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NAVI , SOTTOMARINI E AEREI DEI NOSTRI FONDALI Progetto Scuola-Museo IL PATRIMONIO RITROVATO A cura di Alessandra Nobili e M. Emanuela Palmisano Regione Siciliana Assessorato dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana Dipartimento dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana Soprintendenza del mare Progetto Scuola-Museo IL PATRIMONIO RITROVATO NAVI , SOTTOMARINI E AEREI DEI NOSTRI FONDALI IL PATRIMONIO RITROVATO

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NAVI, SOTTOMARINI E AEREIDEI NOSTRI FONDALI

Progetto Scuola-Museo

IL PATRIMONIORITROVATO

A cura di Alessandra Nobili e M. Emanuela Palmisano

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Regione SicilianaAssessorato dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana

Dipartimento dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana

Soprintendenza del mare

Progetto Scuola-Museo

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Regione SicilianaAssessorato dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana

Dipartimento dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana

Soprintendenza del mare

Progetto Scuola-Museo

IL PATRIMONIORITROVATO

NAVI, SOTTOMARINI E AEREIDEI NOSTRI FONDALI

A cura di Alessandra Nobili e M. Emanuela Palmisano

© 2010 REGIONE SICILIANAAssessorato dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana

Dipartimento dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana

Area Soprintendenza del MareSoprintendente Sebastiano Tusa

Servizio Beni Storico-artistici e Demo AntropologiciDirigente responsabile M. Emanuela Palmisano

Unità Operativa III - Conoscenza, Tutela e Valorizzazione del Patrimonio Storico-artistico ed Etno-antropologicoDirigente responsabile Alessandra Nobili

Progetto Scuola-Museo

IL PATRIMONIO RITROVATO: NAVI, SOTTOMARINI E AEREI DEI NOSTRI FONDALI

a cura di Alessandra Nobili e M. Emanuela Palmisano

Testi Pietro Faggioli, Andrea Ghisotti, Giovanni Morigi, Alessandra Nobili, M. Emanuela

Palmisano, Renato G. Ridella, Sebastiano Tusa

Collaborazione Liliana Centinaro, Vito Carlo Curaci

Referente per i servizi educativi territoriali Alessandra Nobili

Il volume integra l’omonimo corso di aggiornamento

per gli istituti medi sviluppato negli anni scolastici 2006/07 e 2007/2008.

Hanno collaborato al corso Liliana Centinaro, Marcello Consiglio,

Claudio Di Franco, Gianfranco La Seta Catamancio, Giuseppa Palumbo.

Si ringrazia l’Istituto Nautico “Gioeni di Trabia” di Palermo per avere ospitato

la manifestazione della giornata conclusiva del corso 2007/2008.

Un ringraziamento particolare ad Assunta Lupo, Dirigente dell’Unità Operativa XV - Attività di

Educazione Permanente di questo Dipartimento che ha accolto con entusiasmo la proposta.

Progetto grafico e impaginazione Maurizio Accardi

Stampa e allestimento Officine Grafiche Riunite SpA Palermo

Dato alle stampe il 15 aprile 2010

Il patrimonio ritrovato: navi, sottomarini e aerei dei nostri fondali :

progetto scuola-museo / a cura di Alessandra Nobili e M. Emanuela Palmisano. -

Palermo : Regione siciliana, Assessorato dei beni culturali e dell’identità siciliana,

Dipartimento dei beni culturali e dell’identità siciliana, 2010.

ISBN 978-88-6164-144-0

1. Sicilia : Soprintendenza del mare – Attività didattica.

I. Nobili, Alessandra <1955->. II. Palmisano, Maria Emanuela <1957->.

363.6909458 CDD-22 SBN Pal0227053

CIP - Biblioteca centrale della Regione siciliana “Alberto Bombace”

Questo volume viene dedicato alla memoria di

Andrea Ghisotti, esperto subacqueo, profondo ed

entusiasta conoscitore del mare siciliano.

La Soprintendenza del Mare lo ricorda per la

professionalità, l’entusiasmo e il coraggio che ha

profuso nelle difficili immersioni alla scoperta dei

relitti profondi dei nostri fondali e per la

collaborazione e l’ausilio che ha fornito, soprattutto

nel settore della conoscenza dei relitti di età

contemporanea, per i quali aveva messo a

disposizione tutte le proprie esperienze, con

entusiasmo.

Uomo mite e gentile, dalla grande umanità e dignità,

che ricorderemo sempre mentre si immergeva nel suo

mare, pieno di gioia.

[8]INTRODUZIONE di Sebastiano Tusa

[10] UN CACCIA NAVALENEI NOSTRI FONDALI di M. Emanuela Palmisano

[14] NAVI, SOTTOMARINI E AEREI DELLE GUERRE MONDIALI di Pietro Faggioli

[20] RELITTI E SUBACQUEA di Andrea Ghisotti

[28] ARTIGLIERIE DA FUOCO di Renato G. Ridella

[39] RESTAURO E CONSERVAZIONE DEI METALLI PROVENIENTI

DA AMBIENTE MARINO di Giovanni Morigi

[42] RICERCHE, STUDIO E TUTELADEI RELITTI di Alessandra Nobili

INDICE 7

La conoscenza, tutela e valorizzazione del

patrimonio sommerso di interesse storico ha

costituito per la Soprintendenza del Mare uno

degli obiettivi prioritari sin dall’istituzione della

struttura, che ha visto crescere, in rapporto alle attività

svolte nell’ambito dello studio dei beni culturali

sommersi, il numero dei siti di interesse culturale di età

moderna e contemporanea. Allo scopo di porre in

essere ogni iniziativa tesa alla salvaguardia e alla

valorizzazione di questi beni, è stato avviato un

programma di ricognizione mirato alla tutela del

patrimonio culturale sommerso, documentando quanto

sino ad oggi, in gran parte sconosciuto, è stato

soggetto a forte pericolo di depauperamento,

attraverso una incondizionata depredazione di questi

oggetti, sistematicamente sottratti dai nostri fondali.

Il risultato ottenuto, attraverso il censimento delle

strutture sommerse operato per il patrimonio moderno

e contemporaneo dal Servizio e Unità Operativa

Storico-artistica e Demoantropologica, impegnate in

una capillare ricognizione sul territorio marino, è

ampiamente soddisfacente e rinvia ad una ricerca già

avviata a partire dal 2004, di concerto con l’Unità

Operativa V - Sistema Informativo Territoriale (S.I.T.),

per una moderna gestione della banca dati su

piattaforma G.I.S., con le più importanti Istituzioni

nazionali ed internazionali e con studiosi del settore,

che hanno contribuito a fornire preziose informazioni

sulla presenza di questi beni nei fondali della Sicilia e

del Mediterraneo meridionale.

Le acque intorno all’Isola e il tratto di mare che divide

dal Nord Africa sono stati oggetto di innumerevoli

affondamenti di unità mercantili e militari in tutti i

secoli, ma presumibilmente i più rilevanti

numericamente sono gli inabissamenti risalenti al

secondo conflitto mondiale.

Dal Giugno del 1940 al Settembre del 1943, com’è

noto, si svolse un insieme di operazioni aero-navali,

conosciuto come la “Battaglia dei Convogli”, che vide

confrontarsi nel Mediterraneo da una parte le unità

militari e mercantili italiane, impegnate a rifornire di

uomini e materiali i fronti d’oltremare, e dall’altra

parte le forze navali britanniche, prima, ed alleate, poi,

che a tali azioni si opposero.

Nel complesso si è trattato di un’attività imponente

che, per tutto il conflitto, ha visto organizzare migliaia

di convogli, ben pochi dei quali sono sfuggiti all’offesa

dei mezzi navali e aerei del nemico.

La “Guerra dei Convogli” non interessò solamente la

Marina. Scorte, difesa antiarea dei porti, afflusso,

carico e scarico dei materiali nei porti, avevano

coinvolto tutte e tre le Forze Armate.

Gli eventi sopra ricordati hanno prodotto affondamenti,

e dunque relitti, che hanno assunto valore storico.

A ciò si aggiungano i numerosi inabissamenti registrati

durante la prima guerra mondiale, soprattutto per

siluramento dei micidiali u-boote tedeschi, e tutti

quelli – andando ancora indietro nel tempo – di navi

che solcarono i mari di Sicilia nell’intero arco dei secoli

delle età moderna e contemporanea, colando a picco

per svariate cause.

La gran parte di essi è completamente sconosciuta. Di

molti è noto il dato storico della posizione

dell’affondamento.

Tutti questi accadimenti sono oggetto di annotazione e

di localizzazione nel data-base georeferenziato sopra

menzionato, che costituisce il punto di riferimento di

ogni attività della Soprintendenza del Mare nel settore

dei beni sommersi di interesse storico.

E’ importante sottolineare che l’8 aprile 2010, a

seguito della ratifica da parte del Parlamento Italiano

con legge 23 ottobre 2009 n. 157, è entrata

formalmente in vigore nel nostro Paese la Convenzione

UNESCO per la Protezione del Patrimonio Culturale

Sommerso (l’entrata in vigore, come prevede l’art. 27

della stessa Convenzione, era prevista dopo tre mesi

dal deposito dello strumento di ratifica, avvenuto l’8

gennaio 2010).

Tale Convenzione, unitamente al Codice dei Beni

Culturali e del Paesaggio, costituiranno d’ora in poi

l’indispensabile forma giuridica di gestione dei reperti

presenti nelle acque territoriali e internazionali.

Fra i principi sanciti, oltre a quello di una cooperazione

internazionale fra gli Stati membri e di salvaguardia

attraverso azioni congiunte, vi è quello della

conservazione in situ dei relitti e della tutela del loro

contesto. La Soprintendenza del Mare ancora prima

dell’entrata in vigore della Convenzione ha operato nel

rispetto di tali criteri.

Il lavoro fin qui svolto, di cui il presente volume

8

INTRODUZIONESebastiano Tusa

realizzato nell’ambito delle attività di Educazione

Permanente costituisce esempio tangibile per le azioni

di conoscenza e valorizzazione perseguite, è finalizzato

ad un corretto rapporto con questi beni.

Per le ragioni sopra esposte, penso che questo testo

costituisca un prezioso strumento per un idoneo

approccio alla conoscenza dei beni culturali sommersi

di interesse storico, ponendolo tra le iniziative più

meritevoli svolte dalla Soprintendenza del Mare

attraverso il Servizio Storico-artistico e

Demoantropologico e l’Unità Operativa III. Ritengo,

pertanto, per l’apprezzabile risultato ottenuto, di

dovere rivolgere il mio personale ringraziamento a

Emanuela Palmisano e ad Alessandra Nobili che

unitamente al personale coinvolto in questa iniziativa,

hanno portato avanti con professionalità e rigore

scientifico le attività volte alla salvaguardia e

valorizzazione di questo patrimonio.

INTRODUZIONE 9

La corazzata statunitense Iowa, in tradizionale azione di cannoneggiamento costiero, durante la prima Guerra del Golfo. Nave del secondo conflitto mondiale,

ristrutturata e trasformata in nave lanciamissili durante l’era Reagan. Anche tra le potentissime navi da battaglia vi furono, durante l’ultimo conflitto, degli

affondamenti eccellenti. E’ il caso della Yamato, corazzata della Marina Imperiale Giapponese – superiore come armamento e stazza alle nuove navi da battaglia

statunitensi classe Iowa – colata a picco per attacchi di aerei americani a 370 miglia da Okinawa il 7 aprile 1945. Nell’affondamento persero la vita circa 2.375

uomini. Il relitto giace a 300 metri di profondità e può essere considerato uno dei più grandi cimiteri di guerra sottomarini. La Convenzione UNESCO per la

Protezione del Patrimonio Culturale Sommerso introduce, tra i principi generali, la vigilanza da parte degli stati sul rispetto dei resti umani sommersi in acque

marittime (foto: en.wikipedia.org).

10

Il mare siciliano continua a svelarci pagine di storia,

anche del nostro più recente passato. È questo il

caso del recupero di un F4 Corsair, aereo caccia

utilizzato dagli Stati Uniti d’America in diversi conflitti

bellici, ma anche da nazioni europee quali Francia e

Inghilterra.

Il recupero del velivolo, avvenuto i primi di agosto del

2007, durante una battuta di pesca al largo delle coste

siciliane, ad una distanza di circa 14 miglia a sud della

costa di Portopalo di Capo Passero a Siracusa, ha colto

di sorpresa l’equipaggio di un motopeschereccio

siciliano, il ‘Carmelo Padre’, imbattutosi in questa

scoperta, che si aggiunge al già corposo elenco di

rinvenimenti in mare.

Il Corsair è considerato uno dei migliori caccia

monoposto, progettato da Rex B. Beisel nel 1938 e

costruito negli Stati Uniti a partire dall’inizio degli anni

Quaranta del XX secolo. Utilizzato soprattutto nella

guerra contro il Giappone, questo aereo, che poteva

contare su una struttura robusta e si presentava adatto

all’impiego navale, operò soprattutto nella parte finale

dell’ultimo conflitto come cacciabombardiere. Imbarcato

sulle portaerei, possedeva caratteristiche tecnico-

costruttive che lo rendevano particolarmente adatto a

questo tipo di utilizzo, come le particolari ali a forma di

‘gabbiano’. Volava ad una velocità di 700 km/h a 7000

m, con un’autonomia di volo di oltre 1.600 km.

Montava sino a sei mitragliatrici e poteva caricare sino a

1.800 kg tra bombe e razzi. Dotato di due serbatoi

supplementari da 450 litri, posti sotto la fusoliera, per

aumentarne l’autonomia di volo, grazie alla potenza del

suo motore riusciva a trasportare sino ad una tonnellata

di carico. Le ali a forma di gabbiano, particolarità del

velivolo, con un’apertura di 12,50 m consentivano di

posizionare il carrello nella parte più bassa delle ali.

Questo consentì di dotare l’aereo di un carrello corto e

robusto, funzionale alle manovre di appontaggio.

Costituì invece un impedimento alla visibilità dei piloti,

il lungo cofano motore, che costringeva a sporgersi

lateralmente dall’abitacolo durante le manovre e

soprattutto in atterraggio sulle portaerei. Il Corsair

venne interdetto dal volo sulle portaerei americane per

lungo tempo, mentre la Royal Navy, che disponeva di

almeno 1000 velivoli, lo utilizzò già a partire dal 1943

sulle sue navi più piccole di quelle statunitensi.

UN CACCIA NAVALE NEI NOSTRI FONDALIIl recupero dell’F4 Corsair e la tutela del patrimonio culturale sommerso di interesse storicoM. Emanuela Palmisano

L’aereo recuperato sulla banchina del porto di Portopalo di Capo Passero

(foto gentilmente concessa dal Comando della Capitaneria di Siracusa)

L’F4U Corsair in volo (www.warbirddepot.com)

L’F4 Corsair dopo una lenta evoluzione e modelli

intermedi, venne utilizzato dagli Americani come aereo

destinato ai reparti navali che potevano contare su una

base a terra, prevalentemente dai Marines, impiegato

nelle squadriglie della U.S. Navy e della U.S. Marine

Corps. Il prototipo del velivolo decollò per la prima

volta nel 1940 e a partire dal 1942 la sua produzione

entrò a regime.

L’F4 Corsair non è stato considerato particolarmente

innovativo nella struttura della fusoliera, anche se

alcune parti del velivolo, hanno costituito una

innovazione importante, come il carrello

completamente retrattile. Dotato di una grande elica,

quest’ultima era funzionale alla portata del motore,

2000cv, soprattutto nei primi modelli ancora tripala.

Le ali dalla caratteristica forma, riuscivano a ridurre la

resistenza aerodinamica e l’intera struttura a cassone,

ripiegabile verso l’alto, costituiva, inoltre, una

soluzione moderna, che venne in seguito adottata per

tutti gli aerei che venivano imbarcati.

Almeno dieci versioni di questo aereo sono state

prodotte, di cui variavano il numero delle mitragliatrici

che il velivolo poteva caricare, insieme alla dotazione

di bombe e razzi e i motori più o meno potenziati,

unitamente alle varianti strutturali, come per i modelli

utilizzati per i voli notturni e per le alte quote.

Soprattutto nelle versioni che furono prodotte nel

dopoguerra, consegnate a partire dall’ottobre del ’44

ed entrate in linea nel ’45, l’elica quadripala costituì

un ulteriore potenziamento per il velivolo, ponendolo

tra i migliori in assoluto.

L’F4 Corsair è stato utilizzato dall’aviazione di marina

americana nel Pacifico, durante la Seconda Guerra

Mondiale e, dopo la fine del conflitto venne impegnato in

azioni in Corea e in Indocina e dalla Francia in Algeria.

Altri esemplari furono ceduti all’aviazione militare

inglese, alla Royal New Zeland Air Force, all’Honduras,

a El Salvador e alla Marina argentina, che li utilizzò per

la caccia notturna. Nel Mediterraneo è stato utilizzato

principalmente dalla Francia.

UN CACCIA NAVALE NEI NOSTRI FONDALI 11

Corsair F4U-4 della U.S. Navy in azione - 1951 (commons.wikimedia.org)

Il velivolo con le ali ripiegate (www.vistain.com)

Nel 1956, come riferito da Pietro Faggioli, esperto di

relitti di età moderna e collaboratore della

Soprintendenza del Mare, durante la crisi di Suez il

Corsair fu presente nel Mediterraneo, imbarcato sulle

portaerei Harromanches, Dixmude, Bois Belleau e

Lafayette.

La Francia continuò ad utilizzarlo sino al 1964, mentre

gli Stati Uniti lo impiegarono quasi esclusivamente

nelle azioni del Pacifico.

Il recupero fortuito di questo caccia navale, rimasto

impigliato nelle reti da pesca, è un’ennesima

conferma della ricchezza del patrimonio culturale

subacqueo presente nei fondali circostanti la nostra

isola.

Questi beni, per i quali è considerata come prima

opzione la conservazione in situ, sono tutelati dal

Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio (D.Lgs. 22

gennaio 2004, n. 42) che, alla Sezione II “Ricerche e

rinvenimenti fortuiti nella zona contigua al mare

territoriale”, art. 94, richiama le “Regole relative agli

interventi sul patrimonio culturale subacqueo” allegate

alla Convenzione UNESCO sulla Protezione del

Patrimonio Culturale Subacqueo, adottata a Parigi il 2

novembre del 2001.

Anche gli oggetti storici appartenenti al più recente

passato, come nel caso dei relitti dell’ultimo conflitto

bellico, rientrano in tale normativa.

In merito a questi reperti c’è da notare che soprattutto

per gli aeroplani è capitato spesso di imbattersi davanti

ad esemplari unici recuperati a mare, testimonianze

superstiti di tipologie di velivoli non più esistenti tra le

collezioni terrestri.

Anche per il patrimonio culturale di età moderna e

contemporanea si ripropone quanto verificatosi in

ambito archeologico, come, ad esempio, per i

capolavori in bronzo dell’arte greca provenienti dal

mare. Di questi originali si conoscevano, molto spesso,

esclusivamente le copie in marmo di età romana,

tramandateci attraverso le collezioni museali.

Gli esempi da riportare sarebbero tanti, ma in questa

sede preferiamo rivolgere l’attenzione esclusivamente

al patrimonio culturale subacqueo di età moderna e

contemporanea.

Sottoposto a regime di tutela dal Codice dei Beni

Culturali e in applicazione della già citata Convenzione

UNESCO, ratificata dal Parlamento Italiano con la legge

del 23 ottobre 2009, n. 157, il panorama dei beni

culturali si è venuto ad ampliare, facendo crescere

l’attenzione verso quelli di età moderna e

contemporanea in ambiente subacqueo.

La Soprintendenza del Mare, ufficio periferico

dell’Assessorato Regionale Beni Culturali e

dell’Identità siciliana, unico esempio in Italia di

Soprintendenza con competenza esclusiva sul

M. Emanuela Palmisano12

Scheda tecnica dell’F4U-1 Corsair (gentilmente fornita da Pietro Faggioli,

esperto di relitti della seconda guerra mondiale)

Disegni dell’F4U-5N e di varianti (E. ANGELUCCI, Il Caccia Americano, 1985)

patrimonio culturale subacqueo, con la sua istituzione

(art. 28 della L.R. 29/12/03 n. 21) sottolinea il

particolare interesse che il legislatore ha voluto

rivolgere alla conoscenza, tutela e valorizzazione di

questo patrimonio.

Il recupero dell’F4U Corsair e la conoscenza acquisita

sull’entità del patrimonio sommerso presente nelle

nostre acque territoriali sono un’ulteriore conferma del

ruolo strategico della Sicilia nel Mediterraneo e della

rilevanza storica delle sue acque territoriali,

imprescindibile riferimento per una completa

comprensione del nostro passato.

Tutto questo non fa che ampliare la valenza culturale

del nostro territorio marino, già di per sé risorsa

ambientale da tutelare e valorizzare nel modo più

idoneo e corretto.

UN CACCIA NAVALE NEI NOSTRI FONDALI 13

Portopalo (SR), particolare delle due mitragliatrici in dotazione del velivolo

(foto Capitaneria di Porto di Siracusa)

Portopalo (SR), particolare della bandiera di identificazione, che rinvia alla

aeronautica militare statunitense, presente sulla carlinga del velivolo (foto

Capitaneria di Porto di Siracusa)

Portopalo (SR), l’aereo liberato dalle reti (foto Capitaneria di Porto di Siracusa)

Il patrimonio di relitti di età contemporanea che

giace nelle acque della Sicilia è uno dei più

consistenti del Mediterraneo per la ragione che

l’Isola si è trovata in prima linea durante il Primo ed il

Secondo conflitto Mondiale.

Nella Prima Guerra la strategia degli Imperi Centrali –

Germania, Austria, Ungheria – fu quella di giungere

alla distruzione delle flotte mercantili inglesi, italiane e

francesi per affamare, bloccare l’afflusso delle materie

prime e portare alla resa le Nazioni Alleate, l’Intesa.

Ciò fu fatto, e l’obbiettivo fu quasi raggiunto,

utilizzando una nuova micidiale arma: il sommergibile.

In Mediterraneo furono utilizzati dagli Imperi Centrali

un centinaio di sommergibili (80% tedeschi) che

tecnologicamente all’avanguardia e comandati da

giovani ufficiali motivati, determinati e ben addestrati,

riuscirono ad affondare oltre 3.000, tra navi da guerra,

mercantili e velieri.

