Il parlamentarismo presidenzialista...

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1 Il parlamentarismo presidenzialista spagnolo** di di Roberto L. Blanco Valdés* Sommario: 1. Introduzione. Il parlamentarismo: natura e principio. – 2. Parlamentarismo versus presidenzialismo. – 3. Il modello parlamentare spagnolo. – 4. La presidenzializzazione del regime parlamentare in Spagna. 1. – Nelle pagine che seguono intendo sostenere essenzialmente due tesi: in primo luogo che gli indiscutibili elementi di presidenzializzazione presenti nella conformazione giuridica e nella dinamica del sistema politico spagnolo non valgono di per sé a giustificare un cambiamento della natura del sistema medesimo, che deve essere considerato necessariamente di tipo parlamentare. Il parlamentarismo spagnolo presenta evidentemente diversi caratteri propri del modello presidenziale, attinenti alla particolare evoluzione storica ed alle attuali basi politiche sulle quali si fonda, ma nessuno di essi può dirsi sufficiente ad indurre una trasformazione della sua essenza. La seconda tesi che intendo sostenere si riferisce, precisamente, al carattere del nostro parlamentarismo, che dipende, anzitutto, da quanto disposto in materia dalla Costituzione del 1978, da alcune leggi che hanno dato attuazione allo stesso dato costituzionale, nonché da alcuni elementi extragiuridici direttamente connessi alla concreta morfologia del sistema spagnolo dei partiti ed al modello di leadership praticato al loro interno, soprattutto quando si tratta di forze di governo. Il parlamentarismo – o, per meglio dire, i parlamentarismi -, così come il federalismo – o più precisamente i federalismi 1 - sono sempre il risultato dell’incontro di una certa disciplina costituzionale con una realtà politica complessa ed in continua evoluzione. Certamente non esistono due sistemi parlamentari uguali, così come non esistono due ordinamenti federali identici. È innegabile che qualunque parlamentarismo (come qualunque federalismo) funziona non solo secondo quanto stabilito nelle diverse disposizioni costituzionali che ne definiscono la struttura, ma anche, ed al contempo, secondo gli specifici dati politici della realtà alla quale le stesse disposizioni costituzionali si applicano. Ogni regime parlamentare, proprio per questo, è sempre il frutto della combinazione, che si rinnova in ogni momento storico, di alcune norme con la realtà, che opera come limite rispetto a ciò che le singole disposizioni possono esprimere e, conseguentemente, rispetto a ciò che di volta in volta è lecito attendersi da loro. In sintesi, mentre le norme definiscono la natura del governo * Catedrático de Derecho Constitucional all’Università di Santiago de Compostela ** Traduzione di Anna Mastromarino 1 Vedi sul punto T. Groppi, Il federalismo, Roma - Bari, Laterza, 2004, in particolare 5 ss.

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Il parlamentarismo presidenzialista spagnolo**

di

di Roberto L. Blanco Valdés* Sommario: 1. Introduzione. Il parlamentarismo: natura e principio. – 2. Parlamentarismo versus

presidenzialismo. – 3. Il modello parlamentare spagnolo. – 4. La presidenzializzazione del regime parlamentare in Spagna.

1. – Nelle pagine che seguono intendo sostenere essenzialmente due tesi: in primo luogo che gli indiscutibili elementi di presidenzializzazione presenti nella conformazione giuridica e nella dinamica del sistema politico spagnolo non valgono di per sé a giustificare un cambiamento della natura del sistema medesimo, che deve essere considerato necessariamente di tipo parlamentare. Il parlamentarismo spagnolo presenta evidentemente diversi caratteri propri del modello presidenziale, attinenti alla particolare evoluzione storica ed alle attuali basi politiche

sulle quali si fonda, ma nessuno di essi può dirsi sufficiente ad indurre una trasformazione della sua essenza.

La seconda tesi che intendo sostenere si riferisce, precisamente, al carattere del nostro parlamentarismo, che dipende, anzitutto, da quanto disposto in materia dalla Costituzione del 1978, da alcune leggi che hanno dato attuazione allo stesso dato costituzionale, nonché da alcuni elementi extragiuridici direttamente connessi alla concreta morfologia del sistema

spagnolo dei partiti ed al modello di leadership praticato al loro interno, soprattutto quando si tratta di forze di governo. Il parlamentarismo – o, per meglio dire, i parlamentarismi -, così come il federalismo – o più precisamente i federalismi1 - sono sempre il risultato dell’incontro di una certa disciplina costituzionale con una realtà politica complessa ed in continua evoluzione. Certamente non esistono due sistemi parlamentari uguali, così come non esistono due ordinamenti federali identici. È innegabile che qualunque parlamentarismo (come

qualunque federalismo) funziona non solo secondo quanto stabilito nelle diverse disposizioni costituzionali che ne definiscono la struttura, ma anche, ed al contempo, secondo gli specifici dati politici della realtà alla quale le stesse disposizioni costituzionali si applicano. Ogni regime parlamentare, proprio per questo, è sempre il frutto della combinazione, che si rinnova in ogni momento storico, di alcune norme con la realtà, che opera come limite rispetto a ciò che le singole disposizioni possono esprimere e, conseguentemente, rispetto a ciò che di volta in volta

è lecito attendersi da loro. In sintesi, mentre le norme definiscono la natura del governo

* Catedrático de Derecho Constitucional all’Università di Santiago de Compostela

** Traduzione di Anna Mastromarino

1 Vedi sul punto T. Groppi, Il federalismo, Roma - Bari, Laterza, 2004, in particolare 5 ss.

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parlamentare - «ciò che lo rende tale», secondo la classica distinzione di Montesquieu ne Lo

spirito delle leggi -, la concreta realtà politica determina il principio, ovvero sia ciò che, seguendo

ancora il grande pensatore francese, «lo fa agire». Organizzerò il presente lavoro in coerenza con le tesi enunciate. Comincerò con il formulare

alcune considerazioni storiche e teoriche sul presidenzialismo e sul parlamentarismo, al fine di mostrare chiaramente la frontiera che separa due sistemi politici che sono sostanzialmente diversi. Successivamente mi rivolgerò al parlamentarismo spagnolo non solo nella prospettiva della sua definizione costituzionale e legislativa, ma anche tenuto conto delle influenze

esercitate dal sistema dei partiti e dai tipi di premiership in uso, il che spero permetterà di capire la complessità di un modello di parlamentarismo il cui funzionamento è dipeso da fattori politici, esterni alle norme, che risultano indispensabili al momento di comprendere i suoi limiti e le sue possibilità.

2. – E’ noto che la differenza fra regimi presidenziali e regimi parlamentari trova la sua

origine nella storia, di modo che, da una parte e dall’altra dell’Atlantico, saranno proprio le circostanze storiche esistenti nella fase di genesi degli Stati costituzionali, fra la fine del XVIII e gli inizi del XIX secolo, a determinare la propensione dei padri costituenti per la forma della repubblica presidenziale o per quella della monarchia costituzionale, che rappresenta la fonte da cui scaturiranno successivamente i sistemi parlamentari. La storia si rivelò, dunque, il fattore determinante nella definizione dell’assetto geopolitico in base al quale nel mondo andarono

distinguendosi i grandi sistemi del diritto comparato in tema di separazione e coordinamento dei poteri dello Stato.

Sartori ha affrontato chiaramente il punto, affermando che la «ragione per cui l’Europa non ha sistemi presidenziali puri, che invece troviamo dal Canada in giù attraverso le due Americhe, è storica e non risulta da alcune scelta deliberata. Quando gli Stati europei cominciarono a praticare il governo costituzionale, tutti (eccetto la Francia, che divenne repubblica gia nel 1870)

erano monarchie; e le monarchie hanno già un capo di Stato (ereditario). Ma mentre in Europa non c’era spazio, almeno fino al 1919, per presidenti eletti, nel Nuovo Mondo quasi tutti i nuovi Stati divennero indipendenti come repubbliche (con le eccezioni temporanee del Brasile e, marginalmente, del Messico) e si trovarono a dover eleggere capi di Stato, e cioè presidenti. La divisione fra sistemi presidenziali e parlamentari non risultò, perciò, da una qualche teoria che dibatteva se una forma fosse superiore all’altra»2.

In realtà l’idea espressa da Sartori era stata già in precedenza sviluppata dallo stesso Tocqueville, il quale nel corso della sua esperienza di viaggio, ne La democrazia in America parlerà del « singolare fenomeno espresso da una società in cui non si incontrano né grandi signori, né gente del popolo, detto altrimenti, né ricchi, né poveri». Tocqueville metterà in relazione questa 2 G. Sartori, Ingegneria costituzionale comparata, Bologna, il Mulino, 2004, 100.

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peculiarità con le origini degli Stati Uniti ed a riguardo sottolinearà che «l’America è l’unico Paese al mondo dove si sia potuto assistere ad un naturale e tranquillo sviluppo della società e

dove sia stato possibile apprezzare davvero l’influenza delle condizioni di partenza rispetto al futuro degli Stati». Da ciò deriva, a suo parere, una certa omogeneità sociale di tutto il territorio americano, omogeneità che finirà con l’avere rilevanti conseguenze rispetto alla costruzione dei regimi politici instaurati nel Nuovo Mondo una volta ottenuta l’indipendenza nazionale: la «popolazione della Nuova Inghilterra – scriveva Tocqueville – cresceva rapidamente e mentre nella madre patria la gerarchia sociale finiva con il classificare dispoticamente gli uomini, la

colonia offriva, ogni giorno di più, lo spettacolo di una società nel suo complesso omogenea. La democrazia prendeva piede, forte e ben equipaggiata, così come non si sarebbe mai potuto immaginare in passato, nel bel mezzo della vecchia società feudale»3.

Come ho già avuto modo di affermare altrove4, sarà proprio questa omogeneità sociale e la sua traduzione in termini istituzionali, in altre parole l’assenza sul territorio americano di monarchie assolute, ciò che, in America, condurrà – ed in un certo senso si potrebbe persino dire ciò che

costringerà– a porre la questione relativa alla separazione dei poteri in termini diversi da quelli propri dell’esperienza inglese e successivamente dell’Europa continentale. Così, nel vecchio continente l’obiettivo perseguito dall’affermarsi del principio della separazione dei poteri sarà quello di garantire una ripartizione delle diverse attività costitutive dello Stato fra vecchi e nuovi soggetti politici (eredi dell’ancienne regime, da un lato, e figli della rivoluzione liberale e del conseguente costituzionalismo, dall’altra), conducendo alla costituzionalizzazione degli esecutivi

dualisti, nei quali è presente un organo, il Capo dello Stato, destinato, nei fatti, a dare continuità, pur trasformandola, alla figura dei vecchi sovrani assoluti.

Al contrario, nel territorio americano – nordamericano prima e più generalmente americano dopo – l’assenza storica di un monarca assoluto da inquadrare, politicamente e giuridicamente, nel nuovo schema istituzionale di divisione dei poteri dello Stato, permetterà di configurare un esecutivo di tipo monista, che non consente di concretare alcuna differenziazione politica e

funzionale fra Capo dello Stato e Presidente del Governo, permettendo oltretutto di far derivare la legittimazione del potere esecutivo direttamente dalla stessa fonte di legittimità del potere legislativo: ovverosia dalla sovranità popolare. In una parola: nell’america del Nord l’assenza di una monarchia assoluta permetterà la trasformazione degli organi centrali deputati alla direzione della politica dello Stato – il Parlamento e il Governo – in organi legittimati dal voto popolare, espresso dalla totalità del corpo elettorale o solo da una parte.

