Il cinema russo - Dipartimento di Comunicazione e Ricerca ... · dell’importanza del montaggio...

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Il cinema

russo

Prof. Giovambattista Fatelli

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Un divertimento inutile

La cinematografia è «un divertimento

sciocco, senza utilità per nessuno, e

anche pericoloso. Solo un anormale può

mettere quel mestiere da baraccone

sullo stesso livello dell’arte. Sono

sciocchezze insignificanti a cui non

bisogna attribuire importanza alcuna».

Lo Zar Nicola II

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Un’arma rivoluzionaria

Lo sviluppo lento e subalterno del cinema russo viene sconvolto

dalla spinta della rivoluzione socialista, che conduce un’intera

generazione di giovani cineasti, innamorati delle avanguardie

artistiche, soprattutto del futurismo italiano, a progettare un

cinema che incarni i nuovi ideali di libertà e di rinnovamento.

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L’influenza futurista e la sete di novità investono tutti i campi:

Malevič dipinge forme geometriche e uomini come automi

meccanici mentre Mejerchol’d porta in teatro la «biomeccanica».

Futurismo

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Modello del monumento alla III Internazionale (Vladimir Tatlin, 1920)

Tatlin progetta città come

«macchine vive», mentre

Majakovskij celebra la

«rivolta degli oggetti».

Futurismo

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Futurismo

La passione per le macchine instilla in questa nuova

generazione un’estetica fondata sulla velocità, sul movimento,

sulla ripetizione e sulla geometria, che rompe con la tradizione,

ma non per «estetizzare» la vita o assecondare i «meravigliosi

capricci» della modernità, bensì per rinnovare tutto e creare

un’arte nuova per una vita nuova.

E. Lisickij, Con il cuneo rosso colpisci i bianchi, 1919

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Cultura e politica

La liberazione di tutte le forze intellettuali e creative del paese

lega indissolubilmente i progressi politici a quelli culturali: la LEF

del Fronte Popolare delle Arti e il Proletkult di Mosca diventano il

fulcro delle nuove forme di scrittura, di pittura e delle altre arti,

contrapponendosi alla narrazione e alla figuratività tradizionali.

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Festa

Il cinema è un’arte giovane, versatile, veloce,

che, come in Francia, catalizza lo slancio

delle avanguardie; un atleta, un «gigante»,

secondo Majakovskij, che il capitalismo può

corrompere con una manciata d’oro, con

riferimento alla tendenza commerciale

del cinema narrativo americano. Gli autori

sovietici rifiutano compatti lo spettacolo

tradizionale e condividono un’idea di cinema

come «festa» in cui lo spettatore partecipa e

viene di continuo stimolato dai cambiamenti

e dalle nuove invenzioni.

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Scrisse nell'ottobre 1922 (sulla rivista

Kino-foto):

"Per voi il cinema è spettacolo.

Per me è quasi concezione del mondo.

Il cinema è apportatore di movimento.

Il cinema è rinnovatore delle letterature.

Il cinema è distruttore delle estetiche.

Il cinema è audacia.

Il cinema è uno sportivo.

Il cinema è diffusore di idee.

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Ma il cinema è infermo. Il capitalismo ha offuscato i suoi occhi,

riempiendoli d'oro. Abili imprenditori lo guidano per la manica

lungo le strade. Ammucchiano denaro, smuovendo i cuori con

soggetti piagnucolosi.

Ciò deve finire.

Il comunismo deve sottrarre il cinema ai guardiani che lo

sfruttano.

Il futurismo deve farne evaporare l'acqua stagnante della

lentezze e della morale.

Senza di questo noi avremo o la "cecetka" importata

dall'America o nient'altro che gli "occhi con lacrima" dei

Mozuchin.

La prima cosa è venuta a noia.

La seconda ancor più della prima".

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Protazanov

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Montaggio

Anche per i registi sovietici, che cominciano subito a occuparsi

della teoria oltre che della pratica, il ragionamento sulla

peculiarità che distingue il cinema dalle altre arti, porta a

individuare lo «specifico» del film nella potenza esplosiva del

montaggio, cioè la struttura costruita dall’incastro di immagini

che di per sé non avrebbero nessun valore.

