocia due
dimensioni risultate centrali nella ricostruzione sin qui svolta. La prima riguarda
appunto l’asse collettivismo – individualismo e attiene alle relazioni strutturali presenti
che possono rendere possibili forme di autonomia personale oppure esercitare forti
condizionamenti sistemici sugli individui che compongono la società. La seconda ha
carattere più culturale e concerne il grado di particolarismo – universalismo delle norme
e dei valori sociali presenti. Si possono definire così quattro tipi ideali che
corrispondono ad altrettante forme di capitale sociale.
29 E' questa in effetti l'area sistema ch
istituzionali al modello del capitalismo renanmedio-lungo periodo piuttosto che i risultati dstesso Parri nel contributo a questo volume nuova conoscenza e innovazione e dunque globalizzata e costretta a misurarsi con ritmi d
O
Capitale sociale d“solidarietà” polit(neocoporatismo/smo/nazionalismo
Capitale sociale d“solidarietà”tradizle (comunitarismo
UNIVERSALISMO
iicasocial)
COLLETTIVISM
28
e più si avvicina per caratteristiche economo - un modello che sembra privilegiare le pei breve e sul quale per altro oggi molti studio– sembrano avanzare dubbi circa le capacitsulle sue reali potenzialità in una economii innovazione continui.
iiona)
Assenza di capitalesociale, rapportiutilitaristi (individuali-smo possessivo)
INDIVIDUALISMO
Capitale sociale di“reciprocità”(individualismo etico)
iche e socio-rformance disi – tra cui loà di generarea sempre più
Figura 3. Le forme del capitale social
La forma originaria (in basso a sin
sociologia classica e si caratterizza pe
fortemente connotate in senso coesiv
E’ difficile poter ritenere che relazion
fiduciari) possano risultare compati
costituiscono serio intralcio sia il
individuale, essenziale – come si è vis
e sviluppo, sia l’inclinazione norm
orientato più alla qualità intrinseca d
poco cogenti i processi di selezione
forme tradizionali e particolaristiche
avvertono con chiara evidenza. La teo
processi di sviluppo economico fos
diagonale (dalla casella in basso a s
sociali connotate in senso individual
equilibrare i maggiori gradi di libertà
– un sistema di valori capace di garan
che non condividano una appartenen
consensualmente riconosciute.
Questa tendenza, in verità, si è rive
che sono storicamente prevalse sono
dire verso forme di individualism
dell’irresistibile ascesa dell’utilitarism
sinistra, verso cioè assetti neocorpora
universalista) il comunitarismo de
29
e
istra) corrisponde alla classica Gemeinschaft della
r la presenza di relazioni sociali particolaristiche e
o (verso l’interno) ed esclusivo (verso l’esterno).
i siffatte (ancorché capaci di generare forti legami
bili con uno sviluppo economico moderno. Ne
disconoscimento di una autentica autonomia
to – per avviare qualsiasi processo di innovazione
ativa in senso particolaristico, non specifico, e
egli attori che alle loro performance, che rende
sociale. E là dove si sono mantenute più a lungo
di capitale sociale, le difficoltà per lo sviluppo si
ria della modernizzazione vorrebbe pertanto che i
sero accompagnati da una evoluzione lungo la
inistra a quella in alto a destra), verso relazioni
istico e universalistico – relazioni che sappiano
concessi agli individui con un più alto senso etico
tire riconoscibilità e reciprocità anche tra individui
za comune e in grado di fondare regole selettive
lata essere più ideale che reale. Le linee evolutive
state piuttosto o verso la casella di destra, vale a
o possessivo, conseguenza sul piano sociale
o di mercato; oppure verso la casella in alto a
tivi o statalisti che hanno modernizzato (in senso
lle origini, sacrificando per altro l’autonomia
PARTICOLARISMO
individuale sull’altare dei superiori interessi collettivi della classe o della nazione. Sono
forme, entrambe, che almeno nella loro configurazione astratta presentano diversi limiti
rispetto ai requisiti minimi richiesti per uno sviluppo economico vitale. Senza entrare
più di tanto nel merito, e con riferimento alla questione – che si è visto essere peraltro
cruciale – della socializzazione dei rischi imprenditoriali, la prima soluzione pecca
infatti per un difetto di socializzazione, la seconda per un eccesso. Questo schema
teorico trova una conferma empirica nelle esperienze distrettuali prese in considerazione
dalla ricerca e di cui si dà conto in Figura 4.
Figura 4. I casi considerati rispetto al
I casi a più elevata vitalità (Sassuol
in alto a destra, stante appunto la diff
sociale di reciprocità. Si dispongono
variabili considerate, vicini alla diagon
Sassuolo si colloca sopra a sinistra
moderatamente orientate in senso co
contrario si posiziona sotto a destra,
La vitalità che entrambi esprimono di
ideale astratto, dall’aver saputo svi
COLLETTIVISMO
Casarano
UNIVERSALISMO
Sassuol Lumezzane
30
le dimensioni del capitale sociale
o e Montebelluna) non si collocano ne
icoltà di sviluppare una forma “pura”
piuttosto all’intorno del punto me
ale che segna la frontiera di equilibrio
di tale diagonale, caratterizzandosi pe
llettivista (solidarietà politica); Mont
risultando dunque biased in senso ind
pende dunque, più che dall’aderire ad
luppare forme di relazioni sociali
PARTICOLARISMO
Vigevano
Montebelluna
INDIVIDUALISMOo
l quadrante
di capitale
diano delle
tra le due.
r relazioni
ebelluna al
ividualista.
un modello
abbastanza
31
equilibrate, anche grazie agli effetti congiunti delle istituzioni economiche e politico-
associative presenti. Resta probabilmente uno spazio per un ulteriore miglioramento
modernizzante di queste aree, che comporta per altro una modifica assai delicata (e
rischiosa) del mix istituzionale che ha sinora garantito la loro superiore vitalità. La
stessa Lumezzane che, come si è visto, si distingue per una forma di capitale sociale più
vicina a quella moderna della reciprocità, sembra allo stato pagare tale evoluzione con
un grado di individualismo che eccede la capacità di regolazione universalista garantita
dalle istituzioni esistenti ed è incline pertanto a cadere in un difetto di coordinamento e
di socializzazione dei rischi. L’innalzamento della soglia di rischio imprenditoriale
conseguente ai processi di globalizzazione dell’economia, se non compensata
tempestivamente da aggiustamenti delle istituzioni economiche e/o economicamente
rilevanti, potrebbe mettere a repentaglio l’equilibrio raggiunto e innescare quello stesso
circolo vizioso verso forme più esasperate di individualismo utilitaristico e possessivo
che hanno prodotto le conseguenze negative di cui soffre oggi Vigevano. Casarano
infine presenta una situazione ancora troppo segnata dalla presenza di forme
particolaristiche di capitale sociale per poter accedere a forme moderne e vitali di
sviluppo, anche se gli sforzi recenti delle istituzioni politiche locali andranno valutate
principalmente alla luce della loro capacità di modernizzare le relazioni sociali
sottostanti.
In sintesi, la posizione dei cinque casi con riferimento alle variabili strutturali e
normative che definiscono il capitale di relazione esistente sembra essere determinante,
in conformità con le ipotesi in precedenza formulate, nel definire il grado di vitalità che
essi sono in grado di esprimere. Ma tale posizione, lungi dal risultare acquisita una volta
per tutte, è frutto di un equilibrio instabile, che dipende dall’incidenza sulle relazioni
sociali di almeno quattro fattori: l’inerzia conseguente al carattere path dependent delle
forme originarie di capitale sociale; le modifiche delle soglie di rischio conseguenti ai
mutamenti strutturali esogeni del mercato e allo stesso sviluppo economico endogeno;
le azioni intenzionali e/o gli effetti inintenzionali delle istituzioni economiche e di
quelle economicamente rilevanti. Su tali influenze è giunto il momento di portare
l’attenzione.
