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1 -DEMOCRAZIA RAPPRESENTATIVA E PARLAMENTARISMO (prof. PAOLO RIDOLA)- CAPITOLO I PARTITI POLITICI ,DEMOCRAZIA E PARLAMENTARISMO 1. Dal partito in parlamento alla democrazia dei partiti  In ogni epoca storica sono esistiti partiti e in ogni comunità politica la lotta per il potere ha condotto alla formazione di gruppi in competizione tra loro. In senso lato quindi si possono definire partiti: i gruppi di potere formatisi nelle città stato greche e nella repubblica romana, le fazioni medievali e le formazioni antagoniste delle guerre di religione. Ma la storia costituzionale dei partiti ha origini più recenti, discende dal consolidamento dello statocostituzionale rappresentativo per arrivare agli ordinamenti democratici contemporanei. In questo arco di tempo i partiti politici assumono l’attuale fisionomia di istituzioni capaci di esercitare una crescente influenza nel funzionamento degli organi costituzionali, fino a divenire effettivi detentori del potere politico dello stato. Triepel ha individuato 4 fasi di questa evoluzione, tra la prima metà del 19º secolo e la prima metà del 20º secolo: a) Atteggiamento di ostilità dello stato verso il partito; b) Indifferenza del diritto costituzionale verso il fenomeno dei partiti; c) Riconoscimento giuridico dei partiti; d) Inserimento di essi nell’organizzazione statuale. La vicenda storica tratteggiata dal Triepel si svolge lungo il filo conduttore dell’avvento delle masse sulla scena politica. Ma l’evoluzione è stata determinata soprattutto dalla radicale trasformazione della stessa idea di partito politico rispetto a quella che era la concezione liberale. Quest’ultima riteneva che il partito fosse espressione della competizione e della libera aggregazione delle opinioni, e quindi il riflesso nella vita pubblica della sfera di autonomia individuale dei privati. Ciò spiega perché per molti costituzionalisti dell’800 la libertà di azione e di propaganda dei partiti resti assorbita nella libertà di riunione e di opinione e, sul piano più strettamente giuridico, la tendenza allacompleta attrazione delle associazioni politiche nella sfera delle garanzie del più generale diritto dissociazione. Occorre anche sottolineare che nella trattazione liberale ottocentesca il rilievo dei partiti era inquadrato in un contesto istituzionale caratterizzato dal suffragio elettorale ristretto, dove quindi la partecipazione politica era limitata ad un ambito sociale omogeneo e quindi a questa concezione era estranea la complessa trama di interessi contrapposti esistente nella società civile. Il partito era generalmente identificato con il gruppo parlamentare la cui presenza nel paese era assicurata da uno sporadico e saltuario collegamento tra il partito parlamentare e i comitati ele ttorali. Solo con l’allargamento del suffragio elettorale e quindi l’emancipazione politica di più ampi stra ti della società della popolazione, i partiti divennero espressione della maggiore complessità sociale della cittadinanza politicamente attiva e cominciarono a riflettere quindi gruppi di potere caratterizzati da divisioni sociale ed economiche.

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-DEMOCRAZIA RAPPRESENTATIVA E PARLAMENTARISMO (prof. PAOLO RIDOLA)-

CAPITOLO I PARTITI POLITICI ,DEMOCRAZIA E PARLAMENTARISMO

1. 

Dal partito in parlamento alla democrazia dei partiti In ogni epoca storica sono esistiti partiti e in ogni comunità politica la lotta per il potere ha

condotto alla formazione di gruppi in competizione tra loro. In senso lato quindi si possono

definire partiti: i gruppi di potere formatisi nelle città stato greche e nella repubblica romana,

le fazioni medievali e le formazioni antagoniste delle guerre di religione.

Ma la storia costituzionale dei partiti ha origini più recenti, discende dal consolidamento

dello statocostituzionale rappresentativo per arrivare agli ordinamenti democratici contemporanei.

In questo arco di tempo i partiti politici assumono l’attuale fisionomia di istituzioni capaci di

esercitare una crescente influenza nel funzionamento degli organi costituzionali, fino a divenire

effettivi detentori del potere politico dello stato.

Triepel ha individuato 4 fasi di questa evoluzione, tra la prima metà del 19º secolo e la prima

metà del 20º secolo:

a) Atteggiamento di ostilità dello stato verso il partito;

b) Indifferenza del diritto costituzionale verso il fenomeno dei partiti;

c) Riconoscimento giuridico dei partiti;

d) Inserimento di essi nell’organizzazione statuale.

La vicenda storica tratteggiata dal Triepel si svolge lungo il filo conduttore dell’avvento delle masse

sulla scena politica. Ma l’evoluzione è stata determinata soprattutto dalla radicale trasformazione

della stessa idea di partito politico rispetto a quella che era la concezione liberale.

Quest’ultima riteneva che il partito fosse espressione della competizione e della libera

aggregazione delle opinioni, e quindi il riflesso nella vita pubblica della sfera di autonomia

individuale dei privati.

Ciò spiega perché per molti costituzionalisti dell’800 la libertà di azione e di propaganda dei partiti

resti assorbita nella libertà di riunione e di opinione e, sul piano più strettamente giuridico,

la tendenza allacompleta attrazione delle associazioni politiche nella sfera delle garanzie del più

generale diritto dissociazione.

Occorre anche sottolineare che nella trattazione liberale ottocentesca il rilievo dei partiti era

inquadrato in un contesto istituzionale caratterizzato dal suffragio elettorale ristretto, dove

quindi la partecipazione politica era limitata ad un ambito sociale omogeneo e quindi a questa

concezione era estranea la complessa trama di interessi contrapposti esistente nella società civile.

Il partito era generalmente identificato con il gruppo parlamentare la cui

presenza nel paese era assicurata da uno sporadico e saltuario collegamento tra il partito

parlamentare e i comitati elettorali.

Solo con l’allargamento del suffragio elettorale e quindi l’emancipazione politica di più ampi stra

ti della società della popolazione, i partiti divennero espressione della maggiore

complessità sociale della cittadinanza politicamente attiva e cominciarono a riflettere

quindi gruppi di potere caratterizzati da divisioni sociale ed economiche.

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Per tale motivo accanto ai partiti di origine parlamentare compaiono e si rafforzano

partiti sorti al di fuori del quadro parlamentare, espressione di formazioni di lavoratori, di

categoria o di gruppi confessionali.

Il distacco dal modello liberale che restringeva larappresentazione entro l’ambito della borghesia politicamente attiva e che faceva del parlamento il centro del processo di formazione della

volontà dello stato non potrebbe essere più evidente.

L’azione del partito tende ad estendersi dal parlamento alla società civile.

Si passa così dal partito di notabili al partito di massa, capace di un’intensa azione di aggregazione

e mobilitazione collettiva.

Tuttavia il processo che ha condotto i partiti ad uscire dal terreno propriamente sociologico

e a trovare riconoscimento a livello costituzionale è stato sicuramente più lento e graduale.

Mentre negli Stati Uniti e in Inghilterra dove i moderni partiti hanno avuto origine parlamentare,

il riconoscimento di essi è avvenuto molto indietro nel tempo, nell’Europa continentale nei quali,come abbiamo visto, il processo di formazione dei partiti si è svolto al di fuori del parlamento

occorre attendere i primi del 900 per trovare menzione dei partiti nellalegislazione costituzionale

mentre solo nel secondo dopoguerra questa tendenza si è consolidata.

2.  I partiti politici nello stato costituzionale di democrazia pluralistica 

Con l’allargamento del suffragio elettorale e con la democratizzazione del processo politico,

i partiti hanno assunto il ruolo di canali permanenti di partecipazione politica e di fattori

di organizzazione del pluralismo sociale. Inoltre se lo stato, per effetto della frammentarietà

della società, non rifletteva più (come invece accadeva in epoca liberale) una volontà politica

unitaria, si era però trasformato, grazie al ruolo dei partiti, in un luogo unitario di confluenza degli

articolati processi politici al suo interno, cosa che avrebbe permesso la trasformazione dello

stato in una forma politicamente aperta.

Di particolare interesse è la riflessione di Heller, uno dei protagonisti del dibattito costituzionale

weimariano.

Secondo Heller la Costituzione è la forma di organizzazione della sovranità del popolo, che deve

quindi esprimersi in un’unità di decisione e di azione. In questa cornice i partiti sono le strutture

fondamentali dell’organizzazione del dominio del popolo nelle democrazie.

Sono quindi elementi di unificazione di una rappresentatività legittimata dal basso.

Nella riflessione dei costituzionalisti sul ruolo del partito negli anni della repubblica di Weimar

veniva messo in luce come, con il diffondersi del pluralismo democratico. Il popolo non fosse più

in grado di esprimere una volontà unitaria e quindi come i partiti politici potessero svolgere

il necessario compito di mediare tra il pluralismo della volontà popolare e la necessaria unitarietà

dei processi di decisione statale.

E’ evidente che questo approccio alla comprensione del ruolo dei partiti è oggi, nelle società

del capitalismo maturo, difficilmente accettabile.

Infatti nelle moderne società esistono canali di collegamento della società civile con le istituzioni,

diversi dai partiti e che operano con criteri differenti: basti pensare ad. esempio alla concertazione

delle politiche dei redditi tra governo ed associazioni sindacali o ad alcune forme di raccordo

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tra associazionismo privato e pubbliche amministrazioni nel campo dei servizi sociali,

del volontariato o della tutela ambientale.

Assistiamo quindi a svariati fenomeni di collegamento tra la sfera pubblica e quella privata che

hanno sicuramente incrinato il monopolio dei partiti nel processo politico.

Inoltre a seguito dell’accresciuta competitività tra la società civile e i partiti, il partito ogginon è tanto il centro di aggregazione di settori dell’opinione pubblica accomunati dalla identità di

classe o di idee, quanto il luogo di mediazione di interessi diversi e domande sociali diverse,

mediazioni che sono necessarie per estenderne il consenso.

Questi sviluppi hanno determinato un atteggiamento diverso del rapporto tra società,

partiti ed istituzioni, ed il partito tende sempre più ad operare come strumento,

utilizzato da forzee soggetti sociali che sono divenuti gli effettivi protagonisti del processo politico,

per avere accessoal parlamento e agli altri luoghi di potere.

CAPITOLO II – L’EVOLUZIONE STORICOCOSTITUZIONALE DEL PARTITO POLITICO

1.  I costituzionalisti e il partito politico. Questioni di metodo 

Nella riflessione della dottrina costituzionalistica sui partiti si possono individuare 3 indirizzi

principali.