3 A. Tocqueville, La democracia en America, Madrid, Aguilar, 1989, vol. I, 31 -37. 4 R. L. Blanco Valdés, El valor de la Constitución. Separación de poderes, supremacía de la ley y control de constitucionalidad en los origenes del Estado liberal, Madrid, Alianza Editorial, 1994, 111 ss (existe traducción italiana : Il valore della Costituzione. Separazione dei potere, supremazia della legge e controllo di costituzionalità alle origine dello Stato liberale, Padova, CEDAM, 1997).

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Da ciò è facile trarre dirette conseguenze: la istituzionalizzazione degli esecutivi dualisti nel continente europeo trova la sua ragione storica nella discendenza dello Stato costituzionale dalla

monarchia assoluta. Questa è l’origine storica di una serie di sistemi politici – quelli denominati monarchie costituzionali o limitate – che domineranno il panorama europeo durante tutto il secolo XIX. Origine che, a prescindere dalle evoluzioni future, riconoscibili nei due modelli della monarchia parlamentare e della repubblica parlamentare - che presero forma nell’ultimo trentennio del secolo XIX e nei primi decenni del secolo XX –, dà ragione delle evidenti differenze fra il modello presidenziale e quello parlamentare, ed in particolare di quelle

considerate fondamentali, come il carattere monista degli esecutivi della forma presidenziale rispetto alla natura dualista degli esecutivi degli ordinamenti parlamentari, nonché l’elezione popolare dei presidenti della Repubblica rispetto alla elezione indiretta, ad opera del Parlamento, dei capi di governo propria delle monarchie e delle repubbliche parlamentari.

A partire da queste considerazioni, seppure si potrebbe sarcasticamente affermare con Sartori che i sistemi presidenziali e quelli parlamentari si definiscono «per esclusione

reciproca»5, di modo che il modello presidenziale inizia laddove finisce quello parlamentare e quello parlamentare dove termina la forma presidenziale, d’altra parte deve essere evidenziata l’esistenza di una serie di criteri distintivi che consentono l’individuazione di un concetto definito di presidenzialismo. Primo fra tutti, l’esistenza di un sistema di elezione popolare diretta o quasi diretta del Capo dello Stato per un tempo determinato che, a seconda dei diversi ordinamenti comparati, può variare, in condizioni normali, fra i quattro e gli otto anni. Per

altro, autorevoli voci – fra cui spicca quella di Sartori - non hanno mancato comunque di evidenziare che l’elezione diretta del Capo dello Stato rappresenta «senza dubbio una condizione definitoria necessaria; ma non sufficiente»6, come dimostrerebbero, per esempio il caso austriaco o islandese.

Il secondo elemento distintivo dei sistemi presidenziali è rappresentato dall’istituto della rimozione del Capo dello Stato - che, salvo nei casi di messa in stato di accusa (impeachment),

non può essere il risultato dell’azione dell’organo rappresentativo della volontà popolare - così come dei membri del Governo (gabinetto), che corrisponde al solo Capo dello Stato, ovverosia a colui che ha provveduto alla loro nomina assumendo su di sé la piena responsabilità della sua libera scelta.

Il terzo ed ultimo criterio funzionale al riconoscimento degli ordinamenti presidenziali riguarda una questione centrale come quella attinente alle relazioni che in questa forma

vengono ad instaurarsi fra il Presidente ed il suo Governo: anche se questo criterio potrebbe essere ridotto alle considerazioni formulate da Lijphart, - secondo cui il presidenzialismo è «l’esecutivo formato da una sola persona» - d’altro canto ha ragione Sartori quando

5 G. Sartori, Ingegneria costituzionale, cit., 97. 6 G. Sartori, Ingegneria costituzionale, cit., 97.

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stemperando questa affermazione aggiunge che ciò che appare chiaro nel sistema presidenziale è la direzione della catena di autorità che procede dal Presidente verso il basso, il che significa

che è lo stesso Presidente, in ogni caso, a dirigere politicamente il potere esecutivo. A partire dalle considerazioni svolte, Sartori chiarisce che un sistema di governo può dirsi di tipo presidenziale se e solo se il Capo dello Stato, nella sua veste di presidente è il risultato di una elezione popolare , non può essere cessato o rimosso e dirige il gabinetto i cui membri procede lui stesso a nominare: quando «queste tre condizioni sono soddisfatte congiuntamente, allora abbiamo senza dubbio un sistema presidenziale puro; o così dice la mia definizione»7.

A partire dalla definizione di Sartori, che descrive con precisione l’essenza stessa della forma presidenziale, è possibile del resto prendere in considerazione altri elementi che, a partire proprio da quel nucleo duro, permettono di meglio definire i contorni del presidenzialismo.

Così Joseph LaPalombara aggiunge, fra l’altro, che, nel presidenzialismo il potere legislativo non risulta in alcun modo obbligato ad approvare i progetti di legge che provengono dall’esecutivo, così come a sua volta, l’esecutivo può esprimere il proprio veto rispetto ai

progetti di legge parlamentari. Ed ancora che nel presidenzialismo il potere esecutivo può chiamare il popolo a pronunciarsi direttamente attraverso plebisciti o referendum8. Paul Marie Gademet sottolinea, da parte sua, che il principio di separazione dei poteri è rigorosamente applicato quando il Presidente che non è politicamente responsabile davanti al Parlamento non può procedere al suo scioglimento9. Jorge Carpizo evidenzia, infine, che nei sistemi presidenziali, come regola generale, né il Presidente né i ministri possono essere membri del

Parlamento, che lo stesso Presidente può essere legato ad un partito politico diverso da quello che gode della maggioranza parlamentare e che il Capo dello Stato non può sciogliere l’organo legislativo, né questo può censurare direttamente il Presidente10.

Tutto ciò conduce, come è facilmente immaginabile, verso un tipo di sistema politico la cui struttura finisce con il condizionare, inevitabilmente, la sua dinamica: altrimenti detto, e per richiamare ancora la classica distinzione di Montesquieu, la cui natura influenza il principio. La

struttura – o natura- del presidenzialismo determinano, in una sola parola, il margine di manovra politico e costituzionale di cui godono concretamente gli attori che incarnano le istituzioni dello Stato nella quotidiana soluzione dei problemi relativi al funzionamento della democrazia.

Ma prima di addentrarmi nell’analisi di questo aspetto, vorrei ancora completare quanto sinora detto, ricordando fra i caratteri del sistema presidenziale sino qui richiamati quelli descritti da Juan Linz, grande conoscitore delle difficoltà relative alla pratica della democrazia e

7 Ibidem, 98. 8 J. LaPalombara, Politics withim nations, New Jersey, Prentice-Hall, 1974, 198 s. 9 P.M. Gademet, Le pouvoir executif dans les pays occidentaux, Parigi, Ed. Montchrestien, 1996, 16. 10 J. Carpizo, Caracteristicas esenciales del sistema presidencial e influencias para su instauración en America Latina, in Boletin Mexicano de Derecho Comparado, n.115, 2006, 60, nonché, dello stesso autore, El presidencialismo medicano, Mexico, Siglo Veintiuno Editores, 2002, 13.

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della sua crisi, che definisce il presidenzialismo a partire da due elementi, l’uno e l’altro fondamentali al momento di comprendere la natura di alcuni nodi cruciali che lo stesso autore

ha incontrato muovendosi entro il suo vasto campo di indagine, rappresentato dall’insieme del territorio americano, dalla fine del XVIII secolo sino ai principi del XIX. Così per Linz i caratteri distintivi del presidenzialismo sarebbero, da un lato, l’esistenza di un rapporto di legittimità democratica duale, «dovuto al fatto che tanto il Presidente quanto il Congresso sono eletti dal popolo e che non viene meno neppure quando il Presidente è designato da parte di un collegio, eletto dal popolo a questo solo fine»; dall’altro la rigidità del sistema, «in virtù della

quale entrambi i poteri sono eletti per un periodo fisso ed il mandato del Presidente è indipendente dalla volontà del legislativo la cui esistenza è, a sua volta, indipendente dal Presidente»11.

Il punto di vista di Linz mi pare particolarmente interessante, dal momento che pone in rilievo quale elemento davvero caratterizzante del presidenzialismo – e dunque, per questo, distintivo rispetto al parlamentarismo – la legittimazione democratica duale, che determina, a

sua volta, la straordinaria rigidità del sistema, sino a trasformarlo in una versione estrema del principio di separazione dei poteri, già introdotto con la rivoluzione liberale, dove il concetto di separazione si impone con evidenza sull’idea di coordinamento. E ciò accade proprio perché i due poteri fondamentali dello Stato – il Parlamento ed il Governo, che esercitano il potere politico, diversamente dagli organi giudiziari che si limitano ad esercitare quello giuridico – sono legittimati direttamente dal popolo. La comune elezione diretta sarebbe alla base del fatto che i

conflitti fra i due poteri finiscono con l’assumere frequentemente la dimensione di scontri frontali, senza che la forma presidenziale sia in condizione di ricorrere ai meccanismi di risoluzione dei conflitti tipici del parlamentarismo: la censura del Governo da parte del Parlamento o il suo scioglimento da parte dell’esecutivo. Per dirlo ancora con le parole di Juan Linz: «dato che il potere del Presidente e del Congresso derivano dal voto popolare […] si instaura un conflitto permanente ora latente, ora sul punto di esplodere drammaticamente; non

vi è alcun principio democratico per risolverlo, e i meccanismi di risoluzione che potrebbero essere indicati dalla Costituzione sono generalmente complessi, altamente tecnici, cavillosi e, dunque, di dubbia legittimità democratica di fronte all’elettorato»12.

Di fatto, i due meccanismi di contrappeso tipici del parlamentarismo (la mozione di censura e lo scioglimento anticipato del Parlamento da parte del Presidente del Governo) rappresenterebbero un modo per interferire sulla durata del mandato legittimamente previsto

per le cariche dei due organi dello Stato e, conseguentemente, un modo per limitare o sfumare la rigidità che deriva dal fatto di non poter intervenire sulla durata del mandato del Parlamento

11 J. Linz, Presidential or Parlamentary Democracy: Does it Make a Difference in J. Linz, A. Valenzuela, The failure of Presidential Democracy. Comparative Perspectives, Baltimore, The johns Hopkins University Press, Vol. , 1994, 6. 12 Ibidem, 7.

