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IL TEOREMA DI PITAGORA La nascita del pensiero matematico Prof. Giuseppe Rocco ELEMENTI DI GEOMETRIA SOLIDA E PIANA: APPLICAZIONI DIDATTICHE

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IL TEOREMA DI PITAGORA

La nascita del pensiero matematico

Prof. Giuseppe Rocco

ELEMENTI DI GEOMETRIA SOLIDA E PIANA: APPLICAZIONI DIDATTICHE

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SOMMARIO Sommario ............................................................................................................................................. 1

1. Introduzione ............................................................................................................................. 3

2. Gli amanti della verità .............................................................................................................. 7

3. Pitagora di samo ....................................................................................................................... 8

• La scuola pitagorica ........................................................................................................... 9

• La musica ......................................................................................................................... 12

• La Tetraktis ...................................................................................................................... 13

• La teoria encefalocentrica ................................................................................................ 15

• L’astronomia .................................................................................................................... 15

• Keplero ............................................................................................................................ 16

4. La crisi della scuola pitagorica ............................................................................................... 16

5. Gli incommensurabili ............................................................................................................. 17

• Dimostrazione per assurdo degli incommensurabili ........................................................ 19

6. Il “teorema di Pitagora” non è di Pitagora ............................................................................. 20

• Dinastia Hammurabi (Babilonia) ..................................................................................... 20

• Dinastia Shang (Cina) ...................................................................................................... 21

7. Il teorema di Pitagora nell’antichità ....................................................................................... 22

• In Cina ............................................................................................................................. 22

• In India ............................................................................................................................. 23

• In Arabia .......................................................................................................................... 23

• In Egitto ........................................................................................................................... 25

8. Dimostrazione di Euclide ....................................................................................................... 26

• Euclide ............................................................................................................................. 28

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9. Altre dimostrazioni del teorema di Pitagora .......................................................................... 31

• Dimostrazione di Perigal ................................................................................................. 31

• Dimostrazione di Pomi con i Quadrati concentrici .......................................................... 31

• Dimostrazione di Garfield ............................................................................................... 32

• Dimostrazione di Tempelhoff .......................................................................................... 33

• Dimostrazione con il primo teorema di Euclide .............................................................. 33

10. Generalizzazioni del teorema di Pitagora............................................................................... 34

• Teorema di Carnot ........................................................................................................... 34

• Il teorema dei seni ............................................................................................................ 34

11. L’altra faccia del teorema di Pitagora .................................................................................... 35

• Diofanto di Alessandria ................................................................................................... 37

• Equazioni diofantee ......................................................................................................... 38

• Oltre le terne pitagoriche. ................................................................................................ 38

12. Il teorema di Fermat ............................................................................................................... 40

13. Conclusioni............................................................................................................................. 43

14. Bibliografia............................................................................................................................. 44

15. Sitografia ................................................................................................................................ 45

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1. INTRODUZIONE 2500 anni fa, nel sud dell’Italia, in quella che oggi è la Calabria, più in particolare nella città di

Crotone, qualcuno, un personaggio forse mitologico, forse realmente esistito, che aveva nome

Pitagora, Pitagora da Samo, perché in origine proveniva da Samo, si trovò a fare una scoperta che è

una scoperta costitutiva di ciò che oggi noi chiamiamo scienza.

Osservando la realtà, gli antichi sentirono l’esigenza di trovare delle regole armoniche che la

spiegassero. Questo è il punto di partenza del racconto di come, attraverso il numero e la forma,

siano nate l’aritmetica e la geometria. Esse costituiscono l’inizio di un pensiero che si accontenta

solo di verità che siano dimostrabili in modo inoppugnabile dalla ragione. Pitagora ed Euclide, con

le loro intuizioni e le loro ricerche, segnano i due momenti fondanti di questa epocale rivoluzione.

Pitagora capì che la matematica era un linguaggio universale che poteva servire sia alla scienza sia

all’umanesimo e su questo costruì la sua filosofia, per Pitagora tutto è numero, ma i numeri allora

utilizzati erano solo i numeri che oggi chiamiamo razionali, le frazioni, per cui il motto di Pitagora

può essere sintetizzato in tutto è numero razionale e, tralasciando la parola numero, per Pitagora:

tutto è razionale! La ragione riesce a descrivere la fisica e la natura da una parte, l’umanesimo e le

arti dall’altra.

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Nell’insegnamento della geometria piana euclidea il teorema di Pitagora svolge un ruolo centrale

perché non solo stabilisce una proprietà universale di cui godono tutti i triangoli rettangoli, ma

anche perché rappresenta uno strumento potente di applicazione all’interno della stessa matematica

o in altri ambiti scientifici come la fisica e l’astronomia.

Il teorema di Pitagora è un argomento fondamentale nel triennio della scuola media in quanto

collega fra di loro nozioni geometriche come la conoscenza del triangolo rettangolo e il concetto di

figure piane equivalenti ed aritmetiche come il calcolo della radice quadrata di un numero. Si

applica poi alle principali figure geometriche piane e solide.

Esso è inoltre strettamente collegato al concetto della misura delle lunghezze, indispensabile in ogni

struttura geometrica, dalla geometria analitica alla geometria tensoriale e delle varietà riemanniane,

inclusa la teoria della relatività generale.

L’importanza di questo teorema fu riconosciuta fin dall’antichità se, secondo l’ipotesi avanzata per

la prima volta dal matematico e storico della matematica H. G. Zeuthen (1839-1920) e condivisa

ampiamente dagli storici della matematica, fu proprio il desiderio di giustificare e dimostrare il

teorema di Pitagora che condusse i geometri greci a costruire un complesso di proposizioni

concatenate l’una all’altra, risalendo fino a quelle più semplici mediante il procedimento di analisi,

per cui poi con il procedimento inverso di sintesi dalle semplici proposizioni iniziali si potesse

discendere, per gradi di complessità maggiore, fino al detto teorema di Pitagora. Sarebbe stato,

quindi, tale teorema, proprio nella ricerca della sua giustificazione logica, a dare l’avvio, secondo

Zeuthen, alla geometria razionale. L’ipotesi di Zeuthen ha avuto molta fortuna ed è stata ripresa

dagli studiosi anche recentemente.

La dimostrazione data da Euclide ebbe varia fortuna nella didattica del teorema di Pitagora, ma ben

presto ad essa furono preferite due altre dimostrazioni: la prima, basata sulla similitudine e la

seconda, quella più usata, sfrutta il cosiddetto I teorema di Euclide.

Euclide non fornisce esplicitamente queste dimostrazioni del teorema di Pitagora, l’unica

dimostrazione presentata è ormai scomparsa dai libri di testo scolastici, così com’è quasi scomparsa

la dimostrazione dell’inverso del teorema, che peraltro ha molte applicazioni didattiche, e che venne

conosciuta molto prima della proposizione diretta, com’è testimoniato, per esempio, dalla famosa

tavoletta babilonese denominata Plimpton 322 risalente all’incirca al periodo babilonese antico

(1900-1600 a.C.).

Nella didattica della matematica che viene insegnata nelle scuole secondarie accade spesso che

alcuni teoremi siano soltanto enunciati ma non dimostrati oppure, secondo le esigenze della

programmazione, illustrati con esempi particolari.

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Sta di fatto che, qualunque sia la tipologia della scuola secondaria, e qualunque sia il programma di

matematica che viene svolto, le dimostrazioni dei teoremi sono state ridotte ad un esiguo numero e

questa situazione è molto diffusa.

Non è facile cercare di discernere le ragioni di questa prassi educativa, anche perché è ormai invalso

l’uso o meglio l’abito mentale di ritenere che non sia opportuno dimostrare tutto in quanto è proprio

questa una delle cause principali della disaffezione degli studenti nei riguardi della matematica.

In poche parole, più alto è il numero delle dimostrazioni che si fanno, più prenderebbe piede nella

mente degli allievi la convinzione che la matematica sia intrinsecamente difficile e adatta ad essere

compresa solo da pochi eletti.

In parte, tale costume è un retaggio della stagione in cui J. Dieudonné lanciò il fatidico grido

“Abbasso Euclide!”, ma in parte è anche la conseguenza di un giro di boa dell’insegnamento della

matematica, portato avanti da alcuni decenni, per cui si tende sempre più ad utilizzare software

didattici come il Cabri-gèométre o il foglio elettronico Excel o Derive per offrire una diversa

trasposizione didattica di alcuni argomenti disciplinari. Indubbiamente, ciò ha costituito e

costituisce un valido ausilio didattico per la matematica, ogni qualvolta l’uso di questi software non

si riduca per l’allievo a una semplice abilità strumentale non sostenuta da una adeguata conoscenza

teorica del problema matematico in esame.

Così, è molto istruttivo fare “toccare con mano” agli allievi, mediante l’uso di un foglio elettronico,

come il valore di un numero irrazionale, quale la radice quadrata di 2, possa essere approssimato

con quante cifre decimali si voglia, previa conoscenza dei diversi modi di dimostrare l’irrazionalità

del numero.

In caso contrario, a lungo andare, si indebolirebbe la struttura teorica della matematica da insegnare,

ed è questo uno dei motivi che hanno indirizzato la ricerca in didattica della matematica verso due

possibili soluzioni per interessare gli allievi a quel momento cardine del sapere matematico

costituito appunto dalla dimostrazione.

Da un lato, gruppi volenterosi di ricercatori hanno ideato alcuni software di geometria come il già

ricordato Cabri-géomètre o Geo-Gebra (per citarne due tra i più famosi) in modo da attivare

l’interesse degli studenti verso le costruzioni geometriche e la dimostrazione geometrica sintetica

nella scia di quelle della geometria euclidea, con la differenza molto accattivante che le costruzioni

o le dimostrazioni hanno aspetti dinamici che prima mancavano forzatamente quando esse venivano

effettuate alla lavagna con il gesso. Infatti, mediante questi nuovi strumenti, gli allievi possono

rendersi conto subito e visivamente come cambia l’intera figura o parti di essa quando se ne fanno

variare alcuni elementi.

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D’altra parte, ormai da decenni, è sorta una vasta comunità di ricercatori in didattica della

matematica che svolgono le loro ricerche sui temi dell’argomentare, del congetturare e del

dimostrare proprio per comprendere sempre meglio in che modo queste attività vengano recepite

dagli allievi di età diversa e cosa fare per migliorarne la qualità.

Queste iniziative lodevoli rientrano nel vasto ambito dei problemi messi in atto dalla trasposizione

didattica sulle differenze esistenti tra la contestualizzazione originaria dei concetti, delle nozioni,

dei teoremi che vengono studiati e la loro contestualizzazione in ambito didattico, cioè in quel

contesto sempre singolare e sempre unico che è la classe.

È noto come parte della ricerca sulla didattica della matematica miri a trovare le cause di queste

differenze e a suggerire alcune riflessioni sul ruolo della storia della matematica nella didattica della

matematica. Infatti, la trasposizione didattica del sapere matematico ha anche una grave

conseguenza, cioè, la sua destoricizzazione, per cui esso essa appare atemporale, semplicemente al

di fuori della storia.

Ciò porta a due strascichi inevitabili che si radicano nella mente e nel cuore degli allievi.

• Il primo porta l’allievo inevitabilmente a ritenere che ciò che egli studia con tanta fatica sia

avulso da ogni contesto sociale e infine reale, intendendo con tale termine la realtà della vita

quotidiana. Spesso, infatti, gli allievi accusano la matematica d’essere una disciplina astratta

e quindi difficile ovvero (secondo la loro opinione) difficile da comprendere nella sua

concettualizzazione, in quanto non fa riferimento esplicito a oggetti del loro vissuto.

• Il secondo è la sclerotizzazione delle nozioni matematiche, che appaiono caratterizzate solo

dalla loro pertinenza e utilità nel contesto di un dato settore matematico che gli allievi

devono apprendere.

