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Leonardo Parri IL GIOCO DELLA COOPERAZIONE NEI CONSORZI DI PICCOLE IMPRESE: UN CASO ESEMPLARE NELLA BRIANZA MOBILIERA 1. Introduzione: problemi e metodi ....................... pag. 3 2. Le istituzioni "economicamente rilevanti" ........ " 4 3. Il disagio dei distretti industriali tra "ordine spontaneo" e "ordine deliberato" ...................... " 6 4. I giochi della cooperazione: istituzioni e "diffidenza razionale" ....................................... " 8 5. Leadership istituzionale, riformulazione degli interessi e cooperazione condizionale: un circolo virtuoso? ............................................... " 12 6. I consorzi tra piccole imprese come "istituzioni economicamente rilevanti" ............................... " 17 7. I consorzi di vendita all'estero: difficoltà e successo di un caso esemplare .......................... " 19 8. Conclusioni ....................................................... " 22 Bibliografia ....................................................... " 24

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Leonardo Parri

IL GIOCO DELLA COOPERAZIONE NEI CONSORZI DI PICCOLE

IMPRESE: UN CASO ESEMPLARE NELLA BRIANZA MOBILIERA

1. Introduzione: problemi e metodi ....................... pag. 32. Le istituzioni "economicamente rilevanti" ........ " 43. Il disagio dei distretti industriali tra "ordine

spontaneo" e "ordine deliberato" ...................... " 64. I giochi della cooperazione: istituzioni e

"diffidenza razionale" ....................................... " 85. Leadership istituzionale, riformulazione degli

interessi e cooperazione condizionale: uncircolo virtuoso? ............................................... " 12

6. I consorzi tra piccole imprese come "istituzionieconomicamente rilevanti" ............................... " 17

7. I consorzi di vendita all'estero: difficoltà esuccesso di un caso esemplare .......................... " 19

8. Conclusioni ....................................................... " 22Bibliografia ....................................................... " 24

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1. Introduzione: problemi e metodi.

Tra i problemi che maggiormente toccano i distretti industriali italiani vi èormai da tempo il fatto che le scarse dimensioni delle singole impresesfavoriscono l’internalizzazione di certe funzioni aziendali diventate oggistrategiche anche per i settori cosiddetti maturi: R&S, commercializzazioneall’estero, qualità dei prodotti e dei processi, adeguazione alle norme tecniche,ecc. (Onida, Viesti, Falzoni, a cura di, 1992; Parri, 1993a, 1993b). Questadebolezza strutturale è stata affrontata in due modi:

a) tramite il rafforzamento dell’imprenditorialità privata individuale. Singoleimprese eccellenti sono uscite dall’anonimità ed omogeneità del distrettomarshalliano, creando alleanze reticolari guidate da una capofila oppure dandovita a gruppi aziendali di varia portata (Lorenzoni, 1990; Parri, 1993b);

b) attraverso forme di imprenditorialità collettiva (Marelli, 1989; Preti, 1991;Parri, 1993b). La maggioranza delle imprese, dotate di capacità competitivemedie, si è orientata alla creazione di nuovi tipi di beni collettivi distrettuali chegarantissero loro una certa disponibilità delle nuove risorse strategiche per losviluppo: centri per i servizi reali; consorzi per l’esportazione, la R&S,l’eliminazione degli effetti inquinanti; laboratori di controllo di qualità; iniziativeper marchi distrettuali e per la formazione imprenditoriale e professionale, ecc.(Parri, 1993a, 1993b, 1993c, 1994).

Il primo percorso evolutivo è tutto all’interno di un quadro istituzionaleclassico: mercati, gerarchie, forme ibride tra questi (Williamson,1991a). Siprocede così ad un accrescimento delle risorse che restano sotto controlloaziendale in quanto beni privati completamente appropriabili. La comprensione diqueste dinamiche e dei problemi di governo della costellazione o del grupporientrano nell’ambito dell’economia aziendale, delle teorie dell’agenzia e dellanuova economia istituzionale di ispirazione williamsoniana. Il secondo sentieroevolutivo coinvolge nella realizzazione di beni collettivi imprese che restano traloro indipendenti e, spesso, concorrenti. Ciò comporta l’approntamento di quadriistituzionali non classici: clan, associazioni, governi privati, consorzi, reticolipromozionali, politiche industriali (sui diversi assetti istituzionali di regolazionedell’economia si vedano: per i settori, Schmitter, 1989 e Campbell,Hollingsworth, Lindberg, a cura di, 1991; per i distretti industriali, Parri, 1993b,1993c). Questi impianti istituzionali non classici devono essere capaci di risolverei problemi di azione collettiva che inevitabilmente emergono quando ad esserecoinvolti sono una pluralità di attori con interessi solo parzialmente coincidenti.In simili circostanze, gli assetti istituzionali che dovrebbero garantire la creazionedi organizzazioni che eroghino beni collettivi (consorzi, associazioniimprenditoriali, società consortili, reticoli promozionali, politiche industrialilocali, ecc.) possono avere successo, fallire o riuscire solo subottimalmente (Parri,1993b, 1993c, 1994).

La scienza economica si è interessata solo marginalmente ai problemi legatiall’azione collettiva, in particolare con le teorie dei beni pubblici e di club(Cornes e Sandler, 1986). Il ruolo economico di assetti istituzionali diversi da

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quelli classici del mercato e dell’impresa è stato invece indagato da sociologi (V.Pareto, M. Weber, T. Parsons, K. Polanyi), storici (F. Braudel, D.C. North) edeconomisti politici vecchi (C. Menger, J.R. Commons, F.A. von Hayek) e nuovi (ineoaustriaci, M. Olson, A. Hirschman, J. Buchanan). I più accorti tra di essi sisono ben guardati dal ripudiare velleitariamente la validità del corpus centraledella teoria economica; hanno però sottolineato come una serie di fenomeniconcreti attinenti al mondo della produzione, dello scambio e del consumo deibeni e servizi non fossero comprensibili utilizzando la sola cassetta degli attrezzidegli economisti. Questi fenomeni sono infatti influenzati anche da fattoriextraeconomici attinenti ai differenziali di potere, ai limiti cognitivi, alleparticolarissime circostanze soggettive di tempo e di spazio, ai dilemmi strategicie di azione collettiva, all’incertezza endogena, agli effetti non previsti, al poterestatale, ai valori, alle culture, alle ideologie, ecc. Come ammesso sempre piùpersino dagli economisti (per un dibattito, Swedberg, a cura di, 1990), la presenzadi questi fattori condiziona sensibilmente la natura di azioni ed esiti strettamenteeconomici, come l’innovazione tecnologica, la produttività, la diversificazioneproduttiva, la qualità di processi e prodotti, la propensione all’esportazione, i tassidi sviluppo, ecc.

2. Le istituzioni «economicamente rilevanti»

L’influenza dei fattori extra-economici appena menzionati sulle azioni e gliesiti economici può essere ricompresa attraverso vari espedienti metodologici e/oteorici , nessuno dei quali esente da limiti (Gallino, 1965; Parri, 1993d, 1995).Metodologicamente, scegliamo la soluzione che già Menger, Pareto, Weber e ilprimo Parsons fornirono al problema dei rapporti tra l’economia e le altre scienzesociali: sul comune terreno dell’individualismo metodologico, riconoscere,all’interno di fenomeni concreti di per sé unitari, l’operare di diversi fattori,ciascuno coglibile come aspetto analitico. Venendo al piano teorico, i fattori chegli economisti considerano tradizionalmente esogeni possono essere tenutieuristicamente in linea di conto attraverso il concetto di istituzione come insiemedi regole sia regolative che costitutive, capaci di garantire l’ordine di fronte alladiversità degli interessi degli attori. Ci riallacciamo qui ancora a Menger, Webere Parsons, nonché al pensiero istituzionale di J.R. Commons, Hayek e Buchanan,ritenendo che individualismo metodologico e istituzionalismo teorico siano soloapparentemente in contraddizione tra di loro (Vanberg, 1994; Parri, 1995).

