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Massimo De Carolis Il paradosso antropologico Nicchie, micromondi e dissociazione psichica

Nell’Europa moderna l’identità dei singoli e l’unità delle nazioni erano entrambe affidate a una scissione orizzontale, che distingueva nettamente un alto e un basso: all’Io il compito di sottomettere gli istinti e le pulsioni, allo Stato quello di contenere le spinte centrifughe della moltitudine, per garantire l’unità del popolo. La considerazione da cui parte questo libro è che tale modello di equilibrio, nella dimensione psichica come in quella sociale, stia oggi lasciando il posto a una rete di scissioni verticali, che isolano e separano una pluralità di spazi circoscritti: di micromondi, nicchie, pseudoambienti, disseminati senza un ordine gerarchico e radicati in una zona grigia in cui i fatti sono indistinguibili dalle rappresentazioni. La disgregazione delle forme tradizionali di unità politica e il diffondersi di un modello d’identità psichica basato sulla dissociazione e sul diniego della realtà esterna si rivelano così i momenti, intimamente correlati, di una stessa mutazione storica.

Sono fenomeni molto recenti, nei quali traspare però una dinamica paradossale che marca da sempre l’animale umano, consegnato dalla sua stessa costituzione biologica a due istanze opposte ma ugualmente imprescindibili: proteggersi dal disordine del mondo, perimetrando una nicchia artificiale, ed esporsi, al contrario, alla contingenza illimitata, per riconoscervi l’unico ambiente veramente adatto all’uomo. È solo leggendole come riflessi di questo paradosso antropologico che le forme di vita del presente, pur restando inquietanti, svelano la loro profondità interna e il loro insospettato potenziale innovativo.

Sommario: Introduzione. - 1. Nicchie. 1.1 Ontologia del presente. 1.2 Ambiente e mondo. 1.3 Formatori di mondo? 1.4 La scissione verticale. - 2. Psicopatologia della vita contemporanea. 2.1. Identità psichica e dinamica sociale. 2.2 Personalità multipla. 2.3 Diniego e perversione. 2.4 Dissociazione primaria. 2.5 Dissociazione psichica e paradosso antropologico. - 3. La zona grigia tra i fatti e le finzioni. 3.1 L’illusione, la realtà, il gioco. 3.2 Dissociazioni felici e infelici. 3.3 Performatività e reticoli sociali. 3.4. Micromondi. 3.5. Il gioco e le sue regole . - 4. Diversi modi di formare un mondo. 4.1 Convenzioni e ritualità. 4.2 Il rito come eccezione e paradigma. 4.3 La sovranità dei moderni. 4.4 Confini simbolici e confini reali. - 5. Antropologia del pluralismo. 5.1 Assenza di mondo. 5.2 Il limite e l’illimitato. 5.3 Il valore del pluralismo. 5.4 La democrazia creativa. 5.5 Politica e governamentalità. – Bibliografia.

Recensioni Noi animali umani. Contraddizioni aperte sulla vertigine del possibile Daniele Giglioli «il manifesto» 20-11-2008 Il paradosso antropologico Francesca Bonoli «La Repubblica - Almanacco dei libri» 20-12-2008 L'importante è stare in gruppo Alessandra Iadicicco «Il Giornale» 21-12-2008 La mutazione umana Massimo Adinolfi «Il Mattino» 03-01-2009 Il paradosso antropologico Gianmaria Merenda «Critica minore» 09-01-2009 Il paradosso antropologico Antonio Tursi «ReF Recensioni filosofiche» 01-04-2009 Contingenza illimitata nicchie e dissociazione Dalila Barrile «Calabria ora» 17-05-2009

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Il paradosso antropologico Aldo Trucchio «S&F scienzaefilosofia.it» 01-01-2009 La scissione tra io e mondo nell'era globale Roberto Fai «La Sicilia» 25-03-2010 Noi animali umani. Contraddizioni aperte sulla vertigine del possibile Daniele Giglioli «il manifesto» 20-11-2008 Qualcosa cambia, si sottrae alla nostra presa, non si lascia più interpretare con le categorie consuete, muta figura scontornando di continuo il suo profilo. È allora che ci rivolgiamo alla teoria. Contrariamente a ciò che predica il senso comune, la teoria non è la proiezione di una griglia di forme stabili sulla mutevolezza dei fenomeni, ma piuttosto un passo indietro, un risalire al punto in cui i fenomeni stessi si trovano al cospetto della loro costitutiva necessità di assumere una forma. Una teoria che non voglia essere una semplice svalutazione del mondo fenomenico (sempre bisognoso per questo di essere soccorso dai buoni uffici di un mondo «più vero», teologico, metafisico o semplicemente logico), deve pensarsi come il tentativo paradossale di cogliere nel mutamento il tratto invariante e necessario che struttura la possibilità stessa di fare esperienza dei fenomeni, e così facendo, secondo il detto attribuito a Platone e caro a Walter Benjamin, di salvarli, individuandovi non tanto il divenire di qualcosa di già dato, bensì al contrario ciò che di continuo scaturisce dal divenire e dal trapassare. Un compito, questo, cui non attendono soltanto i teorici di professione, e che viene espletato da chiunque, individuo o gruppo, nella sua quotidianità si trovi di fronte - come ha scritto Paolo Virno in un libro recente, Motto di spirito e azione innovativa (Bollati Boringhieri) - alla crisi di una «forma di vita»: quando una norma cessa di valere in quanto possono darsene applicazioni troppo dissimili tra loro, si risale indietro alla più generale attitudine che caratterizza la natura umana in quanto tale, e cioè appunto la necessità di imbrigliare sempre e in ogni caso la vita in una forma - non sempre la stessa, questo è il punto. Illustrazione di una ipotesi A qualsiasi trasformazione di un assetto vigente presiede dunque una teoria, sia essa consapevole o, anche se può sembrare una contraddizione, irriflessa, automatica, spontanea: se per teoria si intende non una mera descrizione ma una messa in mora e una riorganizzazione del reale a partire dal possibile. Poiché però il possibile, il possibile umano quanto meno, è indeterminato ma non illimitato, è conveniente chiedersi quali sono le sue contraintes, le sue colonne d'Ercole, i confini a partire dai quali può operare le sue aperture, molteplici ma non infinite. È a questa domanda che si applica il libro di Massimo De Carolis, Il paradosso antropologico. Nicchie, micromondi e dissociazione psichica (Quodlibet, pp. 180, euro 16,00), proseguendo la riflessione già iniziata in un volume del 2004, La vita nell'epoca della sua riproducibilità tecnica (Bollati Boringhieri), nonché un percorso di ricerca che l'autore condivide con altri studiosi - tra cui Paolo Virno - raccolti intorno alla rivista intitolata, appunto, «Forme di vita». Il terreno di operazioni in cui De Carolis si muove è quello che Michel Foucault chiamava «ontologia del presente», e cioè una zona di intersezione paradossale tra due piani logicamente distinti: da una parte l'isolamento di qualcosa che è sempre, una dimensione invariante che determina l'essere dell'uomo in quanto è inscritta nella sua costituzione biologica; dall'altra l'emergenza di una sua manifestazione che diventa visibile solo adesso, a partire da quanto sta accadendo ora, che per De Carolis coincide con ciò che comunemente si chiama il passaggio dal moderno al postmoderno. L'ipotesi è dunque che per qualcosa di strutturale e connaturato alla condizione umana - il suo paradosso, come vedremo subito - la situazione presente costituisca una sorta di «pienezza dei tempi» che le conferisce una maturità postuma e una pertinenza esplicativa mai raggiunte prima.