Sono proprio questi i pericoli che incombono sulla corretta acquisizione da parte degli allievi del

sapere matematico e che favoriscono in primo luogo tutti i paradigmi interpretativi della matematica

da parte dei discenti.

A ciò può anche aggiungersi la scelta pericolosa da parte dell’insegnante di decidere, secondo il

contesto in cui deve svolgere la sua opera, di eliminare parte dei concetti o dei teoremi da insegnare

per “snellire” il programma e abbassare la soglia di possibile difficoltà incontrate dagli allievi nel

processo di apprendimento della disciplina.

Credo che tale scelta sia pericolosa se non è supportata da un preciso disegno educativo che tenga

conto di due fattori essenziali: primo, offrire agli allievi sempre un’informazione corretta e

completa; secondo, non cercare mai di banalizzare il sapere.

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Può, infatti, accadere il caso estremo di non ritenere più necessario un concetto o un dato teorema ai

fini di economizzare in maniera arbitraria un certo campo del sapere matematico, come, per

esempio, quello della geometria euclidea.

Ciò significa spesso tradire proprio uno dei cardini dell’insegnamento che ho ricordato prima:

informare in maniera completa, affinché gli allievi non vengano a trovarsi in situazioni ambigue.

2. GLI AMANTI DELLA VERITÀ Nell’antica Grecia, in cui la scienza non era ancora suddivisa in specializzazioni, gli scienziati erano

in primo luogo filosofi, ovvero, come dice la parola, “amanti della verità”. Erano i sapienti, coloro

che conoscevano le cose della natura e del mondo umano perché ne avevano compreso la causa, il

principio. Alle basi del razionalismo scientifico della civiltà occidentale si trova quindi

l’interrogazione filosofica. Talete, Anassimandro, Eraclito, Armenide, Pitagora, furono i primi

sapienti che indagarono la natura con osservazioni attente e misurazioni, introdussero la ricerca che

si contrapponeva all’osservazione superficiale della realtà e all’accettazione acritica del mito.

È grazie a loro che sono nate la matematica, la geometria, l’astronomia, la fisica, la biologia, la

medicina, perché furono i primi a mostrare una propria consapevolezza delle possibilità della

ragione umana e dell’esperienza e a produrre argomentazioni e procedimenti empirici. Con il

termine filosofia, Platone e Aristotele indicavano sia la scienza dell’essere, sia le scienze particolari,

come la geometria e la fisica. Con la nascita della scienza moderna il sapere filosofico e quello

scientifico hanno intrapreso strade differenti, aumentando nei secoli la loro separazione.

Nell’antichità non c’era distinzione tra matematica, fisica, biologia, geometria e tra le altre scienze

della matematica applicata, ma anche i problemi che iniziano ad arrivare alla matematica e quindi

alla scienza partono da necessità molto pratiche, ad esempio in India si costruivano degli altari

molto complicati, spesso con forma di uccello, e per qualche motivo gli indiani pensavano che ogni

tanti anni o in certe particolari occasioni, bisognasse propiziarsi gli dei raddoppiando il volume di

questi altari. Non è un problema facile, anzi è piuttosto complicato anche per la complessa forma

degli altari, inoltre bisogna calcolare il volume dell’altare di partenza e poi sapere cosa fare.

I Greci ci hanno lasciato delle testimonianze di problemi analoghi sia nel piano sia nello spazio. La

testimonianza più antica di problema matematico ci viene da un dialogo di Platone: “Il Menone”.

È un dialogo che ha a che fare con l’anamnesi, nel quale Platone cerca di convincerci che noi non

impariamo niente, ricordiamo soltanto cose che abbiamo dimenticato, e il protagonista di questo

dialogo è uno schiavo che ignaro viene “trascinato” sulla scena da Platone e lo si fa interrogare

cercando di estorcere delle conoscenze che evidentemente doveva avere, ma di cui non era

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cosciente. Il Menone ci pone il problema di raddoppiare un quadrato e lo schiavo, interrogato da

Platone, risponde che il modo più semplice è raddoppiare i lati. Quella però non è la risposta giusta

perché raddoppiando i lati, quadruplichiamo e non raddoppiamo il quadrato. La risposta giusta è

qualcosa maggiore rispetto al lato di partenza ma minore rispetto al doppio del lato. Attraverso una

conversazione con molte domande e altrettante risposte lo schiavo capisce che la risposta corretta è

la diagonale del quadrato: se noi costruiamo sulla medesima un quadrato che ha come lato la

diagonale, ci accorgiamo che il quadrato finale ha area doppia rispetto al quadrato di partenza.

Questo è un problema abbastanza semplice nel piano ma i Greci ci hanno lasciato un mito che ci

racconta di un problema analogo nello spazio. Si dice che ad un certo punto ad Atene scoppiò la

peste e Apollo aveva nel suo tempio a Delo un altare cubico e l’oracolo di questo dio disse, quando

fu interpellato, che il dio era irritato con gli ateniesi e voleva che il suo altare fosse raddoppiato. Si

racconta che si fece lo stesso errore dello schiavo de Il Menone, e l’altare, essendo tridimensionale,

divenne otto volte più grande, non soddisfacendo il desiderio di Apollo, così la peste non cessò.

Platone commentò quest’evento dicendo che forse il vero scopo del dio Apollo non era quello di

raddoppiare l’altare ma di insegnare la matematica agli ateniesi. Ed è proprio da questi problemi che

la matematica incomincia ad acquistare una certa maturità ed entra nella sua “adolescenza” anche

perché le soluzioni di questi problemi che abbiamo accennato, cioè il raddoppio del quadrato e il

raddoppio del cubo sono soluzioni complicate o irrazionali, quelle che noi oggi chiamiamo la radice

quadrata di due e la radice cubica di due, o soluzioni, come nel caso del cubo, che non si possono

costruire facilmente con gli strumenti che gli antichi greci avevano a disposizione e che

prediligevano riga e compasso.

3. PITAGORA DI SAMO Pitagora segna il momento di passaggio dalla matematica applicata alla matematica astratta, con

l’introduzione di dimostrazioni fondate sul metodo deduttivo a partire da assiomi esplicitamente

formulati. In realtà è impossibile distinguere i suoi lavori da quelli degli altri pitagorici, per cui con

questo nome non ci si riferisce soltanto a Pitagora, ma alla sua scuola.

Afferma Bertrand Russell:

Dal punto di vista intellettuale, Pitagora è uno degli uomini più notevoli che siano mai

esistiti, sia per la sua sapienza sia per altri aspetti. La matematica, intendendo come

tale le dimostrazioni e i ragionamenti deduttivi, comincia con Pitagora. Non conosco

altro uomo che abbia avuto altrettanta influenza nella sfera del pensiero.

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La figura storica di Pitagora si perde nella leggenda, le

numerose biografie, scritte molti secoli dopo la sua morte,

ritraggono un personaggio a metà strada tra l’umano e il divino,

mago e profeta, oltre che matematico e filosofo. Le

testimonianze più attendibili nel piano storico collocano la sua

nascita nella prima metà del sesto secolo a.C. a Samo, un’isola

greca del mar Egeo orientale. Nella giovinezza, pare sia stato

educato da eccellenti maestri, come Talete e Anassimandro di

Mileto, celebri filosofi del periodo presocratico, ma anche

Bianco di Priene e Ferecide di Siro.

Con Ferecide, Pitagora avrebbe viaggiato da un’isola all’altra

dell’Egeo, e visitato i grandi centri economici e intellettuali

della Grecia e dell’Asia Minore, continuando a spostarsi anche

dopo la morte del suo amico e grande maestro fino all’Egitto,

alle terre fenicie, alla Siria e a Babilonia.

• LA SCUOLA PITAGORICA

Si racconta così che in oriente Pitagora apprese i misteri della scienza, la geometria, i pesi e le

misure, l’astronomia e la matematica, ma il ricordo della figura di Pitagora è legato in modo

particolare alla Magna Grecia, a Crotone, dove intorno al 530 a.C., fonda la sua famosa

scuola, di tipo esoterico, in cui si ritrova la sua cerchia di adepti e s’impegnò direttamente

nell’attività politica della regione. Crotone si presentava adatta poiché era già una città dove si

era sviluppata una cultura scientifica-medica e dove Pitagora grazie al suo sapere, riuscì a

guadagnarsi i favori del popolo che governò per molto tempo.

La scuola va incontro a un triste destino, quando nella città scoppiano disordini politici;

Pitagora e i suoi seguaci, appartenenti alla fazione aristocratica, diventano oggetto di

persecuzione da parte della vittoriosa fazione democratica. Molti scolari vengono uccisi, e lo

stesso Pitagora deve fuggire e riparare a Metaponto, dove trasferisce la sua scuola. Si dice che

Pitagora abbia trovato la morte a Metaponto, dopo quaranta giorni di digiuno nel tempio; ma

le versioni della sua morte, come quelle della sua vita, sono molteplici e fantasiose. Con la sua

scomparsa si estingue la sua scuola, a cui il maestro non ha lasciato nemmeno uno scritto che

contenesse il suo pensiero.

I suoi seguaci crearono in seguito nuove comunità, nel nome del maestro, venerato come un

dio. Le più celebri furono quella di Tebe, fondata da Filolao, e quella di Taranto, fondata da

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Archita. La vita di Pitagora, del quale non è rimasto alcuno scritto, diventò ben presto

leggenda e non è possibile avere notizie certe su di lui.

L’originalità della scuola consisteva nel presentarsi come setta mistico-religiosa, comunità

scientifica ed insieme partito politico aristocratico che sotto questa veste governò direttamente

in alcune città dell’Italia meridionale.

La coincidenza dei tre diversi aspetti della scuola pitagorica si spiega con il fatto che l’aspetto

mistico nasceva dalla convinzione che la scienza libera dall’errore che era considerato una

colpa e quindi, attraverso il sapere, ci si liberava dal peccato dell’ignoranza, ci si purificava e

ci si avvicinava a Dio, l’unico che possiede tutta intera la verità: infatti l’uomo è “filosofo”,

da φιλείν (amare) e σοφία (sapienza), può solo amare il sapere, desiderarlo, ma mai possederlo

del tutto.

Infine, la partecipazione alla scuola, riservata a spiriti eletti, implicava che gli iniziati che la

frequentavano avessero disponibilità di tempo e denaro per trascurare ogni attività

remunerativa e dedicarsi interamente a complessi studi: da qui il carattere aristocratico del

potere politico che i pitagorici ebbero fino a quando non furono sostituiti dai regimi

democratici.

La scuola, che poteva essere frequentata anche dalle donne, offriva due tipi di lezione: una

pubblica e una privata. Durante quella pubblica, seguita dalla gente comune, il maestro

spiegava nel modo più semplice possibile, così che fosse comprensibile a tutti, la base della

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sua filosofia basata sui numeri. Quella privata era invece di più alto livello e veniva seguita

prevalentemente da eletti iniziati agli studi matematici.

Pitagora, infatti, aveva diviso i suoi discepoli, in due gruppi:

• I matematici (mathematikoi), cioè la cerchia più stretta dei seguaci, i quali vivevano

all’interno della scuola, si erano spogliati di ogni bene materiale, non mangiavano carne

ed erano obbligati al celibato. I “matematici” erano gli unici ammessi direttamente alle

lezioni di Pitagora con cui potevano interloquire. A loro era imposto l’obbligo del

segreto, in modo che gli insegnamenti impartiti all’interno della scuola non diventassero

di pubblico dominio;

• Gli acusmatici (akusmatikoi), ovvero la cerchia più esterna dei seguaci, ai quali non era

richiesto di vivere in comune, o di privarsi delle proprietà e di essere vegetariani, avevano

l’obbligo di seguire in silenzio le lezioni del maestro.

Il carattere religioso dogmatico dell’insegnamento è confermato dal fatto che la parola del

maestro non poteva essere messa in discussione, a chi obiettava, si rispondeva: «autòs epha»

(l’ipse dixit latino), e quindi era una verità indiscutibile.