32
5. I diversi modelli di sviluppo e il ruolo delle “ istituzioni economiche”.
Nella ricostruzione del paragrafo precedente si è già avuto modo di menzionare
alcune differenze rilevanti nella struttura economica dei casi considerati. Tale struttura –
oltre ad assumere un significato economico intrinseco ai fini delle dinamiche di
sviluppo – rispecchia anche i rapporti tra i soggetti che vi operano, secondo le modalità
specifiche rese possibili dalle istituzioni economiche esistenti. Negli ultimi anni, una
letteratura che è andata consolidandosi in ampiezza e autorevolezza30, ha definito alcuni
modelli di base di tali rapporti, contribuendo così a chiarire il carattere intrinseco e i
limiti delle istituzioni economiche fondamentali. La distinzione ormai ampiamente
(anche se non universalmente) accettata è tra tre forme di base: mercato, gerarchia e
network. Il mercato si caratterizza per rapporti di scambio simmetrici; opera sulla base
del meccanismo dei prezzi; garantisce un coordinamento ex post, rispettoso
dell’autonomia dei soggetti, capillare e molto flessibile; non comporta obblighi tra le
parti che vadano al di là della transazione immediata. La gerarchia all’opposto si
distingue per rapporti asimmetrici; opera attraverso il meccanismo dell’autorità;
garantisce un coordinamento ex ante con un basso grado di flessibilità, scarsa precisione
ma elevata affidabilità; comporta obblighi duraturi tra le parti. Secondo Williamson,
come è noto, si ricorre razionalmente alla gerarchia quando la difficoltà di misurazione
delle prestazioni e il possibile comportamento opportunista dei soggetti coinvolti fanno
crescere oltre misura i costi di transazione. Di qui lo sviluppo delle forme gerarchiche di
impresa per gestire quei rapporti economici (in primo luogo le relazioni di lavoro) che
andrebbero altrimenti incontro ai fallimenti del mercato. La terza forma, quella del
network, gode di minore consenso tra gli studiosi. Alcuni (a partire dallo stesso
Williamson) ne negano l’autonomia concettuale, considerandola al più una
configurazione concreta, intermedia tra le forme del mercato e della gerarchia. Altri
ritengono invece che sia possibile distinguere concettualmente tale forma e che essa
risulti essenziale per lo sviluppo di una economia globalizzata e sempre più dipendente
dalla capacità di creare nuova conoscenza e innovazione. Costitutivi di tale forma
30 L’avvio di tale importante filone di riflessione lo si deve all’economia istituzionale e al suo più
importante esponente contemporaneo: O.E. Williamson (tra i suoi molti contributi ormai classici, si vedaWilliamson 1991). Un apporto significativo (nella direzione di un approccio non segnato, come quellowilliamsoniano, da un presupposto di rational choice) è venuto anche dalla teoria organizzativa. Ai finiche qui interessano si vedano in particolare Powell 1990 e Adler 2001.
sarebbero relazioni di reciprocità, che non escludono anzi implicano l’assunzione di
obblighi anche asimmetrici tra le parti, ma non così asimmetrici e vincolati come
presupposto dalle relazioni gerarchiche di autorità. Le relazioni di network si fondano
piuttosto su contratti relazionali (espliciti o impliciti) che, pur impegnando le parti al di
là della transazione immediata, lasciano margini di uscita tali da non precostituire la
loro capacità negoziale. Tale equilibrio tra assunzione di impegni reciproci e
negoziabilità dinamica degli stessi presuppone un mezzo di comunicazione specifico: la
fiducia. Fiducia, che le relazioni positive di network si incaricano di rafforzare in modo
riflessivo, ma che tuttavia abbisogna di un contesto sociale favorevole per affermarsi e
riprodursi. Il network, a fronte della fragilità e della minore affidabilità delle relazioni
che istituisce, offre una maggiore flessibilità e precisione di coordinamento rispetto alla
gerarchia e una superiore capacità di generare cooperazione rispetto al mercato.
Non è questa la sede per entrare nel merito di diverse questioni tuttora aperte che la
definizione di network pone. Ai fini della riflessione che si sta qui conducendo è
sufficiente riprendere un corollario di tale discussione. Corollario che fa dipendere
l’assetto prevalente delle forme di regolazione dell’economia dal rapporto tra rischio di
impresa (imposto dalle condizioni strutturali esistenti) e livello di fiducia (reso
disponibile dal contesto sociale contingente). Semplificando, sulla traccia di Ring-
Van de Ven31, è possibile rendere tale implicazione attraverso una relazione a doppia
entrata, riportata nella seguente Figura 5.
31 Ring – Van de Ven 1992, pp. 490 ss..
B
A
B
(con )
a
33
A
LIVELLO DI FIDUCIA
Mercato fiduciario(contratti ripetuti)
Networktratti relazionali
Mercato puro
Gerarchi3
Figura 5. Forme di regolazione dell’econo
I quattro assetti regolativi così identifi
esauriente la articolata varietà delle istituzio
considerazione dalla ricerca. L’assetto di m
situazioni che si misurano con un basso livel
dotazione di capitale sociale. L’impossibilità
può indurre (come nel caso del calzaturiero
anche a costo di non essere più in grado di m
umano sufficienti alle nuove sfide dell’econo
Là dove (come nei distretti “canonici”) l
essere invece superiore, si sono sviluppate da
su contratti ripetuti e fluidificati dalle relazio
una efficace socializzazione del rischio
coordinamento. La letteratura economica più
economie marshalliane pure quando i livelli
fronte alla competizione internazionale cresca
le forme di coordinamento spontaneo su c
incontro a rilevanti vulnerabilità strategich
varietà interna e all’incapacità di mettere in
chi scrive ha avuto modo di rilevare per
marshalliana è portata - se lasciata alla spo
cadere in quella che Elster34 chiama la trap
innesca, dentro una popolazione di imprese m
risulta infatti “virtuoso” sin tanto che l'econo
32 Si veda in proposito Ferrucci 1999.33 Provasi 1995b, pp. 89 ss..34 Si veda, tra i molti testi dedicati dall’autore al te
O
LIVELLO DI RISCHI4
mia
cati permettono di interpretare in modo
ni economiche presenti nei casi presi in
ercato puro è funzionale solo per quelle
lo di rischio e dispongono di una modesta
o l’incapacità di accrescere tale dotazione
vigevanese) a contenere i livelli di rischio
obilitare quantità di capitale finanziario e
mia.
a dotazione di capitale sociale è risultata
tempo relazioni di “quasi mercato”, basate
ni fiduciarie esistenti, che hanno permesso
e lo sviluppo di forme spontanee di
recente ha però messo in luce i limiti delle
di rischio che si devono assumere per far
no in modo marcato. E’ stato notato come
ui tali sistemi si basano possano andare
e32, legate principalmente alla perdita di
atto strategie di sviluppo pro-attive. Come
il caso di Lumezzane33, un economia
ntaneità dei suoi meccanismi di base - a
pola del massimo locale. Il circolo che si
arshalliane, tra competitività e imitazione
mia del distretto sia caratterizzata da uno
ma, in particolare Elster 1983, pp. 40 e seguenti.
35
sviluppo incrementale e cumulativo. Le imprese – grazie alla condivisione delle
informazioni rilevanti resa possibile dalle relazioni fiduciarie – adottano rapidamente
per imitazione le soluzioni che si siano dimostrate utili e favoriscono il dispiegarsi di
importanti economie esterne. Per altro lo spirito fortemente competitivo proprio dei
distretti di successo stimola le imprese a non limitarsi ad imitare le soluzioni di successo
ma a cercare di migliorarle incrementalmente per accrescere i margini di profitto. E'
questo processo – che una volta innescato tende appunto ad auto-alimentarsi – a
decretare il successo del distretto ma anche a "bloccarlo" entro una dinamica di
massimo locale. Una volta raggiunta una soluzione relativamente efficiente, la dinamica
interna alla popolazione di imprese continuerà infatti a migliorarla incrementalmente
anche a fronte di rendimenti decrescenti di efficienza e, soprattutto, non avrà alcun
incentivo (anzi avrà nel breve periodo dei disincentivi) ad abbandonarla per anticipare
soluzioni radicalmente innovative.
In presenza di settori tecnologici maturi che chiedono di essere rinnovati
radicalmente o di una competizione internazionale che si gioca sempre più su
innovazioni radicali, il problema diviene allora quello di rompere il circolo imitazione-
competizione per poter innescare discontinuità creative nel processo di sviluppo. Ma ciò
comporta un salto di qualità dei livelli di rischio che le imprese sono chiamate ad
assumersi e mette soprattutto a nudo i limiti dei meccanismi di socializzazione propri
dei distretti “canonici”. Una efficace socializzazione dei rischi imprenditoriali in
presenza di ambienti discontinui richiede infatti una più sofisticata divisione sociale del
lavoro tra soggetti che svolgano compiti di esplorazione innovativa e altri che si
occupino delle esigenze riproduttive del capitale esistente. La difficoltà principale
consiste nel doversi misurare con un problema che è insieme di cooperazione e di
coordinamento. Tutte le imprese devono infatti sacrificare una parte dei loro interessi di
breve perché l'equilibrio si possa realizzare (cooperazione), ma d'altra parte non tutte
sono chiamate a svolgere lo stesso ruolo (coordinamento). Soluzione decentralizzate (in
assenza di una autorità in grado di imporre centralmente una cooperazione coordinata e
di distribuirne in modo efficiente i costi) sono in questi casi pressoché impossibili35.
35 Si veda, sulle difficoltà di ottenere per via decentralizzata forme di collaborazione non universale,
Elster 1993, p. 158 e ss..