-  Il primo comprende posizioni anche diverse che comunque si collocano tutte

nell’ambito del formalismo giuridico e si basano sull’idea che occorre porre argini al

rischio che i partiti politici possano interferire e distorcere le regole predisposte

dalle norme costituzionali.

-  Sul versante opposto possiamo collocare le tesi del positivismo sociologico, che invece

mettono in luce come sugli assetti istituzionali e sulle forme di governo incida

profondamente il funzionamento del sistema politico e in primo luogo dei partiti (vedi

riflessione di Elia).

-  Fra i due indirizzi contrapposti possiamo collocare il terzo indirizzo che a differenza degli

altri due pone costituzione formale e partito politico in un rapporto che non è fatto di

contrapposizione ma solo di distinzione stabilendo che spetta ai soggetti della sfera

pubblica (ed in primis ai partiti) il compito di attualizzare continuamente la costituzione

rendendola effettiva e concretamente aderente alla realtà sociale.

Le tre tendenze sopra citate dimostrano come la riflessione sui partiti sia stata centrale per i

costituzionalisti ed abbia inoltre messo in primo piano l’esigenza di un legame tra forza

normativa della costituzione e sua concreta effettività.

Per tale motivo per comprendere il diritto costituzionale occorre fare riferimento alla realtà e

ai suoi mutamenti in quanto se è vero che le norme costituzionali restano invariate nella

loro formula testuale è anche vero che l’intepretazione di esse non può prescindere dai

mutamenti della realtà sociale e in tal modo, attraverso l’interpretazione, le norme costituzionali

possono adeguarsi ai mutamenti della realtà sociale.

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2.  I partiti nell’esperienza costituzionale italiana - Alla ricerca di un paradigma del rapporto

tra costituzionalismo e democrazia -La

collocazione dei partiti nell’esperienza italiana ha sollevato sin dagli albori dell’ordinamento 

repubblicano molti interrogativi . Dopo la fine della dittatura e il ritorno alla democrazia e

alle libertà politiche, i partiti furono non solo elementi costitutivi dell’ordinamento costituzionaleprovvisorio ma divennero addirittura protagonisti della fase costituente, svolgendo i grandi

partiti di massa un ruolo fondamentale in seno all’Assemblea costituente. 

Non deve sorprendere quindi che la costituzione italiana fosse pensata e costruita sulla base

dell’egemonia del sistema dei partiti.

D’altro lato però la forte polarizzazione e il pluralismo dei partiti ha contribuito a fissare nella

costituzione le basi di un pluralismo politico ad ampissimo raggio, privilegiando nello statuto

costituzionale dei partiti la dimensione associativa rispetto a quella istituzionale.

Lo statuto dell’associazionismo politicoquindi avrebbe trovato le sue basi nella disciplina generaled

ell’art. 18, all’interno della quale si collocava la disposizione espressamente dedicata ai partitidall’art. 49.

Nella formulazione di quest’ultimo inoltre la titolarità del diritto di concorrere a determinare

la politica nazionale spetta ai cittadini e i partiti pertanto sarebbero rilevanti solo come strumento

di tale partecipazione.

Tuttavia il fatto che il quadro costituzionale sia stato disegnato a maglie molto ampie permettendo

quindi una forte flessibilità, ha determinato il sorgere di prassi che avrebbero ridimensionato

il disegno costituzionale determinando un ruolo dei partiti come autentici monopolisti di tutte

le fasi del processo politico. Il sistema dei partiti sarebbe diventato quindi l’autentico perno 

della costituzione materiale, facendo sì che il concorso dei cittadini attraverso i partiti

(di cui all’art. 49) fosse completamente assorbito nel concorso dei partiti.

Tale ambiguità avrebbe influenzato il dibattito sui partiti che a partire dagli anni 60 sarebbe

oscillato tra posizioni antipartitiche e posizioni più equilibrate, come quella di Elia che sosteneva

che i caratteri del sistema politico non erano solo fattori che condizionavano la forma dei governo

ma veri e propri elementi strutturali di essa.

A partire dagli anni 70 la riflessione sui partiti ha condotto, sulla base dell’accentuazione della

dimensione associativa dei partiti, ad una concezione integralmente privatistica della loro natura

giuridica, che rivendicava al solo diritto privato il compito della tutela e garanzia della libertà

dei partiti, ispirando una giurisprudenza totalmente indifferente alla dimensione istituzionale del

partito stesso.

Sul dibattito degli anni 70 pesava anche la crisi di legittimazione del partito politico che si

dimostrava impreparato alle nuove sfide poste da una società pluralistica molto complessa,

che produceva una forte frammentarietà delle domande provenienti dai vari strati sociali.

Questi fattori hanno aperto una nuova stagione di ripensamento che tuttavia non può limitarsi

alla discussione di aspetti quali il diritto dei partiti e le regole della competizione politica,

il finanziamento dei partiti o i meccanismi della selezione della leadership politica, ma deve

anche verificare se i partiti siano ancora in grado di sorreggere i luoghi della comunicazione

politica e di orientare i processi di interpretazione e attualizzazione della costituzione.

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3.  Il partito e l’assetto fondamentale della comunità politica: i nodi problematici che vengono da

lontano  

Nei sessant’anni della nostra storia costituzionale i partiti sono stati di volta in volta considerati

Come:

fattori di crescita o di disgregazione dell’edificio costituzionale,-  come canali di legittimazione dell’ordinamento repubblicano o come alimentatori

del dissenso all’interno della società,

-  come fattori di libertà politica o di blocco delle dinamiche sociali.

Questa controversia affonda le radici già nell’antichità.

In generale possiamo dire che l’affermarsi delle teorie della concordia del corpo politico, della

costituzione mista e dell’equilibrio delle parti in cui è divisa la società hanno condotto a

valutazioni negative sul ruolo della divisione in partiti nella società.

Tale orientamento fu consolidato in età moderna in quanto l’affermarsi dei regimi assolutistici

spingeva nella direzione dell’accentramento politico.Sempre in età moderna si ebbe un approccio diverso nella riflessione sui partiti da parte

delpensiero costituzionale inglese del 700, sviluppatosi a seguito del consolidamento del regime

parlamentare , che pose le basi teoriche dell’innesto tra organizzazione politica della società e

assetto della forma di governo.

In tal modo l’idea di partito veniva sganciata definitivamente dal riferimento al nemico politico e

alla fazione avversa per diventare invece, fondamento del governo della società.

Negli sviluppi del costituzionalismo nella Francia rivoluzionaria e in seguito nello stato liberale

europeo l’idea del partito fu sostanzialmente smarrita.

Nella Francia rivoluzionaria infatti l’idea del partito rimase ai margini di quella che era l’unità

politica della società in quanto il terzo stato non veniva considerato come un contenitore di gruppi

e opinioni antagonistiche, ma come il fondamento e la personificazione dell’unità politica e

della sovranità della nazione.

Nell’Europa liberale invece, a causa del carattere elitario della partecipazione politica,

le divisioni politiche restavano all’interno dell’unico ceto politicamente attivo e quindi alla sfera

pubblica borghese, per scomparire nel fondamento personale del legame tra elettori ed eletti

e nella centralità della discussione parlamentare.

4. 

L’avvento della democrazia di massa e il ruolo del partito politico.

Il contributo della scienza costituzionalista ed il realismo politico

Il costituzionalismo liberale si era fondato su una base sociale omogenea, quella della borghesia,

unica classe politicamente attiva e quindi le varie costituzioni riflettevano l’orizzonte e gli interessi

dello stato monoclasse borghese.

Dopo la fine della prima guerra mondiale però con l’avvento della democrazia di massa questo

sistema viene messo in crisi.

La nascita dei grandi partiti organizzati, infatti apre il processo politico alla partecipazione

delle masse e i partiti stessi assumono il ruolo di canali della partecipazione politica,

attraverso la rielaborazione delle svariate domande espresse dalla società, la selezione

del ceto politico e la partecipazione alla formazione delle decisioni vincolanti per la società.

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L’ambiguità del ruolo dei partiti che sono al tempo stesso strumento dell’opinione pubblica e

strumento delle dinamiche oligarchiche del potere nelle società di massa, viene messa in luce

anche dagli studiosi delle scienze sociali.

Possiamo ad esempio accennare alla teoria di Max Weber, il quale afferma che i vari tipi di

potere sidifferenziano solo per i meccanismidella selezione dei capi, e per cui la stessademocrazia, che dovrebbe reggersi sulla premessa della sovranità del popolo, viene esercitata

comunque da una oligarchia di capi e la sua particolarità sta nei meccanismi attraverso i quali

questi capi vengono scelti, che è quello dell’elezione popolare.

Nella teoria di Weber quindi la democrazia viene a configurarsi solo dal punto di vista funzionale e

la sovranità popolare si risolve nella sola leadership espressa dal popolo.

Il motivo conduttore della selezione della leadership lo ritroviamo anche nelle concezioni della

Democrazia elaborate nella prima metà del 20ºsecolo, nelle quali viene sempre affermato

che i vari tipi di potere si differenziano solo per il metodo della scelta della leadership ma questa

affermazione, rispetto alle teorie di Weber, viene argomentata non su basi sociologiche ma conmodelli derivati dalle scienze economiche.

Possiamo citare Schumpeter, il quale afferma che in democrazia il metodo delle decisioni è più

importante dei contenuti e quindi occorre guardare più che alla decisione dei problemi da parte

dell’elettorato, all’elezione di coloro che dovranno prendere tali decisioni.

Nella teoria di Schumpeter la democrazia viene identificata con il fatto che il governo venga

affidato al concorrente che ottiene appoggi superiori rispetto agli altri e il processo politico viene

concepito come il luogo dove, attraverso le elezioni, viene scelto chi comanda e non come il luogo

di confronto o di compromesso.

La concezione della democrazia come metodo ha sollevato parecchie obiezioni e critiche,

la principale delle quali è quella che essa presuppone che la società sia quasi totalmente

omogenea e una condivisione di valori e orientamenti di fondo.

Infatti in una democrazia caratterizzata da valori comuni anche il principio della maggioranza

acquista un significato più forte in quanto la maggioranza di voti coincide con il modo migliore per

realizzare i valori comuni.

Se invece si muove dalla tesi per cui la società non può avere valori comuni allora il principio

di maggioranza perde ogni legittimazione in quanto non si capisce perché sia la maggioranza

a dover decidere dal momento che tale decisione maggioritaria equivarrebbe alla sottomissione

passiva della minoranza all’avversario politico.