Nelle sue lezioni, che si tenevano nella “Casa delle Muse”, un imponente tempio all’interno

delle mura cittadine, in marmo bianco, circondato da giardini e portici, Pitagora affermava

spesso il concetto che la medicina fosse salute e armonia, invece la malattia disarmonia,

quindi, l’obiettivo principale della medicina pitagorica era di ristabilire l’armonia tra il

proprio corpo e l’universo.

Poiché i pitagorici erano sostenitori dell’immortalità dell’anima e della metempsicosi,

ritenevano che per mantenerla pura e incontaminata occorresse svolgere delle pratiche

ascetiche, sia spirituali sia fisiche, tra queste, solitarie passeggiate mattutine e serali, cura del

corpo ed esercizi quali corsa, lotta, ginnastica, diete costituite da cibi semplici e che abolivano

anche l’assunzione di vino.

Inoltre, imponeva ai discepoli una serie di regole e precetti dal valore simbolico e rituale,

come la proibizione di mangiare fave, di spezzare il pane, di toccare galli bianchi, di attizzare

il fuoco con il ferro o di accogliere rondini sotto il proprio tetto. È celeberrima l’idiosincrasia

di Pitagora e della sua Scuola per le fave: non solo si guardavano bene dal mangiarne, ma

evitavano accuratamente ogni tipo di contatto con questa pianta. Secondo la leggenda,

Pitagora stesso, in fuga dagli scherani di Cilone di Crotone, preferì farsi raggiungere e

uccidere piuttosto che mettersi in salvo attraverso un campo di fave.

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• LA MUSICA

Tra le pratiche per la purificazione del corpo e dell’anima, i pitagorici privilegiavano la

musica che li portò a scoprire il rapporto numerico alla base dell’altezza dei suoni, ce lo

racconta Giamblico nella sua “Vita di Pitagora” in cui scrive che Pitagora, trasferitosi a

Crotone, mentre passeggiava per le vie insieme ai sui studenti, si trovò a passare accanto alle

botteghe di un fabbro ferraio, dalle finestre di

queste botteghe uscivano dei suoni, erano i suoni

dei martelli che battevano sulle incudini. Pitagora,

udendo questi suoni si accorse che alcuni di essi

andavano bene insieme, sono quelli che oggi noi

chiameremmo consonanti; altri di questi suoni,

invece, stridevano tra loro e sono quelli che oggi

noi chiameremmo dissonanti.

Pitagora volle capire come mai alcuni di questi suoni andavano bene insieme e altri no, per

cui, entrò nella bottega del fabbro e fece alcuni esperimenti. Anzitutto prese due martelli che

avevano lo stesso peso, li batté sull’incudine e, ovviamente, produssero lo stesso suono; ma,

quando al posto dei due martelli uguali, Pitagora prese un martello che era doppio dell’altro e

li batté sull’incudine, si accorse che i suoni prodotti da questi due martelli erano sempre gli

stessi, cioè producevano la stessa nota, però a due altezze diverse, in particolare, a una

distanza che oggi i musicisti chiamano di un’ottava, ad esempio, due “Do” consecutivi su un

pianoforte. Pitagora trovò quest’osservazione molto interessante e continuò con i suoi

esperimenti, questa volta prese due martelli uno dei quali era una volta e mezzo l’altro, quindi

i rapporti dei pesi erano di tre a due, li batté sull’incudine e questa volta furono prodotti due

suoni differenti, ma l’intervallo tra i due suoni era ben riconoscibile ed è quello che oggi i

musicisti chiamano un intervallo di quinta, cioè la distanza che c’è tra un “Do” e un “Sol”

consecutivi su un pianoforte. Pitagora capì che non poteva trattarsi di una semplice

coincidenza, per cui volle continuare gli esperimenti. I numeri utilizzati finora erano l’uno, il

due e il tre: i primi due martelli erano uguali, per cui il loro rapporto era di uno a uno; il

secondo era il doppio del primo, quindi in un rapporto di due a uno; la terza coppia di martelli

era in un rapporto di tre a due, cioè, uno era una volta e mezza l’altro. Allora, il prossimo

numero ovvio da usare era il quattro, per cui Pitagora prese due martelli i cui pesi erano in un

rapporto di quattro a tre, li batté sull’incudine e di nuovo ottenne due note differenti, ma con

un intervallo ben riconoscibile, che oggi si chiama intervallo di quarta, cioè la distanza che c’è

tra un “Do” e un “Fa” consecutivi su un pianoforte.

PROF.GIUSEPPE ROCCO – IL TEOREMA DI PITAGORA 12

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Ed ecco che a questo punto si comincia a delineare nella mente di Pitagora un’idea, l’idea che

da una parte abbiamo il mondo fisico, il mondo della natura, il mondo dei martelli, dei pesi

delle incudini e dall’altra parte c’è un mondo completamente diverso, il mondo delle arti, il

mondo della musica. Ricordiamoci che, per gli antichi greci, la musica occupava un ruolo di

grande rilievo nella vita sociale e religiosa, la musica era un’arte che comprendeva, oltre alla

musica stessa, anche la poesia, la danza, la medicina e le pratiche magiche.

Questi due mondi così diversi, quello oggettivo della natura che sta al di fuori di noi e quello

soggettivo, dell’umanesimo, che sta dentro di noi, erano messi in comunicazione da un ponte

e questo ponte era la matematica.

È probabile che proprio da queste esperienze musicali nascesse nei pitagorici l’interesse per

l’aritmetica concepita come una teoria dei numeri interi che essi ritenevano non un’entità

astratta, bensì concreta; i numeri erano visti come grandezze spaziali, aventi una stessa

estensione e forma ed erano infatti rappresentati geometricamente e spazialmente (l’uno era il

punto, il due la linea, il tre la superficie, il quattro il solido).

• LA TETRAKTIS

Pitagora formulò l’importante teoria della Tetraktis.

Etimologicamente il termine significherebbe “numero

triangolare”. Per i Pitagorici la Tetraktis consisteva in

una disposizione geometrica che esprimeva un numero o

un numero espresso da una disposizione geometrica.

Essa era rappresentata come un triangolo alla cui base vi

erano quattro punti che decrescevano fino alla punta; la

somma di tutti i punti era dieci, il numero perfetto

composto dalla somma dei primi quattro numeri (1+2+3+4=10), che combinati tra loro

definivano le quattro specie di enti geometrici: il punto, la linea, la superficie, il solido.

La Tetraktis aveva un carattere sacro e i pitagorici giuravano su di essa. Era inoltre il modello

teorico della loro visione dell’universo, cioè un mondo non dominato dal caos delle forze

oscure, ma da numeri, armonia, rapporti numerici.

Questa matematica pitagorica che è stata definita un’”aritmogeometria” agevolò la

concezione del numero come archè, principio primo di tutte le cose.

Fino allora, i filosofi naturalisti avevano identificato la sostanza attribuendogli delle qualità;

queste però, dipendendo dalla sensibilità, erano mutevoli e mettevano in discussione la

caratteristica essenziale della sostanza: la sua immutabilità.

PROF.GIUSEPPE ROCCO – IL TEOREMA DI PITAGORA 13

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I pitagorici ritenevano di superare questa difficoltà evidenziando che se è vero che i principi

originari mutano qualitativamente essi però conservano la quantità che è misurabile e quindi

traducibile in numeri, vero ultimo fondamento della realtà. E per i pitagorici i numeri erano

soltanto i numeri interi e questi erano il principio di tutte le cose.

Affermava Filolao: Tutte le cose che si conoscono hanno numero; senza questo nulla sarebbe

possibile pensare né conoscere.

Essi applicarono la loro dottrina, fondata sui numeri, alla ricerca scientifica, suddivisa in

quattro parti essenziali: aritmetica, musica, geometria e astronomia. L’idea di una realtà

fondata sulle interazioni fra gli opposti, li portò a individuare dieci opposizioni fondamentali,

conosciute come opposti pitagorici: bene e male; limite e illimite; dispari e pari; rettangolo e

quadrangolo; retta e curva; luce e tenebre; maschio e femmina; uno e molteplice; movimento

e stasi; destra e sinistra.

Queste opposizioni che riflettevano un assetto dualistico della realtà, erano applicate alle loro

speculazioni sui numeri e questi assumevano un valore simbolico, oltre la matematica, magico

e religioso.

L’unità non era considerata propriamente un numero, 1 non era per i pitagorici né pari né

dispari, e questa sua ambivalenza rifletteva la concezione dualistica dell’universo, che era

rappresentato proprio dal numero 1.

Per i pitagorici il numero 4 era il simbolo della giustizia, essendo il primo numero uguale al

prodotto di due numeri uguali, 2 x 2, e anche la giustizia doveva cercare di restituire “l’uguale

all’uguale”. Il numero 5 rappresentava il matrimonio, perché somma del primo numero pari

(femminile), il 2, con il primo numero dispari (maschile), il 3. E così via, ogni numero con un

significato trascendentale, ma il numero più importante per i pitagorici era il 10, il numero che

rappresentava per loro l’Universo.

Dice Filolao: Il 10 è responsabile di tutte le cose, fondamento e guida sia della vita divina e

celeste, sia di quella umana.

Un’altra figura sacra ai pitagorici era il pentagramma, la

stella a cinque punte racchiusa nel cerchio divino, segno di

riconoscimento fra gli adepti. Con questo intreccio di teoria e

di magia dei numeri, di simboli esoterici, di setta religiosa e

di comunità scientifica, la figura di Pitagora può essere vista

come filosofo e matematico, ma anche come profeta e mago

e la sua comunità come scuola, ma anche come setta segreta.

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Sono i due aspetti di Pitagora - scrive Bertrand Russell - il profeta religioso e il matematico

puro. Da entrambi i punti di vista ebbe una incommensurabile influenza, e i due aspetti non si

possono separare come potrebbe credere una mente moderna.

L’influenza esercitata dai pitagorici fu fondamentale per lo sviluppo della filosofia greca

classica e del pensiero medioevale europeo. Nel Rinascimento alcune idee dei pitagorici,

come la Tetraktis o le proporzioni armoniche furono applicate anche in campo artistico.

• LA TEORIA ENCEFALOCENTRICA

I pitagorici rivoluzionarono anche la concezione dell’anatomia umana. Introdussero, con

Alcmeone di Crotone, la Teoria encefalocentrica che indicava il cervello come organo

centrale delle sensazioni, infatti, furono i primi a dare importanza a questo organo poiché

prima, già con gli egizi, era diffusa l’idea che attribuiva tutte le funzioni vitali al cuore. Inoltre

affermarono che tutte le parti del corpo fossero unite da una sovrannaturale armonia, la quale

componeva l’anima.

• L’ASTRONOMIA

In astronomia i pitagorici ritenevano che esistesse un grande fuoco centrale attorno al quale

ruotavano dieci corpi:

1. Terra

2. Antiterra (per noi invisibile)

3. Luna

4. Sole

5. Pianeta

6. Pianeta

7. Pianeta

8. Pianeta

9. Pianeta

10. Cielo delle stelle fisse

L’idea dell’esistenza dell’Anti-Terra probabilmente nasceva con la necessità di spiegare le

eclissi ed anche, come sostiene Aristotele, per far arrivare a dieci, il numero sacro, segno della

Tetraktis, dell’armonia universale, i pianeti ruotanti intorno al fuoco centrale.

A quel tempo erano solo

cinque i pianeti conosciuti.

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• KEPLERO

Giovanni Keplero (1571 – 1630) astronomo, matematico

e musicista tedesco, per la sua teoria eliocentrica si

rifece, e ne diede testimonianza, alla teoria cosmologica

dei pitagorici che per primi concepirono l’universo come

un cosmo, un insieme razionalmente ordinato che

rispondeva anche a esigenze mistiche religiose.

Le leggi della struttura del cosmo sono ricavate

circoscrivendo ed inscrivendo le orbite dei pianeti nelle

varie figure solide, a partire dalla Terra che è l’unità di

misura di tutte le orbite. I pianeti compiono movimenti

armonici secondo precisi rapporti matematici e dunque

generano un suono sublime e raffinato.