I record di affondamenti conseguiti dai sommergibili

tedeschi durante la Prima Guerra Mondiale in

Mediterraneo non verranno mai raggiunti da

nessun’altra Marina, in tutto il mondo e considerando

anche la Seconda Guerra Mondiale. Ad esempio l’U.35

affondò 204 navi per complessive 506.117 tonnellate

di stazza lorda; l’U.39 affondò 151 navi (398.564

t.s.l.); l’U.38 ne affondò 136 (292.977). I comandanti

Von Arnould de la Perriere, Walter Forstman e Max

Valentiner sono nomi che appartengono alla storia

dell’arma subacquea. E tutto ciò nel rispetto delle

spietate leggi della guerra e dell’onore.

Durante le Seconda Guerra Mondiale vi fu invece, in

campo navale, il tentativo inglese di bloccare con

sommergibili, aerei e navi di superficie, le linee di

rifornimento che dall’Italia approvvigionavano gli

eserciti italo-tedeschi che combattevano in Africa

Settentrionale.

Tentativo fallito poiché oltre il 90% degli uomini, dei

mezzi, dei materiali caricati a Napoli, Palermo e

Trapani riuscirono a raggiungere Tripoli, Bengasi, Tunisi

e Biserta. Purtroppo però vi furono gravi perdite e per

questa ragione sono tantissimi i piroscafi che ora

giacciono, con i loro carichi, nei fondali siciliani. Vi

sono anche in mare di Sicilia molti sommergibili inglesi

e decine e decine di aerei britannici che testimoniano

la durezza della lotta. Troviamo anche parecchi

sommergibili italiani, alcuni affondati mentre si

trasferivano nelle zone di agguato (Tunisia, Algeria,

Marocco) oppure perduti nel tentativo di contrastare gli

sbarchi del luglio 1943.

Tante navi perdute, tante storie con questi nomi:

Foscolo (I), Capo Orso (I), Verde (I), Ticino (I), Caraibe

(D), Gran (D), Mostaganem (I), Devoli (I), Città di

Napoli (I), Lussin (I), XXI Aprile (I), Pistoia (I), Bivona

(I), Capua (I), Pozzuoli (I), Pierre Soulé (USN), Pegli (I),

Fabriano (I), Utilitas (I), Enrico Costa (I), Rosario (I),

Ringulv (D), Dalmatia (I), Terni (I), Empire Florizel

(GB), Talamba (GB) ...

AereiPer gli aerei, il discorso è molto particolare.

Gli aerei perduti nel mare di Sicilia dagli esordi

dell’Arma al 1940 sono un numero molto limitato ed

essendo costruiti in legno e tela, di loro, non esiste più

traccia nei fondali.

Però, a partire del giugno 1940, iniziarono i

combattimenti aero-navali attorno all’Isola ed ora

rimane sui fondali quello che è il più grande museo

esistente di aerei.

Nel Sud della Sicilia, gli aeroporti di Catania, San

Pietro di Caltagirone, Comiso, Gela, Sciacca,

Castelvetrano e Trapani, furono infatti le basi per i

decolli delle forze aeree italo-tedesche destinate alla

neutralizzazione dell’isola di Malta (punta avanzata

degli inglesi), alla protezione ai nostri convogli, ai

rifornimenti a mezzo di aereo-convogli. Tra il giugno

del 1940 e l’agosto del 1943 la nostra Regia

Aeronautica (solo quella della Sicilia) perse, tra Capo

Scaramia (Capo Scalambri) e le acque maltesi ben 400

aerei da caccia e quasi lo stesso numero di

bombardieri. I tedeschi entrarono in lizza solo nel

gennaio del 1941 e ne lasciarono in battaglia quasi il

doppio. L’elenco delle perdite britanniche, giorno per

giorno, è impressionante.

Alcuni aerei sono precipitati su terra, ma il 90% sono

caduti in mare e là giacciono.

Durante gli sbarchi del luglio 1943 gli attacchi aerei

italiani e tedeschi furono inconcludenti (pochissime

navi affondate) ma furono pagati con uno stillicidio di

15/20 aerei al giorno. Ed ora giacciono nel mare

davanti a Catania, Siracusa, Avola, Scoglitti, Gela e

14

NAVI SOTTOMARINI E AEREI DELLE GUERRE MONDIALIPietro Faggioli

Licata. Nella zona dello sbarco andò perduto anche uno

degli splendidi, avanzati tecnicamente, quadrimotori

italiani P.108.

I pescatori raccontano che quando pescano nel Canale

di Malta, devono tenere alte le reti dal fondo perché le

perderebbero impigliandole negli aerei. Chiamano quel

tratto di mare l’aeroporto.

L’altro tratto di mare nel quale giacciono centinaia di

aerei è quello tra Sciacca, Trapani, Capo Bon, Tunisi.

Per rifornire l’ultimo fronte dell’Asse, quello della

Tunisia, furono organizzati, nei primi mesi del 1943,

degli aeroconvogli per portare urgentemente delle

truppe, delle munizioni ed i materiali. I viaggi di

ritorno degli aerei da trasporto servivano per il

rimpatrio dei feriti. Fu un enorme massacro: i tedeschi

persero oltre 350 aerei, noi italiani un centinaio di

trimotori da trasporto e, data la supremazia degli

Alleati, un enorme numero di caccia di scorta. Nella

domenica delle Palme del 1943 andarono perduti oltre

50 aerei; la superiorità numerica del nemico, con

l’arrivo degli americani, era realmente enorme ed

incontenibile.

Navi da guerraLa nave da guerra più importante che dorme nei pressi

della Sicilia è l’incrociatore della Regia Marina Bande

Nere che, dopo la battaglia delle Sirti, il 1° aprile 1942

da Messina si recava a La Spezia per lavori di

riparazione a danni riportati. Nei pressi dell’Isola di

Stromboli fu colpito da due siluri lanciati dal

sommergibile inglese Urge ed affondò

immediatamente, spezzato in due parti, con la perdita

di 381 marinai (molti i siciliani). Ora giace a quasi

1.000 metri di profondità.

Moltissime gloriose torpediniere dormono anch’esse in

queste acque: il Circe è nel Golfo di Castellamare.

Questa torpediniera riuscì ad affondare ben cinque

sommergibili britannici ed andò perduta a causa di una

banalissima collisione con una nostra motonave il 27

novembre 1942.

Poco a Sud di Marsala vi è il Cigno, una piccola

torpediniera carica di gloria. La sera del 15 aprile 1943

uscì da Trapani un convoglio di mercantili diretto a

Tunisi ed era scortato dalle torpediniere Cigno e

Cassiopea.

Improvvisamente furono viste le sagome di due grossi

cacciatorpediniere britannici, il Paladin ed il Pakenham

che, guidati dai radar, aprirono il fuoco. Nonostante la

disparità delle forze, per proteggere il convoglio le due

piccole navi italiane contrattaccarono gli inglesi

permettendo ai mercantili di rientrare indenni a

Trapani. Il Paladin colpì con le artiglierie il Cassiopea

immobilizzandolo ed il Pakenham centrò il Cigno che

iniziò ad affondare. I marinai italiani della Cigno

continuarono a sparare, anche con l’acqua in coperta e

colpirono gravemente, a loro volta, il Pakenham. La

torpediniera italiana affondò ma dopo tre ore anche il

Pakenham scomparve tra i flutti, mentre veniva

NAVI, SOTTOMARINI E AEREI DELLE GUERRE MONDIALI 15

trainato dal cacciatorpediniere Paladin verso Malta.

Ambedue le navi sono sul fondo del mare dalle parti di

Marsala e di Capo Granitola.

Il mare dell’isola è pieno di gloriose nostre navi da

guerra: Climene, Bombardiere, Folgore, Maloccello,

Chinotto, Diana, Albatros ...

Navi mercantiliMoltissime sono le navi mercantili perdute, nelle acque

siciliane, durante le due guerre mondiali.

Per la Prima Guerra la più grande nave perduta è

certamente il transatlantico inglese Minnetonka da

14.000 tonnellate; fu affondato nel gennaio del 1918

dal sommergibile tedesco U.64 e giace tra Capo

Passero e Malta. Ma la lista è lunghissima: Almerian

(GB), Ardgask (GB), Glaukos (GB), Luigi Pastro (I),

Bernard Canal (I), Calliope (GB), Geo (GB), Bradford

City (GB), Karonga (GB), Rapallo (I), Pasha (GB),

Siracusa (I), Mira (FR), Erix (I), Tripoli (I), Sheldrake

(GB), Verona (I), Concettina (I) ...

Nello Stretto di Messina vi è, affondato da una mina

lasciata dal sommergibile tedesco UC.38, il primo

traghetto che collegò la Sicilia al Continente. Era la n/t

Scilla, costruita nel 1896.

Affondò il 28 agosto 1917 trascinando con sé 19

persone. Giace a circa 140 metri di profondità, sulla

costa calabra, decorosamente in assetto di navigazione,

con ancora il suo bravo cannoncino in coperta.

Pietro Faggioli16

È stato facile da riconoscere nell’acqua limpidissima

dello Stretto, con le grandi ruote propulsive ai due lati

della coperta (sulla quale vi sono ancora i binari

ferroviari).

Come già detto, moltissime motonavi e piroscafi,

perduti durante la Seconda Guerra Mondiale, dormono

vicino alle coste dell’Isola.

Vicino a Siracusa, circa 10 miglia a Sud e a 3.000

metri di profondità, vi è il Conte Rosso, un

transatlantico del Lloyd Triestino da oltre 18.000

tonnellate. Fu affondato, nel 1941, dall’asso dei

sommergibilisti inglesi, il comandante Wanklyn,

centrato dal solo siluro rimasto nel suo Upholder. Il

transatlantico trasportava truppe italiane in Libia e le

perdite furono spaventose: quasi 1.500 uomini

annegarono. Questa nave, come tantissime altre,

furono le vittime della lettura sistematica che facevano

gli inglesi dei messaggi segreti inviati dalla Regia

Marina.

Come è noto, gli inglesi, decifravano tutti i nostri

messaggi (e quelli tedeschi) trasmessi con la macchina

cifrante “Ultra”; erano a conoscenza delle rotte, della

velocità, dei carichi e dei porti di partenza e di arrivo

delle nostre navi. Sapevano bene che alcune navi, nel

ritorno dall’Africa, avrebbero trasportato i loro

prigionieri, catturati da italiani e tedeschi, ma per non far

capire che erano a conoscenza del contenuto dei nostri

messaggi e di quanto trasportavano le navi, fu dato

NAVI, SOTTOMARINI E AEREI DELLE GUERRE MONDIALI 17

ordine agli ignari comandanti di sommergibili di

affondare tutto quello che galleggiava, senza risparmiare

quelle che trasportavano i loro stessi uomini. È la

testimonianza della determinazione e della cattiveria

espressa, dagli inglesi, in guerra. In campo aeronautico,

gli inglesi non rispettarono neanche gli idrovolanti della

Croce Rossa addetti al recupero dei piloti abbattuti. I loro

piloti da caccia erano molto riluttanti ad eseguire questi

ordini ma i comandanti, a Malta, erano spietati. L’ordine

era di cancellarli dal cielo.

L’identificazioneQuando si rintraccia il relitto di un aereo, quello che di

solito è possibile fare è l’identificazione della

nazionalità, del tipo e del modello. Siamo chiaramente

nell’impossibilità di dare un nome all’equipaggio

(tranne casi particolari di presenza di sigle o emblemi

sull’alluminio delle ali o della fusoliera) perché i

rapporti di perdita dell’epoca sono estremamente

imprecisi:

<visto cadere a 15 miglia Nord Ovest da Malta>

<visto ultima volta, da Malta con fumo in coda, che

cercava di raggiungere la costa siciliana>

<caduto durante una scorta convoglio>.

L’identificazione di piroscafi, motonavi e sommergibili è,

invece, molto più agevole; le navi da guerra

appartengono ad uno Stato sovrano (ad una bandiera),

hanno un numeroso equipaggio e tutto di loro è

minuziosamente documentato. Vengono seguite in tutte le

loro carriere operative e, negli archivi delle varie Marine,

sono a disposizione del pubblico le caratteristiche,

l’armamento ed i dati di perdita o di radiazione.

I dati con le coordinate di perdita sono tutti però

maledettamente imprecisi poiché, chiaramente, quando

una nave affonda, in combattimento o per altre cause,

tutti hanno altro da fare ed è impensabile che qualche

ufficiale possa prendere il sestante per tramandare ai

posteri la latitudine e la longitudine di perdita.

Troviamo quindi indicazioni sommarie, ma comunque

utilissime, del tipo: <a 22 miglia per 220° dal Faro

della Colombaia di Trapani> oppure <4 miglia e mezzo

per Nord Ovest da Capo Gallo di Palermo>. Queste

indicazioni ci permetteranno di dare un nome, una

storia a povere masse ferrose.

Per i sommergibili è un’altra storia: una buona parte

sono andati perduti durante un’azione bellica per la

reazione antisommergibili delle navi di superficie. La

loro distruzione lascia tracce inconfondibili:

raggiungono la superficie pezzi di legno, membra

umane, bolle di cloro e di olio e sopratutto grandi

macchie di nafta. Per le navi attaccanti è più facile

prendere i punti ove si è consumata una tragedia per

certificare una vittoria.

Per gli altri, quelli partiti da un porto e poi perduti senza

ulteriori notizie (in mare si dice perduti corpi e beni) non

resta che ripercorrere idealmente la rotta che dovevano

seguire, vedere ove era collocato il più vicino campo

minato e fare delle ipotesi e delle congetture. Null’altro.

Nelle acque territoriali italiane, vicino alle coste

siciliane noi sappiamo della presenza di ben 11

sommergibili, tutti perduti durante la Seconda Guerra

Mondiale tranne uno, il Veniero, scomparso negli anni

20 per la collisione con la nave Capena e ritrovato, alla

fine degli anni ’80, da un famoso subacqueo

siracusano, Enzo Maiorca.

Quasi tutti giacciono nei fondali con l’intero loro

equipaggio. Cinque sono inglesi: il famosissimo

Thunderbolt ex Thetis, il Shaib, il Phenix, il Gramphus e

probabilmente il Tetrarch (partì da Malta e la sera

diede la sua posizione nei pressi di Marsala; il comando

di Malta lo avvertì che era nel mezzo di un campo

Pietro Faggioli18

minato italiano; non vi furono più notizie). Di italiani vi

sono il Capponi, il Saint Bon, l’FR 111, l’Ascianghi, il

Flutto e, come detto, il Veniero. Dalle parti di Messina

vi è l’U.561 tedesco.

Cosa dobbiamo fare per localizzare il relitto di una nave perdutaPrincipalmente dobbiamo tener presente una massima,

nota a tutti i ricercatori: un relitto verrà trovato solo

nel caso che lui sia disposto a farsi trovare.

Vediamo di rendere difficile la vita ad un relitto che

vuole rimaner nascosto.

Innanzi tutto è necessario fare una ricerca sui testi

storici che riportano notizie sull’argomento. Si tratta

poi di raccogliere i dati riportati nei volumi e collocare,

sulla carta nautica, i punti indicativi di affondamento

(spesso vengono riportate la longitudine e la

latitudine). In questo modo abbiamo realizzato la

ricerca storica dei relitti (ne avremo definito all’incirca

il 60% poiché i libri dimenticano, di solito, le navi

inferiori alle 1.000 tonnellate e spesso scordano i

naufragi avvenuti in tempo di pace che non hanno

registrato perdite umane).

Per la ricerca sul campo dei relitti abbiamo attualmente

due possibilità: la prima è quella di affittare una

moderna nave attrezzata con tutti i sistemi di

rilevazione di masse ferrose, ma questa è una soluzione

estremamente costosa (decine di migliaia di euro al

giorno); la seconda è quella di interpellare i pescatori,

che conoscono il fondale del ‘loro mare’ come le loro

tasche. Nei relitti è facile impigliare le reti e, per

evitare questo, i pescatori registrano i punti GPS delle

‘afferrature’. E, attorno ai relitti, vi è sempre una

grande abbondanza di pesce.

Nel 2004, durante la nostra spedizione di ricerca

dell’incrociatore Armando Diaz notammo un fenomeno

strano. Nel mare calmissimo galleggiava una macchia

di nafta: ci immergemmo e trovammo una enorme

motonave da carico affondata nel 1942 (era la

Raichenfels, tedesca).

La nave, da sessanta anni, continua a perdere,

lentamente, la nafta della dotazione di bordo. I

pescatori di Lampedusa ci hanno confermato che vi

sono altri sei posti simili presso le Kerkennah.

Molte ricerche dei relitti delle acque siciliane sono state

fatte con gli amici Andrea Ghisotti e Stefano Baldi.

Ogni riscoperta ci ha regalato immense emozioni e ha

riportato alla luce una pagina di storia che sembrava

persa per sempre.

NAVI, SOTTOMARINI E AEREI DELLE GUERRE MONDIALI 19

Propaganda e immagini di navi e sommergibili della prima metà del XX secolo

(fotografie da “Storia Militare”, per gentile concessione di Erminio Bagnasco)

PERAPPROFONDIRE

Per le navi:CHARLES HOCKING, Dictionary of disasters at sea during the age of the

steam -1824/1962.

(Le navi perdute con sacrifici umani registrate dai Lloyd’s di Londra).

ARNO SPLINDER, La guerra al commercio con i sommergibili -

1914/1918, cinque volumi.

(Le navi affondate dai sommergibili tedeschi nella Prima Guerra

Mondiale).

ROGER JORDAN, The World’s Merchant Fleets -1939.

(I mercantili di tutte le nazionalità perduti nella Seconda Guerra

Mondiale).

DAVID BROWN, Warship Losses of World War Two.

(Le navi da guerra affondate durante la II G.M.).

JURGEN ROHWER, Allied Submarine Attacks of World War Two.

(Gli attacchi alle navi avversarie dei sommergibili Alleati nella II G.M.).

JURGEN ROHWER, Axis Submarine Successes 1939/1945.

(Gli attacchi alle navi avversarie dei sommergibili dell’Asse nella II

G.M.).

Navi militari perdute - Ufficio Storico della Marina Italiana.

Navi mercantili perdute - Ufficio Storico della Marina Italiana.

Per gli aerei:C. SHORES, B. CULL e N. MALIZIA, Malta: the Hurricane Years 1940/1941.

C. SHORES, B. CULL e N. MALIZIA, Malta: the Spitfire Year 1942.

Agli inizi degli anni ’50 del XX secolo, lo sviluppo

delle attività subacquee e il diffondersi

dell’autorespiratore hanno dato il via

all’esplorazione dei fondali, fino a quel momento

visitati sporadicamente solo da alcuni palombari

professionisti e, dai pochi apneisti dell’epoca,

limitatamente ai primi metri di profondità.

Fu in un primo tempo un’esplorazione lenta e

graduale, in quanto il numero degli appassionati in

grado di acquistare tutta l’attrezzatura necessaria era

esiguo, visto il prezzo delle attrezzature e il periodo

economico, corrispondente agli anni del dopoguerra,

non certo florido. Per contro la passione dei pionieri

era tanta e i fondali pressoché incontaminati, che

svelavano tutto quello che per molti anni era rimasto

nascosto: non solo i relitti antichi, risalenti spesso a 2

millenni prima, ma anche tutti quelli che i due recenti

conflitti mondiali vi avevano concentrato.

Ovviamente lo stimolo iniziale dei primi subacquei era

piuttosto rapace e predatorio: cercare di portare a galla

qualche reperto di valore, antico o recente che fosse.

Ma non mancò nemmeno chi da subito si mise a

studiare, catalogare, raccogliere e cercare di capire

quello che il mare aveva così mirabilmente celato per

tanti anni. Nacque così, quasi in sordina, l’archeologia

subacquea, spesso con metodologie non proprio

ortodosse, che permise comunque di gettare le prime

basi di un’attività che si sarebbe velocemente

perfezionata e sviluppata negli anni.

Diverso il discorso riguardante i relitti più recenti, navi

e aerei delle ultime due guerre, che venivano guardati

unicamente come res nullius da smantellare e privare

di tutto quanto potesse essere ancora rivendibile sul

mercato: metalli pregiati, suppellettili e attrezzature di

bordo. Solo in anni molto più recenti ha cominciato a

farsi spazio, anche per questi relitti, la consapevolezza

che si trattasse comunque di un patrimonio storico,

sicuramente più recente di quello antico, ma non per

questo meno importante e degno comunque di essere

preservato. In fondo ogni relitto ha una sua identità

precisa, ha una sua storia, sempre drammatica, che lo

ha portato a terminare i suoi giorni adagiato sul fondo,

frutto a volte di aspri combattimenti, di atti d’eroismo,

di pagine drammatiche spesso dimenticate o talvolta

perfino ignorate.

Oggi finalmente questi relitti hanno acquisito una loro

dignità ed è in corso la loro classificazione da parte

delle varie Soprintendenze, accompagnata dalla

documentazione fotografica e video e dalla

ricostruzione della loro storia e, naturalmente, dalla

loro salvaguardia.

Indiscutibilmente i meriti della subacquea, in questo

processo di ricerca, documentazione e classificazione,

sono enormi. Solo in tempi molto recenti alla figura del

subacqueo munito di autorespiratore si è affiancata

quella di navi da ricerca appositamente attrezzate di

ROV (Remote Operated Vehicle) e minisommergibili,

che permettono di vedere, fotografare, filmare e anche

prelevare campioni senza richiedere la presenza di un

operatore subacqueo immerso in acqua. Ma si tratta di

attrezzature molto costose, sia come acquisto, sia come

gestione, per cui ancor oggi, almeno fino a certe

quote, l’opera del subacqueo è ancora indispensabile.

L’attrezzatura del subacqueoÈ forse il caso di analizzare per sommi capi l’attrezzatura

che ha permesso il diffondersi dell’attività subacquea.

Innanzi tutto l’autorespiratore, meglio noto come “le

bombole”. Un tempo le bombole erano sempre due,

abbinate in quello che si chiama in gergo un bibombola,

mentre oggi, per le immersioni ricreative, si preferisce

un’unica bombola di diametro e volume maggiore. Cosa

contiene la bombola? La stessa aria atmosferica che

respiriamo normalmente. Molti sono convinti

erroneamente che contenga ossigeno, un retaggio

proveniente dagli apparecchi degli incursori dell’Ultima

Guerra, che erano alimentati con questo gas.

C’è poi l’erogatore, che non è altro che un riduttore di

pressione che permette di portare automaticamente

l’elevata pressione d’aria nelle bombole (200

atmosfere a bombole cariche) a quella ambiente.

Il giubbetto equilibratore ha invece la funzione di

regolare l’assetto del subacqueo a qualunque profondità,

in modo che possa nuotare e librarsi senza peso.

Alla muta di neoprene espanso, uno speciale materiale

gommoso molto elastico, è affidato il compito di

proteggere il subacqueo dal freddo.