Ciò ci fa comprendere l’insufficienza di tutti quegli approcci che non muovano dalla premessa

di una base di valori e contenuti condivisi in una democrazia.

5.  Alcuni snodi del dibattito sui partiti nel 900. Il partito come parte totale

Nel dibattito sul legame tra partito politico e costituzione del 1900, furono elaborate tesi diverse.

Ci occuperemo in particolare di alcune di queste tesi:

-  la dottrina del partito come parte totale,

-  la teoria della costituzione materiale,

-  la teoria dello stato di partiti,

-  la riflessione sul ruolo del partito tra componenti rappresentative e plebiscitarie nelle dem.

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Il partito come Parte Totale 

La teoria del partito come parte totale nasce dalle riflessioni della dottrina weimariana dopo

la prima guerra mondiale. Infatti in quel periodo la divisione della base sociale con l’avvento 

delle democrazia di massa aveva fatto sì che lo stato non poteva più identificarsi, come

in epoca liberale, con una volontà politica unitaria. I partiti costituivano quindi lo strumento perdare unità ad un processo politico frammentario e articolato al suo interno.

Tra gli anni 20 e 30 del 1900 viene quindi elaborata la teoria del partito come parte totale,

nel quadro della quale il partito politico viene raffigurato come un organismo capace di superare

il particolarismo della società e di farsi portatore di visioni politiche generali.

Infatti il popolo non può essere più configurato come soggetto capace di esprimere una volontà

unitaria ma solo una varietà di opinioni e di correnti politiche e per questo motivo il partito

diventa strumento fondamentale per mediare tra il pluralismo sociale e la necessaria unitarietà

dei processi di decisione statali.

Se è dubbio che i partiti siano riusciti in realtà a svolgere questa funzione nella Germania diWeimar va dato il merito a questateoria di aver messo in luce la complessità del rapporto tra stato

e società nelle democrazie pluralistiche, spunto quest’ultimo che sarebbestato ripreso e

rielaborato dalla successiva riflessione novecentesca sui partiti.

6.  La costituzione in senso materiale Dal partito unico al sistema dei partiti

La teoria della costituzione materiale, incentrata sul ruolo del partito nella società di massa è

frutto delle riflessioni di Costantino Mortati.

Secondo Mortati con l’ingresso delle masse nella vita politica il partito è diventato lo strumento

necessario perché le masse stesse assumano una fisionomia politica e il soggetto fondamentale

della costituzione materiale. Il partito infatti fa sì che la forma concreta di stato sia la realizzazione

di una idea politica e conferisce all’assetto costituzionale la necessaria omogeneità politica.

Nella teoria di Mortati il partito è lo strumento necessario per far si che le forze politiche

dominanti possano rendere concretamente ed effettivamente operante l’assetto costituzionale

dandole la necessaria forma giuridica. Tali forze politiche dominanti quindi, attraverso il partito,

rendono consapevole la vocazione già esistente nel popolo, uniscono in un’unica realtà 

maggioranza ed opposizione e formano il presupposto necessario per l’esistenza di una volontà

coerente ed armonica nello stato.

7.  Democrazia di partiti e stato di partiti

La teoria dello stato di partiti si deve a Leibholz che iniziò la sua riflessione in epoca weimariana e

in seguito adattò la sua teoria alla comprensione delle democrazie pluralistiche.

Secondo Leibholz lo stato liberale, essendo fondato su basi oligarchiche, produce una relazione

rappresentativa tra il popolo e lo stato, in quanto ilparlamento rappresenta il popolo ma non è

il popolo. Le democrazie pluralistiche invece producono una relazione di tipo identitario 

(o plebiscitario) tra popolo, partiti e direzione politica degli stati.

Ciò avviene grazie all’opera dei partiti che influenzano tutte le fasi del processo politico sia a

livello della società civile che dello stato e quindi determinano il rapporto tra popolo e stato come

un rapporto di identificazione.

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Lo stato dei partiti, quindi, fondato sul principio di identità costituisce una forma di democrazia

plebiscitaria e un surrogato di democrazia diretta in quanto in esso la volontà popolare si forma

attraverso i partiti grazie ai quali il popolo è politicamente attivo, determinando che la volontà

politica, così formata, coincida direttamente con la volontà del popolo.

Secondo la tesi di Leibholz quindi l’incidenza diretta dei partiti sulla formazione della volontàpopolare determina il superamento del principio rappresentativo grazie al rapporto identitario

che si viene a creare tra popolo e partiti e, attraverso questi, tra società e stato.

La critica principale che può essere posta alla teoria di Leibholz sta nel fatto che il rapporto di

identificazione diretta tra stato e società è in antitesi con il principio pluralistico che richiede

invece la presenza di contropoteri e il fatto che la formazione della volontà popolare debba essere

il risultato di un confronto pubblico, aperto e dialettico.

Senza contare il fatto che nell’esperienza delle democrazie pluralistiche, anche quando

la partecipazione politica sia aggregata da un sistema di partiti molto coeso, la competizione

tra i partiti produce comunque nel processo politico elementi di fluidità e di diversificazioneche sono irriducibili allo schema identitario disegnato da Leibholz.

8.  Il partito tra componenti rappresentative e componenti plebiscitarie nelle democrazie

Intorno agli anni 50 del 1900 Ernst Frankel ha sviluppato una tipologia degli ordinamenti

democratici secondo il criterio del dosaggio tra componenti rappresentative e componenti

plebiscitarie.

Secondo la teoria di Frankel il sistema rappresentativo di governo si basa sull’assunto per cui

l’interesse generale può essere raggiunto solo a posteriori, come risultato di un procedimento

dialettico di confronto. Il sistema plebiscitario di governo invece presuppone a priori l’esistenza 

di una volontà popolare unitaria tesa al raggiungimento dell’interesse collettivo.

Il sistema rappresentativo quindi richiede l’esistenza di una società, intesa come struttura mobile

composta da opinioni e interessi differenti mentre il sistema plebiscitario richiede l’esistenza di u

na comunità ossia di una struttura unitaria e sorretta da forti legami spirituali. 

Da ciò derivano conseguenze anche per gli assetti costituzionali in quanto:

La costituzionerappresentativa è la struttura politica di una società che è consapevole del suo

carattere pluralistico, che punta al confronto tra idee e interessi di gruppi e partiti diversi e mira a

garantire ai gruppi di minoranza un massimo di sicurezza e di influenza politica.

La costituzione plebiscitaria invece vede negli interessi delle minoranze dei fattori di disturbo

che impediscono la creazione di una volontà popolare unitaria e quindi devono essere neutralizzati

ed espulsi dal processo politico.

E’ quindi vero che i sistemi di governo rappresentativo e plebiscitario poggiano su diversi criteri

di legittimità in quanto il primo consente che l’interesse collettivo si formi sulla base di interessi e

prospettive diverse mentre il secondo configura la sovranità popolare come un potere collettivo

illimitato ed inviolabile.

Frankel, pur recuperando il motivo conduttore della centralità dei partiti in democrazia, lo

sviluppa in modo diverso rispetto a Leibholz, ritenendo che debba essere compito dei partiti

quello di restare ancorati saldamente alla società e di garantire l’armonizzazione della

componente plebiscitaria con quella rappresentativa.

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9.  Futuro della costituzione e futuro dei partiti-Partiti e processo pubblico ad integrazione esclusiva

Considerazioni conclusive.

Quanto detto sopra richiede alcune considerazioni conclusive.

E’ indubbio che, nonostante i molteplici segnali di una crisi di legittimazione i partiti continuano a

svolgere oggi un ruolo decisivo nel processo politico. Infatti se i partiti sono stati penalizzati nellaloro capacità di aggregazione delle domande provenienti dalla società (dato che le società di mass

a esprimono oggi domande ed interessi diversi e difficilmente aggregabili) è fuori dubbio che essi

abbiano conservato pienamente la loro funzione di strumento utilizzato di volta in volta dai

protagonisti del processo politico per avere accesso alle sedi dove le domande provenienti dalla

società possano tradursi in decisioni politiche. In defintiva quindi le trasformazioni del partito

politico non ne hanno ridimensionato l’ìmpatto sui processi democratici di formazione della

volontà politica.

Tali trasformazioni tuttavia richiedono di trovare soluzioni adeguate al problema della disciplina

legislativa del partito per allineare a standard minimi di democraticità quei processi decisionaliinterni che incidono sulla formazione degli organi elettivi (es. la selezione delle candidature) e

per garantire la trasparenza dei processi decisionali e dei legami con le fonti di finanziamento.

Infatti, come ben ricostruito da Konrad Hesse, i partiti operano all’interno della sfera pubblica ma

non sono interamente riconducibili né alla sfera del diritto privato né alla sfera del diritto pubblico.

 

Tuttavia essi pur non potendo essere incorporati nella statualità svolgono una funzione

costituzionale in quanto permettono il processo di integrazione che a sua volta consente

alla costituzione di operare concretamente e quindi possono essere definiti come partecipi della

costituzione stessa.

Tale funzione pubblica richiede che i titolari di essa debbano sottostare ai criteri di legittimazione

richiesti dall’ordinamento nel suo complesso e quindi non solo che il loro agire si rivolga

alla generalità dei consociati ma soprattutto che ai consociati sia possibile, attraverso adeguati

congegni di responsabilità e trasparenza, di controllare i processi che questo agire produce.

CAPITOLO III – LE TRASFORMAZIONI DELLA RAPPRESENTANZA POLITICA

1.  Le origini delle teorie della rappresentanza politica: il mandato libero tra mediazione e

separatezza della sfera politica

La riflessione sulla rappresentanza politica si è storicamente sviluppata secondo due indizzi

Fondamentali:

-  Il primo vede la funzione principale della rappresentanza nella formazione di un

interesse generale della società che supera quello dei singoli gruppi sociali e quindi

nell’espressione di una unità politica più alta rispetto alle divisioni della società.

-  Il secondo ritiene invece che la volontà popolare, di cui la rappresentanza deve essere

interprete, non può considerarsi staccata dall’articolazione del popolo in

gruppi, categorie e comunità territoriali.

Non c’è dubbio che dei due indirizzi lo stato liberale avesse privilegiato nettamente il primo.

