Il dominio dell’uomo sull’uomo La scienza dei fenomeni ... · realismo e positivismo, ......

43
1 Società italiana di Scienza Politica XXVIII Convegno Università di Perugia – Dipartimento di Scienze Politiche Università per Stranieri di Perugia – Dipartimento di Scienze Umane e Sociali 11-13 settembre 2014 Il dominio dell’uomo sull’uomo La scienza dei fenomeni politici e l’enigma della ‘natura umana’: alcuni appunti problematici di Damiano Palano [email protected] Sezione Teoria Politica Panel 2.5. Paradigmi biologici e teoria politica Chair: Riccardo Cavallo

Transcript of Il dominio dell’uomo sull’uomo La scienza dei fenomeni ... · realismo e positivismo, ......

1

Società italiana di Scienza PoliticaXXVIII Convegno

Università di Perugia – Dipartimento di Scienze PoliticheUniversità per Stranieri di Perugia – Dipartimento di Scienze Umane e

Sociali11-13 settembre 2014

Il dominio dell’uomo sull’uomoLa scienza dei fenomeni politici e l’enigma della

‘natura umana’: alcuni appunti problematici

di Damiano Palano

[email protected]

Sezione Teoria PoliticaPanel 2.5. Paradigmi biologici e teoria politica

Chair: Riccardo Cavallo

2

Abstract

In una fase importante del proprio itinerario scientifico, tra gli anni Settanta e Ottanta del Novecento, Gianfranco Miglio iniziò a volgersi con interesse crescente verso le scoperte della sociobiologia e verso le sollecitazioni che provenivano dall’etologia umana. Nell’intervento con cui chiudeva il convegno organizzato per festeggiare i suoi settant’anni, Miglio non mancò per esempio di sottolineare come il suo entusiasmo per la sociobiologia – sovente oggetto di ironia – non fosse affatto un episodio isolato, dal momento che scaturiva da una solida convinzione: «l’esplorazione sempre più approfondita dei processi fisiologici in cui si radica la ‘conoscenza’», osservava infatti, «finirà per rendere più facile la individuazione delle regolarità alle quali obbedisce il comportamento ‘politico’ dell’animale-uomo». Spesso si sono ravvisati nell’interesse di Miglio per la sociobiologia di Wilson e per l’etologia umana il segnale di un’involuzione teorica e il sintomo di un positivismo ingenuo, alla costante ricerca di scorciatoie riduzioniste, oltre che in almeno parziale contraddizione con i principi metodologici seguiti nel corso delle sue ricerche storiche. Se in qualche misura le convinzioni ‘positiviste’ (o ‘tardopositiviste’) sembrano talvolta in contrasto con il metodo di indagine storico-concettuale quasi sempre adottato da Miglio nelle sue indagini, esse non paiono però affatto in contraddizione necessaria con le ambizioni originarie del realismo politico, né con le grandi ambizioni di una conoscenza ‘scientifica’ dei fenomeni politici. Per molti versi, la sociobiologia e l’etologia non costituivano infatti altro che un ulteriore tassello –che andava ad aggiungersi alle «verità parziali» scoperte dai grandi realisti del passato – nel grande mosaico della conoscenza scientifica della politica, ossia di come quell’attività «all’origine di tutte le cose umane» consistente principalmente nella «lotta per il controllo dell’uomo sull’uomo».

L’interesse con cui Miglio guardò ad un certo punto all’etologia e alla sociobiologia non ebbe in realtà mai sviluppi rilevanti. Ma la stretta relazione tra realismo e positivismo, che caratterizza la riflessione dello studioso comasco, ha il merito di mettere in luce una tensione costitutiva che lacera dall’interno l’ambizione di uno studio scientifico della politica, proprio dal momento che l’appello alla realtà dei fatti chiama in causa i caratteri immutabili della natura umana. La posizione di Miglio – con le sue intuizioni e le sue contraddizioni interne – ha infatti il merito di far emergere in termini quasi paradigmatici la tensione fra le due polarità di natura e cultura, di biologia e storia, all’interno delle quali si trova a oscillare ogni progetto teorico che cerchi di incardinare lo studio della politica su una conoscenza scientifica della natura umana. Il punto su cui questo contributo intende soffermarsi non consiste comunque nell’evidenziare i rischi cui si espongono quei progetti che puntano a spiegare la politica ricorrendo esclusivamente alla natura. L’intento di queste pagine è piuttosto di mettere in luce l’aporia che tende ad annidarsi – in modo pressoché inevitabile – al cuore del progetto teorico del realismo politico, come in ogni tentativo di studiare i fenomeni politici anche grazie agli strumenti offerti dalle «scienze della natura».

Damiano Palano è Professore Associato di Scienza politica e insegna presso la Facoltà di Scienze politiche e sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore (Milano). Tra i suoi lavori, Il potere della moltitudine. L’invenzione dell’inconscio collettivo nella teoria politica e nelle scienze sociali italiane fra Otto e Novecento (Vita e Pensiero, Milano 2002); Geometrie del potere. Materiali per la storia della scienza politica in Italia (Vita e Pensiero, Milano 2005); Frammenti di potere. Tracce di politica nella metamorfosi dello spazio (Aracne, Roma 2009); La democrazia senza qualità. Appunti sulle «promesse non mantenute» della teoria democratica(UniService, Trento 2010); Volti della paura. Figure del disordine all’alba dell’era biopolitica(Mimesis, Milano, 2010); Fino alla fine del mondo. Saggi sul ‘politico’ nella rivoluzione spaziale contemporanea (Liguori, Napoli 2010); La democrazia e il nemico. Saggi per una teoria culturale (Mimesis, Milano, 2012); Partito (Il Mulino, Bologna, 2013).

3

Il dominio dell’uomo sull’uomoLa scienza dei fenomeni politici e l’enigma della

‘natura umana’: alcuni appunti problematici

di Damiano Palano

1. «Il comportamento ‘politico’ dell’animale-uomo»

Nell’intervento con cui chiudeva il convegno organizzato per festeggiare i suoi settant’anni, Gianfranco Miglio cercò di portare alla luce i fili che avevano guidato la sua riflessione e tenuto insieme il progetto della sua «scienza della politica». Sintetizzando i motivi che erano emersi lungo i tre giorni di discussione, ma anche rispondendo alle osservazioni dei critici, rivendicò innanzitutto la fedeltà alla lezione di Machiavelli, consistente nell’«attenzione per la realtàeffettuale dei comportamenti politici». Un’attenzione che per lo studioso comasco equivaleva a una piena adesione all’idea secondo cui è «il realismo – perseguito al di sopra di ogni ‘umano rispetto’, e senza indulgenza per le altrui speranze – la virtù in mancanza della quale nessuno può indagare seriamente il cosmo della politica (e formulare su tale campo previsioni attendibili)»1. Ma, al tempo stesso, non mancò di accennare al suo interesse per l’etologia e per la sociobiologia, a suo avviso strumenti preziosi anche per la comprensione dei comportamenti politici. E, in questo senso, sottolineò come il suo entusiasmo per la sociobiologia – sovente oggetto di ironia, anche nel corso del convegno – non fosse stato affatto un episodio isolato. Quell’entusiasmo, osservava Miglio, scaturiva dalla solida convinzione che «l’esplorazione sempre più approfondita dei processi fisiologici in cui si radica la ‘conoscenza’, finirà per rendere più facile la individuazione delle regolarità alle quali obbedisce il comportamento ‘politico’ dell’animale-uomo»2. D’altronde, l’idea di adottare le acquisizioni dell’etologia umana e della sociobiologia si inquadrava pienamente all’interno del programma della scienza della politica migliana, e all’interno di un percorso fedele rispetto alle istanze originarie del realismo politico, o quantomeno alle ambizioni di quello specifico realismo di cui Miglio si dichiarava alfiere. Quelle discipline andavano infatti a costituire un nuovo un tassello che si aggiungeva al mosaico delle «verità parziali» scoperte dai classici del realismo, quelle verità di cui Miglio al principio degli anni Settanta – nella celebre prefazione all’antologia

1 Cfr. l’intervento di MIGLIO in L. ORNAGHI - A. VITALE (a cura di), Multiformità e

unità della politica. Atti del Convegno tenuto in occasione del 70° compleanno di Gianfranco Miglio. 24-26 ottobre 1988, Giuffré, Milano 1992, p. 401.

2 Ibidem.

4

degli scritti schmittiani sulle Categorie del ‘politico’ – aveva prefigurato l’unificazione in una teoria organica. Proprio alla conclusione di quella Presentazione, Miglio notava infatti che forse era

ormai possibile tentare – con una ipotesi più generale circa la struttura e la dinamica della ‘sintesi politica’ – l’unificazione, in un solo e comprensivo sistema, delle ‘verità parziali’ di Tucidide (la ‘regolarità’ della ricerca del dominio ‘esterno’), di Machiavelli (la ‘regolarità’ degli egoismi concorrenti) di Bodin (la ‘regolare’ presenza in ogni sistema politico del capo decisivo), di Hobbes (il ‘regolare’ carattere fittizio di ogni comunità, e la radice ultima della rappresentanza politica), di Mosca e Pareto (la ‘regolarità’ della ‘classe politica’), di Tönnies (la ‘regolarità’ della antitesi Comunità-Società), di Weber (la ‘regolarità’ delle forme ideologiche di legittimazione), e infine di Schmitt (la ‘regolarità’ della contrapposizione «amicus-hostis»)3.

Il disegno complessivo del programma che Miglio tratteggiava sommariamente nella Presentazione alle Categorie del ‘politico’ – e che solo in parte affiorava dai suoi scritti principali – può essere ricostruito soprattutto grazie alle trascrizioni dei corsi universitari tenuti da Miglio dagli anni Sessanta agli anni Ottanta4. Ma quello stesso programma era comunque alla base anche della collana Arcana Imperii, diretta da Miglio per quasi tre lustri presso l’editore Giuffrè, la cui impostazione esplicitava nel modo più chiaro come la politologia dello studioso comasco puntasse a racchiudere in una sintesi organica tanto le intuizioni dei ‘vecchi’ realisti, quanto le scoperte scientifiche dei ‘nuovi’ studiosi dell’«animale uomo». Nella collana, secondo Miglio, dovevano essere infatti ospitati solo volumi ritenuti fondamentali «per la comprensione scientifica dei fenomeni e dei comportamenti politici, cioè per la conoscenza oggettiva delle ‘regolarità’ di questi», e anche per questo si potevano trovare affiancati «libri (antichi, moderni e recentissimi) di metodologia, di pura teoria politica, di storia, di tipologia delle istituzioni, di psicologia, di economia, di sociologia, di etologia, di biopolitica, di sociobiologia, etc.»5. Tutti questi strumenti – vecchi e nuovi –dovevano fornire alimento a una «scienza della politica» molto diversa (per non dire abissalmente distante) da quella political sciencedi cui l’esperienza nord-americana aveva ormai definito i cardini metolodogici e il paradigma teorico. A distinguere la «scienza della politica» migliana da quella coltivata da gran parte dei suoi colleghi politologi non era comunque esclusivamente il metodo, ma anche l’adozione di un differente oggetto d’indagine. L’obiettivo della

3 G. MIGLIO, Le categorie del ‘politico’ (1972), in ID., Le regolarità della politica, Giuffrè, Milano, 1988, II, pp. 591-601, specie p. 600.

4 Cfr. G. MIGLIO, Lezioni di politica. I. Storia delle dottrine politiche, a cura di D.G. BIANCHI, Il Mulino, Bologna, 2011, e Id., Lezioni di politica. II. Scienza della politica, a cura di A. VITALE, Il Mulino, Bologna, 2011.

5 Programma, in Norme per i collaboratori della collana, Giuffrè, Milano, 1982, p. 3 (il programma era comunque riprodotto al termine di ogni volume della collana).

5

ricerca di Miglio consisteva infatti nel tentativo di decifrare le ‘regolarità’ di una politica considerata – come per i classici del realismo – in senso forte: una politica intesa dunque non semplicemente come la dimensione relativa al funzionamento delle istituzioni di governo e alle dinamiche del sistema politico, bensì come un’attività strettamente connessa alla inesauribile sete di potere radicata nella natura umana e capace di investire ogni aspetto della vita umana. Perché per Miglio – come scriveva in un breve contributo degli anni Settanta – «la politica, cioè la lotta per il controllo dell’uomo da parte dell’uomo, è alle origini di tutte le cose umane»6.

Spesso si sono ravvisati nell’interesse di Miglio per la sociobiologia umana il segnale di un’involuzione teorica o il sintomo di un positivismo piuttosto ingenuo, alla costante ricerca di scorciatoie riduzioniste, in almeno parziale contraddizione con i principi metodologici seguiti nel corso delle sue ricerche storiche. E, d’altronde, non è difficile scorgere più di qualche tensione fra l’ambizione ‘faustiana’ a fondare sull’etologia o sulla biologia la conoscenza scientifica dei fenomeni politici e una lunga carriera di studio rivolta invece a ricostruire con il metodo storico non tanto i «fatti», quanto piuttosto le dottrine, le «finzioni», le «maschere» ideologiche dietro cui si occultano i detentori del potere. Se in qualche misura le convinzioni ‘positiviste’ (o ‘tardopositiviste’) sembrano talvolta in contrasto con il metodo di indagine storico-concettuale quasi sempre adottato da Miglio nelle sue indagini, esse si ponevano però davvero in sostanziale continuità con molte delle classiche aspirazioni coltivate da molti grandi esponenti della tradizione teorica del realismo politico, se non altro perché, fin dai tempi di Tucidide, l’appello alla comprensione della «realtà» della politica risulta fondato su una specifica visione – ‘realista’ – della «natura umana», intesa come immutabile. In altre parole, la sociobiologia e l’etologia potevano essere inglobate nel mosaico migliano di una conoscenza scientifica della politica, proprio perché esse parevano rappresentare strumenti grazie ai quali decifrare quelle leggi immutabili della «natura umana» che i realisti del passato avevano sempre collocato al cuore della loro riflessione.

L’interesse con cui Miglio guardò a un certo punto all’etologia e alla sociobiologia non conobbe mai sviluppi effettivamente significativi, e rimase per molti versi solo allo stato di progetto, se non forse addirittura di semplice suggestione. Ma la stretta relazione tra realismo e positivismo che caratterizza la riflessione dello studioso comasco ha quantomeno il merito di mettere in luce una tensione costitutiva che lacera dall’interno l’ambizione realista di uno studio ‘scientifico’ della politica, proprio dal momento che l’appello alla realtà dei fatti risulta intrecciata con una specifica visione dei caratteri ‘immutabili’ della natura umana. La posizione di Miglio – con le sue intuizioni e le sue contraddizioni interne – ha infatti il merito di far

6 G. MIGLIO, Pluralismo (1976), in ID., Le regolarità della politica, II, pp. 647-650, specie p. 650.

6

emergere in termini quasi paradigmatici la tensione che lacera dall’interno la prospettiva del realismo politico: la tensione fra le ambizioni positiviste e un atteggiamento in qualche misura ‘relativista’, proprio di ogni approccio storicista. Ed è proprio sulla inevitabile tensione che si viene sempre a innescare fra questi due poli – oltre che sulle sue conseguenze per lo studio del ‘politico’ – che intendo attirare l’attenzione nelle prossime pagine.

Proprio la tensione che, in qualche misura, viene a contrapporre l’una all’altra natura e cultura, oltre che biologia e storia, definisce infatti gli estremi fra i quali si trova a oscillare ogni progetto teorico che cerchi di incardinare lo studio della politica su una conoscenza scientifica della natura umana, ma soprattutto lo stesso progetto del realismo politico. Ovviamente, nessuna reale posizione teorica finisce effettivamente col ridursi solo all’uno o all’altro dei due poli, e dunque con l’imputare la politica esclusivamente o alla natura o alla cultura. Proprio quelle discipline cui Miglio guardava affascinato –l’etologia applicata alle società umane, la sociobiologia, la «biopolitica» – tendono però ad avvicinarsi all’ideal-tipo di una prospettiva che riconduce la politica alla natura, perché di fatto tendono a considerare anche i comportamenti politici umani come comportamenti ‘istintuali’ della «scimmia nuda», ossia come comportamenti prodotti dall’evoluzione, in fondo non troppo differenti da quelli delle altre specie animali. All’opposto, una posizione come quella che emerge da alcune delle ricerche genealogiche di Michel Foucault fornisce una esemplificazione di una prospettiva che – negando qualsiasi autonomia ontologica alla «natura», o quantomeno disinteressandosi di questo aspetto – tende a concentrarsi esclusivamente sui «discorsi» che costituiscono i soggetti (e dunque le relazioni di potere). Naturalmente, al di là dello schematismo della distinzione – che è utilizzata solo per esemplificare la logica della contrapposizione fra approcci focalizzati sulla natura e approcci focalizzati sulla cultura – ognuna di queste diverse prospettive di indagine può fornire elementi preziosi, e non è certo interesse di questo paper discuterne la validità o i limiti. Il punto cruciale su cui questo contributo intende soffermarsi non consiste infatti nell’evidenziare i rischi cui si espongono quei progetti che puntano a spiegare la politica ricorrendo esclusivamente alla natura(speculari d’altronde a quelli cui prestano il fianco le operazioni che si concentrano unicamente sulla cultura). L’intento di queste pagine è piuttosto quello di mettere in luce l’aporia che tende ad annidarsi – in modo pressoché inevitabile – al cuore del progetto teorico del realismo politico, come in ogni tentativo di studiare i fenomeni politici anche grazie agli strumenti offerti dalle «scienze della natura».