Occorre poi un po’ di strumentazione di controllo,

come un computer subacqueo, che calcoli

automaticamente il tempo d’immersione, la profondità

20

RELITTI E SUBACQUEAAndrea Ghisotti

e che dia indicazioni su come effettuare correttamente

la risalita con le eventuali soste decompressive.

Altro strumento indispensabile è il manometro

subacqueo, che indica la quantità di gas ancora

presente nella bombola, mentre alla maschera e alle

pinne sono delegate le due attività principali, ovvero il

poter vedere nitidamente sott’acqua e il potersi

spostare in modo efficace.

Un pizzico di teoriaAbbiamo visto che le bombole contengono normale

aria atmosferica, che è perfetta per immersioni fino a

una quarantina di metri di profondità, immersioni che

vengono classificate come ricreative o sportive. L’aria è

composta per il 79% di azoto e per il 21% di ossigeno.

Quando si respira sott’acqua, parte dell’azoto si

scioglie nel sangue e da questo viene portato nei vari

tessuti del nostro corpo, che lo immagazzinano. Se la

quantità accumulata dai tessuti supera certi livelli,

prima di tornare in superficie, occorrerà smaltirla con

una lenta risalita e con vere e proprie soste a

profondità stabilite. Questa pratica si chiama

decompressione, costituisce un imprescindibile obbligo

al termine di ogni immersione e diventa via via più

impegnativa e lunga con l’aumentare della profondità

e del tempo d’immersione.

Tutto sommato la pratica dell’attività subacquea è

semplice e, contrariamente a quanto si pensa, poco

pericolosa, anche se deve sottostare a precise regole

fisiche e fisiologiche che sarebbe pericoloso e sciocco

ignorare.

Ma ha anche dei precisi limiti legati alla miscela che si

respira, che nel nostro caso è costituita da aria

atmosferica, come abbiamo visto.

Superando infatti i 40-45 metri, i due componenti

dell’aria, azoto e ossigeno, diventano poco sicuri.

L’azoto provoca un intontimento noto come narcosi o

ebbrezza degli altri fondali, che tende a far

sottovalutare i pericoli e porta a un ottundimento

generale dei sensi, con rallentamento dei tempi di

reazione e una percezione falsata della realtà, del tutto

simile a quella provocata dall’ingestione di alcolici.

L’ossigeno, dal canto suo, diventa tossico e può portare a

una pericolosa quanto improvvisa perdita di conoscenza.

Per anni i subacquei si sono spinti a profondità anche

molto maggiori di quelle accennate, pagando però un

tributo doloroso e talvolta tragico in termini di

incidenti.

In anni più recenti si è trovata la soluzione perfetta.

Invece di respirare aria, per le immersione più fonde si

crea una miscela apposita, chiamata trimix, che

sostituisce parte dell’ossigeno e dell’azoto presente

nell’aria con una certa quantità di elio, via via

crescente con la profondità. Con queste miscele si è

aperto un nuovo capitolo dell’esplorazione subacquea,

che ha permesso di estendere il range operativo fino a

100 metri di profondità e talvolta perfino qualche

metro in più. Non si creda però che siano immersioni

semplici, in quanto le scorte di gas da portare

sott’acqua sono elevatissime e tutta la fase di risalita e

decompressione richiede apposite miscele

iperossigenate (molto ricche di ossigeno) per accelerare

le lunghissime soste decompressive. Insomma, roba da

specialisti, che devono in ogni caso avvalersi di una

complessa assistenza di superficie.

Va però da sé che le fasce più profonde dei nostri

fondali siano le meno esplorate e quelle che

permettono oggi le scoperte più interessanti.

Abbiamo scelto una piccola serie di relitti che si

trovano nelle acque siciliane, tutti situati a elevata

profondità e dunque meno noti di altri. Ognuno con la

sua storia, spesso appassionante, emersa

dall’esplorazione sul campo e da altre immersioni, non

meno fonde e interessanti, negli archivi.

LORETO, la nave degli schiaviLoreto era un vecchio piroscafo inglese, costruito nel

1912 dai cantieri Sunderlands S.B. Co., lungo una

settantina di metri e di proprietà della Achille Lauro di

Napoli.

Dopo aver trasportato a Tripoli una serie di preziosi fusti

di benzina, aveva intrapreso il viaggio di ritorno verso

Napoli il 9 ottobre, con 350 prigionieri indiani a bordo.

Il 13 ottobre, mentre arrancava sottocosta, cercando di

raggiungere Palermo, venne silurata all’altezza di Isola

delle Femmine dal sommergibile britannico HMS

Unruffled. Colpito a poppa, il piroscafo cominciò ad

affondare mentre dalla costa sopraggiungevano alcune

imbarcazioni di pescatori che avevano assistito al

siluramento. In soli 12 minuti la vecchia carretta scivolò

sul fondo di 85 metri, mietendo ben 123 vite tra i

prigionieri indiani. I sopravvissuti, portati a Isola delle

Femmine, indicando se stessi, dicevano: “io Indian

RELITTI E SUBACQUEA 21

POW” che significava Prisoner Of War, cioè prigioniero

di guerra indiano. Da qui nacque un divertente

malinteso: sporchi, bagnati, con i capelli lunghi e la

pelle olivastra, per gli abitanti del borgo era evidente

che dovesse trattarsi di indiani d’America della tribù dei

POW, probabilmente, a giudicare dai tratti somatici,

degli schiavi. Da qui il nome di “nave degli schiavi” con

cui il relitto è conosciuto.

Comunque, a parte il simpatico aneddoto, il

siluramento sembrò un bell’autogol ai comandi italiani

e tedeschi. Questa volta gli inglesi avevano fatto strage

dei loro stessi soldati! In verità, nel 1973, quando si

sollevò il segreto militare che fin’allora aveva coperto il

servizio segreto inglese Ultra di decrittazione dei

messaggi, si scoprì che l’affondamento del piroscafo

Loreto era stato deciso a tavolino, per allontanare i

sospetti sulla reale ed efficientissima capacità da parte

inglese di decifrare i messaggi trasmessi dai tedeschi

con la macchina Enigma, una specie di macchina da

scrivere che cifrava automaticamente i messaggi. Una

piccola, cinica, strage voluta per salvare molte più vite

in tante altre operazioni di guerra.

Andrea Ghisotti22

Torpediniera CHINOTTO, un fantasma sul fondoAl largo di Capo Gallo la vecchia torpediniera Chinotto,

che era uscita in pattugliamento, insieme alla

torpediniera Missori, per cercare di intercettare un

sommergibile nemico avvistato in zona, stava portando

a termine la sua missione. Proprio in fase di

avvicinamento alla costa per rientrare in porto a

Palermo, si udì una forte esplosione: il Chinotto era

finito su un campo minato, calato pochi giorni prima

dal sommergibile inglese HMS Rorqual. Spezzata in

due dalla violenza dell’esplosione, la vecchia

torpediniera scivolò in pochi attimi verso il fondo,

portando con sé 48 uomini tra marinai e ufficiali.

Scendemmo per la prima volta sul punto del naufragio

qualche anno fa. Era un’immersione impegnativa, 100

metri, che all’epoca non erano pochi, nemmeno

utilizzando le nuove miscele a base di elio. Eravamo i

primi in assoluto a vedere i resti della nostra vecchia

torpediniera ed eravamo molto emozionati. Man mano

che scendevamo, l’acqua diventava scura, senza

perdere però la sua bella colorazione azzurra.

Vedemmo i resti del Chinotto già sugli 80 metri, in

un’acqua cristallina. Dapprima un grande ammasso di

lamiere, tubi, attrezzature sconvolte dall’esplosione e

del tutto incomprensibili. Poi vedemmo una parte dello

scafo che ci sembrava più integra e ci avvicinammo a

fatica, nuotando contro una fastidiosa corrente

contraria. Sembrava la parte di prua, appoggiata sulla

fiancata destra. Ancora qualche energica pinneggiata e

potemmo ammirare in tutto il suo sinistro fascino la

sottile e affilata prua della nave, coricata come se

dormisse su un bellissimo fondale di candida sabbia

Tutto era intatto, le catene delle ancore, i verricelli,

perfino il cannone prodiero, che era ruotato verso

poppa sfondando il ponte di comando.

Scattai foto in bianco e nero, che restano, tra le tante

RELITTI E SUBACQUEA 23

scattate sott’acqua in questi anni, tra le mie preferite,

per quel senso di oblio che traspare dalle immagini.

Poi, con molto rispetto per le tante vittime, ci

allontanammo in punta di piedi.

MARIN SANUDO, la guerra dei convogliDurante i primi anni di guerra, quando in Nord Africa

si fronteggiavano le forze inglesi e quelle italiane e

tedesche, divenne di vitale importanza per noi italiani

rifornire costantemente quel fronte di armi,

vettovaglie, soldati e, soprattutto, di carburante. Un

compito arduo, svolto egregiamente dalle nostre navi

mercantili, scortate dalle unità minori della nostra

marina: torpediniere spesso risalenti alla prima guerra

mondiale e, più raramente, cacciatorpediniere.

La motonave Marin Sanudo, una bella nave del Lloyd

Triestino, requisita dalla Regia Marina, era stata

caricata a Napoli di armamenti e truppe tedesche

destinate all’Africa Korps. Scortata dalle torpediniere

Procione e Cigno, venne attaccata con siluri dal

sommergibile britannico HMS Uproar, mentre navigava

verso Tripoli e si trovava a 10 miglia a Sud Ovest

Andrea Ghisotti24

dell’isola di Lampione. Fu centrata da 3 siluri che le

squarciarono lo scafo al punto da provocarne

l’affondamento in appena un minuto.

Rintracciammo il relitto con l’ecoscandaglio in una

bella giornata estiva. L’acqua era blu e invitante, ma la

profondità superava i 75 metri e ci costrinse, al solito,

a una meticolosa organizzazione di tutta l’immersione,

in modo che nulla fosse lasciato al caso.

La prima cosa che vidi della grande nave fu il maestoso

albero di prua, che s’innalzava verso la superficie,

drappeggiato di lenze e spugne gialle. Alla sua base,

spostato verso la murata destra, un piccolo carro

armato tedesco era quasi irriconoscibile a causa delle

concrezioni che il mare vi aveva intessuto sopra negli

anni. Penetrai nella stiva di prua e fu come trovarmi a

sorvolare un arsenale militare: cannoni da campo di

ogni calibro, carrelli portamunizioni, camion, rimorchi,

casse e casse di munizioni, elmetti… Bastava però

sfiorare quell’infinito museo per far sollevare in

sospensione il micidiale limo che negli anni aveva

ricoperto ogni cosa. Riguadagnai presto l’acqua libera,

prima che la visibilità si riducesse a zero, facendomi

perdere la via d’uscita.

Un aereo a LinosaA Linosa avevo trascorso tante bellissime vacanze agli

inizi degli anni ’80, quando l’isola era ben poco

battuta dal turismo. A quei tempi non avrei mai

sognato di imbattermi un giorno in un relitto d’aereo.

RELITTI E SUBACQUEA 25

Fu Guido, il titolare del primo Diving nell’isola, a

portarmici a metà degli anni ’90. L’aereo l’aveva

trovato per caso, durante un’immersione esplorativa

profonda e l’aveva classificato come un caccia.

Ci lasciammo alle spalle i contrafforti della Secchitella

e pinneggiammo verso il largo. Sui 65 metri cominciai

a intravvedere una sagoma scura: eccolo! La carlinga

era quasi intatta, con gli impennaggi di coda ben

riconoscibili, il ruotino d’atterraggio e quello che

sembrava l’alloggiamento del pilota. Nessuna traccia

invece di ali e motore.

Quando feci vedere le foto a un esperto d’aerei, però,

sorsero i primi dubbi. Non si trattava affatto di un caccia

ma di un bombardiere leggero o di un cacciabombardiere

inglese, probabilmente un Bristol, un bimotore. Era

chiaro che dell’aereo avevo visto solo una parte.

Fui pertanto costretto a tornare l’anno seguente e,

spingendomi più al largo, tra 73 e 75 metri di

profondità, individuai i resti dell’aereo, le grosse ali, il

carrello d’atterraggio e i due motori stellari.

Si trattava ora di individuare il modello e in questo

caso l’identificazione avvenne fotograficamente,

studiando la disposizione dei cilindri dei motori. Il

dubbio era infatti tra un Bristol Blenheim e un Bristol

Beaufighter. Entrambi montavano motori stellari, ma il

Beaufighter con i cilindri disposti su due file, come

risultò dalle foto scattate sott’acqua.

Quanto all’identificazione dell’aereo, fu lo storico

Pietro Faggioli a trovare il probabile bandolo della

matassa. Presumibilmente si trattava dell’aereo del

Sergente F.W. Baum, del 252° squadrone di stanza a

Malta, abbattuto dalla contraerea dell’isola, insieme al

mitragliere Sergente W.E. Fincham, il 15 giugno 1942.

Entrambi riuscirono a salvarsi.

VALFIORITA, auto sul fondoC’è una grande nave appena fuori dallo Stretto di

Messina, che ha un nome poetico: Valfiorita. Assai

meno romantici devono essere stati i momenti che

hanno preceduto il suo affondamento, sconvolta dai

tanti incendi scoppiati a bordo a seguito di un siluro

lanciatole contro dal sommergibile inglese HMS Ultor.

Era partita da Taranto con un importante carico di

armi, carburante e mezzi di ogni tipo, con destinazione

finale Palermo, materiale necessario per fronteggiare

lo sbarco alleato in Sicilia. Nulla di quel grande

patrimonio di mezzi giunse a destinazione, ma oggi,

Andrea Ghisotti26

chi si immerge nelle stive, tra i 52 e i 70 metri di

profondità, può ammirare una parata di mezzi d’epoca,

da fare invidia a ogni museo. Si tratta di mezzi italiani

dei tempi di guerra, molto corrosi e intaccati dalla

ruggine e dai lunghi anni trascorsi sott’acqua, eppure

ancora ben riconoscibili e identificabili.

In coperta si notano parecchi resti di quel bellissimo

camion Fiat, caratterizzato dal possente radiatore

verticale, che veniva identificato come autocarro Fiat

626, un modello molto robusto, con motore a 6 cilindri

in linea che sviluppava una settantina di cavalli.

In una stiva, ormai semisommerse dal fango, vi sono

parecchie Moto Guzzi Alce, con il bel cambio a mano al

serbatoio. Parecchie sono della versione Trialce (4 marce

+ 2 ridotte e retromarcia), caratterizzata da un telaio a

tre ruote, con il classico motore monocilindrico 500 cc

Guzzi a cilindro orizzontale. Posteriormente poteva

essere installata una mitragliatrice oppure potevano

trovare posto due militari armati di moschetto.

Molto malridotta ma ancora imponente e suggestiva, una

Fiat 1500 C, una lussuosa berlina destinata sicuramente

a ufficiali d’alto rango o a qualche comando. Disponeva

di una carrozzeria aerodinamica, dalle linee armoniose e

tondeggianti ed era spinta da un bel 6 cilindri di 1493 cc

che le faceva raggiungere i 130 km/ora.

Infine, almeno due esemplari di un pezzo raro e

affascinante. La Fiat 508 Torpedo Militare, derivata

dalla famosa Balilla 508 C e realizzata espressamente

per l’Africa settentrionale, con carrozzeria torpedo e

tetto in tela. Molto robusta e adatta ai terreni

accidentati, era una specie di jeep dell’epoca.

Foto subacquee di Andrea Ghisotti

RELITTI E SUBACQUEA 27

DUILIO MARCANTE, Manuale federale d’immersione, Roma 1977.

ANNAPAOLA AVANZINI, Lezioni di Sub, Milano 1997.

K. AMSLER, A. GHISOTTI, R. RINALDI, E. TRAINITO, Guida ai relitti del

Mediterraneo, Vercelli 1995.

BRET GILLIAM, Deep Diving (edizione italiana), Trieste 1992.

TOM MOUNT e BRET GILLIAM, Mixed gas diving (edizione italiana),

Trieste 1993.

PERAPPROFONDIRE

Le artiglierie da fuoco nei secoli XIV e XV

Nei decenni iniziali del Trecento, avevano fatto la

loro comparsa sui teatri di guerra del continente

europeo i primi esemplari di una categoria di

armi per il combattimento a distanza, che per la

propulsione dei loro proietti utilizzavano un tipo di

energia assolutamente nuova; e questo diversamente

da quanto era avvenuto per qualche millennio con lo

sfruttamento della sola energia muscolare, sia che

fosse espressa direttamente come nello scagliare lance

o giavellotti, o che fosse immagazzinata e moltiplicata

dalla flessione elastica di un arco, dalla torsione delle

corde di una catapulta o dal sollevamento del

contrappeso di un mangano.

L’energia delle nuove armi era frutto di un processo di

reazione chimica, cioè della combustione accelerata di

alcune sostanze, con grande produzione di gas e

l’altrettanto violenta espansione degli stessi. Una

miscela con queste caratteristiche era prima d’allora

stata descritta intorno al 1260 dal monaco e scienziato

inglese Roger Bacon: i componenti sono già quelli che

caratterizzeranno la polvere pirica, chiamata da subito

polvere nera, che rimase in uso fino agli anni settanta

dell’Ottocento, quando venne soppiantata dalle più

potenti e meno corrosive polveri senza fumo sintetiche

a base nitrocellulosica (balistite, cordite ecc.).

Una tradizione universalmente nota vuole che questa

invenzione sia giunta nel nostro continente dalla Cina

attraverso la mediazione araba, anche se qualcuno

afferma che essa fosse conosciuta già in epoca romana,

venendo utilizzata quasi unicamente per spettacoli

pirotecnici, come del resto avveniva nella stessa Cina.

Nell’Europa del XIV secolo venne però scoperto un

sistema di impiego della polvere completamente

nuovo, che doveva rivoluzionare tecniche belliche

rimaste sostanzialmente immutate dall’antichità.

Mentre in Oriente, infatti, ci si era fermati al solo

utilizzo dei razzi (che in guerra potevano venire

adoperati unicamente come vettori di sostanze

incendiarie a causa delle loro limitata potenza), da noi

si giunse a comprendere che, accendendo una carica di

questa miscela all’interno di un contenitore aperto solo

da un lato, la pressione dei gas poteva essere

concentrata e indirizzata a lanciare fuori con estrema

violenza e velocità un proiettile solido, dotato per

questo di una gittata e di un potere distruttivo fino ad

allora sconosciuti in relazione al limitato apparato

materiale ed umano che richiedeva il funzionamento

della nuova arma. Erano nate le artiglierie cosiddette

“da fuoco”, per distinguerle dalle artiglierie

nevrobalistiche, rappresentate dagli enormi mangani e

trabucchi, che iniziarono da allora un progressivo

declino.

Un certo numero di fonti scritte e iconografiche ci

indicano che negli anni trenta del Trecento i nuovi

strumenti bellici avevano raggiunto una certa

diffusione e che era già iniziata sin d’allora quella

divaricazione nei modelli, che porterà più avanti allo

sviluppo delle armi da fuoco individuali da un lato e

delle artiglierie più o meno pesanti dall’altro. Alla fine

del XIV secolo si può dire che nessuno stato di una

qualche importanza, dell’Europa continentale e del

Mediterraneo, era privo di questa risorsa che metteva

un esercito in condizioni di netta superiorità rispetto a

chi non ne disponeva [Fig. 1].

Nel corso del XV secolo si cercò di raggiungere una

certa definizione delle categorie di armi da fuoco, pur

con i limiti dovuti a sistemi di produzione

estremamente localizzati e non standardizzati e alla

mancanza di una dottrina di impiego condivisa e

divulgata; intorno alla metà del Quattrocento notiamo

infatti la presenza di un’artiglieria medio-pesante, i cui

pezzi possiamo indicare con il termine generico di

Bombarde, destinata alla distruzione delle difese

avversarie nelle operazioni di assedio, mentre alle

bocche da fuoco di piccolo calibro (50-30 mm) e canna

28

ARTIGLIERIE DA FUOCORenato G. Ridella

La polvere neraLa polvere nera era una miscela di tre sostanze

macinate finemente, delle quali una – il salnitro o

nitrato di potassio – forniva l’ossigeno per la

combustione, mentre le altre due – ovvero zolfo e

carbone di legno dolce – erano gli elementi

combustibili che contribuivano alla formazione dei gas

propulsivi, rappresentati prevalentemente da monossido

e biossido di carbonio e da anidride solforosa.

molto allungata, come ad esempio le Cerbottane, era

devoluto il compito di tenere sotto tiro i difensori

dislocati sulle mura. Le stesse armi erano usate anche

da chi si difendeva, sia per colpire le colonne degli

assedianti sia per danneggiarne le postazioni

d’artiglieria.

Questa è, naturalmente, una semplificazione,

necessaria a spiegare i principali lineamenti di impiego

delle armi da fuoco del tempo: sappiamo infatti che

esistevano molti altri pezzi intermedi compresi tra le

due categorie sopra descritte, alcuni dei quali, specie i

più maneggevoli, iniziavano ad essere impiegati anche

negli scontri in campo aperto. Contemporaneamente,

erano state sviluppate armi leggere che potevano

essere azionate dal singolo combattente, come gli

Schioppetti, che troveranno il loro perfezionamento con

l’archibugio a miccia, comparso negli ultimi decenni

del Quattrocento.

Sulla metà del XV secolo, le bombarde in bronzo

ARTIGLERIE DA FUOCO 29

Fig. 1 Bombarda-mortaio in ferro della fine del XIV secolo proveniente da

Morro d’Alba (AN), conservata nel Museo Nazionale d’Artiglieria a Torino

[Foto: Museo]

Materiali e tecniche di produzionePer quanto riguarda il materiale e le tecniche con cui

venivano prodotte, le bocche da fuoco di questo

periodo si dividevano in due classi: quelle in ferro

erano costruite alla forgia mediante l’assemblaggio,

per battitura a caldo su mandrino cilindrico, di una

serie di verghe longitudinali di questo metallo,

rinforzate da una successione di anelli distanziati;

questa tecnica ricorda quella utilizzata nella

costruzione delle botti e non a caso l’attuale termine

inglese per definire la canna di un’arma è “barrel”

(barile, botte).

Queste artiglierie erano composte dalla “tromba”,

ovvero la canna destinata a guidare la traiettoria del

proiettile, e da un elemento separato detto “mascolo”,

costruito con la stessa tecnica ma più corto e robusto di

questa, che era chiuso sul fondo e nel quale si

comprimeva la carica di polvere nera; il mascolo veniva

anche denominato “servitore “ o “ cannone” e

quest’ultimo termine passerà in seguito a definire

l’intera bocca da fuoco.