L’uomo sente queste armonie celestiali, ma non riesce a percepirle chiaramente, poiché

immerso in esse fin dalla nascita. Anche l’anima umana è immortale, poiché della stessa

natura del Sole, della Luna e degli astri e, come questi si genera dall’armonia musicale di

quegli elementi opposti di cui parlerà Simmia. L’anima immortale dell’uomo, attraverso

successive reincarnazioni, si ricongiungerà all’anima del mondo, alla divinità ma per questo

fine il pitagorico dovrà esercitarsi alla contemplazione misterica, derivata dall’orfismo, basata

sulla sublime armonia del numero. La vita contemplativa (bìos theoretikòs) per la prima volta

assumeva nel mondo greco un’importanza primaria.

4. LA CRISI DELLA SCUOLA PITAGORICA Il teorema di Pitagora portò i pitagorici alla scoperta degli incommensurabili. Tale scoperta, tenuta

segreta, causò la crisi di tutte quelle credenze basate sull’aritmogeometria, sulla convinzione che la

geometria trattasse di grandezze discontinue come l’aritmetica.

La leggenda narra che Ippaso di Metaponto avesse rivelato

questa segreta difficoltà, confermata dal fatto che

l’aritmogeometria non riusciva a risolvere i paradossi

del continuo e dell’infinito che erano alla base delle

argomentazioni di Zenone di Elea: la matematica e la

geometria si divisero e divennero autonome.

PROF.GIUSEPPE ROCCO – IL TEOREMA DI PITAGORA 16

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5. GLI INCOMMENSURABILI Se in un quadrato si applica il teorema al triangolo rettangolo isoscele, formato dai suoi lati e dalla

diagonale, si scopre che la diagonale del quadrato e il suo lato sono incommensurabili, ossia che

diagonale e lato non hanno alcun sottomultiplo comune. Prendiamo il quadrato più semplice con lato unitario e diagonale d.

Risulta

d² = l² + l² = 1² + 1² = 2

e quindi

d = √2

e questo √2 per i greci era qualcosa di sconcertante e di incomprensibile.

Non era un numero intero, ma non era neanche una frazione o il rapporto di due numeri interi. In

generale tra diagonale e lato di un quadrato, come tra diagonale e lato di un pentagono o di un cubo,

non esiste un’unità di misura comune: sono incommensurabili.

Nel quadrato di lato unitario, 1 rappresenta la lunghezza del lato ed è, sulla retta numerica, la

distanza dall’origine. La diagonale è lunga √2, ma è anche la distanza dall’origine, un numero che

per i pitagorici non aveva diritto di esistere. Per loro, non trovava posto sulla retta numerica dove

c’erano soltanto numeri interi e frazioni. Ma in questo modo scoprirono che la retta... era in realtà

piena di buchi, molti inspiegabili buchi, fra un numero e l’altro.

Questa scoperta mise in crisi la loro stessa concezione dell’Universo dove, dicevano, “tutto è

numero”, cioè tutto si poteva esprimere tramite numeri interi o loro rapporti. L’esistenza di

grandezze incommensurabili e conseguentemente dei nuovi numeri che si era obbligati a introdurre,

gli irrazionali, era in contraddizione non solo con le convinzioni filosofiche dei pitagorici, ma

metteva anche in crisi il concetto stesso di infinito della filosofia greca.

0 2 √2

1 √2

1

PROF.GIUSEPPE ROCCO – IL TEOREMA DI PITAGORA 17

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I pitagorici, come conseguenza della loro scoperta, dovettero ammettere che un segmento e in

generale una figura geometrica era costituita da infiniti punti di dimensione nulla, contrariamente a

quanto ritenevano, cioè che i punti avessero una dimensione, fossero molto piccoli e tutti uguali, ma

non nulli. Nel caso in cui un segmento fosse costituito da un numero finito di punti, ne risulterebbe,

ad esempio, che il lato del quadrato conterrebbe un numero intero di punti e corrisponderebbe

quindi ad a volte la dimensione di un punto.

La diagonale, a sua volta, sarebbe b volte la dimensione del punto. Il lato e la diagonale avrebbero

quindi un sottomultiplo comune, il punto, e non sarebbero più incommensurabili, come invece era

risultato evidente. È proprio la loro incommensurabilità a richiedere che un segmento sia costituito

da un numero infinito di punti.

I greci pensarono di riuscire a superare queste difficoltà passando a un ragionamento geometrico

indipendente dall’aritmetica e “interpretando la geometria come studio del continuo - osserva

Geymonat nella sua Storia del pensiero filosofico e scientifico - e l’aritmetica come studio del

discontinuo”.

Secondo la leggenda, fu proibito ai membri della setta di rivelare ad altri queste scoperte. Il

“traditore” fu il pitagorico Ippaso di Metaponto che divulgò il segreto, un discepolo che mal

tollerava l’autorità di Pitagora e che si schierò a capo degli acusmatici, con i ribelli, quando questi

cacciarono i pitagorici da Crotone.

Per il suo tradimento, Ippaso venne messo al bando dai pitagorici che, si racconta, gli innalzarono

un monumento funebre, perché fosse chiaro che per loro era morto. Si narra anche, ma è sempre

leggenda, che lo stesso Giove, adirato contro di lui, lo fece perire in un naufragio.

Il filosofo greco Proclo (412 - 485 d. C.) scrive a questo proposito:

”I pitagorici narrano che il primo divulgatore

di questa teoria fu vittima di un naufragio; e

parimenti si riferivano alla credenza secondo

la quale tutto ciò che è irrazionale,

completamente inesprimibile e informe, ama

rimanere nascosto; e se qualche anima si

rivolge ad un tale aspetto della vita,

rendendolo accessibile e manifesto, viene

trasportata nel mare delle origini, ed ivi

flagellata dalle onde senza pace”.

PROF.GIUSEPPE ROCCO – IL TEOREMA DI PITAGORA 18

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• DIMOSTRAZIONE PER ASSURDO DEGLI INCOMMENSURABILI

Non sappiamo se sia stato Pitagora stesso o, com’è più probabile, i pitagorici a scoprire, più

tardi, gli incommensurabili e Aristotele accenna a una loro dimostrazione consistente nel

provare che nel caso in cui diagonale e lato di un quadrato fossero stati commensurabili allora

uno stesso numero avrebbe dovuto essere pari e dispari.

Vediamo questa dimostrazione.

Siano d e l rispettivamente la diagonale e il lato di un

quadrato, per il teorema di Pitagora, abbiamo:

𝑑𝑑2 = 𝑙𝑙2 + 𝑙𝑙2 da cui ricaviamo

�𝑑𝑑𝑙𝑙�2

= 2

Ammettiamo ora che d e l siano commensurabili ossia che il

rapporto 𝑑𝑑𝑙𝑙 sia razionale e si possa ridurre a 𝑝𝑝

𝑞𝑞 dove p e q

sono numeri interi senza fattori comuni.

Abbiamo

�𝑑𝑑𝑙𝑙�2

= �𝑝𝑝𝑞𝑞�

2=𝑝𝑝2

𝑞𝑞2= 2

da cui ricaviamo

𝑝𝑝2 = 2𝑞𝑞2 di conseguenza p² ed anche p devono essere pari.

Ma se p e q, come abbiamo detto, non possono avere fattori comuni allora q deve

essere dispari.

Proviamo ora a sostituire a p, che abbiamo provato essere pari, 2r e operiamo la

sostituzione nell’equazione 𝑝𝑝2 = 2𝑞𝑞2 .

Otteniamo

4𝑟𝑟2 = 2𝑞𝑞2 da cui ricaviamo

𝑞𝑞2 = 2𝑟𝑟2 di conseguenza q² ed anche q devono essere pari, contrariamente a quanto avevamo

stabilito in precedenza.

Ma un numero non può essere contemporaneamente pari e dispari e quindi la nostra

ipotesi che d e l fossero commensurabili è falsa.

l

d

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6. IL “TEOREMA DI PITAGORA” NON È DI PITAGORA Si racconta, ma è leggenda, che Pitagora abbia scoperto il suo teorema

mentre stava aspettando di essere ricevuto da Policrate. Seduto in un

grande salone del palazzo del tiranno di Samo, Pitagora si mise ad

osservare le piastrelle quadrate del pavimento. Se avesse tagliato in due

una piastrella lungo una diagonale, avrebbe ottenuto due triangoli

rettangoli uguali. Inoltre l’area del quadrato costruito sulla diagonale di

uno dei due triangoli rettangoli risultava il doppio dell’area di una piastrella. Questo quadrato

risultava infatti composto da quattro mezze piastrelle, cioè da due piastrelle. Ma i quadrati costruiti

sugli altri lati del triangolo corrispondevano ognuno all’area di una piastrella.

In altre parole il quadrato costruito sull’ipotenusa è equivalente alla somma dei quadrati costruiti sui

due cateti. Questo risultava evidente nel caso della piastrella quadrata, cioè di un triangolo

rettangolo isoscele: ma poteva essere vero, si chiese Pitagora, anche nel caso generale, con cateti di

lunghezza diversa?

Studiando meglio la figura ottenuta dall’osservazione delle piastrelle,

Pitagora si accorse che il quadrato formato da quattro piastrelle si poteva

scomporre in quattro triangoli rettangoli equivalenti e in un quadrato il cui

lato era uguale alla lunghezza dell’ipotenusa di uno dei triangoli. Non fu

quindi difficile passare al caso generale di quattro triangoli rettangoli

qualsiasi, non più isosceli per i quali, come vedremo, vale ancora il

teorema.

In realtà la storia del teorema è molto più complessa e le sue origini, come ho già detto, risalgono

almeno a un migliaio di anni prima che Pitagora si dedicasse allo studio dei triangoli rettangoli.

• DINASTIA HAMMURABI (BABILONIA)

Su una tavoletta d’argilla, ritrovata tra le rovine di una città della Mesopotamia e risalente al

periodo paleo-babilonese della dinastia Hammurabi (1900 - 1600 a. C.), è disegnato un

quadrato e le sue diagonali. Su un lato è riportato il numero 30 e su una diagonale i numeri

1,414213... e 42,42639..., tutti numeri espressi nel sistema sessagesimale, quello usato dai

Babilonesi. Il primo dei due numeri, sulla diagonale, è un valore approssimato, ma già molto

preciso, della radice di 2, l’altro è la diagonale del quadrato, cioè il prodotto di 30 per questo

numero. Un calcolo che prevede la conoscenza del teorema di Pitagora.

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Questa tavoletta, che oggi è conservata negli

Stati Uniti, all’Università di Yale, all’apparenza

un ciottolo largo appena una decina di

centimetri, storicamente è importantissima.

George Gheverghese, lo storico indiano della

matematica, la definisce “un capolavoro

babilonese” ed è riportata in tutti i testi di storia

della matematica, come prova del fatto che il

teorema di Pitagora era già noto almeno mille

anni prima di Pitagora.

Se ne trovano tracce in molti altri documenti non solo babilonesi, ma di altre civiltà, ad

esempio dell’antica Cina, ben prima della nascita di Pitagora.

Vale a dire che il teorema di Pitagora ... non è di Pitagora!

• DINASTIA SHANG (CINA)

In uno dei più antichi testi cinesi di matematica Chou Pei Suan Ching (Il libro classico dello

gnomone e delle orbite circolari del cielo), scritto al tempo della dinastia Shang, si trova una

figura che potrebbe essere una prova del teorema di Pitagora, chiamato dai cinesi kou ku.

In questa figura si vede, infatti, un triangolo rettangolo

di lati 3, 4 e 5 e un quadrato grande di lato 7.

Anche nel Chiu Chang Suan Shu (Nove capitoli sulle

Arti Matematiche), si trova una curiosa dimostrazione

del famoso Teorema. Il Chiu Chang comprende in totale

246 problemi articolati in nove capitoli. Nel capitolo 9,

intitolato Kou Ku (Angoli retti), vengono proposti

ventiquattro problemi sui triangoli rettangoli.