-  Ciò avvenne in modo più sfumato nel parlamentarismo inglese dove il parlamento veniva

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considerato sì come portatore di un solo interesse, quello dell’intero popolo, ma si trattava di

un parlamento composito nei quali confluivano i diversi strati della società. In questo senso le

prime formulazioni della teoria del mandato libero si inserivano in un sistema parlamentare di tipo

pluralistico.

La stessa cosa non si può dire per il liberalismo continentale, in primo luogo quello francesePost-rivoluzionario, dove lo sviluppo della teoria del mandato libero, era invece funzionale

al mantenimento dell’egemonia politica della borghesia. In

tal modo infatti identificando la volontà dei rappresentanti e la volontà della nazione, la stessa vol

ontà della nazione era il risultato di

una discussione parlamentare che tagliava fuori i conflitti esistenti nella società che quindi

rimanevano estranei al processo politico.

La teoria della rappresentanza senza vincoli di mandato era quindi nel liberalismo continentale

strumentale al rafforzamento di un assetto oligarchico ma anche al raggiungimento di una unità

politica che però era separata dalla società civile sottostante. Ne derivavano conseguenze qualiquella che la rappresentanza non può dare luogo ad alcuna relazione

giuridica tra rappresentanti e rappresentati o che le elezioni esprimono solo una scelta basata sul v

alore personale del rappresentante o anche che non vi è alcun legame necessario tra

rappresentanza e rappresentatività.

-  Diversa è l’esperienzastatunitense dove si sarebbe sviluppata una teoria della rappresentanza

basata sulla comunicazione tra rappresentanti e rappresentati e quindi sul controllo dei

rappresentanti da parte dei rappresentati.

2. 

Principio di rappresentanza e principio di identità nella democrazia pluralista

Nel costituzionalismo democratico contemporaneo l’alternativa tra i due indirizzi fondamentali

della rappresentanza visti sopra si ripropone con forza. Infatti le moderne democrazie hanno

permesso di superare la divisione liberale tra stato e società, riconoscendo al tempo

stesso l’esistenza di una società divisa e conflittuale (principio pluralistico) e l’esigenza di una diffu

sapoliticizzazione della popolazione (principio democratico). Tuttavia mentre il principio pluralistic

o presuppone l’idea che il conflitto nella società sia insuperabile ma anche positivo, il principio

democratico richiede l’esistenza di un comune catalogo di valori fondamentali che permettano

l’unificazione della società. Già i giuristi weimariani avevano avvertito questo problema tanto è

vero che già Heller sosteneva che il popolo non poteva diventare soggetto della sovranità se non

attraverso un processo di unificazione della volontà popolare, unificazione che doveva essere

raggiunta tramite la rappresentanza. Tuttavia se in tal modo veniva posta una linea di netta

separazione tra la democrazia pluralistica e lo stato oligarchico liberale si poneva il problema

relativo al ruolo dei partiti nello schema tradizionale della rappresentanza. Infatti ci si chiedeva se

una democrazia pluralista che riconosce il ruolo dei partiti come soggetti principali del processo

politico potesse continuare ad usare gli schemi della rappresentanza. Ciò in quanto non poteva

sfuggire la contraddizione tra un parlamentarismo fondato sulla discussione libera dove la

rappresentanza realizzava l’unità politica del popolo e un assetto dove la dipendenza del deputato

dal partito poteva degradare la discussione parlamentare al calcolo dei rapporti di forza e

degli interessi in gioco.

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A tale problema i giuristi tendevano a dare risposte diverse.

-  Secondo Schmitt ipartiti non dovevan essere considerati come soggetti del sistema

rappresentativo ma solo espressione del principio di identità e quindi l’unità politica poteva

 essere raggiunta solo tramite la rappresentanza senza ricorrere al principio di identità.

Secondo Leibholz invece la contraddizione tra parlamentarismo rappresentativo e sistemadei partiti dimostra l’inadeguatezza degli schemi

della rappresentanza richiedendo invece il recupero

del principio di identità che può essere raggiunto tramite lo stato dei partiti che, come abbiamo

visto viene da lui ricostruito come un surrogato della democrazia diretta o plebiscitaria e realizza

l’identità della relazione popolopartitistato.

Leibholz quindi realizzava una saldatura tra l’espressione della volontà del popolo attraverso i part

iti e la formazione dell’indirizzo politico statale.

Non si può negare tuttavia che lo stato dei partiti con la sua base plebiscitaria richieda e

presupponga una certa omogeneità della società civile e un forte nesso tra essa e il sistema deipartiti.

Non a caso infatti tale teoria fu elaborata riflettendo l’esperienza tedesco federale degli anni 50

caratterizzata da un forte livello di istituzionalizzazione dei partiti.

Lo studio delle esperienze del parlamentarismo tra le due guerre avrebbe invece dimostrato che

l’inserimento di congegni di tipo plebiscitario può contribuire invece ad aumentare il

distacco tra il processo politico e il pluralismo della società. Si è anche osservato che proprio in qu

elle società dove la formazione della volontà politica si presenta più frammentata e diversificata è

utilericorrere a congegni di mediazione legati alla struttura della rappresentanza piuttosto che

al modello plebiscitario.

3.  Rappresentanza politica, stato dei partiti e organizzazione del pluralismo sociale 

C’è un altro filone di pensiero il quale hacollocato il ruolo dei partiti nell’ambito del parlamentarismo. 

Si tratta di un filone culturale molto diversificato che unisce autori di tendenza diversa.

Possiamo citare ad esempio:

-  Kelsen, il quale vedeva nella formazione del popolo in partiti una organizzazione necessaria

 per

il funzionamento parlamentare;

o Mortati secondo il quale il ruolo dei partiti avrebbe condotto non al superamento ma

allo sdoppiamento del rapporto di rappresentanza politica nel duplice rapporto tra elettori e partit

i e partiti e rappresentanti.

Si tratta di filoni culturali assai diversi che hanno in comune l’idea che la presenza di una pluralità d

i partiti in tutte le fasi delle decisioni politiche assolve alla importante funzione di organizzare

il pluralismo, vedendo il ruolo dei partiti comepreminente rispetto a tutte le altre formazioni soci

ali esistenti nella società.

Occorre tuttavia tenerepresente nelle moderne democrazie pluraliste l’accresciuta capacità di

penetrazione nella sfera politica, oltre ai partiti, di altre associazioni e di gruppi di interesse.

Ciò ha reso sicuramente più complessi i processi di rappresentanza politica in quanto il pluralismo

sociale non è più rappresentato in modo esclusivo dai partiti e ciò ha costretto i partiti stessi

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a misurarsi e a competere con le altre espressioni della società civile.

Da ciò il concetto di rappresentanza politica esce profondamente mutato in quanto mentre le teorie

del parlamentarismo basate sullo stato dei partiti avevano fatto leva sul ruolo “totale” dei partiti

come elementi di integrazione politica, adesso il ruolo del partito deve trasferirsi e misurarsi nel

confronto con le altre espressioni del pluralismo sociale.Ne deriva che la rappresentanza politica non si esaurisce solo in una situazione rappresentativa

qualificata dall’indipendenza del deputato ma potrebbe dar luogo ad un processo dinamico di

adattamento e di legittimazione dei rappresentanti, non solo nelperiodo delle scadenze elettorali,

ma in continuo confronto con l’opinione pubblica ed i gruppi di interesse i quali tendono a

stabilire canali autonomi nella relazione con i pubblici poteri.

4.  Assetto della rappresentanza politica e configurazione delle libertà associative (paragrafo 4 e 5)

5.  L’analisi di alcune esperienze di democrazia pluralistica dimostrano che un assetto fondato sulla

prevalenza della rappresentanza risulta più flessibile e più idoneo a rispecchiare il pluralismosociale. Possiamo fare l’esempio della stessa costituzione italiana dove i costituenti hanno 

privilegiato un assetto che tendesse a fare dei partiti il perno della democrazia politica.

I costituenti avevano compreso che il tentativo di coniugare il principio rappresentativo con

l’allargamento della partecipazione politica poteva riuscire solo collocando il momento 

dell’unificazione politica nel pluralismo sociale nel quadro di una forma di governo che avesse 

il suo centro in una rappresentanza parlamentare a caratterizzazione partitica.

Nel modello disegnato dai costituenti tuttavia vi era una ambivalenza di fondo che stava nell’aver 

sottolineato la caratterizzazione partitica delle camere ma nel contempo nell’aver collocato i

partiti in una dimensione pre-statuale dove essi dovevano misurarsi con le altre espressioni della

società civile.

E’ vero anche tuttavia che tale soluzione rispecchiava un sistema politico come quello italiano,

diviso e disomogeneo e quindi rispondeva al problema di fondo di coniugare l’esigenza unificante

e aggregante con il principio pluralistico.

Ciò ha comportato ovviamente a livello costituzionale l’attrazione del regime dell’associazionismo

politico nell’area del diritto privato delle associazioni, la prevalenza della dimensione associativa

dei partiti rispetto a quella istituzionale, e la mancata introduzione di limiti legali e di controlli

statali nel sistema dei partiti stesso.

6.  Il divieto del mandato imperativo e la trasformazione della rappresentanza politica

Il recente e significativo aumento del fenomeno del trasformismo parlamentare (cioè il passaggio

nel corso della legislatura di parlamentari dal partito per cui sono stati eletti ad un altro)

ha contribuito a riaccendere il dibattito intorno alla vera portata normativa che si deve attribuire

oggi all’art. 67 della nostra costituzione che stabilisce “ogni membro del parlamento rappresenta

la nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”.

Secondo l’opinione prevalente l’art. 67 conterrebbe due principi di matrice diversa in quanto

nella prima parte si richiamerebbe al principio per cui ogni membro del parlamento rappresenta

l’intera nazione (e quindi non il solo ambito partitico, geografico o sociale dal quale proviene) e

nella seconda parte invece al principio di stampo chiaramente liberale, costituito dal cosiddetto

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divieto di mandato imperativo che in sostanza garantisce all’eletto di esercitare il suo mandato

in piena libertà ed autonomia nei confronti di tutti (compresa la frazione del corpo elettorale che

lo ha eletto).

Da questo secondo principio discenderebbe il corollario della cosiddetta irresponsabilità politica

del parlamentare nel corso del mandato che si basa sulla impossibilità per il corpo elettorale dirimuovere un suo eletto e comunque sul principio pe cui dalle vicende del rapporto tra

parlamentare e partito non debbono derivare conseguenze a carico del singolo.