7

2. Il realismo politico tra natura e cultura

Sebbene il realismo politico costituisca una tradizione teorica tutt’altro che omogenea e lineare, tutti i grandi classici di questo filone di pensiero – da Tucidide ad Agostino, da Machiavelli a Hobbes –procedono da un duplice presupposto antropologico: in primo luogo, adottano una specifica concezione della natura umana, caratterizzata in termini negativi da un marcato pessimismo antropologico; in secondo luogo, ritengono che la natura umana sia un elemento invariante, che dunque rimanga sostanzialmente immutata nel tempo e che, infine, non sia modificabile in misura rilevante dalle leggi umane, dalle istituzioni, dall’educazione. Secondo la sintesi proposta da Pier Paolo Portinaro, il ragionamento realista è contrassegnato infatti da una concezione antropomorfica della politica, che per cui i moventi delle unità politiche vengono a coincidere con i moventi dei singoli individui, ma, soprattutto, da una specifica visione della natura umana, tanto che «concezione realistica della politica della politica e antropologia pessimistica […] non possono venire disgiunte»7. Più in particolare, come precisa Portinaro, l’antropologia dei realisti si dispiega su tre differenti livelli: essa comprende in primo luogo, «assunzioni che riguardano gli uomini in generale, in quanto esclusi dal – e sottomessi al – potere, ma esposti al desiderio costante di acquisirlo»; in secondo luogo, «assunzioni che riguardano i detentori del potere in quanto individui dotati di qualità, competenze e risorse particolari»; infine, «assunzioni che, desunte dall’analisi dell’agire individuale, vengono adattate al comportamenti di soggetti collettivi, gli Stati»8. Se simili coordinate possono già essere ravvisate nel paradigma tucidideo, il discorso realista continua anche nella modernità a operare all’interno di questo perimetro concettuale, tanto che l’indagine realista – secondo la proposta definitoria di Alessandro Campi – viene a distinguersi per almeno tre elementi cruciali:

i) la definizione di un’antropologia, ovvero di un ‘discorso sull’uomo’, intesa come necessaria premessa per ogni riflessione sulle forme politiche con cui l’uomo organizza la propria esistenza sociale […]; ii) l’individuazione di ciò che potremmo definire la politicità, vale a dire dei fattori che rendono la politica un’attività peculiare ed unica in rapporto alle altre sfere di attività umana; iii) infine, l’assunzione della storia alla stregua dell’unico vero laboratorio sperimentale a disposizione di chi voglia indagare scientificamente la politica9.

Sebbene ognuno di questi aspetti sia effettivamente qualificante del discorso realista, è però evidente come il pilastro capace di tenere insieme l’intero edificio – e la stessa ambizione di scoprire ‘tendenze’

7 P.P. PORTINARO, Il realismo politico, Laterza, Roma – Bari, 1999, p. 72. 8 Ibi, p. 73.9 A. CAMPI, Schmitt, Freund, Miglio. Figure e temi del realismo politico europeo,

Akropolis – La Roccia di Erec, 1996, p. 11.

8

costanti e ‘regolarità’ – sia costituito proprio dall’«assunzione della natura umana come paradigma invariante, alla luce del quale analizzare – quantomeno nella loro configurazione più elementare ovvero primaria – gli atti ed i comportamenti politici»10. E, a ben vedere, è proprio la centralità della visione della natura umana come invariante a mettere in questione la rigida separazione tra il realismo e le ambizioni coltivate dal razionalismo e persino dal positivismo11.

A partire dall’attacco che Hans J. Morgenthau sferrò nel suo classico Scientific Man vs. Power Politics12, il realismo classico –quello che fonda la propria prospettiva su una specifica visione della ‘natura umana’ – ha in larga parte divorziato dagli approcci ‘positivisti’ (e neo-positivisti) alla politica13. A rendere inoltre ancora più traumatico questo divorzio è stata, nel campo delle Relazioni Internazionali, la netta divaricazione che è venuta rapidamente a separare il realismo ‘classico’ di autori come Edward H. Carr, Ronald Niebuhr e lo stesso Morgenthau – giudicati sovente solo come precursori della disciplina – dal «neo-realismo» strutturalista di Kenneth Waltz, assunto come paradigma della fase ‘scientifica’ degli studi internazionalisti. E non è certo sorprendente che la transizione dal ‘vecchio’ al ‘nuovo’ realismo abbia comportato – insieme all’adozione dei principi della «rivoluzione comportamentista» - la sostanziale rimozione di ogni riferimento alla natura umana come dimensione rilevante per comprendere le logiche della politica internazionale14. La definizione del nuovo paradigma ‘neo-realista’ non ha d’altronde implicato solo l’espulsione dal campo di analisi di quelle prospettive che – adottando la terminologia proposta da Waltz

10 A. CAMPI, Modelli di storia costituzionale in Giuseppe Maranini, Antonio

Pellicani, Roma, 1995, p. 12. Articolando ulteriormente la propria proposta definitoria, Campi ha infatti individuato l’«assunzione della natura umana come paradigma invariante» tra gli elementi distintivi del paradigma realista, accanto alla «rigida separazione tra giudizio morale ed analisi scientifica», alla concezione della politica «come sfera autonoma, originaria ed insopprimibile dell’agire umano», all’analisi dei fenomeni politici «condotta attraverso categorie specificamente politiche, non dedotte da altre attività», alla «ricerca delle leggi di costanza (o regolarità) che strutturano l’agire politico in quanto tale», alla «preminenza dell’approccio diacronico su quello sincronico» (ibidem).

11 Sul ruolo che il pessimismo antropologico ha per il realismo politico (e sulle implicazioni problematiche che da questa fondazione antropologica discendono), rinvio alle considerazioni svolte in D. PALANO, Il realismo politico e la natura umana. Il «problema terminale» nello studio delle ‘regolarità’ della politica, in A. CAMPI – S. DE LUCA (a cura di), Il realismo politico, Rubbettino, Soveria Mannelli, in corso di stampa.

12 H.J. MORGENTHAU, L’uomo scientifico versus la politica di potenza (2005), Ideazione, Roma, 2005, p. 9 (ed. or Scientific Man Vs. Power Politics, The Chicago University Press, Chicago, 1946).

13 Una interessante lettura ‘filosofica’ di questo passaggio teorico è offerta dal volume di E. ACUTI, I limiti del neorealismo. L’evoluzione teorica di Kenneth Waltz, Alboversorio, Milano, 2013.

14 Cfr. in particolare la ricostruzione proposta da Valter CORALLUZZO, La tradizione realista. Anarchia e simmetria nel sistema politico internazionale, in E. DIODATO (a cura di), Relazioni internazionali. Dalle tradizioni alle sfide, CAROCCI,ROMA, 2013, PP. 65-112.

9

in Man, the State and War – avevano ricercato la spiegazione della guerra nella «prima immagine», ossia in una specifica antropologia (spesso fortemente pessimista)15. Più in generale, la svolta ‘positivista’ ha infatti comportato anche una cesura piuttosto netta con quella ‘vecchia’ tradizione europea di studi politici, rappresentata per esempio da autori come Raymond Aron e Martin Wight: una tradizione che aveva cercato di osservare la politica con uno sguardo multidisciplinare e attento alle variabili culturali e alla dimensione etica, invece consapevolmente ignorate dal «neo-realismo» strutturalista, e che soprattutto aveva continuato a intrattenere un rapporto stretto – sebbene spesso cauto – con le assunzioni dell’antropologia realista16. Se per effetto di queste divaricazioni, è diventato quasi scontato riconoscere una netta cesura fra il «vecchio» realismo, fondato su premesse antropologiche, e la «nuova» scienza dei fenomeni politici, connotata dall’adozione dei principi epistemologici del neo-positivismo e dall’enfasi posta sul controllo empirico delle ipotesi, i rapporti fra la tradizione del realismo politico e le ambizioni del positivismo sono probabilmente molto più articolati.

Senza dubbio la crisi e la critica del positivismo (e delle semplificazioni cui spesso cedono molti dei suoi alfieri fin de siècle) indebolirono non poco – insieme al progetto di una scienza della politica – anche la convinzione che le scienze sociali potessero e dovessero ambire a conquistare una conoscenza di «leggi» paragonabili a quelle ricercate dalle scienze naturali. Il Methodenstreit condotto a cavallo fra Otto e Novecento e in particolare la specifica soluzione weberiana a quella discussione impressero così una svolta piuttosto netta anche al modo di intendere il realismo politico, ossia uno studio «realistico» dei fenomeni politici, e nel corso del Novecento molti alfieri di questo eterogeneo filone di studi hanno ostinatamente rifiutato di adottare i criteri epistemologici del positivismo (e del neo-positivismo), sulla base della convinzione che gli studi politici appartengano alla famiglia delle «scienze dello spirito» e che ogni ipotesi di avvicinamento al metodo delle «scienze della natura» sia del tutto fuorviante. Ed era in fondo proprio riproponendo le argomentazioni ‘storiciste’ emerse nel Methodenstreitche Morgenthau – nel corso del tentativo forse più organico di costruire una teoria generale del «realismo politico» - pronunciava la propria totale e incondizionata condanna di ogni approccio contaminato dalle pretese filosofiche del razionalismo moderno e dalle ingenue ambizioni del positivismo ottocentesco. Ma il divorzio tra il

15 Cfr. K.N. WALTZ, L’uomo, lo Stato, la guerra. Un’analisi teorica (1959),

Giuffrè, Milano, 1998.16 Sul rapporto che tali due studiosi intrattengono con la prospettiva del realismo,

sono molto utili, rispettivamente, G. DE LIGIO, La tristezza del pensatore politico. Raymond Aron e il primato del politico, Bononia University Press, Bologna, 2007, e M. CHIARUZZI, Politica di potenza nell’età del Leviatano. La teoria internazionale di Martin Wight, Il Mulino, Bologna, 2008.

10

realismo politico e il positivismo (vecchio e nuovo) non è infatti così inevitabile come la posizione di ferma critica allo scientismo adottata da Morgenthau poteva far ritenere.

Se alla base della tradizione teorica del realismo politico sta proprio l’ambizione di pervenire a una conoscenza della politica fondata su una conoscenza – quanto più ‘realistica’ e dunque ‘scientifica’ – della natura umana, è infatti sin troppo facile riconoscere come questa ambizione non sia affatto incompatibile con le assunzioni e gli obiettivi del razionalismo e, più specificamente, del positivismo. Come riconosceva lo stesso Morgenthau, anche Machiavelli e soprattutto Hobbes erano in effetti tutt’altro che ostili al razionalismo, e l’operazione compiuta dall’autore del Leviatano può anzi essere per molti versi essere considerata come un autentico paradigma del razionalismo moderno. A ben vedere, d’altronde, a dispetto della lucidità della critica svolta da Morgenthau allo scientismo politologico, la posizione dello studioso tedesco nel corso della sua discussione tendeva a ritenere che vi fosse una sostanziale (e pressoché inevitabile) convergenza fra il progetto scientista e l’adozione del presupposto di un’antropologia ottimista. L’insistenza di Morgenthau su questo punto era in gran parte determinata dal bersaglio polemico verso cui Scientific Man Vs. Power Poltics intendeva rivolgersi, e cioè il liberalismo internazionalista cresciuto alla fine dell’Ottocento e nei primi decenni del nuovo secolo, rappresentato in termini emblematici dal pacifismo di Normann Angell o dagli utopici del presidente americano Woodrow Wilson. In questo senso, era piuttosto agevole per Morgenthau trovare una robusta connessione tra la fiducia riposta nella capacità della scienza politica di decifrare le «leggi» del mondo sociale e l’altrettanto salda convinzione che per gli esseri umani fosse possibile modificare e rimuovere quelle condizioni che avevano provocato conflitti, guerre e stermini. Ed era proprio forzando questo punto che l’attacco alla «scienza della pace» risultava tanto efficace, dal momento che riusciva a mostrare come la pretesa di una politica ‘scientifica’, lungi dal produrre pace e prosperità, avesse contribuito a generare guerre, crisi e totalitarismi. A ben vedere, però, la coincidenza fra lo scientismo e l’ottimismo antropologico era tutt’altro che scontata. Morgenthau non faticava a trovarne degli esempi notevoli nelle utopie dell’Abbé Saint-Pierre, nell’utilitarismo di Bentham o nella teleologia di Marx, ossia in modelli di pensiero che assumevano che la realizzazione di determinate condizioni – istituzionali o economiche –potesse porre fine ai conflitti e, dunque, eliminare un elemento che aveva contrassegnato fin dalle origini la condizione umana. Ma, evidentemente, era anche possibile ricostruire una genealogia di pensatori – per molti versi proprio la genealogia del realismo politico – i quali avevano coniugato i presupposti dello scientismo con un sostanziale pessimismo antropologico, e che dunque avevano tentato di indagare grazie alla ragione il carattere immutabile della natura umana. E, d’altro canto, la stessa operazione di Morgenthau andava in

11

questa direzione, perché lo studioso di origine tedesca – pur senza sposare la filosofia scientista – non rinunciava a trovare nella ragione lo strumento per esplorare la natura umana, certo non con l’obiettivo di ‘modificarla’, ma comunque, con la convinzione che una adeguata conoscenza della natura umana – e delle radici inestirpabili dell’animus dominandi – fosse in grado di porre al riparo da esiti catastrofici come quelli sperimentati dal Vecchio continente nella prima metà del Novecento.

Il realismo politico – quantomeno il realismo politico moderno –intrattiene in verità un rapporto problematico ma comunque piuttosto stretto con lo scientismo, proprio perché si propone di decifrare grazie agli strumenti della scienza il mistero della natura umana. Naturalmente, gran parte degli alfieri del realismo moderno, nel momento in cui si diffondono sulle più spietate caratterizzazioni pessimiste della natura umana, non puntano a fondare le loro acquisizioni sulla «scienza», ma solo sull’esperienza delle cose umane, sull’osservazione del mondo circostante, sullo studio della storia, anche se – come nel caso emblematico di Hobbes – non rinunciano a elaborare modelli generali della psicologia umana capaci di spiegare perché gli esseri umani agiscano in un certo modo. Se fino al finire del Settecento il legame fra razionalismo e realismo rimane per molti versi implicito, qualcosa di differente avviene invece nel corso del XIX secolo, e in special modo quando – nella stagione positivista – si ritiene che gli strumenti delle scienze naturali possano essere adottati anche dalle scienze dell’uomo e della società. Ma, anche in questo caso, se certo la temperie positivista fornisce un nuovo alimento alle diverse utopie che Morgenthau criticava, essa induce anche a seguire una direzione differente, e cioè a dare un fondamento finalmente ‘scientifico’ a quella caratterizzazione negativa dell’essere umano che i classici del realismo avevano desunto dall’esempio della storia o dalla loro esperienza nelle stanze del potere. L’irruzione sulla scena delle ‘nuove’ scienze della società viene infatti a dare nuova linfa all’ambizione del realismo di decifrare le «leggi», le «tendenze costanti», le «regolarità» che guidano la vita degli organismi politici, soprattutto perché le nuove discipline promettono di conseguire una conoscenza davvero ‘scientifica’ dei fenomeni politici. Proprio all’interno di queste coordinate, assume un nuovo profilo il vecchio progetto di elaborare una «scienza» della politica, capace non semplicemente di ‘descrivere’ la realtà, ma anche di ‘spiegare’ la dinamica delle relazioni di potere, oltre che persino –almeno in alcuni casi – di ‘prevedere’ il futuro. Questo progetto non è effettivamente sempre agevolmente disgiungibile dall’ambizione di dotarsi di una ‘politica scientifica’, ma rimane per molti versi quasi geneticamente intrecciato con la tradizione realista17. Ovviamente il ‘vecchio’ realismo viene però rifondato su basi nuove e, in particolare, su una nuova concezione della ‘scienza’ deputata a studiare i

17 Su questi aspetti rimando a D. PALANO, Geometrie del potere. Materiali per la storia della scienza politica italiana, Vita e Pensiero, Milano, 2005.