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Dal mondo all'ambiente In estrema sintesi: connotato paradossale della specie umana è per De Carolis il doppio vincolo che la costringe, in mancanza di un ambiente prestabilito e preformato dagli istinti come quello di cui dispongono altre specie, ad aprirsi alla radicale contingenza di un mondo in cui tutto può diventare significativo, e insieme di delimitare quella contingenza attraverso l'istituzione di un reticolo di simboli che la circoscrivano. Non perché l'uomo viva, come voleva l'antropologia filosofica novecentesca (Gehlen, Plessner, Heidegger), al di là della natura: il suo debole corredo istintuale, la sua congenita incapacità a distinguere tra dentro e fuori, tra segnale (ciò che è pertinente alla sua conservazione) e rumore (ciò che non lo è), sono senz'altro il risultato di un complesso percorso evolutivo tutt'altro che preternaturale. Resta il fatto, però, che a differenza delle altre specie quella umana trasforma il mondo in un ambiente in cui vivere, e anzi in una catena ininterrotta di ambienti sempre diversi, non attraverso gli istinti ma attraverso i simboli - Roger Caillois diceva: per interposta immagine. Come a dire che noi umani non possiamo vivere se non cambiando, trasformando insieme la realtà esterna e noi stessi, e dunque includendo all'interno del nostro spazio di azione proprio quell'apertura alla contingenza illimitata che ci proponiamo di esorcizzare. Non si tratta dunque della mera opposizione tra una coppia di contrari: dentro e fuori, apertura e protezione, ordine e caos, cultura e wilderness, ma dell'interazione - paradossale, appunto - tra due correlativi, e cioè tra due termini che si coimplicano in modo che l'uno non può stare senza l'altro. La costruzione di un ordine simbolico è un atto di selezione e di combinazione che presuppone la possibilità di trascegliere, almeno in parte arbitrariamente, tra la congerie di stimoli senza necessità che costituiscono il magma informe da cui ci si vuole difendere, e insieme di cui ci si vuole appropriare; così come è solo la pressione dell'acqua, per riprendere una straordinaria immagine di Furio Jesi, a determinare la forma della macchia di inchiostro che la seppia diffonde intorno a sé per proteggersi dai predatori. Questo è il proprio biologico dell'animale uomo, la radice della sua adattabilità (versatilità, duttilità, capacità di cambiare le regole, in una parola: creatività), la sua spinta contraddittoria a chiudersi in una nicchia che gli faccia da ambiente artificiale, e a cambiarla di continuo, con più o meno successo, dalla minima innovazione alla catastrofe di un intero orizzonte culturale. Dato dunque questo paradosso primario - necessità di negare la contingenza attraverso un continuo prelievo dalle virtualità della contingenza medesima - il problema diventa quello di capire come le diverse epoche hanno proceduto a neutralizzarlo, nel doppio senso di negarlo in quanto generatore di angoscia, e di metterlo al lavoro per sfruttarne le potenzialità creative. De Carolis individua tre strategie. Quella del mondo arcaico, premoderno, affidata al dispositivo del rituale, che nel suo sforzo di presentarsi come momento eccezionale di sospensione della normalità, e insieme come paradigma da cui traggono legittimità le norme della vita quotidiana, include performativamente il caos nell'ordine mimandone le fattezze, i temi, i tempi e le movenze. Quella della modernità, che consiste essenzialmente nella sua rimozione, in una «scissione orizzontale», nella sottomissione (pagata in moneta di disagio della civiltà e di insubordinazione politica, di tumulto e di nevrosi) delle pulsioni all'Io e delle moltitudini allo stato nazionale. E quella attuale, postmoderna, caratterizzata, più che da una cifra unitaria, da un pulviscolo di manifestazioni ambivalenti, in disponibilità, ancora tutte da connettere in una configurazione d'insieme. Ad accomunarle, una famiglia di dispositivi insieme psichici e sociali il cui tratto pertinente De Carolis individua in un regime di scissioni non più orizzontali ma verticali: dallo stato nazione alle «comunità immaginate» delle diverse identità diasporiche; dall'imperativo categorico del principio di realtà alla sempre maggiore indistinzione postmoderna tra la sfera dei fatti e quella delle finzioni; dal binomio rimozione/nevrosi alle nuove patologie incentrate invece su un processo di dissociazione interno all'Io, analogo al diniego del feticista che insieme crede e non crede all'assenza del fallo della madre, o alla «dissociazione primaria» dell'infante che non ha ancora accesso alla dimensione