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e del Governo a prescindere da eventuali cambiamenti delle circostanze politiche rispetto al momento in cui ebbero luogo le elezioni. In effetti, nel sistema parlamentare la censura politica

riduce il mandato del Presidente e del suo Governo - nonché eventualmente anche della maggioranza governativo-parlamentare che ha scelto e sostenuto quel Governo sino all’approvazione della stessa mozione di censura – e lo fa in favore dello stesso Parlamento, che mediante la censura impone la propria visione politica; viceversa, e simmetricamente come altra faccia di una medesima medaglia, lo scioglimento anticipato accorcia i tempi del mandato parlamentare - ed in particolare ancora della maggioranza governativo-parlamentare che è

disconosciuta dallo stesso Presidente attraverso l’esercizio della facoltà, riconosciutagli dalla Costituzione, di intervenire sulle cariche parlamentari prima del loro naturale esaurimento – e lo fa in favore del Governo che, in ogni caso, a questo punto, dovrà pagare il prezzo della propria prerogativa confrontandosi con il corpo elettorale. Non dovrebbe, dunque, stupire il fatto che in relazione a questo punto si siano concentrati alcuni dei maggiori inconvenienti del sistema presidenziale, inconvenienti ai quali mi riferirò di seguito con il solo obiettivo di

aggiungere a quelli già richiamati alcuni elementi che permettono una maggiore definizione del sistema.

A tal fine comincerò con il richiamare la catalogazione redatta da due fra i maggiori esperti del mondo nello studio del presidenzialismo, Scott Mainwaring e Matthew Soberg Shugart, che nel 1997 diressero l’opera collettanea Presidencialismo y democrazia en America Latina13. Nel saggio che apre l’opera,14 Mainwaring e Soberg Shugart richiamano ragioni a favore e contro il

presidenzialismo, ricordando fra le prime proprio quelle stesse argomentazioni che sono alla base delle mie riflessioni: «in primo luogo – affermano – i critici del presidenzialismo sostengono che la durata predeterminata del mandato presidenziale introduce una rigidità che in termini di democrazia risulta essere meno conveniente della flessibilità offerta dai meccanismi parlamentari della mozione di sfiducia e dello scioglimento. Sostengono che la durata prestabilita del mandato presidenziale provoca difficoltà proprio nel momento in cui è

necessario far fronte a crisi importanti». È vero, d’altra parte, che la maggior parte dei sistemi presidenziali disciplinano, sotto diversi aspetti, istituti di impeachment, e che all’atto pratico il ricorso a questo tipo di strumenti potrebbe condurre a risultati assai simili, almeno nelle conseguenze dirette, a quelli prodotti dalla censura, caratteristica dei sistemi parlamentari: vale a dire la rimozione del titolare del potere esecutivo. Resta il fatto che «anche se la maggior parte dei sistemi presidenziali prevedono meccanismi di impeachment, essi garantiscono comunque una

minore flessibilità nei momenti di crisi, dal momento che l’obiettivo di deporre il presidente finisce con il mettere in pericolo l’intero sistema». Ne discende che per quanto un Presidente

13 S. Mainwaring e M. Soberg Shugart, Presidencialismo y democrazia en America Latina, Buenos Aires, Paidos, 2002. 14 Idem, Presidencialismo y democrazia en america Latina: revisión de los términos del debite, in S. Mainwaring e M. Soberg Shugart, Presidencialismo y democrazia en America Latina, cit., 19 – 64.

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«possa risultare incapace di portare avanti la propria azione a causa dell’opposizione del Congresso», sicuramente «nessun altro attore istituzionale sarà in grado di risolvere il problema

operando nel rispetto delle regole del sistema democratico», il che genera un effetto assolutamente indesiderato, però difficile da evitare, che consiste nel riconoscere nell’atto del colpo di Stato, più o meno dissimulato, o più o meno violento, «l’unica via percorribile per sbarazzarsi di un presidente incompetente ed impopolare»15. A ciò si aggiunga che anche nel caso in cui l’inpeachment fosse condotto con successo – il che è storicamente risultato essere un evento eccezionale – e qualora la sua riuscita non avesse fatto vacillare o venir meno il sistema

politico esistente, il che sembrerebbe ancora meno plausibile, bene in questo caso il diritto costituzionale, almeno in termini generali, prevede comunque che il Presidente rimosso sia sostituito dal suo Vice-Presidente, il che non sembra rappresentare quasi mai una soluzione soddisfacente per porre fine alla situazione di crisi che ha portato all’impeachment stesso. Risulta assai difficile immaginare un’ipotesi in cui le ragioni che possono aver spinto un Parlamento a ricorrere all’istituto dell’impeachment per rimuovere il Presidente non siano a sua volta estendibili

anche alla figura del suo vice, che con il Presidente suole mantenere relazioni di forte dipendenza. Il celebre caso Watergate, in questo senso, non rappresenterebbe che la classica eccezione in grado di confermare la regola generale.

Dalla rigidità della forma presidenziale non solo conseguono evidenti difficoltà al momento di liberarsi di un Presidente incapace o di un Presidente che ha violato i limiti della legalità (macchiandosi di delitti di corruzione e di altro genere), dal momento che «i sistemi

presidenziali fronteggiano male le grosse crisi»16, ma deriva altresì la considerazione per cui mentre le crisi dei sistemi parlamentari assumono solitamente la forma di crisi di governo e non di sistema, quelle della forma presidenziale si trasformano facilmente in crisi che riguardano l’ordinamento nel suo insieme. E ciò perché, al di là dell’evidente difficoltà di rimuovere i presidenti dal loro mandato «neppure i capi dell’esecutivo possono rafforzare la propria autorità, ponendo un questione di fiducia o disponendo lo scioglimento del Parlamento per

convocare nuove elezioni», dal che discende che in alcuni casi la direzione presidenziale può divenire assai più debole di quella esercitata da alcuni primi ministri nella forma di governo parlamentare.

La rigidità che deriva dalla durata del mandato presidenziale, prestabilita e pressoché inalterabile per mezzo degli strumenti istituzionalmente previsti, genera, infine, un’ultima disfunzione, rivelando un ulteriore elemento distintivo del presidenzialismo, evidente nei casi in

cui la rigidità si associ al divieto, piuttosto frequente, di rielezione, nella tornata elettorale successiva (secondo mandato) o in quella immediatamente seguente (terzo mandato). Per dirlo con le prole di Mainwaring e Soberg Shugart «così come nel sistema presidenziale è difficile

15 Ibidem, 36 s. 16 G. Sartori, Ingegneria costituzionale, cit., 108.

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procedere alla sostituzione di un Capo dello Stato eletto democraticamente che ormai non può più contare su alcun appoggio, ugualmente questa forma di governo impedisce il

prolungamento del mandato oltre i limiti fissati costituzionalmente per quei presidenti che pure sono ancora sostenuti dagli elettori». Di modo che «nonostante questo genere di disposizioni non ineriscano direttamente al tipo di sistema, la maggior parte delle Costituzioni presidenziali vietano la rielezione alla carica presidenziale per mandati consecutivi» il che determina che «dei buoni presidenti devono abbandonare il loro incarico anche quando possono ancora contare sull’appoggio dell’elettorato, delle élites, dei partiti politici e di ogni altro rilevante attore

politico». Dal punto di vista del funzionamento del sistema ciò significa che, di fatto «i presidenti possono contare su un tempo assai limitato per la realizzazione dei loro progetti, così che, spesso, cadono nella tentazione di voler fare molto in troppo poco tempo». Gli stessi Mainwaring e Soberg Shugart citano sul punto le opinioni di Linz che mette in luce come «la discontinuità nelle politiche intraprese, nonché la sfiducia nei confronti dei potenziali successori alimentano una sensazione di urgenza […] che può condurre a politiche scarsamente definite,

ad una loro rapida implementazione e ad un atteggiamento di impazienza nei confronti dell’opposizione».

Vedremo in seguito come il parlamentarismo – o per meglio dire come un concreto tipo di parlamentarismo, quello spagnolo – offra una struttura generale assai diversa rispetto a quella dei presidenzialismi richiamati, il che non esclude che questo stesso sistema parlamentare presenti, nei fatti, un forte carica presidenzialista e che, in alcune occasioni, adotti alcune

attitudini e assuma alcune pratiche tipiche dei regimi presidenziali. 3. – La Costituzione spagnola del 1978 dedica un titolo specifico, il V, alla disciplina delle

relazioni tra il Governo e le Cortes Generales. In realtà, alla sistematicità della norma costituzionale non corrisponde un’effettiva unità delle questioni regolate in questo titolo. E ciò perché sotto la medesima e generica rubrica “relaciones”, la Costituzione provvede a disciplinare

due e diversi ambiti. Da una parte quello attinente al funzionamento di tre istituti chiave, essenziali per preservare il modello parlamentare: mozione di sfiducia, questione di fiducia e scioglimento anticipato delle Corti da parte del Presidente del Governo. Dall’altra quello relativo ad una serie di strumenti di controllo del Governo e della pubblica amministrazione chiamati ad operare su due piani: istituzionalmente, ridimensionando, attraverso la ricerca della trasparenza della gestione e la socializzazione di informazioni ottenute grazie all’esercizio del

potere esecutivo, gli strumenti di potere di cui, secondo il modello dello Stato interventista, l’uno come l’altra dispongono; politicamente, generando un sistema dinamico che rende possibile l’alternanza. Questo è il senso profondo del potere proprio della Camera di assumere informazioni, nonché di formulare interrogazioni ed interpellanze. È chiaro che tanto gli istituti quanto gli strumenti richiamati hanno caratteri comuni: entrambe esprimono il rapporto di

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gerarchia esistente in tutte le democrazie parlamentari europee fra l’organo di rappresentanza della sovranità popolare, il Parlamento, ed il Governo, che al primo è subordinato; entrambe,

inoltre, costituiscono una chiara manifestazione della dinamica maggioranza /minoranza che distingue il parlamentarismo nelle moderne democrazie di partito. Effettivamente tanto i meccanismi introdotti per garantire equilibrio, quanto gli strumenti di controllo hanno un carattere sostanzialmente (infraorganico) intraorganico dal momento che la loro efficacia si esprime quasi sempre attraverso votazioni che mettono a confronto il Governo, che può contare sulla maggioranza governativo – parlamentare che lo sostiene, con la minoranza che

concretamente ha attivato l’uno o l’altro istituto di equilibrio o di controllo. Ma al di là di questi aspetti comuni, le differenze sono del resto indiscutibili: in primo luogo perché mentre il ricorso a strumenti atti a garantire il ripristino di un certo equilibrio è un fatto pressoché eccezionale e sintomatico di un funzionamento patologico di uno o più elementi del sistema parlamentare, per quanto riguarda gli istituti di controllo, essi funzionano abitualmente, dal momento che proprio la loro consuetudine è indice di una condizione di fisiologica normalità

dell’ordinamento; secondariamente perché la Costituzione affida solo al Congresso dei Deputati il compito di preservare l’equilibrio fra gli organi, diversamente da quel che capita rispetto agli strumenti di controllo che sono prerogativa tanto del Congresso quanto del Senato; ed infine, perché sono proprio i meccanismi di garanzia dell’equilibrio istituzionale, e non quelli di controllo, a caratterizzare il modello parlamentare previsto in Costituzione. Ciò giustifica, evidentemente, l’attenzione ad essi dedicata in queste pagine.