12

fenomeni umani, perché sul finire dell’Ottocento l’obiettivo di edificare una nuova scienza dei fenomeni politici si accompagna all’idea di dotarsi di una scienza capace di adottare un metodo simile (se non proprio uguale) a quello delle scienze naturali. E, soprattutto, di una scienza in grado di scoprire le ‘leggi’, le ‘tendenze costanti’, le ‘regolarità’ che guidano il consorzio umano, proprio in virtù della sua capacità scandagliare con gli strumenti della ‘scienza’ i più profondi e sconosciuti recessi della natura umana. Naturalmente, non mancano esempi di riflessioni che, sulla base di (presunti) presupposti scientifici si propongono effettivamente l’obiettivo di una radicale trasformazione della società e persino dell’essere umano, ma sono altrettanto consistenti i tentativi di utilizzare la ragione e gli strumenti offerti dalle nuove scienze per decifrare le «leggi» della politica, incardinate nella struttura immutabile della natura umana.

Da questo punto di vista, per esempio, non è affatto difficile intravedere più di qualche consonanza tra la cinica rappresentazione del potere offerta dalla vecchia tradizione realista e la nuova «scienza politica» di Gaetano Mosca. Era stato d’altronde lo stesso Mosca, non ancora ventiseienne, a ripercorrere nel Proemio a Teorica dei governi e governo parlamentare le tappe e gli snodi decisivi di una formazione al termine della quale, quasi inaspettatamente, era riuscito a «coordinare scientificamente» una miriade di fatti e opinioni in vero e proprio «sistema». Seguendo questa linea, Mosca sosteneva di avere improvvisamente compreso come le idee politiche di coloro con cui aveva a che fare «fossero superficiali o sbagliate», e come tutti i vari sistemi politici, che attorno a lui si insegnavano e proclamavano «fossero in gran parte fondamentalmente errati, perché s’ispiravano a certe supposizioni non meno strane che gratuite, e quasi mai rispondenti alla realtà dei fatti»18. Anche in questo caso l’appello alla «realtà dei fatti» scaturiva da una disillusione politica, e in effetti la teoria della classe politica andava a innestarsi in quel filone di severa critica alle neonate istituzioni unitarie – coltivato per esempio delle voci autorevoli di Sidney Sonnino, Marco Minghetti o Ruggiero Bonghi – che aveva preso rapidamente corpo dopo la «rivoluzione parlamentare» e la caduta della Destra storica. Se nel sentiero che conduceva alla «realtà dei fatti», Mosca finiva in fondo col ripercorrere i passi dei grandi classici del realismo, era invece almeno in parte diverso il suo atteggiamento nei confronti della natura umana. Non certo però perché rinunciasse a fondare la propria scienza su una solida antropologia, bensì perché anche Mosca non era del tutto immune dalla convinzione che la natura umana dovesse e potesse essere indagata con i nuovi strumenti offerti dalle scienze positive. Nonostante avesse conservato quella predilezione per gli studi storici maturata negli anni della sua prima giovinezza, anche Mosca non poteva infatti sfuggire interamente al fascino del positivismo trionfante. Nel vivace panorama intellettuale della Sicilia fin de siècle,

18 G. MOSCA, Teorica dei governi e governo parlamentare (1884), in ID., Scritti politici, a cura di G. SOLA, Utet, Torino, 1982, I, p. 188.

13

la promessa di un radicale rinnovamento delle conoscenze tradizionali aveva d’altronde trovato terreno fertile, e più o meno negli stessi anni in cui nell’isola iniziavano a operare Giuseppe Sergi e Napoleone Colajanni, e in cui prendeva consistenza il programma verista di Verga e De Roberto, anche il giovane Mosca doveva intendere la propria opera teorica come un primo parziale contributo a quello studio realistico della politica reso finalmente possibile dal progresso delle scienze. Il clima doveva così influire sia sulla definizione della nuova scienza proposta da Mosca, sia sull’individuazione dello stesso oggetto di studio della neonata disciplina. La fiducia riposta nelle promesse della scienza veniva infatti ad alimentare la convinzione che fosse finalmente possibile dare una base davvero ‘scientifica’ a quelle intuizioni che Hobbes aveva elaborato solo sulla scorta dell’introspezione e dell’esperienza delle cose umane. E non casualmente Mosca, mentre guardava all’economia come al modello cui la nuova disciplina avrebbe dovuto guardare, riteneva che l’oggetto principale della nuova scienza politica dovessero essere le «tendenze psicologiche costanti, che determinano l’azione delle masse umane»19. Con questa formula, Mosca intendeva probabilmente riferirsi a quelle dimensioni psicologiche che – analogamente a quanto avveniva per l’homo oeconomicus – potevano essere considerate come distintive dell’homo politicus, anche se in verità l’annuncio di uno studio delle «tendenze piscologiche costanti» era per molti versi soltanto una premessa, che nel resto degli Elementi trovava assai pochi sviluppi effettivi. L’unica «tendenza costante» che Mosca davvero utilizzava all’interno del proprio discorso era in effetti la regolare divisione tra governanti e governanti che lo studioso siciliano aveva avuto modo di evidenziare fin da Teorica dei governi e governo prlamentare, la tendenza costante in virtù della quale – come scriveva in un celebre passo degli Elementi – «in tutte le società, a cominciare da quelle più mediocremente sviluppate e che sono appena arrivate ai primordi della civiltà, fino alle più colte e più forti, esistono due classi di persone: quella dei governanti e l’altra dei governati»20. In questo modo, Mosca evitava di cadere nel riduzionismo – talvolta caricaturale – di molte riflessioni positiviste del suo tempo. D’altronde Mosca non nascose mai gli ostacoli con cui il tentativo di dare veste finalmente scientifica allo studio della società doveva fatalmente imbattersi, anche perché quell’impresa che era riuscita all’economia con la costruzione della sagoma stilizzata dell’homo oeconomicusrisultava molto più ardua per la scienza politica, proprio a causa della complessità delle «leggi psicologiche»21.

19 G. MOSCA, Elementi di scienza politica (1896), Laterza, Bari, I, 1953 (V ed.), p.

7.20 Ibi, I, p. 78.21 Come osservava, da questo punto di vista: «non è da dissimularsi che nelle

scienze sociali in genere le difficoltà da superare sono immensamente maggiori: giacché non solo la più grande complessità delle leggi psicologiche, o tendenze costanti comuni alle masse umane, rende più difficile il determinare l’azione, ma è indiscutibile che è più agevole l’osservazione dei fatti che si svolgono attorno a noi,

14

Ma il saldo riferimento al metodo e il rifiuto delle spiegazioni centrate su fattori razziali, climatici e biologici dovevano indurre Mosca a fondare la propria scienza politica sulla vecchia –vecchissima – idea che la natura umana sia una componente invariante e che tutti gli esseri umani – in ogni tempo e sotto ogni latitudine –rispondono in fondo alla medesima logica. «Chi ha molto viaggiato», osservava per esempio in un passaggio famoso, «ordinariamente viene nell’opinione che gli uomini, sotto le apparenti differenze di costumi e di abitudini, in fondo psicologicamente si somigliano moltissimo; chi ha molto letto la storia acquista una convinzione analoga per quel che riguarda le varie epoche della umana civiltà: scorrendo i documenti i quali ci informano come gli uomini di un altro tempo sentirono, pensarono, vissero, la conclusione alla quale si arriva è sempre identica: che essi erano molto simili a noi»22. E su queste basi –polemizzando proprio con quegli studiosi che fondavano lo studio scientifico della politica sul ruolo giocato da fattori biologici e razziali o dalle influenze del clima – riteneva che fosse inevitabile punto di partenza riconoscere il «gran fondo che si ritrova in tutti i popoli e in tutti i tempi»23.

Nonostante tutti i limiti, e nonostante le spiegazioni dei cultori delle scienze sociali fin de siècle possano oggi essere considerare ingenue, rozze o inadeguate, si può però senz’altro riconoscere come molti di quegli studiosi – tra cui naturalmente lo stesso Mosca, ma anche il suo modello Taine o Pareto – si ponessero in sostanziale continuità con le aspirazioni del realismo, e in special modo con l’ambizione che Hobbes aveva coltivato di fondare una scienza dei fenomeni politici su una conoscenza sistematica delle passioni degli uomini. Ma, a ben vedere, neppure la «rivoluzione comportamentista» da cui riprese forma la scienza politica americana a partire dagli anni Quaranta e Cinquanta si trovava in sostanziale contrasto con le premesse e gli obiettivi della classica tradizione realista. L’obiettivo originario della rivoluzione comportamentista – e cioè la tendenziale unificazione nelle «scienze del comportamento» di tutte le discipline che avessero come oggetto di studio l’uomo e la società (e dunque anche della psicologia sperimentale) – poteva essere infatti considerato come una sorta di ‘aggiornamento’ della proposta hobbesiana24. E, infine, persino discipline più recenti e spesso anziché quella dei fatti, che sono opera nostra. L’uomo può studiare molto più agevolmente i fenomeni della fisica, della chimica, della botanica, anziché i propri istinti e le proprie passioni» (MOSCA, Elementi di scienza politica, cit., p. 63).

22 Ibi, I, p. 61.23 Ibi, I, p. 43. Su questi aspetti della concezione psicologica di Mosca, ha attirato

l’attenzione D. FISICHELLA, Alle origini della scienza politica italiana: Gaetano Mosca epistemologo, «Rivista Italiana di Scienza Politica», XXI (1991), n. 3, pp. 447-470; Fisichella riconduce peraltro la posizione dell’autore siciliano alla posizione che definisce come «paradigma della natura umana invariante»: cfr. sul punto D.FISICHELLA, Epistemologia e scienza politica, in ID. (a cura di), Metodo scientifico e ricerca politica, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1985.

24 Si veda in questo senso la sintesi del «comportamentismo» politologico formulata da D. EASTON, Traditional and Behavioral Research in American Political

15

guardate con diffidenza, come la «sociobiologia» prefigurata da Edward O. Wilson e l’etologia umana sviluppata a partire da alcune ipotesi di Konrad Lorenz possono apparire come imparentate con il realismo politico classico, perché anch’esse in qualche modo sviluppano la convinzione di base che la politica sia comprensibile non ricostruendo le ideologie, le prescrizioni morali, le dottrine giuridiche, bensì riconoscendo quelle inflessibili ‘regolarità’ che discendono dai caratteri immutabili della natura umana.

Non fu dunque solo per effetto di una tardiva infatuazione intellettuale che Gianfranco Miglio, in una fase importante del proprio itinerario scientifico, tra gli anni Settanta e Ottanta, iniziò a volgersi con interesse crescente verso le scoperte della sociobiologia e verso le sollecitazioni che provenivano dall’etologia umana25. Forse con il suo avvicinamento verso le scienze naturali, Miglio ‘tradiva’ l’impostazione storicista di Croce, nei confronti della quale si era dichiarato debitore nel corso degli anni Cinquanta, e abbandonava forse la lezione metodologica di Weber, della quale si era invece sempre reputato attento lettore (se non addirittura continuatore). Ma certo l’interesse per le scienze che studiavano l’«animale uomo» non era in contraddizione necessaria con le ambizioni del realismo politico, o quantomeno con il realismo di cui Miglio si era fatto interprete. Da un certo punto di vista, non era anzi affatto sorprendente che Miglio presentasse lo scenario di una convergenza fra scienza politica e sociobiologia come uno sviluppo delle intuizioni della vecchia scuola europea di studi politici, e dunque delle riflessioni di Mosca, Pareto, Tönnies, Weber e Schmitt26. Al fondo dell’interesse del politologo comasco per l’etologia e la sociobiologia si trovava infatti la speranza che queste discipline potessero confermare le «regolarità» intraviste studiando le vicende storiche occidentali e ricostruite sulle pagine dei classici del realismo, o quantomeno di quelli adottati nel mosaico teorico del progetto di «politica pura». E, d’altronde, Miglio poteva ritrovare proprio nelle promesse di quelle nuove discipline una risposta alla grande

Science, in «Administrative Political Science», 1957, n. 2, pp. 110-115, e ID., The Current Meaning of “Behavioralism” in Political Science, The American Political and Social Science, Philadelphia.

25 Cfr. per esempio G. MIGLIO, L’insegnamento delle scienze (1977), in ID., Le regolarità della politica, Giuffrè, Milano, 1988, II, pp. 651-661, e ID., Una cascata di scienza (1988), intervista a cura di Luigi Geninazzi, in ID., Il nerbo e le briglie del potere. Scritti brevi di critica politica (1945-1988), Edizione del Sole 24 Ore, Milano, 1988, pp. 111-112.

26 «La frontiera della ricerca», scriveva per esempio in occasione della scomparsa di Schmitt, «è costituita dalla compatibilità fra le ipotesi di stampo europeo e schmittiano (tratte dall’esperienza storica) e le nuove prospettive, in materia di comportamento umano, dischiuse dalla psicologia e della discipline recentemente staccatesi dai tronchi della biologia e della zoologia, e coltivate, almeno prevalentemente, da studiosi anglosassoni: l’etologia, la biopolitica e la sociobiologia». Cfr. G. MIGLIO, Un diritto un po’ storto, «L’Espresso», 11 novembre 1979, 45, ora, con il titolo I novant’anni di Carl Schmitt, in ID., Il nerbo e le briglie del potere, pp. 95-100, specie p. 100.

16

ambizione realista di decifrare il «gran fondo» degli esseri umani, ossia di basare la conoscenza delle «regolarità» della politica su una più organica e completa conoscenza della natura umana.

3. Natura e cultura

A dispetto dell’interesse spesso dichiarato da Miglio verso l’etologia e la sociobiologia, gli unici contributi delle scienze naturali accolti nella collana Arcana Imperii rimasero in realtà solo due volumi di Robert Ardrey, un divulgatore tutt’altro che ortodosso dell’etologia di Lorenz27. Ma, al di là dei suoi effettivi sviluppi, la stretta connessione tra realismo e positivismo che avvicina la visione dello studioso comasco a quella degli scienziati fin de siècle, lungi dal costituire un’anomalia o un’eccezione, ha il merito di mettere in luce una tensione costitutiva che lacera dall’interno la prospettiva realista. La posizione di Miglio – con le sue intuizioni e le sue contraddizioni interne – mette infatti in luce in termini quasi paradigmatici la tensione fra le due polarità di natura e cultura, di biologia e storia, all’interno delle quali si trova a oscillare ogni progetto teorico che si richiami al realismo politico e, in particolare, a uno studio delle «regolarità della politica» fondato su una conoscenza della natura umana, considerata come invariante. E nonostante una simile polarità sia stata spesso solo intravista, essa risulta suscettibile di recidere le stesse radici su cui poggia il progetto realista.

In termini schematici, il realismo si muove infatti all’interno di una contrapposizione tra due modi di concepire e spiegare la politica, che si richiamano al ruolo preponderante giocato rispettivamente dalla natura e dalla cultura. La prima visione ritiene che la natura umana sia una costante, e perciò punta a trovare una spiegazione delle ‘regolarità’ dei fenomeni politici in un tessuto non storico o culturale ma ‘naturale’, e dunque in una dimensione tendenzialmente immutabile. In altre parole, questa prima visione riconduce il ‘politico’ al cuore più profondo della natura umana, e dunque scorge nella politica – più o meno implicitamente – quelle logiche che sono ‘connaturate’ alla struttura biologica e psicologica dell’essere umano, oltre che indipendenti dal contesto storico, geografico e culturale. E all’interno di questa visione, la cultura non può che apparire come un insieme di travestimenti ideologici, più o meno efficaci, con cui viene occultata la realtà del dominio dell’uomo sull’uomo. All’estremo opposto, la seconda visione – ‘relativizzando’ (se non proprio dimenticando) l’idea che la natura umana sia una invariante – tende invece a riconoscere un’autonomia alla cultura, e cioè ammette che le forme culturali incidano sulla realtà dei comportamenti politici e sul modo stesso di concepire la politica. In sostanza, per questa seconda

27 Cfr. R. ARDREY, L’imperativo territoriale (1966), Giuffrè, Milano, 1984, e ID.,L’ipotesi del cacciatore. Una conclusione personale sulla natura evolutiva dell’uomo (1976), Giuffrè, Milano, 1986.

17

prospettiva, la politica – ossia ciò che nel mondo occidentale, e in seguito nel mondo moderno, viene definito come «politica» - è solo (o prevalentemente) una costruzione sociale, storica e culturale: una costruzione che non si limita a ‘travestire’ la realtà, ma che in un certo qual modo la ‘istituisce’ in senso proprio, dando forma e struttura interna alla condizione umana e ai rapporti fra gli individui. E questa contraddizione percorre interamente la vicenda del realismo. Se per un verso, il realismo politico tende infatti a ricondurre le ‘regolarità’ della politica alle caratteristiche immutabili della natura umana, per l’altro, nessun realista risolve davvero la politica ‘solo’ nelle determinanti della natura umana: tende piuttosto a concedere un peso rilevante alla cultura, ossia a tutti gli artifici (istituzionali e dottrinali) costruiti dagli esseri umani nel corso del processo storico, e dunque a considerare la politica anche come una «bottega di maschere», come un laboratorio in cui vengono costruiti i simboli, le finzioni e i rituali diretti alla legittimazione del potere28. Ovviamente ognuno di questi due modi di considerare la politica ha molti meriti, oltre che un indiscutibile fascino, ma è anche piuttosto evidente che in entrambe le prospettive si annidano rischi speculari, particolarmente insidiosi per il realismo politico.

