IL DISTURBO POST TRAUMATICO DA STRESS · salotto, ne esce impoverita ed offesa nella propria...

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IL DISTURBO POST TRAUMATICO DA STRESS NELLA PARTICOLARE ACCEZIONE DEI TRAUMI DA CONFLITTO ARMATO INDICE Introduzione: perché questa tesi? Capitolo 1 DEFINIZIONE: cos’è il disturbo post traumatico da stress? CENNI STORICI LE IPOTESI NEUROBIOLOGICHE E PSICOLOGICHE I PENSIERI INTRUSIVI LE TERAPIE POSSIBILI debriefing, teorie cognitive, EMDR, supporto sociale Capitolo 2 IL DISTURBO POST TRAUMATICO DA CONFLITTO ARMATO: l’esperienza di Mollica nei campi profughi cambogiani Capitolo 3 L’ESPERIENZA PALESTINESE: cos’è possibile fare per arginare i danni quando il conflitto è ancora in corso? quali sono le iniziative ed i possibili primi risultati in terra di Palestina. Conclusioni e ringraziamenti Bibliografia

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IL DISTURBO POST TRAUMATICO DA STRESS NELLA PARTICOLARE ACCEZIONE DEI

TRAUMI DA CONFLITTO ARMATO INDICE Introduzione: perché questa tesi? Capitolo 1 DEFINIZIONE: cos’è il disturbo post traumatico da stress? CENNI STORICI LE IPOTESI NEUROBIOLOGICHE E PSICOLOGICHE I PENSIERI INTRUSIVI LE TERAPIE POSSIBILI debriefing, teorie cognitive, EMDR, supporto sociale Capitolo 2 IL DISTURBO POST TRAUMATICO DA CONFLITTO ARMATO: l’esperienza di Mollica nei campi profughi cambogiani Capitolo 3 L’ESPERIENZA PALESTINESE: cos’è possibile fare per arginare i danni quando il conflitto è ancora in corso? quali sono le iniziative ed i possibili primi risultati in terra di Palestina. Conclusioni e ringraziamenti Bibliografia

INTRODUZIONE

Perché una tesi sulla sindrome post traumatica da conflitto?

Perché come in tutti coloro che hanno scelto di partecipare a questo master, anche per

me c’è “qualcosa che grida dentro”.

Consapevole dei limiti della mia cultura in campo politico ed economico, vorrei però

esprimere alcune opinioni.

Nonostante le contraddizioni e gli egoismi della propria vita personale, anch’io, come

molte persone, provo il desiderio di costruire qualcosa di buono, di denunciare ciò

che è ingiusto, di non arrendersi al male, di contribuire al bene. Questo desiderio di

solidarietà con tutta l’umanità e di giustizia corre il rischio di essere soffocato

dall’eccessivo benessere e dal materialismo che appannano le nostre coscienze e su

cui si fonda il nostro sistema economico. L’”Occidente” è dunque costituito da una

piccola parte della popolazione mondiale che, come in una moderna schiavitù, vive

riccamente schiacciando i paesi più poveri. Ma tale ricchezza è un veleno: nel terzo

mondo le persone muoiono di fame , noi moriamo “dentro”.

Sono molte le situazioni ed i problemi che rivelano questo iniquo gioco di potere fra

paesi più ricchi e paesi più poveri: l’immigrazione, l’estrema povertà che affama

milioni di persone, l’emergenza sanitaria dell’Aids,con i relativi interessi economici

delle case farmaceutiche, ed anche le guerre. Ogni guerra spacciata dai

potenti/prepotenti del mondo come giusta, doverosa, “pulita” (perché combattuta con

missili e bombe intelligenti che sanno risparmiare la popolazione civile!) o come

“uno degli strumenti a disposizione della politica”(*) è una offesa a tutta l’umanità.

Tutta l’umanità, anche quella di chi vi ha solo assistito seduto nella poltrona del

salotto, ne esce impoverita ed offesa nella propria crescita verso la maturità, la

giustizia, la coscienza di sé. *lo sosteneva lo stratega e teorico militare prussiano Carl von Clausewitz nel XIX secolo

Un tempo gli esiti di un conflitto armato si valutavano misurando delle cose o dei

numeri: case distrutte, numero di morti o feriti, derrate alimentari e finanziamenti

necessari per poter ricostruire.

Porre l’attenzione sui danni psicologici che queste violenze creano, significa misurare

qualcosa di più impalpabile che è la felicità, il dolore, l’anima. Ogni singola persona,

sia vittima che carnefice, che rimane coinvolta in un conflitto armato ne riporta ferite

interiori indelebili. Prendere finalmente in considerazione i disastrosi effetti delle

guerre sulla salute mentale dei civili (bambini segnati per sempre, affetti devastati,

menti sconvolte dall’orrore) può contribuire a rendere sempre più arduo giustificare

tutta questa sofferenza innocente per un fine falsamente ritenuto superiore. In tal

senso la cultura lo studio e questa piccola tesi possono porsi al servizio di un valore

che è la ricerca della pace, e ciò sia mettendo in evidenza quanto male si accompagna

alla guerra, sia affinando i metodi di intervento sulle vittime, per poter estinguere la

fiamma dell’odio e ricostruire veramente la pace su basi più solide.

CAPITOLO 1

DEFINIZIONE cos’e’ il disturbo post traumatico da stress?

L’insieme di segni e di sintomi tipici che seguono l’esposizione ad un fattore

traumatico estremo prende il nome di Disturbo Post Traumatica da Stress (DSM-IV-

TR)(1). E’ una delle patologie psichiatriche in cui l’agente eziologico deve essere per

definizione esterno, ma ovviamente anche la vasta gamma delle reazioni individuali

gioca un ruolo fondamentale. Per evento traumatico si intende una situazione di

particolare gravità che può coinvolgere una collettività o il singolo individuo: conflitti

armati, disastri naturali o tecnologici, incidenti con qualsiasi mezzo di trasporto,

oppure violenze personali o a persone care quali torture, stupri, rapine, tentati

omicidi, o ancora situazioni di emergenza sanitaria come ictus o infarti nelle quali il

soggetto è improvvisamente in grave pericolo di vita e deve essere trattato in terapia

intensiva (2).

Esistono diverse definizioni di questo disturbo, ho scelto quella del DSM-IV-TR con

i relativi criteri esplicativi:

Criterio A: La persona è stata esposta ad un evento traumatico nel quale erano

presenti entrambe le caratteristiche seguenti:

1 la persona ha vissuto, assistito o si è confrontata con eventi implicanti morte o

minaccia di morte o lesioni gravi proprie o di propri cari

2 la risposta della persona comprendeva paura intensa sentimenti di impotenza o di

orrore. Nei bambini la risposta si può esplicare in comportamento agitato o

disorganizzato.

Criterio B: l’evento traumatico viene rivissuto persistentemente in uno o più dei

seguenti modi:

1 ricordi spiacevoli insistenti ed intrusivi sia sotto forma di immagini che di pensieri

o di percezioni. Nei bambini ciò si può esplicare con giochi ripetitivi in cui vengono

espressi temi o aspetti riguardanti il trauma.

2 sogni spiacevoli ricorrenti dell’evento. Nei bambini possono essere incubi senza un

contenuto riconoscibile.

3 agire o sentire come se l’evento traumatico si stesse ripresentando (ciò include

sensazioni di rivivere l’esperienza, illusioni, allucinazioni, episodi dissociativi di

flash-back, compresi quelli che si manifestano al risveglio o in stato di

intossicazione). Nei bambini piccoli ciò si può manifestare come rappresentazioni

ripetitive specifiche del trauma.

4 disagio psicologico intenso all’esposizione a fattori scatenanti interni od esterni che

simboleggiano o assomigliano a qualche aspetto dell’evento traumatico.

5 reattività fisiologica all’esposizione a fattori scatenanti interni od esterni che

simboleggiano od assomigliano a qualche aspetto dell’evento traumatico.

Criterio C: evitamento persistente degli stimoli associati con il trauma e attenuazione

della reattività generale, non presente prima del trauma, come indicato da tre o più

dei seguenti elementi:

1 sforzi per evitare pensieri, sensazioni o conversazioni associate con il trauma

2 sforzi per evitare attività, luoghi o persone che evocano ricordi del trauma

3 incapacità di ricordare qualche aspetto importante del trauma

4 riduzione marcata dell’interesse o della partecipazione ad attività significative

5 sentimenti di distacco o di estraneità verso gli altri

6 affettività ridotta come incapacità di provare sentimenti di amore

7 sentimenti di diminuzione delle prospettive future (aspettarsi di non poter avere un

matrimonio, una famiglia, una carriera, una normale durata di vita)

Criterio D: sintomi persistenti di aumentato arousal (non presenti prima del trauma),

come indicato da almeno due dei seguenti elementi:

1 difficoltà ad addormentarsi o a mantenere il sonno

2 irritabilità o scoppi di collera

3 difficoltà a concentrarsi

4 ipervigilanza

5 esagerate risposte di allarme

Criterio E: la durata dei disturbi deve essere superiore ad 1 mese

Criterio F: il disturbo causa disagio clinicamente significativo o menomazione nel

funzionamento sociale, lavorativo o di altre aree importanti.

Inoltre, nell’inquadramento diagnostico della malattia, è necessario porre dei criteri

cronologici osservando se il disturbo sia:

acuto, nel caso che la durata dei sintomi sia inferiore a 3 mesi,

cronico, se uguale o superiore a 3 mesi,

ad esordio ritardato, se compare almeno 6 mesi dopo l’evento stressante.

Famigliarità: ci sono dati a favore di una componente ereditabile; è documentata un’aumentata vulnerabilità se c’è una storia di depressione in parenti di I° grado. CENNI STORICI

Già Shakespeare in alcune sue opere narra di reazioni a shock gravi che

rappresentano una valida descrizione di DPTS. L’avvento dei mezzi di trasporto su

rotaia ed i primi disastrosi incidenti che ne seguirono nel XIX secolo, fecero

registrare casi di gravi ed apparentemente inspiegabili reazioni psicologiche che

furono grossolanamente attribuite a danni organici (“colonna vertebrale da ferrovia”

o “railway spine” o “malattia di Erichsen” che ne parlò per primo nel 1866

descrivendola come isteria traumatica, neurastenia, ipocondria o melanconia).

Successivamente nel 1878, il medico Eulemberg, sempre in riferimento a questi studi,

introdusse il concetto di “trauma psichico”. Il dibattito scientifico cu questi temi si

arricchì delle osservazioni del chirurgo inglese Page, che distingueva i traumi fisici

da quelli psichici parlando di “shock nervoso”. Con la nascita della psichiatria

Oppenheim coniò il termine di “nevrosi post traumatica” nel 1892, Kraepelin, nel

Trattato di psichiatria del 1896, introdusse l’entità clinica della “nevrosi da

spavento”. L’avvento delle guerre mondiali, invece, fece balzare prepotentemente

all’attenzione della clinica le “nevrosi da guerra” (Kardiner 1969, questo medico fu

uno dei pionieri degli studi sui veterani dei conflitti già dopo la I° guerra mondiale)

per la vastità numerica dei casi e il cambiamento delle tecniche di combattimento.

Infatti, rispetto ai tradizionali scontri di fanteria o cavalleria, il I° conflitto mondiale

introdusse le tecniche della guerra di trincea, con le estenuanti attese sotto il pericolo

dei bombardamenti per mesi, e questo creava disagi psichici più gravi e nuovi, tanto

che i soldati che per primi manifestavano tali sintomi venivano trattati da disertori.

Inizialmente si parlò di “shock da granata”, ma poi si notò che anche i soldati non

esposti a queste esplosioni manifestavano sintomi analoghi. Il concetto di nevrosi da

guerra si affacciò con tale evidenza agli occhi del mondo medico che meritò di essere

trattato in uno dei primi congressi di psichiatria dopo la Grande Guerra del ’15-’18.

