Il fuoco e la cenere anteprima

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Redazione Leandro del Giudice

GraficaEmanuela Nosari

In copertinaCarlo Mattioli, Papaveri in Versilia, 1979

ISBN 978-88-8103-833-6

© 2014 Edizioni DiabasisDiaroads srl - vicolo del Vescovado, 12 - 43121 Parma Italiatel. 00 39 0521 207547 - [email protected] - www.diabasis.it

La riproduzione dei documenti conservati presso l’Archivio di Stato di Parmaè stata autorizzata in data 1 ottobre 2014, prot. n. 3086/V.9.3.

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La riproduzione dei documenti conservati presso l’Archivio di Stato di Parmaè stata autorizzata in data 1 ottobre 2014, prot. n. 3086/V.9.3.

Attilio Bertolucci

Il fuoco e la cenereVersi e prose dal tempo perduto

A cura diPaolo Lagazzi e Gabriella Palli Baroni

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Bertolucci PapersPaolo Lagazzi

È piuttosto strano: stare accanto ad Attilio non era forse come muoversi in sogno? Eppure, mentre nei territori della notte qual-cosa spesso mi sorprende e mi espone al risucchio pauroso del vuoto, in quel sogno che era la nostra amicizia ogni incontro scor-reva franco, naturale e leggero come le cose che non percepiamo (il sangue in noi, l’aria attorno a noi, il ruotare della terra) ma che sono indispensabili al vivere. Mai e poi mai lui avrebbe assunto con me le pose del grande maestro nei confronti dell’allievo: in-tessuto di tenerezza e humour, d’infinite sottigliezze e delicatezze, di tratti fluidi e freschi benché non privi di punte, spigoli, aritmie, increspature d’ansia, retroterra d’ombra, il suo insegnamento continuo tendeva a smorzare le differenze tra i nostri punti di vista, a farmi sentire dentro un mondo che si poteva veramen-te, “umanamente” abitare. Le molte occasioni in cui mi avrebbe schiuso, negli anni, la sua officina creativa invitandomi a seguirlo oltre quella soglia invisibile fra sé e gli altri che ogni autentico artista sa indispensabile alla propria libertà, mi appaiono ancor oggi doni tanto più preziosi in quanto offerti con la nonchalance delle cose fortuite, degli eventi che brillano sul filo inappariscente dei giorni. Tra quei doni ricordo i dattiloscritti e manoscritti (mai, prima, visti da nessuno) contenenti prove, varianti, incunaboli di Sirio, o testi esclusi dalla raccolta, che mi mise a disposizio-ne a Casarola nell’estate del ’79 mentre mi accingevo a scrivere un saggio; i primi trentasei capitoli della Camera da letto, ancora inediti in volume, che mi sottopose nell’estate dell’83, sempre a Casarola, chiedendomi di esprimergli le mie opinioni con la mas-sima schiettezza (autorizzato dalla sua fiducia mi permisi non solo di suggerirgli d’intitolare i capitoli, fino allora indicati da semplici numeri romani, ma addirittura di togliere un verso, che mi pareva

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un po’ stonato, dal racconto della morte della mamma, e quell’uo-mo che molti credevano un terribile snob accettò entrambe le proposte con una sorta di esultante pazienza); la lettera che mi scrisse il 15 settembre ’87 poco prima di una seria operazione allo stomaco pregandomi, se non ne fosse uscito, di “prendere in mano quanto resta di inedito di me”; l’allegra adesione, tra il ’91 e il ’92, alla mia proposta di raccogliere le sue carte sparse presso l’Archivio di Stato di Parma; le detection che mi consentì di compiere a questo scopo nella sua casa di Roma, ricerche da cui sarebbero uscite le poesie inedite poi in parte confluite nelle due ultime raccolte, Verso le sorgenti del Cinghio e La lucertola di Casarola. Tutto un fruscìo di carte, un fluttuare di fogli, quader-netti, testi nati nell’arco di una vita e custoditi (si fa per dire) in scatole da scarpe rimaste in qualche ripostiglio segna, dunque, la mia storia accanto ad Attilio, così come, in modi simili e diversi, quella di Gabriella Palli Baroni: ed è da questa stessa vicenda, da questo irradiarsi a onde discontinue di parole nel tempo che è nato anche Il fuoco e la cenere.