36
Anche dove esistano comportamenti cooperativi di tipo spontaneo (come nei distretti
“canonici”), è probabile che questi si alimentino attraverso la diffusione imitativa di
comportamenti virtuosi, ma proprio perché basati su tale meccanismo essi tendono ad
entrare in conflitto con le esigenze di un coordinamento differenziato. In altre parole, o
la differenziazione rischia di innescare comportamenti opportunisti che rendono difficile
la cooperazione spontanea, oppure questa si realizza ma la soluzione del problema
fallisce ugualmente per un eccesso di conformismo.
Non deve dunque stupire che, a fronte di questa difficoltà costitutiva della forma di
governo dell’economia propria dei distretti marshalliani puri, risultino avvantaggiate
nell’attuale fase di intensificazione competitiva quelle aree sistema che intenzionalmen-
te o per fatti contingenti si siano trovate ad aver sviluppato soluzioni a più elevata
gerarchizzazione interna. In presenza di livelli elevati di rischio imprenditoriale e di un
capitale sociale ad essi inadeguato, la teoria assunta prevede infatti l’adozione di mix
istituzionali a più alta componente gerarchica. I casi di Montebelluna e di Sassuolo sono
rappresentativi di questa tendenza. Nel primo caso si assiste, negli ultimi anni, ad una
forte gerarchizzazione (sia di tipo organizzativo che finanziario) intorno ad alcune
importanti imprese-leader a prevalente dimensione multinazionale. Questo modello, che
Corò-Grandinetti36 chiamano di gerarchizzazione sostitutiva esogena, pur offrendo
maggiori disponibilità di capitali da investire nei processi di innovazione e una
superiore capacità di visione strategica, va incontro ad alcuni importanti problemi. Il
processo di gerarchizzazione rischia infatti di portare alla perdita progressiva dei
connotati distintivi del distretto, con la distruzione del tessuto di relazioni esistenti e,
soprattutto, della varietà delle sue formule imprenditoriali. Questo processo erode il
capitale sociale originario inducendo comportamenti sempre più ispirati ad un
individualismo esasperato e possessivo; riduce al contempo le opportunità di mobilità e
dunque delude le aspettative e diminuisce la propensione diffusa ad intraprendere;
soprattutto concentra una parte importante delle risorse interne su di un unico percorso
evolutivo, esponendo il distretto al pericolo di esiti catastrofici. A ciò si aggiunga la
natura prevalentemente esogena delle imprese-leader. Questo fatto, se è percepito a
breve come positivo per la mobilitazione di capitali e per la circolazione delle
36 Corò-Grandinetti 1999.
37
conoscenze che consente, può rendere però il distretto fortemente dipendente da scelte
altrui. Le imprese-leader, anche se attuano una strategia di espansione della propria
varietà interna, perseguono tale obiettivo diversificando e specializzando le loro
location e adottando processi selettivi violenti quando queste non siano più adatte ai
mutevoli contesti di mercato. Risulta dunque fondata la percezione di fragilità
strutturale che le istituzioni locali montebellunesi avvertono in questa importante fase di
passaggio del distretto, anche se l’efficacia delle risposte che si cerca di (o si riesce a)
dare ai problemi evidenziati resta tutta da verificare.
Meno esposta a questi rischi sembra essere l’area-sistema di Sassuolo. In questo caso
infatti il processo di gerarchizzazione (attraverso l’integrazione verticale e la
concentrazione dei capitali) è avvenuto principalmente per linee interne, intorno ad
alcune grandi imprese a prevalenza di capitale e di direzione locale. Ma ciò che fa
soprattutto la differenza, rispetto a Montebelluna, non è tanto la natura endogena del
processo di gerarchizzazione, quanto il minore effetto sostitutivo che tale processo ha
avuto sulle relazioni distrettuali. La presenza di attività di filiera molto specializzate o di
nicchia, lo sviluppo di settori complementari quale il meccano-ceramico e la
produzione di smalti e colori, l’esistenza di un tessuto vitale di piccole imprese di
terziario avanzato, sono tutti elementi che contribuiscono a rendere meno critico il
processo di riproduzione delle relazioni fondamentali del distretto: garantiscono
chances concrete di mobilità, permettono di mantenere alta la propensione
imprenditoriale, assicurano una varietà interna minima nonostante i processi di
concentrazione della filiera principale. Resta l’interrogativo se tale varietà, in una fase
di globalizzazione e di concentrazione quale l’attuale, possa essere garantita all’interno
di aree sistema relativamente ristrette o se non siano piuttosto necessarie strategie a più
ampio orizzonte (almeno provinciale se non regionale). Rimane soprattutto aperto il
quesito di fondo se l’equilibrio, che sembra contrassegnare Sassuolo, tra
gerarchizzazione economica e neocorporativismo locale non comporti costi troppo
elevati sul terreno della produzione di un capitale sociale più moderno, adatto alle
esigenze di cooperazione e coordinamento proprie di una economia sempre più
globalizzata e basata sulla conoscenza.
38
Corò-Grandinetti ritengono che i due modelli della gerarchizzazione (esogena ed
endogena) sopra richiamati non costituiscano in verità la soluzione più efficace in
risposta alle sfide che attendono nel prossimo futuro le aree sistema locali. Il modello
ideale, a loro parere, dovrebbe caratterizzarsi per una esplorazione pluralistica che veda
coinvolte nel processo di produzione di nuova conoscenza non solo le grandi imprese-
leader ma l’intera rete distrettuale che dovrebbe essere in grado di “aprirsi” all’esterno e
al nuovo attraverso una pluralità di punti e di livelli di relazione, salvaguardando al
contempo le relazioni distrettuali interne. Ma perché si possa realizzare una adeguata
socializzazione dei rischi e la divisione sociale del lavoro richiesta da un modello
sofisticato ed esigente quale quello prefigurato dai due autori, è necessaria una forma di
governo delle relazioni economiche più motivante e duttile della gerarchia e allo stesso
tempo tale da garantire l’assunzione di impegni reciproci in misura maggiore di quanto
non possa fare il mercato. A livello sociale ciò richiede lo sviluppo di forme istituzionali
stabili e consistenti di network: forme che permettano, da un lato, di socializzare
adeguatamente i rischi attraverso una diversificazione di vocazioni e missioni
imprenditoriali e, dall’altro, di distribuire efficacemente ricompense ed incentivi, così
da mantenere alta la propensione a competere senza far venir meno la cooperazione.
L’ipotesi che viene qui avanzata – e che verrà sviluppata al punto immediatamente
successivo – è che il percorso evolutivo verso forme di governo dell’economia di tipo
reticolare dipenda in misura significativa (anche se non esclusiva) dalle istituzioni
politiche locali. Ciò che a queste viene richiesto è infatti di saper esercitare un
sufficiente livello di coordinamento deliberato e non spontaneo senza con ciò impedire,
anzi cercando di favorire, l’autonomia imprenditiva e la produzione di forme moderne,
inclusive ed eterogenee, di capitale sociale37.
6. Possibilità e limiti delle “istituzioni politiche”.
Le “istituzioni politiche” fanno parte, nella classificazione weberiana riproposta da
Parri nella prima parte di questo volume, delle istituzioni economicamente rilevanti.
Nell’accezione ampia del termine che viene qui utilizzata, esse ricomprendono sia le
37 Sulle caratteristiche di una fiducia moderna e riflessiva si veda Adler 2001, pp. 227 ss..
39
istituzioni politiche in senso stretto (governi locali e agenzie pubbliche decentrate dello
stato) sia quell’ampia articolazione di soggetti collettivi e organizzazioni intermedie
(associazioni di rappresentanza degli interessi economici, consorzi e altre forme di
contratti associativi, agenzie “miste” privato-pubbliche) che organizzano e regolano i
complessi interessi che sono presenti nelle società moderne. In comune, queste diverse
forme istituzionali, hanno la necessità (“politica” appunto) di legittimarsi, di riprodurre
cioè continuamente il consenso dei propri membri attraverso l’efficacia delle scelte
collettive assunte. Le prime si caratterizzano per il ricorso alla regola deliberativa della
maggioranza e, in forza dell’autorità legale che da essa deriva, esercitano una
regolazione di tipo gerarchico; le seconde ricorrono invece a forme negoziali di
mediazione tra gli interessi esistenti. Peraltro, le prime sono costrette a venire spesso a
patti (negoziali) con i principali portatori di interessi e le seconde, altrettanto spesso, si
avvalgono dell’autorità che deriva loro dal riconoscimento pubblico delle funzioni
esercitate. Entrambe si differenziano invece nettamente dalle altre istituzioni
economicamente rilevanti, quelle comunitarie e della reciprocità sociale, per la natura
intenzionale e artificiale della loro costruzione. Ad esse è affidato infatti il compito di
produrre nuove norme e di (auto)modificare così il quadro istituzionale esistente a
partire dalle mutevoli e (potenzialmente) conflittuali esigenze della società. Mentre le
istituzioni sociali tradizionali sono quasi-naturali, si impongono cioè agli individui con
la forza della loro ineluttabilità, le istituzioni politiche vengono percepite invece come
artificiali, come costruzioni che possono essere modificate e a cui si deve pertanto
riconoscimento solo se capaci di dare risposte efficaci ai problemi di azione collettiva
con cui si debbono misurare.