Dura Lex (Lev Kulešov,1926)

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Effetto Kulešov

Nel 1918 il regista Lev Vladimirovič

Kulešov, convinto assertore

dell’importanza del montaggio nella

definizione del cinema, effettua un

curioso esperimento per determinare il

senso e la funzione dell’inquadratura

nel contesto della sequenza montata.

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Effetto Kulešov

Da un vecchio film del periodo zarista

sceglie un primo piano del protagonista,

abbastanza inespressivo, e ne stampa tre

copie uguali; poi affianca a ciascuna di

esse altri tre piani, uno diverso dall’altro.

Nel primo si vede una scodella di zuppa

su un tavolo, nel secondo un cadavere

disteso di bimbo, nel terzo una giovane

donna adagiata su un divano.

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Effetto Kulešov

Agli spettatori cui viene proposto il filmato viene chiesto di

valutare l’espressione del personaggio ed essi affermano che

nel primo caso gli occhi dell’uomo rivelano un senso di fame,

nel secondo una profonda tristezza e nel terzo una grande

eccitazione. Tutti sono d’accordo poi nell’attribuire all’attore un

talento notevole.

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Effetto Kulešov

Con questo esperimento Kulešov dimostra che un piano isolato

non ha nessun senso preciso, ma lo assume in relazione a ciò

che lo segue o lo precede. Il senso è generato perciò

dall’insieme e non dalla singola inquadratura e nasce nella

mente dello spettatore, che tenta costantemente di stabilire un

legame logico tra due inquadrature che si succedono, ma non

per questo hanno necessariamente un legame diretto.

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La potenzialità più grande del montaggio narrativo è quella di

poter sfruttare questo impulso per creare associazioni nuove,

anche arbitrarie, e guidare così lo spettatore nel suo «lavoro».

Effetto Kulešov

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Formalismo

In un panorama di grande fermento

intellettuale, orfano di tutte le

certezze che avevano spronato

l’Ottocento, le forme espressive

insorgenti, siano o no subito

etichettate come arte, attirano

l’attenzione di registi e studiosi alla

ricerca dei nuovi statuti, sia pur

provvisori, della modernità.

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Il governo sovietico, aperto a forme di rinnovamento radicale,

favorisce questo clima, grazie anche alla sensibilità di Anatolij

Lunačarskij, intellettuale cosmopolita che, come Commissario

del popolo all’istruzione, concede ampi spazi di libertà

all’esperienza dell’«Ottobre delle arti».

Anatolij Vasil'evič Lunačarskij (1875-1933)

Aleksandr Rodcenko, manifesto di propaganda del libro, 1924

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Formalismo

Il contributo più notevole

all’evoluzione del discorso

teorico sul cinema proviene

però, al di là del fermento

scatenato dalle avanguardie

dentro e fuori l’Ottobre delle

arti, dal movimento letterario

designato, con intenzione

denigratoria, «Formalismo».

Kazimir Malevich, Supremus -58, 1916

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Formalismo

Nell’ambito di una tendenza generale a

cercare spiegazioni entro una

dimensione sistemica e strutturale

anziché individuale e spiritualistica, per

quanto concerne l’arte anche la critica

letteraria si allontana sempre più

dall’interpretazione contenutistica e

dalla dimensione sociale e metatestuale

per individuare una più cruda oggettività

all’interno dell’opera stessa, nella sua

struttura, ossia nelle relazioni fra i

materiali che la compongono.

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Formalismo

Il «formalismo» si concentra perciò

sull’aspetto formale dell’opera

letteraria, sulla organizzazione del

sistema linguistico e sulle «particolarità

specifiche dell’arte verbale», come

sottolinea Ejchenbaum ne La teoria del

metodo formale (1927). I «formalisti»

studiano i fenomeni letterari come gli

esiti di un’attività «poietica» che

possiede leggi proprie, risultando in tal

modo suscettibili di un’analisi del tutto

«immanente».

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Formalismo Il postulato di una sostanziale

indipendenza della letteratura da fattori

esterni (la vita sociale o la psicologia

dell’autore) stimola intriganti assonanze

con un cinema proteso a scalzare il

dominio del contenuto per trovare le sue

radici linguistiche. L’interesse del

formalismo verso il cinema si traduce in

un coinvolgimento intellettuale sorretto

dalla convinzione che l’analisi

«scientifica» del linguaggio letterario e

di quello cinematografico possa giovarsi

degli stessi strumenti.