Quasi paradigmatica delle posizioni che riconducono le trasformazioni politiche non alla natura bensì alla cultura può essere per esempio considerata la posizione implicita nelle ricerche di Michel Foucault, nella misura in cui lo studioso francese tende a configurare l’«uomo» come «un’invenzione recente»29, come una costruzione sostanzialmente (se non del tutto) culturale, ossia come il prodotto di una serie di conoscenze e dottrine che si riflettono tanto sulle tecniche di governo della società, quanto sulle stesse tecniche con cui ogni individuo tende a governare se stesso. Ciò non significa evidentemente che Foucault escluda necessariamente l’esistenza di determinanti biologiche, bensì che la sua attenzione si rivolge altrove, ossia verso le modalità in cui vengono ‘costruite’ la natura umana, la vita, il sesso, la follia. In termini quasi paradigmatici, Foucault esplicitò la propria posizione in proposito nel corso di un dibattito con Noam Chomsky svoltosi nel 1971:

Al contrario di quello che sembra voler dire lei, io non posso evitare di ritenere che questa nozione di natura umana, questa nozione di giustizia, di bontà, di essenza dell’uomo, di realizzazione dell’essenza più propria dell’uomo… non posso fare a meno di considerare tutto ciò nient’altro che nozioni e concetti che si sono formati all’interno della nostra civiltà, nell’ambito del nostro sapere, nella nostra peculiare forma di pensiero filosofico, e che di conseguenza fanno parte tutti del nostro sistema diviso in classi, e che

28 Su questa metafora, cfr. L. ORNAGHI, La «bottega di maschere» e le origini

della politica moderna, in C. MOZZARELLI (a cura di), «Familia» del Principe e famiglia aristocratica, Bulzoni, Roma 1988, I, pp. 9-23.

29 M. FOUCAULT, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane (1966), Rizzoli, Milano, 2006, p. 413.

18

– per quanto triste possa sembrare – non si possono utilizzare questi concetti per descrivere o giustificare una lotta che è volta, almeno in teoria, a rovesciare i fondamenti stessi di questa società30.

Naturalmente, se – insieme a Foucault – ci si sposta verso il polo della cultura, e cioè se si ritiene che sia proprio la cultura a plasmare interamente il comportamento degli individui, si finisce in sostanza con lo smarrire del tutto la scommessa del realismo, perché si giunge a escludere non solo che la natura umana sia una componente invariante, ma anche che esistano delle ‘regolarità’ costanti dei fenomeni politici. In altri termini, infatti, seguendo questa strada si giunge implicitamente ad affermare che la «realtà» e la «natura» non esistono come dimensioni distinte dai discorsi che le istituiscono. Ed evidentemente si tratta di ipotesi che i realisti più coerenti e ‘puri’ – da Tucidide fino a Mearsheimer – scartano sempre, proprio nella misura in cui ritengono che la natura umana non solo sia costante, ma sia anche contrassegnata da alcune pulsioni ‘naturali’ che conducono tendenzialmente al conflitto o comunque all’insicurezza. Seguire fino in fondo la logica storicista, giungendo sino a considerare la «natura umana» come un prodotto interamente culturale, implicherebbe infatti l’inevitabile crollo dell’edificio realista, perché quest’ultimo rimarrebbe privo di quel pilastro fondativo – l’idea di una natura umana invariante – che rende possibile lo stesso studio ‘realistico’ (e non utopistico) della politica, oltre che la ricerca delle grandi «regolarità» e delle «tendenze costanti», se non proprio di vere «leggi oggettive».

Se nessun realista sembra comprensibilmente disposto a rinunciare a un radicale pessimismo antropologico, è però anche piuttosto evidente che l’apertura di uno spazio – anche solo potenziale – alla dimensione culturale rischia di inficiare la stabilità e la coerenza dell’intero edificio realista. Se per esempio si ammette, insieme a Hobbes, che l’edificazione dello Stato ha la possibilità di controllare le pulsioni ‘naturali’ degli esseri umani e di indirizzarle verso obiettivi che non mettono a rischio la pace, si apre infatti uno spazio di azione alla cultura, che – teoricamente – potrebbe andare persino ad annichilire (o comunque a rendere inoperante) la natura umana. Certo l’autore del Leviatano non giunge a questo estremo, ma ciò non significa che non emerga in tal modo un elemento problematico, una tensione interna, che affiora per esempio negli scritti ‘sociologici’ di Sigmund Freud. In effetti, nelle riflessioni più tarde del fondatore della psicanalisi, la Kultur si configura davvero, come il Leviatano di Hobbes, nei termini di un artificio con cui gli esseri umani –rinunciando alla loro libertà in cambio della sicurezza – riescono a

30 Cfr. N. CHOMSKY – M. FOUCAULT, La natura umana. Giustizia contro potere

(2011), Castelvecchi, Roma, 2012, pp. 104-105. Nell’ultima fase della sua ricerca, Foucault rivide probabilmente, almeno in parte, la propria posizione, interrogandosi sulle relazioni fra dinamiche di potere e invarianti biologiche. Sul punto, cfr. S. CATUCCI, Introduzione a Foucault, Laterza, Roma – Bari, 2005.

19

conquistare un certo grado di ordine e di pace sociale. Il fondatore della psicanalisi può infatti essere considerato un fedele continuatore del realismo hobbesiano, sia perché a partire da Totem e Tabùindividua nella gerarchia e nella subordinazione psicologica della massa al capo le condizioni per l’ordine politico e sociale, ma anche perché ritrova nel progressivo controllo degli istinti degli esseri umani la spiegazione del processo di civilizzazione. Nella fase più tarda della sua riflessione, e cioè negli scritti in cui elabora la propria «metapsicologia», la civiltà è d’altronde concepita da Freud come il risultato di una permanente repressione degli istinti, che certo comporta un certo grado di disagio (soprattutto in alcuni individui), ma che d’altro canto consente agli esseri umani di conseguire una sempre maggiore sicurezza. Entrambe le due pulsioni fondamentali individuate dal padre della psicanalisi – Eros e Thanatos –risulterebbero infatti egualmente distruttive per ciascun individuo e per ogni aggregazione sociale, e devono perciò essere controllate e sottomesse da una serie di elementi culturali. Freud descrive questo passaggio come una graduale transizione dal «principio del piacere» al «principio della realtà», in seguito alla quale l’individuo rinuncia a un piacere momentaneo a favore di un piacere differito nel futuro, un piacere oggetto di costrizioni ma comunque «sicuro», ossia tale da non mettere a rischio la sopravvivenza del singolo e l’ordine sociale. In questo modo, la Kultur si configura davvero, come il Leviatano di Hobbes, nei termini di un artificio con cui gli esseri umani –rinunciando alla loro libertà in cambio della sicurezza – riescono a conquistare un certo grado di ordine e di pace sociale, ma il punto problematico consiste nel limite oltre il quale il processo di incivilimento può arrivare, ossia fin dove può spingersi il processo di assoggettamento ‘culturale’ degli istinti ‘naturali’ dell’essere umano. Naturalmente Freud tende ad escludere che questo limite possa completamente soggiogare le pulsioni originarie, e per questo – nel suo celebre carteggio con Albert Einstein – afferma per esempio che «non c’è speranza nel voler sopprimere le tendenze aggressive degli uomini»31. Ma il suo schema – che prevede in sostanza che fattori culturali possano incidere a livello di filogenesi e di ontogenesi sulla costituzione psichica – in realtà lascia aperta almeno teoricamente una via all’idea che la progressiva interiorizzazione delle pulsioni aggressive possa giungere sino alla loro sostanziale eliminazione. Ed era proprio questa la via in cui per esempio Herbert Marcuse poteva scorgere la possibilità di superare il principio di realtà, e dunque la strada per giungere a un cambiamento radicale non solo della società, ma della stessa struttura ‘biologica’ dell’essere umano32.

31 S. FREUD, La risposta di Freud (1932), in Id., Il disagio della civiltà e altri

saggi, Bollati Boringhieri, 2012, pp. 287-299, specie p. 295.32 Cfr., oltre a H. MARCUSE, Eros e civiltà (1958), Einaudi, Torino, 1967, Id.,

Aggressivität in der gegenwärtigen Industriellegesellschaft, in H. MARCUSE et al., Aggression und Anpassung in der Industriegesellschaft, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1972, pp. 7-29, e soprattutto ID., Saggio sulla liberazione (1968), Einaudi, Torino,

20

È quasi scontato che i realisti, con il loro quasi costante richiamo alla struttura ‘immutabile’ dell’essere umano, abbiano ben chiari i rischi impliciti nelle posizioni ‘culturaliste’, e che dunque si tengano ben distanti da ipotesi che giungono a conferire alla cultura la capacità di modificare – e non solo di controllare – la natura istintuale dell’uomo. Ma anche la posizione opposta, che tende a ricondurre le ‘regolarità’ della politica alla natura, è tutt’altro che priva di insidie.

4. I rischi della natura

I rischi cui si espongono i tentativi di fondare lo studio dei fenomeni politici sulle acquisizioni dell’etologia o della sociobiologia, e più in generale di ogni posizione che tende a ricercare la radice delle ‘regolarità’ della politica nella natura, non sono costituiti in realtà dalla tendenza a considerare la natura umana come una dimensione effettivamente invariante. A ben vedere, infatti, nessuna delle scienze che studiano «l’animale uomo» contesta davvero il fatto che la ‘natura’ tenda a modificarsi nel corso del tempo. Né l’etologia né la sociobiologia considerano per esempio la natura come immutabile, perché anche in questo caso la natura umana viene piuttosto considerata come il risultato di una sorta di «co-evoluzione», in cui giocano un ruolo rilevante i fattori ambientali ma anche la tecnologia creata dagli stessi esseri umani. Come osserva Irenäus Eibl-Eibsfelt, «gli etologi hanno sempre insistito sul fatto che l’uomo è per sua natura un essere culturale, e che dall’esistenza di una situazione di fatto biologica non è lecito dedurre fatalisticamente che tale situazione sia immodificabile»33. Più concretamente, si tende a riconoscere un’azione reciproca tra evoluzione genetica ed evoluzione culturale. In altre parole, i comportamenti istintuali non sono innati come i riflessi automatici, ma sono piuttosto l’esito di «regole epigenetiche», regole che possono essere considerate come innate e, dunque, come il vero nucleo della natura umana. Proprio nel tentativo di individuare il cuore della «natura umana», Edward O. Wilson ha osservato per esempio:

La natura umana sono regolarità ereditarie dello sviluppo mentale comune alla nostra specie. Esse sono le «regole epigenetiche» che si sono sviluppate grazie all’interazione fra l’evoluzione genetica e l’evoluzione culturale, interazione che ha richiesto un lungo periodo della nostra storia ancestrale. Queste regole sono le predisposizioni genetiche nel modo in cui i nostri sensi percepiscono il mondo circostante, il codice simbolico con cui rappresentiamo il mondo, le

1968, in cui osserva per esempio che «il cambiamento radicale che deve trasformare la società in essere in una società libera deve penetrare fino a una dimensione dell’esistenza umana che la teoria marxiana non ha considerato: la dimensione ‘biologica’» (p. 65).

33 I. EIBL-EIBESFELDT, Etologia, in Enciclopedia delle Scienze Sociali, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, 1992-1995.

21

opzioni che automaticamente ci riserviamo e le reazioni che ci sembrano più facili e premianti34.

I ritmi del mutamento della natura umana non possono che essere però molto diversi dai ritmi con cui si modificano i regimi politici, le ideologie o persino le mode culturali, e, proprio per questo, simili prospettive tendono a distinguere gli aspetti filogenetici dagli aspetti culturali, riconducendo alcuni comportamenti umani – come per esempio l’espressione facciale dei sentimenti, oppure il comportamento aggressivo – ad aspetti che sono programmati filogeneticamente e che, dunque, si sono fissati per via ereditaria (e non solo per influsso della tradizione)35. Il punto è però che il riconoscimento del peso della natura si traduce comunque nella convinzione per cui – a dispetto di tutte le trasformazioni culturali e sociali – esistono alcune componenti ‘istintuali’ che sono parte dell’essere umano, e dunque nell’idea secondo cui è del tutto irrealistico pensare di poter completamente estirpare queste dimensioni. Senza dubbio le generalizzazioni di Ardrey sull’«istinto di uccidere» possono essere considerate come estrapolazioni fin troppo disinvolte condotte a partire da alcune limitate acquisizioni dell’etologia. Ciò nondimeno, l’etologia tende a ritenere che il comportamento aggressivo sia in parte programmato filogeneticamente, nonostante l’apprendimento successivo e la ritualizzazione culturale abbiano per l’uomo un’enorme importanza36. Pertanto, il problema principale consiste nel «capire quale margine d’azione l’uomo possa concedere alla sua natura primaria, quella biologica», e in questo senso, per esempio, «un’organizzazione sociale totalmente repressiva, fondata su ideali fuori della realtà, sarebbe difficilmente tollerabile, perché non siamo solo esseri sociali, ma anche individui che aspirano alla libertà»37. E da questo punto di vista, i rischi potenziali sono esattamente opposti a quelli presentati dall’opzione ‘culturale’.

Un primo rischio – abbondantemente sottolineato nel corso del dibattito ormai quarantennale sull’ipotesi di una «nuova sintesi» fra scienze sociali e scienze naturali – è certo quello di cedere alla seduzione di modelli deterministici che finiscono con lo smarrire totalmente il riferimento al contesto storico e culturale dei comportamenti politici38. Un esempio particolarmente significativo

34 E.O. WILSON, La conquista sociale della Terra (2012), Cortina, Milano, 2013, p. 217.

35 Sul punto, cfr. le classiche osservazioni di K. LORENZ, L’altra faccia dello specchio. Per una storia naturale della conoscenza (1973), Aldephi, Milano, 1974, pp. 301-323, oltre che i materiali raccolti in K.E. BOULDING et al., Sociobiologia e natura umana. Una discussione interdisciplinare (1978), Einaudi, Torino, 1980.

36 Cfr. per esempio I. EIBL-EIBESFELDT, Aggressivo, comportamento, in Enciclopedia delle Scienze Sociali, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, 1992-1995.

37 I. EIBL-EIBESFELDT, Etologia, cit.38 Era questo il rischio principale su cui attirava l’attenzione C. GALLI, Guerra:

biologia e storia, in ID., Modernità e profili critici, Il Mulino, Bologna 1988, pp. 133-

22

proviene per esempio dal rischio che corrono quegli studiosi che puntano a spiegare il terrorismo puntando su specifici disturbi di personalità, e dunque utilizzando strumenti offerti dalla ricerca psichiatrica o dalle neuroscienze39. In generale, le ricerche sui fattori di personalità che possono indirizzare verso un comportamento terroristico hanno condotto a risultati poco significativi, anche perché i tentativi di dimostrare la connessione fra il comportamento terroristico e determinati tratti di personalità sono stati criticati sia per l’assenza (o la scarsità) di reali basi empiriche, sia per le modalità con cui questa tesi è stata sostenuta. Così, per quanto non si possa escludere del tutto che i responsabili di attentati terroristici non siano affetti da significativi disturbi della personalità, sembra comunque che la presenza di individui affetti da simili disturbi sia quantomeno assai poco frequente all’interno dei gruppi politici organizzati che utilizzano la violenza come strumento politico per perseguire fini più o meno realizzabili40. Più in generale, ogni ricerca di questo tipo si scontra però soprattutto con la difficoltà di circoscrivere ‘oggettivamente’ il comportamento terrorista. Definire il «terrorismo» è infatti difficile non solo perché, nel corso del tempo, cambiano notevolmente le forme in cui il fenomeno si presenta, ma soprattutto perché il concetto di «terrorismo» è un «deeply contested concept», e cioè un concetto con una forte (e ineliminabile) connotazione valutativa41. E proprio per questo – come per molti concetti politici – tutte le differenti proposte di definizione tendono a riflettere più o meno espliciti obiettivi politici di legittimazione o di delegittimazione42.

Le difficoltà in cui si imbattono i ricercatori che intendono spiegare il comportamento terrorista a partire dalla personalità dei militanti di organizzazioni armate non sono in fondo differenti da quelle con cui si

155, e ID., Etologia, sociobiologia e le categorie del politico, in A. PANEBIANCO (a cura di), L’analisi della politica, Il Mulino, Bologna, 1989, pp. 423-446, ID.,

39 Ho svolto una critica di queste posizioni in D. PALANO, Terrorism as «political world». Identity, strategy, values: notes for a cultural analysis of terrorism, in R. CARUSO – A. LOCATELLI (eds.), Understanding Terrorism: A Socio-Economic Perspective, Emerald, Bingley, 2014, pp. 135-157.