Tuttavia, seguendo tale indirizzo si giungerebbe alla conclusione che l’art. 67 configura la

rappresentanza non come rapporto (e quindi come legame stabile e permanente tra corpo

elettorale e rappresentanti) ma come situazione (che conferisce al rappresentante un potere che,

una volta ricevuta l’investitura dagli elettori; può esercitare liberamente) ed anche alla

conclusione per cui il divieto di mandato imperativo vada a svolgere la funzione principale di

protezione dello status individuale del parlamentare.

'E’ pertanto più corretta una chiave di lettura unitaria dell’art. 67  che tenendo conto del rapportocreatosi nelle moderne democrazie pluralistiche tra parlamento, partiti e società civile, colga il

nesso intercorrente tra lo stesso art. 67 e l’art. 49 della costituzione. 

Nelle moderne democrazie pluraliste infatti il tema della corrispondenza tra elettori ed eletti che

costituisce il nucleo della rappresentanza politica, dipende in primo luogo dalla capacità di

mediazione dei partiti che sono il vero e proprio strumento di partecipazione politica dei cittadini.

I partiti quindi operano un ruolo di intermediazione e di integrazione tra stato e società essendo

i principali strumenti di esercizio della sovranità popolare e l’unico strumento per cui tale

esercizio può essere continuo e non limitato al solo momento delle elezioni come avveniva nei

sistemi liberali. 

In questa ottica il divieto di mandato imperativo si colloca in una concezione della rappresentanza

non come situazione ma come rapporto continuo e dialettico tra politica e società e in questo

modo non va letto in chiave individualistica come garanzia dello status individuale del

parlamentare, ma in chiave collettiva come garanzia della democrazia interna dei partiti politici e

della libertà e pubblicità del processi di formazione della politica nazionale. 

Infatti se non ci fosse il divieto di mandato imperativo il partito potrebbe revocare in ogni

momento il parlamentare che voglia rappresentare punti di vista divergenti dalla linea ufficiale del

partito e questo minerebbe non solo la democrazia interna del partito ma anche la democrazia

parlamentare nel suo insieme mettendo a rischio anche la libertà e la pubblicità del processo di

formazione della politica nazionale.

Il deputato deve essere invece tendenzialmente libero di scegliere se sostenere o meno le

indicazioni del suo partito e quindi non deve essere soggetto al pieno ed incontrollato dominio del

partito per cui è stato eletto così da divenire, sotto la minaccia di revoca del mandato, docile

esecutore delle direttive impartite dai dirigenti del partito stesso.

In questo senso il divieto di mandato imperativo costituisce una garanzia contro la tendenza al

completo assorbimento della determinazione della politica nazionale all’interno degli apparati di

partito. Il divieto di mandato imperativo di cui all’art. 67 quindi deve essere interpretato in modo

costituzionalmente compatibile con il ruolo fondamentale svolto dai partiti politici nel nostro

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sistema democratico rappresentativo espressamente riconosciuto dall’art 49 cost. (i partiti

concorrono a determinare la politica nazionale). 

Il parlamentare non rappresenta solo chi lo ha eletto ma l’intera nazione e grazie al divieto di

mandato imperativo può svincolarsi non solo, come in origine, dagli interessi particolari dei suoi

elettori, ma oggi anche dai partiti per meglio conseguire gli interessi generali della interacollettività. 

Ma se da un lato il divieto di mandato imperativo è necessario per impedire il soggiogamento

totale del deputato sancito con la sanzione giuridica, esso rende dall’altro lato possibile il

fenomeno del transfughismo fenomeno censurato dalla maggior parte dei cittadini per i quali

il trasferimento dell’eletto ad un altro gruppo parlamentare rappresenta un tradimento della

volontà elettorale e che quindi si sente defraudata della propria sovranità e confermata nei suoi

sentimenti di disaffezione e sfiducia nei confronti della politica, come dimostra il crescente

fenomeno dell’astensionismo elettorale.

A tale proposito occorre dire che tale atteggiamento dell’opinione pubblica non deve esseresottovalutata o ignorata, ma la soluzione non può essere trovata tramite interventi normativi

che non sarebbero giustificati da un punto di vista di legittimità costituzionale. 

Occorre invece interpretare il divieto di mandato imperativo in modo costituzionalmente

compatibile con il ruolo fondamentale svolto dai partiti politici nel nostro sistema democratico

rappresentativo espressamente riconosciuto dall’art. 49 cost. e da questo punto di vista occorre

riconoscere che il divieto di mandato imperativo ha un ruolo centrale nel quadro dei contropoteri 

che sono necessari per una democrazia pluralistica.

D’altro canto il riconoscimento dell’autonomia del parlamentare deve essere controbilanciato 

mediante delle regole di trasparenza che rendano possibile il controllo dell’opinione pubblica sulla

reale dinamica dei soggetti che contribuiscono ai processi di decisione politica in una società

complessa. Queste regole di trasparenza sono infatti strumenti necessari sia per la garanzia e la

limitazione del potere ma anche come strumenti di legittimazione del processo politico.

Molto importante in questo contesto è la discussione che si è svolta in GERMANIA, dove nella

legge fondamentale del 1949 veniva affermato il principio che i deputati del Bundenstag sono i

rappresentanti dell'intero popolo, essi non sono vincolati a mandati, né a direttive, sono

unicamente soggetti alla loro coscienza, tutto questo convive con il ruolo che viene riconosciuto ai

partiti politici dall'articolo 21 G.G. il quale qualifica i partiti come strumenti essenziali della

formazione della volontà politica del popolo.

In questo contesto dobbiamo annoverare due sentenze storiche degli anni ‘50 sulla

anticostituzionalità del partito neonazista e del partito comunista.

Il punto di partenza del tribunale costituzionale fu che l'incorporazione dei partiti nel sistema

costituzionale, non poteva configurarsi come un mero dato fattuale o sociologico, ma andava ad

esprimere la funzione dei partiti come istituzione chiamate ad assicurare la tenuta complessiva

dell'ordinamento fondamentale democratico-liberale.

Quindi secondo il tribunale il partito che si pone in contrasto con questo principio basilare viene

meno, o difetti sin dall'inizio i presupposti che legittimano la partecipazione alla formazione della

volontà politica del popolo.

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La collocazione dell'articolo 21 nel quadro dei principi di struttura della costituzione, ci conduce

alla concludere che la dichiarazione di incostituzionalità comporta la decadenza del mandato dei

deputati appartenenti al partito colpito dalla relativa sentenza. Il tribunale afferma che attraverso

questa interpretazione dell'articolo 21, l'articolo 38 comunque non smarrisce il suo significato di

garantire al deputato il libero esercizio del mandato anche in relazione alle vicende del rapportocon il suo partito, in quanto tale garanzia per poter operare presuppone il possesso da parte del

deputato della qualità di rappresentante del popolo intero, che l'appartenenza ad un partito

dichiarato anticostituzionale fa venire meno.

Nei successivi sviluppi giurisprudenziali e dottrinali questa concezione così rigida ha trovato

significativi temperamenti.

Infatti, secondo le interpretazioni dell'articolo 38, il divieto di mandato imperativo si può inscrivere

in un quadro più comprensivo volto a definire gli assetti costituzionali del processo politico.

CAPITOLO QUARTO – RAPPRESENTANZA, UNITA’ POLITICA, PLURALISMO

1.  Il rapporto tra costituzione e pluralismo nel dibattito sulla trasformazione della rappresentanza

politica

La letteratura costituzionalistica europea degli anni 1920/1930 si è posta l’interrogativo se le

teorie della rappresentanza politica, modellate sull’indipendenza del parlamentare e sul modello

dei parlamenti borghesi, possano ancora essere utilizzate per spiegare la complessità del

processo politico nelle democrazie pluralistiche contemporanee.

Il dibattito ha investito in primo luogo il tema del rapporto tra costituzione e pluralismo e quindi

la possibilità degli assetti costituzionali di poter far convivere al proprio interno un insieme

diversificato di valori e nello stesso tempo esprimere un livello di unificazione politica che

l’omogeneità della sfera pubblica borghese avevano fino ad allora assicurato allo stato liberale

ottocentesco.

A questo quesito alcuni giuristi (come Schmitt) hanno risposto negativamente mentre altri come

Smend hanno ritenuto invece possibile la coesistenza di pluralismo sociale ed unità politica

fondando la costituzione su un insieme di valori condiviso dalla comunità.

Per un altro verso il dibattito si è incentrato sulla possibilità di far convivere le dinamiche delle

democrazie di massa con le logiche del parlamentarismo rappresentativo.

Anche a tale proposito alcuni, come Schmitt, hanno sostenuto che il parlamentarismo

rappresentativo è legato in maniera indissolubilmente alle condizioni storico culturali dello stato

borghese ottocentesco, mentre altri hanno affermato che la discussione parlamentare non

avrebbe invece perso i suoi caratteri di pubblicità e creatività, anche se svolta all’interno di

gruppi o partiti, a condizione che fosse stata capace di influenzare all’esterno la formazione

dell’opinione pubblica.

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2.  La democrazia pluralistica fra identità e rappresentanza 

-  Altro tema del dibattito, è tracciato dalla posizione di Leibholz, il quale ha sostenuto che i partiti

sono diventati il perno centrale del processo di integrazione politica del popolo e la democrazia

plebiscitaria si fonda sul rapporto identitario tra popolopartiti e stato.

Nel pensiero di Leibholz quindi la democrazia basata sui partiti non può ispirarsi agli schemi delparlamentarismo rappresentativo ma può trovare il suo momento unificatore proprio nel

principio di identità, l’unico che può conferire unità politica ad assetti costituzionali cui il ruolo dei

partiti conferisce una impronta pluralistica.

-  Sul versante opposto invece Smend ed Heller erano convinti che il sistema rappresentativo può

essere utilizzato nelle democrazie pluralistiche e che può sviluppare una valenza unificante a

patto però di essere trasformato, attraverso il principio dell’indipendenza del parlamentare per

diventare il luogo delle mediazioni tra parlamento, partiti e gli altri soggetti del pluralismo. 

3. 

Lo schema teorico della rappresentanza e la sua capacità di adattamento: gli spazi di mediazionenel processo politico

Già nel corso dell’800 il dibattito sulla rappresentanza politica si era soffermato sul tema del

mandato libero del deputato. Si divideva infatti il tema della rappresentanza (legittimato dall’atto

di elezione) dal rapporto permanente con gli elettori in modo tale che i rappresentanti potessero

conservare la loro indipendenza assicurando all’interno del parlamento un dibattito improntato a

canoni di libertà e di pubblicità, facendo in modo che l’interesse generale venisse perseguito a

seguito di un processo di confronto dialettico.