Durante la Seconda Guerra Mondiale, gli operatori della salute mentale furono

coinvolti maggiormente nella cura dei soldati e si svilupparono concetti come la

“sindrome post traumatica” (Kardiner 1941) e, di nuovo, “la nevrosi da guerra”

(Grinker e Spiegel 1943). Kardiner riconobbe che la sindrome comprendeva

irritabilità, accessi di aggressività, soprassalti eccessivi a stimoli esterni e

polarizzazione sull’evento traumatico. Successivamente ed in maniera sempre più

rapida, altri esperti iniziarono a riconoscere costellazioni di sintomi nei civili

sottoposti a stress acuti, sintomatologie simili a quelle dei soldati in guerra.

Il sanguinoso conflitto vietnamita focalizzò l’attenzione della psichiatria statunitensi

sui devastanti effetti della guerra sulla salute mentale dei reduci americani. Si iniziò a

parlare di Disturbo Post Traumatico da Stress (Figley, 1978). Yule osserva (3) che la

concettualizzazione di un disturbo psichiatrico nasce anche dal contesto sociale di chi

lo osserva: se il conflitto vietnamita non fosse stato così controverso e se la società

americana avesse accolto da eroi i suoi soldati, sicuramente ne avremmo osservato

una minore prevalenza e sarebbe stata data una minore attenzione a questo disturbo.

Gli studi cognitivistici di Horowitz contribuirono enormemente all’evoluzione

scientifica riguardo al DPTS che dal 1980 fu inserito nel DSM, prima il III, poi il

IIIR, IV (1994) ed infine il IV-TR (2002) e nell’ICD 10 dell’OMS (1992).

LE IPOTESI NEUROBIOLOGICHE E PSICOLOGICHE PER SPIEGARE

QUESTA MALATTIA.

IPOTESI NEUROBIOLOGICHE

Da Yule (3) impariamo che esistono due approcci fondamentali per studiare e

spiegare come e con quali meccanismi neuronali vengano elaborate le informazioni

nei pazienti affetti da DPTS; tali approcci tentano di spiegare i segni clinici tipici di

questa sindrome come l’esperienza di rivivere l’evento traumatico, l’ipervigilanza, le

esagerate risposte di allarme, i disturbi del sonno e le difficoltà a carico della

memoria e della concentrazione.

Essi sono:

1) il metodo neuropsicologico

2) il metodo neurochimico/neuroanatomico

1) Le tecniche neuropsicologiche tentano di trovare una correlazione tra il

comportamento umano e il funzionamento del cervello. Studiando il DPTS sono state

usati sia test neuropsicologici, standardizzati su individui portatori di danno

cerebrale, sia sperimentazioni teoriche, ideate sulla base di ipotesi da dimostrare.

I test: i neuropsicologi hanno mostrato particolare interesse per i disturbi della

memoria e dell’attenzione. Brenner e coll (4), somministrando il test di Wechsler

Memory Scale, dimostrarono la minore ritenzione verbale e visiva dei soggetti

veterani del Vietnam rispetto ai controlli costituiti da individui sani, a parità di Q.I.

Lo stesso autore verificò una minor ritenzione verbale, valutata con la Wechsler

Memory Scale Logical Memory, nei soggetti adulti vittime di abusi sessuali infantili

(5).

Le sperimentazioni su base teorica hanno invece esplorato la specifica memoria del

trauma. Sono stati usati a questo fine test di memoria esplicita ed implicita. La prima

è costituita dalla conscia ricostruzione della pregressa esperienza, la seconda riguarda

invece l’effetto delle esperienze passate sulle prestazioni successive ed è

generalmente studiata con metodiche diverse come il completamento di parole, la

scelta lessicale, etc. Per citare alcuni esempi degli studi fatti, si riportano questi

risultati:

-gli esperimenti su soggetti affetti da DPTS che richiedevano ai medesimi di

apprendere gruppi di parole a diversa risonanza emotiva (parole positive, neutre e

correlate al DPTS) e a riportarle in esercizi di completamento lessicale (memoria

implicita), verificarono la tendenza dei pazienti a riportare soprattutto i vocaboli

correlati al trauma subito (6)(7).

-relativamente alla memoria esplicita McNally e coll.(8) eseguirono studi su veterani

del Vietnam con o senza DPTS accertato e su soggetti normali, constatando che i

pazienti affetti da DPTS presentavano minore capacità di richiamare alla mente

specifici ricordi autobiografici rispetto ai controlli.

Ma abbiamo detto che oltre ai disturbi della memoria sono stati oggetto di studio

anche quelli dell’attenzione. Sempre nell’ambito degli studi neuropsicologici, il test

di Stroop (9) consiste nel far leggere al paziente parole di diverso impatto emozionale

scritte su cartoncini di differenti colori dovendo poi menzionare ad alta voce il colore

del cartoncino. L’esitazione nel leggere il colore traduce l’impatto emotivo nella

lettura della parola, le cui evocazioni soggettive costituiscono appunto interferenza.

Tali esperimenti hanno dimostrato che le parole strettamente associate ad eventi

traumatici producono interferenze maggiori nei soggetti traumatizzati a differenza

delle parole emotivamente non significative.

Ciò costituisce una possibile spiegazione nonché una prova dell’esistenza dei pensieri

intrusivi.

Tutto questo rinforza l’idea di Horowitz (10) secondo cui il materiale non

completamente elaborato, i ricordi correlati al trauma, rimangano in forma attiva

nella memoria. Sembra che le informazioni riguardanti gli eventi traumatici siano

prontamente accessibili nella mente e interferiscano con le normali attività dei

pazienti, anche quando questi cerchino intenzionalmente di evitarlo.

Sono stati eseguiti altri studi attraverso la metodica dei potenziali cerebrali evocati

per valutare l’alterazione selettiva dei meccanismi dell’attenzione.

I potenziali cerebrali evocati, più precisamente definiti potenziali evento relati

(ERPS) sono modificazioni che ricorrono all’interno dell’EEG spontaneo in relazione

a: stimoli fisici, processi psicologici, preparazione all’attività motoria. Sono stati

scoperti da Daves nel 1939 che riscontrò delle risposte negative molto ampie, di c.a.

100-200 msec, legate ad una stimolazione acustica. Gli ERPS rappresentano l’attività

sincrona di popolazioni di neuroni e possono essere classificati non solo rispetto ai

seguenti parametri: polarità (positiva o negativa), latenza (intervallo fra la

presentazione dello stimolo e la deflessione) e distribuzione (a seconda delle zone

dello scalpo in cui si presentano); ma anche in base alle componenti dei potenziali

stessi: precoci (entro 100 msec), intermedie (fra 100 e 200 msec), tardive (legate a

processi cognitivi, 200 e 1000 msec) e i PL o Potenziali corticali Lenti.

Tornando all’uso di questi ERPS nel DPTS, possiamo dire per esempio che nei test

eseguiti da Attias e coll. (11) i veterani Israeliani mostravano un aumento di latenza

in P3 dopo somministrazione di immagini relative alla guerra, questi aumentati

periodi di latenza correlavano positivamente con la scala “Intrusività” e

negativamente con la scala “Evitamento”, rispetto alla Impact of Event Scale.

L’interpretazione che è stata data a questi risultati è che i pazienti affetti da DPTS

necessitano di maggior tempo per elaborare e classificare le informazioni delle

immagini loro somministrate, sia neutre che evocative dei traumi subiti, rispetto ai

controlli. I dati suggeriscono inoltre che nei pazienti coesistono un’alterazione

dell’attenzione selettiva con un generale stato di ipersensibilità e questo si correla

positivamente, da un punto di vista clinico, con la difficoltà dei pazienti ad evitare i

ricordi spiacevoli relativi al trauma stesso.

La metodica dei potenziali cerebrali evocati essendo così oggettiva, può essere

utilizzata per valutare l’evoluzione del quadro clinico dopo il trattamento.

2) Approccio neurochimico e neuroanatomico.

Tutte le ricerche descritte nel paragrafo precedente dimostrano che i pazienti affetti

da DPTS presentano alterazioni nell’elaborazione cognitiva.

Noi sappiamo che essi dimostrano di aver anche alterazioni anatomiche a livello delle

ghiandole tiroide e surrenali, del sistema neurovegetativo e immunologico.

Concentriamo la nostra attenzione sulle alterazioni del SNC. Per spiegare come esse

si sviluppino da un punto di vista organico, sono stati studiati i sistemi di

neurorecettori e neurotrasmettitori nonché determinate aree cerebrali probabilmente

coinvolti nello stress ed in particolare nel DPTS. I meccanismi presi in esame sono

stati quelli della estinzione e sensibilizzazione cioè meccanismi di condizionamento

dello stimolo stressante mediati appunto da sistemi neurochimici. La

sensibilizzazione è un aumento nella probabilità di ottenere una risposta normalmente

provocata da uno stimolo biologicamente significativo in seguito alle ripetute

esposizioni a questo. L’estinzione o abitazione o assuefazione è il contrario, cioè

quando la ripetuta presentazione di uno stimolo determina una progressiva riduzione

ed un venir meno della risposta. E’ specifica per un determinato stimolo, non può

essere attribuita ad adattamento sensoriale o fatica muscolare. Entrambi sono tipi di

apprendimento non associativo, cioè dovute ad esposizioni ad un solo stimolo; hanno

un significato adattativo poiché in questo modo si ha la possibilità di trarre vantaggio

dalle regolarità statistiche dell’ambiente senza dover apprendere quali ambienti

specifici siano correlati ad eventi biologicamente significativi. Il condizionamento

invece è un apprendimento associativo perché vengono appunto associati due eventi

in relazione fra di loro. E’ un esempio di condizionamento classico l’esperimento di

Pavlov con i cani: associazione nel cane fra luce ( prima con esposizione al cibo, poi

senza) e salivazione, mentre Skinner sperimentò il condizionamento operante per

prove ed errori.

In particolare è stata presa in considerazione l’estrema reattività psicofisiologica dei

pazienti ai ricordi del trauma. Essa è stata spiegata con il meccanismo della

sensibilizzazione comportamentale agli stimoli stressanti, sviluppata dai pazienti in

seguito al trauma.

Una gamma di stimoli stressanti può determinare un aumento della funzione

noradrenergica cerebrale a livello del Locus Coeruleus, dell’Ipotalamo,

dell’Ippocampo, dell’Amigdala fino alla Corteccia Cerebrale. Alla luce di questo si è

ritenuto che molti sintomi del DPTS siano appunto dovuti ad un ipertono

noradrenergico (12). Su questa stessa linea possiamo citare gli studi eseguiti sul

consolidamento della memoria, secondo cui l’aumento dei livelli di arousal

corrisponde anche all’aumento dei livelli di noradrenalina. Questo neurotrasmettitore

ha dimostrato di avere una relazione ad U invertita con il consolidamento della

memoria, cioè livelli sia molto alti che molto bassi interferiscono con il meccanismo

di immagazzinamento delle informazioni creando una situazione di iperamnesia o di

ipersensibilità relativamente alle informazioni connesse con il trauma. Infatti lo stato

emozionale ha una forte influenza nell’imprimere i ricordi, ed un’associazione

stimolo e risposta appresa in una condizione di iperemotività non si dimentica

(13)(14).

Per elevata reattività psicofisiologica di questi pazienti si intende che, per esempio, se

essi ascoltano stimoli audiovisivi registrati correlati al trauma possono essere

osservate alterazioni nei parametri fisiologici come la pressione sanguigna, la

frequenza cardiaca e la risposta di conduttanza cutanea, e che inoltre tale

iperreattività risulta diminuita al termine di un intervento psicoterapeutico efficace.