In questo contesto, le istituzioni forniscono all’attore economico un quadro diregole all’interno delle quali muoversi. Si deve allora distinguere tra (Rawls,1967; Mulligan e Lederman, 1977; Scott, 1995; Parri, 1995):

a) regole regolative, che indicano ciò che è prescritto e ciò che è proibitorelativamente ad attività del soggetto già esistenti. Si tratta di regole che sonopercepite dall’attore come esterne e che sono per esso sia vincoli (quando gliimpediscono o prescrivono qualcosa), che opportunità (quando limitano i suoiconcorrenti) nel corso della sua attività economica autointeressata: ad es., cosaprescrive e cosa vieta la partecipazione di un’impresa ad un consorzio o

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un’associazione. Queste regole sono articolate esplicitamente nonché riconosciutee fatte rispettare socialmente attraverso incentivi e penalità;

b) regole costitutive, che come dice il nome costituiscono ex novo un’attivitàprima inesistente, indicando quali sono le modalità d’azione per essere, adesempio, un operaio specializzato, un intermediario finanziario, un piccoloimprenditore innovativo o altro. Queste regole sono spesso tacite e in parteinarticolate persino per il soggetto che le segue, cui conferiscono identità e sensodi fronte a sé ed agli altri. Le regole costitutive sono vissute come qualcosa diinterno, come un bagaglio pratico e cognitivo che contribuisce ad orientare evalutare la propria azione economica: il violarle non porta a sanzioni esterne, mapiù semplicemente all’autonegazione dell’attività e dell’identità stesse che sierano in precedenza costituite. Questo tipo di regole vincola, in quanto ordinapraticamente e cognitivamente la realtà in un modo piuttosto che un altro, ma allostesso tempo conferisce opportunità dotando, il soggetto di repertori di pensiero ed’azione efficaci. Le regole costitutive precedono quelle regolative, nel senso chesolo un’attività che si è costituita in base a certe norme può essere poi regolata daaltri insiemi di norme.

Tradizionalmente, gli economisti hanno inteso le istituzioni come regoleregolative che limitano l’attività di libera scelta di un attore. Dal canto loro, isociologi le hanno viste non solo come regole regolative, ma anche come regolecostitutive capaci di dotare l’attore economico di valori, identità, repertori dicondotta e quadri cognitivi che ne orientano l’agire (Lopez Novo, 1994). Purammettendo questi condizionamenti ambientali, la sociologia economica diispirazione individualista metodologica, da Pareto e Weber sino ai giorni nostri,non ritiene l’attore completamente determinato dalle istituzioni, ma relativamentelibero di agire strategicamente (Granovetter, 1992).

Riprendendo Weber (1904), possiamo immaginare la presenza, accanto alle«istituzioni economiche» (p.74) (mercato, impresa, ecc.), di altre istituzioni«economicamente rilevanti» (p.76). Riferendosi ad entrambe, Weber distingueràpiù avanti tra quattro possibili «tipi di gruppi economici» (1922, parte I, cap. II, §5). Secondo lo schema weberiano di influenza reciproca tra economico e sociale,queste istituzioni non sono solo economicamente condizionate, ma anche capacidi condizionare significativamente azioni ed esiti relativi alla produzione, loscambio ed il consumo di beni e servizi (Weber, 1904, pp. 79-84; 1922, parte II,cap. II, § 1). Le istituzioni economicamente rilevanti di Weber corrispondono aquelle che abbiamo più sopra chiamato istituzioni economiche non classiche.Accanto alle istituzioni economiche classiche, il ruolo delle istituzionieconomicamente rilevanti è quello di garantire, in modo che non ènecessariamente ottimale, la compatibilità tra ordine e adattabilità aicambiamenti all’interno del mondo della produzione e dello scambio (Hayek,1945, 1986; Williamson, 1991b). Attraverso meccanismi regolativi e costitutivo-cognitivi, queste istituzioni contribuiscono a ridurre l’incertezza parametrica estrategica che fronteggiano gli attori: diminuiscono le probabilità di agireerroneamente, permettono il formarsi di aspettative plausibili, danno vita a visionidel mondo condivise (Hayek, 1986; North, 1990; Heiner, 1990; Parri, 1993d,1995; Denzau e North, 1994)

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Da A. Smith a C. Menger, L. Robbins e J. Schumpeter, sino ad K.J. Arrow eR.M. Solow, non si può affermare che gli economisti non siano consapevolidell’importanza delle istituzioni economicamente rilevanti per la produzione e loscambio di beni e servizi. Come però ben riassume Robbins (1935, cap. V), laloro opinione è che, mentre le forze economiche agiscono secondo un ordine,mosse da forze individuabili e coerenti, e sono perciò comprensibiliscientificamente; le forze esogene o istituzionali si muovono in modo caotico eincongruente, tanto che non vale le pena cercare in esse regolarità o principid’azione intelligibili. Per i sociologi economici ha invece senso indagarescientificamente anche il mondo delle istituzioni , sia economiche cheeconomicamente rilevanti: le forze che vi operano sono meno regolari edafferrabili di quelle economiche, ma si muovono pur sempre secondo deimeccanismi comprensibili ad un occhio addestrato. Fu daltronde questo il motivoche fece fare all’economista Vilfredo Pareto il salto verso la sociologia:comprendere i fatti economici che l’»economia pura» non spiegava in modosoddisfacente. Approfondendo precedenti nostre ricerche, è proprio in quest’otticache indagheremo i problemi strategici legati all’emergere nei distretti diistituzioni economicamente rilevanti di imprenditorialità collettiva.

3. Il disagio dei distretti industriali tra «ordine spontaneo» e «ordinedeliberato»

Perché i distretti manifatturieri italiani sono passati dalla fase di sviluppoestensivo (1945-1975) alla fase di tentennamento e debolezza strutturale cuiabbiamo accennato in apertura? Nel periodo dello sviluppo impetuoso, le singoleimprese -piccole e condotte secondo il modello dell’»imprenditorialità limitata»(Lorenzoni, 1990, cap.I)- potevano affiancare alle proprie scarse risorse interne lerisorse esterne collegate alla fruizione di beni collettivi distrettuali. Questi beniconsistevano nel patrimonio comune e crescente di capacità professionali,commerciali ed innovative legate alla cosiddetta atmosfera industrialemarshalliana. Va inoltre considerato che i costi di transazione associati allaframmentazione verticale ed orizzontale dei processi produttivi erano abbattutidalla presenza di diffusi legami fiduciari tipici delle comunità locali (Trigilia,1989). Questi beni collettivi distrettuali avevano un carattere quasi perfettamentepubblico, nel senso che: a) nessuna delle imprese locali poteva essere esclusadalla loro fruizione (non escludibilità); b) un aumento del numero delle aziendefruitrici non comportava diminuzioni della quota di bene goduta da ognuna diesse (non rivalità del consumo). A dispetto del loro carattere pubblico, questi benicollettivi non comportavano i problemi di azione collettiva che ci si attende inquesti casi (free riding e produzione subottimale o nulla del bene). La lorocreazione avveniva infatti spontaneamente, derivando da esternalità positivelegate alle attività produttive quotidiane ed al fatto di operare all’interno di unostesso territorio. Nessuna contribuzione esplicita al bene collettivo era prevista,l’impianto istituzionale in vigore era ampiamente informale e tacito e si reggevasu regole regolative e costitutive a cavallo tra mercato e comunità (Bagnasco,

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1988). Ciò, derogando grandemente -il cosiddetto «sommerso»- dalle regoleregolative stabilite dalle leggi dello stato e da quelle costitutive tipiche del mondoindustriale più convenzionale della media e della grande impresa. Volendoutilizzare le categorie di Hayek (1986), si può dire che si realizzavaesemplarmente nell’economia locale di quegli anni un ordine spontaneo edecentrato. Paradossalmente, ciò accadeva proprio mentre a livello nazionale siconsumava il rito costruttivista della pianificazione centralizzata, il cui ordinedeliberato non prese mai sostanza e lasciò tracce solo in quello che si chiamò«libro dei sogni».

Con la fine degli anni settanta, la fruizione da parte delle piccole imprese deibeni collettivi emersi nell’ordine spontaneo e decentrato del distretto non è piùsufficiente a garantirne il successo. Come visto nell’introduzione, questasituazione è fronteggiata su due piani: rafforzamento dimensionale a rete o gruppodi singole aziende eccellenti (riqualificazione dell’imprenditorialità privataindividuale); creazione di nuovi tipi di beni collettivi per sostenere le piccoleimprese di medie capacità (imprenditorialità collettiva). I limiti palesatidall’ordine spontaneo distrettuale sono, in entrambi i casi, affrontati conl’introduzione consapevolmente progettata di elementi di ordine deliberato(Hayek, 1986). Questi elementi puntano ad approntare masse critiche di risorsecontrollabili, in modo relativamente più accentrato, da nuove figure diimprenditorialità privata individuale o collettiva. Concentrandoci sulle forme diimprenditorialità collettiva, si osserva la conscia ed esplicita progettazione dinuovi impianti istituzionali, privati o misti pubblico-privati, le cui regolesostengono la creazione ed il mantenimento di organizzazioni per la produzione diuna nuova generazione di beni collettivi distrettuali (sulla distinzione analitica traorganizzazioni, intese come insieme di risorse materiali ed umane, ed istituzioni,come regole che di queste risorse coordinano l’uso, si vedano North, 1990 e, perun approfondimento in chiave sociologica, Parri, 1995). È così che nei distrettiitaliani —e non solo in quelli (per la Francia si veda Parri, 1993a) —fiorisconocon gli anni ottanta centri per i servizi reali, consorzi di commercializzazione,vendita, R&S, società operative legate ad associazioni imprenditoriali, reticolipromozionali per l’innovazione, governi privati, laboratori di controllo dellaqualità, centri di formazione, ecc. (Parri, 1993b, 1993c).