L’algoritmo con cui inizia il capitolo è l’equivalente del

“Teorema di Pitagora” già presente comunque nel testo

più antico, il Chou Pei. La relazione pitagorica non è

mai vista in forma di teorema.

Se noi siamo portati a privilegiare e a mettere in primo piano la civiltà greca, è soltanto perché

questa è alle radici del pensiero occidentale.

PROF.GIUSEPPE ROCCO – IL TEOREMA DI PITAGORA 21

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In generale possiamo dire che è molto difficile risalire all’origine delle idee matematiche,

queste non sono patrimonio di un’unica civiltà e tantomeno di un solo uomo. Per fortuna, a

nessuno è venuto in mente di brevettare un teorema, come accade invece regolarmente per

metodi e procedimenti che industrie chimiche, informatiche e di tanti altri settori, le idee della

matematica appartengono a tutta l’umanità, nascono sovente nello stesso periodo, in ambienti

diversi, e si precisano e si arricchiscono con il contributo di più persone, a dimostrazione del

fatto che la matematica è la vera scienza universale e sicuramente la più democratica.

Ne abbiamo una prova proprio con il teorema di Pitagora: furono i pitagorici ad attribuirlo a

Pitagora, obbedendo alle loro regole, secondo le quali si doveva attribuire al maestro ogni

scoperta, e questo anche dopo la sua morte, perché era sempre lui a ispirare e guidare

qualsiasi lavoro.

Il suo merito o più probabilmente di qualcuno dei suoi discepoli, è stato quello di averne dato

una dimostrazione rigorosa e più in generale di aver avviato un’analisi approfondita dei

principi sui quali si fonda il pensiero matematico.

7. IL TEOREMA DI PITAGORA NELL’ANTICHITÀ Il teorema di Pitagora era noto un tempo come “il ponte degli asini”, il ponte che riusciva a superare

soltanto chi dimostrava di possedere sufficienti attitudini per il pensiero astratto e per un metodo

deduttivo da applicare a procedimenti matematici quali erano quelli proposti dai pitagorici.

Ecco come Einstein ricorda il suo primo incontro con il teorema: Avevo

12 anni quando un mio vecchio zio mi enunciò il teorema di Pitagora e

dopo molti sforzi riuscii a dimostrarlo. È stata un’esperienza

meravigliosa scoprire come l’uomo sia in grado di raggiungere un tale

livello di certezza e di chiarezza nel puro pensiero. E sono stati i Greci

per primi ad indicarcene la possibilità, con la geometria.

• IN CINA

Abbiamo già ricordato che il teorema di Pitagora era conosciuto in Cina col nome di kou ku

prima che lo stesso Pitagora nascesse, anche se la relazione pitagorica non è mai vista in

forma di teorema. Sempre in Cina, Liu Hui, un grande matematico del terzo secolo d.C., diede

una dimostrazione del teorema “di Pitagora” che è stata ricostruita da alcuni matematici

moderni seguendo le indicazioni che è stato possibile recuperare.

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Dice Liu Hui: Siano il quadrato su kou [il cateto a] rosso

e il quadrato su ku [il cateto b] blu. Usate il principio

della mutua sottrazione e addizione di specie simili per

inserire i resti, in modo che non ci sia alcun cambiamento

nell’area con l’aspetto di un quadrato sull’ipotenusa.

Le dimostrazioni riportate sono graficamente molto belle e non hanno bisogno di spiegazioni.

Risultano infatti evidenti le parti equivalenti in cui sono state scomposte le figure.

• IN INDIA

Anche dall’India arriva un enunciato del teorema di Pitagora che ci autorizza a pensare come

il teorema fosse già noto agli indiani in epoche precedenti alla nascita di Pitagora.

Si legge, infatti, nei Sulbasutra, i testi che contenevano le istruzioni per la costruzione degli

altari, riportati in forma scritta fra l’800 e il 600 a. C.: La fune tesa per la lunghezza della

diagonale di un rettangolo forma un’area pari alla somma di quella formata dal lato

verticale e da quello orizzontale.

Si parla ancora di funi e di problemi pratici, ma la strada è aperta verso la matematica astratta.

• IN ARABIA

Dall’Arabia arriva invece la dimostrazione di Abū l Hasan

Thābit ibn Qurra’ ibn Marwān al-Sābi’ al-Harrānī (826 -

901), anche noto in latino come Thebit. Famoso per i suoi

lavori di meccanica, astronomia, matematica pura e

geometria; propose teorie che portarono allo sviluppo della

geometria non-euclidea, della trigonometria sferica, del

calcolo integrale e dei numeri reali.

La copia più antica degli Elementi di Euclide risale al IX

secolo, e Thābit ibn Qurra ne fece una nuova traduzione

qualche decennio più tardi.

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Mentre Euclide aveva lasciato del tutto da parte i numeri amicabili, Thābit ibn Qurra,

stabilendo le condizioni che consentono d’individuare le coppie di numeri amicabili, diede la

dimostrazione di quello che sarebbe divenuto il grande teorema sull’argomento.

I greci conoscevano una sola coppia di numeri amicabili e cioè il 220 e il 284; i matematici

arabi, dal canto loro, ne scopriranno altre, tra cui 17296 e 18416 (nota col nome di coppia di

Fermat che l’ha riscoperta parecchi secoli più tardi), e la coppia 9363584, 9437056

(conosciuta sotto il nome di coppia di Cartesio, perché Cartesio l’ha riscoperta alcuni secoli

dopo). Secondo Copernico Thābit determinò la lunghezza dell’anno sidereo in 365 giorni, 6

ore, 9 minuti e 12 secondi, sbagliando di appena tre secondi.

Vediamo la dimostrazione:

I triangoli ABC, CEH, CEM, BGD, EGL, AFL sono tutti equivalenti.

Inoltre osserviamo che il poligono ABDEF può essere scomposto in due modi diversi:

ABDEF = AC2 + BC2 + ∆ABC + ∆CEH + ∆CEM

e

ABDEF = AB2 + ∆BGD + ∆EGL + ∆AFL

Dall’uguaglianza delle due relazioni e da quella dei triangoli indicati, ricaviamo:

AB2 = AC2 + BC2

M

E

D

C

A B

F

H L G

PROF.GIUSEPPE ROCCO – IL TEOREMA DI PITAGORA 24

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• IN EGITTO

Pappo di Alessandria, nel quinto secolo d.C. propose una costruzione che è una

generalizzazione del teorema di Pitagora, valida anche nel caso in cui il triangolo non sia

rettangolo.

Dato un triangolo qualsiasi

ABC, costruiamo sui suoi cateti

i parallelogrammi BDEC e

ACFG. Inoltre prendiamo il

segmento IL uguale a HC e

costruiamo il parallelogramma

ABNM con i lati AM e BN

paralleli e uguali a IL. Poiché

due parallelogrammi con la

stessa base e la stessa altezza

sono equivalenti, abbiamo che

BDEC è equivalente a BPHC e

che quest’ultimo è equivalente

a BILN. Quindi BDEC è equivalente a BILN. In modo analogo si dimostra che ACFG è

equivalente a AMLI. La somma di BDEC e ACFG è dunque equivalente a AMNB.

A questo punto possiamo rivedere, con l’aiuto di uno schema, il

collegamento tra il teorema di Pitagora e la famosa tavoletta babilonese

di cui parlavo all’inizio.

Il primo numero sulla diagonale è 1;24,51,10, dove il punto e virgola

separa la parte intera dalla parte decimale ed è in notazione

sessagesimale. Lo stesso numero nel sistema decimale è:

1 +2460

+51602

+10603

= 1,414213 …

che è un valore approssimato della radice di 2.

A B

C

D

E F

G

I

L

H

N M

P O

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8. DIMOSTRAZIONE DI EUCLIDE Per i matematici, la dimostrazione per eccellenza del teorema di Pitagora è sicuramente quella di

Euclide, riportata nel primo libro degli Elementi, proposizione 47:

Nei triangoli retti il quadrato del lato che sottende l’angolo retto è uguale alla somma

dei quadrati dei lati che contengono l’angolo retto.

Se lo riscriviamo in termini più moderni, abbiamo l’enunciato riportato generalmente nei testi

scolastici:

In ogni triangolo rettangolo l’area del quadrato costruito sull’ipotenusa è equivalente

alla somma alla somma delle aree dei quadrati costruiti sui due cateti.

Se c indica la lunghezza dell’ipotenusa e a e b quelle dei due cateti si può scrivere il teorema in

forma algebrica:

a2 + b2 = c2

Questa dimostrazione fa riferimento a una figura che è stata battezzata, per la sua forma particolare,

mulino a vento, coda di pavone o sedia della sposa. Vediamola nei termini usuali per uno studente,

come la ritrova sul suo libro di geometria, nel capitolo dedicato ai teoremi di Euclide.

Dato il triangolo rettangolo ABC, costruiamo i quadrati sui suoi lati e tracciamo CL

parallelo ad AD.

I triangoli FAB e CAD sono uguali per il primo criterio di uguaglianza. Hanno, infatti,

AB = AD perché lati dello stesso quadrato ABDE, inoltre AF = AC, perché lati dello

stesso quadrato ACGF e gli angoli FAB e CAD sono uguali perché somma di un angolo

retto e di un angolo in comune, l’angolo CAB.

Quindi: ∆FAB = ∆CAD

e 2∆FAB = 2∆CAD

Inoltre i triangoli CAD e AMD hanno la stessa base AD e la stessa altezza AM, e sono

quindi equivalenti: ∆CAD = ∆AMD

e 2∆CAD = 2∆AMD = ADLM

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D’altra parte i triangoli FAB e FAC hanno anch’essi la stessa base AF e la stessa

altezza AC, quindi sono equivalenti:

∆FAB = ∆FAC

e 2∆FAC = ACGF

Il rettangolo ADLM è perciò equivalente al quadrato ACGF.

A B

C

D E

F

G

K

H

a

b

c

L

M

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Allo stesso modo dimostriamo che il quadrato BKHC è equivalente al doppio del

triangolo ABK e quest’ultimo a sua volta è equivalente al doppio del triangolo BCE,

cioè al rettangolo BMLE:

BKHC = 2∆ABK = 2∆BCE = BMLE

Se sommiamo le due equivalenze abbiamo:

ACGF + BKHC = a2 + b2 = ADLM = c2

Abbiamo così dimostrato che a2 + b2 = c2

La dimostrazione di Euclide, oltre a far disperare ancora oggi tanti studenti, fece arrabbiare anche il

celebre filosofo Arthur Schopenahuer, il quale accusò il grande matematico greco di aver costruito

una figura che porta a una interminabile catena di passaggi e che sembra chiudersi su di noi come

una “trappola per topi”. Schopenahuer presentò anche una sua dimostrazione, magnificandone, con

la presunzione che lo contraddistingueva, la chiarezza e la semplicità. In realtà si tratta di una

dimostrazione senza alcun valore, riguardante soltanto il caso particolare del triangolo rettangolo

isoscele. Proprio quello che era stato il punto di partenza per Pitagora, lo studio delle piastrelle del

palazzo di Policrate, ma soltanto un punto di partenza, per arrivare alla dimostrazione generale del

teorema.

• EUCLIDE

Euclide fu un matematico greco antico, che visse molto

probabilmente durante il regno di Tolomeo I (367 a.C. -

283 a.C.). È sicuramente il più importante matematico

della storia antica, e uno dei più importanti e

riconosciuti di ogni tempo e luogo che noi oggi

associamo alla grande sintesi del pensiero logico-

deduttivo, del pensiero matematico della Grecia antica.

Fu l’autore di un’opera monumentale in 13 diversi libri

che si chiama gli elementi di matematica oggi noti

come elementi di Euclide.