40 Per una rassegna, cfr. J. VICTOROFF, The Mind of the Terrorist: A Review and Critique of Psychological Approaches, in «Journal of Conflict Resolution», 2005, vol. 49, n. 3.

41 Cfr. W.B. GALLIE, Essentially Contested Concepts, in «Proceeding of the Aristotelian Society», 1956, n. 1, pp. 167-198

42 Cfr per esempio L. BONANATE (a cura di), Dimensioni del terrorismo politico. Aspetti interni e internazionali, politici e giuridici, Milano, Franco Angeli, 1979, ID., Terrorismo politico, in N. BOBBIO – N. MATTEUCCI – G. PASQUINO (a cura di), Dizionario di politica, Torino, Utet, 1983, pp. 1186-1189, ID., Terrorismo internazionale, Firenze, Giunti, 2001, ID., La politica internazionale fra terrorismo e guerra, Roma – Bari, Laterza, 2004, ID., Il terrorismo come prospettiva simbolica, Torino, Aragno, 2006, M. FOSSATI (a cura di), Terrorismo e terroristi, Bruno Mondadori, Milano, 2003, C. TOWNSHEND, La minaccia del terrorismo, Bologna, Il Mulino, 2004 (ed. or. Terrorism. A Very Short Introduction, Oxford, Oxford University Press, 2002), R. THACHRAH, Terrorism: A Definitional Problem, in P. WILKINSON – A.M. STEWART, Contemporary Research on Terrorism, Aberdeen, Aberdeen University Press, 1987, pp. 24-41.

23

trovano alle prese coloro che, per esempio, puntano a spiegare il comportamento di voto e la posizione ideologica di un elettore di una democrazia matura ricorrendo a fattori psicologici o anche a determinanti genetiche43. Il motivo, infatti, non consiste tanto neilimiti conoscitivi di queste scienze, quanto nel tipo di oggetto che esse si propongono di studiare. Il «terrorismo» è infatti una costruzione culturale, perché dal punto di oggettivo – per esempio, attenendoci a semplici elementi materiali – non possiamo distinguere un’organizzazione armata da una semplice organizzazione politica, o un’azione terrorista da qualsiasi altra azione simbolica o intimidatoria. Definire un’azione o un’organizzazione come «terrorista» equivale in altre parole a un atto che non solo descrive un fenomeno, ma in qualche misura gli attribuisce una consistenza, un peso politico e ovviamente anche una ben precisa connotazione morale. Ciò non riguarda comunque solo un fenomeno problematico come il «terrorismo» - per il quale in effetti la comunità internazionale non ha ancora elaborato una definizione condivisa – bensì tutti i concetti politici. Così non ha alcun senso ricercare determinanti biologiche nella preferenza per la destra e per la sinistra, o per posizioni conservatrici o progressiste, per il semplice motivo che il significato di concetti «destra» e «sinistra» - come quelli di «conservazione» e «progresso» – è soggetto a mutamenti costanti, che rendono spesso persino molto difficile rintracciarne il cuore più robusto e durevole. Rimangono così ancora valide molte delle osservazioni critiche che Carlo Galli indirizzava all’etologia e alla sociobiologia, ormai un quarto di secolo fa:

Se le discipline evoluzionistiche vogliono teorizzare una sorta di ‘rumore di fondo’ – gli impulsi naturali dell’uomo – che disturba la trasparente costruzione artificiale moderna, allora non aggiungono concettualmente (mentre empiricamente portano certo risultati utili dal punto di vista psicologico e antropologico) nulla di nuovo allo sforzo

43 Cfr. per esempio J.H. FOWLER – D. SCHREIBER, Biology, Politics and the

Emerging Science of Human Nature, in «Science», CCCXXI (2008), n. 5903, pp. 912-914, e C.M. FEDERICO – J.L. NAPIER, Political Ideology: its Structure, Functions, and Elective Affinities, in «Annual Review of Psychology», LX (2009), pp. 307-337. Riferendosi proprio a queste ricerche, Guido Corbellini polemizza con l’antinaturalismo dei politologi occidentali e scrive: «La ricerca empirica ha da tempo mostrato quali sono le differenze che si riscontrano in modo costante e consistente tra conservatori e progressisti. I conservatori resistono ai cambiamenti sociali e assegnano un particolare valore alla tradizione e ai principî religiosi. Invece, i progressisti tendono a promuovere l’eguaglianza sociale ed economica e il welfare; inoltre hanno atteggiamenti egualitari nei confronti di gruppi umani oppressi e marginali nella società. Alla base di questi atteggiamenti vi sono delle differenze psicologiche. […] Probabilmente, i geni implicati nelle preferenze poltiche di natura conservatrice sono più frequenti nelle popolazioni umae, in quanto nelle società di cacciatori-raccoglitori questi tratti riducevano non solo l’ansia ma anche i rischi che si potevano far correre al gruppo. Quindi, tra i nostri antenati, che sono sopravvissuti e ci hanno trasmesso i geni e le predisposizioni con cui affrontiamo il mondo attuale, erano decisamente più numerosi i conservatori» (G. CORBELLINI, Scienza, quindi democrazia, Einaudi, Torino, 2011, p. 152).

24

teorico/politico della modernità, che dalla urgenza delle passioni naturali ha appunto preso le mosse, per distaccarsene, in un processo mai concluso […]. Se invece, come è molto più probabile, il cuore della loro argomentazione sta nel sostenere una non interrotta anche se remota causazione naturale dei comportamenti e anche della politica, allora etologia e sociobiologia non solo scontano l’ingenuità di porre sullo stesso piano categoriale orda e Stato, ma soprattutto si trovano a dover ipotizzare sia «evidenti» regolarità transpecocali sia una «ragione nascosta» che dia di volta in volta forma a quelle regolarità, fino a poter interpretare secondo natura l’artificio, anche contro libertà e razionale volontà umana; la loro presunta semplicità e potenza diviene quindi un’aggiunta (l’onere della cui dimostrazione spetta interamente loro), un presupposto dogmatico che, per semplificarlo, distrugge o lesiona gravemente il quadro teorico del pensiero politico moderno44.

Un rischio forse ancora maggiore, su cui non si è attirata la necessaria attenzione, riguarda però la stessa capacità di cogliere ciò che caratterizza il ‘politico’. E si tratta di un rischio che tocca molto da vicino il realismo politico, molto più delle stesse semplificazioni del determinismo, perché il ricorso alla natura umana per individuare le grandi ‘regolarità’ rischia paradossalmente di smarrire ciò che sta al cuore del ‘politico’. Proprio attorno all’obiettivo di individuare le costanti dei fenomeni politici a partire dalla conoscenza dei caratteri immutabili della natura umana, si profilano infatti in modo più evidente le implicazioni paradossali della contrapposizione fra positivismo e storicismo che lacera dall’interno la prospettiva del realismo. In questo caso, è l’assunzione del dato ‘naturale’ della conflittualità a entrare in un clamoroso ‘corto circuito’ con un’altra cruciale assunzione realista, relativa al carattere pervasivo della politica. Ed è proprio questo ‘corto circuito’ ad affiorare in tutte quelle prospettive che – procedendo dal realismo – puntano a ritrovare nell’etologia gli strumenti per fondare su basi effettivamente ‘scientifiche’ la sinistra sagoma dipinta del pessimismo antropologico dei classici.

Una rappresentazione per molti versi emblematica di questo ‘corto circuito’ è probabilmente offerta proprio dalla ricerca di Gianfranco Miglio. In modo ancora più evidente rispetto a molti altri cultori del realismo, Miglio tende infatti a muoversi costantemente all’interno della polarità di natura e cultura, senza decidersi nettamente a favore dell’una o dell’altra delle due dimensioni, e dunque tentando di conservare – se non addirittura di fondere l’una nell’altra – l’istanza di un positivismo persino piuttosto radicale e una mai abbandonata consapevolezza storicista. Negli anni Cinquanta, affrontando la questione del metodo della ricerca politica, Miglio sosteneva per esempio che l’unica strada effettivamente percorribile fosse quella indicata dal vecchio storicismo, o meglio dal metodo weberiano. La scienza politica era infatti per Miglio «per eccellenza scienza dello

44 C. GALLI, Etologia, sociobiologia e le categorie del politico, cit., pp. 444-445.

25

spirito», dal momento si occupava «degli uomini e di un aspetto cospicuo del loro comportamento»45, tanto che i suoi compiti principali erano semplicemente la «‘storicizzazione’ dei problemi che ci assillano oggi, e, attraverso tale ‘storicizzazione’, il superamento di questi stessi problemi»46. Sulla scorta di questa visione, mentre escludeva che la scienza politica si potesse proporre rilevanti finalità di trasformazione sociale, riteneva che essa potesse solo formulare «previsioni molto generali»: previsioni nelle quali, osservava, «rientra naturalmente anche ciò che noi, più o meno necessariamente, faremo come protagonisti dell’azione politica», e cioè previsioni, dunque, «il cui valore scientifico […] sarà tanto maggiore e più sicuro quanto minore sarà la probabilità che qualcuno riesca, con un’azione cosciente e volontaria, a mutarne il destino»47. Infine, limitando ulteriormente la portata di queste previsioni, precisava che esse riguardavano solo fenomeni molto generali:

quelli cioè che si riferiscono al comportamento di moltitudini di individui, ed a grandezze piuttosto estese nel tempo e nello spazio: quei fenomeni nei quali la libertà di autodeterminazione della singola persona, senza essere per sé stessa costretta od annullata, è peraltro soggetta ad orientamenti collettivi e perciò a sviluppi storicamente irreversibili. Ma tutti sanno che sono proprio questi fenomeni molto generali quelli che contano nel campo nostro: i fenomeni, vale a dire, al cui ordine appartengono le strutture politiche e l’indirizzo della loro trasformazione: i fenomeni dai quali sentiamo condizionata la nostra attuale volontà e libertà di uomini48.

Una simile concezione della scienza politica, pur senza rinunciare all’ambizione di scoprire delle «regolarità», sembrava concedere ben più di un peso marginale alla dimensione ‘culturale’, riducendo notevolmente la componente della ‘natura’. E, in questo senso, la proposta migliana pareva del tutto coerente con le critiche indirizzate da Max Weber all’idea che le scienze sociali siano in grado scoprire empiricamente delle ‘leggi oggettive’: una critica secondo cui «la conoscenza di leggi sociali non è la conoscenza della realtà sociale, ma è soltanto uno dei diversi strumenti di cui il nostro pensiero si avvale a tale scopo», e secondo cui dunque «non si può concepire una conoscenza di processi culturali se non sul fondamento del significatoche per noi ha la realtà della vita, sempre configurata in forma individuale, in determinate relazioni particolari»49.

45 G. MIGLIO, Osservazioni metodologiche intorno alla ricerca storica in materia

politica, in AA.VV., I contributi italiani al IV Congresso mondiale di Scienze politiche, Vita e Pensiero, Milano 1960, pp. 139-141, poi in ID., Le regolarità della politica, I, pp. 369-373, specie p. 371.

46 Ibi, p. 373. 47 Ibi, p. 372.48 ibi, pp. 372-373.49 M. WEBER, L’«oggettività» conoscitiva della scienza sociale e della politica

sociale (1904), in Id., Il metodo delle scienze storico-sociali, Einaudi, Torino, 2003, p. 47.

26

Vent’anni dopo, nonostante nella sua attività di ricerca non fossero emersi evidenti soluzioni di continuità, la posizione di Miglio appariva invece molto più incline a ricongiungere le scienze umane al filone delle Naturwissenschaften. In questo senso, in una relazione del 1977 Miglio si spingeva addirittura a prevedere che il progresso negli studi biologici avrebbe conferito un nuovo statuto di ‘scienza della natura’ alla storia e alle altre scienze dell’uomo che hanno in questa disciplina un’«indispensabile ‘Hilfsmittel’». Secondo il ragionamento di Miglio, se «per molto tempo la politologia, la sociologia, l’economia, ecc. (insieme con il loro strumento: la storia)» erano state considerate come «delle sottospecificazioni della conoscenza filosofica», con implicazioni inevitabili sulla scelta del terreno di indagine, ora l’avvento della sociobiologia, dell’etologia e della biopolitica, annunciava «prossima la resa dei conti per i tradizionali approcci idealistici nello studio del comportamento umano»50. «Lo studio scientifico della ‘natura’», scriveva per esempio nel ’77, «comprende […] anche l’uomo: perché l’uomo non è che una parte della ‘natura’». Proprio in questo senso, la scienze sociali si trovavano a convergere verso l’obiettivo di una conoscenza unitaria, grazie al nesso offerto dalla biologia e dallo sviluppo delle sue branche specifiche: un nesso che consentiva il passaggio, davvero radicale, «dallo studio prevalentemente letterario-filosofico (metafisico) dell’uomo, allo studio scientifico-naturalistico dello stesso»51. Era allora su queste basi che Miglio si volgeva all’etologia umana, alla sociobiologia e alla biopolitica, discipline che muovevano i primi passi e che ponevano fra i loro obiettivi proprio il raggiungimento di una «nuova sintesi» tra scienze sociali e scienze biologiche. E, così, il politologo – non senza qualche accento provocatorio – si spingeva a intravedere negli studi «sui branchi di macachi giapponesi» la possibilità di «scorgere le radici ‘naturali’ delle fondamentali regolarità a cui obbedisce il comportamento politico dell’uomo»:

gli studi recenti sui branchi di macachi giapponesi permettono ormai di scorgere le radici «naturali» delle fondamentali regolarità a cui obbedisce il comportamento politico dell’uomo: il potere carismatico, la stratificazione dei ruoli di dominazione e di aiutantato, la funzione aggregante del nemico. Ma, su di un piano più alto, bisogna riconoscere che l’ipotesi formulata da Wilson nelle prime pagine di Sociobiology, per la quale tutti gli organismi viventi sarebbero soltanto lo strumento con cui l’acido desossiribonucleico (Dna) riesce a conservarsi (utilizzando soprattutto il meccanismo limbico-ipotalamico in cui si generano i nostri sentimenti), è di una bellezza abissale: perché potrebbe ricondurre tutte le «regolarità»

50 G. MIGLIO, L’insegnamento delle scienze, in AA.VV., Scuola italiana,

professionalità e insegnamento delle scienze, Quaderni della Regione Lombardia, Milano 1977, pp. 19-21, ora in ID., Le regolarità della politica, II, pp. 651-661, specie p. 657.

51 Ibi, p. 656.

27

biologiche alla fondamentale «regolarità» fisica della conservazione della materia52.

Il credito che Miglio concedeva agli studi etologici doveva ovviamente attirargli una serie cospicua di critiche, e forse doveva anche contribuire a far calare sull’intera sua riflessione un sospetto di ‘vetero-positivismo’, per alcuni versi tutt’altro che illegittimo53. Il tentativo di tenere insieme, sovrapposti l’uno all’altro, un indirizzo così nettamente positivista e un’altrettanto marcata sensibilità storicista, evidente alla base di tutte le sue ricerche principali – da quelle più antiche sulla crisi dell’universalismo politico medievale e sulle trasformazioni della monarchia greca arcaica, fino a quelle della stagione più matura, centrate sul concetto di «Stato (moderno)», sulle trasformazioni della rappresentanza o sulla «sovranità limitata» - non era forse neppure l’unica aporia che si annidava nella sua riflessione54. Ma certo si trattava di un tentativo che doveva palesare – in modo davvero paradigmatico – quella tensione che lacera, con conseguenze più o meno rilevanti, la riflessione di tutti i cultori del realismo, e che coinvolge proprio il conflitto – per molti versi insolubile – tra una prospettiva che spiega la politica a partire dalla natura, ossia dai caratteri immutabili (dagli istinti, dalle pulsioni ineliminabili) degli esseri umani, e una prospettiva che invece punta a chiarirne le dinamiche a partire dalla cultura, ossia a partire dai significati che nelle diverse stagioni storiche gli esseri umani attribuiscono alle loro azioni, alle loro istituzioni, ai loro prodotti. Più in particolare, nel discorso di Miglio si delineava in termini quasi paradigmatici il conflitto fra due idee in qualche modo fondative per il realismo, ossia, per un verso, l’idea che l’essere umano sia ‘necessariamente’ conflittuale (e che dunque il conflitto non possa essere mai eliminato dall’esperienza degli uomini perché scaturisce in modo inevitabile dalla natura immutabile degli esseri umani), e, per l’altro, l’idea che il ‘politico’ sia una dimensione pervasiva, destinata a plasmare ogni

52 G. MIGLIO, Sua figlia, la biopolitica, «L’Espresso», 9 dicembre 1979, 49, ora,

con il titolo Dall’etologia alla sociobiologia, in ID., Il nerbo e le briglie del potere, pp. 101-102, specie p. 101.