Alla luce delle considerazioni precedenti, sono principalmente due i problemi cui le
istituzioni politiche sono chiamate a dare una risposta efficace. Innanzitutto quello di
garantire un coordinamento delle azioni economiche e sociali tale da: (a) risolvere le
esternalità negative e produrre quelle economie esterne positive necessarie allo
sviluppo, (b) attuare una socializzazione adeguata dei rischi imprenditoriali, senza per
altro (c) ridurre la varietà interna minima, garantendo una sufficiente “distanza
40
cognitiva” tra le varie iniziative imprenditoriali presenti38. Per riuscire a contemperare
l’imperativo di coordinamento con l’autonomia individuale richiesta dalle esigenze di
varietà interna, le istituzioni politiche debbono, in secondo luogo, favorire la formazione
(e la riproduzione) di una sufficiente dotazione di capitale sociale moderno, basato su
relazioni inclusive di reciprocità piuttosto che esclusive di solidarietà. La domanda che
si pone è allora la seguente: quale architettura politico-istituzionale è in grado di
garantire al meglio queste esigenze sistemiche? Da più parti ci si comincia infatti a
rendere conto che il perseguimento diretto di obiettivi di sviluppo economico da parte
delle istituzioni politiche può risultare controproducente39. Migliori risultati sembrano
raggiungibili piuttosto attraverso l’azione indiretta: il sostegno alla mobilitazione di
risorse imprenditive autonome e il loro coordinamento non secondo logiche top-down
bensì mediante la valorizzazione di risorse relazionali che facilitino la comunicazione e
la cooperazione bottom-up. Ma, per l’appunto, quali assetti politico-istituzionali si
prestano meglio a perseguire tali obiettivi di intervento indiretto?
Gli assetti politico-istituzionali esistenti possono essere utilmente analizzati per gli
scopi che qui ci si propone a partire dalle configurazioni di base dei due principali
elementi che li compongono: i governi pubblici, da un lato, e le organizzazioni degli
interessi, dall’altro. I primi possono essere classificati – sulla traccia di March e Olsen40
– in funzione del loro rapporto con la società civile e per le modalità di legittimazione
che da tale rapporto conseguono. A un estremo si colloca la modalità aggregativa, che
si caratterizza per la mediazione tra interessi che vengono assunti come espressione
autonoma di una realtà sociale che si dà prima e indipendentemente dall’azione politica;
all’estremo opposto quella integrativa, che si connota piuttosto per una concezione
deliberativa e normativa del rapporto tra società e sistema politico e che cerca pertanto,
attraverso il processo di formazione di una volontà collettiva, di condizionare ex ante
l’espressione autonoma degli interessi sociali. La prima presuppone un ordine fondato
sullo scambio tra soggetti razionali autonomi e si legittima nella misura in cui è in grado
38 Per l’importanza di una “giusta” distanza cognitiva per il dispiegarsi di “economie esterne cognitive
di scopo” si veda Nooteboom 1999, p. 795 e ss..39 Si vedano, anche se con tagli tra loro molto diversi, le riflessioni di Aoki-Murdock-Okuno Fujivara
1997; Sabel 1998; Trigilia 1999; Parri in questo volume.40 March-Olsen 1992, pp. 177 ss..
41
di dare una risposta agli interessi immediati della società; la seconda presuppone invece
un ordine fondato su valori comuni e sul senso di appartenenza e si legittima in funzione
della sua capacità di alimentare, attraverso il dibattito e le scelte politiche, dei fini
condivisi, in grado di integrare, se non tutta, la maggior parte almeno della società. Le
forme di governo concrete si collocano in qualche punto del continuum delineato e
presentano perciò un mix variabile di modalità aggregative e integrative. La loro
capacità effettiva di regolazione dipende dunque anche delle forme presenti di
organizzazione degli interessi. Prima di rivolgere però l’attenzione a questo secondo
elemento costitutivo dei sistemi politico-istituzionali, è necessario sviluppare qualche
considerazione ulteriore sugli effetti che la diversa composizione di modalità
aggregative o integrative può produrre sull’efficacia dell’azione economica dei governi
locali.
In via teorica, sembra si debba escludere una relazione lineare semplice tra il
continuum aggregazione – integrazione, così come definito, e l’efficacia dell’azione di
governo ai fini dello sviluppo locale. Se da un lato, infatti, le forme di governo
aggregative possono apparire più consone alle esigenze di autonomia e di
differenziazione interna della società, le medesime risultano al tempo stesso meno
efficaci nel generare risorse relazionali adatte a favorire la cooperazione dal basso41 e
finiscono con lo scontare un deficit di coordinamento oppure di dover esercitare tale
coordinamento mediante regole calate dall’alto e rigide, che risultano a loro volta
disfunzionali alle richieste di flessibilità e di orientamento agli obiettivi proprie di una
economia dinamica42. Sul versante opposto, le forme di governo integrative possono
senz’altro semplificare (intervenendo ex ante sulla formazione degli interessi) i
problemi di coordinamento e possono anche favorire la produzione (e riproduzione) di
capitale sociale. Tuttavia tendono ad esercitare un forte potere di indirizzo sulla società,
coartando l’espressione autonoma degli interessi e riducendo la varietà interna. Il
capitale sociale promosso da tali assetti politici si connota poi prevalentemente in senso
politico-solidaristico e risulta dunque in sé poco adatto alle esigenze di mobilitazione
41 Si veda Ostrom 1998 per gli effetti negativi che un sistema basato su scambi aggregativi può
determinare nella produzione di norme e risorse di reciprocità.42 Per una analisi dei problemi che un governo rule-based incontra nel promuovere lo sviluppo si veda
Okuno-Fujiwara 1997, pp. 397 ss..
42
individualistica differenziata che sono alla base, per le ragioni anzidette, dei sistemi a
più rapido sviluppo. Al di là comunque delle relazioni teoriche attese, l’incidenza delle
istituzioni politiche sulle dinamiche di una determinata società storica sono in larga
misura influenzate anche dall’organizzazione e dalle modalità di rappresentanza degli
interessi in essa prevalenti.
A questo riguardo può tornare utile una classificazione condotta a partire dai tre tipi
di incentivi associativi enucleati nell’ormai classica analisi dei dilemmi dell’azione
collettiva sviluppata da Mancur Olson43. A fronte delle difficoltà teoriche di spiegare le
ragioni razionali della partecipazione ad associazioni di rappresentanza o a qualsivoglia
altra agenzia collettiva, Olson distingue tre tipi di incentivi in grado di modificare il
bilancio costi-benefici di colui che vi aderisce: gli incentivi selettivi, quelli di identità e
quelli di perseguimento dei fini. A questi tre tipi di incentivi, che strutturano forme
diverse di rappresentanza, corrispondono tre differenti modelli di organizzazione degli
interessi economico-sociali.
Nel primo modello si aderisce ad una organizzazione collettiva principalmente per i
servizi che questa distribuisce in forma selettiva, potendo discriminare cioè tra coloro
che partecipano all’organizzazione e concorrono attivamente alla produzione delle sue
attività e coloro che non vi contribuiscono. L’obiettivo principale dell’organizzazione
(la produzione di un qualche bene pubblico, la cui natura – pubblica appunto –
impedisce qualsiasi discriminazione e rende possibile comportamenti di free riding)
diviene dunque, paradossalmente, il sottoprodotto di una attività privatistica di
erogazione di servizi. Queste organizzazioni, per la natura problematica e fragile del
loro rapporto di rappresentanza, tendono ad esprimere una debole azione di carattere
collettivo e sono soprattutto portate a entrare in concorrenza diretta tra loro (per ragioni
non tanto ideali, conseguenti a visioni o obiettivi sociali divergenti, quanto pragmatiche,
di vendita dei propri servizi e di accrescimento della membership), determinando la
frammentazione del tessuto associativo e incontrando grosse difficoltà ad esprimere una
azione efficace nei confronti delle autorità di governo.
43 Olson 1965.
43
Radicalmente diverso è il modello dell’associarsi in forza di un incentivo di identità.
In questo caso si aderisce per il valore sociale intrinseco che l’appartenere ad una
associazione ha in sé. Anche se i beni pubblici prodotti dall’organizzazione sono a
disposizione di tutti, solo chi partecipa attivamente può trarre il vantaggio del
riconoscimento e dell’identificazione con il sistema di valori di cui l’organizzazione è
portatrice. Le organizzazioni che si basano su questa forma di rappresentanza, sono
normalmente in grado di esprimere una azione collettiva più efficace di quelle del tipo
precedente e ispirata ad obiettivi di più lungo periodo, coerenti con il sistema di valori
di riferimento. Peraltro o gli incentivi di identità possono essere attivati a partire da un
contesto subculturale preesistente oppure richiedono forme di mobilitazione politica
basata sulla contrapposizione antagonistica con altri attori del sistema (secondo un
modello di solidarietà politica che si fonda, come si è visto in precedenza, su una
omogeneità interna costruita sull’esclusione del diverso). Nella prima variante la
differenziazione tra le organizzazioni può essere mantenuta sotto controllo dalle
leadership ed è possibile raggiungere compromessi inter-organizzativi capaci di
aggregare la domanda sociale e di rafforzare il potere negoziale delle organizzazioni di
interesse nei confronti del sistema politico. Nella seconda invece la contrapposizione di
identità forti può portare alla polarizzazione della domanda sociale con effetti
dirompenti sul sistema politico.