In realtà, anche prima di lui c’erano stati tentativi parziali di sistematizzare quello che via via

si stava facendo. Ad esempio, i primi quattro libri degli elementi di Euclide che sono i più

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famosi, in cui è dimostrato il teorema di Pitagora, ma fra tante altre cose questi primi quattro

libri sono un rifacimento, una specie di copiatura, una seconda versione di libri analoghi che

furono scritti da un grande matematico dell’antichità, il greco Ippocrate, ma non quello a cui

ci riferiamo di solito in medicina; però è Euclide che costruì questo grande “monumento”,

tanto che i quattro libri di Ippocrate sono andati perduti e si può solo ipotizzare che fossero

una prima versione magari incompleta dei primi quattro libri di Euclide.

In questo monumento della matematica classica c’è quasi tutta la matematica greca, anche se

ci sono alcune parti della matematica greca che non sono considerate da Euclide, in altre

parole quelli che non rientrano nei canoni estetici definiti da Platone.

Influenzato molto dalla filosofia, Platone credeva che nella geometria esistessero solo due

figure perfette, tutte le altre erano imperfette, magari regolari, come i triangoli equilateri, i

quadrati, i pentagoni, perché nessuna di queste figure avevano qualcosa da farle rendere

perfette rispetto a qualcos’altro; quelle perfette invece sono solo due perché non è facile

trovare figure simili a ciascuna delle loro parti: una è la linea retta, dove ogni pezzo è simile

all’intera figura, l’altra è il cerchio. Per questo Platone disse che era possibile usare solo

strumenti che permettevano la realizzazione di queste due figure perfette: la riga, ma senza le

tacche per la misurazione, e il compasso, che ci permette di disegnare dei cerchi.

Attraverso questi due strumenti, la geometria doveva essere costruita e gli elementi di Euclide

sono tutti costruiti usando soltanto la riga e il compasso. Naturalmente si erano trovati

all’epoca altri risultati che non facevano parte di questa restrizione di geometria e proprio

questi rimasero fuori dal trattato di Euclide, anche se in seguito verranno inglobati

nell’interesse della matematica moderna.

Negli elementi di Euclide ci sono sostanzialmente due cose: da una parte costruzione, in

questo caso di oggetti geometrici, dall’altra parte dimostrazione, riferita ai vari teoremi

geometrici. Abbiamo detto che le costruzioni sono fatte usando soltanto i due oggetti permessi

dalla metafisica platonica, la riga e il compasso.

Gli elementi partono con la prima proposizione del primo libro in cui

si spiega come costruire un triangolo equilatero: si prende la riga e si

traccia un lato, si punta il compasso in un estremo e lo si allarga fino a

coprire l’altro estremo e si costruisce un semicerchio, ripetiamo

l’operazione puntando il compasso nell’altro estremo e con la riga si

unisce il punto d’incontro dei due semicerchi ai due estremi.

Questa è la costruzione più semplice, ma usando riga e compasso si possono costruire anche

altre figure come l’esagono: si disegna un cerchio e usando il compasso con un’ampiezza pari

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al raggio, per sei volte si dividono dei punti sulla circonferenza e si uniscono questi punti

ottenendo così un esagono regolare.

Per costruire invece figure più complesse, come il

pentagono, bisogna ricorrere a quella che viene chiamata

“sezione aurea”, ovvero una proporzione che i greci

scoprirono e, come dice il nome, identificarono come la

sezione matematica della bellezza, cioè un modo per

esprimere matematicamente una proporzione perfetta.

Questa sezione aurea interviene anche nel pentagono

poiché il rapporto fra la diagonale e il lato del pentagono

è proprio lo stesso rapporto che c’è tra il lato maggiore e

quello minore del rettangolo aureo.

Come ho già detto, gli elementi di Euclide si basano sia sulla costruzione, sia sulla

dimostrazione di teoremi geometrici; primo fra tutti, il teorema di Pitagora che viene

dimostrato due volte, in maniera diversa e con strumenti diversi, al quale è dedicato il primo

libro, le cui ultime due proposizioni sono “Il teorema di Pitagora” e il suo inverso.

Euclide, e forse prima di lui Ippocrate, aveva strutturato il libro fatto in modo da poterlo

leggere all’indietro fino a risalire a quelle verità matematiche più banali che potevano

permettere di dimostrare il teorema di Pitagora.

Queste verità di partenza sono cinque oggi chiamati i cinque postulati o assiomi di Euclide, da

cui Aristotele aveva già detto che bisognava partire per dimostrare i teoremi della matematica

e della geometria. Alcuni di questi sono molto semplici, per esempio dicono che tra due punti

passa una e una sola retta, oppure che se c’è un punto e un segmento si può costruire il

cerchio che ha quel punto come centro e quel segmento come raggio; e poi ce ne sono altri

due più o meno simili a questi che ci dicono che ogni segmento si può estendere per farlo

diventare sempre più lungo e vicino a una retta infinita. Infine, abbiamo il quinto postulato

che ci dice che se noi prendiamo una retta e un punto al di fuori di questa retta, c’è sempre

una parallela alla retta data che passa per quel punto; la dimostrazione è che se noi tracciamo

una perpendicolare alla retta e la perpendicolare della perpendicolare abbiamo una parallela,

ma il quinto postulato, o assioma delle parallele, ci dice che da quel punto può passare

un’unica retta. Questo è, forse, l’assioma più importante, anche perché senza di quello non si

potrebbe dimostrare il teorema di Pitagora, che è equivalente al quinto postulato.

Le cosiddette geometrie non euclidee, contraddicono il quinto postulato perché dicono che per

quel punto possono passare più parallele. Per quelle geometrie il teorema di Pitagora non vale.

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9. ALTRE DIMOSTRAZIONI DEL TEOREMA DI PITAGORA Le dimostrazioni del celebre teorema non sono infinite, ma nel corso dei secoli ne sono state

proposte diverse centinaia, con molte varianti, e il loro numero continua a crescere grazie a quelle

che ancora oggi sono scoperte da matematici professionisti o dilettanti, sempre affascinati da questo

teorema. Se andiamo a curiosare fra le tante dimostrazioni, ne troviamo alcune veramente curiose.

• DIMOSTRAZIONE DI PERIGAL

Sicuramente Schopenahuer, più della dimostra-

zione di Euclide, avrebbe apprezzato quella

proposta nel 1873 da Henry Perigal, un agente di

cambio inglese con la passione per la matematica.

Egli divide il quadrato costruito sul cateto

maggiore in quattro parti, con due segmenti

passanti per il centro del quadrato stesso, uno dei

quali parallelo e l’altro perpendicolare alla

ipotenusa BC, e ricompone poi i quattro pezzi,

insieme al quadrato costruito sull’altro cateto, nel

quadrato dell’ipotenusa. Si tratta naturalmente di

dimostrare l’equivalenza delle parti in cui sono

stati divisi i quadrati dei cateti con quelle

ricomposte sul quadrato dell’ipotenusa.

• DIMOSTRAZIONE DI POMI CON I QUADRATI CONCENTRICI

Dimostrazione geometrica basata su due quadrati concentrici, di lati rispettivamente pari

all’ipotenusa (c) e alla somma dei due cateti (a+b).

Come si vede dalla figura, tolti i 4 triangoli rettangoli (in

giallo di area (a × b) / 2) al quadrato più grande, che

corrisponde all’area (a + b)2, si ottiene il quadrato più piccolo,

rappresentato in bianco, che equivale invece all’area c2.

Quindi (a + b)2 − 4 × (a × b) / 2 = c2

da sui risolvendo si ottiene: a2 + b2 = c2

Questa dimostrazione ha il vantaggio di avere una

rappresentazione visiva semplice e diretta, che non richiede lo

spostamento e sovrapposizione di forme geometriche.

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• DIMOSTRAZIONE DI GARFIELD

Vediamo la dimostrazione trovata nel 1876 da James A. Garfield, ventesimo presidente degli

Stati Uniti. Antischiavista, eroe della guerra civile, Garfield venne eletto presidente nel 1880 e

avviò subito una campagna contro la corruzione politica, procurandosi per questo molti

nemici. Pochi mesi dopo la sua elezione, fu ferito con alcuni colpi di pistola.

Garfield trovò una dimostrazione inedita del teorema insieme con alcuni suoi colleghi del

Congresso, in un momento di passatempo matematico: “Pensiamo che su questa

dimostrazione - disse - si possano trovare d’accordo tutti i deputati, indipendentemente dalle

loro idee politiche”.

La dimostrazione di Garfield, molto bella, si fonda sul calcolo dell’area del trapezio. In questo

caso non dobbiamo costruire alcun quadrato.

Sull’ipotenusa del triangolo rettangolo ABC

è costruito il triangolo rettangolo isoscele

CBE. Si prolunga la retta AC fino ad

incontrare in D la perpendicolare tracciata

da E.

Il triangolo ABC è uguale al triangolo DCE,

perciò: AB = DC e AC = DE.

Sia l’altezza che la somma delle basi sono x

+ y e quindi l’area del trapezio ABDE è:

(𝑥𝑥 + 𝑦𝑦)(𝑥𝑥 + 𝑦𝑦)2

Ma l’area dello stesso trapezio è anche uguale alla somma delle aree dei tre triangoli ABC,

BCE e CDE:

𝑧𝑧2

2+

2𝑥𝑥𝑦𝑦2

Abbiamo quindi:

𝑧𝑧2

2+

2𝑥𝑥𝑦𝑦2

=(𝑥𝑥 + 𝑦𝑦)(𝑥𝑥 + 𝑦𝑦)

2

Se si semplifica, si ottiene la relazione del teorema di Pitagora:

𝑥𝑥2 + 𝑦𝑦2 = 𝑧𝑧2

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• DIMOSTRAZIONE DI TEMPELHOFF

La dimostrazione formulata Tempelhoff nel 1769,

fa uso della scomposizione in parti equivalenti e

fu in seguito riportata da I. Ghersi in Matematica

dilettevole e curiosa.

Dato il triangolo rettangolo ABC, si costruiscano

i quadrati sui suoi tre lati e il triangolo DLE come

indicato in figura. Si traccino poi i segmenti HG,

IF e CL.

Si può dimostrare che i quadrilateri FGHI, ABFI,

ADLC e BCLE sono equivalenti.

L’esagono ABFGHI è quindi equivalente

all’esagono ADLEBC, ma se togliamo ai due

esagoni il triangolo in comune ABC e i triangoli

equivalenti CGH e DLE, quanto rimane è ancora

equivalente: AB²=AC²+BC².

• DIMOSTRAZIONE CON IL PRIMO TEOREMA DI EUCLIDE

Si traccia l’altezza sull’ipotenusa, di lunghezza h. Questa spezza l’ipotenusa in due segmenti,

di lunghezza p e q.

Il teorema di Euclide fornisce le relazioni: 𝑎𝑎𝑝𝑝

= 𝑐𝑐𝑎𝑎 e 𝑏𝑏

𝑞𝑞= 𝑐𝑐

𝑏𝑏

da cui: a2 = c × p e b2 = c × q

quindi: a2 + b2 = c (p+q) = c2

Vale anche l’inverso del Teorema di

Pitagora (proposizione 48 del primo

libro degli Elementi di Euclide):

Se in un triangolo di lati a, b e c vale

la relazione a2 + b2 = c2 allora il

triangolo è rettangolo.

B A

C

G

H

F

I

D E

L

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10. GENERALIZZAZIONI DEL TEOREMA DI PITAGORA Il teorema di Pitagora può essere generalizzato in vari modi. Solitamente, una generalizzazione è

una relazione che si applica a tutti i triangoli, e che applicata ai triangoli rettangoli risulta essere

equivalente al teorema di Pitagora.

• TEOREMA DI CARNOT

Il teorema del coseno correla la lunghezza dei lati di un triangolo al coseno di uno dei suoi

angoli. Può essere considerato generalizzazione più importante del teorema di Pitagora che si

applica a un triangolo qualsiasi; noto come teorema di Carnot, dal nome del matematico

francese Lazare Carnot, in realtà il teorema è dovuto al francese François Viète.