I nuovi beni collettivi prodotti nei distretti grazie alla presenza di questeistituzioni economicamente rilevanti non hanno però il carattere spontaneo epubblico di quelli della fase precedente di sviluppo. Non sono spontanei, giacchéle aziende devono aderire in modo esplicito e volontario ad un progetto,contribuendovi con risorse umane e finanziarie; non sono pubblici, in quanto laloro fruizione comporta sia una certa rivalità nel consumo che una ragionevolepossibilità di esclusione dei non contributori all’iniziativa. Sono beni collettiviche sorgono in una zona intermedia tra il bene privato puro e il bene pubblicopuro: si tratta di quelli che Buchanan (1965) ha definito beni di club. Per megliocapire, si immagini un gruppo di individui che vuole costruire una piscina, datoche i singoli non hanno abbastanza risorse per realizzarla in proprio. Questapiscina può avere le caratteristiche istituzionali e tecniche di un bene di club, inquanto:

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a) è possibile escludere dalla balneazione in modo semplice e poco oneroso chinon ha contribuito ai costi per realizzarla (escludibilità);

b) un aumento del numero dei contributori-fruitori porta ad una diminuzionedei costi pro-capite di costruzione e gestione, che va però di pari passo con unadiminuzione -per affollamento, code, turni od altro- della quota di bene fruita daparte di ognuno (si ha un certo grado di rivalità nel consumo);

Date le preferenze e le disponibilità finanziarie degli attori, attraverso ilcalcolo incrociato dei costi e dei benefici, la teoria dei beni di club è in grado distabilire contemporaneamente il numero ottimale di fruitori-contributori e laquantità ottimale di bene collettivo da approntarsi (Buchanan, 1965; Cornes eSandler, 1986).

4. I giochi della cooperazione: istituzioni e «diffidenza razionale».

Se intendiamo le nostre istituzioni economicamente rilevanti, ad es. unconsorzio di vendita o per la R&S, come impianti di regole per la produzioneorganizzata di beni di club distrettuali, salta all’occhio la possibilità che esse sianoinvestite da dilemmi dell’azione collettiva. Questi rompicapi strategici nonassumono la nota forma del free riding (scrocco), tipica dei beni pubblici prodottiin grandi gruppi (Olson, 1983): con un bene di club è infatti possibile l’esclusionedei non contributori. Vi è piuttosto il rischio che i singoli imprenditori ritenganoche i costi attuali ed attesi della partecipazione siano superiori ai benefici attualied attesi che il progetto comporta. Essi si orientano allora a non contribuireall’iniziativa, facendola fallire o lasciandola languire a livello subottimale (peralcuni casi concreti, Parri, 1993b, 1993c, 1994). Questa strategia è definibilecome diffidenza razionale (minimizzazione del rischio o, nei termini della teoriadei giochi, maximin).

Sottoponendosi alle regole istituzionali, ad esempio di un consorzio o diun’associazione, un’azienda attenua i propri esclusivi diritti di proprietà(Furubotn e Pejovich, 1972): limita infatti le prerogative imprenditoriali,rinunciando parzialmente al controllo sulle proprie risorse finanziarie, materialied umane, il cui utilizzo viene ora a dipendere anche da processi di decisionecollettiva, ove la voce del singolo è una tra tante. In cambio, l’azienda si attendedi poter soddisfare, fruendo del bene collettivo prodotto, quella parte dei propriinteressi che non è in grado di perseguire autonomamente. Si tratta di unprocesso di scambio che non è solo economico, ma anche sociale (Coleman,1994), in quanto regolato da istituzioni che non sono strettamente economiche.Questo processo di scambio istituzionalizzato è sottoposto però ad incertezze eambiguità: a costi immediati, certi e calcolabili si accompagnano beneficidilazionati, incerti e difficilmente valutabili. L’imprenditore si domanda se lanuova organizzazione sarà gestita in modo efficiente, senza sprechi o favoritismi;si interroga sulla propria capacità di difendere adeguatamente i suoi interessi neiprocessi decisionali collettivi; teme di dover svelare ai soci-concorrenti parte deisuoi segreti tecnici o commerciali; ha paura che l’iniziativa, pur favorendolo,permetta ai soci-concorrenti di recuperare gli svantaggi che essi avevano nei suoi

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confronti, ecc. In altre parole l’imprenditore, con diffidenza razionale, sidomanda: «il santo vale la candela?» Data la forte incertezza endogena, lecondizioni di contorno non economiche -trasparenza del quadro istituzionale,fiducia interpersonale, tipo di bagaglio cognitivo dei soggetti imprenditorialicoinvolti- giocano un ruolo cruciale, spesso razionalizzabile solo ex post, aprocesso avvenuto.

È utile riformulare quanto detto nei termini più elementari della teoria deigiochi, vista la capacità che essa ha di dar conto di situazioni interattive in cui gliattori hanno interessi in parte convergenti e in parte discordanti. Come primacosa, sgombriamo il campo dall’idea che tutti i problemi di azione collettiva sianoriducibili al classico dilemma del prigioniero, visto come reinterpretazione delfree riding che tocca i grandi gruppi impegnati vanamente a realizzare un benecollettivo (Olson, 1983).

Fig. 1. Dilemma del prigioniero con pagamenti in valori ordinali.La defezione è la strategia dominante (conviene sempre, indipendentemente dal comportamentoaltrui); se poi l’altro coopera, allora si hanno i benefici del free riding DC (4;1).La diffidenza razionale (maximin) porta all’esito Pareto non ottimale DD (2;2).Si ha una sola posizione da cui non conviene spostarsi unilateralmente (equilibrio di Nash): DD(2;2), Pareto non ottimale

BetaC D

Alfa C 3;3 1;4D 4;1 2;2

C = Cooperazione, D = Defezione

Diversi autori (ad es., Taylor, 1987) hanno ben mostrato che situazionitecnicamente e istituzionalmente diverse di produzione di beni collettivi possonoessere rilette attraverso altri modelli di interdipendenza strategica: gioco del pollo,gioco dell’assicurazione, battaglia dei sessi, ecc. Ciò vale già per alcuni classicicasi olsoniani (Olson, 1983): il «piccolo gruppo privilegiato» (p.56), che riesce adevitare il free riding pur non avendo meccanismi di esclusione né incentiviselettivi, è riformulabile come un gioco dell’assicurazione; mentre lo«sfruttamento del grande da parte del piccolo» (p.43) in gruppi eterogenei èrappresentabile da un gioco del pollo.

La situazione dilemmatica cui gli imprenditori sono confrontati nel produrreun bene collettivo di club è a nostro parere riproducibile dal giocodell’assicurazione o della caccia al cervo di J.J. Rousseau (Sen, 1967; Jervis,1978; Elster, 1982; Scharpf, 1989), nella sua variante formulata da Taylor (1987,p. 18 e pp. 34-40). Osserviamo dapprima le caratteristiche fondamentali di questogioco e le sue diversità rispetto al dilemma del prigioniero sopra rappresentato.

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Fig. 2. Gioco del’assicurazione, nella variante della caccia al cervo di J.J. Rousseau, con pagamentiin valori ordinali.Non esiste strategia dominante, conviene C se l’altro coopera (esito CC), conviene D se l’altrodefeziona (esito DD).La diffidenza razionale (maximin) porta all’esito Pareto non ottimale DD (2;2).Si hanno due posizioni dalle quali non conviene spostarsi unilateralmente (equilibri di Nash): unaPareto ottimale, CC (4;4); l’altra no, DD (2;2).