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simbolica e non può distinguere tra eventi esterni e stati psichici. Tutti esempi questi, di una dissociazione intesa come fuga, processo di comunicazione non riuscito, che sembrerebbero sposare le interpretazioni più pessimiste della contemporaneità, se De Carolis non vi contrapponesse, a partire dall'intervento degli stessi meccanismi, anche casi di dissociazione riuscita, felice, creativa, il cui esempio è fornito per esempio dalla sfera del gioco, infantile e non solo, dove è possibile cambiare le regole all'interno dell'atto stesso di apprenderle, e dove per ciò stesso si annida la possibilità del cambiamento, della defezione, della diserzione e dell'esodo. Attraverso il filtro del paradosso antropologico, si dispiega così davanti ai nostri occhi una mappa dell'attualità che mantiene intatta, di contro alle molte descrizioni unilateralmente euforiche o disforiche della condizione postmoderna, la sua promessa di futuro, il suo essere ancora in potenza, in attesa di una decisione che ne liberi il potenziale emancipatorio, o ne confermi invece la tendenza, insita in ogni neutralizzazione del possibile, all'assoggettamento. Una partita ancora aperta, i cui esiti possono essere da una parte un'antropologia pluralista (una democrazia creativa, scrive De Carolis riprendendo una formula di Dewey) che sappia fare a meno della reductio ad unum con cui la modernità, da Hobbes a Schmitt, ha neutralizzato nella sovranità dell'Io, dello stato e del politico la sfera concreta e irriducibile delle differenze; dall'altra il totale asservimento delle nicchie, di volta in volta precariamente elaborate dai soggetti individuali e collettivi, alle logiche sistemiche e impersonali con cui gli apparati economici, burocratici e tecnoscientifici tentano di elidere la necessità di una cornice esterna, umana e per questo suscettibile di decisione, che le coordini, le indirizzi e se ne serva invece di sottomettervisi (facendo finta per di più, grazie al dispositivo della dissociazione, di volerlo e di essere libera per questo, come prescriveva Luhmann e lamentava Lyotard). Una diversa idea di modernità Proprio perché si apre sulla vertigine del possibile, il paradosso antropologico ci ricorda che, se non tutto, molto è ancora (sempre) possibile. Niente di meno, ma anche niente di più. Ovvero, il più resta ancora da fare, e cioè capire come, e soprattutto chi, quale soggetto. De Carolis, lo si è visto, non è tenero col moderno, il cui tratto principale ravvisa in un'istanza di subordinazione all'autorità, nella fine delle illusioni, in un'uscita dallo stato di minorità che coincide con l'accettazione dell'obbedienza necessaria (eventualmente lenita dal rimpianto, dalla nevrosi e dalla conflittualità endemica ma sconfitta in partenza), pena la ricaduta nel caos, nell'indistinto e nello stato di natura. Non a caso gli autori con cui lo esemplifica sono Hobbes e Schmitt. Il moderno di De Carolis è lo stesso di Foucault, dove la genesi della soggettività coincide grosso modo con i dispositivi di assoggettamento. Questo è giusto ma forse non è del tutto vero, e lascia comunque inevasa la domanda cui la modernità aveva trovato una contraddittoria (e paradossale, certo) risposta nell'istanza della critica, del rifiuto, dell'introduzione, diceva Adorno, della negatività nell'essere. Cos'altro è stata, per esempio, la sua estetica? Moderni sono Kant ed Hegel, ma anche Kleist e Hoffmann, moderno è il tentativo di unificare il soggetto ma anche la disponibilità a infrangerlo per rompere insieme ad esso il potere di un'oggettività sentita a giusto titolo come estranea, pericolosa e nemica. Una risposta oggi irriproducibile, certo ma di cui non abbiamo ancora trovato il sostituto in termini di prassi emancipatoria. È a questa prova che dobbiamo convocare il paradosso antropologico, ed è sulla base di questo che potremo giudicare la sua capacità di dimostrarsi, come si diceva all'inizio, non una descrizione ma appunto una teoria, e cioè un discorso sull'essere che impegni, oltre al nostro intelletto, anche la nostra sfera del volere, non volere, o comunque volere diversamente.

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Il paradosso antropologico Francesca Bonoli «La Repubblica - Almanacco dei libri» 20-12-2008 Quale è il paradosso antropologico? Il diffondersi di un modello di identità psichica basato sulla dissociazione e sul diniego della realtà esterna.

L'importante è stare in gruppo Alessandra Iadicicco «Il Giornale» 21-12-2008 Nicchie, cricche, cerchie, entourage. Chiamatele come volete, comunque pronuncerete il loro nome con una punta d’orgoglio o dispetto. A seconda che ne siate compresi o esclusi. Di simili gruppuscoli, o «micromondi», si compone secondo l’originale ipotesi teorica di Massimo De Carolis, la società contemporanea. È una categoria nuova, concepita in base alle ricognizioni ontologiche di Heidegger e ai concetti del politico di Carl Schmitt, per leggere Il paradosso antropologico (Quodlibet, pagg. 187, euro 16). Per affrontare cioè la contraddizione tra le infinite possibilità di comportamenti psicologici e sociali offerte nel grande villaggio globale e l’esigenza di delineare con un codice simbolico ben definito il piccolo spazio del proprio mondo.

La mutazione umana Massimo Adinolfi «Il Mattino» 03-01-2009

L'identità individuale si dissocia in ruoli, la realtà si suddivide in spazi isolati.

Si può fare un’ontologia del presente? L’espressione, che è di Michel Foucault, ha un carattere paradossale: indica un oggetto di studio - le forme di vita contemporanee, quel che sta capitando proprio «adesso» - storico quant’altri mai; ma scomoda l’ontologia, cioè un sapere che si propone di delineare le strutture necessarie proprie di ogni ente in quanto tale: ieri come oggi, oggi come domani. Perché dunque il proposito di costruire un’ontologia del presente non sia solo un equivoco, occorre avanzare l’ipotesi che quel che accade oggi è l’annuncio di qualche profonda modificazione in corso, che tocca se non la natura in generale almeno la natura umana. Alla natura umana, infatti, è dedicato l’ultimo libro di Massimo De Carolis, che aveva già condotto un’affascinante esplorazione del nostro tempo storico ne La vita nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (Torino, 2004). Nel solco di quella ricerca si colloca ora Il paradosso antropologico (Quodlibet, pagg. 160, euro 16). E se in quel volume era a tema il fatto, di per sé inquietante, che l’uomo è ormai l’oggetto di una potentissima ingegneria scientifica e tecnica, sul piano biologico (si pensi all’ingegneria genetica) come su quello cognitivo (si pensi agli studi sull’intelligenza artificiale), il nuovo libro verte sulle trasformazioni non meno preoccupanti che interessano sia la psiche individuale che i sistemi sociali. L’approccio «ingegneristico» delle moderne scienze dell’uomo risponde a un’esigenza precisa: riprodurre tecnicamente quanto l’uomo compie naturalmente. Ora però, quel che appare specifico dell’uomo, quel che rappresenta un autentico paradosso, è la capacità di inventare, di interpretare, di non attenersi a schemi ripetitivi e fissi: tutto quello che insomma sembra sottrarsi in linea di principio alla possibilità di una mera codifica tecnica. Orbene, per l’antropologia filosofica, il cui arco si distende da Aristotele ad Heidegger, questa capacità può essere rappresentata nei termini della facoltà di formare un mondo, che sarebbe propria dell’uomo e non dell’animale. Il termine «mondo» va qui contrapposto ad «ambiente». L’animale ha infatti un ambiente, cioè uno spazio nel quale si muove secondo schemi di azione e risposta fissati dal corredo