In un triangolo con vertici e angoli indicati come in figura, vale

l’uguaglianza:

𝐴𝐴𝐴𝐴����2 = 𝐴𝐴𝐴𝐴����2 + 𝐴𝐴𝐴𝐴����2 − 2𝐴𝐴𝐴𝐴���� ⋅ 𝐴𝐴𝐴𝐴���� cos 𝛾𝛾

Nel caso in cui γ sia retto, vale cosγ = 0 e quindi l’enunciato è

analogo al teorema di Pitagora. Il termine aggiuntivo può essere

interpretato come il prodotto scalare dei vettori CA e CB.

• IL TEOREMA DEI SENI

Il teorema dei seni mette in relazione le lunghezze dei lati di un triangolo e i seni degli angoli

opposti. Anche questa relazione si applica a qualsiasi triangolo e, nel caso in cui questo sia

rettangolo, può essere ritenuta equivalente al teorema di Pitagora.

Il teorema dei seni asserisce che in un triangolo qualsiasi, con le notazioni come in figura,

valgono le relazioni seguenti: 𝑎𝑎

sin𝛼𝛼=

𝑏𝑏sin𝛽𝛽

=𝑐𝑐

sin 𝛾𝛾= 2𝑅𝑅

Elevando al quadrato:

𝑐𝑐2 = 𝑎𝑎2sin2 𝛾𝛾sin2 𝛼𝛼

; 𝑏𝑏2 = 𝑎𝑎2sin2 𝛽𝛽sin2 𝛼𝛼

Sommando i termini si ottiene:

𝑐𝑐2 + 𝑏𝑏2 = 𝑎𝑎2sin2 𝛾𝛾 + sin2 𝛽𝛽

sin2 𝛼𝛼

Quando α è un angolo retto, si ottiene β = π / 2 − γ e quindi

sin2 𝛾𝛾 + sin2 𝛽𝛽sin2 𝛼𝛼

= sin2 �𝜋𝜋2− 𝛽𝛽� + sin2 𝛽𝛽 = cos2 𝛽𝛽 + sin2 𝛽𝛽 = 1

Si ottiene quindi in questo caso il teorema di Pitagora: c2+b2=a2!

PROF.GIUSEPPE ROCCO – IL TEOREMA DI PITAGORA 34

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11. L’ALTRA FACCIA DEL TEOREMA DI PITAGORA Finora abbiamo parlato dell’aspetto geometrico del teorema, di triangoli rettangoli. Vediamone ora

l’aspetto aritmetico, cioè le particolari terne numeriche, chiamate terne pitagoriche, collegate al

teorema stesso.

Una terna pitagorica è una terna di numeri naturali a, b, c tali che a2 + b2 = c2. Il nome viene dal

teorema di Pitagora, da cui discende che ad ogni triangolo rettangolo con lati interi corrisponde una

terna pitagorica, e viceversa.

Se (a, b, c) è una terna pitagorica, lo è anche (da, db, dc), dove d è un numero naturale qualsiasi; il

numero d è quindi un divisore comune dei tre numeri da, db, dc. Una terna pitagorica si dice

primitiva se a, b e c non hanno divisori comuni. I triangoli descritti da terne pitagoriche non

primitive sono sempre simili a quelle descritte dalla corrispondente terna primitiva.

Esiste una formula capace di generare tutte le terne pitagoriche primitive; tali formule sono citate da

Euclide nei suoi Elementi:

a = m2 – n2; b = 2mn; c = m2 + n2

Le formule di Euclide generano una terna pitagorica primitiva se e solo se m e n sono coprimi ed

uno di loro è pari e l’altro dispari (se sia n che m sono dispari a, b e c sono pari, e quindi quella

terna pitagorica non può essere primitiva). Tutte le terne primitive si possono ottenere in questo

modo da un’unica coppia di numeri coprimi m > n, mentre le restanti (non primitive) si possono

ottenere moltiplicando i termini di una terna primitiva per un opportuno fattore. Le formule così

modificate sono quindi in grado di generare tutte le terne possibili, anche se in modo non univoco:

a = k × (m2 – n2)

b = k × (2mn)

c = k × (m2 + n2)

Una conseguenza immediata di queste formule è che le terne pitagoriche sono infinite, in quanto

sono infinite le possibili scelte di m e n.

Inoltre è facile dimostrare che il prodotto di a per b (dei due cateti) è sempre divisibile per 12,

mentre il prodotto abc (i tre lati del triangolo pitagorico) è sempre divisibile per 60 (60 = 3x4x5).

Esistono solo 16 terne pitagoriche primitive con c < 100:

( 3, 4, 5) ( 5, 12, 13) ( 7, 24, 25) ( 8, 15, 17) ( 9, 40, 41) (11, 60, 61) (12, 35, 37) (13, 84, 85) (16, 63, 65) (20, 21, 29) (28, 45, 53) (33, 56, 65) (36, 77, 85) (39, 80, 89) (48, 55, 73) (65, 72, 97)

PROF.GIUSEPPE ROCCO – IL TEOREMA DI PITAGORA 35

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Un buon punto di partenza per l’esplorazione delle terne pitagoriche è quello di riordinare

l’equazione originale nella forma:

a2 = (c – b)(c + b)

È interessante notare che ci possono essere più terne pitagoriche primitive con lo stesso intero

minore. Il primo esempio è con il 20, che è il più piccolo intero di due terne primitive:

20 21 29 e 20 99 101.

Per costruire un triangolo rettangolo è sufficiente costruire un triangolo con le misure dei lati

corrispondenti ai numeri di una delle terne pitagoriche, ad esempio di 3, 4 e 5 unità. Lo possiamo

verificare praticamente con una scatola di fiammiferi, costruendo un triangolo che abbia come

lunghezza dei lati 3, 4 e 5 fiammiferi. Il triangolo ottenuto avrà sicuramente un angolo retto.

C’è un’altra famosa tavoletta del periodo paleo-

babilonese, nota come Plimpton 322, che dimostra

come il problema aritmetico, collegato a quello

geometrico del teorema di Pitagora, fosse già noto

ben prima dei greci. Questa tavoletta era in origine

molto più grande, ma la parte conservata permette

ancora di interpretare correttamente il significato

delle colonne di numeri che presenta.

Si tratta, infatti, di numeri collegati fra loro dalla relazione del teorema, cioè numeri per i quali il

quadrato del numero più grande è uguale alla somma dei quadrati degli altri due numeri.

A confermarci questa interpretazione sono anche i titoli di ciascuna colonna, in particolare della

seconda e della terza: “numero risolvente della larghezza” e “numero risolvente della diagonale”. I

numeri di queste terne corrispondono, naturalmente nel sistema sessagesimale, alle lunghezze

dell’ipotenusa e di un cateto di triangoli rettangoli.

A questo punto, sembrerebbe logico supporre che il collegamento fra terne pitagoriche e triangoli

rettangoli, cioè fra il problema aritmetico e il corrispondente problema geometrico, fosse già noto

nell’antichità, ai babilonesi. In realtà la loro geometria era di tipo pratico, non esisteva un pensiero

geometrico indipendente dalle più semplici e immediate applicazioni.

Scrive in proposito O. Neugebauer nel suo prezioso saggio, Le scienze esatte nell’Antichità, in cui

presenta un approfondito studio della tavoletta Plimpton 322:

Soltanto in base alla nostra educazione, modellata sull’idea che i Greci avevano della

Matematica, siamo portati a pensare immediatamente alla possibilità di una

rappresentazione geometrica di rapporti aritmetici o algebrici.

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Il collegamento fra il problema aritmetico e il corrispondente problema geometrico, cioè fra e terne

pitagoriche e triangolo rettangolo non fu probabilmente così immediato. È difficile pensare che il

teorema di Pitagora abbia potuto avere origine dalla conoscenza della terna pitagorica 3, 4 e 5.

Una precisa dimostrazione di questo teorema, che possiamo definire l’inverso del teorema di

Pitagora si troverà soltanto in Euclide.

• DIOFANTO DI ALESSANDRIA

Lo studio delle terne babilonesi sembrerebbe

confermare la conoscenza da parte loro delle formule

fondamentali per la costruzione delle terne stesse.

Sono formule che, secondo la tradizione, sono

attribuite a Diofanto, un matematico greco vissuto nel

terzo secolo dopo Cristo, autore di un’opera famosa,

l’Arithmetica, in cui sono raccolti 189 problemi risolti

applicando diversi metodi che rivelano la sua

straordinaria abilità.

Della sua vita non sappiamo nulla, ci è rimasto

soltanto un problema di un antico libro greco del V

secolo d. C. che egli stesso volle venisse scritto sulla

propria tomba sotto forma di epitaffio:

Hunc Diophantus habet tumulum qui tempora vitae illius, mira denotat arte tibi.

Egit sex tantem juvenie; lanugine malas vestire hinc coepit parte duodecima.

Septante uxori post haec sociatur, et anno formosus quinto nascitur inde puer.

Semissem aetatis postquam attigit ille paternae, infelix subita morte peremptus obit.

Quator aestater genitor lugere superstes cogitur, hinc annos illius assequere.

Questa tomba rinchiude Diofanto e, meraviglia! Dice matematicamente quanto ha vissuto.

Un sesto della sua vita fu l’infanzia, aggiunse un dodicesimo perché le sue guance si

coprissero della peluria dell’adolescenza. Dopo un altro settimo della sua vita prese moglie,

e dopo cinque anni di matrimonio ebbe un figlio. L’infelice (figlio) morì improvvisamente

quando raggiunse la metà dell’età che il padre ha vissuto. Il genitore sopravvissuto fu in lutto

per quattro anni e raggiunse infine il termine della propria vita.

La soluzione dell’enigma sta nella seguente equazione:

da cui si ricava l’età di Diofanto, x = 84.

𝑥𝑥6

+𝑥𝑥

12+𝑥𝑥7

+ 5 +𝑥𝑥2

+ 4 = 𝑥𝑥

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• EQUAZIONI DIOFANTEE

Equazioni (non necessariamente di primo grado) per le quali si cerchino come soluzioni

soltanto numeri interi prendono il nome di diofantine, in quanto fu proprio Diofanto a

dedicarsi con particolare impegno allo studio di tali equazioni, in particolare di quelle

indeterminate (in realtà Diofanto non cercava soluzioni intere bensì razionali).

Le equazioni diofantine, in molti casi, ammettono un numero discreto (finito) di soluzioni,

ricavabili con un numero finito di tentativi. Una tipica equazione diofantina è del tipo:

𝑎𝑎𝑥𝑥 + 𝑏𝑏𝑦𝑦 = 𝑐𝑐 ∀ 𝑎𝑎, 𝑏𝑏, 𝑐𝑐 ∈ ℕ

Si dimostra che se c è divisibile per il massimo comun divisore di a e b l’equazione è

risolubile, e dà luogo a soluzioni intere discrete. Ad esempio, l’equazione 4x + 3y = 24 dà, nel

campo dei numeri interi e positivi, la sola soluzione (x = 3,y = 4).

Ma forse l’equazione diofantina più famosa è del tipo:

xn + yn = zn ∀ 𝑥𝑥,𝑦𝑦, 𝑧𝑧,𝑛𝑛 ∈ ℕ

∀ 𝑛𝑛 ≥ 2

Nel caso n = 2 essa dà come soluzioni intere le cosiddette “terne pitagoriche”, nel caso invece

n > 2 essa ha dato il mal di testa per secoli a miriadi di matematici, come ben sanno coloro

che si sono dedicati al cosiddetto “ultimo teorema di Fermat”.

• OLTRE LE TERNE PITAGORICHE.

È logico estendere le terne pitagoriche alla terza dimensione. Per esempio, alla diagonale di

un parallelepipedo le cui dimensioni siano a, b e c. In questo caso la diagonale d del

parallelepipedo è d² = a² + b² + c². Dalle terne passiamo così alle quaterne pitagoriche.