In tal modo la clinica trova suffragio dai dati di laboratorio: i ricordi di un trauma

sono sempre correlati ad una forte emozione. A sua volta la risposta emozionale,

ovvero l’emozione, è innescata a livello neuronale principalmente dal Sistema

Nervoso Simpatico e dalla sua produzione noradrenergica le cui modificazioni

durante lo stress condizionano le risposte dell’individuo alla successiva esposizione a

fattori che ricordano lo stress subito. Questi fattori, di per sé precedentemente neutri

per la persona, diventano stimolo condizionato ovvero doloroso a cui si associa un

elevato arousal fisiologico. Inoltre le caratteristiche sgradevoli dei ricordi traumatici

possono agire impedendo il riemergere di tali ricordi e mantenendo i pazienti lontani

da qualsiasi attività che permetterebbe loro di abituarsi o desensibilizzarsi ai

medesimi. Questo fenomeno può essere definito fallimento dell’elaborazione

emozionale (15) che comporta appunto disturbi emozionali. Invece quando si realizza

un’efficace rielaborazione i ricordi vengono assimilati e diminuiscono fino al punto

che altre esperienze e comportamenti possono susseguirsi senza interruzioni. Per

spiegare questo dal punto di vista neuroanatomico è stato suggerito (16)(17) che

un’iperattivazione noradrenergica (come quella che si verifica durante gli eventi

stressanti) sottopone alcune strutture del tronco encefalo, fra cui il Locus Coeruleus,

ad un minor controllo corticale inibitorio per cui queste strutture possono poi

presentare modificazioni sinaptiche. Proprio quest’ultime sarebbero causa di una

ridotta capacità di abituarsi, sia per l’apprendimento di nuovi concetti sia per la

capacità di discriminare.

Esistono altre sostanze neurotrasmettitrici messe in relazione con il DPTS; oltre alla

noradrenalina è citato infatti l’aumento di dopamina, in condizioni di stress acuto, a

livello della corteccia prefrontale mediana. Tale aumento si verifica sia

nell’esposizione a stress ripetuti sia nell’assunzione ripetuta di anfetamine. Il sistema

dopaminergico prefrontale è coinvolto in funzioni cognitive superiori come l’attività

mnemonica e l’attenzione, e quindi potrebbe essere coinvolto nei segni di

ipervigilanza presentati dai pazienti con DPTS, attraverso le sue connessioni con

Amigdala, Corteccia Entorinale e Locus Coeruleus.(12)(17)

L’Amigdala e l’Ippocampo costituiscono il Sistema Limbico che già era stato

individuato da Papez nel 1937 (18) come sede del comportamento motivato e delle

emozioni.

Soprattutto l’Amigdala, che presenta anche ricche connessioni con diversi sistemi

sensitivi ed è altamente correlata con il Sistema Nervoso Simpatico, gioca un ruolo

molto importante per quel che riguarda la valutazione emozionale degli stimoli in

entrata ed anche con le risposte ai fattori sensoriali che ricordino il trauma subito(12).

Lesioni al livello di tale organulo modificano infatti le risposte ai ricordi dal forte

significato emozionale, come per esempio l’evitamento inibitorio o l’eccessiva

reazione d’allarme(19)(20)(21)(22). Analogo risultato si ottiene con gli antagonisti

del neurotrasmettitore N-metil-D-aspartato (NMDA) i cui recettori si trovano appunto

a livello dell’Amigdala(12). Secondo LeDoux (22) le connessioni tra Talamo ed

Amigdala sono responsabili di rapide reazioni a stimoli stressanti, mentre si sostiene

che le connessioni tra Talamo Corteccia ed Amigdala siano alla base di reazioni più

lente favorenti paure più complesse.

A sua volta l’Ippocampo è correlato a varie funzioni cerebrali, fra queste

l’elaborazione spazio temporale. Si ritiene che il sistema Settoippocampale (costituito

da Ippocampo e Setto, Talamo Ventrale e Corteccia Cingolata) sia coinvolto nella

valutazione di eventi correlati dal punto di vista spazio-temporale appunto,

confrontandoli con le nozioni immagazzinate precedentemente e mettendoli in

relazione attraverso fattori quali ricompensa-non ricompensa-punizione o novità (23).

La lenta maturazione dell’Ippocampo, che non è mielinizzato sino al terzo quarto

anno di età, è ritenuta la causa dell’amnesia infantile(24)(25). Inoltre, considerando

che la risposta dell’organismo agli stress acuti comporta l’iperproduzione di

glicocorticoidi, è stata studiata la relazione tra Ippocampo e cortisolo. L’Ippocampo

presenta infatti due tipi di recettori, sia per i mineralcorticoidi che per i

glucocorticoidi, che normalmente sono occupati per il 70% i primi e per il 10% i

secondi dal cortisolo. Quest’ultimo aumenta nelle situazioni di stress arrivando ad

occupare per l’70% i recettori mineralcorticoidi e per il 80% quelli glicocorticoidi.

Questa sovraoccupazione dei recettori per i glucocorticoidi da parte del cortisolo

sopprime l’eccitabilità neuronale ippocampale e così interferisce con il

Potenziamento a Lungo Termine, uno dei meccanismi alla base della formazione

della memoria. Il PLT infatti sopprime a sua volta un’area cerebrale responsabile

della codificazione spazio temporale e ciò spiega come mai i ricordi associati ad

esperienze traumatiche sono percepiti come senza tempo e senza confini. Infatti

quando vengono scatenati in risposta a stimoli interni ed esterni si presentano come

molto vivi e attuali per coloro che soffrono di DPTS. Sappiamo che la risposta agli

stress coinvolge il Sistema Nervoso Simpatico che produce, attivandosi a livello

surrenale, adrenalina noradrenalina e cortisolo e che è altamente correlato all’attività

dell’Amigdala. Sappiamo anche che le connessioni tra Amigdala, Locus Coeruleus,

Ippocampo e Neocorteccia Temporale sono state indicati come base

anatomofisiologica del meccanismo della memoria(26). Alla luce di questo si può

dire che l’aumentata innervazione noradrenergica causata da grave stress che

determina un potenziamento a lungo termine delle suddette vie può essere considerata

il correlato biologico dei flash back e degli incubi.

Charney e collaboratori(12) propongono questo modello per lo sviluppo del DPTS:

il trauma originale porta all’attivazione della noradrenalina, a livello del Locus

Coeruleus, dell’Ippocampo, dell’Amigdala, dell’Ipotalamo e della Corteccia

Cerebrale generando ansia, paura, irritabilità, iperarousal e predisposizione alla

reazione di “fight or flight”. Si riscontra anche un aumento di dopamina a livello

della Corteccia Frontale con l’attivazione dei neuroni dopaminergici a livello

Mesocorticale e le possibili conseguenze di questa attivazione le abbiamo citate

poc’anzi nei termini di alterazioni della memoria ed ipervigilanza successive al

trauma. Inoltre si verifica un aumentato rilascio di oppioidi nella Corteccia e

nell’Amigdala che sarebbe responsabile sia dell’analgesia percepita dal paziente al

momento dell’evento traumatico (analgesia che permette la sopravvivenza all’evento

stesso) sia del successivo offuscamento emozionale che si verifica nel DPTS (a

questo proposito McIvor(16) osserva che l’automedicazione con oppioidi è la più

comune forma di abuso nei pazienti affetti da DPTS). Infine, per quel che riguarda i

disturbi del sonno di questi pazienti, sempre McIvor li ha correlato con il

coinvolgimento, nell’evento traumatico, anche del Locus Coeruleus che è sede della

regolazione fisiologica del sonno.

Emisferi cerebrali e lateralizzazione: Esiste una quantità di evidenze in letteratura a

favore di una specializzazione degli emisferi specialmente per le emozioni. Per cui è

documentata una maggiore sensibilità dell’emisfero destro nell’elaborazione delle

informazioni a maggior significato affettivo.

Si ritiene come già precedentemente scritto, che l’Amigdala medi il condizionamento

allo stimolo stressante e la risposta “fight and flight”.

A riprova del ruolo chiave di questa struttura sta il fatto che è collegata al Tronco

Encefalo in particolare ad uno dei suoi nuclei responsabile della reazione di sorpresa .

Bremner e collaboratori dimostrarono nel 1996 (29) la lateralizzazione asimmetrica a

livello dell’Ippocampo in 26 veterani del Vietnam rispetto a 22 controlli

opportunamente scelti; in particolare l’Ippocampo destro risultava più piccolo in

volume nella misura dell’8% rispetto ai controlli, e questa differenza non era presente

nelle altre aree cerebrali prese in considerazione come riferimento. Con la prudenza

che la scienza richiede, nonostante l’apparente ovvietà, bisogna asserire che tale

studio porta a due conclusioni possibili:

-che le minori dimensioni dell’Ippocampo fossero presenti anche alla nascita

costituendo una predisposizione allo sviluppo del DPTS, oppure

-che i gravi traumi subiti, attraverso l’aumentato rilascio di glucocorticoidi e di altri

neurotrasmettitori, possano aver danneggiato l’Ippocampo diminuendone il volume,

benché non sia chiaro il meccanismo.

Oltre a ciò in un altro studio il medesimo autore nel 1995 (5) verificò una riduzione

volumetrica ippocampale sinistra del 12% in 17 pazienti vittime di abusi sessuali

infantili rispetto ai campioni attentamente scelti.

Altre interessanti osservazioni riguardano lo studio con la tomografia ad emissione di

positroni (PET) eseguito su pazienti sofferenti di DPTS e sottoposti durante

l’esecuzione dell’esame all’ascolto di un racconto che ricordava il trauma subito. La

PET riportò un significativo aumento del flusso sanguigno cerebrale regionale nelle

strutture limbiche e paralimbiche di destra; inoltre l’Amigdala e la Corteccia visiva

secondaria (Area 18 di Brodmann) risultarono altamente attivate. Si riscontrò invece

una diminuzione significativa del flusso sanguigno a livello della Corteccia

Temporale inferiore e nell’area di Broca, una regione dell’emisfero di sinistra ritenuta

responsabile della costruzione di esperienze semantiche. Ciò si accorda con il fatto

che i pazienti affetti da DPTS hanno difficoltà a ricostruire cognitivamente le loro

esperienze traumatiche ed inoltre ciò dimostrerebbe che i ricordi traumatici vengono

codificati in modo differente rispetto ai ricordi di eventi ordinari, probabilmente a

causa dell’alto grado di arousal emozionale che accompagna tali eventi. Invece il

verificato aumento del flusso sanguigno a livello della Corteccia visiva secondaria,

durante la presentazione delle immagini traumatiche, suggerisce che l’attivazione

delle strutture cerebrali sensitive potrebbe essere la causa dei fenomeni di

“riesperienza” nel DPTS.

A proposito delle immagini del trauma subito, si può dire che già nel 1889 Janet (31)

aveva suggerito che le intense reazioni emozionali conseguenti al trauma avessero

come risultato l’insorgenza di ricordi correlati all’evento, dissociati dalla coscienza e

immagazzinati come sensazioni viscerali o immagini visive pronte ad emergere in un

secondo momento come flashback e incubi accompagnati da sentimenti di ansia e

panico. Brown e Kulik nel 1977 coniarono il termine di ricordi “flash-bulb” per

esprimere il concetto che i ricordi, appunto, di eventi molto sconvolgenti rimangono a

lungo freschi e vividi nella memoria e hanno principalmente le caratteristiche di

ricordi non verbali. Sostennero inoltre che in casi di estrema gravità e sorpresa

l’intero sistema mnemonico può essere destrutturato portando all’amnesia

dell’evento.

Brewin nel 1996 (32) propose l’esistenza di due livelli nella memoria in cui può

collocarsi l’informazione del trauma:

-a livello dei ricordi accessibili verbalmente, per cui alla nostra coscienza si presenta

una ricostruzione dell’esperienza traumatica che può essere manipolata soprattutto

con il coinvolgimento dell’emisfero sinistro

-a livello dei ricordi scatenati da situazioni, che non sarebbero accessibili alla

coscienza e non possono essere ricostruiti o manipolati. I ricordi flash-back ne sono

una dimostrazione.

Le persone traumatizzate possono sperimentare il terrore di rimanere senza parole

(30), cioè l’incapacità di elaborare il grave stress subito cognitivamente, catturandolo

con parole e simboli e alleviando la propria sofferenza con il comunicare ad altri

quanto accaduto. Compito della terapia è anche favorire il processo di

verbalizzazione del ricordo per poterlo “metabolizzare” positivamente.

TEORIE PSICOLOGICHE

Tim Dalgleish nel 1999 (3) ha cercato di individuare quali sono le diverse linee di

pensiero su cui si fondano le spiegazioni razionali e gli approcci terapeutici al DPTS.