Le due raccolte che ho appena ricordato, Verso le sorgenti del Cinghio e La lucertola di Casarola, non sono state prodotte dalla volontà di stilare un qualsiasi “bilancio” finale. Dopo aver pub-blicato La camera da letto, in un certo senso il poeta sentiva di aver concluso la propria parabola, di aver assolto il compito asse-gnatogli dagli dèi: il romanzo in versi non era forse il suo Temps retrouvé? Eppure il bisogno di esprimersi, il desiderio di speri-mentare non si era affatto esaurito in lui, e quelle due raccolte gli avrebbero ancora dato il modo d’incarnarlo in pagine intrecciate di poesie recenti e poesie giovanili, di liriche compiute e compo-sizioni in fieri, di frammenti volatili e di brani di ampio respiro epico esclusi dal romanzo in versi. Anche costruendo Il fuoco e la cenere io e Gabriella abbiamo cercato di realizzare, scegliendo i più belli tra gli inediti custoditi nell’Archivio di Stato di Par-ma e nei nostri archivi personali, un libro eloquente e palpitante, in grado di rispecchiare in modo vivo la straordinaria creatività

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bertolucciana, evitando sia lo spirito antiquario sia il gusto cele-brativo. Nella lettera dell’87 che ho ricordato prima, il poeta era stato molto chiaro: “Se dopo un esame del materiale ti sembra che solo parte, o niente, sia degno dei tre libri [La capanna indiana, Viaggio d’inverno, La camera da letto] nei quali c’è pubblicato tutto di me che mi rappresenta, sii severo e amico insieme, il più possibile”. Cosa potevamo, dunque, se non leggere e rileggere gli inediti scegliendo quelli capaci di restituire con la maggiore pienezza il timbro inconfondibile di una voce, di una scrittura cangiante negli anni, aperta anche al gioco e all’azzardo ma sem-pre, a suo modo, fedele alla luce vera delle cose, alla sostanza creaturale del mondo?

Come il primo e il secondo libro della Camera e le due ultime raccolte, anche Il fuoco e la cenere ha la struttura di un trittico: la prima parte, che abbiamo chiamato Féerie (il termine era assai caro al poeta: lo dimostra fra l’altro il suo trascriverlo come titolo su una cartelletta rimasta in mio possesso, probabilmente desti-nata a raccogliere i testi poi ripresi in Verso le sorgenti del Cinghio come Teneri rifiuti), allinea poesie composte in prevalenza dagli anni Venti (prima di Sirio) agli anni Quaranta, ma anche conce-pite più tardi, fino ai Novanta; la seconda parte, che abbiamo battezzato Vita mobile riprendendo l’espressione da una poesia di Viaggio d’inverno (Viaggiando verso la primavera), raccoglie al-cuni bellissimi brani, sequenze o capitoli esclusi dalla Camera da letto, tutti più o meno incentrati su passaggi, spostamenti, fughe, traslochi, escursioni, cammini; la terza parte, quella che intitola il libro, riprende prose di fluida e corrusca qualità poetica composte fra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta, incunaboli degli scritti del grande Bertolucci prosatore raccolti in Aritmie e in Ho rubato due versi a Baudelaire, poi, dopo la sua morte, in Lezioni d’arte e in La consolazione della pittura. (L’emblematica coppia d’immagini del fuoco e della cenere è presente in due di queste prose, Esercizio e Corriera di Parma, oltre che tra i versi di Un triste canto, un dolce e triste canto, mentre la flânerie intitolata Capricci invernali brilla

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di “un fuoco interno assai dolce” e il racconto Un giorno del ’44 è scosso e striato da fiamme e fumi di guerra).