53 Cfr. per esempio L. ORNAGHI, Il disordine della politica. Un positivista alla corte della ragione, in ORNAGHI - VITALE (a cura di), Multiformità ed unità della politica, cit., pp. 256-271, oltre che P. SCHIERA, Il problema dello ‘Stato’ e della sua ‘modernità’. Gianfranco Miglio dalla storia alla scienza politica, in G. MIGLIO, Genesi e trasformazione del termine-concetto ‘Stato’, Morcelliana, Brescia, 2007, pp. 5-38.

54 Sulle aporie che si nascondono nel pensiero migliano, mi permetto di rinviare a D. PALANO, L’eternità e la morte. I confini temporali dell’obbligazione politica (Appunti sulla riflessione teorica di Gianfranco Miglio), in «Teoria politica», XVIII (2002), n. 2, pp. 121-156, ID., Geometrie del potere. Materiali per la storia della scienza politica in Italia, Vita e Pensiero, Milano, 2005, e ID., Arcana imperii. La ricerca sul ‘politico’ di Gianfranco Miglio, in «Rivista di Politica», II (2011), n. 3, pp.15-54. Convergente mi pare anche la lettura avanzata da R. CAVALLO, Con Schmitt, oltre Schmitt. Miglio e il rischio del ‘politico’, in «Rivista di Politica», II (2011), n. 3, pp. 109-126.

28

forma di convivenza umana, e – dunque – anche a plasmare il modo di concepire, di classificare, di spiegare la realtà.

Sotto il primo profilo, era piuttosto evidente come l’interesse di Miglio per le applicazioni dell’etologia al mondo umano fosse motivato proprio dal tentativo di dimostrare il carattere inevitabilmente conflittuale degli esseri umani, e dunque di contrastare con il supporto delle più aggiornate acquisizioni scientifiche quelle utopie – tra cui ovviamente la vulgata marxista imperante negli anni Sessanta e Settanta – che ritenevano che la trasformazione rivoluzionaria della società avrebbe posto fine a ogni conflitto (e dunque alla stessa politica), o anche quella retorica che sosteneva che nei paesi del socialismo reale fosse stato finalmente superato il «dominio dell’uomo sull’uomo». In questo senso, Miglio non usciva certo dai cardini del realismo, perché, al contrario, articolava forse il motivo cruciale sviluppato da tutti i classici, partendo da Tucidide e arrivando fino allo stesso Morgenthau. Se Miglio (non senza operare qualche forzatura) aveva trovato nella schmittiana categoria del ‘politico’ una delle fondamentali «regolaritàdella politica» - la regolarità della contrapposizione «amicus-hostis» -nelle ricerche dell’etologia confidava di trovare una base capace di rendere ancora più solida questa acquisizione. Ed era soprattutto per questo che dunque salutava con un entusiasmo così marcato le ipotesi esposte da Konrad Lorenz in Il cosiddetto male, intorno alla funzione aggregante dell’aggressione contro un nemico, o anche le esplorazioni di Ardrey sull’«istinto di uccidere» e sull’«imperativo territoriale»55. Oltre a confermare l’immagine dell’essere umano come animale conflittuale, le scoperte etologiche servivano inoltre a Miglio per articolare lo schema meta-storico di formazione del rapporto di obbligazione politica, esposto all’interno dei suoi corsi, che per molti versi sosteneva tutta l’impalcatura della sua teoria generale della politica56. Infatti, in questo modo era possibile ricostruire un nesso causale non solo fra l’aggressività e la territorializzazione, ma anche tra l’aggressività e la gerarchizzazione interna ai singoli gruppi, e cioè alla distinzione – persino all’interno di ogni gruppo elementare – fra un capo, coadiuvato da un seguito attivo di aiutanti, e il seguito passivo, ossia fra quei due gruppi di popolazione che Mosca aveva definito come «classe politica» e «governati». Miglio poteva così scoprire nella caccia grossa il momento per molti versi primordiale e originario dell’esperienza politica, perché proprio la necessità di cacciare per giorni animali di grossa taglia implicava una serie di attività – l’organizzazione interna, la specializzazione delle funzioni,

55 Cfr. R. ARDREY, L’istinto di uccidere. Le origini e la natura animali dell’uomo,

Feltrinelli, Milano 1968 (ed. or. African genesis. A personal investigation into animal origins and nature of man, London 1961), e ID., L’imperativo territoriale, cit.

56 Cfr, G. MIGLIO, Lezioni di politica. II. Scienza della politica, cit., pp. 187-204.

29

la previsione degli eventi futuri – che già suggerivano l’esistenza della struttura elementare dell’«obbligazione politica»57.

Se tutti questi elementi parevano tenersi fra loro, era però piuttosto evidente che, nella sua discussione, Miglio tendeva a tenere sullo sfondo un dato in realtà tutt’altro che irrilevante, ossia la differenza fra le attività di predazione – come appunto la caccia grossa – e le attività di aggressione intraspecifica, ossia fra gruppi appartenenti alla medesima specie. Naturalmente la ricerca etologica non ha mancato di offrire conferme alla presenza di conflittualità intraspecifica anche nelle società di cacciatori-raccoglitori, e d’altro canto molte scoperte archeologiche hanno portato alla luce le tracce di tumulazioni di massa di interi clan risalenti anche al Paleolitico superiore. E sebbene vi siano probabilmente differenze marcate fra l’aggressività intraspecifica umana e quella propria di altre specie58, non è comunque impossibile ritrovare una spiegazione in chiave evolutiva dell’aggressività intraspecifica – persino estremamente violenta, fino al limite estremo dell’uccisione dei membri del gruppo rivale –proprio nella competizione per la conquista di territorio (resa particolarmente vitale dalla dinamica della pressione demografica). Pertanto l’aggressività tribale degli esseri umani – simile a quella che si riscontra negli scimpanzé (seppure, in quest’ultimo caso, con minore incidenza di mortalità) potrebbe essere un lascito della lotta per la conquista di territori sperimentata nelle regioni africane prima

57 Cfr. R. ARDREY, L’ipotesi del cacciatore. Una conclusione personale sulla natura evolutiva dell’uomo, Giuffrè, Milano 1986 (ed. or. The Hunting Hypotesis, William Collins Sons & Co., London 1976). Se gli scritti di Ardrey risultavano da questo punto di vista particolarmente suggestivi, il nesso tra l’aggressività dei singoli e la definizione degli assetti gerarchici all’interno dei gruppi poteva trovare comunque ampie conferme anche in più meditate ricerche etologiche. Per esempio osservava Irenäus Eibl-Eibesfeldt: «All’interno del gruppo, il comportamento aggressivo dei singoli porta alla creazione di ordine gerarchici, che assicurano alla società una certa stabilità. Gli individui di rango superiore, infatti, assumono generalmente funzioni di guida. La formazione di un ordine gerarchico di questo genere presuppone non solo che alcuni membri del gruppo si rivestano di una certa autorità, ottenuta mediante lotte di rango o prestazioni particolari, ma anche che gli individui subordinati riconoscano questo ordine gerarchico» (I. EIBL-EIBESFELDT, I fondamenti dell’etologia. Il comportamento degli animali e dell’uomo, Adelphi 1976, p. 557; ed. or. 1967; IV ed. 1974).

58 In questo senso, Galli osservava: «Nella prospettiva etologica è decisivo che l’aggressività intraspecifica, da distinguere dalla predazione interspecifica, non è quasi mai mortale, dando luogo a comportamenti di fuga (ed il territorio è funzione della propensione alla lotta, propensione altissima al centro di esso, il ‘centro invincibile’, e via via decrescente con l’aumentare della distanza dal centro, fino a quando, ad una certa distanza, si innesca il meccanismo di fuga), o comportamenti di inibizione e ritualizzazione dell’aggressività stessa; questa, oltre a stabilizzarsi in forme gerarchiche (risultato di duelli ritualizzati) permette perfino, quando è ridiretta, forme di individuazione e di collaborazione affettiva […]: insomma, l’aggressività, istintiva ma non certo istinto di morte, e concettualmente diversa tanto dalla nuda violenza quanto dalla caccia o predazione, appare, nella sua forma ridiretta e ritualizzata, cioè come potere, una delle condizioni fondamentali della collaborazione sociale, ed è pertanto fortemente adattiva, esplicando un’azione di coesione all’interno del gruppo e di differenziazione all’esterno» (C. GALLI, Etologia, sociobiologia e le categorie della politica, cit., p. 440.

30

della rivoluzione agricola del Neolitico, e dunque di una fase segnata dalla carenza di risorse e dalla forte competizione per l’accaparramento di cacciagione. In seguito, circa diecimila anni or sono, i progressi conseguiti dall’inizio della coltivazione e dell’allevamento aumentarono notevolmente la disponibilità di cibo e ridussero la pressione verso i conflitti intraspecifici, ma – come scrive per esempio Wilson, suggerendo proprio una simile ipotesi – questo avanzamento non avrebbe modificato «la natura umana»59. Questo tipo di spiegazione - in realtà ancora priva di adeguato sostegno, ma certo guidata da una logica piuttosto stringente – non era dunque di per sé suscettibile di inficiare la sintesi migliana. Un problema di portata invece ben superiore (e capace di far affiorare il ‘corto circuito’ proprio del realismo, e non solo della teoria di Miglio) emerge invece in relazione a uno degli elementi caratterizzanti della conflittualità intraspecifica umana, un elemento che effettivamente appare proprio solo dell’essere umano, e che davvero configura l’essere umano come «animale simbolico». Un simile elemento non ha a che vedere semplicemente con il carattere aggressivo che l’uomo condivide con molte altre specie, o con il fatto che tale tendenza aggressiva si dirige anche verso gruppi della medesima specie. Ma ha invece a che vedere con il modo in cui viene rappresentato e ritualizzato il conflitto intraspecifico.

Per quanto alla base del conflitto intraspecifico sia implicita una sorta di riconoscimento di appartenenza alla medesima specie, i gruppi umani tendono infatti a collocare il conflitto su un piano differente, e cioè a rappresentarlo come un conflitto tra specie differenti. Ovviamente, una simile tendenza può essere spiegata anche come riflesso di meccanismi evolutivi che hanno a che vedere con l’imperativo territoriale, ma il punto è che i gruppi umani – a differenza di ogni altra specie – mostra una specifica capacità di ‘deumanizzare’ gli appartenenti ai gruppi percepiti o rappresentati come rivali, e un simile atteggiamento assume un carattere ben diverso dal semplice rifiuto dell’estraneo che si riscontra in altre specie. Un etologo come Eibl-Esbeslfedlt osserva per esempio che «i membri di un gruppo qualsiasi descrivono se stessi come uomini e

59 E.O. WILSON, La conquista sociale della Terra, cit., p. 89. Wilson formula in

particolare questa sequenza: «Il fattore limitante originario, che crebbe d’importanza con l’introduzione della caccia di gruppo per accaparrarsi proteine animali, è stato il cibo. Il comportamento territoriale si sviluppò come uno stratagemma per acquistare le riserve di cibo. Le guerre e le annessioni permisero la formazione di territori più grandi e favorirono i geni che prescrivono lo spirito di gruppo, le reti di comunicazione e la formazione di alleanze. Per centinaia di migliaia di anni l’imperativo territoriale assicurò stabilità alle piccole comunità diffuse di Homo sapiens, come avviene oggi nelle piccole popolazioni diffuse di cacciatori-raccoglitori. In questo lungo periodo gli eventi ambientali estremi che si verificavano di tanto in tanto casualmente aumentarono o diminuirono la popolazione che i territori potevano accogliere. Questi ‘shock demografici’ portarono a un’emigrazione coatta o a un’espansione aggressiva del territorio occupato con guerre di conquista, o a una e all’altra cosa insieme. Valorizzarono inoltre la formazione di alleanze al di fuori dei reticoli parentali allo scopo di assoggettare altri gruppi vicini» (ibi, pp. 88-89).

31

tutti gli altri come non uomini o come uomini di categoria inferiore», e dunque «il fatto che alla controparte spesso non venga riconosciuta la natura di uomo sposta il conflitto al livello di una contesa tra specie diverse»60. E proprio questo spiega il carattere distruttivo della conflittualità umana, ossia il fatto che l’aggressività si spinga fino allo sterminio di massa dei nemici:

L’uomo è in grado di convincersi che gli altri non sono suoi simili; già gli indiani della foresta vergine parlano dei vicini in termini di preda di caccia, e le nazioni civili non si comportano molto diversamente: dipingono l’avversario come un diavolo, definendolo un essere inferiore e una ‘bestia’. Affinché poi non si possa arrivare a conoscersi e a ricredersi, vengono erette delle barriere di incomunicabilità. Io ritengo che questa capacità dell’uomo di dipingere a tinte fosche i suoi simili sia la sua caratteristica più pericolosa, perché è solo così che si può diventare un assassino spietato. Basta infatti che si venga spesso convinti che gli altri non sono esseri umani, affinché questo indottrinamento diventi un habitus mentale. I nuovi concetti diventano così una realtà soggettiva e gli uomini credono a quanto è scolpito nelle loro strutture mentali61.

Osservazioni come quelle di Eibl-Eibesfeldt non sono certo in contrasto con i cardini della prospettiva realista, e anzi potrebbero essere considerate come uno sviluppo coerente della classica caratterizzazione delle relazioni interumane come bellum omnium contra omnes. Frasi come quelle dell’etologo sembrano quasi una glossa a quanto Schmitt scriveva nel Begriff des Politischen, quando –non senza intenti polemici – osservava che giustificare una guerra in nome dell’«umanità» significa «che al nemico va tolta la qualità di uomo, che esso deve essere dichiarato hors-la-loi e hors-l’umanité e quindi che la guerra dev’essere portata fino all’estrema inumanità»62. E, inoltre, non è affatto difficile trovare conferme, in tutti gli studi dedicati alla caratterizzazione del nemico, della ricorrente tendenza a ‘deumanizzare’ il nemico, a rappresentarlo con tratti ferini o comunque animali e non umani. Il problema, dunque, non sta nel riconoscimento del livello estremo che può assumere la conflittualità umana, ma piuttosto nelle implicazioni che derivano dai caratteri dell’aggressività intraspecifica propria delle società umane. Se infatti si riconosce, insieme all’estrema aggressività umana, il meccanismo di legittimazione della conflittualità intraspecifica, diventa in qualche modo inevitabile riconoscere anche la pervasività della conflittualità: una pervasività che si riflette nella costruzione ‘culturale’ dell’ambiente e persino della natura. Secondo le parole di Eibl-Eibesfeldt, gli esseri umani infatti non solo «dipingono l’avversario come un diavolo, definendolo un essere inferiore e una ‘bestia’», ma

60 I. EIBL-ESBESLFEDLT, The Biology of Peace and War, London, 1979, trad. it

Torino, 1990, pp. 128-130.61 I. Eibl-EIBESFELDT, I fondamenti dell’etologia, cit., p. 557.62 C. SCHMITT, Il concetto di ‘politico’, cit., p. 139.

32

cercano costantemente di convincere se stessi che «gli altri non sono esseri umani, affinché questo indottrinamento diventi un habitus mentale», fino al risultato che «i nuovi concetti diventano così una realtà soggettiva e gli uomini credono a quanto è scolpito nelle loro strutture mentali». Evidentemente, anche in questo caso si può riconoscere una certa consonanza fra questa idea e la formula schmittiana – posta alla base della Begriffsgeschichte – secondo cui «tutti i concetti, le espressioni e i termini politici hanno un senso polemico», dal momento che «essi hanno presente una conflittualità concreta, sono legati ad una situazione concreta, la cui conseguenza estrema è il raggruppamento in amico e nemico»63. Ma il punto è che, se davvero si traggono fino in fondo le conseguenze di un simile passaggio, l’analisi del politico non può che discostarsi dallo studio della «natura», per indirizzarsi verso lo studio della «cultura». Per il semplice motivo che, volgendosi verso le spiegazioni ‘naturalistiche’ dell’aggressività umana, ciò che si perde è proprio il carattere specificamente ‘politico’ dell’aggressività umana, e cioè l’elemento che contrassegna – in modo forse indelebile – il nucleo originario del ‘politico’.