Secondo tale autore è necessario che tali teorie assolvano determinati requisiti.:

1. trovare una spiegazione ai 3 problemi fondamentali nel quadro clinico del

DPTS: l’esperienza di rivivere l’evento traumatico, l’iperarousal, i sintomi di

evitamento.

2. spiegare tutta la gamma di reazioni individuali al trauma: l’apparente assenza

di conseguenze emozionali, il DPTS acuto, il DPTS cronico e quello ad

insorgenza tardiva, ecc.

3. spiegare gli effetti della variabilità degli eventi, della storia premorbosa di

problemi psicologici, del supporto sociale, della tendenza ad attribuire

significati particolari agli eventi ed ad esprimere le proprie emozioni

4. considerare l’efficacia dei trattamenti basati sull’esposizione (42)

5. fornire un coerente modello psicologico entro il quale possano realizzarsi le

quattro condizioni precedenti

Sono diversi gli approcci teorici alla terapia del DPTS: psicodinamico (Freud, 1919),

teoria dell’apprendimento (Keane Zimmeriring e Caddell, 1985), quella

psicobiologica (Van der Kolk, 1988) e quella cognitiva (Horowitz, 1986).

Quest’ultima costituisce per il succitato autore, il metodo maggiormente esauriente.

Le teorie cognitive sono in realtà diverse, accomunate dall’idea che gli individui

vivono le esperienze traumatiche portando con sé un insieme di concetti e di modelli

precostituiti del mondo, degli altri e di sé. Tali rappresentazioni mentali sono il

prodotto delle precedenti esperienze individuali. L’evento traumatico fornisce

all’individuo un’informazione che da una parte è altamente significativa mentre

dall’altra è incompatibile con le sue concezioni preesistenti. Così a differenza di una

informazione non significativa, che il sistema cognitivo può facilmente ignorare, o

rispetto ad una informazione compatibile, che il sistema può facilmente assimilare,

quella correlata al trauma, altamente significativa ma incompatibile, non può essere

ignorata altrimenti genererebbe il caos psicologico per cui deve essere integrata.

Secondo le teorie cognitive è proprio questo tentativo di integrazione fra le precedenti

rappresentazioni mentali e le nuove informazioni che conduce ai diversi fenomeni

caratteristici del DPTS. Una risoluzione negativa si ha quando gli individui non sono

in grado di trovare questo accordo tra vecchie e nuove informazioni, di spiegarsi il

perché.

Horowitz è considerato il più autorevole studioso della sindrome di risposta allo

stress, in maniera molto schematica possiamo cercare di riportare la sua tesi.

Egli sostiene che il principale slancio all’interno del sistema cognitivo per

l’elaborazione delle informazioni deriva dalla tendenza al completamento, cioè dal

bisogno psicologico di far corrispondere le nuove informazioni con i modelli interni

basati su informazioni precedenti, e la revisione di entrambi sino al punto di trovare

un accordo. Questa tendenza al completamento consente alla mente di accordarsi con

la realtà presente, requisito essenziale per prendere decisioni efficaci e perché

l’individuo sia in equilibrio con l’ambiente. Horowitz ha sostenuto inoltre che dopo

aver subito un trauma, si verifica un iniziale crying out o reazione di stordimento,

seguito da un periodo di sovraccarico informativo, nel quale i pensieri, i ricordi e le

immagini del trauma non riescono a conciliarsi con gli schemi cognitivi preesistenti

ostacolando la tendenza al completamento. Come risultato Horowitz sostiene che un

certo numero di difese psicologiche entrano in gioco nel mantenere l’informazione

traumatica a livello inconscio e l’individuo sperimenta allora un periodo

caratterizzato da anestesia affettiva e negazione nei confronti dell’evento. Comunque

la tendenza al completamento mantiene le informazioni correlate al trauma in quella

che Horowitz definisce memoria attiva. E’ quest’ultima che permette che le

informazioni si facciano strada attraverso le difese e irrompano nella coscienza

attraverso flash back, incubi, pensieri intrusivi, non appena l’individuo cerca di

fondere le nuove informazioni con le concezioni preesistenti. Secondo Horowitz,

questo conflitto tra la tendenza al completamento da una parte e ed i meccanismi

psicologici di difesa dall’altra, fa sì che gli individui oscillino tra fasi caratterizzate da

intrusività e negazioni/anestesia affettiva. L’impossibilità ad elaborare

completamente le informazioni traumatiche fa sì che esse stazionino nella memoria

attiva sino a cronicizzate il DPTS. Questa teoria, fondata sui presupposti del

completamento, dell’intrusività e della negazione, pur presentando dei limiti,

possiede una notevole capacità esplicativa rispetto alla sintomatologia del DPTS e a

come esso possa cronicizzarsi, può spiegare inoltre l’efficacia dei trattamenti basati

sull’esposizione.

Nella figura successivamente riportata è schematizzata la sequela degli eventi

secondo Horowitz.

Risoluzione

positiva

EVENTO

TRAUMATICO

Crying out

o

reazione di

stordimento

Sovraccarico

informativo

Periodo di

oscillazione

tra

intrusività

ed

evitamento

Risoluzione

parziale o

cronicizzazione

del DPTS

I PENSIERI INTRUSIVI.

Questo argomento così importante per la DPTS mi è sembrato meritare un ulteriore

paragrafo di approfondimento.

Già da anni nell’ambito degli studi sulle reazioni ai traumi come per le nevrosi da

guerra (33) sono documentati i pensieri intrusivi che difatti costituiscono un sintomo

cardine del DPTS. Essi sono in realtà costituiti sia da immagini che da espressioni

verbali. Gli studi più approfonditi sull’argomento sono stati compiuti da Rachmann e

coll. oltre 20 anni fa (34) (35) (36) (37) (38) e descrivono sostanzialmente un quadro

di cognizioni intrusive che inaspettatamente si presentano all’attenzione, sia

caratterizzate da informazioni marcatamente negative (pensieri blasfemi o violenti)

sia piacevoli o quotidiane (sogni ad occhi aperti, fantasie sentimentali o le fantasie

che gli artisti chiamano ispirazione). Una definizione maggiormente esauriente viene

da Salkovskis: “Le cognizioni intrusive sono eventi della mente che vengono

percepiti come un’interruzione del flusso di coscienza e che catturano l’attenzione;

queste possono presentarsi sottoforma di pensieri verbali, immagini, impulsi o una

combinazione dei tre”.

Non si tratta di eventi volontari. Secondo Rachmann (15) i criteri di definizione sono:

1. deve essere presente la descrizione del soggetto di essere stato interrotto

durante un’altra attività dai pensieri intrusivi,

2. il pensiero, l’immagine o l’impulso vengono descritti dal soggetto come

provenienti dall’interno e difficilmente controllabili.

Quest’ultimo punto è importante per distinguere dalle allucinazione psicotiche dei

disturbi schizofrenici (situazione in cui, per esempio, il paziente riferisce che i

pensieri gli vengono inseriti esternamente da alieni).

Si sottolinea che le cognizioni intrusive si verificano anche nei soggetti normali della

popolazione sana: Rachman (37) riporta in un suo studio che quasi l’80% dei soggetti

non psicotici osservati mostrava pensieri intrusivi negativi come le ossessioni dei

pazienti affetti da disturbo ossessivo compulsivo. Invece altri autori enfatizzano il

concetto che i pensieri intrusivi possono anche essere piacevoli, come i bei ricordi, o

semplicemente neutri dal punto di vista emozionale..

Le cognizioni intrusive risultanti da uno stress sono ampiamente documentate. Gli

stress possono anche essere indotti, come la visione di film con scene di forte

violenza, possono far parte di una normale esistenza per esempio (38) i pensieri e le

immagini intrusive di madri in ansia per l’intervento di tonsillectomia dei figli (“lo

vedevo sdraiato come un vegetale e non si rialzava dopo l’intervento”). E come già

detto possono esser il risultato di eventi particolarmente gravi. Lo studio Solomon

(39) documentava la presenza di scene e pensieri ricorrenti nei soldati israeliani nel

primo anno dopo l’evento traumatico. E’ dimostrato che le immagini sono più

ricorrenti delle cognizioni verbali. Distinguere fra questi due tipi di ossessioni, visiva

o verbale, risulta importante ai fini della scelta terapeutica: si ritiene che terapie

basate sull’esposizione dovrebbero essere più adeguate a trattare le immagini

intrusive, mentre un approccio cognitivo lo sarebbe per le cognizioni verbali. E’

interessante puntualizzare che esiste una minoranza di situazioni in cui altri sensi,

oltre alla vista, sono coinvolti nel fenomeno dei pensieri intrusivi, alcuni pazienti

infatti, vittime di gravi incidenti stradali, riferiscono di udire lo schianto e il rumore

delle lamiere che si accartocciano, oppure l’odore del gasolio ed il suo sapore in

bocca.(3)

Come reagiscono le persone ai pensieri intrusivi?

Innanzitutto si osserva che i pazienti reagiscono diversamente: generalmente sono

fenomeni molto angoscianti, ma lo stesso grado di sofferenza che si associa a queste

ossessioni è diverso fra paziente e paziente ed inoltre esistono persone che riescono a

sopportarne il peso dissociando la componente emotiva. Comunque la risposta più

comune alle cognizioni intrusive è il tentativo di allontanarle distraendosi. Altre

forme di difesa sono costituite dall’evitare qualsiasi situazione che ricordi l’episodio

doloroso (evitare di percorrere il tragitto in auto dove si è verificato l’incidente,

evitare i programmi di disastri o violenze, evitare di parlare del trauma!).

E’ stata comunque descritta una generale diminuzione della frequenza delle

cognizioni intrusive con il passare del tempo (39).

Ma oltre ai ricordi strettamente correlati all’evento traumatico, esistono anche altre

forme di intrusività che aggiungono sofferenza ai pazienti affetti da DPTS, si tratta

propriamente di pensieri, riflessioni domande su quanto accaduto che si presentano in

maniera ossessiva anche perché sono senza risposta. Padmal de Silva e Melanine

Marks (3) li distinguono in 3 categorie:

cognizioni intrusive legate alla minaccia del pericolo (“sono al sicuro? Posso uscire

di casa? Se muoio cosa accadrà ai miei figli?”)

idee negative riguardanti il soggetto (“sono una persona sporca. Sono iellato”)

pensieri e interrogativi sul significato dell’evento (“doveva proprio succedere? È stata

colpa mia? Perché proprio a me?”)

Secondo i sopra menzionati autori, questa tipologia di cognizioni intrusive è

tipicamente correlata al DPTS sebbene sia sottostimata da molti clinici e non rientri

nei criteri diagnostici del DSM IV. Essi hanno seguito il caso di una giovane donna

vittima di incidente stradale che non presentava assolutamente memoria dell’evento

in sé, piuttosto era tormentata da interrogativi come quelli riportati (“doveva

succedere proprio a me? Sarò in grado di tornare a vivere normalmente?”) e

soddisfaceva per il resto gli altri indicatori diagnostici del DPTS.

Nell’ambito della sintomatologia dei pensieri intrusivi è stato distinto il fenomeno

delle cognizioni compulsive. Tale definizione si ricollega volutamente al quadro dei

disturbi ossessivi compulsivi perché il paziente si vede costretto a “dover compiere”

azioni rituali. La caratteristica fondamentale di tali sintomi è appunto l’impellente

necessità di mettere in atto questi comportamenti con forma e contenuti precostituiti,

non modificabili e che disturbano il pensiero del soggetto. Ma a differenza dei

pazienti affetti da disturbo ossessivo compulsivo, tali pensieri non sono mai

inappropriati o privi di senso, si collegano a specifiche esperienze vissute, il ricordo

di tali esperienze, più che le compulsioni stesse come per i pazienti ossessivi, provoca

il tipico arousal, ed inoltre non portano ad un vero e proprio comportamento

compulsivo. Ecco alcuni esempi: ripetere dettagliatamente cosa è accaduto

nell’evento traumatico rievocando, sempre secondo una determinata sequela, le

immagini relative; pensare costantemente a cosa sarebbe accaduto se l’evento

traumatico avesse comportato la morte del soggetto e quali sarebbero state le

ripercussioni sulla famiglia; ripetere in continuazione determinate frasi: “non è colpa

mia” (una paziente coinvolta in un grave incidente) “aveva vissuto bene” (un soldato

sopravvissuto riguardo al compagno morto in battaglia). In alcuni casi queste

compulsioni cognitive sono vissute dolorosamente e con resistenza dal paziente che

può considerarle come il problema da superare, non così per altri pazienti.