Nelle operazioni di caricamento del pezzo, l’estremità

anteriore del mascolo veniva imboccata nell’apertura

svasata al fondo della tromba e unito a questa dalla

spinta di un cuneo inserito a colpi di mazzuolo, che

forzava contro l’estremità posteriore dell’affusto in

legno. A questo punto si introduceva dalla bocca la

palla in pietra, preceduta da un tappo di legno

(“coccone”) spinto a forza e si bloccava la palla stessa

con uno stoppaccio di sfilacce o di fieno compresso

(“bottone”). Si riempiva poi di polvere fine il foro di

accensione (“focone”) e per sparare si accendeva

quest’ultima ponendovi a contatto una miccia a lenta

combustione fissata su una particolare asta ferrata

(“buttafoco” o “fumera”) [Fig. 2].

La gittata e la potenza di queste artiglierie erano

relativamente limitate, sia a causa dei proiettili in

pietra impiegati, la cui bassa densità permetteva loro

di accumulare poca energia cinetica, sia per le deboli

cariche di polvere che gli elementi di vincolo tra

mascolo e tromba, costituiti da parti in legno e

legature di corda, erano in grado di sopportare;

occorre tenere anche conto che una parte dei gas

propulsivi sfuggivano dall’imperfetta giunzione delle

due parti metalliche citate, causando una ulteriore

perdita di potenza, mettendo talvolta in pericolo

l’incolumità dei bombardieri e costituendo una

pericolosissima fonte di incendio, in particolare nel

caso di artiglierie navali.

Dobbiamo infine annotare come in questo periodo la

costruzione di pezzi d’artiglieria in ferro colato risulti

un evento abbastanza sporadico, a causa delle

raggiunsero il loro massimo sviluppo tecnologico: il

sistema a retrocarica era stato migliorato con

l’adozione di un raccordo a vite tra la canna e il

mascolo, che garantiva una maggiore tenuta rispetto a

quello con cunei, rimasto ancora in uso nei pezzi di

ferro fucinato. Esse toccarono in quel periodo anche le

loro massime dimensioni: per esempio una bombarda

turca, prodotta nel 1464 ed ora conservata nelle

collezioni inglesi delle Royal Armouries, presenta una

lunghezza totale di oltre 5 metri, ha un calibro di 635

mm e un peso che supera di poco le 17 tonnellate ed

era in grado di sparare una palla di pietra pesante

poco meno di 300 chilogrammi [Fig. 3]. La tendenza al

gigantismo di queste armi era originata tra l’altro dal

peso specifico relativamente basso dei proiettili in

pietra – circa un terzo rispetto a quelli di ferro e meno

di un quarto rispetto a quelli di piombo – che rendeva

indispensabile utilizzare palle di grosso diametro e

massa, per ottenere sufficienti effetti distruttivi sulle

fortificazioni battute dal loro fuoco.

In quella fase storica non era assolutamente possibile

parlare di ordinamento e standardizzazione delle

bocche da fuoco, in quanto ogni pezzo faceva parte a

sé e utilizzava cariche di polvere preparate e proiettili

costruiti appositamente.

La rivoluzione tecnologica di fine Quattrocento.Pezzi, produttori e committenze nell’Europamediterranea del XVI secoloTra il 1490 e i primi anni del XVI secolo in Europa si

compie quella rivoluzione innovativa che renderà le

artiglierie non più sostanzialmente migliorabili per i

successivi trecentocinquant’anni, cioè fino alla

reintroduzione della retrocarica.

Se questo mutamento si materializza sostanzialmente

in Francia sotto il regno di Carlo VIII, i responsabili di

tali innovazioni sono da individuarsi tra anonimi

fonditori impegnati nella produzione delle bocche da

fuoco in bronzo – prevalentemente di nazione francese,

italiana, fiamminga e tedesca – che nell’ultimo quarto

del secolo XV si erano dedicati al superamento dei

molti problemi che affliggevano le artiglierie di

tradizione medievale, particolarmente nel campo della

sicurezza, della mobilità e dell’efficacia. Senza dubbio,

in questa attività di perfezionamento dei materiali

d’artiglieria, i risultati definitivi furono raggiunti dopo

una lunga sequenza di tentativi empirici, non

conoscendosi a quel tempo metodi per calcolare la

resistenza dei metalli e la potenza delle cariche di

lancio. L’intervento degli studiosi teorici in questo

campo sembra verificarsi con un certo ritardo rispetto

alle realizzazioni concrete. I primi trattati a stampa che

si occupano di metallurgia applicata alla produzione di

bocche da fuoco, di razionalizzazione dei modelli e di

Renato G. Ridella30

segue

difficoltà tecniche connesse alla liquefazione e al getto

di un metallo con alto punto di fusione, problemi che si

riflettevano sull’affidabilità e sulla sicurezza del

prodotto finito. Si doveva perciò ripiegare sulle

costruzioni in ferro fucinato e cerchiato di cui abbiamo

appena detto: con questo sistema si costruirono bocche

da fuoco di varia dimensione, ma soprattutto medie e

piccole, mentre per le Bombarde da assedio più grandi

ci si dovette rivolgere invece al sistema del getto di

bronzo fuso entro elaborate forme di argilla. Quindi,

così come per la fabbricazione delle artiglierie in ferro

cerchiato era necessaria la competenza dei fabbri

ferrai, per quelle in bronzo ci si rivolse ai maestri

fonditori di campane, molti dei quali convertirono la

loro attività a questo nuovo comparto produttivo, pur

non abbandonando del tutto quello precedente; non è

infatti raro, anche nei secoli successivi, trovare

fonditori che gettavano alternativamente campane e

cannoni.

Fig. 2 Operazioni di caricamento e sparo di una piccola bombarda.

Particolari di un arazzo nel Palazzo Doria di Fassolo a Genova, datato intorno

al 1460 [Foto: Arti Doria Pamphilj s.r.l.]

balistica elementare, iniziano ad uscire solo dagli anni

quaranta del Cinquecento. Le nuove artiglierie sono ora

caratterizzate dall’abbandono del gigantismo tipico

delle mastodontiche Bombarde da assedio

quattrocentesche, che richiedevano per il trasporto

tempi lunghissimi, con la mobilitazione di intere

mandrie di buoi; anche la messa in batteria era

un’operazione lenta e laboriosa, dovendosi montare sul

posto pesanti affusti in travi lignee, i cosiddetti “letti”,

ai quali le bocche da fuoco venivano strettamente

vincolate con bande di ferro e complicate legature di

robusti canapi.

ARTIGLERIE DA FUOCO 31

Artiglierie della seconda metà del QuattrocentoSoltanto intorno al 1480 l’architetto senese Francesco di Giorgio Martini (1439-1502) tenta una classificazione

delle artiglierie a lui contemporanee, dalla quale ho tratto questa sintesi schematica:

Categoria Portata di Palla Lunghezza

Bombarda 300 libbre (pietra) = Kg 102 diam. mm 420 15-20 piedi = m 4,50 - 6,00 (10-13 boccature)

Mortaro 200-300 libbre (pietra) = Kg 68 - 102 diam. mm 365 - 420 5-6 piedi = m 1,50 - 1,80 (4 boccature)

Mezzana 50 libbre (pietra) = Kg 17 diam. mm 230 10 piedi = m 3,00 (13 boccature)

Cortana 60-100 libbre (pietra) = Kg 20,5 - 34 diam. mm 245 - 290 12 piedi = m 3,60 (14 boccature)

Passavolante 16 libbre (piombo e ferro) = Kg 5,5 diam. mm 105 18 piedi = m 5,40 (47 boccature)

Basilisco 20 libbre (pietra) = Kg 7 diam. mm 170 22-25 piedi = m 6,60 - 7,50 (37-42 boccature)

Cerbottana 2-3 libbre (piombo) = Kg 0,7 - 1 diam. mm 50 - 55 8-10 piedi = m 2,40 - 3,00 (48-50 boccature)

Spingarda 10-15 libbre (pietra) = Kg 3,5 - 5 diam. mm 135 - 155 8 piedi = m 2,40 (15-17 boccature)

Archibugio 0,5 libbre (piombo) = g 170 diam. mm 30 3-4 piedi = m 0,90 - 1,20 (26-35 boccature)

Scoppietto 2-3 dracme (piombo) = g 57 - 84 diam. mm 22 - 25 2-3 piedi = m 0,60 - 0,90 (26-35 boccature)

Fig. 3 Immagine e disegni della bombarda turca fusa nel 1464, conservata nelle Royal Armouries a Fort Nelson (GB) [da Blackmore 1976 e Ffoulkes 1937]

In tale situazione i pezzi risultavano immobilizzati sulla

loro posizione, come ben ci sottolinea il termine allora

usato di “piantare una bombarda” nel senso di

posizionarla per il tiro, e il loro rischieramento

comportava lo smontaggio e il rimontaggio dell’intero

complesso bocca da fuoco-affusto. Le operazioni di

puntamento presupponevano la rotazione di tutto

questo pesante apparato per le variazioni direzionali, e

l’inserimento di zeppe per quelle in elevazione.

La soluzione a questi gravi inconvenienti venne

individuata, oltre che nel citato alleggerimento delle

bocche da fuoco, nell’introduzione di affusti a coda

con ruote, ai quali dette bocche da fuoco erano

vincolate mediante semplici perni di rotazione radiale,

gli orecchioni, posti in prossimità del baricentro della

canna: si conseguiva così in un’unica soluzione la

ragionevole manovrabilità dei pezzi, la

semplificazione e la velocizzazione delle operazioni di

puntamento, e la riduzione del logorio dei materiali

per la possibilità del complesso bocca-affusto di

rinculare sulle ruote.

Per quanto riguarda il tipo di alimentazione, venne

abbandonato il sistema a retrocarica a mascolo, che

presentava i citati problemi di tenuta dei gas e che fu

mantenuto soltanto per alcune artiglierie minori da

marina, brandeggiabili su forcella; si passò infatti alla

generale adozione di bocche da fuoco monopezzo in

bronzo ad avancarica.

I calibri passarono dai 4-500 mm delle bombarde da

assedio ai meno di 200 mm dei Cannoni da batteria,

grazie all’adozione di proiettili sferici in ferro colato al

posto delle precedenti palle di pietra, rispetto alle

quali essi presentavano un peso specifico più che triplo

[Fig. 4]. Si ottennero pertanto notevoli miglioramenti

dal punto di vista della balistica esterna, grazie anche

all’adozione di cariche più potenti sopportate da

camere e da canne con pareti proporzionalmente più

spesse; cariche che aumentarono ancor più le loro

prestazioni in seguito ad una migliore raffinazione del

salnitro e alla granitura delle polveri, introdotta ancora

nel Quattrocento, che consentiva un’accentuata

accelerazione della deflagrazione rispetto ai precedenti

propellenti pirici allo stato polverulento. L’aumento

delle gittate, e la maggiore potenza distruttiva sulle

opere di fortificazione, che stavano conoscendo un

parallelo processo di ammodernamento con

l’introduzione del fronte bastionato “all’italiana”

basato su spesse strutture scarpate e terrapienate,

rivoluzioneranno le tecniche di assedio delle

piazzeforti, iniziandosi così quel processo teorico-

applicativo che troverà la sua compiutezza nelle

operazioni di assedio progettate e condotte sulla fine

del Seicento dal famoso Sébastien Le Prestre Marchese

di Vauban.

Renato G. Ridella32

Fig. 4 Cannone da batteria francese (canon serpentin) di primo Cinquecento, con la volata tempestata di gigli e il porcospino simbolo del re Luigi XII (1498-

1515), esposto nel Musée de l’Armée a Parigi [Foto: Claudio Simoni]

Gli scontri in campo apertoPer quanto riguarda gli scontri in campo aperto,

possiamo osservare che le battaglie terrestri di fine

Quattrocento vedevano impegnati temibili reparti di

fanteria, potentemente squadronati ed irti di picche

ed alabarde, come quelli degli Svizzeri o dei

Lanzichenecchi; queste unità non solo erano in grado

di travolgere come un rullo compressore schieramenti

meno organizzati e motivati, ma anche di respingere

le cariche della cavalleria pesante corazzata, che

proprio allora vedrà il compimento di una crisi

iniziata un secolo prima con le disfatte subite dagli

uomini d’arme francesi a Poitiers e Crecy nel 1346 e

ad Azincourt nel 1415, ad opera degli arcieri

britannici.

D’altro canto, proprio i Francesi furono i primi a

sviluppare e ad impiegare efficacemente le artiglierie

campali, inizialmente nella spedizione italiana di Carlo

VIII (1494-95), quindi con il suo successore Francesco I

che, grazie ad esse nel 1515 a Marignano, inflisse

perdite altissime (15.000 morti) ai mercenari svizzeri al

servizio degli Sforza. I mobili pezzi da campagna

trainati da cavalli, grazie ai loro proiettili in ferro e

particolarmente con il tiro a rimbalzo, aprirono ampi

vuoti tra i ranghi serrati dei bellicosi montanari elvetici.

La differenziazione nell’impiego porterà una sempre

maggiore specializzazione delle diverse artiglierie,

ravvisabile nell’accentuata specializzazione strutturale

dei pezzi, e già nei trattati cinquecenteschi compare la

loro suddivisione in categorie. Le caratteristiche

variabili, che determinavano l’appartenenza di un

pezzo ad una particolare classe, erano rappresentate

da: 1. portata di palla, ovvero il peso espresso in libbre

del proiettile utilizzato; 2. lunghezza, espressa in

diametri di palla dai fonditori, che si servivano di

questi come misure di partenza per la costruzione delle

forme; 3. grossezze, ovvero gli spessori delle pareti

della bocca da fuoco in tre precisi punti (alla culatta,

agli orecchioni, alla gioia), in funzione della carica più

o meno potente che essa impiegava.

ARTIGLERIE DA FUOCO 33

GENERI DI ARTIGLIERIA NEL XVI SECOLO

Primo Genere (artiglierie a canna lunga)Colubrine - portata 25-30 libbre (calibro c.a 135 mm);

lunghezza 30 diametri (c.a 4 metri); peso circa 3

tonnellate. A causa del peso e delle dimensioni erano

utilizzate soprattutto come pezzi da fortezza per tiro di

controbatteria ed antinavale.

Mezze Colubrine - portata 12-15 libbre (calibro c.a 110

mm); lunghezza 30 diametri (circa 3,20 m); peso circa

1800 kg. Avevano lo stesso impiego delle colubrine,

pur con prestazioni ovviamente inferiori.

Sagri - portata 6-8 libbre (calibro c.a 90 mm);

lunghezza 32 diametri (c.a 2,80 m); peso circa 800 kg.

Potevano essere dislocati nelle fortificazioni per il tiro

contro le fanterie assedianti, ma erano soprattutto

tipici pezzi da campagna. Venivano ampiamente

impiegati anche come artiglierie da marina [Fig. 5].

Falconi - portata 3-4 libbre (calibro c.a 75 mm);

lunghezza 34 diametri (c.a 2,40 m); peso circa 500 kg.

Svolgevano pressappoco le stesse funzioni campali dei

Sagri e in particolare, grazie al loro minor peso, nei

terreni più difficili. Erano anche imbarcati su velieri e

galee come artiglierie minori.

Falconetti - portata 1-2 libbre (calibro c.a 60 mm);

peso circa 300 kg. Vale quanto detto per Sagri e

Falconi; assieme a questi ultimi, nei primi anni del

Seicento, iniziarono ad essere sostituiti nelle postazioni

difensive da pezzi spalleggiabili ancorati, come le

spingarde.

Questi pezzi, nei quali la portata di palla si dimezzava

passando dai maggiori ai minori, erano detti «ordinari»

o «legittimi». Quelli che si discostavano da questa

regola, o erano più corti o più lunghi della norma,

venivano definiti «straordinari» o «bastardi».

Secondo Genere (artiglierie a canna di medialunghezza)Cannoni - portata 50-60 libbre (calibro c.a 180 mm);

lunghezza 18 diametri (c.a 3,10 m); peso circa 2500

kg. Detti anche Cannoni da batteria, rappresentavano

le tipiche artiglierie da assedio per gli effetti distruttivi

provocati dai loro pesanti proiettili; il loro tiro

prolungato e concentrato serviva ad aprire brecce nelle

fortificazioni per consentire l’attacco delle fanterie.

Mezzi Cannoni - portata 25-30 libbre (calibro circa 135

mm); lunghezza 22 diametri (c.a 2,90 m); peso circa

2000 kg. Dapprima artiglierie da assedio

complementari, con il passare del tempo tesero a

sostituire i Cannoni grazie alla loro superiore celerità di

tiro, efficacia e manovrabilità, che compensavano il

minor peso del proiettile [Fig. 6].

Nel campo dell’artiglieria navale, dalla seconda metà

del XVI secolo divennero l’armamento principale delle

galee.

Fig. 5 Sagro navale gettato nell’ultimo decennio del XVI secolo dal fonditore

genovese Gio. Battista Gandolfo. È stato recuperato nel mare di Brsecine

presso Dubrovnik (Croazia) [Foto: Renata Andjus].

Fig. 6 Mezzo Cannone da galea prodotto intorno al 1590 dal genovese

Francesco Sommariva. Conservato nel Museo del Ejercito a Madrid [Foto:

Museo].

Quarti Cannoni - portata 12-15 libbre (calibro c.a

110 mm); lunghezza 24 diametri (circa 2,50 m);

peso circa 1400 kg. Troveranno il loro impiego

privilegiato come pezzi da campagna su teatri

operativi di pianura; assumendo nel tempo

dimensioni sempre più allungate (Quarti Cannoni

colubrinati) tenderanno a sostituire le mezze

colubrine.

I principali centri di produzioneAgli albori del Cinquecento era già iniziata quella fase

di confronto militare tra il Regno di Francia e quello di

Spagna che connoterà con una serie praticamente

ininterrotta di guerre il primo sessantennio di questo

secolo e che interesserà prevalentemente la nostra

penisola, avendo come posta in gioco il dominio su

due importanti entità politiche italiane quali il Ducato

di Milano e il Regno di Napoli. A questa competizione

principale parteciperanno come comprimari,

saltuariamente il Regno d’Inghilterra, e più

direttamente la potenza ottomana che, ormai padrona

dei Balcani, tenterà di allargare i suoi domini a nord-

ovest invadendo l’Ungheria e minacciando

direttamente la capitale del Granducato d’Austria,

Vienna. In parallelo alle operazioni belliche terrestri, il

Mediterraneo sarà teatro di sporadici scontri navali tra

le flotte spagnole e francesi, ma soprattutto di

un’endemica guerra di corsa e di pirateria ai danni del

traffico mercantile e degli insediamenti costieri; in

questa guerra sul mare si inseriranno le temibili

armate navali turche, alleate della Francia, e le

flottiglie degli incursori nordafricani che costituiranno

una minaccia continua per i centri abitati litoranei ed

insulari italiani e spagnoli.

Tale quadro di intensa conflittualità non poteva non

provocare una continua corsa agli armamenti, con

importanti sviluppi sul volume di produzione, piuttosto

che sull’innovazione delle tecnologie ormai da qualche

tempo affinate e consolidate. In riferimento al

comparto degli equipaggiamenti bellici di cui ci

occupiamo, cioè a quello delle artiglierie, il dato che

appare abbastanza evidente e in qualche modo

singolare è rappresentato dal fatto che, almeno per

quanto riguarda i primi decenni del XVI secolo, i

principali stati nazionali europei, Francia, Spagna e

Inghilterra, non dimostrano una completa autonomia

produttiva in questo campo e sono spesso costretti a

rivolgersi a poli manifatturieri esterni.

Nella prima metà del XVI secolo i principali centri di

produzione di artiglierie in bronzo in Europa si

trovavano da un lato nelle Fiandre, in particolare a

Malines-Mechelen, dove emergono importanti figure di

fonditori, dall’altro nel comprensorio bavaro-tirolese.

Riguardo l’area mediterranea in questa fase, l’Italia

giocava un ruolo preponderante, soprattutto per una

consolidata tradizione nella produzione di tali

armamenti; inoltre, i diversi potentati affermatisi nella

penisola costituivano una committenza più che

rispettabile e la somma dei pezzi d’artiglieria da essi

posseduti superava di molto, forse del doppio o del

triplo, le dotazioni dei singoli stati nazionali appena

citati. Questa situazione favorì la nascita di

un’industria di grande capacità tecnica e produttiva:

Renato G. Ridella34

segue

Terzo Genere (artiglierie a canna corta)Petrieri - portata 6-20 libbre (palla di pietra) (calibro

da 120 a 175 mm); lunghezza 18 diametri di camera

(si tratta di pezzi incamerati: cioè con la camera di

scoppio di sezione minore rispetto a quella della

canna); peso da 250 a 750 kg. Nascono come

artiglierie da marina per il tiro a mitraglia alle brevi

distanze, ma vengono anche estesamente impiegati

nella difesa delle fortificazioni [Fig. 7].

Fig. 7 Petriere medio, opera di Francesco Sommariva (fine XVI - inizi XVII

secolo), rinvenuto in un relitto presso l’isolotto di Grebeni, vicino all’isola di

Lissa in Croazia [Foto: Danijel Frka]

(Nell’ordinamento delle artiglierie genovesi i pezzi

più leggeri erano detti Smerigli. Si dividevano in

Smerigli grossi o “petrieri”, che sparavano una palla

di pietra da 2-3 libbre e avevano un calibro di 80-90

millimetri, e Smerigli picoli o “da piombo”, nei quali

veniva utilizzata una palla di questo metallo, pesante

meno di una libbra, con un cubetto di ferro al suo

interno per aumentarne il potere distruttivo: il loro

calibro variava dai 40 ai 45 millimetri. In genere

queste bocche da fuoco funzionavano a retrocarica

con il mascolo, ed erano montate su di un supporto

brandeggiabile a forcella che ne facilitava il

puntamento. Entravano in buon numero nelle

dotazioni delle navi da guerra e mercantili, ed erano

destinate alle fasi di combattimento ravvicinato).

Mortai - portata 300-400 libbre (calibro c.a 320 mm);

lunghezza 3 diametri; peso circa 400 kg. A differenza

dei pezzi del primo e secondo genere, che eseguivano

soltanto il tiro diretto, la traiettoria dei mortai era

fortemente arcuata e necessitava di calcoli angolari e

di tabelle di tiro. All’inizio venivano impiegate solo

palle di pietra per tiri distruttivi o grossi ciottoli con

effetto a pioggia (effetto srhapnel) su fanterie allo

scoperto; già alla fine del Cinquecento vennero

teorizzate e sperimentate, con queste armi, granate

esplodenti con spolette a ritardo pirico, che troveranno

un impiego diffuso dopo la metà del secolo successivo.

tutti gli stati italiani possedevano loro proprie fonderie

e maestri fonditori, ed alcuni raggiunsero presto una

completa autosufficienza, come il Regno di Napoli e il

Ducato di Firenze, mentre altri dovettero ancora

assumere tecnici esterni, come principalmente fece lo

Stato Pontificio e saltuariamente il Vicereame spagnolo

di Sicilia e il Ducato di Savoia.