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di istinti proprio della sua specie; l’uomo invece è correlato a un mondo, cioè a un ambito non già assegnato dalla natura alla specie umana, ma da essa ritagliato (inventato, appunto) secondo operazioni «culturali» - la prima delle quali, ecco il paradosso, consiste proprio nell’invenzione della cultura. Il cuore della ricerca di De Carolis consiste ora nel mostrare che la capacità specificamente umana di formare un mondo si è ridotta ormai alla più modesta capacità di formare nicchie, cioè mondi dentro mondi. Non solo mondi più piccoli, in verità, ma mondi in certa misura illusori, in cui ci si illude di poter «fabbricare» la realtà, come prima accadeva solo nella dimensione del gioco o dell’arte (oppure, nei casi patologici, nei fenomeni di dissociazione psichica). L’ipotesi di De Carolis è che la formazione di nicchie comporti un profondo riassestamento tanto dei sistemi sociali quanto dei sistemi psichici individuali. I quali erano prima organizzati secondo una linea di divisione «orizzontale» che separava il sopra e il sotto, il piano simbolico e quello pulsionale, l’imperium rationis e l’imperium passionis. Al piano di sopra stavano la legge, la cultura, al piano di sotto stavano le etnie, gli interessi, gli egoismi sociali. Analogamente, sul piano individuale, di sopra stava il soggetto, la sua autonomia e la sua libertà; nel sottosuolo le pulsioni e gli istinti. Questa topica oggi non funziona più: la formazione di nicchie è frutto di una scissione non più orizzontale ma verticale, con la quale l’identità individuale si dissocia in una molteplicità di ruoli, mentre il mondo si suddivide in una molteplicità di spazi fra di loro isolati e protetti, la cui stabilità dipende dalla possibilità di tenere fuori da essi tutto il resto della realtà (o più radicalmente dalla possibilità di inventare una realtà ad hoc). Il fascino di questa ricostruzione delle forme di vita contemporanee è indubbio: essa coglie infatti fenomeni molto diversi tra di loro, che interessano volta a volta l’etnologia critica di Ernesto De Martino e la psicanalisi di Freud e Winnicott, l’antropologia filosofica di Gehlen e Schmitt e le analisi linguistiche di Austin e Wittgenstein, riuscendo a ricondurre tutto questo materiale su un piano di comune intellegibilità. Ma il terreno ultimo e decisivo su cui De Carolis si misura è quello politico: qui l’indagine intende mostrare l’obsolescenza di gran parte del lessico politico moderno, fondata su concetti (popolo, Stato, sovranità) per i quali si dovrebbe dire che, letteralmente, non c’è più spazio, nel senso che appunto lo spazio psichico e quello sociale si prospettano oggi secondo linee molto diverse da quelle moderne. Le nicchie tagliano trasversalmente le comunità di appartenenza tradizionali e non si lasciano ricondurre a denominatori comuni. La scommessa è così se prevarrà in esse solo il tratto della chiusura autoreferenziale, fino all’atrofizzazione dell’inventività propria della natura umana, o se invece non si possa formare, a partire da esse, «una nuova sfera pubblica». È una scommessa difficile, come ogni tentativo radicale di sporgersi oltre la cornice statuale moderna. Che per un verso appare logora, per l’altro rimane quella che ha meglio saputo assicurare, finora, una misura di uguaglianza giuridica tra gli uomini. Ma la consapevolezza che la posta in palio tocca la sfera politica perché tocca la radice antropologica dell’umano, quella, almeno, dovrebbe accompagnare ogni seria riflessione sul proprio tempo, che non rinunci a comprenderlo in pensieri.

Il paradosso antropologico Gianmaria Merenda «Critica minore» 09-01-2009

In questo denso saggio, Massimo De Carolis - docente di Filosofia teoretica presso l’Università di Salerno – affronta un tema che egli stesso definisce «eterogeneo» per il tipo di approccio che necessita: la condizione umana. L’autore propone al suo lettore l’ambiente teoretico in cui argomenterà il dilemma spinoso: «Nel bene o nel male, questo resta invece uno studio di antropologia filosofica, e nient’altro. Il suo obiettivo, essenziale, è provare a capire cosa possa realmente significare un’idea, come quella di Heidegger, per cui l’umanità dell’uomo consisterebbe nella sua capacità di dare forma a un mondo. In particolare: cosa possa significare oggi una simile costruzione dell’umano» (p. 19).

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In questa breve e concisa descrizione si può capire la portata di questo scritto, del tentativo di De Carolis. Si può capire se avrà successo o se invece fallirà nelle sue intenzioni iniziali. Beninteso che una filosofia che voglia chiamarsi tale deve sempre portare in sé il germe del proprio fallimento. De Carolis è un filosofo e avvisa immediatamente il suo lettore che potrà ritrovarsi, dopo la comprensione del testo, al punto di dover «apprezzarne o respingerne in blocco la proposta teoretica» (p. 7).

Il fallimento di una filosofia non è certo paragonabile a quello delle scienze positive. Il fallimento di De Carolis, se mai un suo lettore dovesse esigerlo, si troverebbe nella condizione positiva di aver aperto, ri-aperto, una domanda che da sempre ha coinvolto i filosofi, dal Timeo al Tractatus di Wittgenstein: che cos’è l’uomo?

Il saggio è ben strutturato per quel che concerne il suo lato maieutico. Il lettore è messo nella condizione di comprendere fino in fondo l’edificio teoretico, libero di sviluppare tutte le domande che ogni filosofia offre. Spesso De Carolis torna sui suoi passi per completare l’argomentazione con le idee che nel corso dello scritto ha aggiunto all’indagine filosofica. Non si tratta di passi indietro, anzi: è il rispetto che si deve al lettore.

Il tema centrale del saggio è la paradossale presenza dell’uomo nel mondo. L’uomo coniuga in sé una parte animale e una parte che gli è propria, l’essere ‘aperto al mondo’. L’uomo pur essendo esposto, come ogni altro animale, all’infinita contingenza dei fatti del mondo, ha la capacità di proteggersi «ritagliandosi una sfera circoscritta di norme e valori simbolici, una specie di nicchia culturale, nettamente distinta dal resto del mondo e contrapposta alla moltiplicazione indefinità delle possibilità» (p. 8). De Carolis, però, non si occupa semplicemente di illustrare il punto storico di questo aspetto della filosofia, l’antropologia, ma utilizza la paradossalità umana per analizzare i meccanismi che si sviluppano nella dialettica tra le due parti che formano l’essere uomano. Dal sottotitolo, Nicchie, micromondi e dissociazione psichica, si può intendere che la ricerca di De Carolis non si adagia in un alveo rassicurante: se è vero che ‘nicchie’ e ‘micromondi’ sono due concetti convenzionali, l’uso che l’autore fa del concetto di ‘dissociazione psichica’ è quanto mai interessante. Una breve introduzione storica del concetto permette all’autore di avviare un discorso che arriva a considerare una patologia, così la dissociazione psichica è classificata in ambito psichiatrico, come il grimaldello che può scardinare l’uomo dal suo attaccamento nocivo - esistenzialmente, socialmente e politicamente parlando - ai propri micromondi e alle proprie nicchie rassicuranti, questi ambienti artificiali lo stanno ‘denaturando’: «Intanto, si è constatato che la dissociazione primaria, presa in se stessa, non è affatto una disfunzione patologica, ma un meccanismo psichico essenziale, che assolve una funzione costruttiva nell’evoluzione della mente in generale. In prima istanza, a innescare questo meccanismo è la necessità di proteggersi da un flusso indifferenziato di stimoli in cui niente ha un significato biologico prescritto una volta per tutte, ma tutto è in grado di acquisirne uno, se il caso lo porta a convogliare su di sé una carica pulsionale duttile per natura, e quindi tendenzialmente imprevedibile. […] Nelle fasi mature dell’evoluzione psichica, l’acquisizione del linguaggio permetterà di stabilizzare, almeno in linea di principio, la distinzione tra la realtà esterna e le rappresentazioni interne, aprendo la strada a forme più strutturate di difesa dell’identità dell’io» (p. 85).