Non c’è dubbio quindi che nell’Europa dell’800 si sia intesa la rappresentanza come

deresponsabilizzazione dello status del parlamentare come dimostrano le conclusioni cui

perveniva la dottrina circa l’atto di elezione come una scelta fondata sulle qualità personali

dell’eletto, o circa l’esclusione di una relazione giuridica tra rappresentanti e rappresentati, o circa

la scissione, come abbiamo detto, della rappresentanza dall’origine elettiva della investitura.

La riflessione più recente della scienza politica sulla rappresentanza appare anche influenzata dagli

sviluppi del costituzionalismo statunitense dove, se pure è presente il principio per cui gli elettori

possono dare istruzioni o far conoscere le proprie opinioni ai rappresentanti, non sempre si

ritrova invece il principio per cui i rappresentati siano revocabili dagli elettori.

Questo ha indotto a ritenere che l’esperienza statunitense non abbia accolto universalmente il

principio del mandato imperativo, ad essere accolta è solo l’idea che i rappresentanti siano

sottoposti al controllo democratico degli elettori.

La rappresentanza politica è stata quindi considerata come processo collegato ad uno stabile

rapporto di comunicazione tra eletti ed elettori. Rimangono però gli interrogativi di fondo e

precisamente se sia conciliabile l’istanza democratica del controllo sui rappresentati con

l’autonomia decisionale dei rappresentanti, senza la quale il processo politico perderebbe la sua

libertà di azione per ridursi a pura amministrazione, e soprattutto la possibilità per le società

pluralistiche di essere rappresentate.

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4.  La controversia mandato/indipendenza e gli assetti della forma di governo

Si tratta di interrogativi cui non è possibile dare una risposta esaustiva in questa sede. Quello che

può essere sottolineato è il fatto che su questi temi non è possibile generalizzare in quanto il tema

della rappresentanza va inquadrato nei concreti e differenti assetti della forma di governo.

Non c’è alcun dubbio che il principio del libero mandato parlamentare non è diretto solo allaprotezione dello status individuale del parlamentare, ma indirettamente rappresenta anche una 

garanzia di libertà del processo politico e opera come fattore di democrazia interna dei partiti. Si

può dire quindi che:

-  nelle forme di governo in cui è presente un minor livello di conflittualità tra i partiti e le

altre espressioni della società civile e dove l’organizzazione interna dei partiti è fortemente

istituzionalizzata, la garanzia del libero mandato dei parlamentari può rimanere sullo

sfondo e ha meno possibilità di produrre effetti;

-  mentre negli assetti di governo dove vi è una minore coesione del sistema politico tale

garanzia può esplicare maggiormente i suoi effetti e le sue potenzialità.

CAPITOLO V ORGANIZZAZIONE DELLA POLITICA E FORMA DI GOVERNO PARLAMENTARE

1.  Lo studio dei regimi parlamentari tra storia e teoria generale. La classificazione dei governi

parlamentari e le trasformazioni della forma di stato

E’ fuori di dubbio che il governo parlamentare si sia presentato storicamente in una molteplicità di

varianti tanto che gli studiosi hanno avvertito la necessità di individuare i principi fondamentali

comuni, la presenza dei quali avrebbe permesso di qualificare come parlamentare una forma di

governo distinguendola dalle forme di governo di tipo diverso.

Tuttavia per arrivare ad una sistemazione per tipi delle forme di governo parlamentare è

necessario tenere presente l’interdipendenza tra forma di stato e forma di governo e quindi le

articolazioni della relazione tra governanti e governati, tra sistema politico e società civile.

2.  L’opposizione tra monismo e dualismo nella storia dei regimi parlamentari 

Una prima linea di distinzione tracciata dagli studiosi per classificare i regimi parlamentari è quella

tra assetti di governo di tipo dualista e quelli di tipo monista.

-  I primi (dualista) sono quelli dove il potere principale delle assemblee rappresentative è

fronteggiato e controbilanciato da un capo dello stato titolare del potere esecutivo, del potere di

revoca dei ministri e del potere di scioglimento.

-  Gli assetti di tipo monista invece si basano sulla relazione tra parlamento e gabinetto.

Su questa distinzione, in seguito, si è innestata, soprattutto in Francia ad opera dei costituzionalisti

della III repubblica, una diversa ricostruzione del regime parlamentare alla luce della divisione dei

poteri, secondo due indirizzi fondamentali.

-  Il primo indirizzo, detto dell’equilibrio, si basa su un dualismo paritario tra capo dello stato

e parlamento e quindi su un sistema di equilibrio realizzato grazie alla funzione di

cerniera affidata al gabinetto.

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-  Il secondo indirizzo invece ritiene l’assetto dell’equilibrio incompatibile con l’affermazione

del principio della sovranità nazionale e prevede invece un assetto parlamentare dove

l’attività di governo dipenda dalla volontà della camera elettiva.

C’è da dire che sia le teorie dualistiche che quelle monistiche permettevano sia uno studio fondatosull’elaborazione di un modello parlamentare astratto cui di volta in volta ricondurre le varie

esperienze costituzionali che uno studio tendente invece a storicizzare e classificare i regimi

parlamentari che concretamente si realizzavano nel periodo tra le due guerre.

3.  Il parlamentarismo razionalizzato e l’integrazione tra stato dei partiti e forma di governo

parlamentare

Un altro criterio distintivo, alternativo alla coppia monismodualismo è quello tra regime

parlamentare classico e parlamentarismo razionalizzato introdotto da MirkineGuetzevch.

-  Il parlamentarismo razionalizzato sarebbe secondo questo studioso caratterizzato da una

tendenza a razionalizzare il potere, sottoponendo l’attività dei vari attori politici ad un

sistema di obblighi giuridici e regole di comportamento, dirette soprattutto ad assicurare

all’esecutivo una maggioranza stabile.

Sebbene l’autore sia giunto a questa tesi in base all’esigenza di rispondere alla trasformazione

della competizione politica avutasi nell’epoca del suffragio universale e dei partiti di massa, essa si

rivela solo parzialmente idonea alla comprensione di una trasformazione costituzionale così

imponente. In quanto essa è una formula riassuntiva troppo schematica per fissare i caratteri dei

regimi parlamentari del novecento.

Tuttavia è utile per sintetizzare l’ideologia del pensiero costituzionale di larga parte delle forze

politiche della resistenza dopo la seconda guerra mondiale, in quanto offre una risposta politica ai

rischi degli esiti autoritari e totalitari della democrazia di massa.

Inoltre la teoria del parlamentarismo razionalizzato è stata utile per riconsiderare i congegni della

responsabilità politica nei rapporti tra parlamento e governo spostando l’attenzione dalla

situazione di crisi del rapporto a quello dell’instaurazione della fiducia.

In tal modo superando la concezione tardo assolutista dell’onnipotenza del potere politico e

portando a compimento una istanza fondamentale del costituzionalismo.

Inoltre la formula del parlamentarismo razionalizzato è utile per sistemare la tendenza

all’integrazione tra regime parlamentare e stato dei partiti attraverso la sottolineatura del

rapporto tra mediazione dei partiti e stabilità dell’esecutivo. E’ anche vero che tale formula

tuttavia non era in grado di giustificare l’incidenza del tessuto pluralistico sulle variabili delle forme

di governo.

Non a caso infatti quando, nella seconda metà del 900, questo aspetto sarebbe divenuto rilevante

nello studio dei regimi parlamentari, la formula del parlamentarismo razionalizzato sarebbe caduta

in disuso mentre sarebbe riemersa l’opposizione tra monismo e dualismo per spiegare i diversi

livelli di strutturazione del principio maggioritario.

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4.  Forma di governo parlamentare, sistema politico e complessità sociale

Il problema dell’incidenza del tessuto pluralistico della società sulla forma di governo è stato al

centro della fase più recente del dibattito sui regimi parlamentari.

Tale dibattito ha preso in primo luogo in considerazione il numero dei partiti distinguendo tra

regimi parlamentari bipartitici e multipartitici  (con al centro il tipo intermedio dei regimi amultipartitismo temperato), o l’incidenza dei modi di selezione dei leaders del partito sul tipo di

legame tra premier e maggioranza parlamentare, distinguendo regimi a strutturazione rigida dai

regimi a strutturazione flessibile.

Ancora, è stato preso in considerazione anche le forme attraverso le quali si realizza il principio

democratico distinguendo:

-  tra regimi a democrazia mediata, dove il sistema dei partiti è molto frammentato e quindi

determina una certa separazione tra corpo elettorale e indirizzo politico;

-  e regimi a democrazia diretta, dove il sistema partitico è molto strutturato e quindi

determina la capacità dei rappresentanti di influire in modo decisivo sugli orientamenti delgoverno, tendenza quest’ultima che può essere accentuata con l’innesto di meccanismi di

tipo plebiscitario (elezione diretta del capo dello stato o del premier).

o  Sono stati poi distinti regimi ad alternanza assoluta dove il passaggio dalla

maggioranza all’opposizione deriva direttamente dalle consultazioni elettorali

o  e regimi ad alternanza mediata dove essa non è risultato diretto delle elezioni ma

di successivi mutamenti di alleanza tra i partiti.

Tutti questi indirizzi testimoniano lo sforzo della dottrina di sistemare una serie di esperienze

costituzionali concrete intorno ad un nucleo di principi ritenuti fondamentali, il cui obiettivo

comune è il rapporto tra l’integrazione del tessuto pluralistico della società e la struttura della

forma di governo.

5.  L’esperienza inglese e lo studio dei regimi parlamentari - Il governo parlamentare come governo

dei partiti nell’interpretazione dei vari regimi parlamentari 

La dottrina ha tenuto ben presente il rapporto tra lo sviluppo storico del regime parlamentare e

l’esperienza inglese.

E’ fuori di dubbio che il sistema parlamentare inglese sia stato fin dalle origini un sistema di

governo dei partiti. Infatti non solo il consolidamento del regime parlamentare inglese è avvenuto

di pari passo con lo sviluppo dei partiti politici ma soprattutto si è venuto formando un sistema di

convenzioni che hanno determinato il fatto che l’indirizzo politico sia conseguenza dell’opinione

pubblica strutturata in partiti.