Gli istituti a sostegno dell’equilibrio fra i poteri costituzionali, in Spagna, sono resi necessari dall’esigenza di dare effettività al principio parlamentare nel tempo in cui il Governo esercita il potere esecutivo dello Stato. Il Governo che nasce, di fatto, come Governo del Congresso dei Deputati, per mezzo di una delibera che lo investe ed alla quale si farà fra breve riferimento, deve continuare ad essere tale nel corso di tutta la legislatura, di modo che se ad un certo punto non potrà più contare sul sostegno parlamentare che ha reso possibile la sua entrata in carica,

allora dovrà lasciare spazio ad un nuovo Governo o rimettersi alla decisione del corpo elettorale chiamato ad esprimersi con l’indizione di elezioni anticipate. Così impone il modello parlamentare previsto in Costituzione: non è possibile che un Governo resti in carica se non gode più del sostegno della maggioranza del Congresso. In sostanza il parlamentarismo non è altro che questo: una forma concreta di organizzazione dell’equilibrio fra i poteri dello Stato, di un equilibrio che per lo più dipende dall’efficacia di quegli stessi istituti che sono chiamati a

garantirlo. Questa è la ragione per cui lo studio degli strumenti che danno forma al principio

parlamentare nel nostro ordinamento induce a riflettere, innanzitutto sulle circostanze che condizionano quello che, senza dubbio, può essere definito come nuovo parlamentarismo, frutto

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dei cambiamenti prodotti nell’ambito delle rispettive posizioni politico – istituzionali del Parlamento e del Governo.

La prima fra queste circostanze è rappresentata dal ruolo decisivo giocato dai partiti nel funzionamento istituzionale dello Stato democratico. Decisivo nella misura in cui si consideri che solo i partiti, sull’appoggio dei quali il Governo può contare, sono in grado di garantire il sostegno del Parlamento e di imporre, quando necessario, il voto compatto in sua difesa. La disciplina di partito ha reso dunque possibile la pratica del parlamentarismo, ma ha chiesto in cambio un caro prezzo rappresentato dall’imporsi della prassi per cui i governi potranno,

generalmente, essere sostituiti solo se travolti dal fallimento della maggioranza parlamentare che li ha espressi. Le minoranze, ed in articolare quelle minoranze che per dimensione hanno la concreta possibilità di divenire in futuro esse stesse maggioranza, sanno bene, sin dal giorno in cui con l’elezione del Presidente si procede a consolidare una stabile maggioranza di governo, che per poter favorire un cambiamento in seno all’esecutivo esistono solo due alternative: provocare la rottura della maggioranza, sia essa o no il frutto di una coalizione, quando questa

al suo interno appaia disomogenea; proporsi come maggioranza alternativa nelle elezioni successive, quando la maggioranza è omogenea. Certo in questa ipotesi è possibile immaginare una terza via, propiziando la rottura interna del partito che appoggia il Governo, ma nei fatti questa opzione appare assai poco praticabile, soprattutto in quei sistemi politici in cui i partiti sono coesi. Diversamente in quei casi in cui il processo di consolidamento è solo all’inizio o non è stato neppure avviato, come è stato eloquentemente dimostrato dal caso spagnolo del

Partido de Union de Centro Democratico, che vinse a maggioranza relativa le elezioni del 1979, per poi disintegrarsi due anni più tardi a causa dei conflitti interni dovuti all’impossibilità di trovare un assetto di governo capace di contenere le diverse correnti e divisioni interne.

Dopo la celebrazione delle elezioni, per chiara volontà popolare o intervento di successivi accordi in seno al Parlamento, può nascere un Governo capace di resistere agli attacchi delle diverse minoranze, o perché dispone dell’appoggio della maggioranza assoluta della Camera – e

quando serve di entrambe le Camere – o perché, anche quando non può contare sul sostegno della maggioranza parlamentare, sa sfruttare a proprio vantaggio lo stato frammentato di una opposizione assai divisa al suo interno e, pertanto, incapace di impedire l’iniziativa governativa, metterne in pericolo la stabilità o la permanenza in carica. Dati certi presupposti, la minoranza non potrà far altro che aspettare, avendo assai poche possibilità non tanto di rovesciare il Governo, rovesciando la maggioranza che lo appoggia, quanto anche solo di influenzare

l’azione governativa, ed in particolare il suo programma legislativo, la sua potestà esecutiva e le priorità individuate in entrambe i campi. Così stanno le cose, di modo che generalmente non deve preoccupare il fatto che l’opposizione risulti sistematicamente sconfitta nelle votazioni parlamentari: preoccupante sarebbe piuttosto la loro abituale prevalenza.

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Quali conseguenze derivano dalla nuova posizione dell’opposizione nel parlamentarismo proprio dello Stato di partiti? La principale è la seguente: l’attività parlamentare delle minoranze,

e specialmente di quelle che sono state al governo e/o prevedono che potrebbero eventualmente tornare ad occupare cariche governative, sarà diretta in particolar modo, ed in molte occasioni quasi esclusivamente, a screditare la corrispondente maggioranza rispetto all’opinione pubblica, al fine di promuovere e, a suo tempo, produrre un cambiamento delle preferenze del corpo elettorale.

Va detto subito che questo stato di fatto risulta essere condizionato, oltre tutto, da una realtà

che non va sottaciuta: la progressiva professionalizzazione delle élites politiche, e, fra loro, di quelle parlamentari.

Questa tendenza alla professionalizzazione, in virtù della quale i parlamentari di quasi tutti i partiti hanno finito con il convertirsi in professionisti della politica, che si avviano alla pratica dell’attività pubblica molto giovani e lo fanno avendo la pretesa di continuare per un tempo illimitato, ha determinato, fra gli altri, un effetto di tipo trascendentale che Klaus von Beyme,

nel suo studio su La clase politica en el Estado de partidos17, ha definito come “alienazione” del politico nei confronti della sua professione d’origine. Le conseguenze che questa crescente tendenza alla professionalizzazione determina in capo ai parlamentari che appoggiano il Governo o nei confronti di quelli che, di volta in volta, stanno all’opposizione sono diverse, ma, in ultima istanza, confluiscono tutte a rafforzare quella dinamica Governo – opposizione di cui si parlava.

La professionalizzazione ha contribuito, da una parte, a rafforzare la stabilità dei governi, favorendo la disciplina di partito che ne rappresenta la chiave di volta. I parlamentari generalmente, infatti, sono molto disciplinati dal momento che mostrarsi riluttanti rispetto alle posizioni del partito conduce, quasi sicuramente, alla perdita del seggio a causa del mancato rinnovo della candidatura. E questa perdita, che in ogni caso assume i connotati di un castigo dai chiari effetti deterrenti, aumenta la sua carica dissuasiva nel caso in cui il parlamentare, per il

quale l’adesione alla disciplina di partito risulta essere il presupposto indispensabile per il rinnovo della sua candidatura elettorale, sia un professionista della politica. Le conseguenze della professionalizzazione rispetto all’opposizione, d’altra parte, sono simmetriche seppur diverse nei suoi risultati: i parlamentari dell’opposizione, e fra questi, in particolare, quelli che fanno parte del partito di maggior peso – vale a dire quelli che aderiscono a quella parte dell’opposizione che più di ogni altra ha la possibilità di giungere al governo – tenteranno prima

di tutto di logorare la tenuta della maggioranza al fine di rovesciarla, portandola, quindi, alla propria attuale condizione.

È chiaro l’unico obiettivo perseguito, che consiste nella conquista del diritto a formare il Governo. Non si deve dimenticare che la vittoria elettorale finisce per rappresentare sempre 17 K. Von Beyme, La clase politica en el Estado de partidos, Madrid, Alianza, 1995.

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una fonte inesauribile di risorse politiche, a disposizione dei partiti che avendola ottenuta vedono accrescersi in maniera straordinaria la loro possibilità di trovare una collocazione ai

propri affiliati e sostenitori. Ciò contribuisce a rendere la vittoria elettorale un obiettivo di vitale importanza - soprattutto per i grandi partiti, che contano nelle loro fila centinaia di professionisti della politica che aspirano ad occupare un incarico pubblico -, mentre trasforma, specularmente, la perdita della maggioranza governativa – e dunque il passaggio all’opposizione – in una autentica catastrofe. Per questo l’obiettivo perseguito dal partito che ha appena lasciato il governo è quello di tornarvi il prima possibile, così come, più generalmente, il fine ultimo di

ciascun partito che possa legittimamente sperare di governare è quello di vedere realizzate il prima possibile le sue speranze. E ciò perché, inoltre, solo così potrà avere accesso ad una serie di risorse da ripartire e dalle quali dipendono molte cose, non da ultimo la stessa stabilità interna del partito.

Quanto sinora affermato significa, in conclusione, che il destinatario privilegiato dell’azione dell’opposizione sarà l’opinione pubblica, tenuto conto che la stessa opera di detrimento nei

confronti della maggioranza è sostanzialmente rivolta ad influenzare chi con la sua decisione ha la possibilità di dare impulso ad un cambiamento della situazione politica vigente: il corpo elettorale. Qui risiede la seconda delle circostanze che hanno finito con il condizionare l’attuale posizione politica ed istituzionale del Parlamento. Ciò non significa in nessun modo affermare che l’opinione pubblica nasce con le moderne democrazie di massa. Significa piuttosto rilevare che con il suo consolidamento si sono prodotti cambiamenti che riguardano tanto i mezzi per la

diffusione dei messaggi, quanto i destinatari ed il contenuto dei messaggi stessi. Gli strumenti per la trasmissione di informazioni non solo si sono moltiplicati nel numero rispetto, per esempio, a quelli degli anni sessanta, ma hanno anche aumentato esponenzialmente la loro capacità di giungere ovunque, in tempo quasi reale.

In questo senso il vero cambiamento è stato determinato ovviamente dalla comparsa prima e dalla diffusione dopo della televisione, il cui impatto è ben conosciuto: la televisione ha

permesso ad ogni tipo di evento, ed in particolare a quelli di tipo politico, di entrare nelle case di ognuno in tempo record ed ha permesso ad una percentuale sempre più alta di cittadini elettori di assumere informazioni che prima del suo arrivo erano riservati a gruppi minoritari della popolazione. E ciò perché la televisione raggiunge i suoi destinatari a prescindere dalla loro condizione economica o sociale, nonché dal loro habitat geografico, il che ha condizionato sin dal principio il processo di acquisizione delle informazioni divulgate. La televisione è stata,

in sintesi, uno strumento di democratizzazione per la assunzione di informazioni e per la omologazione dei loro contenuti i cui effetti più evidenti hanno riguardato la trasformazione dei caratteri dei soggetti ai quali si rivolge. Fra questi il più incisivo riguarda l’avvio di ampi processi di alfabetizzazione nonché un generale innalzamento del livello culturale che un po’ ovunque ha accompagnato il consolidamento delle democrazie di massa. Questo fenomeno ha

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fatto sì che, per la prima volta, l’opinione collettiva fosse davvero pubblica ed ha contribuito, alla lunga, ad un miglioramento della qualità dell’elettore medio, capace non solo di assimilare,

ma anche di elaborare informazioni che per quantità e per complessità un tempo sarebbero state completamente fuori dalla sua portata. In ciò consiste effettivamente l’ultima trasformazione dell’opinione pubblica nelle attuali democrazie di partito: lo scontro politico alla base di quella azione di costante detrimento cui le minoranze dell’opposizione sottomettono la maggioranza governativo – parlamentare non riguarda esclusivamente il Governo come organo dello Stato, quanto piuttosto la più ampia attività svolta sotto la sua direzione generale dai

diversi comparti e dalle molte istituzioni che costituiscono il potere esecutivo. Il Governo, con la G maiuscola e la sua maggioranza parlamentare possono così essere criticati o censurati non solo per la concreta gestione del potere da parte del Presidente o di un ministro, ma anche, e di fatto così è frequentemente, a causa dell’operato dei dirigenti gerarchicamente subordinati e facenti parte dell’amministrazione centrale, delle amministrazioni territoriali la cui maggioranza politica coincide con quella di governo, o di altri tipi di amministrazione: i direttori dei pubblici

mezzi di comunicazione o i presidenti delle imprese a rilevanza pubblica, bersagli privilegiati dell’azione politica della opposizione parlamentare, sono esempi più che significativi di questa pratica abituale in tutte le democrazie europee.