Il lato patogeno della dissociazione psichica sta, per De Carolis, non nella sua attuazione, la scissione dell’io, ma nel suo fallimento (p. 95). Quando un io immaturo non riesce più a dissociarsi non riesce più a distinguere tra realtà e rappresentazioni interne, è la società intera ad entrare in crisi. Nell’interessante terzo capitolo, La zona grigia tra i fatti e le finzioni, De Carolis affronta la dissociazione psichica non più come semplice patologia psichiatrica ma come complesso sistema di

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organizzazione della mente del singolo individuo e delle ‘meccaniche’ sociali. La dissociazione ha quindi un esito ‘felice’ o ‘infelice’ e il gioco è il luogo in cui si può vivere l’esperienza decisiva che può condurre a uno di questi risultati: «Nell’esperienza del gioco, però, la perimetrazione di una nicchia non è funzionale al diniego della realtà, ma il suo padroneggiamento. Perché un gioco funzioni, perchè riesca a convogliare le spinte pulsionali e avviarle alla sublimazione, è necessario che a «entrare in gioco» siano gli aspetti più profondi, perturbanti e virtualmente minacciosi della situazione reale. Lo spazio perimetrato del gioco, perciò, non è un rinnegamento della realtà ma una sua proiezione nel quadro di regole convenzionali che limitano la contingenza e favoriscono la selezione delle risposte più efficaci» (p. 93). Percezione dei fatti reali o delle rappresentazioni che un io dissociato può avere non sono, ovviamente, il solo problema analizzato da De Carolis. Un io che sappia distinguere tra realtà e finzioni, tra mondo e mente, ha delle implicazioni che toccano ogni aspetto della sua vita. Le parti che formano un io dissociato, ‘felice’ o ‘infelice’ che sia, hanno un facile posizionamento analogico nell’ambito della teoria politica. Basta citare il corpo sociale del Leviatano di Hobbes per avere a che fare con la democratica partecipazione di più personalità, reali. Questa analogia è il nucleo centrale del saggio di De Carolis. Gli ultimi due densi capitoli del saggio trattano della problematicità che un singolo individuo, potenzialmente dissociato (nell’accezione di De Carolis), affronta nella nostra società. Anche in questo frangente l’autore propone una linea di studio originale: ontologia del presente, società e politica sono i concetti analizzati. L’intera società moderna è paragonata all’io dissociato, con la sua particolare visione della realtà, portando le dinamiche ‘dissociative’ nell’ambiente politico.

Qui il gioco non è più solo una funzione che serve alla maturazione dell’io, ad una sua evoluzione. Qui sono in gioco le nostre vite. Il nostro partecipare alla vita sociale, perché l’uomo è un animale sociale.

www.criticaminore.it

Il paradosso antropologico Antonio Tursi «ReF Recensioni filosofiche» 01-04-2009

Nel 1971, Noam Chomsky e Michel Foucault si confrontavano sul concetto di natura umana. Ne emergevano non solo due differenti definizioni, quanto due posizioni opposte: Chomsky ricercava il fondamento “naturale” della natura umana, qualcosa che ci contrassegna da sempre e per sempre; Foucault indicava invece i processi storico-sociali che facevano emergere una certa umanità. Sempre o ora? Siamo contrassegnati ontologicamente o emergiamo nell’attualità? Massimo De Carolis, con Il paradosso antropologico, cerca di occupare entrambe queste posizioni, cerca di mostrare come ciò che ci contrassegna da sempre si mostri volta per volta diversamente. Questo tentativo raccoglie diverse sfide teoriche: quella lanciata dall’antropologia filosofica tedesca novecentesca riguardo alla natura umana; quella assai attuale sul concetto di biopolitica; quella che ha coinvolto psichiatri e psicoanalisti nella definizione dei fenomeni dissociativi.

L’uomo è un essere paradossale, nel contempo aperto alla contingenza illimitata e protetto in nicchie culturali a cui egli stesso dà forma. La condizione umana è scandita cioè da due istanze basilari: “l’istanza di apertura, che spinge a esplorare e sperimentare ogni possibile dimensione mondana e, più ancora, a regolare la propria forma di vita sulla virtuale infinità di queste dimensioni; e l’istanza di protezione, che spinge a ritagliare un mondo nel mondo, a perimetrare una nicchia, tracciando un netto spartiacque tra le figure familiari al suo interno e lo sfondo indistinto che essa esclude” (28). Queste due istanze, questi due corni del paradosso antropologico non sono riducibili l’uno all’altro, nel senso che si implicano reciprocamente: la contingenza illimitata è necessaria a vitalizzare quelle nicchie che sono nate proprio per negare quella contingenza.

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Questa tesi principale sostiene un quadro teorico tracciato dall’intreccio tra piano sociale e piano psichico, dal passaggio dal moderno al postmoderno e dalla trasposizione del paradosso sul terreno politico. L’indagine sulla dissociazione psichica permette di cogliere come il piano delle dinamiche sociali e quello della vita psichica siano da sempre intrecciati e come il tipo di intreccio si presenti diversamente nelle varie epoche. La dissociazione non sempre è stata riconosciuta in quanto meccanismo psichico. Solo dopo Freud è stata riconosciuta e riconosciuta in quanto patologia. Oggi infine è vista come un meccanismo psichico primario che svolge una funzione costruttiva per la nostra personalità (o almeno lo fa nei casi di dissociazione felice). La dissociazione è vista infatti come quell’operazione che permette alla psiche di difendersi dagli innumerevoli stimoli esterni, segmentando l’esperienza in differenti compartimenti stagni. Questa scissione dell’io è un primordiale meccanismo di difesa di fronte all’angoscia di annichilimento generata da una realtà avvertita come minaccia. Con l’uscita dall’infanzia, a questo meccanismo si affiancano i processi di simbolizzazione che ci permettono di dare ordine alla realtà, senza mai negarne del tutto la contingenza illimitata. Ma questi processi di simbolizzazione – in primis il linguaggio – costruiscono proprio quelle nicchie culturali di cui abbiamo detto in precedenza. Il progressivo riconoscimento della dissociazione psichica rivela dunque come l’intreccio tra piano psichico e piano sociale sia passato da un rapporto di analogia a una “interpenetrazione a grana fine” fatta di molteplici risonanze.