Perché si verificano i pensieri intrusivi? La risposta è ovviamente difficile. Tra le

teorie più autorevoli citiamo Rachman (15), secondo cui le esperienze stressanti

devono essere assorbite ed elaborate dal soggetto perché non ne risulti compromesso

il suo funzionamento e la sua integrità; il trauma è un evento così grave che il

soggetto fatica ad elaborarlo dal punto di vista emozionale e cognitivo. Per tale

motivo il ricordo dell’evento tende a riaffiorare in molti modi tutti sgradevoli, per cui

il soggetto tende nuovamente ad allontanare e rimuovere l’elaborazione del trauma.

Questa teorie spiegherebbe l’origine e la persistenza dei pensieri intrusivi e si

concilierebbe con il fatto che le terapie basate sull’esposizione e sulla elaborazione

cognitiva nel DPTS portano a buoni risultati. Ma esiste un altro punto di vista, quello

di Creamer (41) che vede nel ripetersi dei pensieri intrusivi la modalità con cui i

circuiti della memoria, fortemente sollecitati dall’evento traumatico, tentano di

adattarsi allo stesso sino a che, con il passare del tempo, le cognizioni intrusive si

acquietano proprio perché si è portato a compimento questo meccanismo adattativo.

In tale ottica vengono definiti da Creamer come disfunzionali quei pensieri che si

associano ad un eccessivo arousal spingendo il paziente ad allontanarli ed

ostacolando così il fenomeno dell’adattamento. Ciò trova il conforto di alcuni altri

risultati sperimentali secondo i quali i pensieri intrusivi si esacerbano proprio in quei

pazienti che si applicano ad evitarli e sopprimerli.

CONCLUSIONI

Non c’è certamente ancora un’univoca spiegazione biologica né psicologica dei

meccanismi alla base del quadro clinico del Disturbo Post Traumatico da Stress o più

semplicemente, se non vogliamo usare questa etichetta, possiamo dire dell’enorme

sofferenza di chi ha subito un grave trauma. Lo scopo della ricerca deve essere volto

a dare una spiegazione razionale dei sintomi tipici del DPTS. Ma certamente

proseguire gli studi deve avere come obiettivo anche l’affinamento degli interventi

terapeutici per alleviare il dolore di questi pazienti e migliorarne la vita.

LE TERAPIE POSSIBILI

farmacoterapie, approccio cognitivo, ERMR, debriefing, supporto sociale

Il DPTS costituisce un grave problema sanitario. Nonostante sia stato misconosciuto

per molto tempo, esso è in realtà molto diffuso ed invalidante. I sintomi psichiatrici,

psicosomatici e fisici, le difficoltà nei rapporti familiari e sociali, il rischio di

tossicodipendenza e di alcolismo, le diverse inabilità sociali che ad esso si associano

ne sono una dimostrazione. Riguardo ai possibili trattamenti, prendendo in esame le

terapie farmacologiche, possiamo dire che i tradizionali approcci con farmaci sedativi

ed ansiolitici rappresentano una risposta superata ed anche errata alla luce degli studi

sulle modificazioni del SNC conseguenti al trauma. Sui sintomi intrusivi e

sull’evitamento sembrano essere utili i farmaci serotoninergici, come gli

antidepressivi triciclici e gli inibitori della ricaptazione di serotonina. Invece sintomi

attivi quali i flash-back, l’iperattivazione, gli incubi e l’ansia sembrano migliorare

con i tradizionali farmaci antiepilettici quali valproato e carbamazepina. L’intervento

farmacologico va inteso come supporto alle altre terapie, per permettere di

raggiungere i casi più difficili in modo che possano partecipare alle psicoterapie

individuali di gruppo o di comunità, e non ne rappresenta un’alternativa. Tuttavia

alcune osservazione sembrano indicare nella somministrazione precoce di farmaci ai

soggetti esposti al trauma un utile baluardo all’insorgenza del DPTS. Il punto di

unione tra farmacoterapia e psicoterapia sembra essere l’azione comune su

determinati recettori cerebrali.

Riguardo alle psicoterapie, per molti anni le uniche armi a disposizione erano gli

approcci psicodinamici. Attualmente hanno preso sempre maggior piede in

psichiatria e psicologia clinica, le teorie cognitive e comportamentali, molto

apprezzate per l’efficacia e la brevità dei trattamenti. In particolare sono state

introdotte le tecniche incentrate sul condizionamento e sull’apprendimento. I metodi

si basano sull’esposizione ed ad associate tecniche di rilassamento, di controllo

dell’ansia per esempio agendo sul respiro etc. Il punto chiave rimane l’esposizione o

confronto con le situazioni temute.. Purtroppo non esistono ancora trial randomizzati

in doppio cieco con casi e controlli. A quanto si sa i limiti di tali interventi sono

costituiti da un elevato tasso di drop out dei pazienti e dalla scarsa efficacia sui

sintomi negativi del DPTS quali il ritiro sociale, la depressione, l’annullamento

emozionale, l’evitamento.

Hanno recentemente riscosso notevole successo le tecniche di desensibilizzazione e

rielaborazione attraverso il movimento degli occhi (EMDR). E’ un tipo di intervento

in origine diffuso specificatamente per il DPTS, ora applicato anche in altri ambiti,

che è attualmente acclamato per la sua efficacia anche se bizzarro e privo di un

razionale teorico. Si tratta di richiamare le immagini dell’evento traumatico

muovendo sistematicamente e rapidamente gli occhi. Quanto tale movimento sia

necessario è incerto, forse ha solo lo scopo di distrarre la persona che può quindi

abituarsi ad esporsi alla situazione temuta. Si ipotizza tuttavia che questa tecnica

possa avere un’influenza sui sistemi neurorecettoriali del SNC come l’elettroshock e

la farmacoterapia perché come loro è in grado di produrre rapidamente una

modificazione cosciente dello stato mentale.

Debriefing. Il trattamento iniziale delle persone sotto shock, dato l’evento accaduto,

deve consistere nel trovare un rifugio sicuro, riabbracciare i propri cari e soddisfare i

bisogni primari. Successivamente si rende necessario il counselling. Riguardo a

quest’ultimo sono importanti sia la tempestività: non troppo presto perché non

sarebbe compreso dalle vittime, né troppo tardi!; sia la tipologia perché le risposte

individuali sono molto differenti. In merito alla precocità dell’intervento si è

osservato che quest’ultima sembra essere efficace nel prevenire la cronicizzazione del

disturbo (osservazione simile è stata fatta anche per la farmacoterapia). In questo

senso si inserisce la tecnica del debriefing originariamente adottata per il trattamento

dei militari. Attualmente la procedura di debriefing maggiormente descritta in

letteratura è quella della Critical Incident Stress Debriefing elaborata nel 1983 da

Mitchell (3) per applicarla ai vigili del fuoco. E’ una sorta di breve terapia di gruppo

per aiutare i pompieri reduci da interventi molto brutti, essa ha riscosso buon

successo. Per la precisione consta di un intervento della durata di 2-3 ore distinto in 7

fasi:

-fase introduttiva, in cui si spiegano le modalità e gli scopi

-fase dei fatti, ognuno descrive brevemente il proprio ruolo nell’incidente e la propria

esperienza, ciò aiuta a chiarire la natura e la sequenza degli eventi facendo svanire

equivoci ed interpretazioni errate

-fase dei pensieri, ognuno esprime il proprio pensiero predominante durante

l’incidente

-fase delle reazioni che è la più potente emotivamente perché viene domandato quale

momento dell’incidente è risultato più doloroso e quale è risultato il più difficile da

metabolizzare successivamente all’incidente

-fase del sintomo, qualsiasi, sia fisico che psicologico, avvertito durante l’incidente

deve essere riferito

-fase dell’insegnamento, durante la quale chi conduce l’incontro spiega il perché

delle reazioni avute e come superarle per non esserne schiacciati

-fase finale per gli ultimi chiarimenti o dubbi personali.

Questo è uno degli esempi di debriefing. Tali interventi devono essere fatti da

personale esperto che sappia individuare bene le esigenze dei pazienti distinguendo

per esempio fra vittime soccorritori e valutando le differenze individuali. Terapeuti

inesperti possono aumentare i danni sui pazienti piuttosto che diminuirli.

L’importanza delle competenze si sta dibattendo attualmente soprattutto per la

nascente figura dell’esperto in traumi che si contrappone alle tradizionali figure di

esperti di salute mentale e che genera perplessità.

Supporto sociale: questa espressione si riferisce ai complessi e dinamici meccanismi

di relazioni interpersonali che proteggono il soggetto dall’insorgenza di disturbi fisici

e psichici. E’ stato ben individuato in letteratura il terribile bisogno di parlare che

hanno le vittime di traumi, tanto che si è ipotizzata un’equivalenza tra infezione e

febbre da un lato sofferenza psicologica e auto rivelazione dall’altro. Questo concetto

è alla base dell’intervento di supporto della crisi: avere a disposizione persone che

abbiano semplicemente la volontà di ascoltare in un atteggiamento di empatia senza

peggiorare lo stato emozionale del paziente. Per misurare l’adeguatezza del conforto

rivevuto/somministrato è stata ideata la Crisis Support Scale, uno scala di auto

valutazione a 6 items che misura il grado di conforto ricevuto in relazione al tipo di

evento traumatico ed in quali tempi. E’ stato studiato che un buon numero di

interventi di supporto sono predittivi di una minore probabilità di sviluppare

comportamenti evitanti e sono inversamente proporzionali allo sviluppo successivo di

depressione ed ansia, dimostrando con evidenza il ruolo protettivo del supporto

sociale. E’ quasi commovente constatare che gli esseri umani hanno così bisogno di

affetto ed attenzioni; come i neonati se non sono amorevolmente curati presentano

gravi e persino irreparabili deficit organici e non solo del SNC, sino alla morte come

avveniva negli orfanotrofi, così le vittime di gravi traumi necessitano di un conforto

umano che le preservi dallo sviluppare in seguito comportamenti psicopatologici

cronici. A tale proposito può essere citata una novella di Checov, in cui un anziano

stalliere, nel giorno in cui aveva improvvisamente perso suo figlio, si era ritrovato ad

incontrare numerose persone ignare e frettolose, nessuna delle quali gli aveva offerto

la possibilità di condividere il suo immenso dolore, sino a che egli non si era

ritrovato, piangente, a parlare abbracciato al collo del suo cavallo.

A parte questo intervallo letterario, le spiegazioni scientifiche che si danno al

bisogno, per quanto ovvio questo possa sembrare, di relazioni interpersonali

soprattutto nei momenti di dolore, si basano su diverse ipotesi, fra cui l’attaccamento

e la solitudine. Riguardo all’attaccamento, esso è un bisogno insito nell’animo umano

per cui si necessita di relazioni sociali, pena la perdita della salute psicologica, anche

in assenza di eventi stressanti. I traumi spesso si associano a distruttive modificazioni

della rete di relazioni sociali. Alcuni studiosi distinguono l’attaccamento in sicuro,

ansioso-evitante, ansioso-ambivalente a seconda che porti a relazioni salde basate su

intimità e fiducia, oppure basate sulla paura dell’intimità e della dipendenza da altri,

oppure, infine, fondate sulla gelosia e la preoccupazione di essere abbandonati. Ciò

rifletterebbe nell’adulto il tipo di relazione che il bambino aveva con i propri

genitori, ed ovviamente porta a sviluppare reazioni diverse in caso di traumi.