Se, da un lato, questa struttura tripartita distingue con chia-rezza i diversi spazi dell’officina di Bertolucci (i suoi tre “tavoli” ideali e reali, potrei dire secondo il celebre modello pascoliano), e se da un altro lato l’ordine cronologico, col quale abbiamo, nei limiti del possibile, cercato di distribuire i testi entro ognuna delle sezioni, potrà aiutare i lettori a seguire alcuni significativi muta-menti dello stile del poeta nel tempo, molti dei temi, delle figure e dei tocchi stilistici si richiamano da un capo all’altro del libro con tanta necessità, con tanta forza da indurci a riconoscere in questa, come in tutte le altre raccolte di Bertolucci, una tendenza all’araz-zo spontaneo, all’intarsio a distanza dei fili, alla formazione di un paesaggio dei sensi e dell’anima insieme complesso e semplice, innervato tanto da pulsioni di spostamento o di fuga della visione quanto da spinte centripete, da un desiderio lancinante di tornare sempre, di nuovo, ai propri luoghi d’origine, alle proprie imma-gini predilette.

L’originalità di Bertolucci, ha scritto qualcuno, è annidata in una “vertigine psichica”. Questa vertigine segna da cima a fondo anche Il fuoco e la cenere dispiegandosi al modo di un ossimoro permanente: intingendo la scrittura nella luce e nell’ombra; pie-gandola verso le manifestazioni della bellezza e i risvolti oscuri dell’ansia, dell’apprensione, del tormento; facendo vibrare le par-titure del poeta d’allegria e malinconia, di un innocente giubilo adolescenziale e di un irrimediabile spleen; alternando trepide e rigeneranti rêverie a momenti di stanchezza, a velature cinerine, al pensiero ricorrente della morte… Pur imprimendo a molte di queste poesie un tocco di delicato, estatico e un po’ ebbro abban-dono alla vita, nemmeno l’intensissimo amore per Ninetta (senza dubbio l’evento cruciale di tutta l’opera sparsa di Bertolucci ne-gli anni tra Fuochi in novembre e Lettera da casa) sembra a tratti poter arginare le tentazioni della prostrazione: “Le mie braccia ricadono, se voglio alzarle, /…/ Le mie gambe non potranno più

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correre / Nel mattino silenzioso e pieno di sole…”. Eppure basta poco perché l’anima si scuota, si rialzi e torni a levitare: perfino la cadenza delle bacchette d’un materassaio può diventare musica agli orecchi del poeta, e attraverso questa musica, un po’ da batte-rista, “l’aria / Si fa più leggera, e ride”…

Lo spirito dell’ossimoro, il carattere sottilmente paradossale di questa poesia non è solo un fatto profondo ma tocca anche, o anzitutto, le forme, increspa i colori e i timbri della voce, flette o tende le curve del ritmo, organizza il contrappunto delle rime e delle assonanze, sovrintende alle scelte lessicali. Specialmente negli anni d’entre deux guerres molto significativo è il coesistere di versi di palpitante freschezza naturale con altri un po’ prezio-sistici, di silhouette immaginative assai famigliari e riconoscibili per i lettori di Bertolucci con invenzioni un po’ strane e improba-bili, di testi più o meno chiusi, tendenti al madrigale o al sonetto, con altri aperti, liberi nelle effusioni del proprio respiro. A volte il poeta ritaglia dei quadretti brevissimi, di quattro o anche di soli tre versi (“Per tutto un pomeriggio / Il sole ha illuminato / Que-sto muro sul Parma”), leggibili sia come schizzi su cui tornare, come nuclei da cui irradiare fraseggi più ampi, sia “in sé”, come frammenti di una speciale forza lirica, simili a degli haiku. Altre volte sono veri e propri azzardi “romanzeschi” (Primi appunti per il figliol prodigo, Racconto d’inverno) a dilatare la rêverie molto prima della nascita della Camera da letto. In ogni caso, perfino negli anni in cui è più propensa a dolcezze vagamente neoales-sandrine, nutrite di incursioni tra Catullo e Properzio, o è più tentata da esercizi di sottile virtuosismo, come la traduzione del sonetto 18 di Shakespeare, la voce del poeta non è mai, davvero, ipotecata da quella tendenza alla letterarietà che è il filo con-duttore del petrarchismo ermetico. Ciò che salva Bertolucci dal cedere alle lusinghe del manierismo novecentesco non è solo la sua grazia intrisa di “sprezzatura” – quella grazia, quella delica-tezza fantasiosa e leggera che Luzi saprà riconoscergli recensen-do nel ’51 La capanna indiana –, è qualcosa di molto più ampio:

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è il bisogno di evocare il mondo nell’immensità dei suoi eventi anche minimi, è il clinamen spirituale di un ultimo figlio dell’età impressionista chiamato a testimoniare il miracolo e la pena della vita nella dolcezza straziante del suo brillare e del suo incenerirsi.

Benché Bertolucci le abbia abbandonate alla corrente del tem-po – ma in luoghi in cui fosse possibile, prima o poi, ritrovarle –, le poesie e le prose qui raccolte contengono alcuni gioielli, alcu-ni passaggi memorabili: ricordo, fra gli altri, il finale di Alla mia giovinezza vibrante di domande in serie in cui il poeta, parlando alla propria età come se fosse una ragazza “triste e sola”, schiude attorno a lei un paesaggio vastissimo di dolce, sospeso, rabbrivi-dente stupore (“Forse hai paura della tua solitudine, / E di quei grandi venti sereni / Che si alzano nel mezzogiorno? / O delle bianche nuvole / Ferme sui campanili rotondi?”); il distico che si-gilla Luna e nuvole, con quella luna-lucerna che, splendendo “fra greggi di nuvole / Addormentate”, “solitaria nel cielo”, emana un chiarore quasi leopardiano; il disegno di Avevo dormito a lungo, senza sogni, giocato tra una percezione estremamente tersa della quotidianità “nell’assopirsi lento del giorno” e un tocco onirico di toccante, quieto surrealismo (“Io in piedi ero alto, alto come un pioppo / Tu piangevi come un rivo, allora ti baciai per la prima volta”); l’immagine della casa “Fresca nelle gran sale deserte / Come un sepolcro o una bottiglia” che, nella poesia incompiu-ta Il rosmarino profuma l’estate, anticipa di lontano alcune tra le evocazioni più arcane della Camera da letto (la “sala da pranzo rinchiusa / come un acquario o una tomba” del capitolo IX, la sala “fresca come una tomba / o una cantina” del capitolo XXI); le “immote / lampade della strada” che vegliano nella silenziosa notte romana come “ardenti vergini prudenti”, o come “testimoni senza palpebre dal nulla”, nella sequenza conclusiva del Viaggio di nozze escluso dal romanzo in versi…

Ma il mondo poetico di Bertolucci, come sappiamo, non vive mai solo di attimi speciali, di epifanie, di sortilegi fiammanti; l’im-portanza di questa estrema raccolta è altrettanto da cogliere nel

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suo flusso generativo, nel movimento d’insieme. Se l’osserviamo in controluce alla distanza tra i primi componimenti (quelli, va-gamente “metafisici”, anteriori a Sirio) e l’ultimo (Ricordando il ’22 di Parma, sorta di tenera e fiera ballata scritta dal poeta tre anni prima della morte per uno degli episodi più commoventi della storia della sua città), questo libro squaderna ai nostri occhi, per frammenti o “esempi”, tutta l’estensione artistica, simbolica e umana della ricerca bertolucciana di verità.

Due episodi assai significativi di questa avventura, la prosa L’apprendista poeta e la sequenza per la Camera il cui incipit suo-na Passano due anni nell’apprendistato, testimoniano il bisogno dell’autore di capirsi, di guardarsi periodicamente allo specchio per cogliere le linee di fondo, i rischi e le chance del proprio “stra-vagante” carattere e del proprio “singolare” destino. Sebbene scritti a grande distanza reciproca (nel ’33 la prosa, come rivela la confessione dell’autore di avere ventidue anni; probabilmente tra gli anni Sessanta e Settanta la sequenza della Camera), entrambi i testi ci dicono con quanta chiarezza Bertolucci abbia sempre saputo riconoscere la sua vocazione creativa, la necessità della sua poesia nel cuore stesso, aritmico, del proprio farsi. La loro incom-piutezza, però, non è forse anche il segno di un limite intrinseco alla consapevolezza del poeta, del suo necessario scontrarsi con un margine irriducibile di mistero?