Un passaggio che dà conto di un altro passaggio, un passaggio epocale: quello dall’epoca moderna a quella postmoderna. Il moderno “ruotava intorno a una scissione orizzontale che separava nettamente un alto e un basso: l’Uno di contro ai molti, l’Io contro le spinte delle pulsioni parziali, lo Stato contro le pressioni conflittuali interne al corpo sociale” (52). Il moderno perciò ha preferito puntate su un solo corno del paradosso antropologico sia a livello sociale sia a livello psichico. Naturalmente il paradosso in quanto costitutivo della nostra natura non è stato del tutto eliminato, ma solo rimosso dalle istituzioni e dalla psiche moderne. Esso è riemerso in tutta la sua complessità nel nostro tempo caratterizzato da “una rete di scissioni verticali, che isolano e separano una pluralità di spazi circoscritti – pseudoambienti, micromondi e, appunto, nicchie” (53).

Cosa comporta in termini politici questo passaggio dal moderno al postmoderno? Se la politica moderna si è configurata intorno agli Stati nazionali e dunque all’unità del popolo sovrano, come può configurarsi politicamente la rete di scissioni verticali dell’epoca postmoderna? Gli esiti politici di questo passaggio sono ancora del tutto aperti. Alla duplice richiesta dell’essere umano di apertura e di protezione si è sempre cercato di dare una risposta, spesso non riconoscendo questo paradosso o cercando comunque di rimuoverlo riportando un polo all’altro. Il concetto di sovranità ha offerto protezione in cambio di una certa chiusura rispetto alla contingenza illimitata. Si è instaurato un ordine gerarchico tra queste richieste e dunque tra la legge del sovrano (dello Stato) e i desideri dei sudditi (dei cittadini). Oggi il paradosso antropologico può tradursi sia nella chiusura autoreferenziale di tanti e incomunicanti micromondi sia nel pluralismo di una democrazia creativa. Il pluralismo può segnare la “reintroduzione dell’illimitato all’interno della comunità politica” (161), attraverso una “rete fluida e creativa di distinzioni e differenze” (178). La creatività – intesa come tratto basilare della natura umana – permette di tracciare delle distinzioni e dunque delle regole a partire dalla loro assenza cioè dall’indistinzione e dalla contingenza illimitata: in questo senso Dewey adoperava il termine per connotare il concetto di democrazia. La difficoltà della trasposizione sul piano politico del paradosso antropologico è proprio quella di trasporre entrambi i lati: far convivere tanto la comune cittadinanza quanto le differenze.

L’argomentazione di De Carolis è stimolante e per larghi tratti condivisibile, eppure qualcosa non torna sia a monte che a valle di tale argomentazione. È un paradosso a definire la natura umana, un meccanismo dinamico dunque mai bloccato su uno dei termini, su una de-finizione univoca. Sennonché, come in larga parte dell’antropologia filosofica tedesca, questa paradossalità non

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incrina quella macchina antropologica che ha diviso l’essere umano tanto dall’animale quanto dalla tecnica (si veda L’aperto di Agamben o Post-human di Marchesini). Una macchina antropologica che vede, per esempio, l’animalità come altro dall’umanità, al limite come uno stadio anteriore, mai invece come ciò che sta davanti. In altri termini, sebbene De Carolis si impegni a evitare una deriva trascendentale, egli resta sempre dentro un orizzonte umanistico che si regge sulla centralità dell’essere umano. Il suo tentativo di esplorare un’ontologia dell’attualità finisce così con l’approdare ai lidi rassicuranti di una metafisica rivista ma non abbandonata A riprova di ciò, il richiamo al linguaggio che serve per mostrare l’opera del paradosso: un richiamo effettuato da buona parte della nostra tradizione culturale per giustificare la posizione eccezionale dell’essere umano. E per garantire tale eccezionalità bisogna confidare in un fondamento – innato e non storicamente determinato.

Immaginare un rapporto di orizzontalità e ibridazione tra antroposfera, teriosfera e tecnosfera è l’impegno più gravoso del presente. Solo questo sforzo immaginativo permette di spingere oltre la descrizione che De Carolis offre del paradosso antropologico: riconoscendo nell’essere umano da un lato l’apertura all’alterità animale e tecnologica (con la formazione di una rete ibridativa) e dall’altro la tensione continua a tracciare dei confini culturali della cui permeabilità è sempre più consapevole.

Qualcosa non torna però anche nella connotazione della democrazia come creativa. Infatti, sebbene De Carolis colga i meccanismi che hanno reso esangui i regimi democratici, possiamo pensare di rianimarli con un fattore pre-politico (o biopolitico, per essere à la page) quale la creatività? Inoltre, il rapporto tra cittadinanza e differenze così come articolato dall’autore, pur non essendo pratica corrente nello scenario politico occidentale, è davvero altro dal concetto e dall’esperienza maturata di democrazia? Ovvero, la democrazia come processo aperto e mai compiuto, come progetto da costruire sempre di nuovo non comprende già una creatività politica e istituzionale capace di mediare il limite e l’illimitato, la cittadinanza e le differenze?

Contingenza illimitata nicchie e dissociazione Dalila Barrile «Calabria ora» 17-05-2009 Massimo De Carolis, in Il paradosso antropologico (Quodlibet, 2008), partendo dalla questione della natura umana, ne esplora il caratteristico spirito di apertura, e insieme il suo bisogno di ricrearsi nicchie. Il paradosso antropologico è proprio questo: gli esseri umani vivono in un ambiente caratterizzato da un grado illimitato di variabilità e, per sopravvivere, sono costretti a limitare questa variabilità, ma possono farlo solo utilizzando proprio quelle dimensioni dell'esperienza (linguaggio, lavoro) che producono un grado così elevato di contingenza. De Carolis, su questa base, caratterizza moderno e postmoderno come le età della scissione orizzontale e di quella verticale. Abbiamo rivolto all'autore tre domande. Ci sono limiti alla “contingenza illimitata” dell'animale umano, alla sua possibilità di assumere conformazioni antropologiche diverse? "Contingenza illimitata" non dev’essere confusa con l'idea che l'essere umano possa assumere qualunque forma di vita. È ovvio che ci sono dei vincoli, vincoli biologici, sia generici che specifici dell'essere umano. Per esempio, come giustamente dice Marx, l'uomo è caratterizzato del fatto che a differenza di altri organismi, non si limita vivere ma deve anche riprodurre le condizioni della sua vita. Con questo egli intende tante operazioni di interazione con l'ambiente, il lavoro, la conoscenza, che appartengono strutturalmente alla specie. Questi sono vincoli ai quali qualsiasi cultura umana