Mikulincer e coll.(42) verificarono che i soggetti con attaccamento sicuro, in seguito

all’attacco missilistico irakeno sulle città israeliane durante la guerra del Golfo,

mostravano minori livelli di ansia e richiesta di più alti livelli di supporto sociale

rispetto alle personalità evitanti.

La solitudine può essere distinta in emozionale e sociale, la prima deriva dalla

mancanza di un intimo attaccamento ad un’altra persona, la seconda dalla mancanza

di una rete di rapporti sociali. Vi sono tuttavia soggetti che hanno stabilmente la

percezione della solitudine, derivante da una notevole discrepanza tra il livello di

relazioni desiderato e quello ottenuto. Ciò che si può opporre al supporto sociale è

anche un sintomo stesso del DPTS cioè il ritiro sociale ed il successivo ripiegamento

su di sé dei pazienti, questi sono anche fattori predittivi di maggior gravità del DPTS

stesso.

Il supporto sociale è un’entità multifattoriale che si può considerare distinta in:

1. emozionale, cerca di favorire nel soggetto la percezione di essere benvoluto

stimato accettato e sembra essere quello maggiormente utile di fronte ai traumi

da eventi incontrollabili

2. pratico, cerca di fornire alla persona aiuti materiali

3. cognitivo, cerca di fornire consigli, nozioni, risposte; è in genere ciò di cui

abbisognano successivamente le vittime quando devono cercare di elaborare le

informazioni cognitive conseguenti all’evento stressante.

Come sempre il tipo di aiuto deve essere calibrato sui bisogni della persona, sul

contesto e il particolare tipo di evento traumatico che ha generato la situazione di

emergenza, ed anche in base ad una sequenza temporale per cui in genere le vittime

hanno bisogni diversi a seconda del tempo intercorso dall’episodio traumatico.

CAPITOLO 2

L’esperienza di Mollica

Richard F. Mollica insegna psichiatria alla Harvard Medical School. Nel 1981 è stato

tra i fondatori dell’ Harvard Program in Refugee Trauma, uno dei primi centri clinici

creati negli Stati Uniti per i sopravvissuti alle violenze ed alle torture di massa. In

questo capitolo cercherò di descrivere quanto ho appreso dalla lettura di alcuni testi

relativi al suo lavoro.

In un suo articolo comparso su Le Scienze nel Settembre 2000 (43) Mollica spiega le

ragioni del suo lavoro. Il presupposto è che “finalmente si cominciano a prendere in

considerazione i disastrosi effetti della guerra sulla salute mentale dei civili”. Sino ad

alcuni decenni fa l’orientamento teorico della scienza e della morale comune di fronte

alle violenze che potevano essere inflitte a vittime innocenti, durante le guerre in

seguito a stupri o ad abusi infantili o altri eventi traumatici da cause naturali, era di

invitare il soggetto a rafforzarsi e a non pensare più a quanto accaduto. L’attenzione

era concentrata sui disagi e le ferite fisiche , sui bisogni materiali; si faticava a vedere

bene le ferite dell’anima quindi non venivano prese in considerazione perché fossero

curate. Il Disturbo Post Traumatico da Stress è stato ufficialmente riconosciuto nel

1980 sul DSM III inizialmente sulla base delle osservazioni condotte sui reduci delle

guerre di Corea e Vietnam. Ma è solo negli ultimi due decenni che gli studiosi hanno

preso maggiormente in considerazione le conseguenze dei conflitti sulle popolazioni

civili. Questi studi stanno rivoluzionando il modo di intervenire per arginare i danni

devastanti delle guerre.

Nel 1988 l’ Harvard Program in Refugee Trauma inviò una squadra di psichiatri nel

maggiore dei campi profughi cambogiani ai confini con la Tailandia, il Site 2. Dei

993 ospiti intervistati, vittime di torture massacri stupri rapine devastazioni, nessuno

godeva di un supporto psicologico per fronteggiare l’enorme carico di sofferenza

psichica (44). Gli effetti delle violenze di massa sulla salute mentale sono invisibili e

si fatica a comprenderli senza una adeguata preparazione. Le differenze culturali tra i

soccorritori e le popolazioni scampate ai conflitti non ne aiutano la comprensione.

Inoltre le stesse vittime hanno difficoltà e pudore a parlare delle atrocità subite, ed i

soccorritori faticano a concepire un così grande orrore. Si instaurano una sorta di

incredulità e disinteresse difensivi da parte di chi non ha subito le medesime atrocità,

quasi a non voler accettare l’idea di tanto male; ma questo costituisce un’ulteriore

sofferenza e motivo di solitudine per i sopravvissuti. Secondo Mollica sono almeno 6

le scoperte basilari che hanno fatto progredire la scienza nell’assistenza a queste

vittime.

In primo luogo esiste un netto picco di incidenza di gravi malattie psichiatriche tra i

soggetti sopravvissuti alla guerra. I progressi nell’epidemiologia psichiatrica-

campionamenti casuali e rappresentativi delle popolazioni, utilizzazione di

intervistatori e sviluppo di criteri diagnostici standardizzati anche per culture diverse-

hanno fornito i primi dati affidabili. Lo studio eseguito dall’HPRT sui rifugiati

cambogiani ha evidenziato livelli di depressione clinica acuta e di DPTS pari

rispettivamente al 68 e 37 per cento. Analoghe cifre si sono riscontrate tra i profughi

bhutanesi in Nepal e bosniaci in Croazia. Prendendo a termine di paragone la

popolazione normale, in questa le percentuali si abbassano rispettivamente al 10 e

all’8 per cento.

La seconda scoperta riguarda il fatto che la natura del trauma può essere misurata in

modo rigoroso. Di solito gli psichiatri si preoccupavano del fatto che studiare le

esperienze traumatiche in un paziente potesse provocargli ulteriori sofferenze.

Ritenevano inoltre che i pazienti fornissero resoconti imprecisi. Ma a partire dai primi

anni ‘80 ha preso piede una nuova corrente di idee in medicina, legata ad associazioni

quali Amnesty International. I ricercatori impegnati nel campo dei diritti umani

hanno sviluppato un metodo sistematico che combina vari tipi di esami clinici per

verificare l’accuratezza dei racconti. Lo stesso Mollica racconta che nella sua

esperienza con i pazienti indocinesi ne aveva constatato l’incapacità a descrivere le

atrocità subite in interviste aperte. Per questo nella sua clinica si era ricorsi ad un

semplice strumento di screening noto come Hopkins Symptom Checkclist,

ampiamente utilizzato per la popolazione generale sin dagli anni ‘50. Esso è

composto da una serie di domande esauribili in 15 minuti e che indagano la presenza

di sintomi come la stanchezza, i disturbi del sonno o le idee suicide. Una volta che ne

fu fornita una versione indocinese, i pazienti riuscirono a raccontare le loro reazioni

emotive senza angosce.. Una versione ulteriormente modificata di questo test,

l’Harvard Trauma Question Post Traumatic Stress Disease, centra l’attenzione sugli

eventi traumatici ed i sintomi tipici del DPTS. Attualmente tale questionario esiste in

più di 25 lingue, con versioni adattate ai diversi contesti culturali.

La terza scoperta riguarda una comprensione più approfondita, grazie anche

all’etnopsichiatria, del modo di concepire le malattie mentali nei paesi non

occidentali. In molte società non sono i medici ma i guaritori tradizionali e gli anziani

che si prendono cura del disagio psichico. Tuttavia può residuare una fetta di

popolazione che i guaritori tradizionali non riescono a trattare e i medici occidentali

misconoscono perché presenta sintomi aspecifici o sfuggenti. Per questo sono stati

fatti lavori di catalogazione dei sintomi e delle diagnosi secondo la medicina dei

guaritori tradizionali, cosicché i medici occidentali possano identificare la malattia

mentale utilizzando i linguaggi locali.

La quarta scoperta si basa sull’osservazione che alcune particolari esperienze

traumatiche conducono più di altre a sviluppare depressione o DPTS. Per esempio,

nell’esperienza di Mollica, tra i rifugiati cambogiani del Site 2 gli eventi

maggiormente traumatizzanti erano costituiti da percosse sulla testa, morte di

bambini per fame o per omicidio, o la prigionia; mentre la morte di soggetti adulti o

la perdita/distruzione delle proprie abitazioni non avevano lo stesso impatto

traumatico.

La quinta scoperta riguarda le modificazioni organiche cerebrali permanenti

conseguenti a stress estremi. Nei primi anni sessanta il ricercatore norvegese Leo

Eitinger e i suoi colleghi scoprirono un legame tra i traumi cranici ed i sintomi

psichiatrici fra i sopravvissuti ai campi di sterminio nazisti.. Analogamente anni dopo

si osservò una relazione fra danni cerebrali e percosse subite dai prigionieri americani

della seconda guerra mondiale e dei conflitti coreano e vietnamita. Ole Rasmussen e

colleghi studiarono 200 vittime civili di torture, il 64% aveva danni neurologici.

Anche senza una causa fisica diretta, la sofferenza psichica può danneggiare il

cervello. Alcuni studi disponibili sui pazienti affetti da DPTS dimostrano, per

esempio, la riduzione di volume dell’Ippocampo destro, come già detto nel

precedente capitolo.

La sesta ed ultima scoperta dimostra l’esistenza di una connessione tra sofferenza

mentale ed inadeguatezza sociale. Tra i rifugiati bosniaci che vivono in Croazia e che

sono seguiti dai programmi di Mollica, uno su quattro presenta inabilità sociale:

incapacità di lavorare, di prendersi cura della famiglia, di partecipare ad attività

socialmente produttive. Gli effetti a lungo termine di questi problemi mentali non

sono ancora noti. Una recente ricerca condotta su una popolazione danese ha rivelato

che le persone che erano state vittime della persecuzione nazista presentavano tassi di

disturbo post traumatico superiori alla norma nel successivo periodo di 50 anni.

Questi traumi possono avere effetti transgenerazionali: i ricercatori hanno notato tassi

di disturbo mentale anche nei figli di sopravvissuti all’Olocausto maggiori rispetto ad

un gruppo di confronto formato da ebrei non traumatizzati. E’ una questione più che

mai aperta per cui risulterebbe rischioso azzardare spiegazioni eziologiche. Per capire

le conseguenze a lungo termine della guerra è in corso uno studio longitudinale in

Bosnia ad opera di Mollica e collaboratori. La tesi di fondo è che sebbene un numero

relativamente piccolo di sopravvissuti alle violenze di massa presenti malattie mentali

gravi ed in acuto tali da richiedere un intervento psichiatrico intenso, la grande

maggioranza soffra di problemi mentali di minore gravità ma di lunga durata.

L’esaurimento fisico, l’odio, la sfiducia, l’apatia sono una realtà pervasiva che

può perdurare a lungo minando la buona salute dell’individuo e della società stessa di

cui fa parte, frenandone lo sviluppo sociale ed economico. Solo negli ultimi anni le

organizzazioni mondiali hanno preso atto di ciò. L’OMS ha pubblicato numerosi

studi e Linee Guida su come gestire programmi di interventi umanitari in zone di

emergenza (45). La Banca Mondiale per esempio ha riconosciuto che i vecchi

modelli di sviluppo non funzionano più per le nazioni devastate dalle guerre e che se

ne devono elaborare altri. Le agenzie umanitarie internazionali hanno messo in piedi

cliniche psichiatriche con personale locale nelle zone devastate come Cambogia e

Timor Est. In Sudafrica ed in Bosnia i medici locali sono apparsi in televisione per

spiegare alla popolazione quali problemi possono sorgere e quali siano i mezzi di

cura. All’interno del programma di Mollica stanno nascendo microimprese per

aiutare le persone depresse a rientrare nel mondo del lavoro produttivo. Secondo le

stesse parole di Mollica, “questi sforzi sono molto importanti per rompere il circolo

vizioso di letargia e desiderio di vendetta che affligge un’area sempre più vasta del

mondo”.