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Formalismo

Osip Brik, 1924

Ma si traduce anche in una rete di rapporti fra

intellettuali e registi. Šklovskij collabora con

Kulešov e propone riflessioni affini a quelle di

Ejzenštejn. L’essenziale funzione semantica

del montaggio, il carattere antinaturalistico del

cinema, la scoperta e la denuncia del

procedimento, lo «straniamento» come mezzo

per evidenziare la percezione dell’oggetto

attraversano le elaborazioni di Šklovskij,

Tynjanov ed Ejchenbaum; mentre l’elogio

della oggettività dei fatti tessuto da Osip M.

Brik, contro la loro rielaborazione artistica,

appare molto vicino alla Kinopravda di Vertov.

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Il montaggio

Il tema del montaggio assume un ruolo centrale nel dibattito

sovietico perché è il punto di giunzione fra il desiderio di scoprire

le leggi del linguaggio cinematografico e la volontà di utilizzare il

film come strumento di intervento nel quadro di un’azione

politica tesa alla mobilitazione sociale.

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Il montaggio

Il suo studio consente infatti di chiarire le dinamiche espressive

ma anche di far emergere riflessioni più ampie come i processi

di manipolazione che intervengono nella costruzione del film; un

uso consapevole del montaggio consente di andare oltre la

semplice «registrazione» dei fatti e di far emergere il lato

interpretativo, rivelandosi un mezzo efficace per la mobilitazione

delle coscienze e per l’intervento sulle cose.

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Vertov

Anche per Dziga Vertov il montaggio è molto

importante: permette di frugare nella realtà,

scomponendola in tanti pezzi, e poi di riunire i

frammenti nella «costruzione» del film. Ma non si

tratta solo una tecnica di lavoro o un esercizio

stilistico: già a partire dal primo manifesto,

elaborato nel 1922, il regista definisce il montaggio

la strada principale attraverso cui si procede a una

«organizzazione del mondo visibile».

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Vertov

Grazie al montaggio, cioè, il cinema è capace di rileggere e

trascrivere la realtà e di interpretarne i processi attraverso un

ordinamento delle immagini in cui si introduce un punto di vista

ideologicamente e politicamente condizionato.

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Vertov

Per costruire correttamente questo «punto di vista comunista

sulla realtà», solo in apparenza vicino alle posizioni del «cinema

puro», occorre liberarsi dei procedimenti formali di trascrizione

della realtà con cui la borghesia continua a mistificare il cinema

attraverso le più consuete istanze romanzesche o teatrali.

Vertov insiste molto su questo punto e sulla rinuncia ad ogni

copertura “artistica”: viaggia sui treni della rivoluzione, vuole un

cinema non-recitato, considera l’arte un diletto borghese, un

gioco di prestigio da respingere «alla periferia della coscienza».

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Vertov

La fiducia di Vertov nella potenza del cinema - uno strumento

capace di asservire le classi subalterne alienando il pubblico –

lo induce ad attaccare ancor più duramente la tradizione

narrativa classica del cinema spettacolare («Il cine-dramma è

l’oppio dei popoli») che egli, con una concezione radicale e

sovversiva per l’epoca, intende sostituire con una «fabbrica di

fatti», un cinema costruito tramite immagini-fatto, dedito a

«cogliere la vita alla sprovvista», un cinema che propone la

percezione del mondo in quanto tale, contro ogni spettacolo.

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Il cinema e la vita sono ben altro: «È la vita stessa che noi

poniamo al centro della ricerca e del lavoro. (…) Al posto dei

doppioni della vita (rappresentazioni teatrali, cinedrammi) noi

introduciamo nella coscienza dei lavoratori, i fatti, grandi o

piccoli, selezionati accuratamente, fissati e organizzati. Fatti

presi dalla vita dei lavoratori stessi e da quella dei loro nemici di

classe». «L’essenziale del Kinoglaz», in D. Vertov, L’occhio della rivoluzione, p. 85.

Vertov

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Vertov Questa idea di cinema confluisce

ne Il Cineocchio (Kinoglaz, 1924),

un film documentario girato a

Mosca e dintorni che raccoglie

brevi episodi sulla vita in Unione

Sovietica, in cui Vertov elabora

diversi modi di organizzazione del

visibile, mostrando la realtà

scomposta in molteplici segmenti,

utilizzando proiezioni all’indietro,

ralenti, angoli di ripresa anomali

in un insieme dal tono

marcatamente sperimentale.