BetaC D

Alfa C 4;4 1;3D 3;1 2;2

C = Cooperazione, D = Defezione

Fig. 3. Gioco del’assicurazione, nella variante di Taylor (1987, p. 18 e pp. 34-40), con pagamenti invalori ordinali.Come nella fig. 2, non esiste strategia dominante, conviene C se l’altro coopera (esito CC),conviene D se l’altro defeziona (esito DD).Come nella fig. 2. la diffidenza razionale (maximin) porta all’esito Pareto non ottimale DD (questavolta: 3;3).Questa versione del gioco presenta una minore tentazione alla defezione unilaterale: non più DC(3;1), ma DC (2;1); nonché un maggiore incentivo alla mutua defezione - DD non è più 2;2, ma è3;3.Si hanno due posizioni dalle quali non conviene spostarsi unilateralmente (equilibri di Nash): unaPareto ottimale, CC (4;4); l’altra no, DD (3;3).

BetaC D

Alfa C 4;4 1;2D 2;1 3;3

C = Cooperazione, D = Defezione

Rispetto al dilemma del prigioniero, che stilizza il free riding in un grandegruppo che vuol produrre o ha prodotto un bene collettivo a carattere pubblico, ilgioco dell’assicurazione meglio ritrae la situazione strategica della realizzazione efruizione di un bene collettivo di club, in quanto:

a) offre il pagamento individuale massimo solo se tutti cooperano, giacché: a1-solitamente il gruppo che produce il bene di club è olsonianamente piccolo ointermedio, per cui la defezione anche di pochi si fa sentire sul livello diproduzione del bene; a2- l’escludibilità dalla fruizione del bene dei noncontributori rende loro impossibile lo scrocco (free riding) come pagamentomassimo;

b) quanto visto sub-a) per i beni di club implica una situazione diinterdipendenza strategica tra gli attori, nel senso che, per ottenere il pagamentomassimo o per evitare quello minimo, ciascuno deve avere un’aspettativa su cosa

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faranno gli altri. Nel dilemma del prigioniero le aspettative non contano, vi è unastrategia dominante di defezione e si agisce come se si fosse isolati dagli altri(Sen, 1967, parla infatti di isolation paradox);

c) da quanto sub-b), emerge per i beni di club il cosiddetto problemadell’assicurazione: solo se un attore sarà sicuro che anche gli altri coopereranno silascerà attrarre dal pagamento massimo ed egli pure coopererà; senza questasicurezza, gli converrà defezionare, onde evitare il pagamento minimo. Ci si trovadunque in una situazione di cooperazione condizionale;

d) da quanto sub-c), emerge come le caratteristiche e le credenze soggettivedell’attore economico assumono una dimensione cruciale (O’Driscoll e Rizzo,1985): l’assicurazione circa l’altrui cooperazione è, in un mondo endogenamenteincerto, sempre una questione di grado, basata sulla valutazione del singolo attore.Entrano allora in linea di conto elementi sociologici soggettivi: la fiduciainterpersonale verso gli altri attori o verso un eventuale terza parte che siproponga come catalizzatore e garante dello sforzo di tutti per il bene collettivo (ilcosiddetto leader istituzionale); la fiducia impersonale verso le capacità che leregole istituzionali che innervano l’azione collettiva garantiscano trasparenza,efficacia ed efficienza (Mutti, 1987);

Per rendere ancora più chiaro l’esempio, trasformiamo i pagamenti del giocodell’assicurazione di Taylor da ordinali a cardinali. Pensiamo un insieme diimprenditori Gamma ed uno Omega che si trovano in un distretto a doverrealizzare un bene di club: un centro servizi; un consorzio per l’esportazione, laR&S o il disinquinamento; un’associazione locale di sviluppo, per il marchio diqualità, ecc.:

1) si immagini una situazione in cui il bene di club presenta dellediscontinuità, per cui se vi contribuisce solo un insieme di imprenditori il benenon verrà prodotto, in quanto non si raggiunge la massa critica necessaria.

Fig. 4. Gioco dell’assicurazione, variante di Taylor (1987, p. 38).Pagamenti in valori cardinali, con esclusione dei non contributori.Costi pro-capite del bene = 2, massa critica = 4, benefici pro-capite = 4

OmegaC D

Gamma C 2; 2 -2;0D 0;-2 0;0

C = Cooperazione, D = Defezione

In questo caso, il contributore unilaterale (CD) vede perso completamente ilproprio investimento (-2+0=-2), mentre l’esclusione del defezionatore non sirivela necessaria in quanto con DC non è comunque prodotto nulla;

2) si immagini una situazione in cui il bene di club non presenta discontinuitào le presenta ad un livello più basso, per cui se contribuisce un solo insieme diimprenditori il bene verrà prodotto in modo subottimale:

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Fig. 5. Gioco dell’assicurazione, variante di Taylor (1987, p. 38).Pagamenti in valori cardinali, con esclusione dei non contributori.Costi pro-capite del bene = 2, massa critica = 2: con CC, benefici pro-capite = 4; con CD, beneficipro-capite = 1

OmegaC D

Gamma C 2;2 -1;0D 0;-1 0;0

C = Cooperazione, D = Defezione

In questo caso, il contributore unilaterale (CD) vede perso solo parzialmente ilproprio investimento (-2+1=-1), mentre il defezionatore unilaterale (DC) vede lasua mossa compromessa dal fatto di essere istituzionalmente escluso da benefici,ottiene infatti 0 (0-0) invece di 1 (0+1).

5. Leadership istituzionale, riformulazione degli interessi e cooperazionecondizionale: un circolo virtuoso?

L’uso euristico di rudimenti delle teorie dei beni collettivi e dei giochi cipermette di tornare maggiormente attrezzati alle incognite della nuova fase disviluppo dei distretti. La creazione delle auspicate forme di imprenditorialitàcollettiva non si può dare per scontata: la diffidenza razionale può portare ad esitidi equilibrio che sono Pareto non ottimali (DD, maximin; DC, defezioneunilaterale) ed avviare il distretto al declino, lasciando in vita solo le impreseeccellenti ed i loro satelliti. In questo senso, aver rappresentato l’emergere diistituzioni economicamente rilevanti come un gioco insidiato da dilemmistrategici è il miglior antidoto contro spiegazioni di tipo olistico e/ofunzionalistico delle istituzioni, in cui a volte incorrono ingenuamente sociologied economisti (Granovetter, 1992; Parri, 1995). Che nel distretto esista unbisogno di certi beni collettivi non è affatto condizione sufficiente per garantirnela creazione ed il mantenimento: a contare sono gli interessi, pur plasmabili, deisingoli attori; mentre costituisce un’indebita reificazione pensare ad un interessedel distretto in quanto tale che spinga per la realizzazione di quei beni (Coleman,1994). È per questo che, grazie all’ausilio della teoria dei giochi, vanno indagati iprecisi meccanismi socioeconomici di interazione tra i singoli attoriautointeressati che possono portare o meno alla realizzazione istituzionale delbene (Harsanyi, 1968). Cruciale per un esito positivo è la presenza di creativitàistituzionale. Di questa creatività si fanno carico quelli che possiamo chiamare ileader istituzionali che di volta in volta emergono nel distretto: politici locali oregionali particolarmente legati al luogo, imprenditori -singoli o in piccoli gruppi-particolarmente «preveggenti», funzionari o presidenti di associazioni industriali

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o artigiane, di camere di commercio, di agenzie dell’amministrazione regionalecon compiti di politica industriale, ecc.

Anche se l’azione dei leader istituzionali è qualche volta sostenuta da incentiviselettivi (Olson, 1983) di tipo monetario o normativo a favore delle aziende,questi sono un fattore che possiamo trascurare, sia in pratica che in teoria: in ungioco dell’assicurazione il passaggio dall’equilibrio subottimale (DD) a quelloottimale (CC) non avviene grazie ad incentivi selettivi o a poteri vincolantiesterni, ma operando su altre leve (Eisenstadt, 1968; Taylor, 1987). In questosenso, l’azione del leader istituzionale deve essere indirizzata verso due aspettiche abbiamo visto cruciali per questo gioco.