Una simile consapevolezza non può certo essere intesa come il presupposto logico di una critica unilaterale o di un’aprioristica e pregiudiziale opposizione ai contributi che giungono dalla riflessione etologica e dalle discipline che studiano l’«animale uomo». Le indagini compiute in questo campo risultano invece – nonostante tutti i limiti segnalati – estremamente preziose, non solo perché possono chiarire alcuni aspetti dell’evoluzione umana, ma anche perché effettivamente contribuiscono a relativizzare l’eccezionalità dell’«animale uomo» e dei suoi comportamenti. Ciò nondimeno, è evidente che il tentativo di trovare in queste discipline la chiave per aprire lo scrigno misterioso degli arcana imperii, e per decifrare finalmente le più enigmatiche «regolarità» della politica, non può che trovare una barriera invalicabile – prima ancora che nel livello ancora insufficiente delle conoscenze disponibili – in una difficoltà che è connessa proprio con la specificità del ‘politico’. Se infatti il ‘politico’ ha davvero a che vedere, come voleva la classica proposta schmittiana, con la distinzione tra amicus e hostis, e dunque con «l’estremo grado di intensità di un’unione o di una separazione, di un’associazione o di una dissociazione»64, esso risulta allora strettamente legato anche alla ‘natura’ aggressiva e conflittuale dell’«animale uomo», una natura che l’essere umano detiene insieme ad altre specie. Ma evidentemente l’aggressività (con tutte le sue conseguenze, in termini di territorializzazione, divisione tribale, gerarchizzazione interna, specializzazione funzionale, formazione di un gruppo di comando) non può essere fatta coincidere tout-court con il ‘politico’, se non al prezzo di smarrire proprio ciò che è proprio del ‘politico’: quel quid che non ha a che vedere tanto con il fatto del

63 Ibi, p. 113.64 Ibi, p. 109.

33

conflitto – e neppure semplicemente con la realtà di quel conflitto intraspecifico in cui l’«animale uomo» pare tanto versato fin dagli albori della propria storia evolutiva, e che siamo soliti indicare con il termine «guerra» - quanto con il modo con cui nelle diverse società umane quel conflitto viene rappresentato, legittimato, ricordato, ritualizzato. In altri termini, in gioco nel ‘politico’ non sono tanto (o soltanto) le determinanti ‘biologiche’, o comunque le determinanti ‘naturali’, quanto le strategie rivolte a legittimare un determinato conflitto raffigurandolo non come un conflitto intraspecifico, bensì –in qualche modo – come un conflitto tra specie differenti: strategie che dunque procedono alla ‘deumanizzazione’ del nemico, e cioè alla definizione di un ben preciso confine fra ‘uomo’ e ‘non uomo’, fra un essere effettivamente ‘umano’ e quell’essere ‘quasi’ umano, ma non completamente umano e dunque ‘animale’ che può essere legittimamente ucciso, bruciato o persino divorato in rituali antropofagi.

Alla base del ‘politico’ sta infatti qualcosa di effettivamente simile a ciò che Jacques Rancière ha definito un «disaccordo» istitutivo. Per Rancière, il «disaccordo» configura infatti «una determinata circostanza di parola, nella quale uno degli interlocutori sente e nello stesso tempo non ascolta ciò che dice l’altro», e dunque non «il conflitto tra colui che dice bianco e colui che dice nero», bensì «il conflitto tra colui che dice bianco e colui che dice bianco, ma che non intende la medesima cosa, o non capisce che l’altro, sotto il nome di ‘bianco’, sta dicendo la medesima cosa»65. E, nonostante Rancière assuma come modello paradigmatico il conflitto sociale e non la guerra66, la sua proposta può davvero illuminare su un aspetto cruciale di ciò che in senso schmittiano è il ‘politico’. Condotta al suo livello estremo, la logica del «disaccordo» coglie infatti ciò che differenzia il ‘naturale’ conflitto intraspecifico dal conflitto intraspecifico proprio delle società umane: e cioè il fatto che ogni gruppo politico umano –pur nella piena consapevolezza di condurre un conflitto intraspecifico, contro un altro gruppo di esseri umani – non rinuncia al tentativo di collocare se stesso e le proprie ragioni su un piano di superiorità morale rispetto ai nemici, fino al punto di rappresentare il conflitto come un conflitto fra specie diverse. Perché ‘deumanizzare’ il nemico non significa semplicemente rappresentarlo in termini negativi, ma equivale ad attribuirgli una componente di maggiore di animalità e, dunque, a negare che la sua natura sia effettivamente e totalmente ‘umana’. Per quanto si possa supporre l’esistenza di pulsioni o persino di istinti aggressivi che inducono gli esseri umani al conflitto, il punto qualificante che distingue dunque il ‘politico’ è allora, in qualche

65 J. RANCIÉRE, Il disaccordo. Politica e filosofia (1995), Meltemi, Roma, 2007, p.

19.66 Anche per questo, la sua proposta – al di là degli indiscutibili meriti – mostra

qualche limite: rinvio sul punto a D. PALANO, Lo scandalo dell’eguaglianza. Alcuni appunti sull’itinerario di Jacques Rancière, in «Filosofia politica», 2011, n. 3, pp. 505-517.

34

misura, il fatto che tale conflitto presuppone sempre una strategia –più o meno sofisticata – volta a fissare un confine ‘naturale’ fra amico e nemico, e dunque a legittimare il conflitto contro il nemico sulla base di una pretesa universalista che non può che trovare il proprio fondamento più solido nella scoperta di una differenza ‘biologica’, ‘naturale’, e per questo anche ‘morale’, fra i membri del gruppo e coloro che invece sono collocati al suo esterno.

In un celebre passaggio del Primo Libro del Capitale, nel quale rifletteva sul carattere specificamente umano del lavoro, Marx scriveva che «il ragno compie operazioni che assomigliano a quelle del tessitore» e che «l’ape fa vergognare molti architetti con la costruzione delle sue cellette di cera», ma che, a dispetto di questa strabiliante capacità, «ciò che fin da principio distingue il peggiore architetto dall’ape migliore è il fatto che egli ha costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla in cera»67. Forse potremmo utilizzare la suggestione di questa immagine anche per cogliere la specificità del ‘politico’ e dunque per sottolineare per quale motivo il ‘politico’ appartenga esclusivamente all’essere umano. Se infatti per un verso l’etologia ci mostra ampiamente che fenomeni come il conflitto e l’aggressione non sono affatto esclusivi dell’uomo, possiamo riconoscere che solo nelle società umane il conflitto appare contrassegnato da quel paradosso per cui il nemico è allo stesso tempo riconosciuto come ‘uguale’ (e cioè come appartenente alla medesima specie) eppure rappresentato come ‘diverso’, come ‘animale’, come ‘sotto-umano’, o come espressione di potenze malefiche. E, così, nonostante i sofisticati rituali di combattimento dei branchi di lupi o la ferrea organizzazione ‘militare’ mostrata in ‘guerra’ da molte specie di formiche possano fare apparire quantomeno rozze le vette di brutalità raggiunte nella storia dai gruppi umani, è evidente come solo questi ultimi possano essere considerati propriamente ‘politici’ e come dunque solo i conflitti che essi mettono in atto – proprio nella misura in cui mostrano quella sorta di costitutivo paradosso per cui il nemico è percepito come ‘uguale’ eppure ‘differente’, come umano eppure inumano, distinto dalla preda di caccia eppure in qualche misura ‘animale’ che può essere ucciso senza che ciò configuri una violazione di precetti religiosi e morali – assumano un carattere specificamente ‘politico’.

5. Il realismo politico senza «punto archimedico»

Prendendo le mosse dall’interesse che Gianfranco Miglio nutrì in un’importante stagione della sua riflessione per le acquisizioni dell’etologia e della sociobiologia, in questo contributo mi sono innanzitutto soffermato sulla stretta connessione fra l’aspirazione del realismo a individuare le «regolarità» dei fenomeni politici e la

67 K. MARX, Il Capitale. Per la critica dell’economia politica (1867), Editori Riuniti, Roma, 1994, I, p. 212.

35

convinzione positivista che la ragione umana possa decifrare le «leggi» che guidano tanto il mondo naturale quanto il mondo sociale. A dispetto di quanto riteneva Hans J. Morgenthau, il realismo – come ho cercato di argomentare – non è infatti immune dall’ottimismo proprio della filosofia razionalista, secondo la quale la ragione umana, grazie agli strumenti propri dell’indagine scientifica, può scoprire i meccanismi che spiegano anche i fenomeni sociali e politici. Così, l’ambizione ‘faustiana’ coltivata da Miglio di giungere a una «nuova sintesi» tra scienze della natura e scienze dello spirito, e dunque di fondare la «scienza della politica» su basi etologiche, non era affatto in radicale contrasto con le coordinate originarie del progetto realista, né configurava un ‘tradimento’ della sua principale aspirazione. D’altronde – nonostante l’opinione di Morgenthau andasse in una direzione opposta – non è così affatto inevitabile che il razionalismo debba essere coniugato con un ingenuo ottimismo antropologico: al contrario, il progetto di una scienza dei fenomeni politici – così come prende forma proprio nella stagione del positivismo trionfante, verso la fine del XIX secolo – non fa che riprendere proprio il pessimismo antropologico condiviso dai classici del realismo, al quale si intende però fornire una base più solida grazie alle nuove acquisizioni scientifiche.

A ben vedere, però, neppure Morgenthau era effettivamente disposto a rinunciare a tutte quelle pretese del razionalismo e del positivismo, che invece il realismo di Miglio e il progetto di una«nuova sintesi» fra scienze della natura e scienze dello spirito faceva rivivere pienamente. E non era per questo difficile riconoscere una palese contraddizione nel discorso che svolgeva. La condanna dello scientismo pronunciata da Morgenthau e la sua assoluta opposizione all’idea che lo studio dei fenomeni politici potesse tramutarsi in una «scienza» capace di scoprire delle «leggi» deterministiche erano ovviamente funzionali al progetto di fondare lo studio della politica internazionale sulle basi di un «realismo» diametralmente distante allo scientismo razionalista. Un simile progetto – che affiorava solo in filigrana nelle pagine di Scientific Man Vs. Power Politics, come riflesso delle argomentazioni contra la filosofia scientista – doveva invece essere compiutamente esposto in Politics Among Nations, solo pochi anni dopo. Ma proprio al principio del suo lavoro probabilmente più importante e ambizioso emergeva in modo piuttosto lampante una contraddizione, per molti versi solo terminologica, eppure tutt’altro che marginale. Nel momento in cui puntava a fondare una scienza della politica internazionale, nel primo dei suoi celebri sei principi del «realismo politico» evocava l’idea che la politica fosse regolata da «leggi oggettive», e scriveva infatti:

Il realismo politico ritiene che la politica, come la società nel suo complesso, sia governata da leggi oggettive che hanno la loro origine nella natura umana. Per migliorare la società è necessario innanzitutto comprendere le leggi che la reggono e, dal momento che il loro operare è sordo alle nostre preferenze, l’uomo le può sfidare solo a

36

proprio rischio e pericolo. Poiché il realismo crede nell’oggettività delle leggi della politica, esso confida anche nella possibilità di sviluppare una teoria razionale che le rifletta, seppure in modo imperfetto e imparziale. Esso crede quindi che in politica sia possibile distinguere tra verità e opinione – fra ciò che è razionale e oggettivamene vero, suffragato dall’evidenza e illuminato dalla ragione, e ciò è soltanto un giudizio soggettivo, separato dai fatti concreti e ispirato dal pregiudizio e dall’illusione68.

Non può che risultare quantomeno sorprendente che il medesimo autore che in Scientific Man Vs. Power Politics si era scagliato contro la pretesa delle scienze sociali di scoprire le «leggi» che guidano il mondo sociale, solo pochi anni dopo esprima la ferma convinzione che la politica sia «governata da leggi oggettive». Su una simile contraddizione ha attirato l’attenzione per esempio Stefano Guzzini, che ha sottolineato come il realismo di Morgenthau sia molto più legato alle ambizioni del positivismo di quanto sia stato sovente riconosciuto69, mentre altri lettori contemporanei hanno osservato che proprio il più o meno latente scientismo implicito nel richiamo all’esistenza di «leggi oggettive» della politica avrebbe contribuito a legittimare la svolta comportamentista nel dibattito politologico nord-americano70. Probabilmente il pegno pagato da Morgenthau al fascino del positivismo non deve però essere sopravvalutato, e la portata della contraddizione suggerita dal richiamo alle «leggi oggettive» deve essere ridimensionata. A ben guardare, infatti, anche in Politics among Nations Morgenthau non rinuncia a replicare le argomentazioni relative alla difficoltà di formulare previsioni in campo politico e in effetti ripropone molti dei ragionamenti svolti in precedenza. Per esempio ricorda come lo studioso di politica internazionale debba sempre tenere a mente che «la complessità del materiale rende impossibile ogni soluzione semplice e inattendibile qualsiasi profezia», e come il massimo che il ricercatore possa fare è dunque «individuare le differenti tendenze che, almeno parzialmente, sono inerenti ad una certa situazione internazionale»71. Il riferimento alle «leggi oggettive», come ha osservato opportunamente Lorenzo Zambernardi, per quanto configuri senza dubbio un’ambiguità, non deve essere interpretato come una vera e propria contraddizione teorica, capace di inficiare la stabilità dell’edificio elevato da Morgenthau. Tale ambiguità probabilmente «riflette il dilemma insuperabile tra la necessità di plasmare e ricreare la realtà e la tragica consapevolezza della difficoltà e impermeabilità del materiale

68 H. MORGENTHAU, Politica tra le nazioni. La lotta per il potere e la pace, Il Mulino, Bologna, 1997, p. 6.

69 Cfr. S. GUZZINI, Realism in International Relations and International Political Economy: The Continuing Story of a Death Foretold, Routledge, New York, 1998.

70 Cfr. per esempio J. GEORGE, Discourse of Global Politics. A Critical (Re)Introduction to International Relations, Lynne Rienner Publishers, Boulder, 1994, pp. 91-93, A.J. TELLIS, Reconstructing Political Realism: The Long March to Scientific Theory, in «Security Studies», V (1995), n. 2, pp. 3-100.

71 H.J. MORGENTHAU, Politica tra le nazioni, cit., p. 35.

37

politico»72. In altre parole, lo studioso tedesco non rinuncia a indicare nelle «leggi oggettive» della politica l’oggetto di uno studio realistico perché, pur essendo impegnato in una battaglia «contro il dogmatismo scientifico di origine positivista, che sosteneva la possibilità di comprendere e controllare la realtà», non si rassegna a contrastare anche «lo scetticismo radicale, che avrebbe reso inconcludente ogni tentativo di comprenderla e regolarla»73. Il richiamo alle «leggi oggettive», così ambiguo nel contesto di una battaglia intellettuale contro l’oggettivismo scientista, appare perciò come lo strumento che dovrebbe consentire di non approdare a una posizione totalmente relativista. D’altronde, come osserva ancora Zambernardi, quando Morgenthau richiamava le «leggi della politica che hanno le loro radici nella natura umana», egli alludeva non a «leggi meccaniche», ma ad alcuni «principi» molto generali, individuati già dalla filosofia indiana, cinese e greca74.

Senza dubbio le argomentazioni di Zambernardi sono del tutto condivisibili e riescono a chiarire (o quantomeno a ridimensionare) ciò che potrebbe apparire come una contraddizione. Ciò nondimeno, il fatto che Morgenthau, nel momento in cui delineava la fisionomia del realismo politico, trovasse l’unico perno su cui incardinare lo studio dei fenomeni politici – scrivendo: «Le leggi della politica hanno le loro radici nella natura umana che non è mutata da quando le filosofie classiche indiana, cinese e greca si sono sforzate di scoprirle»75 -suggerisce quantomeno una serie di ulteriori interrogativi. Interrogativi che riguardano uno degli elementi cardinali dell’intera tradizione del realismo, ossia la convinzione che la realtà della politica – la machiavelliana «verità effettuale della cosa», contrapposta alla distorta «imaginazione di essa» - possa essere compresa proprio a partire da una corretta comprensione, come scriveva Morgenthau, della «natura umana come è in realtà»76. L’enfasi su questa componente non era infatti incidentale nel discorso di Morgenthau, perché gran parte della sua riflessione giovanile si era concentrata – a partire dalle suggestioni di Nietzsche e Freud –proprio sulle matrici più profonde del ‘politico’, ossia sulle matrici psicologiche dell’aspirazione all’affermazione e al dominio77.

72 L. ZAMBERNARDI, I limiti della potenza, cit., p. 58.73 Ibi, pp. 59-60.74 Ibi, p. 58.75 H.J. MORGENTHAU, Politica tra le nazioni, cit., p. 6.76 Ibidem.77 Cfr. in particolare H.J. MORGENTHAU, L’origine del politico a partire della

natura umana (1930), in ID., Il concetto del politico. «Contra» Schmitt, a cura di A. CAMPI e L. CIMMINO, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2009, pp. 15-77. In Scientific Man Vs. Power Politics aveva esplicitato i frutti di quella indagine dipingendo l’essere umano come guidato soprattutto da un incoercibile animus dominandi, quella brama di potere che – ben distinta dall’egoismo che induce a ricercare per sé cibo, dimora e sicurezza – spinge ogni essere umano a ricercare il dominio sugli altri. In questo senso aveva scritto: «Essa si manifesta nel desiderio di mantenere, accrescere o dimostrare la propria capacità di azione in relazione agli altri. In qualsiasi veste appaia, la brama di potere trova in uno di questi aspetti la sua vera essenza e il suo

38

D’altronde, quando incentrava la propria visione delle «leggi oggettive» della politica sull’idea di una natura umana immutabile, Morgenthau rivisitava evidentemente proprio uno dei tratti caratterizzanti del filone teorico del realismo politico. Era proprio questo a mostrare forse nel modo più nitido come al cuore persino del progetto realista dello stesso Morgenthau – per molti versi tanto attento alle trappole tese dallo scientismo sul percorso realista – si nascondesse la traccia indelebile di un’ambizione ‘positivista’. Ed era quantomeno significativo che lo studioso tedesco non si avvedesse della contraddizione che, a questo proposito, rischiava di inficiare il suo progetto.