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Vertov

Vertov esalta le potenzialità dello sguardo meccanico e della

macchina da presa «Punto di partenza: l’uso della macchina da

presa come cineocchio molto più perfetto dell’occhio umano, per

esplorare il caos dei fenomeni visivi che pervadono lo spazio».

La struttura meccanica ha capacità superiori a quella dell’uomo.

«Io sono il cineocchio, io creo un uomo più perfetto di quello

creato da Adamo».

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Vertov

Il montaggio gioca un ruolo decisivo nella «riorganizzazione» del

«mondo visibile», attraverso una pratica di revisione della realtà

oggettiva e di strutturazione interpretativa dei fenomeni. Per

Vertov infatti il montaggio non è un mezzo per comporre le

inquadrature in un progetto comunicativo articolato su una

sceneggiatura, ma è la totalità del processo di realizzazione di

un film: «Il cineocchio: è io monto quando scelgo il soggetto [...]

io monto quando osservo l’oggetto [...] io monto quando

stabilisco l’ordine di successione del formato sull’oggetto».

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Vertov

Ogni cosa che agli occhi del quotidiano appare scontata e

banale può diventare qualcosa di nuovo, estraneo e impensato,

se vista con l’occhio del cinema e del montaggio, che crea

sequenze «poetiche» e riformula la percezione dello spazio

urbano. L’uso del montaggio quindi trasforma il cinema in un

vero e proprio «cine-occhio», un «occhio armato di cinepresa»,

che consente finalmente l’oggettivazione del punto di vista del

proletariato e la riappropriazione visiva della realtà. Il Kinoglaz è

«Decifrazione della vita così com’è. Incidenza dei fatti sulla

coscienza del lavoratore». Parola di Vertov.

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L’uomo con la macchina da presa

Ne L’uomo con la macchina da presa (1929), uno dei picchi del

cinema sovietico, Vertov filma una giornata nella città di Mosca,

la demolisce in tante sequenze e la ricrea come organismo vivo

e pulsante. Non c’è alcun intento narrativo, ma neppure quello

didattico di un documentario.

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L’uomo con la macchina da presa

Si tratta di un tessuto di immagini che genera poesia visiva, con

l’uso di numerosi espedienti retorici: similitudini e metafore (il

risveglio di una donna e quello della città), e ossimori come

il funerale montato con una scena di parto. Il regista non ha

intenzione di mostrare il mondo mediante il cinema, ma di usare

il mondo per esibire le potenzialità del cinema.

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Ejzenštejn

È tuttavia Sergej Michajlovič Ėjzenštejn il regista che con

maggiore intensità s’interroga sulle funzioni politico-ideologiche

del cinema affiancando all’attività di cineasta un imponente

lavoro teorico che prosegue ininterrotto dagli anni Venti fino alla

morte (1948) e si presenta come una delle vette dell’estetica del

Novecento.

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Ejzenštejn

Se Vertov punta a costruire una cinematografia comunista sulla

base di una «trascrizione materialista» della realtà e della

partecipazione diretta della classe proletaria alla produzione

cinematografica, Ejzenštejn s’interroga invece sulla possibilità

effettiva di formulare un messaggio ideologico, o meglio ancora

sulla possibilità del cinema di essere momento di partecipazione

e strumento di conoscenza della realtà. Non basta pertanto

adottare uno sguardo «rivoluzionario» rispetto a quello

«borghese», ma occorre indagare il fondamento, la struttura e

l’oggetto dello sguardo cinematografico.

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Formalismo

È possibile schematizzare l’elaborazione teorica di Ejzenštejn in

quattro grandi nuclei, a cominciare dall’importanza attribuita ai

«procedimenti formali» del cinema, che non rappresentano solo

un «ornamento» dell’espressione, bensì la struttura logica

dell’opera, che risulta essenziale per definire l’identità di un film.

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Organismo dinamico

Il secondo nucleo si sviluppa sulla contrapposizione alla

dimensione «statica» e sistematica di quella «dinamica» e

processuale. All’idea di opera come «struttura», si aggiunge

quella di «organismo», che invita a cogliere non solo la

composizione ma anche lo sviluppo, secondo la tradizione

romantico-simbolista.