1) In primo luogo, la percezione soggettiva che il singolo imprenditore ha dellanatura del bene collettivo che può generarsi: le mosse dei singoli giocatori sibasano infatti non sulla realtà, ma sulla percezione che essi hanno di questa(Jervis, 1978). Il fatto che i beni di club che il leader istituzionale annuncia divoler produrre comportino escludibilità tecnica ed istituzionale (regole regolativedi fruizione), evita che la situazione sia compresa dagli imprenditori come undilemma del prigioniero: il free riding non sarà possibile. Ciò non basta però perevitare l’equilibrio Pareto inferiore e per motivarli a contribuire onde raggiungerel’equilibrio Pareto ottimale. Il leader istituzionale deve essere allora in grado didare una visione del bene collettivo da prodursi che sia sufficientementeaccattivante, ma, soprattutto, deve essere capace di agire sulla definizione cheogni imprenditore ha degli interessi della propria azienda (Confindustria-Censis,1991). Il leader istituzionale deve essere in grado di cominciare a spostare ilbagaglio cognitivo di chi guida le sorti delle aziende da una «imprenditorialitàlimitata» verso una «generale» (Lorenzoni, 1990), da una «mentalitàasistematica» verso una «mentalità sistematica» (Miolo Vitali, 1993), da una«vocazione imprenditoriale statica» verso una «dinamica» (Visconti, 1992).Quando, grazie all’azione del leader istituzionale, l’imprenditore avrà cominciatoa riformulare i suoi interessi in un ottica che si stacca dalla reattività di breveperiodo e si sposta alla progettualità di medio-lungo periodo, allora sarà per luipossibile dar maggior peso ai frutti che il godimento del bene collettivo di clubpotrà portare con sé. La via della non contribuzione gli apparirà diffidenzairrazionale. Escludendo volutamente l’eventualità del ricorso ad incentivi selettiviolsoniani o a poteri vincolanti esterni, la teoria dei giochi tratta esplicitamentedella possibilità di riformulare gli interessi dei giocatori in modo da evitare esitisubottimali. Nel nostro caso, non si tratta affatto di passare da interessi egoistici apreferenze altruistiche (come fa Collard, 1978, cap. 4) o solidaristiche (allamaniera di Elster, 1982, in riferimento alle organizzazioni operaie), quantopiuttosto di riformulare parzialmente il concetto di self-interest, attraverso un«allargamento dell’ombra del futuro» (Axelrod, 1985, p.108) che scoraggi lestrategie imprenditoriali miopi a favore di quelle previdenti. Per l’istituzione infieri, è questo lo spazio d’azione delle regole costitutive: il leader istituzionalecomincia qui un’attività di riformulazione dell’identità imprenditoriale cheproseguirà una volta che l’organizzazione collettiva sarà a regime. Nell’operarequotidiano del centro servizi, del consorzio, dell’associazione, l’imprenditoreentra a contatto con concezioni dell’ambiente e repertori d’azione primasconosciuti, ma che possono ora apparirgli significativi per lo sviluppo della

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propria azienda. Questa presa di contatto con nuove regole costitutive agiscelentamente sul suo bagaglio cognitivo, avviandolo verso idee e prassi primainconcepibili e allontanadolo progressivamente dal modello dell’imprenditorialita«limitata, statica e asistematica». Gli esiti positivi di questo processo diapprendimento non sono peraltro scontati e dipendono dalle capacità soggettivedei leader istituzionali, dalla ricettività dei soggetti imprenditoriali, dall’efficaciae l’efficienza dell’operare della nuova istituzione, ecc.

2) In secondo luogo, l’azione del leader istituzionale deve orientarsi sull’altroaspetto cruciale del gioco: il problema dell’assicurazione e della cooperazionecondizionale. Certo, l’induzione da parte del leader di processi cognitivi diriformulazione degli interessi individuali già di per sé comporta un aumento delleprobabilità di cooperazione generalizzata, ma ciò non è sufficiente. Per superarela diffidenza razionale degli imprenditori uno nei confronti dell’altro, èfondamentale che l’impianto delle regole regolative della nuova istituzione diagaranzie di trasparenza e solidità e che la leadership istituzionale si dimostriaffidabile: chi defeziona dovrà essere sanzionato; chi non si impegnasufficientemente andrà sollecitato; le responsabilità andranno definitechiaramente, le informazioni dovranno circolare, ecc. In questo senso, la formagiuridica proposta (società, consorzio, associazione, società consortile) deveessere la più adeguata possibile al tipo di bene collettivo che si vuole approntare.Nello statuto e nei regolamenti, poi, vanno tenute in linea di conto eventuali altreesigenze specifiche che gli imprenditori possono aver palesato nella discussioneiniziale. Esprimendosi nei termini della constitutional political economy(Buchanan, 1989), il processo di contrattazione tra leader istituzionale eimprenditori, e tra imprenditori stessi, deve portare ad un’accettazione unanimedelle regole regolative, sia costituzionali che di scelta collettiva, che fondano lanuova istituzione (Ostrom, 1990, pp. 50-55). Le decisioni operative concrete chepoi saranno assunte, anche a maggioranza, si baseranno su questo quadroregolativo. Una volta che la nuova istituzione sarà entrata in funzione, essa potràpalesarsi più o meno adeguata alle esigenze dei singoli e abbisognare così dieventuali aggiustamenti regolativi proposti dalla leadership e/o richiesti da sociinsoddisfatti. La storia dei consorzi, centri servizi e associazioni distrettuali èpiena di crisi ed aggiustamenti statutari o regolamentari: infatti dopo che un velodi ignoranza di Rawls a proposito dei futuri esiti concreti delle regole concordateha favorito l’accordo iniziale, persistenti inefficienze o continui squilibridistributivi dell’operare istituzionale possono spingere verso richieste dimodifiche. Il quadro istituzionale deve insomma apparire all’imprenditore comecapace di assicurare un grado accettabile di soddisfazione dei propri interessi edi cooperazione di tutti alla vita dell’organizzazione: solo così la propriadiffidenza gli apparirà, una volta di più, irrazionale.

Sinora abbiamo volutamente semplificato il quadro all’interno del quale sidispiega il gioco dell’assicurazione che dà vita alle nuove istituzioni distrettuali.Abbiamo immaginato che vi partecipino solo le imprese di medie capacità,lasciando fuori quelle eccellenti, che seguono la via maestra dell’aumentodimensionale (via costellazioni e/o gruppi), e quelle marginali, destinatecomunque a soccombere con l’aumento delle pressioni concorrenziali. Ci siamoraffigurati giochi strategici che sorgono tra attori che hanno interessi omogenei e

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dotazioni di risorse simili, mentre nella realtà distrettuale i progetti per nuovi benicollettivi possono anche coinvolgere soggetti eterogenei, a volte acuendo, a voltesemplificando i problemi d’azione collettiva (si vedano i casi trattati in Marelli,1989 e Parri, 1993b, 1993c, 1994). Pur non essendo questa la sede adatta perapprofondire questo problema, non si può trascurare il fatto che l’omogeneitàdegli interessi delle aziende coinvolte in un progetto di imprenditorialità collettivanon è mai completa, nemmeno quando le aziende stesse hanno dimensioni simili eappartengono non solo allo stesso settore, ma allo stesso comparto osottocomparto. Il profilo produttivo e commerciale di un’impresa ha molto spessoqualcosa di unico. In forza di ciò, le iniziative comuni di offerta di servizi, venditaall’estero, partecipazioni a fiere, R&S, creazione di un marchio locale, ecc. chesaranno decise e implementate, nel quadro delle regole istituzionali che reggonol’organizzazione comune, non avranno mai un impatto identico su tutte le impresecoinvolte. Alcune si sentiranno più favorite, altre meno. Il fatto non è di per séproblematico, purché a sentirsi meno avvantagiati rispetto agli altri non sianosempre lo stesso o gli stessi imprenditori. Se così fosse, costoro potrebberopensare che le regole regolative e palesi e/o quelle costitutive e tacite che reggonoi processi decisionali e operativi della nuova organizzazione discrimininosistematicamente tra gli imprenditori coinvolti. Ci si verrebbe così a trovare inquella che la teoria dei giochi chiama battaglia dei sessi (Rapoport, 1966, cap. 8;Scharpf, 1989): una situazione in cui c’è accordo sul fatto che la cooperazionecomporta per entrambi un miglioramento rispetto alla situazione di partenza, manon c’è consenso su come sono distribuiti i benefici della cooperazione stessa.

Più concretamente, si pensi ancora a due insiemi di aziende distrettuali, Delta eSigma, che pur essendo appertenenti allo stesso comparto occupano al suo internonicchie produttive differenti. Tutte queste aziende sono socie di uno stessoconsorzio di promozione e vendita all’estero, all’interno del quale si devedecidere come stanziare una certa somma: mentre la partecipazione ad una datafiera oltralpe favorirebbe molto gli interessi dell’insieme Delta e solo mediamentequelli di Sigma; una campagna pubblicitaria negli Stati Uniti favorirebbe moltogli interessi dell’insieme Sigma e solo mediamente quelli di Delta.