Il terzo modello infine – assai discusso nei suoi fondamenti e nelle sue implicazioni
dalla letteratura di derivazione olsoniana44 – presuppone che gli individui possano
essere indotti ad aderire ad una organizzazione collettiva sulla base della validità delle
politiche perseguite dalla medesima. Chi partecipa non può però essere incentivato dai
benefici che possono conseguire dal raggiungimento del fine perseguito. Trattandosi pur
sempre di un bene pubblico sarebbe anche in questo caso impossibile per
l’organizzazione discriminare tra chi ha contribuito fattivamente e chi no al suo
raggiungimento. Si deve trattare dunque necessariamente di una variante meno
ideologica e totalizzante (e dunque anche più debole e difficile da costruire e
mantenere) di incentivi di identità. La differenza rispetto a questi ultimi è che nel caso
44 Per una ricostruzione che riprende e sviluppa i punti principali del dibattito si veda Bordogna-
Provasi 1984, pp. 139 ss. Ai risultati di quella riflessione si rifà sostanzialmente l’interpretazione cheviene qui utilizzata.
44
degli incentivi di perseguimento dei fini si condividono delle mete concrete e non dei
valori totalizzanti. Gli incentivi di identità funzionano indipendentemente dalla
realizzazione delle finalità teleologiche affermate dall’organizzazione. Anzi l’antagoni-
smo rispetto a chi impedisce la realizzazione di tali finalità può rafforzare i fattori di
identità interna. Nel caso degli incentivi di perseguimento dei fini invece
l’incentivazione individuale si basa su di una gratificazione pragmatica, che deriva
dall’essere parte attiva di una iniziativa dagli scopi socialmente condivisi – scopi che
devono peraltro trovare una concreta realizzazione perché la gratificazione che deriva
dal riconoscimento sociale possa mantenersi e rinnovarsi. La natura laica e pragmatica
degli incentivi di perseguimento dei fini obbliga dunque le organizzazioni che basano su
di essi il loro rapporto di rappresentanza a porsi degli obiettivi concreti, che possano
essere apprezzati nei loro effetti e controllati nella loro realizzazione dagli associati, e a
contare su governi affidabili, in grado di garantire il perseguimento di risultati anche di
compromesso ma tangibili. Ne consegue la necessità di aprirsi alle altre organizzazioni
presenti, dal cui coinvolgimento può dipendere la realizzazione degli obiettivi che si
intendono perseguire, e di sviluppare relazioni negoziali costruttive con esse. Le
relazioni intra- e inter-organizzative assumono dunque connotati di inclusività e di
reciprocità piuttosto che di esclusività e di antagonismo (come nel caso della
mobilitazione per via politica degli incentivi di identità).
Anche se vi è un certo isomorfismo tra le forme di governo aggregative e i modelli di
rappresentanza basati su incentivi selettivi, da un lato, e le forme integrative e i modelli
basati sugli incentivi di identità, dall’altro, negli assetti politico-istituzionali delle
democrazie occidentali si possono riscontrare storicamente combinazioni differenti di
tali elementi. Una certa varietà combinatoria è poi ipotizzabile (a maggior ragione) per i
sistemi politico-istituzionali locali, la cui costruzione è spesso il risultato di
stratificazioni storiche complesse, in cui elementi e influenze diverse possono convivere
in assetti non sempre completamente coerenti e caratterizzati piuttosto da forti
specificità. Al solo scopo di delineare alcuni modelli estremi, le cui caratteristiche
possano tornare utili per l’interpretazione dei casi considerati, si propone nella figura
seguente una possibile classificazione che deriva dalla combinazione delle
configurazioni di base sopra analizzate.
45
Figura 6. Assetti politico-associativi
Il primo modello (rappresentato dalla comb
6) si caratterizza per la presenza di governi loc
le infrastrutture materiali di base e l’ordin
industriale moderna. Manca ad essi invece la
attività economiche presenti sul territorio. Né
coordinamento rese possibili in altre condizion
relativamente coeso e capace di perseguire (a
interessi in gioco) obiettivi condivisi di svilupp
necessari. Le associazioni di rappresentanza de
deboli e in forte concorrenza tra loro. Fondan
prevalentemente su incentivi di tipo selettivo,
partecipative utilitaristiche e di breve periodo
per conquistare e trattenere una membersh
prevalentemente aggregativa a cui i govern
esercitare una qualsiasi forma di influenza ra
consegna, con scarsa autorità e potere negozial
più esigente e frammentata.
O
Aggregative
Identitari, organizzati,relativamente forti
Selettivi, frammentati,deboli
MODELLI ASSOCIATIVI
Integrative
Assetto autoritativo
Assetto regolativo Assetto relazionale
FORME DI GOVERN
Assetto debole
inazione in basso a sinistra della Figura
ali deboli, che riescono al più a garantire
e sociale necessario ad una economia
capacità di coordinare in modo diretto le
possono beneficiare di forme indirette di
i dalla presenza di un tessuto associativo
ttraverso la mediazione negoziata degli
o e la produzione dei beni pubblici a ciò
gli interessi risultano infatti a loro volta
do il rapporto con i propri rappresentati
sono costrette a fare i conti con logiche
e sono in continua competizione tra loro
ip incostante e mobile. La modalità
i locali si ispirano, impedisce loro di
zionalizzante sugli interessi presenti e li
e debole, ad una domanda sociale sempre
46
Tra i casi considerati, è Vigevano quello che sembra avvicinarsi di più a questo
primo modello. Ne sono sintomi evidenti la relativa alterità tra governi locali e
associazioni di rappresentanza degli interessi economici, la sostanziale debolezza di
queste ultime e l’incapacità (anche in presenza di difficoltà economiche crescenti) di
convergere intorno ad una istituzione – sia essa l’ente comunale o provinciale, la camera
di commercio o una agenzia privato-pubblica di intervento – dotandola delle risorse
economiche e soprattutto politiche necessarie per esercitare un coordinamento efficace e
una socializzazione adeguata dei rischi d’impresa. Ancora più emblematica di questa
debolezza a livello politico-associativo è la realtà di Lumezzane. In un certo senso, la
presenza di un forte lascito di capitale sociale originario ha reso in questo caso
l’esigenza di forti istituzioni politiche e associative meno sentita e urgente. Un sistema
economico-sociale che è sempre riuscito a risolvere spontaneamente i propri problemi
interni (e che dunque rispetto a Vigevano non appare altrettanto frammentato
socialmente e debole economicamente), non ha quasi mai espresso una vera e propria
domanda politica. Di qui la relativa estraneità dei lumezzanesi sia dalle istituzioni
politiche che dalla associazioni di rappresentanza. Ma non ci si può non interrogare se
una tale concezione politicamente depotenziata e la conseguente assenza di un luogo
istituzionale capace di mediare tra interessi diversi e di esprimere un indirizzo condiviso
di sviluppo non debbano costituire un elemento di forte preoccupazione per il futuro. Se
valgono infatti le considerazioni svolte nei punti precedenti, il distretto di Lumezzane –
come altri distretti “canonici” – sarà prossimamente impegnato ad avviare processi di
sviluppo discontinui che inevitabilmente finiranno con il rompere alcuni equilibri
costituiti e con il fare emergere conflitti di interessi che non possono essere risolti a
livello spontaneo e necessiteranno di un assetto politico-istituzionale più forte ed
efficace, allo stato del tutto assente.