Abbiamo, ad esempio, la quaterna 3, 4, 12 e 13 per la quale si ha 3² + 4² + 12² = 13²

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Proviamo ora a passare dalle terne alle cinquine pitagoriche, che definiamo come cinquine di

numeri tali che la somma dei primi tre sia uguale alla somma degli ultimi due.

Dobbiamo trovare una cinquina di numeri a, b, c, d ed e tali che:

a² + b² + c² = d² + e²

Per risolvere questo problema e trovare le nuove formule, partiamo dalle formule di Diofanto:

a = m² + n²

b = m² - n²

c = 2mn

dove m e n sono sempre due numeri qualsiasi, con m maggiore di n, e aggiungiamo due nuove

formule:

d = c + b

e = c - b

I cinque numeri calcolati in questo modo formano proprio una cinquina pitagorica.

Ad esempio, prendiamo m = 5 e n = 4:

a = 5² + 4² = 25 + 16 = 41

b = 5² - 4² = 25 - 16 = 9

c = 2 x 5 x 4 = 40

d = 40 + 9 = 49

e = 40 - 9 = 31

La cinquina 41, 9, 40, 49 e 31 è “pitagorica”, infatti:

41² + 9² + 40² = 49² + 31²

cioè:

1 681 + 81 + 1 600 = 2 401 + 961 = 3 362

A questo punto abbiamo soltanto accennato alla possibilità di avviare una curiosa e ricca

ricerca, oltre le terne pitagoriche, ad esempio, si dovrebbe cercare di scoprire la regola che

permette di costruire la settupla a, b, c, d, e, f e g tale che si abbia:

a² + b² + c² + d² + e² = f² + g²

dati due numeri m e n qualsiasi, con m maggiore di n.

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12. IL TEOREMA DI FERMAT Dalle terne pitagoriche è naturale passare allo studio delle terne di numeri di potenza superiore al

due. Come abbiamo visto, un numero quadrato, come ad esempio 25, può essere spezzato nella

somma di due quadrati, in questo caso 9 e 16. Ci chiediamo: è possibile spezzare un cubo in due

cubi oppure una quarta potenza nella somma di due numeri che siano entrambi quarte potenze?

Ad esempio, 27, il cubo di 3, può essere diviso nella somma di due cubi?

È possibile trovare terne di numeri interi che soddisfino alla relazione x3 + y3 = z3 e, in generale:

xn + yn = zn ?

Il protagonista di questa ricerca è stato Pierre de Fermat (1601 - 1665), di

professione avvocato, con la passione della matematica.

È stato definito il “principe dei dilettanti”, per i risultati straordinari che

raggiunse non soltanto nella teoria dei numeri, ma anche in altri campi,

come la geometria analitica e il calcolo infinitesimale.

Fermat affermò che la scomposizione non è possibile né con i cubi né con

qualsiasi altro numero di potenza superiore al due. Sul margine di un

libro che stava leggendo, l’Arithmetica di Diofanto, scrisse:

Cubem autem in duos cubos, aut quadratoquadratum in duos quadratoquadratos,

et generaliter nullam in infinitum ultra quadratum potestatem in duos ejusdem nominis

fas est dividere: cujus rei demonstrationem mirabilem sane detexi.

Hanc marginis exiguitas non caperet.

Non è invece possibile dividere un cubo in due cubi o un quadrato - quadrato in due

quadrati - quadrati e in genere nessuna potenza superiore al due in due potenze dello

stesso ordine. Di questo ho trovato una splendida dimostrazione, ma la ristrettezza del

margine di questo libro non la può contenere.

In realtà la sua dimostrazione non fu mai trovata e non siamo nemmeno sicuri che fosse realmente

arrivato a scoprirla, ma l’affermazione di Fermat, data la sua autorevolezza, fu presa in seria

considerazione da tutti i matematici. Molti s’impegnarono nella ricerca di una dimostrazione di

quello che fu battezzato l’“Ultimo teorema di Fermat”, o meglio, non “teorema” ma “congettura”,

poiché della dimostrazione non c’era traccia. Fra le carte di Fermat venne trovata la dimostrazione

dell’impossibilità di soluzioni intere di xn + yn = zn per n = 4 e, nel Settecento, Eulero, il celebre

matematico svizzero, dimostrò l’impossibilità di soluzioni intere per n = 3. Nell’Ottocento altri

matematici, come Legendre e Lejeune - Dirichlet, dimostrarono autonomamente il caso n = 5, ma la

soluzione generale del problema sembrava impossibile.

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Con l’avvento del computer s’iniziò a calcolare pedestremente le terne per valori sempre più alti di

n. Negli anni Ottanta del secolo scorso si arrivò a verificare tutti i valori di n fino a 25.000 e in

tempi ancora più vicini ai nostri fino a n uguale a 4 milioni, ma la verifica al computer era inutile,

senza una dimostrazione generale non si poteva essere sicuri che il teorema fosse valido per un

qualsiasi n e il fascino per il problema posto da Fermat restava inalterato.

Si racconta che, all’inizio del Novecento, un ricco industriale

tedesco, Paul Wolfskehl, innamorato di una donna bellissima che

lo aveva respinto, avesse deciso di suicidarsi, ma qualche giorno

prima di attuare il suo folle gesto, aveva iniziato a leggere un libro

di matematica che parlava del grande teorema di Fermat.

Wolfskehl restò catturato dal teorema e pensando di aver trovato la

via della dimostrazione, si buttò a capofitto nello studio della

teoria dei numeri, dimenticando la sua bella e i suoi tragici

propositi. Anche se non riuscì nella sua impresa matematica, grato

a Fermat e al teorema che gli aveva salvato la vita, decise di

istituire un premio destinato a chi fosse riuscito a trovare la dimostrazione. Un premio consistente

che, all’inizio del secolo scorso, era pari a circa 100.000 marchi.

Secondo un’altra versione, meno romantica, Wolfskehl, scapolo impenitente, all’età di 47 anni

venne obbligato dalla sua famiglia a sposare una donna che non amava e che lo rese infelice. Per

vendicarsi di lei, decise di lasciare per testamento le sue fortune all’uomo che fosse riuscito a

dimostrare il teorema di Fermat, doveroso omaggio alla teoria dei numeri, sua unica consolazione.

Il premio fu annunciato nel 1908 e soltanto in quell’anno furono presentate ben 621 dimostrazioni,

tutte sbagliate. Nel 1995, finalmente il premio è stato ufficialmente consegnato ad Andrew Wiles, il

matematico inglese che è riuscito nella storica impresa. L’Accademia delle

Scienze di Gottinga, responsabile del premio e del controllo delle dimostrazioni,

dopo due anni di attente e minuziose verifiche del risultato raggiunto da Wiles

ha sciolto ogni riserva, decretando la validità della sua dimostrazione.

La svalutazione ha ridotto il premio a trentamila marchi, ma “è molto più

importante di un premio Nobel - ha sottolineato Heinz Wagner, il

presidente dell’Accademia, durante la cerimonia di premiazione -

perché i Nobel vengono assegnati ogni anno, mentre per il Premio

Wolfskehl si è dovuto attendere novant’anni”. E finalmente Fermat

può riposare in pace. Quello che è stato il tormento dei matematici per 260

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anni, dal momento in cui fu enunciato nel 1637, fu risolto da Wiles, nato nel 1950, che scoprì

questo teorema quando aveva soltanto dieci anni, leggendo un libro preso in prestito alla biblioteca.

“Sembrava così semplice - ricorda - e tuttavia i grandi matematici del passato non

erano riusciti a risolverlo. Era un problema che io, un ragazzo di dieci anni, potevo

perfettamente capire. Mi resi conto in quel momento che non lo avrei più abbandonato.

Dovevo risolverlo. E all’inizio lo affrontai pensando che Fermat, ai suoi tempi, non

doveva certo conoscere più matematica di quella che conoscevo io”.

Dopo molti tentativi, solo nel 1986, quand’era già docente alla Princeton University, Wiles capì di

essere sulla strada giusta. Decise allora di abbandonare ogni lavoro che non fosse collegato

all’Ultimo Teorema. Per sette anni visse come un recluso, senza far parola ad alcuno della sua

ricerca.

Devo dire francamente che non è questo il modo di lavorare che apprezziamo in un matematico,

ritengo che ci debba sempre essere collaborazione, scambio di informazioni, ricerche comuni invece

di egoistiche chiusure, anche se posso comprendere l’ambizione di Wiles, il suo desiderio di

raggiungere fama e successo attraverso la soluzione del problema.

“Il teorema di Fermat - ricorda ancora Wiles - era il mio unico pensiero. Il primo

quando mi svegliavo al mattino, quello che avevo in mente per tutta la giornata e

l’ultimo, al momento di andare a dormire”.

Alla fine, convinto di aver trovato la soluzione, nel 1993, decise di renderla pubblica. Televisioni e

giornali lo presentarono come “il più grande matematico del secolo”, il genio che aveva vinto la

grande sfida, ma la sua odissea matematica non era ancora finita. Quando pensava ormai di potersi

concedere un meritato riposo e di godersi il suo momento di gloria, due mesi dopo l’annuncio,

venne scoperto un errore nella sua dimostrazione.

“Un errore così astratto che non posso descriverlo in modo semplice. Anche se dovessi

spiegarlo a un matematico - dice Wiles - dovrei chiedergli di avere la pazienza di

studiare per due o tre mesi la parte della mia dimostrazione in cui compare l’errore”.

Possiamo immaginare lo stato d’animo di Wiles, costretto ad ammettere pubblicamente l’errore.

Superata la crisi e sempre convinto della correttezza dei suoi ragionamenti, riprese il suo

manoscritto e per due anni, dimostrando una caparbietà e una forza d’animo eccezionali, si ributtò a

capofitto sul suo lavoro per cercare di correggere l’errore. Alla fine ripresentò la sua dimostrazione

che, con il premio Wolfskehl, ha ricevuto la conferma definitiva. Questa dimostrazione è una

relazione di duecento pagine ed è naturalmente escluso che possa essere quella originale di Fermat.

Sono molti i matematici, in particolare i dilettanti, che continuano la ricerca per scoprire la prova

più semplice che Fermat poteva avere in mente: la storia dell’Ultimo Teorema non è ancora finita.

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13. CONCLUSIONI Limitandosi alla geometria greca, si poteva descrivere il sistema tolemaico e anche quello

copernicano, ma il sistema euclideo non era sufficiente per descrivere gli sviluppi successivi,

mentre lo divennero le sezioni coniche di Apollonio. Questo è l’esempio più classico di come la

matematica sia sviluppata per fini puramente teoretici e che poi, magari dopo duemila anni, come

nel caso di Apollonio, trovi le sue applicazioni.

Quindi non bisogna mai dire a un matematico di non fare certe cose perché non servono, perché la

risposta sarebbe: non servono oggi, ma magari tra qualche secolo o tra qualche millennio

potrebbero servire.

I greci aprirono un enorme campo di ricerca, ma non era tutta la ricerca possibile, soprattutto non

era tutta la ricerca che poteva servire per la descrizione del mondo fisico, cioè per le applicazioni

alle scienze.

Le geometrie non euclidee divennero fondamentali ad esempio nella teoria di Einstein che utilizza

delle geometrie molto complesse, ma possiamo affermare che con Pitagora prima, ed Euclide poi, la

storia della matematica ha cominciato a muovere i primi passi e ci hanno fatto capire come sono

nati da una parte il concetto di numero e dall’altra quello di figura, come si sono sviluppate le prime

teorie aritmetiche e geometriche e come queste teorie hanno da un lato fiorito e generato dei teoremi

e dei risultati assolutamente nuovi e anche dal punto di vista estetico molto belli e dall’altro come

hanno stimolato ricerche ed estensioni che poi piano piano sono arrivati a costituire la matematica

moderna e le sue applicazioni scientifiche.

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