Fig. 6. Gioco della Battaglia dei sessi, con pagamenti in valori cardinali.Non esiste strategia dominante.Vi sono due posizioni dalle quali non conviene scostarsi unilateralmente: FF (3;2); PP (2;3)(equilibri di Nash).I due equilibri sono Pareto-ottimali.Non si pone il problema della diffidenza razionale (l’accordo è sempre più conveniente).

SigmaFiera Pubblicità

Delta Fiera 3;2 0;0Pubblicità 0;0 2;3

Il problema di azione collettiva che si pone in questo caso non è di diffidenzarazionale (maximin), quanto di equità ed equilibrio competitivo tra soci-concorrenti. Potrebbe infatti accadere che, ritenendo ingiusto favorire

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maggiormente l’altro insieme di imprese, ognuno dei due insiemi si oppongadecisamente nei confronti della fiera o della pubblicità, preferendo non investirvile risorse a disposizione (pagamento 0;0) o dedicarle ad una terza iniziativa chesoddisfa in modo minore, ma equilibrato, gli interessi di entrambi (ipoteticopagamento 1;1). In quest’ultimo caso, si giungerebbe ad un esito subottimale chesarebbe accettato solo per il timore che il proprio socio-concorrente si avvantaggi.L’esito subottimale può essere però evitato attraverso un processo dicontrattazione tra i due insiemi di aziende, tanto che Rapoport (1966, cap. 8)parla della battaglia dei sessi come negotiated game. In queste circostanze,l’insieme di imprese che ha maggiormente da perdere da una soluzione che portaad un nulla di fatto si dimostrerebbe meno fermo durante la contrattazione cheprecede la decisione e finirebbe con l’accettare l’alternativa che, pur favorendolo,lo fa in maniera minore che non con l’altro insieme. Se, ipoteticamente, un nulladi fatto portasse a pagamenti «-1;0,5», allora la posizione negoziale di Deltasarebbe più debole e si sceglierebbe probabilmente la pubblicità, gradita a Sigma.Va da sé, che compito del leader istituzionale sarà quello di tastare costantementeil polso delle imprese che partecipano alla creazione del bene collettivo, ondegarantire che gli eventuali squilibri distributivi si alternino tra i soci, consentendoil massimo possibile di equità.

Prima di passare ad evidenze empiriche, quanto visto ci spinge a consideraremodalità ed intenti con cui la teoria dei giochi è stata di recente riscoperta comepotente strumento euristico per le scienze sociali (Scharpf, 1990). Analiticamente,ciascun gioco stilizza problemi di interazione strategica che appaiono risolvibilisolo all’interno delle stringenti condizioni poste dalla teoria riguardo allarazionalità degli attori e al contesto di informazione perfetta in cui operano le loroscelte. Queste condizioni postulano però capacità cognitive e calcolative degliattori che vanno ben oltre quelle reali: ciononostante, spesso accade che i dilemmistrategici siano superati dai soggetti socioeconomici in carne ed ossa. Laspiegazione di questo fatto è che, ai limiti informativi, cognitivi e previsivi degliattori reali, supplisce l’aiuto di elementi che la teoria pura ha -peraltrocomprensibilmente- tenuto in disparte: la creatività soggettiva, i legamiinterpersonali preesistenti o emergenti, le istituzioni nelle loro diverse fattispecie(Scharpf, 1990). È in quest’ottica che abbiamo fatto uso del tipo ideale del giocodell’assicurazione, che per risolversi positivamente chiederebbe la presenza disoggetti onniscenti. Calando la struttura del gioco nello scenario della creazionedi forme di imprenditorialità collettiva nei distretti italiani, abbiamo individuato lecondizioni socioeconomiche che suppliscono ai limiti delle capacità strategichedegli attori e rendono perciò più probabile evitare una esito subottimale: presenzadi leader istituzionali, creatività istituzionale sia regolativa che costitutiva, unacerta ricettività da parte del mondo imprenditoriale, un minimo di fiduciacomunitario-locale tra i vari elementi pubblici e privati coinvolti, ecc.

6. I consorzi tra piccole imprese come «istituzioni economicamenterilevanti».

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Dopo esserci in passato occupati dell’istituzione economicamente rilevante deicentri servizi (Parri, 1993a, 1994), muoviamo qui un primo passo nell’analisi deiconsorzi tra piccole imprese. La forma istituzionale del consorzio è ampiamenteutilizzata per la realizzazione di beni collettivi di club capaci di garantire allepiccole imprese lo svolgimento di quelle funzioni aziendali che sono oltre la loroportata individuale: «Con il contratto di consorzio più imprenditori istituisconoun’organizzazione comune per la disciplina o per lo svolgimento di determinatefasi delle rispettive imprese» (art. 2602 del c.c.). Nella sua forma di consorzio insenso tecnico, come in quella di società consortile, i suoi ambiti operativi sonovari: promozione e/o vendita all’estero, garanza fidi, R&S, depurazione, marchi diqualità, ecc. Tra le istituzioni economicamente rilevanti, il consorzio presenta inmodo acuto i dilemmi di azione collettiva sopra esaminati: in molte sue fattispeciegode in scarsa misura di sostegni da parte di organizzazioni private e/o pubblichead esso esterne; è spesso costituito da soggetti di potere equivalente che per di piùsono non di rado in concorrenza tra di loro sul mercato; nel suo decidere edoperare vede le singole aziende confrontarsi faccia a faccia; richiede continuecontribuzioni sia monetarie che fattive; la sua snellezza organizzativa e l’agilestruttura istituzionale -assemblea, consiglio direttivo, presidente e direttore-impediscono la neutralizzazione oligarchica dei dissensi. Il giocodell’assicurazione del consorzio comporta dilemmi strategici tanto più intensiquanto più è significativa l’attenuazione dei diritti di proprietà esclusivi diciascun socio che è richiesta dalla creazione del bene collettivo (ERVET, 1985,pp. 42-43; Preti, 1991, pp. 20-38; Parri, 1993c, pp. 76-78). In altre parole, unconsorzio che si occupi, ad es., di vendita o R&S richiede uno scambio(Coleman, 1994, p. 169) tra parte delle prerogative imprenditoriali, da un lato, epossibilità di fruizione del bene collettivo, dall’altro, più profondo ed ampio chenon nel caso in cui il consorzio si occupi di promozione o controllo di qualità.Non per niente i consorzi di vendita o R&S sono assai meno diffusi e hanno disolito le dimensioni dei piccoli gruppi «privilegiati» di Olson (1983). La crucialitàdelle funzioni aziendali che, in questi casi, vengono ad essere ricomprese in formecollettive di imprenditorialità rende i consorzi di vendita o di R&S istituzioni chemeritano pienamente la qualifica di «economicamente rilevanti».

In questa sede vogliamo considerare a fondo un caso di consorzio di venditaall’estero situato nel distretto industriale mobiliero della Brianza comasca. Iconsorzi di vendita rientrano nella più vasta categoria dei consorzi export, lagrande maggioranza dei quali si dedica però esclusivamente a semplici attivitàstrumentali - di importanza ormai declinante (consulenza export, contrattualistica,traduzioni, interpretariato, telex) e promozionali -di rilevanza oggi crescente perle imprese (partecipazione a fiere, missioni all’estero, ricerche di mercato,pubblicità). Dai dati contenuti nei rapporti annuali della Federexport (1994),l’associazione legata alla Confindustria che riunisce più della metà dei consorziexport italiani, risulta che i consorzi di vendita -che quasi sempre svolgono ancheattività promozionali- rappresentano solo il 19% dei 144 iscritti. I consorzi divendita riuniscono per due terzi aziende dello stesso settore o comparto e vantanonel 63% dei casi dimensioni inferiori alle 16 imprese socie (il numero medio disocie era, nel 1994, pari a 34 per tutti i 144 membri della Federexport). Ladelicatezza della funzione della vendita, che tocca al cuore le prerogative

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imprenditoriali ed è foriera di potenziali conflitti di interesse tra soci, è alla basedella monosettorialità e della piccola dimensione di questo tipo di consorzi:eterogeneità produttiva e grandi numeri renderebbero ingestibile il giococonsortile dell’assicurazione.