Due entità italiane che seppero esprimere poli

produttivi in grado non solo di sopperire al loro

fabbisogno interno, ma di soddisfare una montante

domanda forestiera, furono le superstiti repubbliche

marinare di Venezia e Genova, favorite in questo dalla

favorevole posizione e dai plurisecolari contatti

commerciali con il resto dell’Europa mediterranea ed

atlantica, che permettevano loro di acquisire e

movimentare via mare con grande velocità e risparmio

le materie prime e inviare a destinazione con lo stesso

mezzo i prodotti finiti [Fig. 8]. Molti fonditori genovesi si trasferirono per periodi più

o meno lunghi al servizio di altri stati, e non solo

italiani, come il Regno di Napoli, lo Stato della

Chiesa, il Regno di Sicilia, il Ducato di Savoia, il

Ducato di Milano, la Repubblica di Lucca, il Regno di

Spagna e quello di Francia. Ciò determina la misura

dell’importanza assunta dalla produzione genovese di

bocche da fuoco in bronzo nel corso del XVI secolo, in

riferimento soprattutto agli stati europei che

ARTIGLERIE DA FUOCO 35

Fig. 8 Copia settecentesca di una mappa catastale del 1544, rappresentate il quartiere industriale del Molo Vecchio a Genova. Gli asterischi indicano le sette

fonderie da cannoni. [da Poleggi 1982 - elaborazione: Autore].

Fonditori a Venezia e GenovaNella città lagunare si impose la dinastia degli

Alberghetti, fonditori di artiglierie dalla fine del XV

secolo, originari di Massa Fiscaglia (Ferrara) e attivi in

Venezia fino agli ultimi decenni del Settecento.

Nel corso del XVI secolo essa espresse ben diciannove

fonditori, affiancati da esponenti della famiglia Di

Conti. Si può dire che gli Alberghetti sono attualmente

i fonditori italiani più conosciuti in patria e all’estero e

della loro produzione sopravvivono molte decine di

esemplari, conservati in diversi musei anche stranieri.

A Genova ebbero fortuna in questo campo due famiglie,

che esaurirono la loro attività nella produzione di

artiglierie nell’ambito del Cinquecento: quella dei

Gioardi, il cui capostipite Luchino I ci è noto dal 1439,

forte di quindici fonditori, e quella dei Merello con

cinque rappresentanti; ad essi si aggiunsero, nella

seconda metà del XVI secolo, tre fonditori di cognome

Sommariva e un Gio. Battista Gandolfo.

affacciandosi sul Mediterraneo necessitavano in

misura crescente di artiglierie moderne per

l’equipaggiamento del loro naviglio militare e

mercantile. Questo risulta sempre più chiaramente,

oltre che dai documenti d’archivio, anche dalla

presenza di lettere sui pezzi, per l’uso relativamente

costante da parte dei fonditori genovesi di

contrassegnare con l’iniziale del rispettivo nome di

battesimo l’artiglieria di loro produzione,

generalmente al focone (a Genova, nel Cinquecento,

il nome di battesimo era ritenuto più importante dello

stesso cognome), in sostituzione o in complemento

all’iscrizione estesa di paternità. Analoga fortuna

ebbero i veneziani, che però spesso preferivano

apporre le proprie iniziali sulla volata, come ad

esempio le famiglie Alberghetti e Di Conti.

Renato G. Ridella36

Anello di culatta Elemento di raccordo tra la culatta e

la porzione longitudinale del pezzo; è costituito da una

fascia circolare a superficie generalmente piana sulla

quale compare talvolta il nome del fonditore o la

marca che indica il peso del pezzo stesso.

Anima È la cavità cilindrica interna al pezzo la cui

parte posteriore, la camera a polvere, chiusa dalla

culatta e lunga tre o quattro calibri, è destinata a

contenere la carica di polvere nera di propulsione,

mentre la restante porzione in direzione della bocca

serve ad imprimere al proiettile la giusta traiettoria.

Arma Detta anche stemma d’armi e generalmente a

forma di scudo classico od ovoidale, rappresentava

l’insegna araldica del monarca, dello stato o del

privato, proprietari del pezzo che ne era

contrassegnato. Il complesso dello scudo e degli

ornamenti accessori era generalmente ottenuto a

rilievo nella fase di fusione, mentre gli elementi

araldici particolari venivano spesso eseguiti per

incisione del metallo a freddo. Nel XVI secolo molti

pezzi, particolarmente quelli in dotazione alle navi

mercantili, portavano uno scudo muto, ovvero liscio;

questo era dovuto o a semplici motivi di risparmio

economico oppure ad un’operazione di erasione volta

cancellare le prove di una illegittima proprietà.

Astragalo Modanatura a cordone rilevato con profilo

semicircolare od ogivale, presente sull’ultima porzione

della volata poco prima della gioia. Si tratta di un

elemento puramente decorativo, assente su un certo

Nomenclatura della bocca da fuoco ad avancarica per i secoli XVI-XVII

numero di pezzi cinquecenteschi, in particolare su

quelli francesi e veneziani.

Bocca È l’apertura terminale anteriore dell’anima

attraverso la quale si procedeva alle operazioni di

caricamento del pezzo (avancarica), e per la quale

usciva il proiettile spinto dalla deflagrazione della carica

di polvere. Il suo diametro rappresenta il calibro del

pezzo d’artiglieria, ed è leggermente maggiore di

quello del proiettile sferico utilizzato: questa differenza,

detta vento e che variava da pochi millimetri fino al

centimetro dei grossi calibri, era necessaria per

impedire che una palla di forma irregolare potesse

incastrarsi all’interno dell’anima provocando

l’esplosione o comunque la messa fuori uso del pezzo.

Calibro Come abbiamo già visto è il diametro interno

dell’anima funzionale alle dimensioni del proiettile

utilizzato dal singolo pezzo; nei secoli dell’avancarica

(XVI-XIX) non veniva espresso in unità di misura

lineari, bensì nel peso in libbre della sfera in ferro

colato impiegata (portata di palla). In realtà, per la

necessità di tolleranza rappresentata dal vento, il

calibro era superiore al diametro della palla da 1/20 ad

1/25 di quest’ultimo.

Camera a polvere È la porzione posteriore dell’anima

destinata a contenere la carica propulsiva di polvere

nera. La polvere da cannone, composta nella sua

migliore qualità da sei parti di salnitro, una di carbone

ed una di zolfo (“polvere sei, asso, asso”), era granita

in elementi della grandezza di un pisello, mentre la

cosiddetta “polvere fina”, impiegata negli archibugi e

nei moschetti, presentava una granulometria inferiore

(circa 2 millimetri). I pezzi nei quali la camera aveva lo

stesso diametro dell’anima erano detti “seguiti”, quelli

con la camera di diametro ridotto si definivano

“incamerati”.

Cordoni Si tratta di modanature decorative a rilievo

che scandiscono il pezzo nella sua lunghezza; oltre che

nel già citato astragalo, essi sono presenti nella

composizione della gioia e fungono anche da elemento

di separazione tra i rinforzi e la volata dove si

alternano con membrature concave (gole).

Culatta Costituisce la chiusura posteriore strutturale

del pezzo ad avancarica; nelle bocche da fuoco più

antiche (fine sec. XV - inizi XVI), essa presentava

all’esterno un profilo quasi completamente spianato,

che con il tempo tende sempre più alla convessità e si

arricchisce di partiture decorative il cui termine

italiano, andato presto in desuetudine, era “gioia della

culatta”. Resta invece lo spagnolo cascavel e il derivato

inglese cascabel, oltre al francese cul de lampe.

Focone È un foro di piccolo diametro che attraversa lo

spessore della parete superiore del pezzo e mette in

comunicazione con l’esterno la camera a polvere per

consentire l’accensione della carica. A tale scopo,

terminate le altre operazioni di caricamento, veniva

riempito di polvere fine contenuta in un apposito

corno: essa era poi incendiata ponendovi a contatto

una miccia a lenta combustione fissata alla speciale

picca da bombardiere detta “buttafuoco” o “fumera”.

La miccia che spunta dal focone è un puro elemento di

fantasia diffuso da fumetti e cartoni animati. Con il

progredire del numero di tiri, la porzione di gas

incandescenti che sfuggiva attraverso il focone

vaporizzava il metallo e tendeva ad allargarne il

diametro facendo diminuire la potenza di tiro; oltre un

certo limite il pezzo diveniva inutilizzabile

(“disfogonato”) e per recuperarlo all’impiego occorreva

inserire un elemento in ferro forato e filettato che

riduceva nuovamente il diametro del focone (“mettere

il dado”). Era anche denominato con il termine

francesizzante di “lumiera”.

Gioia La denominazione completa era originariamente

“gioia della bocca”, che venne presto semplificata non

dovendola più distinguere dall’abbandonato termine di

“gioia della culatta”. Si tratta dell’ingrossamento del

metallo, arricchito di modanature, visibile in prossimità

della bocca del pezzo e rispondente anche allo scopo

funzionale di appesantirne l’estremità anteriore, ma

soprattutto di irrobustirla nel settore in cui lo spessore

delle pareti era più sottile. In molti casi la forma della

gioia è tipica di una particolare fonderia o scuola di

fonditori e rappresenta perciò un utile fattore di

identificazione e di datazione. Nel XVI secolo la gioia

presenta un profilo netto e ben distinto dalla volata,

mentre nel corso del secolo successivo il raccordo tra i

due elementi diviene più fluido e svasato fino

all’adozione della caratteristica e semplificata gioia a

“tulipano” durata fino alla metà dell’ottocento.

Maniglioni Sono due appendici a ponte, affiancate e

disposte sul punto di equilibrio longitudinale del

pezzo, poco avanti gli orecchioni; a causa della loro

forma più usuale erano anche detti “delfini”.

Fungevano da elementi di presa per cavi o catene di

sollevamento quando si piazzava la bocca da fuoco

sull’affusto (“incavalcamento”) o la si toglieva da esso

(“scavalcamento”), utilizzando un’impalcatura a tre

gambe (“capra”) dotata di carrucole multiple. I pezzi

da marina venivano prodotti senza maniglioni per

questioni di praticità.

Marca del peso La maggior parte dei pezzi

d’artiglieria antichi, subito dopo il collaudo, venivano

pesati e la corrispondente misura veniva incisa nel

metallo. Questa marca permetteva di stabilire a prima

vista il valore monetario del pezzo stesso, nel quale il

costo del metallo, particolarmente per le bocche da

fuoco in bronzo, superava di molto quello della

manifattura. Il peso poteva essere espresso in libbre e

loro multipli, oppure in Cantari e Rotoli (Repubblica di

Genova, Regno di Napoli, Regno di Sicilia); in questo

caso la marca si definiva canterata.

Orecchioni Coppia di espansioni, cilindriche o

leggermente troncoconiche, contrapposte, il cui asse

interseca perpendicolarmente quello del pezzo e che

costituiscono i perni di basculamento su cui si fa

ruotare il pezzo stesso per variarne l’elevazione in

funzione della gittata richiesta. Essi risultano

posizionati un poco più avanti rispetto al punto di

equilibrio longitudinale della bocca da fuoco,

determinando uno sbilanciamento verso la culatta che

assicura la stabilità della bocca stessa durante il tiro:

infatti, la culatta è tenuta ferma contro il cuneo di

elevazione solamente dal suo peso. Nelle prime

artiglierie che li adottarono (ultimi decenni XV secolo)

il loro asse si trovava alla stessa altezza di quello

dell’anima; nel corso della prima metà del Cinquecento

tesero progressivamente ad abbassarsi finché il loro

asse divenne tangente alla circonferenza dell’anima

stessa. Gli orecchioni rappresentano inoltre l’elemento

di connessione tra la bocca da fuoco e il suo supporto

in legno, l’affusto, che li accoglie in allogamenti

semicircolari chiusi da una staffa metallica

(orecchioniera): attraverso essi l’affusto riceve e

scarica, arretrando sulle sue ruote, la forza di rinculo

provocata dallo sparo.

Pomo È l’elemento terminale posteriore del pezzo che

veniva anche detto “finimento della culatta”; la sua

forma era generalmente sferoidale ma in alcuni casi

ARTIGLERIE DA FUOCO 37

poteva assumere forme decorativamente più articolate,

fino a configurarsi in elaborate protomi umane o

zoomorfe (testa di guerriero, di leone, d’aquila ecc.).

La sua funzione pratica era quella di fornire un

appiglio per il sollevamento della culatta.

Rinforzo Con il potenziamento delle cariche di lancio,

richieste dall’esigenza di ottenere maggiori gittate e

maggior potere distruttivo, i tecnici d’artiglieria

avvertirono per via empirica la necessità di aumentare

lo spessore delle pareti del pezzo, in particolare in

prossimità della camera a polvere dove la pressione

iniziale dei gas di sparo era più elevata; il profilo delle

bocche da fuoco passò quindi da una semplice forma

cilindrica (XIV-XV secolo) ad un progressivo andamento

troncoconico. Sempre per questi motivi, inoltre, nella

porzione posteriore del pezzo stesso, la tendenza

all’assottigliamento delle pareti verso il davanti veniva

lievemente limitata; in tal modo questo settore,

definito appunto rinforzo, si distaccava con una sorta

di gradino dal resto del profilo rastremato. Già nel

Cinquecento alcuni fonditori, particolarmente quelli

fiamminghi e tedeschi, articolarono tale elemento in

due parti dette, partendo dal davanti, primo e secondo

rinforzo; tuttavia, questa soluzione sembra rispondere

più a esigenze decorative che funzionali.

Volata Rappresenta la porzione anteriore del pezzo e

il suo nome deriverebbe dal volo che la palla compiva

al suo interno prima di proiettarsi verso il bersaglio.

Renato G. Ridella38

PERAPPROFONDIRE

H.L. BLACKMORE, The Armouries of the Tower of London, I, Ordnance,

London, 1976.

C. FFOULKES, The Gun-Founders of England, London, 1969 (1ª ediz.

1937).

E. POLEGGI, Paesaggio e immagine di Genova, Genova, 1982.

R.G. RIDELLA, Genoese ordnance aboard galleys and merchantmen in

the 16th-century, in Ships and Guns. The sea ordnance in Venice and in

Europe between the 15th and the 17th century, Atti del Convegno

Venezia 11-12 dicembre 2008, Oxford, in corso di stampa.

R.G. RIDELLA, Bronze cannons of Genoese manufacture from the

Croatian seas. Identification and dating methods of the pieces of

ordnance recovered from wrecks, in Ars Nautica, Atti del Convegno

Dubrovnik 7-9 settembre 2009, Zara, in corso di stampa.

Il restauro e la conservazione dei metalli provenienti

sia da acqua dolce che dal mondo marino, può

essere attuato con metodi differenti a seconda del

tipo di metallo e del suo stato di conservazione.

Tra gli artefatti in metallo provenienti dal mare, i

cannoni occupano un posto importante nelle pratiche

di restauro sia per il numero notevole di questi

manufatti sia per la loro mole sia per la difficoltà di

ottenere attraverso i procedimenti di estrazione dei sali

una soddisfacente stabilizzazione.

I cannoni in ferroI cannoni antichi in ferro potevano essere realizzati sia

attraverso un procedimento di fusione sia attraverso la

forgiatura.

I primi si costruivano fondendo un ferro contenente

carbonio e colandolo all’interno di un grosso stampo

(con una tecnica simile ai cannoni realizzati in bronzo).

L’omogeneità strutturale e la presenza del carbonio

rallentano i fenomeni di corrosione.

Per i secondi, il ferro forgiato e bonificato a caldo

usciva dagli altiforni mescolato alla silice e ad altre

scorie che venivano espulse con la martellatura

eseguita sul ferro al calor rosso. Il risultato di questo

procedimento di bonifica è la formazione di strati di

ferro sovrapposti alternati a strati di scorie e silice, ed è

in questi strati che si insinua e si fissa lo ione cloro,

presente in gran quantità nel mare (il cloruro più

abbondante è quello di sodio), ed è uno ione

particolarmente aggressivo nei confronti dei metalli

(ferro, rame e sue leghe, bronzo = rame + stagno,

ottone = rame + zinco, argento, ecc.).

Il ferro, fin quando rimane immerso nel mare, subisce

una trasformazione lenta perché la mancanza di

ossigeno rallenta i processi di degrado; quando lo si

estrae dal mare e si porta all’aperto, senza sottoporlo a

procedimenti di stabilizzazione, rapidamente si

trasformerà in ruggine.

Normalmente questo è per sommi capi il destino dei

reperti in ferro o in ghisa trovati in mare e messi

all’aperto senza averli sottoposti all’estrazione dei

cloruri. Il ferro prima si combina con il cloro per

formare cloruro ferrico, poi si libera del cloro che dà

luogo alla formazione di acido cloridrico che attacca

altro ferro formando cloruri di ferro. Il ferro si

trasforma prima in idrossidi, poi in ossidi più stabili, di

volume fortemente maggiore del ferro di partenza.

Questo processo porta alla lenta e inesorabile

sfaldatura del ferro sotto forma di scaglie, con una

deformazione del profilo dell’oggetto che dopo

quindici-vent’anni farà sì che il cannone sembri un

torsolo di mela profondamente rosicchiato.

In tempi recenti, conoscendo il degrado irrimediabile

dei cannoni rinvenuti in mare e portati a contatto con

l’atmosfera, non potendo intervenire su tutti con

processi di stabilizzazione si è spesso deciso di lasciarli

immersi in attesa di tempi migliori. Infatti, all’interno

dello spesso strato di incrostazioni calcaree che li

rivestono si viene a creare un microambiente in

equilibrio con l’ambiente marino che rallenta

considerevolmente i processi corrosivi.

Il procedimento di restauro dei cannoni in ferro

prevede come prima operazione la rimozione dello

spesso strato di calcare, utilizzando martelli e scalpelli

di misura via via decrescente, a causa della consistenza

dura, vetrosa e generalmente assai spessa

dell’incrostazione. Eliminata la crosta si immerge il

cannone in una soluzione fortemente alcalina (soda

caustica e solfito di sodio) che viene riscaldata a 50°.

La soluzione viene sostituita ogniqualvolta lo ione cloro

supera i due grammi per litro; l’operazione procede per

un tempo che si aggira intorno ai 6-8 mesi.

Questo processo risulta dal punto di vista economico

molto oneroso, perché oltre al costo dei reagenti c’è

anche quello dello smaltimento delle soluzioni

“sature”, costo che è maggiore di quello dei reagenti

utilizzati.

Un altro metodo comune è quello che utilizza processi

elettrochimici per estrarre il cloro e ridurre le ruggini

instabili. Si avvolge il cannone con delle reti di acciaio

inossidabile mantenendole a una distanza che ne eviti

il contatto diretto con il metallo, l’elettrodo negativo si

collega al cannone e quello positivo alla rete e poi si

riempie la vasca con una soluzione basica (in genere

carbonato di sodio). La corrente viene fornita da un

raddrizzatore che trasforma la corrente alternata della

rete elettrica in corrente continua; il voltaggio deve

essere molto ridotto così come l’amperaggio per

evitare la formazione massiccia di idrogeno tra il

metallo e la crosta di ruggine. Questa reazione deve

39

RESTAURO E CONSERVAZIONE DEI METALLIPROVENIENTI DA AMBIENTE MARINOGiovanni Morigi

essere molto lenta, perché altrimenti si rischia il

distacco dello strato di ruggine e la distruzione della

superficie esterna, che è quella che conserva il profilo e

la superficie di ossidi che costituiscono ciò che resta

della superficie del cannone.

La rete di acciaio inox a volte viene sostituita

adoperando vasche di riduzione di ferro che viene

utilizzato come catodo.

Terminata l’estrazione dei cloruri, il cannone viene

lavato con acqua deionizzata calda per eliminare gli

alcali usati nel procedimento; nell’ultimo lavaggio,

all’acqua deionizzata viene addizionato nitrito di sodio

per evitare la formazione di nuova ruggine nelle fasi di

asciugatura. L’acqua di lavaggio viene poi portata a

temperature vicine ai 90° e dopo alcune ore fatta scolare

consentendo al cannone molto caldo di far evaporare

gran parte dell’acqua che impregnava la parte spugnosa

della ruggine. Successivamente si investe il cannone con

getti di aria calda per eliminare completamente l’acqua;

nel caso di cannoni di dimensione ridotta si può

utilizzare acetone che estrae anche il minimo residuo

d’acqua. Mantenendo il cannone ancora ben caldo si

applica un’abbondante quantità di cera microcristallina

che va a saturare le porosità della ruggine impedendo

all’umidità di entrare in contatto con la superficie

interna ancora costituita da ferro.

Al termine dei processi di stabilizzazione i cannoni e i

reperti in ferro andrebbero conservati in ambiente ad

umidità relativa inferiore al 50%. Questo ne

garantirebbe la migliore conservazione.

I cannoni in bronzoNei secoli che precedono il XVIII secolo i cannoni in

ferro erano costruiti in ferro forgiato e i migliori

cannoni in grado di sopportare le notevoli pressioni

interne cui andavano sottoposti erano quelli in bronzo,

ottenuti per fusione utilizzando una lega fra rame e

stagno (circa 9 parti di rame e 1 di stagno).

Il cannone recuperato nel mare di S. Leone (Agrigento),

ad esempio, è un bellissimo esemplare di cannone in

bronzo.

I cannoni in bronzo che provengono da ambienti

subacquei si presentano generalmente con una crosta di

spessore inferiore a quelli in ferro, che di conseguenza

si asporta molto più facilmente con un martello ed uno

scalpello di ferro dolce o di bronzo; in corrispondenza

dei balaustri (cornici che decorano la canna) e della

bocca di volata, si utilizzano micromartellatori

elettromagnetici per non scalfire il bronzo.

Una volta rimossa tutta la crosta, il cloro, che si è

insediato nella lega stessa, viene a contatto con

l’ossigeno e, nel giro di poche ore, affiorano delle

espulsioni di polvere cristallina color verde mela

costituite da ossicloruri di rame; è la nantochite,

cloruro rameoso, che è alla base di questo fenomeno.