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deve rispondere. Il paradosso della condizione umana sta nel fatto che l’animale umano deve creare questa interazione col proprio ambiente utilizzando degli strumenti che sono essenzialmente il linguaggio e la prassi, caratterizzati appunto da questa “contingenza illimitata”, cioè da questa variabilità illimitata. Quindi, il problema che ogni cultura, che ogni singola forma di vita ha, è in qualche modo dare una forma coerente a questi due spiriti opposti: Chomsky ha perfettamente ragione: le lingue devono ottemperare ad una serie di vincoli senza i quali non sarebbe possibile generare una lingua. Ma la caratteristica paradossale della lingua è che questi vincoli sono proprio quelli che permettono la creatività linguistica. […] In un certo senso è vero che qualsiasi tratto può diventare antropologicamente significativo, ma lo può diventare soltanto a condizione che l’intero contesto si armonizzi con esso, in modo da ottemperare a quei vincoli generali indispensabili, strutturalmente necessari, per una cultura affinché essa, e l’esistenza specificamente umana si riproduca. Sono i mutamenti socio-politici a causare (o almeno a orientare e selezionare) i mutamenti antropologici, o entrambi dipendono da altre determinazioni? Dipende. Se con il termine "antropologico" intendiamo caratteristiche antropo-biologiche specie-specifiche, esse nel percorso storico non mutano, ed anzi costituiscono quella cornice di vincoli di cui parlavamo prima, e all’interno dei quali volta per volta il mutamento socio-politico spinge verso soluzioni diverse. Ogni strategia esistenziale è una soluzione diversa ad un problema che verosimilmente tutte le strategie esistenziali hanno, e cioè, per esempio: - come venire a capo del vincolo paradossale per ogni essere umano tra le proprie rappresentazioni e le informazioni sulla realtà esterna? È una caratteristica propriamente umana quella di trovarsi in una condizione di promiscuità strutturale fra rappresentazioni e fatti. Noi non accediamo ai fatti se non attraverso le rappresentazioni, e non c’è rappresentazione che non possa essere analizzata sotto il profilo dei fatti se non attraverso le rappresentazioni, e non c’è rappresentazione che non possa essere analizzata sotto il profilo dei fatti (questo è quello che Wittgenstein chiamava solipsismo). Questa è una condizione paradossale, e quindi, uno dei problemi che ogni strategia esistenziale ha, è quella di trasformare questo paradosso da un limite, da un abisso in cui per esempio l’unità del soggetto, l’unità dell’io potrebbe precipitare e cadere, come di fatto succede ad esempio in crisi dissociative gravi, come trasformarlo invece in un fattore di coerenza ed un fattore di integrazione. Le forme di cura del Sé, di costruzione della soggettività, che sono molto diverse da epoca in epoca, di contesto in contesto sono diverse soluzioni a questo paradosso. Se per caratteristiche antropologiche si intendono invece queste specifiche soluzioni al problema, è chiaro che volta per volta è l’insieme del contesto storico-sociale che premia delle soluzioni e ne scoraggia altre. Quindi, la ragione per cui, ad esempio, un certo sistema di vita monastica in determinate epoche è efficace e riesce in maniera efficace a tutelare il patrimonio culturale, in altre invece decade e si riduce ad essere una forma di vita, una scelta esistenziale marginale poco significativa, spesso spuria ecc., è chiaro che in questi casi verrebbe da dire che le condizioni storico-sociali sono quelle che esercitano la pressione selettiva e che mutano questa evoluzione. Ma è anche vero che queste sono volta per volta soluzioni diverse a problemi di cui non possiamo identificare invece una forma generale e che quindi presuppongono un fondamento antropologico che non è soggetto in maniera così effimera alla variazione delle circostanze. Perché ritiene il modello di identità psichica basato sulla dissociazione e sul diniego della realtà esterna specifico delle configurazioni sociali contemporanee? […] In fondo quello che ha cambiato la riflessione sui meccanismi dissociativi è stato il dato di fatto che sono cambiate le patologie psichiche: non ci sono più i casi clinici di isteria di cui parlava Freud, e i loro successori contemporanei come i disturbi alimentari, le tossicodipendenze, ecc, sono patologie psichiche in cui salta agli occhi il fatto, che l'elemento dissociativo ha un peso determinante.

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Questo non significa che l'elemento dissociativo ora sia diventato sano, mentre prima era patologico. È un meccanismo ambivalente che può produrre patologia come può produrre un’organizzazione della società bene o male efficace e interessante. Questo valeva prima come vale ora, solo che ora evidentemente la sua capacità, la sua possibilità di interagire in un contesto è aumentata, ed è aumentato il suo peso nel bene come nel male. Il paradosso antropologico Aldo Trucchio «S&F scienzaefilosofia.it» 01-01-2009

[…] Il punto di partenza della riflessione è la constatazione che la condizione umana è biologicamente scandita dall’oscillazione tra l’istanza di apertura, che spinge gli uomini a esplorare ogni possibile dimensione mondana, in quanto privi di un ambiente prestabilito e gestibile tramite gli istinti, e l’istanza di protezione, che tenta di far fronte alla complessità e alla contingenza del reale istituendo dei reticoli di simboli, ovvero delle nicchie culturali, veri e propri rassicuranti ambienti artificiali a metà strada tra realtà e rappresentazione, dai quali escludere tutto quanto risulti unheimlich. Se pure tale impostazione è debitrice nei confronti delle riflessioni di Uexküll, Gehlen e Plessner, De Carolis sottolinea però come i nuovi indirizzi di ricerca delle tecnoscienze umane rendano inaccettabile lo statuto di eccezionalità e indipendenza riservato all’uomo rispetto alla natura in generale nelle riflessioni antropologiche classiche.