La Brianza mobiliera comasca è un vasto distretto industriale composto da unamiriade di piccole imprese industriali ed artigiane. Al suo interno sono maturatealcune interessanti esperienze di consorzi di vendita. Tra queste, il P.A.C.(Produttori artigiani canturini): fondato nel 1966 su stimolo di un senatorelocale, è stato il primo consorzio di vendita all’estero creato in Italia. Essoriunisce oggi 14 imprese artigiane dell’ottone e possiede un proprio marchio agaranzia della qualità -nel comparto non sono state rare finiture chimiche«bidone» che lasciavano annerire col tempo il metallo. Vi è poi Cabiate Produce,di cui ci occuperemo in dettaglio, fondato a metà anni settanta e che riunisce unadozzina di imprese artigiane del paese. I consorzi di vendita sono tipici piccoligruppi olsoniani, dove ogni socio conosce tutti gli altri; ben diversi, quindi, daiconsorzi di promozione plurisettoriali, che il più delle volte superano i centomembri e offrono un’ampia gamma di servizi a soci che tra di loro spessonemmeno si conoscono. Volendo trarre un esempio dal distretto mobilierobrianzolo, un caso interessante di grande consorzio di promozione è quello diComoexport, che raggruppa 145 aziende di quattro settori merceologici: varie,tessile-abbigliamento, metalmeccanica, mobile-arredamento. Fondato nel 1968 suimpulso della Camera di commercio di Como, nel 1989 il consorzio ha aperto unufficio a Cantù (Cantùexport), cui fanno capo la cinquantina di imprese socie delmobile-arredamento, appartenenti peraltro a comparti assai diversi. Di questeimprese, una dozzina sono artigiane, una quindicina piccole, le altre medio-piccole (almeno cinquanta addetti). Comoexport ha tra i propri soci sostenitori,oltre alla Camera di Commercio, anche enti locali, associazioni industriali edartigiane, istituti di credito. Mentre i piccoli consorzi di vendita usufruisconoesclusivamente di finanziamenti esterni camerali, statali e di enti locali,Comoexport aggiunge a queste fonti anche sostanziali contributi da parte diprivati, come istituti di credito ed associazioni imprenditoriali. Il consigliodirettivo di Comoexport è così formato: 10 imprenditori eletti in rappresentazadei suoi diversi settori; un esponente camerale; 4 rappresentati dei soci sostenitori.Nel consiglio direttivo dei consorzi di vendita sono invece solitamente presentisolo gli imprenditori soci, fortemente gelosi dell’ autonomia consortile esospettosi verso potenti realtà associative, bancarie o camerali esterne.

7. I consorzi di vendita all’estero: difficoltà e successo di un casoesemplare.

Nel comune brianzolo di Cabiate (Co) sono attive circa 200 botteghe artigianeche realizzano complementi d’arredo in stile classico: ai produttori per il mercatofinale, si affiancano intagliatori, tappezzieri, lucidatori, decoratori, intarsiatori,tutti passati attraverso la scuola di disegno comunale, fondata nel 1895. Ad inizioanni settanta le vendite -in Italia e Francia in primo luogo- erano gestite da

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grossisti ed intermediari. Costoro, pur garantendo gli sbocchi, si appropriavano diuna grossa fetta dei profitti, mettevano gli artigiani in forte concorrenza reciprocae precludevano loro i rapporti con gli acquirenti finali. Oltre a ciò, va consideratocome la produzione di sedie, tavolini, specchi, scrittoi, ecc. fosse nel settoredell’arredamento quella a minor valore aggiunto, «parente povero» rispetto ad es.all’artigiano canturino, specializzato nel mobile su misura. Come opportunamenteosserva Buchanan (1965, n. 1, p. 12), questa situazione di debolezza dei singoliattori economici coinvolti rende loro inevitabile dover organizzare in manieracollettiva funzioni aziendali altrove internalizzate individualmente. Nel nostrocaso, il ruolo di leader istituzionale è stato svolto da un mobiliere locale, il quale,nel 1974, riuscì a convincere altri tredici artigiani -amici d’infanzia e tuttirelativamente giovani- della necessità di formare un consorzio per l’acquisto e lavendita in Italia ed all’estero, denominato Cabiate Produce. La voce si sparse edaltri artigiani chiesero di aderire, sino a giungere al numero di trentatre nei primianni ottanta. Questo periodo iniziale è però pieno di problemi: alcuni soci, unavolta conosciuto il nome di un acquirente, scavalcano il consorzio offrendo lamerce ad un prezzo inferiore; altri, constatato che nelle vendite consortili ilproprio prodotto trova pochi acquirenti, pretendono una partecipazione inferiorealle spese comuni piuttosto che accettare le critiche sui motivi del proprioinsuccesso; altri ancora non rispettano i termini di consegna per le forniture diambienti completi, danneggiando la reputazione del marchio consortile. Oltre aciò, l’inesperienza commerciale dei soci e del direttore porta ad accettare ordinida clienti poi rivelatisi insolventi; lo stesso direttore, che ha il ruolo di interfacciacon il mercato, viene cambiato ben quattro volte, in quanto non all’altezza oinfine demoralizzato. In questa situazione, anche la costruzione tra il 1978 e il1980 di una palazzina consortile -dotata di magazzino per lo smercio ed ilcontrollo di qualità, uffici e show room- si rivela controproducente: le scarseentrate del consorzio non ripianano i debiti contratti e i soci devono contribuire inproprio alle spese per interessi passivi. Tra i membri le discussioni aumentano,emergono conflitti distributivi simili al gioco della battaglia dei sessi: leassemblee si fanno allora assai frequenti e terminano spesso con decisioni presecon maggioranze risicate che lasciano molti scontenti. Cominciano le uscite, lequali aggravano ulteriormente le cose, in quanto ai partenti va riconsegnata laquota versata per il fondo consortile. La situazione inizia a cambiare con l’arrivodi un nuovo direttore -ancora in carica oggi. Su impulso del nucleo dei fondatorioriginari, del leader istituzionale e del nuovo direttore, a metà anni ottanta siprospetta un forte rilancio dell’attività consortile. Ai ventidue soci rimasti sipropone un grosso sforzo finanziario, con il fine di ripianare i debiti e diricapitalizzare il consorzio. Ormai abbandonati da tempo l’acquisto e la vendita inItalia, Cabiate Produce vuole raggiungere la massa critica di risorse per svolgerela vendita all’estero secondo i canoni operativi di una azienda medio-piccola ingrado di valorizzare il proprio marchio. A questo punto, si attiva nuovamente ilgioco dell’assicurazione: di fronte al rischio di veder perso un ulterioreinvestimento nel consorzio, solo una dozzina di soci -non a caso tutti membrifondatori- accettano le proposte di rilancio portate avanti dal leader istituzionale eda una manciata di artigiani ancora fiduciosi nell’idea dell’imprenditorialitàcollettiva. Dopo dieci anni di disavventure, unicamente i soci iniziali si dichiarano

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disposti a proseguire, questa volta confortati dall’esperienza degli errori passati,da una direzione delle vendite che appare ferma nella gestione e adeguata nellestrategie di mercato e da un’infrastruttura come la palazzina consortile che era giàoperativa. I dodici rimasti non sono però solo i più fiduciosi, ma anche quelli piùdisposti ad accettare critiche dai colleghi e dalla direzione e a rivedere diconseguenza i propri prodotti, nonché quelli meno inclini alla permalositàindividualistica che di tanti artigiani è allo stesso tempo la forza principale e latara fatale.

I dieci anni che arrivano sino ai nostri giorni sono quelli del successo diCabiate Produce: un fatturato in crescita; un circolo virtuoso che permette direinvestire i profitti consortili in strategie di mercato sempre più ambiziose, con laconseguente necessità di contribuire a rifinanziare il consorzio solo di quando inquando; decisioni assembleari prese all’unanimità; realizzazione di prestigiosiarredamenti in ogni parte del mondo; fiducia non più solo nel leader istituzionalema anche nel direttore responsabile delle vendite.