In ogni caso e a prescindere da ciò, in queste democrazie è andato ampliandosi anche il numero delle attività che si è soliti far ricadere fra quelle proprie dell’azione di contrasto delle minoranze dell’opposizione e che rappresentano, in alcuni casi, uno strumento che permette

risultati in termini politici ed elettorali molto più efficaci di quelli frutto dell’azione di controllo di tipo tradizionale, che punta la sua attenzione sulla politica sviluppata dai politici e non sui politici che sviluppano politiche. Si pensi, ad esempio, al crescente protagonismo che all’interno della vita democratica è andata assumendo la costante attenzione rivolta alle risorse economiche private di coloro che occupano un incarico pubblico, nonché, e non è che un altro esempio, allo spazio occupato nel dibattito democratico dalle questioni in tema di corruzione o di

finanziamento ai partiti. Un elettorato molto più permeabile rispetto alle diverse fonti di informazioni, nonché agli

influssi provenienti dai molteplici canali del potere politico e sociale (mezzi di comunicazione, internet, partiti, sindacati, organizzazioni non governative, chiese, gruppi economici, associazioni, forum, movimenti culturali…) ha finito con il divenire per forza di cose più volatile, ovverosia più propenso a modificare il suo voto, ad uniformare la sua decisone

elettorale tenendo conto di elementi assai differenti rispetto alle vecchie credenze culturali o alle antiche ideologie: questa estinzione o, in ogni caso, questo indebolimento delle tradizionali identità collettive, nonché la loro conseguente sostituzione ad opera di altre identità molto più plurali e diversificate, costituisce la terza circostanza che ha contribuito a determinare

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cambiamenti sostanziali nel funzionamento politico – istituzionale dei regimi parlamentari attuali.

Non è necessario insistere sulla relazione di interazione e retroazione che lega la prima e la seconda circostanza (il ruolo dei partiti nel rafforzamento della maggioranza governativo – parlamentare , da una parte, e la dimensione extraparlamentare della attività di controllo rivolta in modo particolare ad un solo destinatario, l’opinione pubblica, posta al di fuori del Parlamento, dall’altra) alla terza appena menzionata. Perché un elettorato tanto più volubile e volatile, quanto meno connotato dal punto di vista della identità e delle ideologie, è un

elettorato molto più suscettibile di essere influenzato dall’una o l’altra prospettiva politica – dal Governo o dalla opposizione, dalla maggioranza o dalle diverse minoranze –contribuendo con il suo voto a mantenere la situazione vigente, confermando il suo appoggio alla maggioranza governativo – parlamentare o, al contrario, modificandola mediante il riconoscimento del proprio sostegno al gruppo, o ai gruppi, che sono all’opposizione. Tutto ciò risulterebbe, inoltre, condizionato dal fatto che, come ricordato, nelle attuali democrazie parlamentari di

partito il cambiamento o, nel caso, la continuità politica che l’ultimo risultato elettorale può aver garantito costituiscono quasi l’unica via praticabile per – rispettivamente – propiziare un cambiamento al Governo o, al contrario, per impedirlo. Conseguentemente si potrebbe affermare che se la crescente volubilità e fluidità del corpo elettorale hanno accresciuto le possibilità che il cambiamento o la stabilità politica dipendano in sostanza dai suoi spostamenti molto più di quanto succedeva nel passato (quando con elettorati ideologicamente molto più

consolidati questi spostamenti risultavano essere assai più lenti e di minore intensità), il consolidamento della disciplina di partito, tipica delle attuali democrazie, ha trasformato queste possibilità in una necessità per quanti, nell’opposizione, lottano per determinare il cambiamento o, nel Governo, cercano di evitarlo.

E’ in questo nuovo contesto politico che, grazie alle circostanze sinora riferite, il sistema di equilibrio interorganico previsto nella Costituzione del 1978 assume il suo autentico significato.

Un sistema il cui disegno è di una semplicità e linearità quasi matematiche: il Governo nasce per nomina del Presidente investito dal Congresso dei Deputati con un atto che mette in luce l’esistenza di una maggioranza governativo – parlamentare stabile, la cui unica vocazione consiste nel mantenimento in carica del Governo stesso per tutto il corso della legislatura. Ciò non esclude che, per ragioni diverse, questa maggioranza possa indebolirsi, eventualità rispetto alla quale al Presidente del Governo non resterà altra possibilità che porre al Congreso una

questione di fiducia volta a compattarla, tenuto conto che, laddove non riesca nel suo intento, la Camera sarà chiamata ad investire un nuovo Presidente. A questa prima evenienza se ne aggiunge una seconda costituzionalmente prevista, per cui nel caso in cui la maggioranza parlamentare venga meno, al di là dei motivi che hanno portato alla sua disgregazione, e qualora la Camera bassa al suo interno sia comunque in grado di esprimere una nuova maggioranza

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alternativa, è possibile che il Congresso approvi una mozione di sfiducia costruttiva per mezzo della quale sostituisce il Governo censurato con un altro rappresentativo del nuovo assetto

politico. Mozione e questione di sfiducia: questi sono concretamente i meccanismi previsti in

Costituzione per far valere la responsabilità del Governo nei confronti delle Cortes al fine di dare efficacia al principio generale consacrato dall’art. 108: «Il Governo risponde, in forma solidale, davanti al Congresso dei Deputati della sua gestione politica».

Ma è lo stesso dettato costituzionale a prevedere una terza opzione, nel caso in cui la Camera

che ha fatto venir meno il proprio appoggio al Presidente del Governo non sia capace, d’altra parte, di dare vita ad una maggioranza alternativa stabile, in grado di garantire la governabilità del Paese: in questo caso è proprio il Presidente del Governo ad avere le chiavi per uscire dall’ empasse costituzionale mediante il ricorso ad elezioni generali anticipate.

Come si può notare, e come sarà più dettagliatamente richiamato di seguito, tutti i meccanismi di equilibrio ricordati sono tesi a garantire l’effettiva collaborazione dei poteri dello

Stato democratico (il Parlamento ed il Governo) attraverso una particolare forma di separazione degli stessi in virtù della quale «il potere frena il potere», così come pretendeva Montesquieu, in tutti quei casi in cui non è possibile il rispetto della regola, formulata da James Madison ne Il Federalista come norma alla base dello Stato costituzionale, secondo la quale «ogni potere deve mantenersi nell’ambito che gli è riconosciuto». E ciò non avviene, ovviamente, ogni qual volta un Governo parlamentare perde il proprio appoggio alla Camera.

In questo caso il Governo può ricorrere alla presentazione di una questione di fiducia. Secondo l’art. 112 della Costituzione la questione dovrà essere posta dal Presidente del Governo, previa delibera del Consiglio dei Ministri, davanti al Congresso e dovrà riguardare il suo programma o una dichiarazione di politica generale. La deliberazione del Consiglio ha carattere obbligatorio, dal momento che non può essere omessa, pur non essendo vincolante, tenuto conto che è il Presidente ad adottare personalmente la decisione finale sull’eventualità o meno di sottoporsi al

voto di fiducia parlamentare, indipendentemente, almeno sul piano giuridico, dalla volontà e dall’opinione dei suoi ministri. È evidente che il carattere obbligatorio della deliberazione punta anzitutto ad evitare la presentazione a sorpresa di una questione di fiducia, senza che tale eventualità sia stata prima almeno prospettata ai membri del Governo, circostanza sempre necessaria, ma ancora più stringente nel caso di governi di coalizione, nei quali convivono membri di due o più partiti, che rendono l’eventualità della presentazione di una questione di

fiducia assai più probabile rispetto ai casi di governi monocolore appoggiati da maggioranze omogenee legate ad un unico partito. L’esigenza che la questione di fiducia sia posta sul programma o su una dichiarazione di politica generale, da parte sua, tende ad impedire che il Presidente possa ricorrere al voto sviando il fine dell’istituto della fiducia, dimezzando la sua personale responsabilità rispetto ad una decisione concreta, per mezzo di una richiesta di

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conferma dell’appoggio parlamentare su una questione di carattere puntuale. È chiaro, d’altra parte, che a queste condizioni il perfezionamento dell’istituto stesso diviene assai più difficile da

cogliere, dal momento che la Costituzione si avvale di concetti giuridici indeterminati, il cui contenuto è suscettibile di essere variamente interpretato.

Dopo il dibattito sulla questione di fiducia, che si sviluppa, secondo quanto disposto dal regolamento del Congresso, in base alla medesima disciplina prevista per il dibattito in sede di investitura (intervento iniziale in cui il Presidente, senza alcun limite di tempo è chiamato ad illustrare la questione, intervento contingentato dei parlamentari rappresentanti dei gruppi che

ne facciano richiesta, possibilità concessa al Presidente di intervenire nel corso del dibattito ogni qual volta lo reputi opportuno), si procede alla votazione, palese e per appello nominale: la fiducia sarà concessa qualora abbiano votato a favore la maggioranza semplice dei deputati (art. 112). In caso contrario, qualora il Congresso abbia negato la fiducia richiesta, il Governo dovrà presentare al Re le proprie dimissioni, di modo che, successivamente, si possa procedere alla investitura di un nuovo Presidente del Governo in sostituzione del dimissionario (art. 114.1). A

questo punto possono aprirsi due possibilità: la nomina del nuovo Presidente ha luogo entro il termine costituzionale di due mesi o, al contrario, il termine spira senza che si sia eletto alcun Presidente, il che determina lo scioglimento automatico delle Cortes Generales e la celebrazione di nuove elezioni.