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Globalismo

Il terzo nucleo è la costante omologia tra formazione del

pensiero, funzionamento dell’opera, e andamento del reale, che

porta Ejzenštejn ad accostare le forme espressive e i fenomeni

culturali più diversi, allargando sistematicamente il campo in

vista dell’elaborazione di una teoria di taglio globale, che includa

il divenire del mondo e la formazione delle conoscenze.

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Raffigurabilità

Il quarto nucleo è la tensione verso l’alterità. L’opera non solo è

il luogo in cui il senso «abita», ma anche il luogo in cui il senso

sorge ed è pronto a perdersi: dunque la raffigurabilità confina

costantemente con l’irrappresentabile e l’irrappresentato, così

come l’intellegibile con l’enigma e l’essenza con il vuoto. Ciò

porta l’operare artistico a farsi esperienza del limite e la teoria a

farsi domanda sempre aperta.

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Montaggio delle attrazioni

La riflessione di Ejzenštejn, articolata su questi quattro nodi

fondamentali prende le mosse dal concetto di montaggio, che è

al centro delle sue preoccupazioni teoriche dai primi anni Venti

fino alla fine degli anni Trenta. Dopo aver lavorato in teatro

con Mejerhol’d, Ėjzenštejn formula nel 1923 la teoria delle

attrazioni, che trasferisce l’anno successivo nel suo lavoro sotto

forma di «montaggio delle attrazioni».

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Montaggio delle attrazioni

Nel «montaggio delle attrazioni» Ejzenstejn - convinto che il

montaggio sia “conflitto” e che le inquadrature non vanno legate

per accumulazione e omogeneità, ma per contrasto (il

montaggio è «un pensiero che trae origine dallo scontro di due

pezzi, indipendenti l’uno dall’altro») - ipotizza combinazioni che

si traducono in «ogni momento aggressivo dello spettacolo

capace di provocare una reazione psico-sensoriale nello

spettatore in vista di una finale conclusione ideologica».

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Sciopero

Nel suo primo lungometraggio (Sciopero!, proiettato a

Leningrado il 1º febbraio 1925) Ejzenštejn applica per la prima

volta questa «figura retorica cinematografica» accostando il fatto

narrato (gli operai falcidiati da parte della polizia) a un altro fatto

(in questo caso un bue squartato al mattatoio) che mescola

l’analogia simbolica con lo shock visivo.

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Sciopero

Attraverso il montaggio Ejzenštejn mette quindi in contatto il

piano narrativo/documentario e la rielaborazione simbolica della

realtà con l’intento di scuotere il torpore dell’assorbimento

passivo della storia, sollecitare l’immaginazione dello spettatore

e indurlo a lavorare con l’intelletto per completare il senso delle

figure e delle azioni mostrate solo parzialmente, producendo un

orientamento emotivo complesso e nuove associazioni di idee.

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Sciopero

Nel film il regista monta pezzi brevissimi, inquadrature spesso

strane o incongruenti, ma dure e violente, in modo da rendere il

clima concitato dell’evento raffigurato. Il «montaggio delle

attrazioni» è disordinato, incompleto, scomposto e lo spettatore

deve fare uno sforzo attivo per ricomporre il senso della storia e

dei personaggi.

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Montaggio intellettuale

Gli aspetti tecnici e materiali

prevalgono quindi su quelli

legati alla costruzione

dell’intreccio narrativo, in

base a una concezione

dell’arte come esperienza

estetica fine a se stessa che

tende a defamiliarizzare lo

spettatore con la realtà che

lo circonda e che produce

anche le teorie del

«montaggio intellettuale».

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In un’epoca in cui fare cinema significa anche pensarlo, in cui la

dimensione pratica e quella teorica si sostengono a vicenda, la

posizione di Ejzenstejn entra subito in collisione con il punto di

vista di Vertov, soprattutto per quanto attiene l’atteggiamento

con cui ci si deve porre di fronte alla realtà che viene filmata. Ne

scaturisce un’aspra dialettica che delinea la differenza tra un

cinema basato sul “fatto” e sulla “documentazione” e un cinema

che “riproduce” la realtà attraverso la “rappresentazione”.