Un modello che sembra offrire a prima vista una risposta alla debolezza dei quadri
politico-associativi propri di alcune aree di sviluppo locale è rappresentato dalla
combinazione di governi che cercano di intervenire con modalità integrative su di un
tessuto associativo e di rappresentanza degli interessi in sé debole e frammentato
(combinazione in basso a destra nella Figura 6). Ho ritenuto di dover chiamare questi
assetti autoritativi, in quanto cercano di esercitare il loro potere di intervento in forza
dell’autorità che deriva loro dall’essere democraticamente eletti e dal possedere una
47
visione unitaria da contrapporre alla frammentazione del tessuto economico-sociale
sottostante. In verità, se si escludono i casi di governi autenticamente autoritari, che
derivano cioè il loro potere da una investitura politica eccezionale e/o dalla sospensione
delle prerogative democratiche (forme che peraltro non si possono dare a livello
decentrato in assenza di un quadro politico nazionale coerente), la dialettica tra governi
autoritativi e interessi sociali costituiti è assai meno scontata di quanto l’idea di un
intervento dall’alto possa far credere. La presenza di un sistema di interessi
frammentato, anche se indebolisce la capacità di esprimere in positivo delle richieste
forti al sistema politico, non impedisce di esercitare un efficace potere di interdizione
nei confronti delle politiche da questo perseguite. I governi autoritativi sono così
costretti spesso a venire a patti con il sistema degli interessi costituiti e, in misura della
frammentazione di questi ultimi, risultano spesso ondivaghi e incapaci ad esercitare nei
fatti un efficace coordinamento. Ci si deve però interrogare se governi siffatti, a partire
appunto dalla loro relativa autonomia politica, non possano favorire una dinamica
istituzionale che faccia evolvere il sistema verso assetti relazionali (combinazione in
alto a destra della Figura 6), caratterizzati cioè da un maggior equilibrio tra governi
locali e rappresentanze degli interessi – equilibrio reso possibile principalmente dalla
minore frammentazione del sistema degli interessi e dalla capacità delle organizzazioni
di rappresentanza di andare al di là degli obiettivi immediati e di concepire strategie
concertate di medio-lungo periodo.
Un esperimento interessante ai fini di una risposta a tale interrogativo è rappresentato
dal forte coinvolgimento dei governi locali nel patto territoriale della provincia di Lecce
e, per quanto ricostruito dalla ricerca empirica di questo volume, dell’area sistema di
Casarano. Si è in presenza infatti in questo caso di un tentativo politico esplicito, volto a
favorire il rafforzamento del tessuto di associazioni di rappresentanza locali. Anche se si
tratta di una esperienza avviata da troppo poco tempo per poter fornire elementi di
giudizio conclusivi, è comunque possibile trarre da essa qualche utile spunto di
riflessione. Al di là dei risultati concreti ottenuti in termini di rafforzamento del tessuto
produttivo (per il momento assai modesti, anche per i ritardi di attuazione conseguenti
alla complicata procedura di approvazione del programma), sembra di poter cogliere,
nella dinamica che il patto ha innescato, due aspetti positivi e uno (almeno
potenzialmente) negativo. La negoziazione del patto ha creato un’occasione concreta di
48
confronto tra le associazioni di rappresentanza locali e ha fortemente incentivato (con la
messa a disposizione di risorse finanziarie significative) la ricerca di un punto di
convergenza. Il protagonismo politico locale, sostenuto concretamente dalle risorse
centrali, ha così favorito l’emergere di relazioni più stabili e fiduciarie tra le
organizzazioni degli interessi. E’ segno concreto di questa nuova stagione istituzionale
la costituzione di nuovi enti e agenzie di gestione del patto, ampiamente partecipate
dalle associazioni di categoria e destinate a sostituire il precedente tessuto istituzionale
di coordinamento economico, non solo obsoleto sotto il profilo tecnico-amministrativo
ma soprattutto privo di qualsiasi reale potere di influenza e di indirizzo. E’ ancora presto
per poter dire se questo embrionale assetto concertativo sarà in grado di mutare anche i
rapporti interni alle organizzazione degli interessi e se saprà creare le condizioni per
nuove relazioni fiduciarie non particolaristiche a livello sociale diffuso. Molto
dipenderà dall’evoluzione economico-sociale dell’area e dalle scelte delle grandi
imprese presenti. A tale riguardo è da ritenersi senz’altro positiva – come si è già
ricordato in precedenza – la dinamica innescata dalla contrattazione “di emersione” del
lavoro nero. Tale emersione – se sarà perseguita con determinazione pari al
coinvolgimento iniziale dichiarato dalle forze politiche e dalle categorie economiche –
potrà infatti sottrarre spazio ai rapporti clientelari e accrescere il tasso di legalità e di
universalismo della società locale – condizione necessaria ancorché non sufficiente per
un significativo rinnovo in senso non particolaristico del capitale sociale esistente.
L’elemento negativo consiste invece nella relativa estraneità delle grandi imprese alla
dinamica sopra descritta. La rete istituzionale che si è creata grazie al patto d’area
coinvolge infatti, accanto ai governi locali, le associazioni che rappresentano gli
interessi delle imprese minori, mentre le grandi appaiono poco presenti in tali
associazioni e risultano pertanto coinvolte in modo del tutto marginale nel processo. Ne
consegue che o le politiche di indirizzo e coordinamento espresse dal nuovo assetto
istituzionale manterranno un basso profilo, limitandosi cioè ad intervenire sul solo
segmento delle piccole e piccolissime imprese e non toccando invece gli interessi
preminenti delle imprese leader, oppure sarà alto il rischio di una frattura tra queste
ultime e il sistema istituzionale emergente, con inevitabili conseguenze negative (sia in
un caso che nell’altro) sullo sviluppo futuro dell’area.
49
Se le politiche di sostegno delle aree meridionali, perseguite tramite i patti d’area,
guardano idealmente al modello relazionale, allora la vera sfida è quella di saper
ricomprendere dentro la coalizione tutti gli interessi economici e, in primo luogo, quelli
delle imprese guida che operano nell’area. E’ questa infatti la caratteristica più
significativa che emerge dalla ricostruzione del sistema politico-associativo di Sassuolo,
il più vicino storicamente al modello relazionale. La vitalità di questa area è infatti in
larga misura attribuibile alla presenza di governi locali e di associazioni di
rappresentanza che, grazie soprattutto alla forte e comune identità politica che li ha
caratterizzati in passato, hanno saputo mediare pragmaticamente tra tutti gli interessi
presenti, compresi quelli delle grandi imprese leader, che hanno potuto così crescere per
linee interne, beneficiando di un contesto politico-istituzionale ad esse favorevole. La
capacità di “fare rete” tra soggetti diversi è uno dei tratti essenziali dell’esperienza
sassolese: ciò non solo ha impedito – come ho già avuto modo di ricordare al paragrafo
precedente – che si creassero fratture gravi tra il processo di gerarchizzazione del
settore produttivo trainante e le relazioni sociali del distretto, favorendo in tal modo la
differenziazione dei meccanismi di socializzazione dei rischi di impresa in modo
funzionale allo crescita economica dell’area, ma ha anche condizionato positivamente
l’evoluzione stessa del quadro istituzionale. Consorzi, centri di servizio e agenzie di
emanazione istituzionale non hanno teso infatti – come è avvenuto invece altrove,
soprattutto in presenza di assetti autoritativi – a sostituirsi alle imprese leader nella
funzione di ricerca innovativa e di selezione competitiva delle imprese subfornitrici, con
gli effetti negativi di “selezione avversa” e di chiusura entro logiche localistiche e di
autoreferenzialità politica messi giustamente in luce da Parri in questo stesso volume.
Hanno cercato semmai di contemperare nel medio-lungo periodo tali esigenze
economiche preminenti con quelle di mantenimento di relazioni consensuali all’interno
del distretto. L’equilibrio raggiunto ha evitato che si affermassero logiche esclusive di
legittimazione politica, con una conseguente eccessiva socializzazione dei rischi di
impresa e una riduzione pericolosa della varietà interna al distretto.
Resta da chiedersi se tale equilibrio possa reggere ad una duplice sfida: da un lato,
l’accelerazione della dinamica innovativa, che imporrà cambiamenti e processi di
selezione competitiva assai più repentini e drastici del passato; dall’altro, il progressivo
esaurirsi della subcultura politica che ha cementato sin qui il sistema politico-
50
associativo del distretto. Se la prima impone mediazioni sempre più difficili, la seconda
fa venir meno quelle risorse di identità che hanno in passato favorito e reso possibili tali
mediazioni. Il pericolo (più probabile) è che si frammenti il sistema di organizzazione
degli interessi – con il prevalere di logiche di appartenenza selettive e l’affermarsi
conseguente di agenzie di mero servizio in competizione tra loro e marginali rispetto
alla gerarchizzazione economica del distretto – oppure che si reagisca a tali spinte
centrifughe con un forte richiamo politico identitario (meno probabile). Le conseguenze
sarebbero comunque, in entrambi i casi, distruttive dell’equilibrio che ha contribuito sin
qui in modo significativo alla vitalità e al successo dell’area. L’unica via perseguibile
per superare le difficoltà che si delineano all’orizzonte sembra dunque essere quella
(difficile, ma forse alla portata di un sistema istituzionale maturo e sofisticato quale
quello di Sassuolo) di usare le capacità di integrazione politica non per riaffermare una
identità subculturale ormai in via di esaurimento e che richiederebbe per poter essere
rivitalizzata una mobilitazione politica dagli effetti dirompenti sugli equilibri sociali e
sulla varietà interna dell’economia del distretto, bensì per far convergere il sistema di
organizzazione degli interessi intorno ad obiettivi comuni e realistici e favorirne così
l’evoluzione verso un modello di perseguimento dei fini. Ciò potrebbe avere effetti
positivi sia sul rinnovo secondo forme più moderne (eterogenee ed inclusive) del
capitale sociale che su un sistema di regolazione dell’economia distrettuale più
articolato dell’attuale e meglio capace – secondo gli auspici ricordati di Corò-
Grandinetti - di esplorazione pluralistica delle opportunità innovative presenti dentro e
fuori il distretto.