Tale condizione, costituendo l’essenza stessa della natura umana, è destinata a perpetuarsi a dispetto degli sforzi di scienza e filosofia, che l’autore considera come tentativi di far fronte al paradosso. Il vero problema, e anche il fine cui tende il libro, è difatti tentare di assumerlo come presupposto di ogni discorso comunitario e politico, e di trovare strategie adatte a neutralizzarne il potenziale distruttivo. De Carolis affianca a questa un’altra linea di ricerca sulla diffusione sempre crescente nelle società odierne dei disturbi dissociativi, ovvero dell’«attitudine a isolare e separare l’uno dall’altro i momenti virtualmente conflittuali dell’esperienza psichica» (p. 13), respingendoli non nell’inconscio, bensì in un comparto della vita cosciente separato dall’esperienza. Per l’autore i disturbi dissociativi sono legati al paradosso antropologico e sono il segnale di una mutazione in corso nelle forme di organizzazione della vita psichica che coinvolge anche istituzioni e vita collettiva, tanto che è possibile constatare come «i reticoli sociali postmoderni si aggancino di preferenza ai meccanismi dissociativi» (p. 87). […] Sebbene il quadro delineato nel libro risulti tutt’altro che ottimistico, le conclusioni, sulla scorta di Dewey e Walser, lasciano trasparire «nuove possibilità di resistenza e di creativa ridefinizione della vita» (p. 179). Esiste difatti la possibilità che le tecnoscienze umane, facendo emergere la dimensione antropologica primaria, cioè quella del paradosso, possano dischiudere una nuova sfera pubblica caratterizzata dal pluralismo e non più dalla ricerca dell’omogeneità che ha caratterizzato lo Stato-nazione moderno. Si tratterebbe di una vera e propria risposta alternativa al paradosso antropologico, in grado cioè di introiettarlo all’interno del piano politico della vita umana in entrambi i suoi due lati, l’istanza di chiusura nella propria identità d’origine e quella di apertura a una comunità nuova, il cui motore siano «l’indistinzione, la contingenza e la generica potenzialità» (p. 171).

Ma il tema sotteso a tutta la riflessione di De Carolis è in realtà una critica filosofica all’eredità della modernità, i cui tratti essenziali vengono individuati nella «repressione delle pulsioni come strumento necessario per il buongoverno» e nel «primato della legge come espressione formale della razionalità» (p. 97). Di fronte a questa constatazione, il lettore accorto vede le «maglie rotte» (p. 8), i vuoti che l’autore stesso ravvisava nella sua rete argomentativa, e che sono per lo più riferibili agli aspetti politici del ragionamento. […] Ma De Carolis convince quando afferma che è stata «la mancata o insufficiente trasposizione del paradosso antropologico sul terreno politico» (p.

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167), che resta dominato dalle visioni conservatrici della tarda modernità, ad aver ostacolato un’adeguata penetrazione di queste teorie. E convince tanto più quando, coerentemente, tiene fermo quanto si era imposto fin dall’inizio, cioè di «non abbandonare mai il terreno antropologico primario» (p. 19) per la politica, e quindi di lavorare sulla profondità dell’analisi piuttosto che sulla sua estensione, di lasciare aperto uno spazio di interrogazione sulle possibilità che ci si stanno dischiudendo, e assieme ricordare il paradosso essenziale che sempre l’uomo si trova ad affrontare nei momenti decisivi della sua storia.

La scissione tra io e mondo nell'era globale Roberto Fai «La Sicilia» 25-03-2010 E' fuor di dubbio che, nel corso dell'ultimo quindicennio, la "globalizzazione", al di là delle dirette implicazioni economico-finanziarie e del ruolo giocato nel "mutamento di scala" delle relazioni mercantili, abbia avuto ricadute ed effetti altrettanto significativi, agendo nella riconfigurazione dei sistemi di regolazione sociale e nelle forme tradizionali dell'ordine politico, contribuendo pertanto alla disgregazione dei luoghi classici del riconoscimento collettivo e dei dispositivi simbolici operanti lungo tutta la modernità. Se a volte appaiono solo stantie, o la cifra di una mera ripetizione linguistica le lamentazioni di Zigmunt Bauman sulla "liquidità" (società, amore, mondo, vita, paura, etica: tutti ambiti unificati dall'identico carattere "liquido"), che inevitabilmente contrassegnerebbe i luoghi e le tonalità emotive dell'epoca globale - mentre sarebbe forse giunta l'ora di scandagliare le dinamiche "gelatinose" ed "opache" dei dispositivi del nuovo "potere globale" -, è diffuso il riconoscimento che in Occidente, ed in particolar modo nello spazio della società europea, sia già avvenuta una "scissione", che ha fatto deflagrare, la connessione che unificava dialetticamente, dentro lo spazio politico moderno, il "particolare" del soggetto (dell'individuo, dell'homo democraticus) e "l'universale" dello Stato. E' inevitabile considerare che, sino a quando ha funzionato e tenuto quella "connessione", le correlazioni tra le due dimensioni fondative delle "forme di vita" dei soggetti moderni - la dimensione psicologica e quella sociale - potevano svolgersi lungo il crinale di un orizzonte condiviso, pur se agonistico: tra valori, interessi, progetti, ideologie, ecc…Ecco che, proprio nel "vuoto" che si è spalancato davanti a noi, nell'attuale epoca globale, l'esigenza - sulla scia di Foucault - di una "ontologia dell'attualità", potrebbe così tradursi concretamente nella domanda: che cosa sta accadendo "adesso"? Qui ed ora, a tutti noi? Parte da qui, da queste domande, dalla necessità di individuare "l'interpenetrazione tra le operazioni mentali dei singoli sistemi psichici e i processi comunicativi che strutturano i sistemi sociali", l'agile ma denso e brillante saggio del filosofo Massimo De Carolis, "Il paradosso antropologico. Nicchie, micromondi e dissociazione psichica" (Quodlibet, Euro 16, pp. 190). Consegnato ad una comune e condivisa acquisizione teorica e speculativa, il paradigma dell'interdipendenza tra forme delle "identità psichiche" e "comunità sociale" - oggettivamente inscritta nella storia effettiva della società moderna - sembra riaprire il campo di un inedito "paradosso antropologico", dal momento che l'epoca globale ed anche i nuovi interrogativi che si agitano in questi ultimi decenni attorno allo statuto della "natura umana" lasciano intravedere una mutazione storica nelle forme di vita delle soggettività postmoderne. Il crepuscolo di quella che De Carolis chiama "doppia sottomissione" - vale a dire, quella delle pulsioni all'Io e quella della moltitudine alla legge: entrambe, espressioni e chiavi di accesso alla vita "civile" e al riconoscimento simbolico, oggi precipitate nel "vuoto" degli spazi politici collettivi - rende più incandescente lo stato di "anomia" che connota l'esistenza soggettiva, costretta a convivere con due istanze antitetiche ma obbligate: l'esposizione ad una infinita contingenza, derivante dalla nostra aperta costituzione biologica e l'esigenza di "proteggersi dalla illimitata contingenza", costruendo così "nicchie" e micromondi immunitari. Con incursioni che si snodano tra registri teoretici diversi - dalla filosofia politica alla psicanalisi, all'antropologia, da Freud a Schmitt, - il saggio di De Carolis offre al lettore un intreccio speculativo di notevole interesse.