Ha affermato una volta Jankélévitch che, mentre il segreto “de-signa ciò che è precluso ai profani e riservato ai soli iniziati”, il mistero è una realtà essenziale, un fatto d’ordine naturale o spiri-tuale. Anche se non coglie, forse, tutta la verità, questo pensiero può aiutarci a mettere a fuoco la radicale differenza tra il Nove-cento orfico, chiuso nell’esoterismo di segreti per pochi eletti, e la lirica di Bertolucci, votata naturalmente al mistero. Certo nel poeta di Parma c’è anche quella disposizione al segreto che non è se non pudore, solitudine protetta, gelosa custodia dei propri affetti, umanissima difesa della propria libertà; il nocciolo della sua verità, però, sta nella capacità di cogliere la luce, la trasparenza delle cose,

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la vita semplice e quotidiana come mistero. Non è affatto un caso se il rintocco iniziale di tutta la sua opera, l’incipit di Sirio, è un ossimoro quale “Divina misteriosa / chiarezza”. Anche nelle po-esie qui da noi riprese il mistero – leitmotiv esplicito nel secondo dei testi intitolati Poema (“Radura, chiara radura /… / Misterioso pesante sonno dei meriggi”), in Tentenna graziosamente il tuo capo (“il sole pare … una mobile e viva / Acqua, un mistero…”) e in Alla mia giovinezza (“Quale incantesimo ti tiene / Di frescura e mistero avvolta…”) – è il riverbero d’ineffabile inscritto nel gioco stesso, luminoso dei momenti, è quel quid di magia che non ha bi-sogno di essere velato per custodire il proprio fondo insondabile. A volte Bertolucci è tentato di esplorare il mistero in una distanza, attraverso la fuga della fantasia in un altrove: in questi momenti la sua rêverie può spingerlo a schizzare piccoli miti o fiabe sui generis (anche alcuni disegnini che costellano i suoi manoscritti sembra-no escursioni nei regni del bizzarro) o ad evocare degli Orienti ipotetici come quello che increspa di ricciute, colorite e pastose immagini da Mille e una notte i versi di Racconto d’inverno. Perfino la sua lettura della Recherche palpita di questo ardore immagi-nativo, come ci mostrano gli appunti di Proust e la féerie. Ma il richiamo del “qui e ora”, o della luce delle cose intrise di tempo, rese vere dai loro limiti creaturali, e proprio per questo preservate nel loro mistero, rovescia sempre, prima o poi, la fuga in un ritor-no alle radici. Così, nel capitolo per la Camera sul viaggio di nozze a Roma, “A.” e “N.” sanno riconoscere in una celebre tavola del Correggio, la Danae custodita nella Galleria Borghese, non solo la patina sognante delle “favole antiche” ma, “in un lontano di paese / inventato dal vero”, “proprio l’aria della plaga / fra la città e la collina / dove inevitabile / si svolgerà la loro vita”.

Mentre l’anonimo protagonista del Carteggio Aspern di James si trova di fronte a un segreto invalicabile – lettere del suo poeta prediletto custodite in luoghi inaccessibili, resi tali da un’ambigua e feroce strategia di occultamento –, Attilio, come ho già detto, non ha mai fatto nulla per impedirmi l’accesso all’“altro lato” del

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suo specchio, non mi ha mai nascosto le carte disperse della sua ricerca, i segni e le tracce del suo cammino nel mondo. Proprio questa apertura della sua dimora intima mi ha sempre gettato con forza contro l’evidenza del suo mistero. Le “lettere” erano là, di-sponibili al tocco un po’ sudato delle mie mani e alla presa del mio sguardo, eppure, mentre le sfogliavo, mentre le voltavo e rivoltavo cercando di carpirne il vero significato, esse mi resistevano dolce-mente: come la lettera rubata di Poe era resa invisibile dal suo es-sere totalmente in mostra, così la loro prossimità me le sottraeva, ne spostava il senso dove non sarei mai riuscito a raggiungerlo…