Se ciò è vero per il regime britannico nella fase più matura (successiva al Reform Act del 1832) il

cui funzionamento è stato condizionato sicuramente dal grado di organizzazione del sistema

partitico (basti pensare al fatto che il Cabinet sia configurato come il comitato del partito che

dispone della maggioranza nella camera dei comuni o al fatto che il prestigio del premier dipende

dall’investitura dl leader del partito vincitore delle elezioni).

Tutto ciò tuttavia ha radici profonde nella storia del costituzionalismo inglese, infatti sin da quando

si passò dal governo dualistico bilanciato, al governo parlamentare, la supremazia del parlamento

era caratterizzata da una forte componente rappresentativa e lo stesso era considerato non come

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il luogo di unificazione politica attraverso la discussione ma come luogo della mediazione di

interessi contrapposti, che andavano confrontati e conciliati.

Tale conciliazione era però resa possibile dal partito politico che andando ad unire gli interessi

della società civile intorno ad alcuni principi fondamentali rendeva possibile il collegamento del

corpo elettorale al parlamento.

6.  Governo parlamentare e governo rappresentativo. Modelli della forma di governo parlamentare

e teorie della rappresentanza politica

La riflessione da parte dei giuristi sul governo parlamentare fra l’800 e il 900 aveva quindi ben

presente come il sistema britannico potesse essere un prezioso oggetto di studio per valutare gli

adattamenti del sistema di governo alla trasformazione del sistema partitico.

Era evidente per gli studiosi come la funzionalità del sistema parlamentare fosse legato al

crescente radicamento sociale dei partiti politici e quindi la consapevolezza del fatto che

l’organizzazione della società politica in partiti fosse essenziale al sistema di governo britannico.A questa intuizione di fondo del dibattito di quegli anni si collegano due importanti temi di

discussione.

-  Il primo riguarda il rapporto tra governo parlamentare e governo rappresentativo.

A tale proposito si riteneva che il governo parlamentare potesse essere considerato come variante

del più ampio genere dei governi rappresentativi, questo perchè alle camere legislative

spetterebbe non solo il giudizio sugli uomini preposti al governo ma anche la direzione su di esso.

Tuttavia se lo studio dell’esperienza inglese poteva condurre a concepire il regime parlamentare

come una variante democratica del governo rappresentativo, nell’esperienza continentale

europea tale legame rispondeva ad esigenze diverse.

Il parlamentarismo inglese infatti era costruito su un nesso permanente tra opinione pubblica

organizzata in partiti e formazione dell’indirizzo politico, mentre nell’esperienza continentale (in

special modo francese) questo nesso era concentrato solo sul potere di investitura delle

assemblee rappresentative da parte del corpo elettorale.

Diversi erano anche le esigenze alla base dell’assetto di governo:

in quanto mentre il governo parlamentare inglese, mirava alla composizione e al

compromesso tra i diversi interessi,

-  mentre il governo continentale (in special modo francese) mirava al raggiungimento della

unificazione della società politica, attraverso una superiore razionalità da ricercare

attraverso la discussione, motivo per il quale scopo del governo rappresentativo sarebbe

quello di concentrare la ragione che esiste sparsa per la società e di applicarla al governo.

C’è da dire che in Francia gli equilibri del governo parlamentare erano comunque legati ad una

concezione della rappresentanza costruita sulla separazione tra società civile e società politica;

mentre in Inghileterra era possibile uno sviluppo in senso democratico grazie ad una grande

omogeneità politico-sociale della società.

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7.  Legal soverignty e political sovereignty nella storia del regime parlamentare inglese 

-  Il secondo tema di discussione riguarda il carattere giuridico del governo parlamentare.

Si è spesso ritenuto che il governo britannico non si sia mai tradotto in un complesso di relazionigiuridicamente vincolanti per i vari soggetti costituzionali, ma si sia limitato a rispecchiare gli

equilibri che si sono formati sulla base convenzionale tra i vari soggetti costituzionali.

Occorre però dire che questo sistema di governo basato su regole volontariamente rispettate da

tutti, in quanto rispondenti ad una necessità politica, può cominciare a delinearsi nella storia

costituzionale inglese solo dopo la rivoluzione del 1688.

Infatti nella fase precedente, caratterizzata da un rapporto conflittuale tra corona e parlamento, il

sistema di governo era più basato su una prospettiva contrattualistica di unificazione del

processo politico che aveva come obiettivo quello di imporre il primato del parlamento all’interno

di una cornice legale a sfondo garantista.Infatti il primato del parlamento e del potere legislativo in questa fase veniva considerato come la 

conseguenza e come tale veniva posto in continuità con l’antico monopolio della giurisdizione di

epoca medievale. 

Questa fase della storia costituzionale inglese può essere messa in luce attraverso la filosofia

politica di Locke.

Possiamo infatti dire che l’opera di Locke si colloca all’interno del filone giusnaturalistico-

contrattualistico, in quanto l’autore ritiene che il potere civile derivi dai diritti dell’individuo nello

stato di natura e pertanto ciò che va ad unificare tutti i diversi poteri dello stato è il fatto che essi

sono tutti finalizzati alla protezione dei diritti individuali, che costituiscono l’oggetto del contratto

sociale.

La teoria di Locke è anche una teoria della gerarchia dei vari poteri statali in quanto tra di essi un

ruolo primario è affidato al potere legislativo in quanto fondato sul consenso della cittadinanza

politicamente attiva.

Alla sovranità politica della maggioranza della borghesia politicamente attiva, si affianca così nel

pensiero di Locke la supremazia giuridica della legge e l’affermazione del vincolo degli altri poteri

all’esecuzione di essa.

Nel pensiero di Locke pertanto il principio della separazione dei poteri si realizzava nella garanzia

della prevalenza del diritto creato dal parlamento, e costituiva un sostegno alla lotta della

borghesia culminata con la rivoluzione del 1688.

Successivamente però si sarebbero avuti altri sviluppi della storia costituzionale per trovare

soluzioni più aderenti alla nuova realtà sociale venutasi a creare dopo il consolidamento della

posizione dei ceti borghesi e l’inizio di una fase più fluida dei rapporti tra la borghesia e le altre

componenti della società inglese.

Tali sviluppi avrebbero risolto la questione della giuridicità dei rapporti tra i soggetti costituzionali 

in un sistema di equilibrio tra le componenti politiche chiamate a concorrere all’esercizio della

sovranità. E’ questo un passaggio fondamentale per capire i presupposti del parlamentarismo

inglese nel quale la tendenza a modellare gli assetti di governo sul tessuto pluralistico della società

fu sempre accompagnata dalla ricerca dei limiti del potere politico.

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Possiamo citare ad esempio il principio di una legge più alta in grado di limitare l’onnipotenza del

parlamento, principio basato sul consenso tra re, lords e comuni, o al principio di una superiore

lealtà costituzionale tra i partiti capace di sorreggere l’equilibrio del potere, sia il principio di

porre il motivo centrale della costituzione nel principio rappresentativo riconducendo la

legittimazione del parlamento ad un potere non originario ma fondato sull’elezione da parte delpopolo, non considerato come una entità unitaria ma come rispecchiante la struttura organica

della società. Il rapporto tra gli assetti della forma di governo e il tessuto pluralistico della società

assumeva quindi un rilievo ben maggiore rispetto alle teorie costituzionali precedenti la

rivoluzione. Sebbene comunque anche queste teorie non si muovessero del tutto al di fuori del

contrattualismo era già presente comunque l’idea di un assetto di governo fondato su un

profondo radicamente dello spirito costituzionale nell’opinione pubblica. 

In seguito il regime parlamentare britannico si sarebbe trasformato rispetto agli assetti originari

evolvendosi in senso monista ma la tendenza a collegare la forma di governo con l’equilibrio tra le

componenti politiche della società non sarebbe mai venuta meno.-  La riflessione di Harold Laski, si colloca nel XX secolo, periodo in cui il Cabinet era divenuto, più

che la fibbia che aggancia l’esecutivo al legislativo, il vero motore del sistema di governo ma anche

periodo dei grandi conflitti della democrazia di massa.

Per tale motivo il collegamento tra il tessuto pluralistico della società e il governo parlamentare

secondola riflessione di Laski avviene mediante la lealtà e il compromesso nelle relazioni tra i vari

gruppi sociali, ossia tra i partiti.

Se infatti il baricentro della forma di governo si è spostato verso il Cabinet tale regime non

rappresenta per Laski una forma di concentrazione del potere politico ma solo di stabilizzazione 

del compromesso tra i partiti, in quanto è proprio il sistema partitico che consente, di esprimere

un governo e di mantenerlo al potere.

Inoltre Larski cerca di adattare questo schema, sviluppatosi storicamente con l’espansione

dell’economia capitalistica, ad un momento storico che vende lo sviluppo del movimento operaio

e dello stato sociale interventista. Infatti secondo Larski la conciliazione della democrazia politica,

fondata sull’investitura plebiscitaria del Cabinet con la democrazia sociale richiede un sistema di

partiti molto coeso e capace di assorbire al suo interno tutti i contrasti presenti nella società

civile.

Anche in ciò l’interpretazione di Laski del governo parlamentare come di un sistema basato sul

compromesso e sulla conciliazione dei conflitti rientra nell’orbita tradizionale del

costituzionalismo inglese.

8.  Tessuto pluralistico della società e assetti della forma di governo parlamentare. Il dibattito sulle

conventions della costituzione 

La dottrina costituzionale inglese si è posto l’interrogativo se le regole convenzionali che nascono

dai rapporti tra i vari soggetti costituzionali:

-  siano in grado da sole di fissare limiti al potere politico

-  o se al contrario esse possono solo concorrere a fissare un quadro di limiti al potere

politico che affondano le radici soprattutto nella legge.

Significativo è a questo proposito il contrasto dottrinale tra Dicey e Jennings.

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-  Per entrambi gli autori i rapporti tra i vari soggetti costituzionali danno vita a regole e a

convenzioni che sono al tempo stesso espressione della loro autonomia e parte integrante

dell’assetto costituzionale. 

-  Per entrambi gli autori, le convenzioni hanno un ruolo centrale nella definizione e nello

sviluppo del regime parlamentare.La differenza tra le due posizioni sta nel fatto che:

-  Jennings ritiene che le convenzioni concorrano liberamente con le altre fonti del diritto

costituzionale. Per Jennings le convenzioni sono l’espressione di una libertà dei soggetti

costituzionali che è funzionale a raggiungere l’aderenza della forma di governo alle

caratteristiche del sistema politico.