Diversamente dalla questione di fiducia, che è un meccanismo politico di iniziativa governativa, la mozione di sfiducia è un istituto di iniziativa parlamentare. La mozione, che dovrà

essere presentata da almeno un decimo dei deputati, dovrà includere l’indicazione di un candidato alla presidenza del Governo (113.2). Si tratta, dunque, di una mozione di sfiducia di tipo costruttivo, pretendendo che i proponenti e la maggioranza della Camera abbiano raggiunto un accordo non solo al fine di rovesciare l’attuale Presidente del Governo, ma anche per sostituirlo. Ne consegue che, così come prevede il regolamento del Congresso, nel dibattito sul voto di sfiducia non interverrà solo uno dei deputati proponenti, al quale compete la

presentazione del candidato alla presidenza, ma anche il candidato stesso, che è destinato a divenire il vero protagonista della discussione, nonostante quest’ultima debba essere diretta piuttosto a motivare la perdita dell’appoggio parlamentare da parte del Presidente uscente. Dopo il dibattito si procederà alla votazione, rispetto alla quale la Costituzione prescrive che la mozione sarà considerata accolta se avrà votato in suo favore la maggioranza assoluta del Congresso (art. 113.1), che la stessa non potrà essere votata prima che siano trascorsi cinque

giorni dalla sua presentazione ed, infine, che nei primi due giorni potranno essere presentate mozioni di sfiducia alternative (art. 113.3). Se la mozione è respinta, il Governo, da un punto di vista strettamente giuridico, non subisce conseguenza alcuna, anche se da un punto di vista logico si potrebbe concludere che dalla sconfitta dei proponenti la mozione deriva un rafforzamento della sua posizione. D’altra parte, pur nella scarsa esperienza spagnola sul punto

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(due mozioni di sfiducia dalla entrata in vigore della Costituzione) esiste un esempio che sembra indicare il contrario e che conferma la possibilità che rispetto al voto di sfiducia si possa avere

giuridicamente la meglio, pur perdendo sul piano politico: Felipe Gonzales, candidato proposto in sostituzione di Adolfo Suarez con la mozione di sfiducia presentata dai deputati socialisti nel 1980, risultò formalmente perdente nella votazione della mozione, che fu respinta dalla maggioranza del Congresso, anche se, secondo le conclusioni cui sono giunte tutte le analisi politiche degli anni successivi, da un punto di vista sostanziale incassò una vittoria politica che gli aprì la strada al grande trionfo elettorale nelle legislative del 1982.

A prescindere da ciò, l’unica conseguenza giuridica prevista dalla Costituzione nel caso di fallimento della mozione è rappresentata dal divieto, a carico dei proponenti, di presentarne una nuova per il resto della legislatura (art. 113.4). Ma se al contrario «il Congresso approva una mozione di sfiducia, il Governo presenterà le sue dimissioni al Re, mentre sarà presunta la fiducia concessa dalla Camera nei confronti del candidato indicato, conformemente a quanto previsto all’art. 99», che disciplina, come si vedrà fra poco, le modalità di voto per la investitura:

il Re nominerà, dunque, Presidente del Governo il candidato richiamato nella mozione (art. 114.2).

Da quanto considerato, si può evidentemente concludere che il costituente ha voluto disporre un modello fondato sulla formazione di coalizioni positive, nelle quali gli aderenti sono d’accordo non solo nel rovesciare il Presidente in carica, ma anche nella scelta del suo sostituto, impedendo la creazione di coalizioni meramente negative, rispetto alle quali è sufficiente

accordarsi in merito alla caduta del Presidente in carica, posticipando ad un tempo a venire ogni decisione in merito al successore, che sarà identificato indipendentemente rispetto al voto sulla mozione di sfiducia. La scelta della nostra Costituzione, che rende l’istituto della mozione di sfiducia un atto complesso, con il quale i deputati sono chiamati ad esprimersi al contempo anche sulla investitura di un nuovo Presidente, costituisce l’ennesima prova di un disegno istituzionale la cui coerenza interna è rappresentata dalla volontà di rendere assai difficile

l’eventuale verificarsi di vuoti di governo, a tal fine rafforzando la posizione dell’esecutivo e, in modo particolare, quella del suo Presidente.

In effetti, così come è facile dimostrare a partire da quanto sinora esposto, la previsione dei due meccanismi costituzionali per rendere effettiva la responsabilità del Governo conduce ad una conclusione evidente: il legislatore costituente ha realizzato una forte scommessa, se così si può dire, in favore della stabilità governativa. Ciò si deduce in primo luogo a partire dal

carattere costruttivo della mozione di sfiducia che, come dimostrano gli anni trascorsi dalla entrata in vigore della Costituzione, rende la sua approvazione estremamente difficile, dal momento che risulta assai più remota la possibilità di generare una maggioranza alternativa alla esistente rispetto al dare vita ad una mera maggioranza in grado di sostenere il rovesciamento del Governo, che ha visto venir meno l’appoggio parlamentare dopo l’investitura presidenziale.

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Ma la scommessa sulla stabilità trova conferma anche, in secondo luogo, ma in ugual misura, nella previsione delle diverse maggioranza richieste per dare efficacia ai due meccanismi di

equilibrio ora analizzati: maggioranza assoluta per la sfiducia, vale a dire per rovesciare un Governo procedendo ad una contestuale nuova investitura; maggioranza semplice nei casi di concessione della fiducia, vale a dire per permettere al Congresso di confermare il Presidente e, conseguentemente, il suo Governo.

Ciò significa che l’uno come l’altro meccanismo finiscono con l’essere svuotati di ogni trascendencia, essendo effettivamente molto difficile far valere per loro tramite la responsabilità

politica governativa? Non è del tutto così, dal momento che al di là della sanzione giuridica che da essi discende di volta in volta, i meccanismi descritti attivano quella che Giuseppe Ugo Rescigno, con precisione e lucidità, ha definito una «responsabilità politica diffusa», che può essere fatta valere da diverse istituzioni deputate al controllo sociale (partiti, sindacati, mezzi di comunicazione, gruppi sociali organizzati etc…) a partire dall’impulso iniziale concretizzato nella sua sede naturale, il Parlamento: in «una comunità politica, e comunque nelle moderne

comunità politiche, così articolate e complesse» ha scritto Rescigno nel suo La responsabilità

politica « i soggetti investiti di poteri politici non temono solo le critiche di quei soggetti cui compete istituzionalmente controllarli, ma in principio reputano degna di attenzione ogni critica da qualunque soggetto della comunità politica provenga, e in fatto tanto più si preoccupano delle critiche mosse o tanto più tentano di prevenire le critiche possibili quanto più il soggetto che critica o può criticare è influente e quanto più le circostanze sono tali da rendere pericolosa

la critica mossa o movibile in futuro»18. E quella diffusa finisce con l’essere una responsabilità che pesa non solo sui destinatari costituzionalmente previsti, ma anche sul gruppo o sui gruppi parlamentari che attivano quegli stessi meccanismi di controllo, dal momento che, come ha sottolineato lo stesso Rescigno «se colui che detiene il potere può risultare responsabile, potendo essere criticato per l’uso che ne fa, ugualmente può essere fatta valere la responsabilità di coloro che quel potere aspirano ad ottenere, essendo per questo sottoposti al giudizio altrui;

in un caso come nell’altro si subiranno conseguenze negative dettate in un caso dalla perdita o dall’indebolimento del potere, nell’altro dall’ulteriore allontanamento dal medesimo»19.

Il terzo dei meccanismi di equilibrio previsti dalla nostra Costituzione, lo scioglimento anticipato

delle Corti da parte del Presidente del Governo, ha lo scopo di porre rimedio al blocco istituzionale che potrebbe prodursi in seguito alla confluenza di due condizioni: da una parte, l’incapacità del Governo di mantenere compatta la maggioranza governativo – parlamentare

che ha accompagnato l’investitura del suo Presidente; dall’altra, l’incapacità del Congresso dei Deputati di creare una maggioranza alternativa a quella esistente. Questa congiuntura potrebbe essere superata, è evidente, con le dimissioni del Presidente, soprattutto nel caso in cui sia

18 Cfr. G. Rescigno, La responsabilità politica, Milano, Giuffrè, 1967, 113 s. 19 Ibidem, 115.

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proprio la continuità rispetto al Governo ad impedire la formazione di una nuova maggioranza, o la riconfigurazione della stessa maggioranza governativa. Ma quando questa via d’uscita

sembra preclusa, la governabilità si trasforma in una prospettiva semplicemente impossibile, di modo che è proprio per far fronte a questa impossibilità che è concessa al Presidente la prerogativa di porre fine alla crisi convocando il corpo elettorale. Il Presidente potrà così, previa delibera del Consiglio dei Ministri, ma sotto la sua esclusiva responsabilità, proporre lo scioglimento del Congresso, del Senato o delle Corti nel loro insieme, per mezzo di un decreto regio che deve contenere la data delle nuove elezioni (art. 115.1). Come già sottolineato

parlando della proposizione della questione di fiducia, e richiamando le motivazioni addotte, anche in questo caso, la deliberazione del Consiglio dei Ministri che precede la proposta di scioglimento è obbligatoria, ma non vincola il Presidente che, secondo il dettato della Costituzione, agisce assumendo su di sé la piena responsabilità politica dell’atto. La stessa norma costituzionale stabilisce, inoltre, tre limitazioni al suo esercizio, precisando che lo scioglimento anticipato non potrà essere disposto quando sia stata presentata una mozione di

sfiducia (art. 115.2), al fine di impedire una mistificazione del meccanismo di censura, rendendolo vano; non potrà essere disposto qualora sia stato dichiarato uno degli stati previsti all’art. 116, vale a dire lo stato di eccezione, di allarme, di invasione (art. 116.5), la cui dichiarazione rimanda sempre ad una certa alterazione del normale sviluppo della vita istituzionale; non potrà essere disposto prima che sia trascorso almeno un anno dal precedente scioglimento, salvo quanto disposto all’art. 99.5 della Costituzione, salvo cioè che la precedente

si sia prodotta automaticamente, essendo trascorso il termine di due mesi dal primo voto di investitura senza che il Congresso abbia potuto procedere all’elezione del Presidente del Governo. Questa ultima limitazione si pone l’obiettivo di correggere, per quanto possibile, l’abuso del meccanismo dello scioglimento anticipato, al quale, in ipotesi, sarebbe possibile ricorrere per una ragione diversa da quelle previste dal legislatore costituente: mi riferisco all’eventualità che il partito di governo possa manovrare il ciclo elettorale assecondando i propri

particolari interessi, spezzando i tempi di durata della legislatura (quattro anni) e trasformando quello anticipato in un caso di scioglimento ordinario. Il nostro sistema costituzionale non lo considera tale, dal momento che il Congresso ed il Senato sono eletti per quattro anni (artt. 68.4 e 69.5) e sono sciolti trascorsa la legislatura, pur essendo possibile, ma solo in via eccezionale, uno scioglimento prima dello scadere dei termini nei casi appunto di scioglimento anticipato (art. 115.1), nei casi in cui non sia possibile procedere ad eleggere un Presidente del Governo

(art. 99.5), o nei casi in cui sia stato avviato un procedimento di revisione costituzionale (art. 168.1).

Analizzando il modello parlamentare spagnolo previsto nella Costituzione si è già avuto modo di sottolineare chiaramente alcuni elementi che contribuiscono alla presidenzializzazione

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della forma di governo. Nell’ultima parte del mio lavoro si presterà concreta attenzione a questo fenomeno, evidenziandone, al di là di quelli descritti, ulteriori diversi aspetti.