Fra tutte le poesie del Fuoco e la cenere, Come lucciola allor ch’estate volge ha una risonanza molto particolare nel mio cuore, e non solo perché, durante la parte “civile” del funerale di Berto-lucci, il 17 giugno 2000, a Parma, la lessi in pubblico rabbrividen-do. Questa poesia non è soltanto, nel senso più alto, struggente: ha in sé qualcosa che davvero sorprende. Malgrado il suo nitore “classico” e la sua dolce, lirica musicalità madrigalesca, antici-pa di mezzo secolo una delle immagini più tragiche e desolate dell’opera bertolucciana, quelle lucciole “sfinite”, di cui le “foglie amare” di un giugno “ventoso” sono “imbrattate”, che conclude la Canzone triste in tre parti della Lucertola di Casarola, il testo di commiato del poeta al mondo. Forse mai come mentre leggevo quei versi in pubblico fui trafitto dalla forza e dal mistero della po-esia di Attilio. “Tutta” la sua voce vibrava in quei pochi versi, ma qualcosa in essi – come potrei chiamarlo, il dolore della bellezza? – continuava a incantarmi e a sfuggirmi. La “lucciola” della sua verità era a un passo da me, eppure persa chissà dove nella notte; anche conclusa la lettura continuavo a vederla palpitare dove non sarei mai arrivato col pensiero, dove la fiammella della vita che muore diventa un fuoco fatuo, la scia d’una cometa, un pulviscolo di stelle senza nome.

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Nota all’edizione

Nel 1993 Attilio Bertolucci, pubblicando la sua penultima rac-colta Verso le sorgenti del Cinghio, intitolò Teneri rifiuti alcune poesie giovanili ritrovate tra le sue carte e riprese nel libro e nel 1997 approvò la piccola raccolta Schizzi e abbozzi del Meridiano Opere, composta di testi pubblicati sparsamente e dimenticati. Il fuoco e la cenere si colloca su questa via segnata dal poeta racco-gliendo liriche, prose, sequenze e capitoli della Camera da letto inediti o pubblicati in riviste, giornali e plaquette dopo la sua scomparsa.

Gli originali dei testi, perlopiù autografi e qualche volta in co-pia dattiloscritta, sono, come indicano le note collocate in fon-do, conservati presso l’Archivio di Stato di Parma o affidati ai curatori della sua opera. Possono presentare diverse stesure con varianti significative. In questi casi si è cercato d’individuare l’ul-tima stesura secondo la volontà dell’autore; in casi di incertezza dello stesso poeta, o di un’elaborazione testuale rimasta aperta a diverse soluzioni, si è scelta quella che appariva più pregnante dal punto di vista linguistico e più risolta sul piano poetico. Si è deciso tuttavia, non essendo questa un’edizione critica, di non appesantire le note con un elenco completo di tutti i testi consul-tati, indicando solo la collocazione attuale di quelli qui raccolti e i luoghi dove siano già stati eventualmente pubblicati.

Nelle note ai testi e nell’indice generale tutti i titoli indicati dall’autore e i sei proposti dai curatori – Imitato da Shakespeare (sonetto 18), N. a Casarola, Il viaggio di nozze, Nella casa di Pea: la tempesta, Dal terzo libro e Frammenti di diario – sono riportati in tondo; in mancanza di intitolazioni si utilizza, sempre nell’indice e nelle note, l’incipit del testo in corsivo.

Si sono eliminati i numeri romani che segnano le sequenze e

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i capitoli della Camera, numeri spesso provvisori o indicativi di una fase particolare dell’elaborazione del romanzo in versi, poi modificata nell’edizione definitiva.