Successivamente si fanno dei lavaggi continui con

acqua nebulizzata per togliere i sali in superficie che

non sono legati chimicamente al bronzo. Poi si lava,

prima con acqua corrente e dopo con acqua calda

deionizzata mista a vapore, per cercare di solubilizzare

il più possibile questi sali. Si controllano, nel

frattempo, le acque di lavaggio per vedere se

all’interno di esse ci sono ancora ioni cloro e, quando

lo ione cloro si stabilizza ai livelli minimi, si asciuga il

cannone e lo si pone nella camera ad umido per fare in

modo che questi sali di rame ed in particolare il cloruro

rameoso chiamato nantochite, che è inserito sotto la

patina a stretto contatto con il metallo, grazie alla alta

percentuale di umidità, si trasformi in paratacamite.

La paratacamite si presenta come una polverina verde

luminosa: questa mette in mostra i crateri di corrosione.

Tale corrosione, detta corrosione attiva o anche

volgarmente cancro del bronzo, si rigenera da sola tutte

le volte che l’umidità relativa supera certi valori, già al

di sotto del 60%. Si lascia in tali condizioni per

parecchi giorni, immettendo sempre vapore per

facilitare la formazione della paratacamite e

l’individuazione dei crateri di corrosione.

Durante la trasformazione da nantochite a

paratacamite si ha anche la formazione di acido

cloridico che va ad attaccare dell’altro rame e formare

dell’altra nantochite che poi si trasforma in altra

paratacamite: ecco perché viene volgarmente chiamato

cancro, in quanto si autorigenera. In realtà però non è

proprio così perché, per la formazione dei crateri di

corrosione, il bronzo ha comunque bisogno degli ioni

cloro e una volta avvenuto ciò si dà origine a dei

crateri di corrosione molto profonda.

Quando la formazione dei crateri di corrosione attiva è

superficiale, si può utilizzare questo metodo: una volta

fatti emergere tutti i crateri di corrosione, si esegue una

sabbiatura di torsolo di mais macinato, che risulta

essere molto morbida ma al tempo stesso abbastanza

efficace per asportare e svuotare i crateri di corrosione.

Questa sabbiatura viene fatta con aria ad una pressione

di 2-3 atmosfere. Svuotati i crateri di corrosione, viene

messo in luce il fondo dei crateri dove si trova il cloruro

rameoso e si fa un lavaggio immediato con acqua

deionizzata surriscaldata mista a vapore creata da una

piccola autoclave in grado di generare un getto di

vapore a 5-6 atmosfere 120°-130°.

Questo metodo si rivela molto efficace per la

stabilizzazione perché, mentre la paratacamite è

insolubile, la nantochite è leggermente solubile in

acqua calda e quindi si riescono a svuotare

completamente tutti i crateri di corrosione ed avere

così un’ottima “ripulitura”.

Un altro sistema per la stabilizzazione del bronzo,

Giovanni Morigi40

interessato da crateri di corrosione attiva, utilizza una

reazione elettrochimica impiegando un metallo meno

elettropositivo del rame. Si spalma la superficie con

una pasta semi-liquida di agar-agar e acqua, che ha il

vantaggio di mantenere l’umidità a contatto del

bronzo, poi si posa al di sopra dell’agar-agar una

laminetta d’alluminio e si dà origine alla reazione

elettrochimica. Il rame è più elettropositivo

dell’alluminio, quindi lo ione cloro si deposita

sull’alluminio corrodendolo. Dopo pochi minuti si

formano tanti forellini neri sull’alluminio: queste sono

zone dov’è avvenuta la reazione e si prosegue

sostituendo via via le laminette corrose con laminette

nuove fino a quando non compaiono più questi

forellini sulla superficie d’alluminio.

Al termine della reazione il cannone viene lavato con

acqua deionizzata calda mista a vapore controllando

che nelle acque di lavaggio non siano più presenti ioni

cloro. Il cannone viene poi ben asciugato e protetto

con cera microcristallina.

RESTAURO E CONSERVAZIONE DEI METALLI 41

Nell’ottica della lettura del mare come “museo

diffuso” di un patrimonio culturale subacqueo

che sovente, accanto a singolarità naturalistiche,

offre episodi di origine antropica legati ai viaggi

dell’uomo sul mare, i fondali della Sicilia costituiscono

un luogo di grande interesse, ancora per buona parte

da scoprire.

Il mare e la sua storia hanno da sempre appassionato

moltitudini di persone di varia cultura, estrazione

sociale ed età. Il fascino degli abissi, il richiamo di

terre lontane, il fantastico mondo della marineria e

l’oggettiva bellezza dell’elemento non cesseranno mai

di attirare l’interesse di una vastissima schiera di

persone. Tuttavia il contatto uomo-mare si manifesta

talvolta in maniera errata, provocando il

danneggiamento di una risorsa che, per taluni aspetti,

non è rinnovabile ed ha un valore collettivo da

preservare nella sua integrità.

L’esigenza di tutelare la risorsa mare è oltremodo

impellente allorquando trattiamo delle tracce (non

rinnovabili) che l’uomo ha lasciato nel corso dei

millenni sui fondali marini durante il suo passaggio o

in occasione delle sue tragedie.

Le indagini subacquee, prendendo in esame le

testimonianze inerenti il rapporto uomo-mare

attraverso le epoche passate, devono oggi occuparsi

non soltanto della ricerca di nuovi dati e reperti, come

fu nella fase pionieristica all’indomani della scoperta

dell’autorespiratore ad aria, ma anche della tutela di

questi beni che uno scorretto approccio di massa ha,

nel corso degli ultimi decenni, decimato.

È invalsa, infatti, l’abitudine di appropriarsi di reperti e

cimeli subacquei nell’errata, ma purtroppo diffusa,

convinzione che si trattasse di “res nullius” (cose di

nessuno) e che, in quanto tali, ne fosse possibile con

noncuranza l’asportazione dal fondo.

Oggi sono maturate le condizioni per recuperare il

tempo perduto, non tanto riguardo ai beni già andati

dispersi, quanto per quello che ancora giace sui fondali

dei nostri mari. La tutela è diventata attiva e capace di

intervenire con determinazione nella protezione del

nostro patrimonio culturale subacqueo.

Da una panoramica dei siti sottomarini indagati, o

anche noti semplicemente attraverso informazioni,

risulta evidente che gli studiosi hanno assegnato un

ruolo predominante ai rinvenimenti antichi e

medievali, mentre occasionale è stato l’interesse per i

beni postmedioevali.

Solo in tempi recenti galeoni, cannoni e tesori

sommersi, immagini simbolo dell’archeologia

subacquea nella letteratura e nell’immaginario

collettivo, sono usciti dal mondo della fantasia e hanno

trovato attenzione presso i ricercatori scientifici.

La nozione di tutela del patrimonio archeologico

subacqueo si è espansa, configurandosi come tutela dei

beni culturali sottomarini, ossia di quel patrimonio

storico – naturale e antropico – che contempla aspetti

archeologici, storico-artistici, etno-antropologici e

naturalistici insieme, in una lettura complessiva in

termini di paesaggio culturale di ambienti sommersi.

Le indagini sui siti di cannoni, per il pregio dei reperti,

hanno aggregato l’interesse di molti studiosi e hanno

costituito un importante volano per la diffusione di

analoghe iniziative nei confronti di tutti gli artefatti

marini di età moderna che popolano i fondali.

Ma accanto all’interesse per il patrimonio di età

moderna, si va delineando sempre più un altro

importante settore di studio, quello dei relitti di epoca

contemporanea: navi a vapore, aerei, sommergibili, ecc.

Quasi tutti questi beni sono oramai pezzi unici che il

mare ha gelosamente conservato, poiché, anche se

prodotti in serie, come la maggior parte degli aerei

dell’ultima guerra, i gemelli della terraferma sono stati

oramai spesso dismessi e rottamati.

Questi giganteschi nuovi “ospiti” dei fondali, che hanno

dato vita con la loro presenza a singolari popolamenti

floristici e faunistici, costituiscono straordinari contesti

di natura ambientale e culturale che vanno tutelati e

valorizzati, e sono già oggi meta di un turismo

subacqueo sempre più orientato verso immersioni di

interesse storico, anche a grandi profondità.

La Soprintendenza del Mare della Regione Siciliana, a

partire dalla sua costituzione nel 2004 nell’ambito del

Dipartimento Regionale per i Beni Culturali e

Ambientali ed E.P., ha potenziato studi e ricerche nel

settore. Il Servizio per i Beni Storico-artistici e Demo

Antropologici / Unità Operativa III, in sinergia con

l’Unità Operativa V - Sistema Informativo Territoriale

(S.I.T.) del Mare, ha sviluppato un censimento, su

piattaforma G.I.S., che attualmente conta oltre

42

RICERCHE, STUDIO E TUTELA DEI RELITTIAlessandra Nobili

ottocento relitti di età postmedioevale giacenti sui

fondali dei mari siciliani e del Mediterraneo

meridionale. Ciò in stretto collegamento con specialisti

dell’Istituto Idrografico della Marina, con studiosi ed

esperti del settore*, con gli Uffici e i Nuclei Subacquei

della Guardia Costiera, dei Carabinieri, della Guardia di

Finanza e della Polizia di Stato. Un importante

contributo viene fornito anche dai Diving Center, che

sempre più stanno acquisendo consapevolezza sul

rilievo che tale patrimonio culturale riveste anche dal

punto di vista economico, per lo sviluppo turistico ad

esso connesso.

Non è superfluo notare che la tutela della fattispecie

delle cose subacquee di interesse storico-artistico e/o

etno-antropologico, e cioè di quei beni culturali

subacquei la cui realizzazione si collochi

temporalmente in periodo moderno e/o

RICERCHE, STUDIO E TUTELA DEI RELITTI 43

* Un ringraziamento particolare va a Pietro Faggioli, che ha contribuito allo

sviluppo delle conoscenze fornendo una costante e preziosa collaborazione.

RELITTI

contemporaneo, sino a cinquanta anni addietro, non è

frutto di una norma recente, poiché ricompresa già

nelle prime leggi di tutela dei beni culturali. Non vi è

dubbio, comunque, che certi aspetti solo da poco sono

stati contemplati e/o attenzionati.

Per la tutela di siti subacquei di interesse storico di età

moderna e contemporanea delle acque siciliane, su

richiesta del Servizio / Unità Operativa per i beni

Storici della Soprintendenza del Mare, vengono

predisposte delle ordinanze di regolamentazione

emesse dalle Capitanerie di Porto. Scopo dei

provvedimenti, oltre alla salvaguardia dei beni

culturali sommersi e del contesto, è la loro

valorizzazione attraverso una fruizione compatibile che

consenta, altresì, con il concorso degli operatori del

settore e delle associazioni, un monitoraggio dei siti

nel tempo. In linea con le più recenti tendenze sulla

protezione del patrimonio culturale subacqueo,

piuttosto che ricorrere alla musealizzazione

tradizionale, con i conseguenti problemi di restauro e

conservazione, si predilige infatti nella maggior parte

dei casi il mantenimento dei reperti in fondo al mare,

nel luogo dove giacciono, consentendone la fruizione

“in situ”. Non tutte le ordinanze, comunque,

prevedono la possibilità di visita.

Le leggiOccorre sottolineare che i beni subacquei di interesse

storico-artistico e/o etno-antropologico delle nostre

acque non sono esclusivamente quelli oggetto delle

ordinanze con specifiche regolamentazioni poiché,

come indicato nel Decreto Legislativo 22 gennaio 2004

n. 42 “Codice dei beni culturali e del paesaggio”

(Codice Urbani) all’art. 10, «sono beni culturali le cose

immobili e mobili appartenenti allo Stato, alle regioni,

agli altri enti pubblici territoriali, nonché ad ogni altro

ente ed istituto pubblico e a persone giuridiche private

Alessandra Nobili44

Scheda censimento Beni culturali marini - Soprintendenza del Mare

senza fine di lucro, che presentano interesse artistico,

storico, archeologico o etnoantropologico» e la cui

realizzazione risalga ad almeno cinquant’anni addietro.

La norma, per i beni culturali subacquei, si completa

con l’art. 91, il quale avverte che «le cose indicate

nell’articolo 10, da chiunque e in qualunque modo

ritrovate nel sottosuolo o sui fondali marini,

appartengono allo Stato e, a seconda che siano

immobili o mobili, fanno parte del demanio o del

patrimonio indisponibile, ai sensi degli articoli 822 e

826 del codice civile». È importante evidenziare altresì

che, ai sensi dell’art. 88 «le ricerche archeologiche e,

in genere, le opere per il ritrovamento delle cose

indicate all’articolo 10 in qualunque parte del

territorio nazionale sono riservate al Ministero» (in

Sicilia il ruolo del Ministero per i Beni e le Attività

Culturali è svolto dall’Assessorato regionale dei Beni

Culturali e dell’Identità Siciliana). Tutto questo con

riferimento al territorio dello stato, e quindi al mare

territoriale (12 miglia).

Il Codice Urbani norma comunque anche i ritrovamenti

nelle 12 miglia a partire dal limite esterno delle acque

territoriali. All’articolo 94 viene infatti disposto che: «Gli

oggetti archeologici e storici rinvenuti nei fondali della

zona di mare estesa dodici miglia marine a partire dal

limite esterno del mare territoriale sono tutelati ai sensi

delle “Regole relative agli interventi sul patrimonio

culturale subacqueo” allegate alla Convenzione

UNESCO sulla protezione del patrimonio culturale

subacqueo, adottata a Parigi il 2 novembre 2001».

Per quanto riguarda le disposizioni di tutela del

patrimonio culturale sommerso in acque internazionali,

si pone l’accento sulla recente ratifica da parte

dell’Italia (legge n. 157 del 23.10.2009) della

suddetta Convenzione UNESCO (Convention on the

Protection of the Underwater Cultural Heritage).

È dunque fondamentale acquisire la consapevolezza

che non è consentito danneggiare e/o asportare dal

mare nessuno degli oggetti sopra indicati, ponendo

fine al “disinvolto” prelievo di artefatti di ogni tipo dai

relitti delle nostre acque e delle acque internazionali.

Nelle pagine che seguono si presentano alcuni studi e

ricerche relativi al patrimonio di interesse storico dei

nei nostri mari, effettuate nel corso di questi anni,

insieme ad immagini di categorie di “cose” che si

rinvengono solitamente sui fondali.

RICERCHE, STUDIO E TUTELA DEI RELITTI 45

La mappa visualizza i siti subacquei caratterizzati da reperti/relitti di interesse storico-artistico e/o etno-antropologico delle acque siciliane nei quali vige

attualmente un’ordinanza di regolamentazione. Le ordinanze, emesse dalle Capitanerie di Porto e dagli Uffici Circondariali Marittimi, sono consultabili

ordinariamente sul sito web della Guardia Costiera.

Alessandra Nobili46

Aerei tedeschi - prima metà XX secolo (Luftwaffe Museum, Berlin-Gatow). Foto di Alessandra Nobili

LA PERDITA DEL PIROSCAFO INGÉNIEUR GÉNÉRALHAARBLEICHER A STROMBOLIUn anziano signore che nel 1945 viveva a Stromboli,

nel piccolo borgo di Ginostra, a Sud-Ovest dell’isola,

ricorda benissimo quanto accadde quella notte. Era

Ufficiale di Stato Civile, ma non solo, poiché nel

minuscolo centro di 150 anime era necessario

svolgere una serie di differenti incarichi, per far

fronte alle esigenze delle famiglie che lì vivevano.

Attorno a mezzanotte fu svegliato da un addetto

postale, che aveva sentito un gran rumore. Era una

serata di bufera, ma il mare sotto Ginostra era calmo,

perché spirava vento di Greco e Levante. Pioveva a

dirotto e non si vedeva quasi niente. Scese allo scalo,

il piccolissimo approdo denominato “Porto Pertuso”, e

vide una grandissima nave tutta illuminata a breve

distanza dalla costa, incagliata negli scogli. Dal

ponte, altissimo, erano state calate delle scale di

corda. Alcuni abitanti di Ginostra accorsero per dare

aiuto, ma l’equipaggio della nave inizialmente non

capì le buone intenzioni e lanciò su di essi pezzi di

carbone, per tenerli lontani. L’imbarcazione rimase lì

a lungo, in attesa di essere disincagliata. In quel

periodo giunsero molti soccorsi. Parte del carico fu

sgombrato. Dalla prua della nave era stata montata

una piccola funivia, per i collegamenti con la riva. Si

susseguirono una serie di tempeste da Ponente e

Maestrale che danneggiarono ulteriormente la nave e

la sbatterono a riva, procurando anche perdite di

persone e mezzi ai soccorsi. Una violentissima

mareggiata, dopo circa 20 giorni, spezzò in due lo

scafo. Il mercantile era fuori dall’acqua dalla prua

fino al ponte di comando, sulla scogliera di Ginostra;

il resto rimaneva sommerso. Fu dichiarata la perdita

AEREI

della nave. Tutti andarono via. Per alcuni anni, nella

buona stagione, la ditta Nicola Fragliasso di Napoli

fece dei recuperi di materiale (ferro, ottone,

munizioni, ecc.), ma i lavori erano lenti e faticosi,

anche per la natura della costa, alta e senza buoni

ripari, e per la giacitura del fondale che lì scende

rapidamente. Il relitto fu distrutto dal mare, negli

anni. Al fondo rimangono alcuni resti sparsi, sotto le

alghe e la sabbia vulcanica. Oggi poche persone

possono ancora raccontare quella storia. Tra questi il

sig. Antonino Criscillo, che ci ha riferito gli eventi

come se fossero accaduti ieri, anche perché per la

piccola e isolata frazione di Ginostra del dopoguerra

quello fu un avvenimento straordinario.

La nave era l’INGéNIEUR GéNéRAL HAARBLEICHER,

grosso mercantile a vapore (132,11 metri di lunghezza,

7.067 tonnellate di stazza) di costruzione britannica

(cantieri William Hamilton & Co. Ltd, Port Glasgow)

varato appena un anno prima, il 9 febbraio 1944, con

la denominazione EMPIRE CALL per il Ministry of War

Transport. Praticamente nuovo, partecipò allo sbarco in

Normandia, lasciando il Tamigi in convoglio e

arrivando il 10 giugno nel settore Gold Beach

(Arromanches). Passato al Governo Francese dopo la

fine della guerra, fu dato in gestione alla Compagnie

Générale Transatlantique il 25 ottobre 1945 a Tolone,

ribattezzato con il nome dell’ingegnere generale del

Genio Marittimo Maurice André Haarbleicher, morto in

deportazione ad Auschwitz il 4 maggio 1944. Il 18

novembre 1945 il piroscafo prese il mare per il suo

primo viaggio, da Marsiglia a Saigon, con a bordo 33

militari e un carico di vettovaglie e materiale per le

truppe francesi d’Indocina: munizioni, veicoli e altro,

persino gatti e trappole per topi. Nella notte tra il 20 e

RICERCHE, STUDIO E TUTELA DEI RELITTI 47

Il piroscafo Ingénieur Général Haarbleicher (da: www.frenchlines.com) Il luogo del naufragio

La scogliera sotto la frazione di Ginostra Lo “Scalo Pertuso”

Lloyd’s Register - stralcio relativo al piroscafo

il 21 novembre, poco dopo la mezzanotte, in condizioni

di totale oscurità a causa del maltempo la nave si

incagliò davanti a Ginostra, a breve distanza dalla riva.

I soccorsi si susseguirono per parecchi giorni, anche

con l’ausilio di sommozzatori, ma la nave venne

battuta a più riprese dal mare, finendo sulla costa, e il

giorno 10, sotto una tempesta che a detta degli isolani

fu la più violenta subita negli ultimi dieci anni, la nave

si spezzò in due. L’ispezione che seguì riscontrò che lo

scafo si era deformato a poppa ed era spaccato

all’altezza della stiva n. 4. Il carico di munizioni della

stiva n. 2 non si era spostato, ma molte altre cose

erano sparite, come i camion sul ponte, strappati via

dalla forza dell’acqua. I tentativi di recuperare la nave

furono abbandonati.

Benché il relitto sia stato finito di demolire dal mare,

negli anni, ci piace pensare che a Ginostra rimangano

tracce di quell’affondamento: gatti di discendenza

francese e forse camion arrampicati sulle pendici del

vulcano, a chissà quali profondità.

ANCORA ALLA FOCE DEL TORRENTE S. FILIPPO - MEÈ un’ancora in ferro di grandi dimensioni e giace a 27-

30 metri di profondità, a circa 100 metri dalla riva. Si

trova nello Stretto di Messina, alla foce del torrente S.

Filippo, in prossimità della costa delle frazioni di

Contesse e Pistunina (Messina). È stata oggetto della

segnalazione dei subacquei dell’Associazione Sportiva

Dilettantistica “Sub dello Stretto” di Contesse, nel

marzo del 2009.

Ha fusto a sezione pressoché circolare, braccia arcuate

e marre triangolari, ed è in ferro forgiato. È orientata

Nord-Sud, con il diamante verso Nord, su un fondale in

forte pendenza. Nei pressi viene segnalata una catena

che scende verso il fondo. La posizione del reperto

indica un ancoraggio in presenza di corrente dello

Stretto “scendente”. È evidente che non si tratti di un

pezzo perso accidentalmente poiché regolarmente

aggrappato al fondo. Non si hanno notizie di un relitto

nelle vicinanze, né di affondamenti.

La parte posteriore dell’ancora, con riguardo al tipo di

ceppo, benché non del tutto in vista (il tratto terminale

del fusto è interrato) e considerevolmente concrezionata,

evidenzia elementi spezzati e/o in larga misura mancanti.

Quanto sopra, insieme con la perfetta posizione delle

marre in assetto di presa, già al primo sopralluogo della

Soprintendenza del Mare fece pensare ad un ceppo

ligneo, totalmente disgregatosi, del quale rimanesse

qualcosa del sistema di fissaggio, in ferro (orecchioni,

Alessandra Nobili48

PERAPPROFONDIRE

MANIFESTI PUBBLICITARI

Compagnie Générale Transatlantique (www.allposters.com)

MENSUN BOUND, Archeologia Sottomarina alle Isole Eolie, Marina di

Patti 1992, p. 124.

L’Ingénieur général Haarbleicher, in “Navires & Histoire”, n. 47, maggio

2008, pp. 62-63.

www.frenchlines.com.

cerchiature?). Lasciava perplessi infatti la possibilità che

un eventuale ceppo in ferro potesse essersi rotto o ablato

senza che le braccia, perso traumaticamente quello che

costituisce il loro elemento di equilibrio, non si fossero

ribaltate ponendosi in orizzontale.

Era necessario un approfondimento delle indagini per

ulteriori considerazioni sulla zona del ceppo, oltre che

per la verifica riguardante la catena.