4. – La Costituzione spagnola nel secondo comma dell’art. 98, dispone che «il Presidente

dirige l’azione del Governo e coordina le funzioni degli altri membri dello stesso, senza pregiudizio della competenza e responsabilità diretta di questi nella loro attività di amministrazione». Al di là della sua evidente chiarezza, questa norma, al contrario, non dà un’idea piena della reale trascendenza della posizione costituzionale del Presidente rispetto al

Governo e, più in generale, rispetto all’intero sistema di bilanciamento dei poteri che configura il regime politico spagnolo. Ed è proprio l’analisi dettagliata di questa posizione ciò che permette di valutare il forte grado di presidenzializzazione del nostro parlamentarismo, presidenzializzazione che giuridicamente si esprime su tre piani che finiscono con il convergere, dotando il Presidente di un innegabile protagonismo rispetto al funzionamento del sistema, in particolare quando le condizioni concrete della politica favoriscono questa tendenza.

I. Il protagonismo presidenziale deriva in primo luogo, e prima di tutto, dalla struttura del

sistema di equilibrio fra i poteri che, a suo tempo, il costituente ha voluto definire prevedendo un regime che appare decisamente condizionato dalla regolazione costituzionale del meccanismo di elezione del Governo da parte del Congresso dei Deputati. È per questo che, per comprendere nei particolari la centralità della posizione del Presidente nel nostro regime

politico, è necessario conoscere, prima di tutto, i caratteri del meccanismo costituzionale che lo connota: il voto di fiducia. E va detto in prima battuta che il Governo ha origine a partire dalla elezione in seno al Parlamento del suo Presidente, dal momento che i suoi membri saranno nominati e respinti dal Re su proposta del neo eletto Presidente (art. 100), che esprime una autentica decisione politica di nomina, che, per ovvie ragioni, il Re si limiterà a formalizzare. La scelta presidenziale è giuridicamente assai libera, a prescindere dal grado di condizionamento

politico cui ciascun Presidente potrà essere sottoposto da parte delle forze politiche della maggioranza, omogenea o frutto di coalizioni, che lo ha eletto. In particolare, definisco la scelta presidenziale quale “assai libera”, perché il candidato che richiede la fiducia del Congresso non ha alcun obbligo di informare, né prima, né dopo, la Camera delle sue decisioni rispetto al Governo che andrà a formare, tenuto conto che questa risulta essere la pratica seguita in Spagna sin dai primi anni dell’attuale periodo democratico.

La natura trascendental dell’atto giuridico – politico dell’investitura del Presidente da parte del Congresso dei Deputati, di fatto, quindi, non deriva tanto dalle informazioni che il candidato trasmette alla Camera in merito alla composizione del suo Governo o relativamente al programma, che, a suo tempo, tenterà di sviluppare, quanto piuttosto dal fatto che l’investitura

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corrisponde al momento della formazione della stessa maggioranza governativo – parlamentare: le tre fasi che concretano l’atto di investitura sono tutte dirette a perseguire questo obiettivo.

La prima fase, rappresentata dalle consultazioni svolte dal Re, avviata dopo ogni rinnovo del Congresso dei Deputati e in ogni altro caso in cui sia previsto costituzionalmente (dimissioni o morte del Presidente, voto negativo nella delibera sulla questione di fiducia da parte del Congresso), si pone l’obiettivo di fornire al Capo dello Stato le informazioni necessarie affinché possa provvedere a proporre un candidato in grado di essere effettivamente investito dalla Camera: è per questo che il Re deve ascoltare tutti i rappresentanti designati dalle forze

politiche presenti in Parlamento, vale a dire tutte le forze che hanno ottenuto seggi, anche quando il loro numero non sia sufficiente a dare vita ad un gruppo parlamentare autonomo nel Congresso. In realtà le cose si svolgono diversamente, dal momento che il Re si limita a proporre il leader del partito che ha ottenuto il maggior numero di deputati, formalizzando una decisione che è già stata assunta dal corpo elettorale. Questa pratica, che, seppur non espressa, fa parte dello spirito del dettato dell’art. 99 della Costituzione, è stata confermata dalla prassi

spagnola sino ad assumere il peso di una autentica convenzione costituzionale, al punto che solo nel caso in cui il panorama del sistema politico apparisse estremamente frammentato, non rendendo possibile verificare il senso profondo della decisione del corpo elettorale, solo in questo caso, per l’appunto, si potrebbe immaginare che la proposta del Re sia qualcosa di più di una mera registrazione della decisione che proviene dall’insieme dei votanti di cui il Capo dello Stato si fa mero tramite.

Terminate le consultazioni il Presidente, per mezzo del Presidente del Congresso (artt. 99 e 64.1), propone un candidato alla presidenza del Governo, aprendo la seconda fase dell’atto di investitura: quella del voto della Camera. A tal fine, il candidato esporrà davanti ad essa il programma politico del Governo che vuole formare e richiederà la fiducia, che può essere concessa in due modi: in prima votazione, con il consenso della maggioranza assoluta dei membri del Congresso; in seconda battuta, con una delibera che interviene quarantotto ore

dopo la prima, con il voto favorevole della maggioranza semplice. A prescindere che questa sia stata concessa nella prima o nella seconda votazione, a questo punto il candidato ottiene la fiducia della Camera: in entrambe i casi il Re nominerà Presidente il candidato proposto. Qualora la fiducia non sia stata concessa, invece, si procederà a proposte successive, negli stessi termini in cui si è proceduto precedentemente, tenuto conto che la Costituzione prevede una sanzione giuridica qualora il Congresso non sia in grado di dare vita ad una maggioranza di

sostegno al Governo e di eleggere un Presidente: effettivamente, se trascorsi due mesi dalla prima votazione nessuno dei candidati ha ottenuto la fiducia del Congresso, il Re deve sciogliere entrambe le Camere e convocare nuove elezioni, ancora per mezzo del Presidente del Congresso.

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Questo procedimento di investitura, che garantisce l’effettività del principio parlamentare nel nostro sistema costituzionale, rende evidenti anche le cause di cessazione del Governo – che

continuerà a svolgere le sue funzioni sino alla entrata in carica del nuovo esecutivo – descritte all’art. 101 della Costituzione: la celebrazione di nuove elezioni, la revoca della fiducia nei modi costituzionalmente previsti, le dimissioni o la morte del Presidente. Come si diceva, in tutti questi casi, e tranne quando sia stata presentata una mozione di sfiducia costruttiva, il venir meno del Governo in carica rende necessario un nuovo atto di investitura, come diretta conseguenza della natura parlamentare del Governo, garantita dalla investitura in seno al

Parlamento del suo Presidente. Dall’atto di investitura emerge, dunque, un Presidente forte, la cui forza è ancora maggiore

se il partito di cui è espressione gode della maggioranza assoluta al Congresso e se si concretano alcune condizioni, rappresentate, per esempio, da una indiscussa posizione di primazia del Presidente all’interno del suo partito.

Ma la predominanza del Presidente rispetto al sistema di pesi e contrappesi spagnolo, in ogni

caso, non deriva solo dalle concrete modalità di nomina, ma anche dal ruolo da protagonista svolto nella pratica dei tre meccanismi parlamentari di equilibrio precedentemente analizzati: dal fatto che è lo stesso Presidente a decidere se sottomettersi o meno al voto di fiducia del Congresso, attraverso una delibera del Consiglio dei Ministri che ha carattere obbligatorio, ma che non lo vincola giuridicamente; dal fatto che la mozione di fiducia del Congresso nei confronti del Presidente è di natura costruttiva, il che rende assai difficile la sua approvazione,

trasformando l’istituto della sfiducia in un meccanismo molto più rigido di quanto non lo sia abitualmente nei sistemi parlamentari – dal momento che la maggioranza chiamata ad appoggiarla dovrebbe essere d’accordo non solo sulla necessità di rovesciare il Governo, ma anche rispetto al nuovo Presidente da eleggere –; dal fatto, infine, che il Presidente può disporre lo scioglimento anticipato delle Corti con l’unico limite di dover sottoporre la sua decisione alla previa delibera del Consiglio dei Ministri, obbligatoria, ma non vincolante giuridicamente per il

capo dell’esecutivo che, secondo il dettato costituzionale, agisce assumendo su di sé la piena responsabilità dell’atto.

II. La seconda sfera entro cui si rende evidente la posizione di forza del Presidente non ha

nulla a che vedere con il sistema di pesi e contrappesi dell’ordinamento, bensì con le relazioni privilegiate che lo legano ad organi istituzionali dello Stato o della società civile.

Al Presidente compete, infatti, una serie di facoltà che lo pongono in diretto contatto con il corpo elettorale (convocare il referendum consultivo sulle decisioni di maggiore peso politico, anche se in questo caso deve essere stato preventivamente autorizzato dal Congresso: art. 92.2), con il Capo dello Stato (controfirma degli atti regi, nonché trasmissione degli atti legislativi e di quelli normativi aventi forza di legge per la sanzione ragia e invito al Re medesimo, affinché

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voglia presiedere il Consiglio dei Ministri nei modi e nei casi previsti dalla Costituzione: art. 62 g), e con il Tribunale costituzionale, davanti al quale può presentare ricorso di incostituzionalità

(art. 162.1 a). III. La presidenzializzazione del nostro parlamentarismo, infine, è evidente anche laddove si

ponga attenzione alla sfera di relazioni che legano il Presidente al Governo che ha designato. La legge 50/1997 del 27 novembre, in tema di organizzazione, competenza e funzionamento

del Governo ha razionalizzato i poteri presidenziali così come le funzioni degli altri membri del

Governo (art. 2.2), aggiungendo a quelle già costituzionalmente previste altre implicite nel dettato costituzionale. Tutte le facoltà richiamate nella legge mettono in luce il ruolo da protagonista giocato dal Presidente nei tre ambiti che essenzialmente concretano le relazioni tra il capo ed i membri del Governo (Vice-Presidente o vicepresidenti e ministri), che con lui compongono l’organo collegiale al vertice del potere esecutivo20. In primo luogo per quanto riguarda la composizione e l’organizzazione del Governo, cui si provvede mediante un real

decreto presidenziale, che dispone inoltre circa gli organi di collaborazione ed appoggio (art. 17 della legge 501997), determinando una delegificazione di questa competenza fondamentale che è affidata interamente al Presidente, escludendo ogni interferenza del potere legislativo: il Presidente, con decreto regio, crea, modifica e sopprime i dipartimenti ministeriali, le segreterie di Stato e definisce la struttura organica del proprio Governo (art. 2.2 della legge 50/1997). In secondo luogo, in merito alla designazione dei membri del Governo, cui il Presidente si dedica

in piena libertà, senza altro condizionamento rispetto a quelli di tipo politico, diversi a seconda della maggioranza che lo sostiene (omogenea o di coalizione), ed a quelli che derivano dal consolidamento del potere del Presidente quale leader del suo partito. Da ultimo, relativamente ai poteri di coordinamento e direzione in seno al Governo, poteri rispetto ai quali gode di una assoluta superiorità, dal momento che a lui corrispondono la facoltà di rappresentare il Governo, stabilirne il programma politico, determinando le linee della politica interna ed estera

e garantendo la loro realizzazione, di dirigere la politica in tema di difesa dello Stato, esercitando nei confronti delle forze armate le prerogative riconosciute dalla legge che disciplina la difesa nazionale e l’organizzazione militare, convocare, presiedere e fissare l’ordine del giorno delle sessioni del Consiglio dei Ministri, risolvere i conflitti di attribuzione che possono sorgere tra i diversi ministeri ed impartire istruzioni agli altri membri del Governo (art, 2.2 della legge 50/1997). La supremazia presidenziale risulta essere, inoltre, tanto più vigorosa quanto

maggiore è il reale peso politico del Presidente in seno al Governo, di modo che un Presidente che può contare su una solida maggioranza parlamentare o di una posizione di forza in seno al partito che garantisce il suo appoggio non incontrerà alcun limite alla propria azione di

20 Si veda I. Fernández Sarasola, Algunas reflexiones en torno a la primacía del presidente en el Gabinete ministerial, in Teoria y Realidad Constitucional, n. 16, 2005, 284 ss.