E’ lo stesso percorso evolutivo alla portata anche dell’ultimo modello politico-
associativo contemplato dalla classificazione di Figura 6, quello regolativo, a cui
sembra avvicinabile, tra quelli considerati dalla ricerca, soprattutto il caso di
Montebelluna? La differenza tra il modello emiliano e quello veneto consiste soprattutto
nel diverso equilibrio tra governi locali e organizzazione di rappresentanza degli
interessi45. Il modello veneto – come già ricordato – risente della tradizione politica
“bianca”, che lo ha caratterizzato dal secondo dopoguerra agli anni ’80, e presenta
governi locali con una vocazione aggregativa piuttosto che integrativa. Nel caso di
45 Per una utile ricostruzione dei due sistemi si veda Messina-Riccamboni-Solari 1999.
51
Montebelluna per altro – come del resto per buona parte del nord-est – il compito
aggregativo dei governi locali è stato largamente facilitato in passato dalla presenza di
un tessuto associativo fortemente radicato nella società civile e portato dalla comune
matrice interclassista cattolica a favorire forme spontanee di convergenza e di
mediazione tra gli interessi presenti. La vera differenza con il modello sassolese sta
dunque non tanto in una diversa dinamica della rappresentanza economico-sociale
quanto nella assenza a Montebelluna di una cultura dell’autonomia delle istituzioni
politiche. E’ solo con la fine dell’egemonia democristiana e con l’avvento di una classe
politica nuova, bisognosa di legittimazione in proprio, che le istituzioni politiche locali
danno segni di volersi muovere in modo autonomo rispetto alle forme spontanee di
aggregazione sociale e di voler esercitare direttamente una attività di coordinamento e di
sostegno allo sviluppo. Ma in questa loro esigenza (ben rappresentata dall’attivismo
recente delle amministrazioni locali e della camera di commercio) devono fare i conti
con una realtà socio-economica in profondo e rapido mutamento. Il venir meno del
tessuto connettivo “tradizionale” sembra imporre infatti alla società civile una deriva
utilitaristica che comincia ad avere effetti negativi non solo sul patrimonio di capitale
sociale originario dell’area ma anche sull’organizzazione di rappresentanza degli
interessi. Quest’ultima invero risente non solo del mutato clima sociale e del venir meno
dei tradizionali incentivi di identità che garantivano nel passato una membership stabile
e acquiescente, ma è anche e soprattutto messa di fronte ad un cleavage nuovo e di
difficile mediazione: quello tra il sistema di piccola impresa ancora fortemente
innervato nelle condizioni sociali e culturali del distretto e il grande capitale dello sport
system, sempre più globalizzato e mosso da logiche finanziarie che prescindono dalla
(o, forse meglio, si rapportano strumentalmente alla) dimensione locale. Queste
difficoltà traspaiono sia nella natura delle iniziative avviate (per lo più “di servizio”, a
sostegno della piccola impresa in perdita di velocità, ma deboli nell’esprimere un
indirizzo forte per il futuro del distretto) sia soprattutto nell’incapacità di definire un
tavolo comune di mediazione e coordinamento che contempli anche la partecipazione
del grande capitale. A prescindere da una congiuntura che ancora regge sul piano
economico, la situazione sociale complessiva del distretto appare dunque come
indebolita e soprattutto tale da non trovare nel sistema politico-istituzionale un punto su
cui poter far leva per avviare una reazione positiva. Ciò non significa necessariamente
52
predire un esito infausto per Montebelluna: sul piano economico l’area continuerà
verosimilmente a beneficiare ancora per un certo periodo della localizzazione delle
grandi imprese dello sport system, ma – a meno di un cambiamento di strategie di
queste ultime – difficilmente sarà in grado di rinnovare condizioni sociali favorevoli ad
un modello di economia diffusa.
Astraendo dalle specificità storiche proprie del caso montebellunese, una lezione di
carattere generale sembra comunque da esso derivabile. Anche se sulla carta il modello
regolativo pare essere quello più rispettoso dell’autonomia dei soggetti economico-
sociali e dunque quello più consono a favorire una evoluzione progressiva dei sistemi ad
economia diffusa, nei fatti risulta fortemente dipendente per la sua stessa azione dalle
condizioni economiche e sociali preesistenti e mostra evidenti limiti quando si tratti di
gestire una fase di cambiamento discontinuo, con le tensioni che questo inevitabilmente
genera e con l’esigenza che ne deriva di rinnovare anche a livello sociale profondo le
ragioni di una convivenza possibile. L’alternativa dunque tra modello regolativo e
modello relazionale, ai fini dell’efficacia che gli assetti politico-associativi possono
avere nell’evoluzione delle aree ad economia diffusa, è in sé mal posta. Le istituzioni
politiche, almeno nelle fasi di transizione, non possono limitarsi a registrare e ad
aggregare (come in un sistema di mercato) la domanda politica che proviene dalla
società civile, anche se un loro intervento ex ante sulle dinamiche degli interessi può
avere – come si è già avuto modo di sottolineare – effetti negativi sulla varietà interna
dal sistema economico-sociale. D’altro canto il declino delle subculture identitarie rende
sempre meno efficaci anche gli assetti relazionali, incapaci ormai di tenere insieme con
il mero richiamo alla comune matrice politico-ideologica un sistema di rappresentanza
degli interessi sempre più frammentato e in ostaggio di logiche utilitaristiche di breve
periodo.
Una architettura istituzionale che voglia essere efficace per lo sviluppo futuro delle
aree ad economia diffusa deve semmai cercare di rafforzare la funzione meta-regolativa
delle istituzioni politiche locali. Queste non possono infatti limitarsi a fare i notai di una
dinamica economico-sociale che non è più in grado da sola di esprimere una
convergenza di interessi ed un coordinamento efficace (modello regolativo), né devono
per altro sostituirsi ad essa imponendo una logica esterna, semplificatrice e riduttiva
53
della ricchezza e varietà che solo l’autonomia sociale è in grado di esprimere (modello
relazionale o, a fortiori, modello autoritativo). Piuttosto, attraverso un efficace sistema
di incentivi e, soprattutto, mediante una azione di monitoraggio e di garanzia attiva che
vincoli le parti al rispetto degli impegni negoziati e volontariamente assunti, deve
operare per favorire la cooperazione dal basso tra partners inizialmente diffidenti e
restii a collaborare per il rischio di comportamenti opportunisti, fungendo in tal modo
da catalizzatore di un processo di convergenza che renda possibile il riconoscimento
reciproco tra le parti e il passaggio a forme di organizzazione degli interessi basate sul
perseguimento realistico di fini condivisi. Ha ragione Sabel46 nel sottolineare che non si
può presupporre, per il buon funzionamento delle istituzioni politiche, la preesistenza di
condizioni sociali che favoriscano la cooperazione e la fiducia (capitale sociale
originario). Le istituzioni politiche devono piuttosto farsi carico del compito di generare
o rinnovare tali condizioni, attraverso un processo che egli chiama di “apprendimento
mediante monitoraggio” e di cui intravede la possibilità in alcune pratiche politiche e
organizzative embrionali in giro per il mondo. E’ una via difficile, di cui per la verità
ancora non si scorgono segni confortanti nelle politiche dei governi locali presi in esame
da questa ricerca. Ma è forse anche l’unica in grado di garantire un futuro ai distretti e
un più equilibrato sviluppo economico tra esigenze locali e sfide globali.
7. Varietà e coordinamento nello sviluppo economico:quale futuro per i distretti?
L’analisi comparativa sviluppata nelle pagine precedenti consente di formulare
alcuni enunciati di carattere generale, certo bisognosi di ulteriori verifiche empiriche
(più ampie ed esaurienti di quelle che una ricerca basata su pochi studi di caso quale
quella presentata in questo volume ha reso possibile), ma di per sé in grado di affermare
con un accettabile livello di approssimazione alcune relazioni significative tra istituzioni
e economia. Enunciati che possono essere assunti anche come ipotesi di lavoro per più
efficaci disegni istituzionali e pratiche a sostegno dello sviluppo. In conclusione, per
comodità del lettore, riassumo sinteticamente di seguito i principali risultati raggiunti.
46 Si veda Sabel 1994 e 1998. Per una estensione di questa linea di riflessione alle istituzioni locali, e
in particolare al istituzioni regionali italiane, si veda Perulli 1998.
54
1. La presenza di casi molto diversi sotto il profilo istituzionale e pur tuttavia di
successo rafforza l’ipotesi di partenza di questo lavoro relativa all’esistenza di un
rapporto non univoco e deterministico tra assetti istituzionali e vitalità economica.