-  Mentre Dicey ritiene invece che le convenzioni possano avere una funzione solo sussidiaria 

rispetto al sistema legale. Per Dicey invece le convenzioni contribuiscono a definire un

quadro di limiti al sistema politico, limiti accettati e concordati nell’ambito delle relazioni

tra i soggetti costituzionali.Entrambi gli approcci tuttavia ci fanno comprendere il forte legame nel regime parlamentare tra il

fenomeno delle regole convenzionali e il grado di omogeneità sociale e di stabilita politica

esistente nella società, con la conseguenza della difficoltà di utilizzare le convenzioni al di fuori

dell’esperienza costituzionale inglese nell’ambito di contesti sociali più conflittuali.

Infatti le convenzioni danno luogo ad una serie di regole basate sull’aspettativa reciproca

dell’azione altrui nell’ambito di un calcolo di utilità e per tale motivo si fondano su equilibri che

richiedono un alto grado di stabilità politico-sociale e di condivisione di principi dell’assetto

costituzionale.

Secondo Laski, il quale riprende un tema già formulato da Burke, le convenzioni riescono ad

affermarsi come prevalenti in base all’accordo tra i partiti sull’elaborazione della costituzione.

Il fatto che si voglia sottolineare l’accordo tra i partiti come fondamento del fenomeno delle

convenzioni, mette in luce quello che abbiamo affermato pocanzi, ossia lo stretto legame tra il

fenomeno convenzionale e le condizioni di omogeneità sociale.

Non a caso infatti in periodi più conflittuali della storia costituzionale inglese la supremazia del

parlamento veniva ricondotta al riconoscimento del primato della legge e dell’esigenza di fondare

su basi strettamente giuridiche i rapporti tra i soggetti costituzionali (non più attraverso le

convenzioni, ma mediante la legge).

Allo stesso modo la supremazia della legge avrebbe avuto fine al momento in cui in conflitti

sarebbero stati superati, andando a ridimensionare la supremazia politica del parlamento a favore

dell’asse “corpo elettoraleCabinet” (attraverso la mediazione del partito di maggioranza).

Infine di fronte ai fattori di difficoltà dati dalla crisi economica del primo dopoguerra e dallo

sviluppo del movimento operaio che producevano contraccolpi nell’omogeneità sociale della

società , è stato necessario utilizzare la legge nelle regole del gioco del parlamentarismo.

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9.  Leadership democratica e parlamentarismo: il problema della storicità della forma di governo

parlamentare

Nella riflessione di Larski le convenzioni che nascono dai rapporti tra i vari soggetti costituzionali

costituiscono anche una espressione della libertà del sistema politico e una garanzia contro il

pericolo che la forma di governo funzioni in modo da determinare la separatezza tra il sistemapolitico e la società civile.

La posizione centrale delle convenzioni costituisce quindi la risposta di Laski al problema della

compatibilità tra democrazia e forma di governo parlamentare, problema che ha focalizzato

l’attenzione della letteratura costituzionalistica tra le due guerre.

La posizione di Laski, quindi, si basa su un raccordo permanente tra società politicamente

organizzata e formazione dell’indirizzo politico; essa si trova in netta antitesi con le teorie della

razionalizzazione della forma di governo parlamentare diffuse nelle esperienze costituzionali

europee già dal primo dopoguerra che andavano ad introdurre a loro volta, nel sistema

parlamentare, dei correttivi e congegni di tipo plebiscitario.Nelle esperienze costituzionali europee quindi si andava a sovrapporre al rapporto tra

maggioranze e opposizione, centrato sulla rappresentazione, alcuni congegni che mirando a

legittimare democraticamente i soggetti costituzionali attraverso l’investitura diretta da parte di

una volontà popolare presupposta come un tutto unico, delineavano tuttavia una forma di

governo basata sulla separatezza delle istituzioni dalla società politicamente organizzata.

Occorre riconoscere anche che il trasferimento del modello parlamentare britannico (nato in un

contesto pluralistico omogeneo ed ordinato), nell’Europa Continentale ha incontrato resistenze e

difficoltà.

Infatti gli stati dell’Europa continentale erano caratterizzati da una maggiore frammentarietà del

tessuto pluralistico sociale senza contare che lo stato di recessione economica e di crisi

sopravvenuto dopo la prima guerra mondiale, che richiedeva un maggiore intervento statale in

campo economico, impediva alle forze politiche ed economiche di raggiungere compromessi ed

equilibri in modo autonomo.

Non deve quindi stupire come questi fattori abbiano spinto verso l’adozione di sistemi che

tendevano a rafforzare i poteri di decisione nell’ambito della sfera politica svincolandoli dai

compromessi e dalla mediazione del sistema partitico cercando nel contempo di fronteggiare gli

antagonismi sociali tipici di una democrazia di massa attraverso l’introduzione di congegni

plebiscitari fondati sulla premessa di una volontà popolare unitaria identificata in modo astratto

con l’interesse collettivo.

In questo modo gli interessi minoritari e quindi il pluralismo sociale venivano lasciati fuori dal

terreno politico. Questa fu la scelta della costituzione di Weimar che cercò di far coesistere a

forma di governo parlamentare con l’elezione popolare del presidente del Reich, al fine di

contenere la conflittualità politicosociale.

Illuminante a questo proposito è l’analisi sulla costituzione di Weimar elaborata da Max Weber il

quale giustificava la necessità dell’elezione diretta del capo dello stato sulla base di alcuni

presupposti:

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-  In primo luogo solo l’elezione diretta poteva assicurare contro la frammentazione partitica

la creazione di un vertice statale che poggiasse sulla volontà del popolo intero, senza

intermediari.

-  In secondo luogo lo stesso progetto di trasformazione in senso sociale dell’economia 

richiedeva un vertice politico che fosse legittimato da una investitura plebiscitaria, che soloun presidente del Reich sostenuto dal voto di milioni di persone poteva assicurare.

-  Sul versante opposto Carl Schmitt ritiene invece che la costituzione di Weimar abbia tentato un

compromesso impossibile tra democrazia di massa e parlamentarismo ,la quale ha trascurando il

profondo radicamento di quest’ultimo nella tradizione dello stato liberale ottocentesco.

Schmitt sosteneva invece una visione dello stato come trascendente rispetto alle divisioni

politiche e agli antagonismi sociali, e quindi un radicale dualismo tra stato e società , il primo

inteso come luogo esclusivo della politica e la seconda come luogo sostanzialmente apolitico.

Il dibattito sul rapporto tra componenti rappresentative e componenti plebiscitarie che riprende

nel secondo dopoguerra sembra sostanzialmente ancora ispirato all’esperienza Weimariana.

Tratto comune a questi indirizzi è la convinzione che il ruolo dei partiti non sia più riconducibile

agli schemi del principio rappresentativo in quanto negli ordinamenti di democrazia pluralistica

l’elemento plebiscitario consenta l’organizzazione delle masse nel processo politico.

-  Possiamo citare Leibholz secondo il quale l’idea della rappresentanza sarebbe una tipica

espressione della società liberal-borghese e quindi non è più adeguata alla comprensione delle

democrazie di massa, dove il processo politico si svolge all’interno del sistema dei partiti, dove la

cittadinanza attiva si organizza ed esprime la sua volontà. Lo stato dei partiti sarebbe quindi una

forma di democrazia plebiscitaria in quanto i partiti rendendo il popolo capace di agire secondo

una volontà unitaria sarebbero in pratica l’autorganizzazione del popolo stesso.

-  Possiamo citare anche Ernst Frankel, il quale muovendo dal presupposto che nelle forme di

governo democratico si combinano elementi rappresentativi ed elementi plebiscitari, ritiene che

nelle democrazie parlamentari i due elementi vengano unificati attraverso l’azione dei partiti.

Infatti i partiti, in quanto gruppi parlamentari sono esponenti di un sistema rappresentativo di

governo e in quanto organizzatori delle masse sono rappresentanti di un sistema plebiscitario di

governo. Secondo Frankel quindi l’equilibrio tra i due elementi è interamente riposto nella

capacità dei partiti di rispondere alle domande che provengono dalla società e di evitare che la

tensione tra i due elementi raggiunga un punto di rottura e che la richiesta di istituzioni

plebiscitarie si mantenga in limiti politicamente accettabili.

Questo tipo di interpretazione delle democrazie parlamentari presuppone non solo un elevato

grado di coesione del sistema politico, ma anche una fiducia eccessiva nella possibilità di

democratizzazione interna dei partiti in quanto, come osservato dallo stesso Frankel, solo se

all’interno dei partiti viene conservato un sufficiente spazio di azione alle forze plebiscitarie si può

avere una costituzione veramente rappresentativa.

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A questo proposito dobbiamo mettere in risalto le difficoltà di far prevalere all’interno dei partiti la

democrazia interna sulla naturale tendenza al rafforzamento degli apparati, e cosa ancora più

problematica, il fatto di collocare l’elemento plebiscitario unicamente nel sistema dei partiti.

Q uest’ultimo fatto appare infatti molto problematico nelle moderne democrazie di massa dove letendenze plebiscitarie tendono a collocarsi anche in canali diversi e dove la crescente

frammentazione e diversificazione delle domande provenienti dai vari strati delle società tendono

a mettere in crisi lo stesso sistema partitico.

Nel dibattito più recente ci si è orientati verso forme di governo parlamentare che contengono

ibridamente sia elementi rappresentativi che plebiscitari.

Ma anche in questo caso sorgono degli interrogativi, dati dal fatto che l’uso di elementi tratti da

forme di governo diverse potrebbe privare il modello parlamentare delle sue caratteristiche di

flessibilità, senza contare che occorrerebbe valutare la funzionalità di tali congegni anche rispettoalla forma di stato e non solo alla forma di governo.

Occorre ricordare infatti che i meccanismi plebiscitari vanno a realizzare la legittimazione degli

organi politici sulla base solo del voto popolare di investitura, evitando cosi il collegamento

permanente tra il governo politico e la società politicamente organizzata.

Mentre i meccanismi rappresentativi invece tendono a spostare il centro del sistema di governo

dall’investitura popolare, alla dipendenza permanente degli organi politici da parte dell’opinione

pubblica organizzata.

La compatibilità tra i due meccanismi resta quindi problematica perché richiede che l’innesto di

componenti plebiscitarie trovi il necessario contrappeso in un sistema partitico coeso, che riesca a

legare la società civile e l’organizzazione politica dello stato, obiettivo che i sistemi di governo

sbilanciati in senso plebiscitario non sembrano in grado di assicurare.