La vera contraddizione che lacerava il discorso di Morgenthau non consisteva infatti nel fatto che – dopo aver condannato in Scientific Man Vs Power Politics, la pretesa scientista di ‘scoprire’ le «leggi» che regolavano il funzionamento del mondo sociale – nei sei principi del realismo egli indicasse proprio nella individuazione delle «leggi oggettive» della politica l’obiettivo principale di una disciplina volta allo studio delle dinamiche internazionali. La latente aporia del suo ragionamento consisteva piuttosto nel fatto che egli considerasse la natura umana, il punto fermo da cui discendevano di fatto le «leggi oggettive», come un elemento invariante. In questo senso, ovviamente il ragionamento di Morgenthau appariva del tutto coerente con quei principi che la filosofia indiana, cinese e greca avevano enunciato dal momento in cui avevano iniziato a esplorare la natura umana. Ma, paradossalmente, Morgenthau veniva su questo punto a recedere da uno dei punti più importanti della sua riflessione epistemologica.

La sezione forse ancora oggi più interessante di Scientific Man Vs. Power Politics è in effetti rappresentata dal capitolo in cui Morgenthau, criticando la «chimera» delle scienze naturali, non si limitava a segnalare la distanza fra queste ultime e le scienze sociali, ma sosteneva come fosse impossibile comprendere il mondo sociale «attraverso una semplice analogia con l’idea di natura elaborata in epoca moderna»78. Proprio nel corso di questa discussione, Morgenthau osservava che, dal momento che «è la mente umana che rispecchia il mondo fisico e determina l’agire dell’uomo all’interno e rispetto a esso», allora «le qualità della mente devono a loro volta rispecchiarsi nella nostra visione della natura»79. Proprio per questo, «il mondo fisico reca in un duplice senso l’impronta della mente umana e ne è in un duplice senso il prodotto», in primo luogo perché

fine ultimo. […] La brama di potere […] non riguarda la sopravvivenza dell’individuo, ma la sua posizione rispetto agli altri uomini una volta che la sopravvivenza sia stata garantita. Nel consegue che l’egoismo ha dei limiti, mentre la volontà di potenza è illimitata. Se, infatti, l’individuo è potenzialmente in grado di soddisfare i propri bisogni vitali, placherebbe la sua brama di potere solo dopo aver sottomesso fino all’ultimo uomo ed essere diventato perciò simile a Dio» (H.J. MORGENTHAU, L’uomo scientifico versus la politica di potenza, cit., pp. 258-259).

78 H.J. MORGENTHAU, L’Uomo scientifico versus la politica di potenza, cit., p. 191.

79 Ibi, 192.

39

«siamo in grado di conoscerlo nei limiti delle nostre facoltà cognitive, ovvero solo nella misura in cui la struttura della mente corrisponde alla struttura della natura», e soprattutto, in secondo luogo, perché «il rapporto tra mente e natura non è di tipo esclusivamente cognitivo neppure quando la mente umana affronta la natura solo a scopo percettivo, perché anche in questo caso non può non interferire nel suo corso»80. In uno dei momenti forse più originali della propria riflessione, Morgenthau assumeva dunque che il mondo sociale e persino il mondo naturale non sono dati ‘oggettivi’ per la conoscenza umana, e che la «natura come oggetto di conoscenza […] è in un certo senso il prodotto dell’agire umano»81. E, così si spingeva a riconoscere come l’interazione fra l’oggetto di studio e l’azione creativa del soggetto della ricerca valesse non solo per le scienze sociali ma persino per lo studio della natura:

Questa influenza creativa risulta più forte che mai quando l’intervento e l’interferenza non sono gli effetti collaterali di un intento cognitivo, bensì il fine di un’azione deliberata. Poiché la natura è soggetta all’agire umano, in realtà è la mente umana che la crea e la creazione non può non riflettere la qualità del creatore82.

Una simile convinzione – in cui non a torto è stata ravvisata l’eredità forse più significativa di Morgenthau per il dibattito contemporaneo sui metodi della scienza politica – non può che risultare quantomeno problematica per un progetto teorico che intenda fondarsi sull’idea della natura umana come invariante. Il punto, sotto questo profilo, non consiste tanto nella distinzione fra ‘leggi’, ‘tendenze’, ‘regolarità’, che possono essere inferite da una specifica visione dell’essere umano, anche perché è piuttosto scontato che la concezione della natura umana adottata da Morgenthau non può che consentire altro che ipotesi molto generiche, e tutt’altro che deterministiche. E la questione non riguarda neppure in senso stretto il metodo da utilizzare per studiare una simile natura umana. Il nodo effettivamente problematico del ragionamento è invece rappresentato proprio dall’idea che la natura umana sia costante e immutabile. Proprio questo assunto rappresenta come si è visto il vero pilastro del realismo: dal momento che l’essere umano ha determinate caratteristiche immutabili, che non possono essere rimosse, allora le relazioni fra uomini non possono che essere soggette a determinate ‘regolarità’; ma proprio dal momento che questa natura è storicamente invariante, dato che costituisce cioè un elemento costante, allora – proprio a partire da quei punti fermi – è possibile elaborare una scienza in grado prevedere il futuro, o quantomeno di escludere che determinate circostanze possano mai verificarsi (per esempio, l’eliminazione definitiva del conflitto, incardinato nella struttura immutabile della natura umana). Ma, se

80 Ibidem.81 Ibi, p. 193.82 Ibidem.

40

fornisce il perno su cui far ruotare il discorso realista, un simile assunto non può che risultare in patente contrasto con l’idea che la «natura» - e a maggior ragione la natura umana – sia «soggetta all’agire umano», che sia in qualche modo «la mente umana che la crea» e che «la creazione non può non riflettere la qualità del creatore». Mentre per un verso viene infatti affermato il carattere invariante e immodificabile della natura umana, dall’altro si giunge a riconoscere che persino la natura è in qualche modo non solo variabile, ma addirittura in parte il prodotto della conoscenza, e questa conclusione non può che riguardare proprio quello specifico oggetto di studio che è la natura umana, tanto che non si potrebbe escludere neppure che la natura umana in realtà non esista e sia solo un prodotto della riflessione scientifica, o persino delle pretese di dominio sottese a un progetto scientifico. E, d’altro canto, era lo stesso Morgenthau a suggerire – più o meno implicitamente – questa conclusione, nel momento in cui scriveva che, dal momento che «esiste una correlazione necessaria tra la qualità della mente umana da un lato e la qualità del mondo fisico e sociale così come lo conosciamo dall’altro», allora «l’irrazionalità dell’agire umano non può che riflettersi sulla natura, sulla società e sulla conoscenza che abbiamo di entrambe»83.

Se una simile acquisizione ha naturalmente enormi implicazioni per le scienze sociali, essa non può però non incidere in modo particolare sulla scienza del politico, e in particolare sulla visione realista di ciò che dovrebbe essere una simile scienza. L’aporia del ragionamento di Morgenthau non dipendeva d’altronde tanto da una indecisione teorica, quanto dalla tensione forse ineliminabile tra positivismo e storicismo (e dunque tra natura e cultura) che si annida al cuore della visione realista: una tensione che discende dal fatto che, per un verso, i realisti – facendosi alfieri di una visione positivista della ragione scientifica – ricercano le radici più profonde delle «regolarità» dei fenomeni politici nei caratteri immutabili della natura umana, mentre, per l’altro, esprimono la consapevolezza ‘storicista’ che la «natura umana» non è affatto un dato così oggettivo come potrebbe sembrare, ma che risulta invece (anche) l’esito di un complesso processo di costruzione culturale: un processo tutt’altro che immune dalle dinamiche di potere e dall’esito dei conflitti, e in cui invece è pressoché inevitabile ritrovare – per l’occhio cinico del realista – l’ennesima conferma della pervasività della politica, e cioè proprio di quella «lotta per il controllo dell’uomo da parte dell’uomo», che «è alle origini di tutte le cose umane».

Come ho tentato di argomentare sinteticamente, è infatti proprio la consapevolezza ‘realista’ sulla pervasività della politica a indebolire l’ipotesi che la scienza del ‘politico’ possa e debba attingere in modo significativo alle discipline che studiano l’«animale uomo». In primo luogo ritengo che rimangano pienamente valide molte delle classiche

83 Ibi, pp. 195-196.

41

obiezioni che – ribadendo il carattere di «scienza dello spirito» proprio degli studi politici – mettono in discussione l’utilità dell’etolologia o della sociobiologia per spiegare fenomeni sostanzialmente ‘culturali’. Ma, in secondo luogo, penso anche che il ricorso alle scienze dell’«animale uomo» rischi di rivelarsi improduttivo proprio laddove quelle discipline sembrano offrire un contributo particolarmente prezioso al realismo politico, ossia quando paiono poter fornire nuove basi scientifiche alla classica immagine realista dell’essere umano come animale ‘inevitabilmente’ conflittuale e aggressivo. Se è quasi inevitabile riconoscere un’indiscutibile potere di suggestione alle ipotesi che indagano le radici del comportamento aggressivo della «scimmia nuda» e che fanno risalire a tali radici l’elaborazione delle primigenie forme di organizzazione politica, è però indispensabile anche riconoscere il rischio cui tali operazioni espongono: un rischio che non consiste tanto nella seduzione del ‘determinismo’ biologico, quanto, più propriamente, nella costruzione di modelli esplicativi che, nel tentativo di trovare le radici più profonde delle regolarità della politica, finiscono in realtà proprio con lo smarrire ciò che caratterizza in modo specifico il ‘politico’. Per quanto l’etologia ci dimostri che il conflitto e l’aggressione intraspecifica non sono comportamenti esclusivi dell’uomo, non possiamo infatti in alcun modo dimenticare che solo nel conflitto intraspecifico umano emerge il paradosso in cui possiamo per molti versi riconoscere il cuore più misterioso del ‘politico’: il paradosso per cui il nemico viene implicitamente riconosciuto come ‘uguale’, ossia come ‘umano’, e per cui al tempo stesso esso viene rappresentato come qualitativamente ‘diverso’, come qualcosa di equivalente a un ‘animale’, o come ‘sotto-umano’, o come un essere umano modificato, alterato, ‘deumanizzato’ per effetto di potenze malefiche.

È molto probabile che la paradossale configurazione del ‘politico’ scaturisca da quella specifica differenza che distingue l’essere umano da ogni altra specie animale, ossia dal fatto che l’uomo – a differenza di ogni altro essere vivente – è consapevole del proprio carattere mortale. «Ogni vivente è finito e mortale», scrive in questo senso Silvano Petrosino riprendendo Heidegger, «ma solo l’uomo sa con estrema lucidità di esserlo: l’uomo sa di essere finito e mortale, e questo sapere lo accompagna lungo tutto il suo vivere, abita ogni istante del suo presente, ponendolo di conseguenza con insistenza e continuamente di fronte all’urgenza di dividere»84. Proprio una simile consapevolezza induce l’essere umano, in ogni momento della vita, a proteggersi da possibili rischi, a calcolare, a pianificare, a organizzare, a ottimizzare le proprie risorse, e cioè a mettere in forma tutti quegli strumenti che abitualmente associamo all’esistenza di una comunità ‘politica’, con l’obiettivo di allontanare il più possibile il concreto approssimarsi del limite destinato comunque a concludere l’esperienza terrena di ogni essere vivente. Ma, probabilmente, è questa stessa

84 S. PETROSINO, Elogio dell’uomo economico, Vita e Pensiero, Milano, 2013, p. 27.

42

consapevolezza a indurre l’uomo anche a elaborare quella specifica strategia che contrassegna il ‘politico’, e che consiste nella costruzione di confini (simbolici ben prima che materiali) capaci non tanto di separare concretamente l’amico dal nemico, quanto di distinguere ‘qualitativamente’ l’uno dall’altro, e dunque di rendere moralmente legittima l’uccisione fisica del nemico.

Forse, approfondendo l’esplorazione del paradosso per cui il nemico è percepito come ‘umano’ e al tempo stesso rappresentato come ‘disumano’, ‘inumano’ e persino ‘animale’, si potrebbero seguire fino al punto di origine le tracce della connessione fra ‘sacro’ e ‘politico’85. Ma – al di là di una simile questione, che non può essere affrontata in questa sede – è comunque possibile riconoscere il prezioso contributo che in tale direzione offrono le importanti ipotesi di Giorgio Agamben, secondo cui «la produzione di un corpo biopolitico» costituisce «la prestazione originale del potere sovrano»86, perché esse hanno il merito di evidenziare come la decisione sovrana – la decisione che produce la nuda vita come elemento politico originario – sia, più che una decisione che fissa un confine tra dentro e fuori, un atto che stabilisce una soglia fra «natura» e «cultura», tra zoé e bios, tra vita animale e vita qualificata effettivamente ‘umana’87. Ciò che più importa sottolineare in questa sede riguarda però – prima ancora che la ricostruzione genealogica del dispositivo – il fatto che in questo senso il ‘politico’ non ha a che vedere con qualcosa di effettivamente ‘naturale’, perché la «natura» che entra in gioco nella distinzione fra bios e zoè è costruita ‘culturalmente’ (oltre che, com’è ovvio, politicamente). In altri termini, le logiche che mirano a produrre la «nuda vita», e dunque a stabilire una soglia tra ‘uomo’ e ‘animale’, tra bios e zoè, costruiscono ‘culturalmente’ la «natura», nonostante esse finiscano col configurare una determinata concettualizzazione ‘culturale’ del reale come una «seconda natura» (che certo porta con sé un ben determinato marchio politico). Fino al punto che – come scriveva Eibl-Eibesfeldt – i nuovi concetti diventano davvero «una realtà soggettiva», e che «gli uomini credono a quanto è scolpito nelle loro strutture mentali».

Ma è proprio dinanzi al carattere ‘politico’ della «natura», o meglio dinanzi al fatto che la distinzione fra bios e zoé è il risultato di una costruzione politica, che affiora il ‘corto circuito’ nascosto al cuore di

85 Per un minimo approfondimento di questo aspetto, rinvio alle considerazioni svolte in Il realismo politico e la natura umana, cit.

86 G. AGAMBEN, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino, 1995, p. 9.

87 Per un’articolazione di questa ipotesi, cfr. in particolare G. AGAMBEN, Mezzi senza fine. Note sulla politica, Bollati Boringhieri, Torino, 1996, ID., Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone, Bollati Boringhieri, Torino, 1997, ID., Stato di eccezione, Bollati Boringhieri, Torino, 2003, ID., Il sacramento del linguaggio. Archeologia del giuramento, Laterza, Roma – Bari, 2008. Attorno alle intuizioni di Agamben e al suo intero progetto «homo sacer» l’interesse è notevolmente cresciuto negli ultimi anni, e una panoramica dei motivi di interesse offerti dal lavoro del filosofo è presentata per esempio da C. SALZANI, Introduzione a Giorgio Agamben, il melangolo, Genova, 2013.

43

ogni progetto che si ispiri al realismo politico: il ‘corto circuito’ per cui il riconoscimento dell’uomo come essere ‘naturalmente’ conflittuale viene a confliggere con la consapevolezza della pervasività del ‘politico’. E proprio per questo allora, ogni volta che si conducano fino alle estreme conseguenze le ipotesi al fondo del progetto realista, non può che tornare a riaffiorare una sconcertante aporia. Un’aporia per cui, da un lato, il realismo politico punta a far discendere la propria comprensione delle «regolarità» della politica da una conoscenza ‘realistica’ della natura umana e dunque dalla capacità di scandagliare i più recessi dell’animo umano fino a scoprirne l’incancellabile residuo primordiale. Mentre, dall’altro, non può che riconoscere costantemente l’inarrestabile pervasività del ‘politico’, non può cioè non riconoscere ogni volta che tutti i concetti politici sono concetti polemici, e che il ‘politico’ plasma sempre il modo di concepire la realtà e di intendere la distinzione fra uomo e animale, oltre che lo stesso modo di concepire e rappresentare la «natura umana». Così, come voleva Morgenthau, nonostante la pretesa di scandagliare gli oscuri recessi della natura umana con il bisturi della razionalità più oggettiva, «l’irrazionalità dell’agire umano non può che riflettersi sulla natura, sulla società e sulla conoscenza che abbiamo di entrambe». E proprio per questo, la ricerca sul dominio dell’uomo non può che poggiarsi problematicamente sulla magmatica superficie di relazioni di potere inevitabilmente mutevoli. Senza poter mai conseguire una conoscenza della «natura umana» non geneticamente plasmata dai calcoli del potere, e senza poter mai davvero conquistare il «punto archimedico» da cui decifrare gli enigmi dell’«animale uomo».