A seguito di una breve scopertura effettuata durante

un successivo sopralluogo, furono rinvenuti i tipici

tubuli affiancati della “Teredo navalis”, di grosse

dimensioni (quasi un centimetro di diametro). Come

ipotizzato, fu evidente l’originaria esistenza di un

ceppo in legno, completamente divorato da quegli

organismi xilofagi che, scavando gallerie, intaccano la

struttura lignea, indebolendo la resistenza meccanica

della struttura ed aumentando la superficie di attacco

per le muffe ed i batteri.

Non si è invece riusciti a trovare traccia della catena.

I dati e le ricerche condotte ci hanno fatto ritenere che

l’esemplare della foce del torrente S. Filippo possa

essere un’ancora di spirito pienamente Ottocentesco,

dalle misure normalizzate, con dimensioni complessive

del fusto di più di cinque metri, e peso, al netto del

RICERCHE, STUDIO E TUTELA DEI RELITTI 49

Ancora alla foce del Torrente S. Filippo - Messina (foto Soprintendenza del Mare)

Teredo navalis

La Teredo navalis (Linneo, 1758)Si tratta di molluschi perforatori del legno

estremamente comuni; solo una piccola porzione delle

parti molli è contenuta dalle valve, di foggia singolare,

dalle quali si diparte un tubo calcareo talora

lunghissimo (fino a 30 cm), terminante con due

ulteriori parti dette “palette”. Le palette costituiscono

un carattere distintivo preciso, fra le diverse specie;

purtroppo il lungo tubo è normalmente molto più

fragile del substrato ligneo in cui si trova, e non è

dunque agevole recuperare un esemplare completo. È

facile reperire frammenti di legno spiaggiati, in cui

alloggino anche decine di esemplari di Teredo.

ceppo, di circa 3000 kg. Considerando che in alcuni

manuali del XIX secolo il rapporto peso-nave/ancora è

indicato in 1/40, per i 3000 kg del pezzo in questione

si può immaginare l’appartenenza ad una nave da circa

1200 tonnellate. È comunque necessario tenere conto

del fatto che le navi recavano sempre diversi tipi e

varie dimensioni di ancore, in relazione alle funzioni e

alle circostanze per le quali dovevano essere utilizzate.

Tali considerazioni sono comunque da ritenersi

indicative, poiché le variabili dei luoghi e degli anni di

fabbricazione, soprattutto in relazione alle

sperimentazioni e ai grandi mutamenti in atto, nel

periodo, nelle tecniche di costruzione navale, davano

luogo a notevoli differenze anche nella tipologia e

nell’uso delle ancore.

Elementi per la caratterizzazionePer la caratterizzazione del reperto sono state fatte

delle considerazioni tipologiche e metriche, comparate

con gli elementi contenuti nella trattatistica.

Un dizionario tecnico del 1830 dà il quadro delle

dimensioni di dieci ancore le più usitate nella marina,

dai 3000 ai 50 chilogrammi, tratto dalle Memorie

dell’Accademia delle Scienze.

Confrontando la tabella con i dati misurabili

dell’ancora della foce del torrente S. Filippo, si rileva

che appaiono in buona sostanza corrispondenti a quelli

indicati per un’ancora da 3000 chilogrammi.

La lunghezza del braccio della nostra ancora, dal

diamante alla fine del becco (m 1,95), coincide con la

somma delle tre lunghezze “delle braccia fino alle

marre” + “della parte delle braccia coperta dalle marre”

+ “dei becchi” (m 0,88 + 0,92 + 0,14 = m 1,94).

La circonferenza del fusto misurata circa a metà

dell’ancora (m 0,88) corrisponde ad un valore medio

tra la“grossezza del fusto nel forte” e quella “nel

debole” (m 1,00; m 0,63). La lunghezza visibile del

fusto (m 4,75) è compatibile con quella riportata nella

colonna come “lunghezza del fusto” (m 5,42).

La tabella si riferisce ad un’ancora con ceppo ligneo,

poiché vengono indicate le misure della lunghezza e

della larghezza dell’incastro: il peso riportato nella

tavola è dunque quello dell’ancora escluso il ceppo.

Nella storia del territorio di quella porzione del

messinese c’è un evento che, come suggerito dai

subacquei segnalatori, si è portati a richiamare e a

legare all’ancora. È il tragico epilogo della rivolta

della città di Messina contro il governo Borbonico.

Sollevatosi nel gennaio del 1848 inalberando il

tricolore sui forti della città, il governo repubblicano

di Messina resistette per nove mesi alle offensive

borboniche finché ai primi di settembre le truppe del

re di Napoli guidate dal generale Filangeri, con una

manovra d’aggiramento da Sud, sbarcando sulla

spiaggia di Contesse il 6 settembre, riuscirono a

conquistare la città.

Gli elementi in nostro possesso non sono sufficienti a

confermare la possibile appartenenza dell’ancora ad

una delle navi che stazionarono davanti alla costa, in

vista dello sbarco. Tutte le ipotesi restano però

aperte.

Le grandi dimensioni e la posizione ancora verticale,

in assetto di presa, benché non più equilibrata dal

ceppo e contrastata dalle forti correnti dello Stretto,

ne fanno, in ogni caso, un reperto storico di

particolare interesse.

Una pagina di storia. La soffocazione della rivoltasiciliana: Messina settembre 1848 [...] Egli [il re di Napoli] ben sapeva, che le mutate

condizioni italiane, avevano ugualmente mutato le

favorevoli intenzioni di Francia ed Inghilterra

inverso la Sicilia; sapeva, che le sventure italiche

tornavano a fortuna della sua causa, per cui

rafforzato dalla ripresa possanza austriaca nella

penisola, sicuro della diplomazia, e fidente nella sua

audacia, non altrimenti a quelle note rispondeva,

che facendo movere il giorno seguente alla volta

della Sicilia la sua armata. Componevano la

spedizione tre grosse navi a vela, sei vapori da

guerra, cinque di minor forza, due corvette, e molta

quantità di piccoli legni. Erano su quel navilio

imbarcati due reggimenti svizzeri il terzo ed il

quarto, ai quali dovevansi congiungere tutte le

milizie che stavano nelle Calabrie, oltre il presìdio

della cittadella. Sommavano queste milizie a tredici

Alessandra Nobili50

Dizionario tecnico del 1830 (da “Memorie dell’Accademia delle Scienze”).

mila novecento uomini tra fanti, artiglieri,

pontonieri, zappatori, pionieri, e buon numero

corrispondente di cannoni, una parte de’ quali era

per la cittadella destinata. Aveva il supremo

comando il generale Carlo Filangieri, prode soldato

de’ tempi napoleonici, e figliuolo a quel Gaetano

Filangieri, che l’Italia riverisce come uno de’ suoi

più insigni giureconsulti e statisti. Giungevano il 31

agosto le navi borboniche nelle acque di Bagnara,

paesetto della Calabria, il quale guarda il Tirreno a

poche miglia dallo stretto del Faro, e poco lungi da

Reggio, città prescelta a raccogliere tutte le forze

della spedizione. Era Reggio per la sua geografica

posizione sul canale di Messina rimpetto alla

cittadella, e per le facili comunicazioni col

continente, il punto più acconcio ai movimenti

strategici, che il Filangieri avea divisato di operare

[...]. Or veggendo egli, che solo impedimento, il

quale poteva contraddirgli la discesa nell’isola era

quel forte eretto a trecento tese dal bastione Don

Blasco [Messina], avvisò di doverlo, avanti ogni

cosa, distruggere, e dare alle sue operazioni

cominciamento. Rafforzata quindi la cittadella con

un battaglione del terzo svizzero e mezza batteria di

obici, comandava che la notte dal 2 al 3 di

settembre la fregata a vela la Regina, e ventun legni

minori rimorchiati dalle quattro navi di guerra il

Roberto, il Ruggiero, il Carlo III, e il Sannita

movessero inverso gli opposti lidi siciliani;

distruggessero la batteria nemica, ed operassero una

ricognizione per iscoprire, se fra il bastione Don

Blasco e il villaggio di Contesse, contenente lo

spazio di oltre due miglia, avessero i siciliani altri

munimenti elevati. Sull’albeggiare infatti del 3 di

settembre, i piccoli legni stavano dirimpetto agli orti

delle Moselle disposti su due linee in battaglia. Le

quattro navi formavano la terza linea; la fregata

Regina il retroguardo. Cominciavasi ad un tratto

vivissimo il fuoco dalle navi, da’ legni sottili, e dal

forte Don Blasco. Rispondevano vigorosamente i

siciliani, ed il cannone del Noviziato danneggiava in

particolar modo le navi borboniche. Ma ciò

nonostante il fuoco nemico in breve tempo lo

spalleggiato della siciliana batteria disfaceva,

rendendo vana del tutto ogni prolungata difesa.

Allora dava il Roberto il convenuto segnale, e dalla

cittadella sortivano quattro compagnie del quarto di

fanterìa, tre del sesto, un secondo battaglione

composto delle compagnie scelte de’ due cennati

reggimenti, un battaglione svizzero, artiglierìe e

zappatori [...]. Intanto i siciliani durante il cammino

che percorrea il nemico, combattevano

incessantemente dalle case, dalle mura, e dalle

siepi. [...] questa prima giornata al Filangieri

dimostrava, cotesta non poter esser altro, che guerra

piena di molte difficoltà e pericoli, avendosi a

condurre l’esercito in paese interamente nemico, e

contro uomini stimati valorosi, e difenditori di lor

libertà ed indipendenza. Tuttavia [...] ei proseguiva

fidente, e senza dubbiezze, la sua impresa.

Appalesato in tal guisa il suo disegno, era evidente

che la discesa non poteva aver luogo, che sul

terreno tra il forte Don Blasco e il villaggio di

Contesse [...]. Passava il dì quattro settembre fra un

terribile cannoneggiare dalla cittadella e dalle

batterie messinesi, non ismettendo la notte la mutua

rabbia e le ire. [...] tutto era devastazione, tutto

rovina, ed immensi globi di fumo ingombravano le

vie, impedivano il passaggio e la difesa [...].

Seguivano maggiori lutti ed aspra lotta nella sesta

giornata del settembre [...]. Sorgeva infatti l’alba

funesta di quel giorno, e tutta l’armata borbonica,

levate le ancore da’ lidi calabresi, navigava alla

volta di Messina. Giunta su la spiaggia dirimpetto al

villaggio di Contesse, i piccioli legni sostenuti in

seconda linea dalle grosse navi, aprivano il fuoco

spazzando il terreno da ogni impedimento, e

rendendo sicuro da ogni sorpresa il disbarco. Primi

a discendere furono i marinai, e poscia le milizie.

Avanzavasi il primo battaglione de’ cacciatori fra

siepi e vigneti, che conducevano sulla via consolare,

ove sta posto il villaggio. Ma questo ardimento de’

regi forte resistenza incontrava, poiché una schiera

di dugento valorosi contrastava la marcia a quel

battaglione, e con gravi perdite di morti e feriti lo

respingeva. Il Filangieri allora ordinava: dovesse il

general Lanza, a sostegno del primo cacciatori,

avanzare col terzo battaglione, ed il quinto,

rafforzato dal sesto, si spingesse innanzi a sinistra

del primo. Ordinava traessero tutte le navi contro lo

spazio di terreno dal nemico occupato [...].

da: CARLO GEMELLI, Storia della Siciliana Rivoluzione del 1848-49,

vol. II, Bologna 1868, pp. 53-67.

RICERCHE, STUDIO E TUTELA DEI RELITTI 51

Salvatore Fergola (Napoli 1789-1874), La presa di Messina, Olio su tela, cm

44 x 66.

Le ancore di tipo tradizionalePer la descrizione delle varie parti di un’ancora e del

suo funzionamento si rivela di particolare efficacia un

dizionario tecnico del 1768 che, alla voce “Ancore”,

così recita:

“L’Ancora è uno stromento di ferro con due branche,

assolutamente necessario per la navigazione, e da cui

dipende la conservazione o la perdita della nave: egli

serve a fissare il Vascello nel sito ove i Marinaj

desiderano fermarsi. Quest’Ancora è composta d’un

anello, di un tronco di ferro o verga, d’una crociera di

due braccia, e di due zatte, o specie di rampini. Tutte

queste parti stanno riunite insieme, e sì ben connesse,

che formano un solo e medesimo pezzo robustissimo e

sodissimo. Non è di movibile altra cosa che l’anello, il

quale passa in un buco praticato nella sommità della

verga accanto al ceppo. Il ceppo, che nominasi anche il

giuocolino dell’Ancora, è composto di due pezzi di

legno uniformi, congiunti insieme con pironi di ferro,

al di sotto del buco del tronco, o della verga, talché

l’estremità del tronco stesso passa attraverso del ceppo,

ove trovasi, per cosi dire incassato. L’utilità del ceppo è

d’impedir l’ancora di corcarsi in piano sulla sabbia, e

di fare al contrario, che una delle sue Zatte si confichi

nel terren sodo, affine di arrestare il Vascello, quando

ciò giudichisi approposito, col mezzo d’una gomena,

attaccata con un capo all’anello, e coll’altro alla nave

donde parte. La punta delle zatte ha una figura

triangolare e larga affine di piantarsi ed inganzarsi più

facilmente nel terreno; in luogo che se la zatta fosse

rotonda, avrebb’ella meno presa, specialmente in un

terreno mobile. Annovi delle Ancore, le quali sono

corredate fin di quattro braccia; quelle delle Galee ne

hanno tre.

Si fabbricano delle Ancore di varie grossezze, e di vario

peso: elleno deggion essere proporzionate alla

grandezza dei Vascelli pe’ quali sono destinate. Ma

qualunque sia il peso dell’Ancora, ella dee essere

fabbricata in maniera, che ciascheduna delle sue parti

sia relativa allo sforzo che hanno a soffrire: il

medesimo Vascello va munito di parecchie Ancore di

pesi diversi; la più pesante nominasi l’Ancora

maestra”.

Nel dizionario vengono anche descritte le modalità con

le quali vengono fabbricate le ancore:

“Ogni parte delle Ancore si lavora separatamente.

Anche per quanto poca cognizione abbiasi della

maniera di lavorare il ferro, non può non pensarsi, che

il tronco o la verga è una massa di ferro troppo

voluminosa per esser fatta d’un sol pezzo: il perchè non

viene fabbricata sennon se adattando ed unendo

insieme diversi pezzi di ferro.

La [...] maniera di fare l’Ancore a spranghe di ferro,

vuole dire, che per formare il tronco si compone un

plesso di esse spranghe convenevole alla sua

lunghezza, ed al suo peso, attaccate con legami di

ferro. [...] V’hanno degli Arsenali, ove tutt’ora si

fabbricano le Ancore a forza d’uomini, e trovansi degli

altri Arsenali, ov’entrano bell’e fatte, dopo che

essendosi rilevato, che fabbricate a braccia erano

costose assai, oltre di riuscirne faticosa di molto la

fabbrica, si pensò a costruirle con grossi martelli mossi

dall’acqua. Cotest’ultimo modo di fare le Ancore

riunisce in se tante perfezioni, che in Francia, e

nell’Inghilterra è stato preferito a quello di formarle a

forza di braccia d’uomini. È cosa naturale, che

parecchie spranghe di ferro riscaldate fin al centro, e

battute da un martello di ottocento libbre di peso

deggian meglio rimanere unite e rassodate insieme di

quelle che vengono compresse e percosse dalle braccia

di uomini con martelli non eccedenti il peso di

quindeci o sedici libbre. [...] Le Ancore fabbricate sotto

il gran martello hanno sempre minor volume, delle

altre quantunque il peso sia uguale; e non è cosa

questa sorprendente, atteso che le loro parti, come

quelle che soggiacquero ad una percussione più

considerabile, trovansi più legate e più unite le une

alle altre. Quando si fabbricano delle Ancore con gran

martelli, si battono ad un tratto tutte le spranghe che

compongono un pezzo [...].

In Francia pure ed in Inghilterra adoperasi oltra ciò

sempre il carbone di terra nella fabbrica dell’Ancore,

atteso che produce maggior calore del carbone di

legna; e di fatti per penetrare fin al centro di una massa

sì notabile ci vuole un fuoco assai violento. Il carbone di

legna ha delle buone qualità; egli addolcisce il ferro, è

buono per la fusione della minera, o quando si fanno le

spranghe, e i pezzi d’altra maniera; ma se facciasene

uso per riscaldare un pezzo di ferro considerabile, ne

brucia la superficie senza penetrarla; il che non accade

adoperando il carbone di terra”.

Per gli spostamenti dei vari pezzi da una lavorazione

all’altra vengono utilizzate speciali gru:

“L’Ancora è una massa troppo grande per essere

maneggiata solamente da uomini, tanto per rivoltarla

nella fucina, quanto per portarla sull’incudine. Quindi

si è avuto ricorso ad una macchina fatta

espressamente, che apellasi Cavria; ed è una forca, che

ha due perni sopra i quali ella gira nell’estremità del

suo albero verticale: ha l’altezza all’intorno d’un uomo,

e spesse volte assai di più; e fassi girare secondo il

bisogno. Nell’estremità del ramo di quella forca avvi

una catena di ferro, che serve ad attaccare le spranghe,

o il tronco; e con tal mezzo ella porta le parti, ond’essa

52 Alessandra Nobili

è caricata, ora presso alla fucina, ed ora sull’incudine,

conforme il giro che le si fa prendere. Quando il plesso

o fascio delle spranghe sia caldo talmente che si possa

rassodare per la lunghezza d’un piede, o in circa, lo si

pone sotto il gran martello, e gli operaj fanno in modo,

per via di combinazioni prese innanzi di fabbricar

l’Ancora, di dargli le necessarie dimensioni. Si continua

a riscaldare ed a battere la verga a questo modo fin

alla fine: si termina la sua minore estremità con un

quadrato, e si rende piana l’altra estremità maggiore

per aver più facilità ad attaccare e saldare un braccio

da ambi i lati: le due orecchie le quali avanzano in

fuori, che servono ad attaccare il ceppo, si saldano

dipoi, e successivamente si fa il buco dell’anello col

grosso martello, che batte un cilindro della grandezza

del buco stesso, e che attraversa la verga da una banda

all’altra; l’anello si fa tutto semplicemente con delle

spranghe di ferro, che si passano per il buco della

verga, e data che gli si ha la forma a lui conveniente, si

saldano nelle due estremità”.

Le braccia vengono realizzate separatamente:

“Quando trattasi di formare le braccia, si dispone un

fascetto di spranghe, ugualmente allacciate con legami

di ferro in forma di piramide, che si rassodano insieme

sotto il gran martello; si forma il rotondo, ed il quadrato

del braccio, e si unisce colla verga. Circa alle zatte si

fanno con pezzi di ferro quadrati: han elleno

ciascheduna la loro fucina particolare; e quando si

vogliono saldare, convien avere altresì due cavrie: ve

n’ha una presso ogni fucina per portar i pezzi

sull’incudine, ove deggion riunirsi. Si pongono le loro

estremità infuocate l’una contra l’altra, e per via di gran

colpi replicati si uniscono intimamente insieme onde

abbiano a formare un medesimo corpo. Si dee poi

intraprendere a saldare tutte le parti dell’ancora con una

particolare attenzione, e badare specialmente che la

saldatura delle braccia con la verga sia del tutto perfetta.

La curvatura delle braccia dell’Ancora è cosa pur anche

essenzialissima: riserbasi talvolta questa operazione

per l’ultima, e si eseguisce senza l’ajuto del martello.

Si attacca con corde la verga dell’Ancora ad una trave;

si accende del fuoco sotto la zatta che si dee ricurvare;

la materia diviene molle a segno, che due o tre uomini

ricurvano le braccia tirando una corda ch’è attaccata a

questo braccio; e, che si fa passare sopra un bracciuolo,

che sta affisso contra la fucina. Si proccura di dar loro

la curvatura di un arco di circolo di cinquanta o

sessanta gradi”.

Operazione fondamentale è, in ultimo, la prova di

resistenza dell’ancora:

“Finalmente quando l’Ancora è perfezionata, per

assicurarsi della sua bontà innanzi di consegnarla per

una nave, si pongono in uso varj espedienti: il primo è

di sollevar l’Ancora in alto di una cavria, e di lasciarla

poi cadere sopra uno strato di ferro vecchio; se ella

sostiene questa prova la si giudica buona. Siffatta

maniera di provare un’Ancora non è sufficiente, e le si

preferisce la seconda.

Si confica una trave in terra, a cui si attacca il braccio

dell’Ancora: si passa una corda nell’Anello dell’Ancora

stessa, e si tira questa corda con un’argano fin a

spezzarla; di là congieturasi che l’Ancora sia buona, per

aver ella resistito a tale sforzo”.

Come rilevato da un dizionario tecnico del 1830, che

riprende in buona sostanza quanto esposto in quello

del 1768, questa maniera di fabbricazione delle

ancore “a spranghe”, messa a punto nel Settecento,

fu reputata la migliore che si potesse praticare

poiché l’esperienza la fece riconoscere come

eccellente, e venne adottata da allora anche nelle

officine reali della Chaussade à Guérigny, vicino

Nevers, dove si fabbricavano tutte le ancore per la

marina francese.

La sperimentazione OttocentescaNel corso dell’Ottocento prese avvio un processo di

modernizzazione che segnò la fine delle ancore in ferro

battuto dal lungo fusto e ceppo ligneo, frequentemente

a braccia rette (particolarmente in Inghilterra),

soggette a facile rottura per le sezioni non sempre

adeguate, per la cattiva qualità del ferro impiegato e

per le lavorazioni spesso non idonee.

Sulla base di brevetti, detti patenti, vennero sviluppati

tipi di ancore dalle tipologie normalizzate, realizzate

RICERCHE, STUDIO E TUTELA DEI RELITTI 53

Ancora comune, con ceppo ligneo.

Parti dell’ancora: a. Fusto; b. Diamante; c. Marra; d. Patta; e. Unghia; f. & g.

Occhio e cicala; h. Ceppo; i. Cima d’ormeggio (it.wikipedia.org)

con l’ausilio di tecniche di lavorazione più efficaci. Al

tradizionale ceppo ligneo fu accostato il ceppo in ferro,

che comunque venne impiegato nelle navi di piccolo

tonnellaggio.

Grande fortuna ebbe l’ancora del tipo detto

“Ammiragliato inglese”, sia nella versione con ceppo

ligneo che in quella con il ceppo mobile, in ferro, atta

a consentire una razionale conservazione.

Sempre durante il XIX secolo furono effettuate

sperimentazioni per ancore senza ceppo, ma solo agli

Alessandra Nobili54

A) Tavola con i disegni relativi alla “patente” del capitano inglese H. L. Ball della Royal Navy - 1808. B) Mr. Hawkins’s patent - 1821. C) Ancore tra le più

utilizzate nel XIX secolo - 1826.