Nel loro lavoro Mollica e l’Harvard Program in Refugee Trauma (HPRT), hanno

dovuto affrontare e conciliare le diversità culturali (44), come dimostrano gli sforzi

fatti con i profughi cambogiani di valorizzare i guaritori tradizionali, gli anziani dei

villaggi e i riti dei monaci buddisti con la medicina tradizionale occidentale. Questa

linea di condotta ha portato i medici occidentali dell’HPRT a coniare il termine di

CED, ovvero Cambodian Categories of Emotional Distress, individuando così le

malattie mentali e le relative conoscenze tramandate oralmente in Cambogia.

Inoltre, riconoscendo l’importanza di una triplice modalità propriamente cambogiana

di prendersi cura delle malattie, è stato individuato l’acronimo KCBM, ovvero:

1. Kruu khmer healing practices, ovvero i guaritori tradizionali che utilizzano

erbe medicinali, amuleti, rituali, incantesimi, ecc

2. cambodian and western styles of Counselling, il counselling appunto attuato

sia dai guaritori tradizionali o dagli anziani dei villaggi, sia da medici

occidentali

3. Buddhism, la medicina dei monaci buddisti che si avvale di riti religiosi,

medicinali a base di erbe e meditazione

4. western Medication, si riferisce alla diagnosi ed ai trattamenti del DSM

Tutto questo nello sforzo di armonizzare le differenze culturali a beneficio dei

pazienti.

Sappiamo (3) che i sintomi principali del DPTS sono sostanzialmente i medesimi in

tutte le società umane ed etnie. Per esempio nell’ambito del CED, di cui abbiamo

appena parlato, il DPTS prende il nome di Tierur-na-kam ed indica la sintomatologia,

simile a quella descritta nel DSM IV, di chi è stato vittima di torture o atti crudeli e

barbarici. Certo è però che le differenze culturali giocano un ruolo importante

soprattutto nella manifestazione di certi sintomi piuttosto che altri. Williams,

psichiatra di un battaglione inglese stanziato nel Bruma durante la seconda guerra

mondiale, osservò che i militari inglesi mostravano un maggior tasso di malattie

psichiatriche rispetto ai commilitoni indiani soprattutto relativamente ai sintomi

d’ansia e crisi di pianto. Ciò era imputabile al retaggio culturale che gli indiani

subivano considerando un’onta molto grave perdere il controllo, piuttosto presso di

loro i disturbi di isteria erano maggiormente rappresenti. Anche studi sui profughi

afgani dimostrano che se la sintomatologia del DPTS consistente in grave disforia,

disturbi del sonno, perdita dell’appetito era manifestata da tali pazienti, non così i

sintomi considerati socialmente inaccettabili quali crisi di pianto, sensi di colpa, idee

suicide e tentativi di suicidio.

Pure nella terapia il confronto fra diverse culture deve essere attento e proficuo: da

una parte per non ledere le vittime con atti terapeutici inadeguati alla loro sensibilità,

dall’altra per cogliere qualsiasi spunto valido da culture diverse per la trattazione del

trauma. Per esempio sono stati studiati i rituali di purificazione degli indiani

d’America, uno in particolare l’Inipi Orinare, ovvero Sweat Lodge, ovvero Dolce

Alloggio. Tale evento religioso collettivo di ringraziamento e perdono, veniva vissuto

da tutta la tribù che gli attribuiva, con molta convinzione, significati di introspezione

personale, crescita spirituale ed umana, guarigione fisica e psichica attraverso un

profondo senso della collettività. Tale rito è stato studiato ed adattato in via

sperimentale in alcune terapie di gruppo a pazienti vittime di DPTS con buoni

risultati (46).

CAPITOLO 3

L’esperienza palestinese

Quest’anno, dal 18 al 23 Agosto, sono stata a Gerusalemme.

Avevo preso contatti con la Cooperazione Italiana perché desideravo fare esperienza,

seppure in così poco tempo e proprio in quella terra così martoriata dalla guerra, di

come si tenta di aiutare la popolazione civile rispetto ai traumi da guerra in corso.

Sono stata accolta davvero con tanta generosa amicizia dalla dr.ssa Loredana

Savarino, psicologa, e da suo marito Claudio, funzionario della Cooperazione. In

particolare Loredana è stata la mia guida, con tutte le valenze che si possono dare a

questo termine, nella comprensione di cosa sia questo lavoro all’estero.

Loredana è responsabile di un progetto umanitario a Beit Rima, che descriverò in

seguito e che è principalmente diretto alla popolazione infantile.

Prima di tutto ritengo opportuno fornire una descrizione generale della situazione

palestinese avvalendomi del rapporto datato Luglio 2003: “A psychosocial

assessment of palestinian children”. Tale studio è stato condotto da un’ONG

palestinese (NPA: National Plan of Action for palestinian children, nella persona del

dr Cairo Arafat) e dall’ONG statunitense Save the Children (nella persona del dr Nei

Boothby, professor of pubblic health alla Columbia University). Le prevedibili

ragioni per cui è stato steso questo studio, sono dovute alle segnalazioni di sofferenze

psicologiche nella popolazione infantile a seguito dello scoppio della seconda

Intifada.

Lo studio è stato progettato per cogliere principalmente come i bambini stessi

percepiscono la propria situazione e per fornire loro un open forum in cui esprimersi.

Nei mesi di Luglio e Agosto 2002 sono stati reclutati 1266 bambini palestinesi fra i 5

ed i 17 anni che hanno formato un campione randomizzato e stratificato di soggetti in

cui equamente erano rappresentati maschi e femmine, residenti in città, aree rurali e

campi profughi e, infine, il 61% proveniva dai territori della West Bank mentre il

39% dalla striscia di Gaza.

Dall’ascolto e dall’osservazione dei bambini è stato constatato che il 93% riferisce di

sentirsi esposto ad attacchi e non sicuro, temendo non solo per la propria incolumità

ma anche per quella di amici e familiari. Almeno il 48% di loro ha vissuto

personalmente situazioni di violenza armata o ne è stato testimone riguardo ai propri

cari; il 21% ha dovuto lasciare la propria realtà per temporanee o definitive ragioni di

sicurezza. I più colpiti sono i bambini della striscia di Gaza rispetto ai territori della

West Bank e i bambini dei campi profughi o delle città rispetto alle aree rurali.

Lo stress sopportato dai bambini palestinesi è aumentato dalla diffusa percezione che

i loro genitori non possono sempre e comunque rispondere al loro bisogno di cura e

protezione, ciò è sentito dal 52% dei bambini soprattutto dai più grandi fra loro.

Oltretutto le limitazioni materiali e finanziarie e la perdita di controllo sugli eventi

esterni, rende le stesse persone che dovrebbero dare protezione ai bambini, cioè i

genitori e gli insegnanti, sfiduciati, frustrati ed insicuri nelle loro capacità, impoveriti

nelle loro risorse mentali ed emotive.

In questo contesto non risulta strano constatare che 9 su 10 genitori descrivono

sintomi da reazione post traumatica nei loro bambini come incubi notturni, enuresi,

aumento dell’aggressività, iperattività, così come calo dell’attenzione e della

concentrazione. Una minoranza di genitori, 5-8%, hanno notato nei loro figli idee

ossessive di vendetta e di morte.

A dispetto delle avverse circostanze, tuttavia, in questo studio i bambini palestinesi si

sono dimostrati provvisti di resistenze psicologiche e meccanismi di difesa

evidenziati da una mantenuta fiducia nel futuro. Infatti il 70% di loro continua a

sentirsi in grado di poter migliorare la propria vita principalmente impegnandosi a

maturare da un punto di vista scolastico, ma anche personale e sociale. Inoltre il 71%

di questi ragazzi dimostra di incanalare costruttivamente le proprie energie in attività

positive e non violente. Il 96% dei ragazzi contattati continua a vedere nell’istruzione

l’arma più idonea per assicurarsi un futuro migliore e per portare ad una risoluzione

non violenta dell’occupazione in corso; tutto ciò nonostante l’allarme di genitori e

insegnanti sul calo di attenzione e concentrazione dei ragazzi.

In maniera concomitante la scuola è cresciuta d’importanza anche come social forum

e risorsa di supporto ai bambini, non ci sono altrimenti alternative per incontrarsi con

i propri coetanei in attività ricreative ed informali. I genitori stessi non incoraggiano i

bambini ad uscire di casa temendo i pericoli dell’ambiente esterno. Ciò è molto

frustrante per i bambini che si sentono limitati nelle loro libertà personali e nella

possibilità di parlare con i loro coetanei scambiandosi opinioni, cosa che appare per

loro più importante che giocare.. Oltre a focalizzarsi sulla scuola, le altre attività

positive in cui i bambini riversano le loro energie sono l’aiuto domestico ai genitori,

ed alla comunità, la partecipazione a dimostrazioni pacifiche. Il 71% dei bambini

considera importante resistere attivamente all’occupazione per lo più concentrandosi

in azioni non violente e pacifiste. Un gruppo minore (21%) si dimostra più

concentrato sull’autodifesa chiudendosi in casa e tenendosi lontano dai pericoli. Solo

una minoranza pari al 7% considera importante il sacrificio personale e violento nel

conflitto come soldati o martiri.

Per quel che riguarda i genitori, l’ambiente esterno così pericoloso è percepito

ovviamente come incontrollabile da loro, ma persiste il senso di dovere e

responsabilità nei confronti dei loro bambini anche se il 43% degli intervistati si

dimostra sfiduciato nella capacità di prendersi cura dei propri figli proteggendoli,

nella convinzione che superiori cambiamenti in campo politico ed economico

debbano verificarsi prima che essi riacquistino di nuovo la capacità di tutelare

appieno i propri figli. A dispetto di questa loro stessa sofferenza, la maggior parte dei

genitori è consapevole dell’importanza della propria funzione di supportare i figli

alleviando i rischi di gravi danni psicologici a lungo termine. Sono quindi attenti

osservatori del cambiamento nella condotta dei loro figli che considerano una

normale reazione ad una situazione eccezionalmente grave. Al pari dei loro bambini

sono convinti dell’importanza della scuola e degli scambi reciproci fra i bambini

stessi, nonché dell’importanza di un proficuo dialogo tra genitori e figli, nonostante le

difficoltà ad attuarlo. Il 65% dei genitori riporta significativi scambi con i propri figli,

attraverso il dialogo, meno soddisfacenti per un 12%, totalmente inesistenti per un

23%. Pure è sorprendente il grado di inconsapevolezza che alcuni genitori hanno

rispetto al loro ruolo di modelli per i figli, ma ciò riflette il loro calo nell’autostima.

Riguardo agli insegnanti, essi pure sono consapevoli dell’importanza della scuola

nell’aiutare appunto i ragazzi ad adattarsi ed ad affrontare la difficile situazione che

vivono. Quasi il 90% di loro sostiene che i risultati ottenuti dagli alunni migliorano se

viene lasciato loro il tempo ed il modo di esprimere pensieri ed emozioni in classe,

oppure quando è loro permesso di svolgere attività fisiche od artistiche, o quando

hanno l’opportunità di esprimere e confrontarsi con le loro stesse emozioni durante le

normali attività scolastiche. Il 57% degli insegnanti ed il 60% dei ragazzi trovano che

il rapporto reciproco sia migliorato dall’inizio dell’intifada; per il 12% degli

insegnanti ed il 10% degli alunni invece i rapporti reciproci si sono deteriorati.

In accordo a questi risultati, questo studio propone un triplice intervento per

migliorare le condizioni dei bambini, agendo appunto nel sostegno diretto ai ragazzi,

ai genitori ed agli insegnanti. Nello specifico lo studio si raccomanda che:

1. i programmi ristabiliscano il più possibile una condizione di normalità anche

coinvolgendo le realtà civili, per offrire ai ragazzi occasioni ricreative, sportive

e culturali

2. sia fornito un supporto finalizzato a rendere consapevoli i ragazzi dei loro

sintomi psicologici e del loro significato, ciò agendo anche sui genitori e

fornendo a questi stessi un similare supporto psicologico

3. oltre alle normali attività scolastiche sia data l’opportunità ai bambini di

trovarsi in centri dove ulteriormente sia consentito loro di crescere e ricrearsi

nel gioco e nel confronto reciproco. In aggiunta dovrebbe esser fornito un

adeguato counselling anche agli insegnanti.