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governo. E ciò perché se anche venisse a scontrarsi con l’opposizione di uno o più membri del Governo, potrebbe sempre procedere alla loro rimozione.

In ogni caso, e oltre ogni possibile previsione legislativa o costituzionale relativa alla

istituzione della presidenza del Governo, la pratica politica e parlamentare spagnola sin dalla approvazione della Costituzione del 1978 non ha fatto altro che confermare il disegno giuridico – costituzionale che colloca il Presidente al centro di una vasta sfera di influenza politica, economica e sociale che controlla il potere esecutivo dello Stato. In effetti, così come si può

rilevare osservando il quadro 1, l’esistenza di governi monocolore, dal primo nato dopo le elezioni generale del 1979 dall’appoggio della Union de Centro Democratico a Adolfo Suárez, sino all’ultimo formato nel 2004 da José Luis Rodríguez Zapatero con l’appoggio del Partido Socialista

(PSOE), passando, si intende, per quelli nominati da Felipe Gonzáles nel lungo periodo socialista o da José Maria Aznar con l’appoggio del Partido Popular durante il periodo popolare , così come la posizione di forza – con l’unica eccezione rappresentata da Adolfo Suárez -

occupata da ciascuno dei presidenti menzionati all’interno del partito che garantiva loro l’appoggio parlamentare, finirono con il contribuire a potenziare la centralità del ruolo dei presidenti all’interno del Governo, sino a renderli veri e propri governi del Presidente.

Legislatura Partito di Tipo di Adelanto Governo di coalizione Governo maggioranza electoral 1ª 1979-1982 UCD semplice (168) SI NO 2ª 1982-1986 PSOE assoluta (202) NO NO 3ª 1986-1989 PSOE assoluta (184) SI NO 4ª 1989-1993 PSOE assoluta (176) NO NO 5ª 1993-1996 PSOE semplice (159) SI NO 6ª 1996-2000 PP semplice (156) NO NO 7ª 2000-2004 PP assoluta (183) NO NO 8ª 2004-2008 PSOE semplice (164) - NO

Quadro 1

Ciò che più di ogni altra cosa è interessante rilevare a riguardo è la circostanza per cui la vera forza di questi governi del Presidente è dipesa in gran parte dal fatto che il loro capo poteva

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contare su una certa posizione di forza all’interno del partito, e dunque all’interno dei rispettivi governi, sempre monocolore, che del partito godevano l’appoggio, piuttosto che dal tipo di

maggioranza, semplice o assoluta, che effettivamente hanno sostenuto i singoli presidenti del Governo. In questo senso, il quadro 1 mette in luce una serie di elementi necessari per comprendere lo stato di fatto: le otto legislature seguite alla approvazione della Costituzione, sono state caratterizzate da governi monocolore, vale a dire formati da membri appartenenti ad un medesimo partito, anche se solo in quattro casi – la metà – il partito di maggioranza ha potuto contare su un numero di deputati in Congresso (176, quota che rappresenta la

maggioranza assoluta rispetto ai 350 membri che compongono questa Camera), tale da evitare che la opposizione potesse potenzialmente tentare di rovesciare il Governo. Ora, il fatto che nella metà dei casi il Governo non potesse contare su una maggioranza assoluta non ha determinato alcuna instabilità, dal momento che solo in tre delle otto legislature è intervenuto uno scioglimento anticipato delle Camere in senso stretto – vale a dire uno scioglimento che corrisponde ad una vera e propria riduzione dei termini costituzionali e non ad un mero fatto

tecnico dettato da ragioni puramente legate al calendario – e che solo in uno dei tre atti di scioglimento (riferito alla quinta legislatura fra il 1993 ed il 1996) la riduzione ha comportato un anticipo del voto di più di sei mesi.

Ciò vuol dire che l’assenza di una maggioranza assoluta non ha avuto conseguenza alcuna nella dinamica del sistema parlamentare e che, conseguentemente, la supremazia del ruolo presidenziale ha funzionato secondo logiche identiche in relazione a maggioranze semplici o

assolute? Assolutamente no: l’esistenza o meno di una maggioranza assoluta in Parlamento ha consentito ai piccoli partiti di matrice nazionalista, in particolare baschi e catalani, di condizionare la vita politica del Governo, e, con ciò, di limitare il potere presidenziale in relazione, per esempio, alla definizione del calendario politico o del programma, la cui realizzazione è vincolata alla conclusione di patti. In questo senso la Spagna non differisce dagli altri sistemi parlamentari in cui il Governo non gode della maggioranza assoluta nell’Assemblea,

se non rispetto al fatto che nel caso specifico i partiti che hanno operato in funzione di cuscinetto sono forze politiche nazionaliste radicate territorialmente, con tutti i problemi che da questa situazione particolare possono discendere21. D’altra parte questa peculiarità, che, come appena ricordato, ha certo ridotto il margine di manovra presidenziale in seno al Parlamento, non ha scalfito la preminenza del Presidente né nel Governo né, più in generale, rispetto al sistema di equilibrio fra i poteri. Adolfo Suárez nel 1981 dovette lasciare il Governo non perché

all’UCD mancasse la maggioranza assoluta, o in ogni caso, non solo per questa circostanza, bensì per la crisi che travolse la direzione del suo partito, determinandone la distruzione e la dissoluzione dei gruppi parlamentari ad esso legati nelle Corti Generali. Parimenti Felipe Gonzales, nel 1993, si vide costretto a convocare elezioni anticipate certamente perché venne a 21 Si veda in proposito il mio volume Nacionalidades históriricas y regiones sin historia, Madrid, Alianza, 2005, 163 ss.

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mancare l’appoggio dei nazionalisti in Parlamento, ma anche perché era messo in dubbio il suo ruolo di leader all’interno del Partito Socialista. Al di là dei casi citati, ciò che è certo è che sino

a quando i presidenti poterono contare sulla loro indiscussa premiership all’interno del partito, conservarono parallelamente un certo protagonismo in seno al Governo, secondo i termini descritti, ed una certa preminenza nel sistema di equilibrio dei poteri: la miglior prova di quanto affermato risiede nella circostanza per cui in più di un quarto di secolo di vigenza del sistema democratico in Spagna sono state presentate due sole mozioni di sfiducia (una nel 1981 con Felipe Gonzales, del PSOE, come candidato alternativo al Presidente in carica Adolfo Suárez

dell’UCD; l’altra nel 1987 con la quale Antonio Hernández Mancha, del PP, era proposto in sostituzione dello stesso Felipe Gonzales), entrambe respinte, rendendo paragonabile la rigidità del modello spagnolo a quella dell’impeachment dei sistemi presidenzialisti. A ciò si aggiunga che, nessun Presidente è mai ricorso alla questione di fiducia e che lo scioglimento anticipato delle Camere è intervenuto eccezionalmente solo nei casi prima richiamati: ed effettivamente in tre occasioni – di cui una (si tratta della terza legislatura 1986 – 1989) mentre il Governo godeva

della maggioranza assoluta -, anche se solo in un caso (ovverosia nella quinta legislatura, tra il 1993 ed il 1996), lo scioglimento comportò davvero una riduzione sostanziale (circa un terzo) della durata della legislatura.

La tendenza alla presidenzializzazione, inoltre, ha avuto molto a che vedere, evidentemente, anche con il ruolo decisivo giocato dai mezzi di comunicazione quali strumenti di rafforzamento della personalizzazione della politica nelle moderne società di massa. Nonostante

le concrete manifestazioni di questo fattore di presidenzializzazione siano diverse, ne esistono due, che per la loro centralità rispetto alle relazioni del Capo del Governo – o di colui che aspira ad esserlo – ed il corpo elettorale sembrano essere particolarmente degne di menzione. Nel descriverle volgo ormai alla conclusione del mio lavoro.

In primo luogo mi riferisco all’abitudine, ormai consolidata da anni, per cui, ogni qualvolta che sono convocate le elezioni legislative, i partiti designano un proprio candidato alla

presidenza del Governo, a prescindere dal fatto che ciò non sia possibile, perché non previsto nel nostro ordinamento legale o costituzionale: basterebbe leggere l’art. 99 della Costituzione, che disciplina il procedimento di investitura, per comprendere la natura soltanto virtuale di questi candidati, che si scontra con le norme in tema di designazione del Presidente da parte del Congresso. In ogni caso, e a prescindere da ciò che la Legge fondamentale dice, i partiti – compresi quelli che non contano su alcuna possibilità di vedere il loro candidato designato

quale Presidente – insistono con il nominarlo, introducendo nel sistema parlamentare una prassi tipica del presidenzialismo, che una volta consolidata introduce una serie di altri aspetti che se non conseguono di diritto rispondono, comunque, ad una logica che è per lo meno quella della pratica politica: i dibattiti televisivi fra candidati alla Presidenza, per esempio, che, seppur eccezionali, non cessano di essere giuridicamente parlando, dibattiti fra candidati che i

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diversi partiti presentano come numeri uno nelle liste di Madrid per il Congresso. La pratica della designazione dei candidati ha contribuito, a prescindere dalla mancanza di una base

giuridica, a rendere più permeabile il sistema democratico, dal momento che i cittadini possono sapere con anticipo chi sarà il leader politico che verrà proposto a capo dell’esecutivo in caso di vittoria del partito: la conoscenza da parte del corpo elettorale di certe informazioni non può che essere considerata un fatto positivo.

Così come positiva è la seconda manifestazione a conferma della posizione centrale del Presidente in seno al Governo: la generalizzazione dei cosiddetti dibattiti sullo stato della

nazione, che non sono previsti in Costituzione e che sono stati importati dalla pratica nordamericana dei dibattiti sullo stato dell’Unione. In questo caso, l’importanza risiede soprattutto nel fatto che in linea di massima il dibattito sullo stato della nazione finisce con il rappresentare l’unico grande dibattito, trasmesso integralmente dalle radio e dalle televisioni, che i cittadini hanno l’opportunità di seguire nel corso dell’anno. Il che contribuisce a rafforzare la posizione del Presidente o di colui che, ragionevolmente, aspira ad esserlo. D’altra parte, è

innegabile che proprio il dibattito finisce con il migliorare e non certo peggiorare la qualità di una democrazia che ha sempre più bisogno di efficaci strumenti che la avvicinino al corpo elettorale.