Per quanto riguarda gli a capo dei versi, seguendo una con-venzione tipografica un tempo vigente, Bertolucci ha usato per molti anni la maiuscola, alternandola talvolta con la minuscola in modo impreciso. Trascrivendo le poesie singole, le sequenze e i capitoli della Camera da letto abbiamo sempre rispettato le scelte dell’autore limitandoci a uniformarle.

Le date in calce alle poesie sono state uniformate col nome del mese sempre minuscolo.

Si sono infine corretti alcuni errori ortografici e sviste.

Un profondo grazie agli eredi del poeta, Bernardo Bertolucci e Lucilla Albano, che hanno autorizzato e condiviso questo libro, e inoltre a Graziano Tonelli, direttore dell’Archivio di Stato di Parma, a Valentina Bocchi, instancabile custode del fondo berto-lucciano in esso raccolto, e alla famiglia Mattioli che ha concesso di riprodurre in copertina un quadro di Carlo Mattioli.

P. L. e G. P. B.

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Alla mia giovinezza

O mia giovinezza ardente e triste …Gli ippocastani si sono messi I loro bianchi pennacchi,Già la rosa odora,E nelle fresche nottiL’usignuolo riempie l’ariaDelle sue note chiare e scure;Già nella luce volteggianoLe folli farfalle,E tu non ti vuoi svegliare.Quale incantesimo ti tieneDi frescura e mistero avvolta,O dolcissima, o triste e sola?Forse hai paura della tua solitudine,E di quei grandi venti sereniChe si alzano nel mezzogiorno?O delle bianche nuvoleFerme sui campanili rotondi?

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Bertolucci Papers, Paolo LagazziNota all’edizione

Féerie

Nessuna grazia m’offuscaCome una rupe Te cerco, silenziosa acqua di LetePoemaPoema PoemaPoemaCaffèUn triste canto, un dolce e triste cantoA una ballerina di tangoIl ritornoA una nuvolaNovembreArrivammo a fresche acque correntiRovaioEndimioneQuesto è il caro autunnoO anni lontani…Alla mia giovinezzaPrimavera e Morte

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Primi appunti per il figliol prodigoA Ninetta Tentenna graziosamente il tuo capo Come al mattino Ti ho sognata EpigrammaFelici, rondini portate dal ventoAl pomeriggio radiosoMonologoIl passero Sole d’invernoLuna e nuvoleAvevo dormito a lungo, senza sogniSoccorrimi mio DioRacconto d’inverno – Fantasticheria incompiuta – A NinettaO verde e tetra primaveraFine stagionePer tutto un pomeriggio La tua dolce pazienza s’animava L’alba celeste del muroDi quale luce, di qual miele d’oroCome lucciola allor ch’estate volge Luna nel vento La bellezza del fioreImitato da Shakespeare (sonetto 18)

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Il rosmarino profuma l’estateIl materassaio Già nel freddo crepuscolo s’allegraMai l’allodola vide nel suo alato FrammentoCome l’inverno addolcisce rapidoLe luci alle finestre accese primaÈ giugno il mese del fieno tagliatoI due gattiIo penso a voi che vedeste con meRicordando il ’22 di Parma

Vita mobile

C’è un’ora fra l’estrema luce utileL’incantevole Parma dell’inverno 1923Frammento escluso da Oziosa giovinezzaPassano due anni nell’apprendistatoN. a CasarolaLa colazione del mattino lasciaIl viaggio a BolognaL’estate fu bella e lunghissimaIl viaggio di nozzeNella casa di Pea: la tempesta Dal terzo libro

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il Fuoco e la cenere

L’apprendista poeta. PrefazioneEsercizioProust e la féerie Frammenti di diarioCorriera di ParmaCapricci invernaliUn giorno del ’44

Note ai testiPer un libro imprevisto, Gabriella Palli Baroni

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Come l’inverno addolcisce rapidoQuest’anno, non è ancora finitoGennaio eppure la luce s’attardaSulle tenere cime delle caseAd augurarci presto un tempo diCrepuscoli raggianti… Oh cuore, quandoSarà quel tempo

€ 20,00

ISBN 978-88-8103-833-6