In questa linea si colloca anche il progetto italiano a Beit Rima.

Questa è una cittadina palestinese sita nei pressi di Gerusalemme all’interno della

West Bank, dove, prima di quest’ultima intifada, la popolazione godeva di un buon

livello socio economico. Ora invece il crollo del turismo e delle attività commerciali

ha portato povertà e disoccupazione come in molte altre zone palestinesi, provocando

ovviamente un generale clima di malessere, depressione, apatia e sfiducia nel futuro.

Lo scopo del progetto è quello di fornire un supporto ai bambini di Beit Rima

coinvolgendo in questo alcune donne della stessa città nel ruolo di “facilitatori”

(ovvero educatrici/animatrici), attraverso l’apertura di un centro ricreativo.

Ho potuto visitare personalmente il centro e leggere la documentazione descrittiva di

questa iniziativa.

Questo progetto si attua attraverso tre differenti approcci:

1. ricreativo,

2. educativo e

3. terapeutico.

Il primo mira a permettere di scaricare l’aggressività e le frustrazioni accumulate dai

bambini attraverso una via controllabile e positiva.

Il secondo ha come scopo di insegnare ai bambini gli strumenti e le strategie per

risolvere positivamente i conflitti ed i problemi nella prospettiva di migliorare ora ma

anche nella loro futura vita adulta, qualità di vita e relazioni sociali.

Il terzo punta l’attenzione sull’autostima, la comunicazione, la capacità di attenzione

e di concentrazioni e i disturbi del linguaggio dei bambini.

L’attività del centro consiste nell’apertura quotidiana per 3 o 4 ore, distinte in due

turni di un’ora e mezza o due ciascuno, sette giorni su sette ai bambini fra i 6 ed i 12

anni. E’ gestito da 6 donne, le quali hanno un giorno libero a turno nella settimana ma

tutte lavorano il venerdì per organizzare attività ricreative maggiori nel giorno di

festa e permettere a quanti più bambini possibile di parteciparvi. Il centro può

accogliere 100 bambini al giorno distinti in due turni da 50, ciascun turno prevede

l’ulteriore distribuzione dei bambini in 5 gruppi. Ogni gruppo è guidato da un

“facilitatore” che coinvolge in bambini in giochi adatti alle fasce di età, per esempio:

Attività di gruppo Da 6 a 8 anni Da 9 a 12 anni Espressività Gioco della sabbia* Gioco della sabbia Sport e giochi Basket e pallavolo Basket e pallavolo Letteratura Novelle sui diritti dei

bambini Novelle sui diritti dei bambini

Arti 1 Giochi simbolici attraverso l’uso di giocattoli, disegno e pittura

Stage di disegno e di pittura

Arti 2 Teatro di burattini, danza Teatro e danza • si tratta di un gioco di introspezione che mostra molto efficacemente la

personalità del bambino lasciato libero di manipolare come vuole la sabbia

Queste attività devono essere la realizzazione nella pratica dei 3 approcci/scopi di cui

abbiamo parlato prima; in particolare:

1. ricreativo, i giochi che i bambini possono fare nel centro sono sicuramente

diversi da qualsiasi altra opportunità che viene loro offerta in questa area rurale

2. educativo, questo è l’incarico principale dei “facilitatori” attraverso il loro

modo di guidare i bambini. Importanti obiettivi devono essere: risolvere i

problemi senza usare aggressività o violenza, rispettare le regole collettive,

rispettare gli spazi comuni, assumere atteggiamenti attivi e responsabili rispetto

all’apprendimento, alle informazioni e alla vita in generale.. Le attività vanno

scelte allo scopo sia di favorire quanto più è possibile lo sviluppo mentale dei

bambini in base alla loro età, sia di influire positivamente sulla loro personalità

in termini di pensiero razionale, doti artistiche ed espressive, comunicazione,

educazione artistica e coordinazione.

3. terapeutico, quest’ultimo è demandato in particolare alle attività di teatro e

gioco della sabbia.

Si considerano diretti beneficiari di questo progetto sia i bambini che i “facilitatori”

Gli uni, anche in base a quanto confermato dai loro genitori, stanno maturando

cambiamenti positivi nella loro condotta quotidiana, soprattutto per ciò che riguarda

la concentrazione, l’iperattività, l’aggressività nei confronti degli adulti o dei loro

coetanei, il generale benessere. Questa maturazione si è resa evidente nel corso dei

mesi di apertura del centro attraverso una fase iniziale in cui i bambini erano tristi e

sfiduciati, una successiva di grande confusione per il manifestarsi dell’aggressività e

delle frustrazioni lungamente represse, sino alla fase attuale di serena partecipazione

alle attività con atteggiamenti positivi dei bambini fra di loro e verso gli adulti ed un

senso di ritrovata speranza.

Gli altri, i “facilitatori”, hanno guadagnato, dal loro impegno nel centro e dai positivi

feed-back ricevuti dai genitori e dalla comunità, un miglioramento della loro

autostima, dell’efficienza e del coinvolgimento nelle attività del centro. Essi sono

sempre più attivi, consapevoli della loro possibilità di contribuire positivamente al

benessere della loro comunità attraverso il loro lavoro.

Esistono anche i beneficiari indiretti del progetto, in primo luogo

1. i genitori che si sono sentiti rafforzati nel loro ruolo genitoriale e

nell’autostima grazie al migliorato comportamento dei figli, instaurandosi così

un circolo virtuoso nella relazione genitori-figli

2. la comunità cittadina, che cresce nella fiducia nei confronti delle autorità locali

e delle risorse della stessa popolazione di contribuire attivamente alla vita

pubblica

3. le autorità locali; esse, da una parte, si sentono più coinvolte e fiduciose nella

possibilità di contribuire positivamente al benessere della popolazione e,

dall’altra, prendono coscienza dell’importanza di una tutela psicosociale dei

cittadini. Infatti esse stanno proponendo sempre più spesso nuovi interventi per

i bambini ma anche per le donne ed i giovani. Esse sono molto attive nella

ricerca di fondi per finanziare i loro progetti, più disponibili a condividere le

loro esperienze con i villaggi vicini e più collaborativi con le ONG.

Questo progetto ha delle potenzialità di ulteriore crescita. Una delle proposte future

sarà l’apertura del centro anche a fasce di età minori, comprese fra i 3 ed i 6 anni,

durante le ore del mattino. E’ allo studio un’esperienza pilota per dare una risposta

anche ai giovani fra i 12 ed i 18 anni. Tale intervento deve essere attentamente

valutato per non recare offesa alle abitudini e alla cultura locali, perciò si stanno

studiando adeguate attività, spazi e tempi per ragazzi e ragazze. Infine per i genitori si

stanno valutando di offrire incontri collettivi o lezioni sui migliori approcci educativi

nei confronti dei bambini in situazioni di crisi, tenute da selezionate ONG esperte del

settore. L’obiettivo è provvedere ai genitori strategie educative adeguate alla realtà di

conflitto che crea nuove necessità ai bambini ma che è nuova anche per i genitori

stessi. In più attraverso questi contatti i genitori avranno l’opportunità di incontrare

persone specializzate nel settore cui potranno far riferimento privatamente in seguito

se lo riterranno opportuno.

Esistono molte altre iniziative/organizzazioni che operano attivamente nel settore

infantile; fra queste citiamo soprattutto l’UNICEF che ha un ruolo guida e che dallo

scorso Settembre dovrebbe aver fatto partire 4 progetti pilota nelle scuole

interpellando la stessa dr.ssa Loredana Savarino in qualità di tecnico del gioco della

sabbia. L’UNDP ente che crea soprattutto infrastrutture come i play-ground avendo

l’intenzione di crearne uno anche in un ospedale con educatori/animatori per i piccoli

pazienti. Infine l’UNRWA che, oltre a gestire i campi dei profughi palestinesi ed il

loro status politico, si occupa anche della loro educazione, salute ed infrastrutture; in

questo senso tale ente si sta organizzando per promuovere forti azioni in termini di

psicoterapie di supporto, già ora adottano programmi così detti extracurricula che

intrattengono i bambini a scuola per attività ricreative pomeridiane.

Anche nel settore dell’età adulta, dalle informazioni che ho potuto raccogliere,

esistono progetti di igiene mentale finanziati dalla Commissione Europea, da ONG

attive in terra di Palestina, come Novi Mondo o da enti culturali come la Orient

House Association che ora ha preso il nome di Arab Study Society.

Per quanto posso aver capito dal mio breve soggiorno in terra palestinese, i

Palestinesi sanno di essere presi in considerazione come popolazione e lo dimostrano

gli aiuti umanitari sia alimentari che sanitari che ricevono. Essi sono una popolazione

con un notevole substrato umano e sociale di persone colte ed attive, reattive rispetto

agli stimoli ed agli aiuti che ricevono dall’esterno. Ma costituisce un grave problema

la necessità di un supporto psicologico alle singole persone. Non necessariamente

interventi di medicalizzazione eccessiva o di vere e proprie psicoanalisi, ma un

supporto cosiddetto psicosociale. La situazione di conflitto continuo, a bassa intensità

creata dalla seconda intifada, prostra le persone con disagi non solo legati ai lutti ed

alle devastazioni degli scontri armati, ma anche alla disoccupazione, alla povertà, alle

notevoli restrizioni delle libertà personali, alle umiliazioni che stanno schiacciando le

popolazioni dei territori occupati. Il perdurare di questi stress crea situazioni

esplosive nella popolazione civile. Ci sono bambini nati ad Intifada già iniziata che

non hanno mai conosciuto altro se non la guerra: si rischia di perdere un’intera

generazione!

Ma uno dei problemi nascenti relativi al supporto psicologico è che rischia di esser

improvvisato da persone non esperte. Si stanno infatti diffondendo programmi

promossi da varie organizzazioni che propongono “esperti” sprovvisti in realtà della

sufficiente preparazione, costituendo un reale pericolo di nuocere alla mente di

persone già così provate dalla situazione in corso.

CONCLUSIONI “La volontà di non credere”…

Sono parole del romanziere Herman Wouk, e possono ben descrivere il rifiuto del

male che spesso si accompagna alla notizia delle sofferenze e degli orrori inflitti alle

vittime di conflitti o violenze in generale. Eppure il male, tutto quel male, esiste e

attraverso la consapevolezza e la diffusione di una cultura di pace è possibile a

ciascuno di noi cercare di arginarlo, quasi espiarlo. Altrimenti ne saremo complici,

nella misura in cui avremo preferito non credervi e pensare ad altro per non soffrire,

per non impegnarsi!

UN GRAZIE GRANDISSIMO A:

Dr.ssa Elisa Gambetti, psicologa, per la sua professionalità e competenza, per la sua generosa amicizia!

Dr.ssa Loredana Savarino, psicologa, (con Claudio, Marta e Clara) per la sua intelligenza e sensibilità, per la sua calorosa accoglienza!

Dr.ssa Orietta Filippini, ricercatrice di storia moderna, per i suoi preziosi consigli e la paziente amicizia!

Dr.ssa Sabrina Ravaglia per la sua generosa disponibilità, la tolleranza e la fortezza! Dr.ssa Federica Fabbri, psicologa clinica, per il suo sostegno morale e la sua

dolcezza! Dr Lorenzo Adimari, esperto in informatica, per la sua generosa, fraterna e paziente

disponibilità! Irina mantovani, Mattia Nerini , Bill, Daniele, Eugenio, Fede, Marco, Ado, Ilaria,

Silvia, Iolo, Silvia, Veronica e Mattia, Benda e tutti gli amici della mia Parrocchia, perché..esistono!

Ai miei genitori, ai miei fratelli e alle loro spose, al mio piccolo nipote, a Teresa, a nonna e Renato!

Dr Riccardo Colasanti, Lodovica Mazza e tutti i responsabili e gli organizzatori del II° Master in Medicina delle Immigrazioni, delle Povertà e delle Emarginazioni, per

avermi aperto gli occhi della mente con cui…. “..ho visto cose che voi umani….”

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