A B C

PERAPPROFONDIRE

Dizionario delle Arti e de’ Mestieri compilato da Francesco Griselini,

tomo I, Venezia 1768, pp. 109-114.

Nuovo dizionario universale tecnologico o di arti e mestieri, prima

traduzione italiana, tomo I, Venezia 1830, pp. 408-415.

inizi del Novecento ne venne realizzato un modello

soddisfacente – poi ulteriormente sviluppato e

ampiamente diffuso – che segnò il declino delle

ancore con il ceppo.

RICERCHE, STUDIO E TUTELA DEI RELITTI 55

ANCORE

Ancore. Arsenale di Messina. Foto: archivio Soprintendenza del Mare

DUE CANNONCINI NELLE ACQUE DI AUGUSTA (SR)Nelle acque del mare di Augusta, oltre il faro di

Santa Croce, su un fondale di circa 9 metri di roccia

mista a sabbia, a meno di 100 metri dalla costa,

giacciono due pezzi di artiglieria, poco distanti tra

loro.

I reperti sono stati segnalati dai subacquei

Domenico Sicuso e Sebastiano Di Mauro.

Le indagini svolte nel gennaio 2008 dalla

Soprintendenza del Mare, unitamente ai segnalatori

e al Nucleo Subacqueo dei Carabinieri di Messina,

hanno consentito di accertare la presenza di due

piccoli cannoncini di circa un metro di lunghezza,

più una codetta di circa 40 centimetri. I reperti si

presentano interamente ricoperti da una spessa

concrezione, la qual cosa, insieme agli esiti dei

rapidi saggi effettuati dai subacquei e alle

caratteristiche morfologiche riscontrate, non lascia

dubbi sulla natura ferrosa del materiale costitutivo.

Uno dei due cannoncini è libero, mentre l’altro

risulta saldato al fondale, rovesciato.

L’analisi dei reperti consente di individuare delle

ondulazioni della concrezione sul fusto riconducibili

ad anelli di cerchiatura, nonché la presenza di una

forcella per il brandeggio. Nella parte posteriore è

intuibile l’esistenza dell’otturatore mobile nel quale

veniva inserita la carica di lancio a forma di boccale,

il mascolo. Nel pezzo solidale con il fondale è ben

evidente altresì la presenza del cuneo

bloccamascolo.

Alessandra Nobili56

Si tratta quindi di cannoncini a retrocarica, di piccolo

calibro, individuabili come delle petriere da braga.

Sono costruite interamente in ferro forgiato, con

canna rinforzata da fasce di cerchiatura. In culatta si

intuisce la forma della staffa per l’alloggiamento del

mascolo. La parte posteriore reca la tipica codetta di

impugnatura, per la manovra del pezzo.

Nelle vicinanze non si scorgono proiettili. La spessa

concrezione, che è cresciuta anche a spese della

porzione superficiale del metallo, inglobandola e

disgregandola, non consente di apprezzare le reali

dimensioni del diametro della canna e del calibro.

I due pezzi presentano caratteristiche tipologiche

analoghe, anche se non identiche.

Questo tipo di artiglieria, di lavorazione ancora

arcaica poiché in ferro fucinato, rimanda a utilizzi su

imbarcazioni private con datazioni ipotizzabili

attorno al periodo iniziale dell’evo moderno, ma si

trova anche in età posteriori, in relazione alle

specifiche condizioni tecnologiche del paese di

fabbricazione. Al momento non si è in possesso di

elementi storici che consentano di fare delle ipotesi

sulla loro provenienza e sugli eventi che ne hanno

portato l’affondamento. I pezzi erano comunque

carichi e pronti a sparare.

Non essendo reperti in bronzo non è indicato un

loro recupero, a causa della forte accelerazione nei

processi di ossidazione cui va soggetto il ferro fuori

dall’acqua. Anche in linea con le direttive indicate

dalla Convenzione Internazionale sulla Protezione

del Patrimonio Culturale Subacqueo adottata a

Parigi nel 2001 si rileva l’opportunità di lasciare i

beni in situ, e a tale scopo è stata chiesta alla

Capitaneria di Porto l’emanazione di apposita

regolamentazione dell’areale marino, ai fini della

tutela dei reperti, nonché della possibilità di una

fruizione controllata.

I CANNONI DELLA SPIAGGIA DI TORRE FARO (ME)Nei pressi della spiaggia di Torre Faro si trovano tre

cannoni in ferro, semi affioranti dal terreno, in

posizione verticale. La loro presenza è stata oggetto di

segnalazione dell’Ufficio Locale Marittimo di Torre Faro.

Dal sopralluogo effettuato nel Maggio del 2007 dalla

Soprintendenza del Mare, si è potuto constatare che si

tratta di cannoni ad avancarica, databili

presumibilmente tra il XVIII e il XIX secolo, non

ulteriormente identificabili sulla base delle porzioni

RICERCHE, STUDIO E TUTELA DEI RELITTI 57

La motovedetta della Guardia Costiera di Augusta, che ha seguito le ricerche

(nella pagina accanto), e uno dei due pezzi d’artiglieria, al fondo (foto:

Soprintendenza del Mare)

I cannoni della spiaggia di Torre Faro (foto: Ufficio Locale Marittimo di

Torrefaro - Soprintendenza del Mare)

visibili, ed in passato utilizzati come pilastri

d’ormeggio, come confermato dall’esperto d’artiglieria

moderna Renato G. Ridella, che ci collabora

gentilmente negli studi. Detta pratica trovò uso alla

fine del fenomeno della pirateria sulle coste del

Mediterraneo, quando un certo numero di cannoni in

ferro, dismessi dalle navi mercantili armate, vennero

interrati nei moli o in prossimità di zone di alaggio, per

trovare impiego come bitte, anziché essere mandati a

fondere. Era frequente anche l’otturazione della bocca

con un proiettile inserito a forza.

La zona di Torre Faro, vicina al Capo Peloro – la

cuspide nord-orientale della Sicilia – ha sempre

costituito un punto strategico per la navigazione,

poiché sita all’imbocco dello Stretto di Messina nel

quale l’incontro delle due masse d’acqua, ionica e

tirrenica, provocano peculiari fenomeni idrodinamici.

Le correnti dello Stretto rendevano di consueto

necessaria la sosta delle navi presso il Faro, all’ancora,

anche in funzione delle particolari condizioni meteo-

marine, e certamente doveva essere utile, in tutta una

serie di situazioni, poter salpare le barche

assicurandole a saldi presidi.

Le manifestazioni che interessavano la zona sono ben

descritte nel portolano di Filippo Geraci, del XVII

secolo: “Si dona cognizione ancora che nel Faro tanto

nella costera, e ripa della Calabria, quanto nella

costera e ripa di Sicilia si ritrova lo rivoto cioè rema

contraria a quella che corre nel mezo del Faro

verbigrazia se nel canale la rema corre di montante per

contrario nella costera di Sicilia, e Calabria corre lo

rivoto della rema descendente, e se la rema del canale

corre di descendente per contrario nella costera di

Sicilia, e Calabria corre lo rivoto della rema montante.

Come per esempio si vede che qualsiasi bastimento che

della torre del Faro entra in Canale per andare verso la

città di Messina ritrova nella punta di detta torre il

rivoto del discendente con tutto ciò che nel menzo del

Canale sia montante se il bastimento non ha vento

sufficiente per poter superare la rema contraria è di

bisogno dar fondo un ancora nella punta della torre del

Faro, cioè se il vento sarà a segno di ponente si deve

sorgere sopra un àncora, dentro la torre del Faro nella

punta, dove v’è un secco di passi 6. 7. e 8. di fondo in

circa, ma se il vento sarà a segno di scilocchi si dovrà

sorgere con la rema contraria dentro la torre del Faro

tanto, quanto non aprisce la bocca del canale ed ivi star

surto fin tanto che si metta la rema opportuna

scendente, con la quale tanto li bastimenti navali,

quanto latini con operare le vele quadre essendo

gagliardo il xilocco, sempre si possono dianzare il suo

camino potendo però maneggiare, e reggere le vele”.

[da: Salvatore Pedone, Il portolano di Sicilia di Filippo

Geraci (sec. XVII), Palermo, s.d. ma 1987, pp. 56-57].

L’esistenza, sulle coste, di cannoni in funzione di bitta

è oramai molto rara.

Alessandra Nobili58

Particolare dello Stretto di Messina. Carta nautica digitale - Istituto Idrografico della Marina

RICERCHE, STUDIO E TUTELA DEI RELITTI 59

CANNONI

Artiglieria da fuoco XV - XIX secolo (Zitadelle Spandau - Berlin). Foto di Alessandra Nobili

L’AFFONDAMENTO DELLA TORPEDINIERAITALIANA ARDENTE“La torpediniera Ardente in navigazione da Biserta a

Palermo in seguito a collisione col ct. Grecale è

affondata alle ore 05 del 12 c.m. nel punto a miglia 3

per 8° da Punta Barone”. Così un comunicato segreto

di Supermarina, del gennaio 1943, a firma del Capo di

Stato Maggiore della Marina, l’Ammiraglio di Divisione

Enrico Accorretti, annunciava la perdita della nave.

L’Ardente era una torpediniera di scorta della Marina

Militare Italiana. Classe “Ciclone”, tipo “Ardito” (Ardito

e Animoso, Ardente e Ardimentoso).

Costruita a Genova Sestri, nei Cantieri Ansaldo, era

stata varata il 27 maggio 1942 e consegnata alla Regia

Marina il 30 Settembre. Dopo un breve periodo di

addestramento in Alto Tirreno, a metà Novembre aveva

raggiunto la zona delle operazioni, assegnata alla 3ª

Squadriglia Torpediniere di Scorta. Il 22 Novembre, con

la partenza per Biserta da Messina, iniziano i viaggi per

il Nord Africa. Da allora, è un susseguirsi di missioni di

scorta ai convogli per Tunisi e Biserta, con partenze da

Palermo, Napoli e Messina. Talvolta fa scalo a

Pantelleria o a Trapani.

La vita della torpediniera è estremamente breve.

L’ultima missione svolta dalla nave parte da Napoli alle

17:00 del 10 gennaio 1943. L’Ardente arriva a Biserta

Alessandra Nobili60

La torpediniera Ardente (www.modelli-navali.it) Documentazione Ardente (archivio Ufficio Storico della Marina Militare Italiana)

CARATTERISTICHE TORPEDINIERE TIPO “ARDITO”

Dati generaliLunghezza massima in coperta m 87,750Lunghezza al galleggiamento m 85,500Lunghezza fra le due perpendicolari m 82,470Larghezza massima in coperta (fuori oss.) m 9,824Altezza in fianco alla retta del baglio al mezzo m 5,340Immersione media con carico massimo m 3,357Dislocamento corrispondente ton 1651,0016.000 cavalli vapore di potenza

25 nodi di velocità

2 caldaie

2 turbine

2 eliche

Armamento di progetto2 cannoni da 100/47 A.S. e A.A.

4 mitragliere binate da mm 20 A.A.

6 lanciabombe pirici tipo tedesco

2 tramogge B.G.S.

2 lanciasiluri binati ø 450 mm

alle 18:03 del giorno 11. Riprende nuovamente il

mare, per il ritorno, alle 18:15. Questa è l’ultima

notazione che si legge sulla scheda della nave a

proposito dei suoi movimenti. Poi c’è l’appunto della

perdita. Un messaggio segreto in arrivo al Ministero

della Marina, proveniente da Marina Trapani, informa

che, a seguito dell’incidente avvenuto in prossimità di

Capo S. Vito, il giorno 12 era giunto a Trapani

personale superstite della torpediniera: 1 sergente, 6

comuni e 2 feriti. Su un foglio del Comando della

Piazza della Marina Militare di Trapani, se ne legge

l’elenco. Sono un Sergente Silurista, un Sergente

Nocchiero, due Torpedinieri, due Elettricisti, un Marò,

un Cannoniere, un Fuochista. Il documento indica che

ad essi vennero distribuiti gratuitamente dei capi di

corredo: “asciugamani, basco, scarpe, calze, mutande,

calzoni di panno, camicia di sargia, cappotto di panno,

cinghia di canapa, farsetto di lana, farsetto di cotone,

gamellino, bicchiere, cucchiaio”. A due di essi non

furono consegnati il “gamellino, il bicchiere e il

cucchiaio”. Doveva trattarsi dei feriti, che, trovandosi

in ospedale, non avevano necessità delle stoviglie.

In totale l’incidente fece registrare, per la nave

Ardente, la perdita di 118 uomini, di cui 56 deceduti (3

ufficiali, 6 sottoufficiali, 47 sottocapi e comuni) e 62

dispersi (3 ufficiali, 6 sottoufficiali, 53 sottocapi e

comuni). Ci furono inoltre 14 feriti. 12 uomini

dell’equipaggio non erano presenti perché in licenza o

assenti. 30 furono i superstiti. A bordo della nave, al

momento dell’incidente, dovevano esservi quindi 162

uomini, tutti militari. Di Marina Trapani, è un elenco

delle salme dell’Ardente recuperate e trasportate a cura

di quella infermeria. Vennero tumulate nel cimitero di

Trapani. L’elenco indica i nomi, il ruolo, la matricola, e

il numero della fossa nella quale i corpi furono sepolti.

Taluni vennero destinati alla colombaia.

Quanto al cacciatorpediniere, un messaggio segreto

proveniente da Marina Palermo annuncia: “la nave

Grecale, rientrata a causa dell’investimento con la nave

Ardente, ha la prora asportata sino all’altezza della

plancia, ma la paratia prodiera del locale caldaia-uno è

integra e stagna. Si prevede una sua immissione nel

bacino il giorno 13”. Il cacciatorpediniere riuscì quindi a

tornare in porto, anche se con difficoltà poiché dovette

navigare a marcia indietro e con burrasca di mare. Il

comunicato indica anche 8 marinai dispersi e un

sottufficiale ferito, oltre ad un numero ancora imprecisato

di militari germanici dispersi. Una comunicazione

telefonica di Marina Messina precisa che i dispersi del

cacciatorpediniere furono 110, in prevalenza tedeschi. Il

Grecale era partito da Palermo il giorno 12 gennaio alle

ore 01:05 per una missione di trasporto truppe tedesche

a Biserta, con materiale. Rientrò a Palermo, dopo

l’incidente, lo stesso giorno, alle 13:15.

La dinamica dell’investimentoQuale fu la dinamica dell’investimento? Dallo Stato

Maggiore della Marina fu dichiarato che la perdita

della torpediniera Ardente non si verificò per evento

bellico. Alcuni documenti d’archivio rivelano che ci

dovettero essere delle interpretazioni non unanimi. A

distanza di anni, infatti, nel dicembre del 1977, il

comandante del cacciatorpediniere, l’allora Capitano di

Fregata Luigi Gasparrini, a proposito di quanto indicato

RICERCHE, STUDIO E TUTELA DEI RELITTI 61

La torpediniera Ciclone

Torpediniere della classe “Ciclone” - Disegno

Documentazione Ardente (archivio Ufficio Storico della Marina Militare Italiana)

Le rotte della torpediniera Ardente e del cacciatorpediniere Grecale

in un libro di Erminio Bagnasco nel quale si asseriva

che “per errore di manovra, il Grecale aveva speronato

al centro l’Ardente” scrive una lettera di rimostranze

all’editore (Elio Andò, Erminio Bagnasco, “Navi e

Marinai italiani della seconda guerra mondiale”, ed.

Albertelli, [Parma] 1977). Precisa che: “la disgrazia

non avvenne per errata manovra, ma solo perché in

plancia dell’Ardente l’unico Ufficiale che vi si trovava al

momento dell’incidente scambiò nella notte buissima il

Grecale per una silurante nemica e tentò di

speronarla”. E aggiunge: “Ciò risultò – alla inchiesta –

dalla testimonianza del sottocapo Bregliaccio, unico

salvatosi del personale di plancia”. Per dissipare ogni

dubbio di manovra errata da parte sua, il comandante

ricorda anche la decorazione al “VALOR DI MARINA”

che gli venne conferita alla fine della guerra. Bagnasco

rispose che avrebbe apportato una correzione al suo

libro, nella successiva auspicabile edizione. Avrebbe

scritto che “Per effetto della pessima visibilità,

l’ufficiale di guardia dell’Ardente aveva scambiato il

Grecale per una silurante nemica ed aveva manovrato

per speronarla, finendo però investito al centro dalla

prua del caccia”. Come ebbe a dire Bagnasco, la

collisione tra l’Ardente e il Grecale fu il più grave

incidente verificatosi sulle rotte dei convogli. Nel mare

di San Vito si persero 118 uomini dell’Ardente, tutti

italiani, e circa 110 uomini che viaggiavano sul

Grecale, in prevalenza tedeschi.

Per lungo tempo il luogo dove giace la torpediniera è

rimasto ignoto.

La documentazione video realizzata nell’ambito delle

indagini strumentali effettuate dalla Soprintendenza del

Mare, Unità Operativa II - Ricerche in alto fondale, in

convenzione con la “RPM NAUTICAL FOUNDATION”, ha

fornito elementi che, incrociati con i dati storici,

tipologici e dimensionali, ci fanno ritenere di poter

confermare che il relitto documentato sui fondali al

largo del Monte Cofano sia quello dell’Ardente.

L’elaborazione dai dati per la caratterizzazione del

relitto è stata effettuata sulla scorta del data-base dei

relitti storici di età moderna e contemporanea che il

Servizio per i Beni Storico-artistici, Unità Operativa III,

della Soprintendenza del Mare ha realizzato, da qualche

anno a questa parte, in sinergia con l’Unità Operativa V

- Sistema Informativo Territoriale (S.I.T.) del Mare. Il

relitto era stato oggetto di segnalazione da parte del

subacqueo Fabio Manganelli, alla fine del Luglio 2007.

La posizione del relitto dell’Ardente si è mantenuta

sconosciuta per più di 60 anni. Vari dati fornivano

indicazioni labili, discordanti o fuorvianti. Il luogo,

“miglia 3 per 8° da Punta Barone”, così come indicato

nei documenti storici, non era ai giorni nostri

immediatamente individuabile, poiché riferito ad un

toponimo in disuso. “Punta Barone” è il nome di una

punta in prossimità della Torre del Cofano, nel comune

di Custonaci. Lo si ritrova nelle vecchie carte nautiche e

nelle mappe IGM.

La collisione fra l’Ardente e il Grecale causò alla

torpediniera lo scoppio di una caldaia e un violento

incendio.

Rimasta alla deriva senza possibilità di aiuto, la nave colò

a picco dopo quasi due ore. Il punto di affondamento,

che risulta a circa due miglia a Sud-Ovest dal luogo

indicato dai documenti storici, sarebbe conseguente allo

spostamento al quale l’Ardente in fiamme fu soggetta

dopo l’esplosione. La fragilità della struttura della nave,

causata dalla collisione e dall’incendio, ne ha portato la

rottura in due parti che ora giacciono sul fondale.

Della torpediniera si erano perse le tracce, ma non la

memoria. Ci auguriamo che qualcuno dei superstiti,

sull’onda delle emozioni delle immagini che emergono

dal fondale, possa raccontarci la sua storia e la storia

della breve vita della nave.

Il relittoLa nave è spezzata in due tronconi, in corrispondenza

del locale caldaia anteriore, e giace semiriversa.

Il tratto posteriore, più lungo, è poggiato sul lato

sinistro. Ripercorrendo la murata di dritta, circa al

centro nave si scorgono le sagome dei due lanciasiluri

binati che sporgono, ruotati, dal ponte di coperta. Nei

pressi, procedendo verso prua, si stagliano sul fondo le

due pareti forate che reggono il castello sul filo esterno

Alessandra Nobili62

Mappa dei luoghi (Ortofotocarta digitale IT 2000 - Elaborazione U.O. V -

S.I.T., Soprintendenza del Mare)

della nave, con il caratteristico archeggiamento di

chiusura. Girato verso l’esterno, rimane il braccio curvo

dell’argano che doveva servire per mettere in mare il

più piccolo dei mezzi di salvataggio della torpediniera,

il battello da m 3,83. Poi le lamiere si interrompono,

spezzate. A poppa sono ben visibili le due eliche, con le

loro strutture di trasmissione collocate in posizione

asimmetrica. Risultano molto evidenti, lungo la nave,

due volumi cilindrici, forse fusti o bombe di profondità,

posti nei pressi di una scaletta di accesso alle

sovrastrutture. Tra le lamiere contorte si intravede una

sagoma circolare, spezzata, appartenente alla tuga che

spiccava dal castello per sorreggere la postazione

centrale di mitragliatrici binate da 20 mm (la

piattaforma circolare soprelevata che nei piani

originari doveva portare un terzo cannone).

Rimangono anche lunghi tratti di un albero.

Il troncone anteriore è sede di una folta colonia di

gorgonie che sta colonizzando la nave, soprattutto verso

la prua, la cui chiglia si staglia netta verso l’alto. È ben

visibile l’ancora. Nella regione della chiglia, a circa un

quarto della nave, si incontra un bulbo con la sagoma

di quello che doveva essere l’ecogoniometro. Una lunga

teoria di oblò contraddistingue la fiancata dello scafo.

Poi le lamiere si interrompono bruscamente.

I resti della torpediniera si presentano coperti da uno

spesso strato di fango. Reti e paranze, la avvolgono in

più punti.

Si ringrazia l’Ufficio Storico della Marina Militare Italiana e Stefano Ruia,

che ha gentilmente condotto la ricerca documentale presso l’archivio.

RICERCHE, STUDIO E TUTELA DEI RELITTI 63

1 2 3

4 5 6

7 8 9

1 Lanciasiluri binati; 2 Fiancata destra; 3 Argano per battello da m 3,83; 4 Elica; 5 Elementi della tuga; 6 Parti dell’albero; 7 Prua (chiglia); 8 Ecogoniometro;

9 Oblò. Immagini: Soprintendenza del Mare - RPM Nautical Foundation.

Alessandra Nobili64

Documentazione Ardente (Ufficio Storico della Marina Militare Italiana)

DOCUMENTI STORICI

NAVI, SOTTOMARINI E AEREIDEI NOSTRI FONDALI

Progetto Scuola-Museo

IL PATRIMONIORITROVATO

A cura di Alessandra Nobili e M. Emanuela Palmisano

CCooppiiaa ffuuoorrii ccoommmmeerrcciioo VViieettaattaa llaa vveennddiittaa

Regione SicilianaAssessorato dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana

Dipartimento dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana

Soprintendenza del mare

Progetto Scuola-Museo

IL PATRIMONIORITROVATO

NAVI, SOTTOMARINI E AEREI DEI NOSTRI FONDALI

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