Se l’approccio a razionalità assoluta proprio del mainstream economico conduce a
definire una one best way istituzionale allo sviluppo, quello cognitivista ed
evoluzionista adottato in questa sede contempla piuttosto la possibilità (e l’utilità a
fini evolutivi) di una molteplicità di equilibri e soluzioni tra loro equifinali, frutto
della combinazione tra contingenza storica e meccanismi di selezione.
2. Anche se l’approccio così delineato riconosce l’importanza dei fattori casuali e il
rilievo della componente spontanea (non intenzionale) nella definizione dei processi
storici, ciò non significa che si debba rinunciare a qualsiasi pratica o progetto (frutto
di intenzionalità) volto a migliorare le condizioni evolutive di sviluppo di un sistema
socio-economico. Che la clinica medica si fondi sul presupposto dell’unicità del
paziente e della sua storia biologica non impedisce al medico di formulare una
diagnosi e di prescrivere una terapia, sebbene quest’ultima non consista nel
“forzare” il quadro clinico del paziente entro un astratto e ideale modello di salute
quanto nell’intervenire per eliminare i fattori di debolezza e potenziare quelli di
forza, così che il paziente stesso sia messo nelle condizioni di reagire positivamente
alla malattia. Analogamente l’intervento intenzionale su sistemi socio-istituzionali
concreti non deve prescindere dalla loro unicità, frutto di percorsi storici differenti,
né deve imporre la convergenza verso un modello astratto e ideale, bensì deve
cercare di creare le condizioni contingentemente più favorevoli – per usare le parole
di Parri – “ alla risoluzione positiva dei conflitti tra gli attori, a generare quadri
cognitivi capaci di fronteggiare l’incertezza sociale ed economica, a instaurare
motivazioni che favoriscono l’impegno, l’assunzione di responsabilità e
l’innovazione”47.
3. Nella prospettiva di una teoria meta-regolativa piuttosto che astrattamente normativa
o prescrittiva, uno dei risultati più interessanti che la ricerca di questo volume ha
permesso di evidenziare concerne l’equilibrio che il quadro istituzionale nel suo
insieme deve essere in grado di garantire tra coordinamento e varietà. Le esperienze
47 Parri in questo volume p. 00.
55
di maggior successo risultano essere quelle che – pur attraverso il loro differente e
specifico mix di istituzioni economiche (mercato e organizzazione d’impresa) ed
economicamente rilevanti (reciprocità sociale, forme di organizzazione collettiva,
autorità politica) – meglio riescono a bilanciare la capacità di coordinamento con
l’attitudine ad alimentare comunque una sufficiente varietà interna al sistema,
rispettando (anzi stimolando e favorendo) l’autonomia e la propensione
all’innovazione dei soggetti individuali. Quadri istituzionali fragili (per difetto di
capacità regolativa) o rigidi (per eccesso di regolazione) risultano ugualmente
negativi per la vitalità di un sistema economico-sociale.
4. La ricerca fornisce poi elementi analitici utili al fine di concepire architetture
istituzionali più efficaci nel bilanciare appunto gli imperativi di coordinamento con
le esigenze di varietà. Innanzitutto essa ha evidenziato come le forme più diffuse in
passato di regolazione economica – quella tipicamente fordista della
gerarchizzazione d’impresa e quella distintiva invece dei distretti industriali
canonici, basata su una cooperazione spontanea di mercato resa possibile da lasciti
fiduciari preesistenti – risultino entrambe inadeguate alle sfide di flessibilità,
innovatività e socializzazione dei rischi poste dall’attuale fase di sviluppo. La teoria
d’impresa suggerisce al riguardo l’adozione di modelli di tipo reticolare, che
comportano però – come si è visto – la necessità di una cooperazione non
conformista e di un coordinamento non gerarchico ma comunque differenziato. Ciò
richiede non solo una profonda revisione delle forme di corporate governance del
passato ma presuppone anche condizioni sociali e politiche particolari: un capitale
sociale di reciprocità, inclusivo e rispettoso dell’autonomia e dell’eterogeneità
individuale, e assetti politico-associativi che non impongano soluzioni “chiuse”,
unidimensionali ma sappiano piuttosto fungere da catalizzatori di obiettivi condivisi
tra soggetti che restano differenti.
5. Sistemi reticolari di regolazione economica, forme moderne di capitale sociale,
assetti politici pluralisti e meta-regolativi sono riferimenti comunque ideali e astratti.
La realtà storica è piuttosto il risultato di un bricolage, che deve tener conto dei
condizionamenti storici (path dependence) e della riflessività (condizionata) di
qualsiasi pratica sociale di cambiamento. Le esperienze storiche concrete (con i loro
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differenti gradi di vitalità e di successo) sono – come si è visto nel corso dell’analisi
precedente – l’esito di stratificazioni e di aggiustamenti in parte voluti e in parte
subìti, il cui processo, come ci ricordano Belfanti e Onger in questo stesso volume,
passa attraverso un tortuoso percorso evolutivo che non può mai essere scontato a
priori e che comporta elevati rischi. Più che allo “scarto” della realtà rispetto a
modelli ideali e astratti si deve guardare allora, per qualsiasi pratica di intervento
che voglia avere qualche probabilità di successo, soprattutto agli elementi di forza e
di debolezza che ciascuna area sistema manifesta nella sua unicità e ai punti di leva
che si rendono di volta in volta concretamente e contingentemente disponibili.
Alla luce di queste considerazioni di carattere generale e degli elementi specifici
raccolti nel corso dell’analisi delle pagine precedenti, è possibile allora formulare in
chiusura una previsione sul futuro delle aree ad economia diffusa del nostro paese? Il
quesito – come si è detto in apertura – riveste un interesse che va al di là del pur
importante peso che i distretti industriali hanno avuto e continuano tuttora ad avere per
l’economia italiana. In un momento in cui la capacità di richiamare risorse e di proporsi
come localizzazione privilegiata di iniziative d’impresa diviene essenziale nell’ambito
degli intensi processi di delocalizzazione e globalizzazione che interessano l’economia
mondiale, l’individuazione delle condizioni necessarie (se non sufficienti) per garantire
vitalità e capacità di attrazione a livello locale assume un rilievo del tutto particolare.
Per non dire dell’interesse che tale analisi riveste in un paese quale il nostro, che deve
tuttora misurarsi con notevoli e urgenti problemi di sottosviluppo economico e
marginalità sociale.
Paradossalmente sono proprio i distretti “canonici” quelli che, alla luce delle
considerazioni sin qui svolte, sembrano destinati ad incontrare nel futuro le maggiori
difficoltà. Le condizioni di successo del passato non solo risultano essere ormai
inadeguate rispetto alle esigenze di una economia sempre più globalizzata e basata su
processi di innovazione discontinua, ma vengono anche progressivamente erose dallo
stesso sviluppo economico e dai processi di modernizzazione sociale che a questo si
accompagnano. Né sembrano affermarsi (in un tessuto di piccola impresa e in assenza di
assetti politico-associativi forti) soggetti capaci di visioni strategiche di più ampio
respiro e in grado di promuovere cambiamenti sempre più necessari. Più fausto può
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essere ritenuto il futuro di quelle aree che hanno visto crescere negli anni passati realtà
economiche di medio-grande impresa. Come ci ricorda anche Parri in questo volume, la
letteratura economica sui distretti è praticamente unanime nell’attribuire ad alcune
aziende leader la funzione di motore trainante lo sviluppo recente di alcune aree. Sono
soggetti economici forti a farsi promotori di innovazione tecnologica ed organizzativa e
a fungere da tramite verso risorse finanziarie e cognitive esterne all’area. Il punto debole
di queste esperienze è semmai la frattura che può determinarsi tra le grandi imprese e il
tessuto di piccole imprese da cui dipendono le condizioni di riproduzione sociale
dell’area distrettuale. Da questo punto di vista sarebbe opportuno per il futuro delle aree
di sviluppo locale che ad ogni rafforzamento dei soggetti economici presenti si potesse
accompagnare un analogo e bilanciato potenziamento dei governi locali e delle forme di
mediazione e di organizzazione politica degli interessi. Spesso però tale potenziamento
è avvenuto o sembra destinato ad avvenire secondo logiche di autoreferenzialità
politica, logiche che cercano cioè di imporre forme di indirizzo e di coordinamento
lesive della varietà e dell’autonomia dei soggetti economici. Dove ciò avvenga i risultati
sono destinati ad essere analogamente negativi per il futuro dello sviluppo locale.
Varietà e coordinamento sono obiettivi difficili da raggiungere simultaneamente e da
mantenere in equilibrio – costituiscono un problema ricorrente e mai definitivamente
risolto per i soggetti sociali che vogliano misurarsi con le sfide dello sviluppo. Come ci
ricorda infatti Nicolás Gómez Dávila, “i veri problemi non hanno soluzione ma storia”.
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