Entriamo nel merito di questo successo. Cabiate Produce è completamenteautonomo da organismi terzi, gode solo di sussidi annuali legati alla L. 93/1989-che peraltro significano poco rispetto al giro d’affari ormai sostenuto, dà lavoroad un direttore delle vendite ed un dirigente amministrativo, tre impiegati, treoperai per il controllo di qualità e l’imballo delle merci. Collaboratori esterni incampo legale, fiscale, di ideazione dei prodotti e di marketing puntellano la suaattività. Le vendite ruotano attorno ad alcuni capisaldi. Anzitutto le collezionimarchiate Cabiate Produce, rinnovate completamente ogni tre anni e realizzatecon il contributo del direttore, di ideatori esterni (designer, arredatori, architetti,ecc.) e dei propri soci. Vi sono poi le grandi commesse per grossi clienti chechiedono interi ambienti completi, ad es. halls di alberghi, e le richieste puntualiprovenienti dai propri agenti esteri legati a reti di singoli negozi specializzati. Persoddisfare queste esigenze il consorzio non si limita all’acquisto della produzionedei soci, ma da qualche anno ordina regolarmente nel resto della Brianza quasi il50% del venduto: in parte semilavorati, poi rifiniti a Cabiate da una trentina diterzisti di fase di fiducia; in parte prodotti completi basati su progetti consortili.La politica commerciale del consorzio si è dunque resa autonoma da quella dellesingole socie: alle tre grandi fiere internazionali del mobile di Milano, Parigi eFrancoforte lo stand rappresenta unicamente il marchio consortile con le suecollezioni.

Dopo il patto di rilancio, la nuova gestione delle vendite per un certo periodoelevò una sorta di barriera tra soci e clienti, sia a garanzia di imparzialità e diautonomia, che per evitare di essere corto-circuitata da eventuali membri delconsorzio troppo «intraprendenti». I soci trovavano comunque il loro guadagnovendendo i prodotti al consorzio, che a sua volta si rifinanziava vendendo alcliente finale con un proprio margine. Così facendo, le informazioni sulletendenze qualitative dei mercati arrivavano ai soci in modo impersonale da partedella direzione consortile, che a sua volta le reperiva attraverso la rete degli agentie dei grossi clienti esteri. Il fatto di ricevere informazioni in modo impersonaleconsentiva alle aziende di rimanere aggiornate sulle tendenze stilistiche -cosaassai più difficile con il vecchio sistema dei grossisti o intermediari- ma andava ascapito dello spirito di squadra e dell’orgoglio creativo degli artigiani. La fiducia

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instauratasi ha però permesso di superare questa barriera precauzionale e i socisono ora messi direttamente in contatto dalla direzione con i clienti più grandi eprestigiosi. Si sono così realizzate visite incrociate tra soci e clienti del consorzio,fatto che stimola la fierezza degli artigiani e permette loro un arricchimentoprofessionale e culturale. Uno degli aspetti cardine dell’esperienza di CabiateProduce è stato infatti la continua crescita professionale degli artigiani soci intermini di qualità del prodotto e sensibilità alle crescenti esigenze dei mercati.Cabiate Produce è riuscito così a passare da una fascia di mercato medio-bassa aduna medio-alta: il contatto con i bisogni delle collezioni consortili e di raffinaticlienti esteri ha affinato lo stile e stimolato il gusto degli artigiani soci. Oltre a ciò,membri del consorzio che prima realizzavano prodotti identici sono stati capaci didiversificare le proprie nicchie di mercato una rispetto all’altra: ad es., non piùtutti e due sedie classiche, ma un artigiano sedie classiche «inglesi» ed un altro«francesi». L’affinamento stilistico ha permesso ad altre socie di abbandonare irischiosi tentativi di passaggio al «moderno», che avrebbero dissipato unpatrimonio di conoscenze nel «classico» che era invece da rivitalizzare. Tutto ciòha avuto effetti benefici anche sul resto della produzione aziendale, quellasmerciata dai singoli artigiani autonomamente sul mercato italiano o su quelloestero non di pertinenza consortile. L’appartenenza al consorzio non ha quindiindebolito l’azione individuale delle imprese sul mercato, ma l’ha rafforzata,dando loro un vantaggio strategico rispetto alle altre aziende di Cabiate, neiconfronti delle quali le socie consortili «fanno tendenza» in quanto a stile e gusto.Tra le dodici aziende socie, la quota di fatturato estero che passa tramite ilconsorzio varia sensibilmente (dal 20% all’80%), ma è comunque maggiore diquella che vi passava durante il periodo in cui Cabiate Produce aveva 20-30membri. Questo fatto ha aumentato il potere contrattuale del consorzio verso isingoli produttori, ma ha anche permesso un certo idem sentire tra il piccologruppo degli artigiani soci: tutti nella stessa barca, tutti devono dare il massimo!

Un modus vivendi soddisfacente per tutti i soci è stato trovato anche nelladelicata questione dell’allocazione degli ordini fatti dal catalogo consortile. Laparte di articoli che sono già nella collezione perché proposti dalle singoleimprese non pone problemi, mentre il resto è assegnato dalla direzione secondocriteri relativi al tipo di prodotto, alle tradizioni aziendali e alla possibilitàmomentanea di rispettare i tempi di consegna. Oltre a ciò, per alcuni articoli dellacollezione -quelli ideati autonomamente dalla direzione in contatto concollaboratori esterni- il consorzio possiede l’esclusiva su certi mercati o in tutto ilmondo. La ricerca di nuovi mercati e la continua fuga in avanti in termini diqualità, di varietà e di capacità di adattarsi alle esigenze particolari dei clienti,sono le carte che Cabiate Produce sta giocando negli anni novanta. Lacompetizione mondiale nel mobile-arredamento si fa sempre più dura, non solocon l’emergere di nuovi concorrenti europei come ad es. Spagna e paesi ex-comunisti, ma anche ad opera di lontani paesi di nuova industrializzazione.

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8. Conclusioni.

Rispetto a quanto abbiamo illustrato nella parte teorica, il caso di CabiateProduce è paradigmatico. I dilemmi dell’azione collettiva sono inizialmentesuperati grazie al ruolo dei legami comunitari locali e alla spinta del leaderistituzionale. Ma l’inesperienza nella conduzione consortile, unitaall’allargamento a soci incapaci di affrancarsi dal modello dell’imprenditorialitàlimitata e miope, minano la costruzione della nuova istituzione consortile: leregole regolative non sono rispettate, quelle costitutive stentano ad emergere. Ilgioco dell’assicurazione è risolto in modo subottimale ed emergono, inoltre,conflitti distributivi del tipo battaglia dei sessi: l’istituzione entra allora inprofonda crisi. Questa è sormontata grazie ad un nuovo patto di assicurazionereciproca, dove la cooperazione condizionale è accettata solo dal piccolo gruppodei soci originari, spronati dal leader, mentre gli altri abbandonano. Il reperimentodi un direttore di polso, al di sopra delle parti e con una visione strategica dellamissione consortile, garantisce il gioco dei reciproci impegni e previene le disputecirca la distribuzione dei benefici tra i soci. L’impianto istituzionale si consolida esi sviluppa. Le regole regolative sono rispettate e fatte rispettare: termini diconsegna rigorosi, qualità dei prodotti adeguata, contributi finanziari regolari(peraltro sempre meno ingenti, grazie all’autofinanziamento consortile crescente),rispetto delle esclusive di vendita consortili. Ancora più significativo è l’emergeredi una gamma di regole costitutive legate alla vita del consorzio, specialmenteper ciò che concerne la capacità della direzione di mettere in contatto i soci con ilmondo dei designer, degli stilisti, degli architetti e con le variegate e crescentiesigenze dei clienti. Col tempo, gli artigiani di Cabiate Produce cambiano il loromodo di pensare e realizzare complementi d’arredo in stile classico: affinano lostile ed il gusto, elevano la qualità e la diversità dei prodotti, aumentano lasensibilità verso le caratteristiche chiave dei mercati. Questo processo diapprendimento di nuove regole costitutive trasforma la concezione che essi stessihanno dei propri interessi e, con questa, la loro identità di artigiani, allontanadoliprogressivamente dalle vecchie modalità statiche, imitative ed anguste dicondurre la propria azienda. L’imprenditorialità collettiva genera regolecostitutive che arricchiscono la imprenditorialità individuale degli artigianicoinvolti.

Lo studio di questo caso ci fa però anche capire -oltre l’ ingenuità dieconomisti e sociologi funzionalisti o inclini ad una scanzonata ingegneriaistituzionale- come siano esigenti le condizioni del passaggio dalla necessità dibeni collettivi distrettuali alla loro realizzazione concreta. Tra gli artigiani diCabiate erano presenti molti dei requisiti che favoriscono il successo di esperienzedi imprenditorialità collettiva: alto fabbisogno di azione in comune, presenza dilegami fiduciari locali, buona leadership. Ciononostante, la costruzioneistituzionale ha rischiato il fallimento. Sia in Brianza che nelle altre aree dipiccola impresa, la rarità dei consorzi di vendita, apparentemente così utili, ètestimone della potenza dei problemi di interdipendenza strategica che investono itentativi di imprenditorialità collettiva nei distretti.

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