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Mentre Vertov rifiuta radicalmente le forme

consuete di «rappresentazione» della realtà,

occultata dietro schemi desueti, la concezione

del montaggio di Ejzenstejn, sia pur

caratterizzata dall’urto degli elementi, mantiene

comunque un contatto con le forme tradizionali

poiché traduce il lavoro in un’«opera». Vertov

invece non sembra mirare alla realizzazione di

uno specifico film, ma all’utopica costruzione di

una infinita cine-cronaca, un flusso continuo

senza altro obiettivo che quello di formare la

coscienza rivoluzionaria del proletariato.

Sinfonia del Donbassa/Entusiasmo (Vertov, 1931)

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«Per Vertov, “riproduttivo” è proprio il

cinema di finzione, che va respinto e

combattuto perché il suo modo di

rappresentazione non è originario ma

derivato, non si fonda sull’autonomia

formale e costruttiva del nuovo

strumento tecnico ma dipende da altre

forme – il teatro, le arti figurative e la

letteratura – di cui si limita a riprodurre

parassitariamente i modi di

rappresentazione».

Pietro Montani

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L’avversione di Vertov verso il cinema

d’intrattenimento europeo e americano si riversa

anche su Ejzenstejn, accusato di spendere

troppo e di piegare le forme sperimentali, nel film

Sciopero, alle esigenze della rappresentazione

proprie del «teatro degli stupidi»; prende perciò

le distanze dalla «materia attoriale con cui è

costruito il film, tutti i suoi momenti teatrali e

circensi, tutte le deviazioni artistiche, alte o

decadenti, le sue pose tragiche (quand’anche

tagliate con le cesoie) di “muta sacralità”».

«Kinoglaz a proposito di Sciopero», p. 86

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Ejzenstejn di rimando reputa arcaico il

montaggio come atto di “critica”

scientifica e consapevolezza politica e

definisce Vertov un primitivo alle prese

con un cinema «ornamentale», taccia

i Kinoki di mera “contemplazione”

mentre lui si propone di usare le

immagini come con un pugno per

colpire lo spettatore.

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Cine-pugno

«Il cine-occhio» afferma Ejzenstejn

«non è solo il simbolo di un modo di

vedere, ma anche di un modo di

contemplare. Ma noi non dobbiamo

contemplare, dobbiamo fare. Non

abbiamo bisogno di un «cine-

occhio», ma di un «cine-pugno». Il

cinema sovietico deve penetrare

nei crani!»

Un approccio materialistico alla forma

cinematografica, 1925

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Il montaggio delle attrazioni viene di nuovo sperimentato nel film

successivo, La corazzata Potemkin, presentato al teatro Bol’šoj

il 21 dicembre 1925 e proiettato in pubblico un mese dopo.

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Il pubblico viene subito abituato a pensare al montaggio come

una giunzione d’immagini già vicine in senso spaziale o

cronologico e a vedere segnalata da apposite convenzioni ogni

interruzione di questa continuità. Ejzsenstejn rifiuta questo

paradigma e interpreta il montaggio come un surplus di

significato che l’associazione di due immagini può creare

rispetto alla presentazione di una singola inquadratura.

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Su questa visione agiscono considerazioni ritmiche, pittoriche e

linguistiche che portano a tentativi curiosi come quello di

rappresentare l’eco delle cannonate nel Palazzo d’Inverno

tramite inquadrature dei suoi corridoi deserti (Ottobre), a exploit

retorici come l’intervallare immagini di mucche al macello a

quelle delle cariche della polizia zarista sui manifestanti

(Sciopero) ma anche a sequenze di più tradizionale pathos

drammatico come la celebre mattanza sulla scalinata di Odessa

(La corazzata Potemkin).

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Pudovkin

Un terzo polo di riflessione è

costituito dall’approccio teorico

di Vsevolod Illarionovič

Pudovkin, allievo di Kulešov,

che individua nel montaggio lo

«specifico filmico», cioè

l’elemento peculiare dell’arte

cinematografica, ma lo

riconduce senza difficoltà

dentro una più lineare

ortodossia politica.

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Pudovkin

Il montaggio non è qui il principio in base intorno a cui si

organizza il «mondo visibile», o il meccanismo che traduce

nell’intelletto la dialettica materialista, ma un semplice

procedimento linguistico, un modo efficace per organizzare il

discorso del film. Gli scritti di Pudovkin sul montaggio e la regia

riflettono infatti sulla funzione narrativa del montaggio, inteso

come successione di elementi omogenei (accumulati come tanti

“mattoni”, secondo la versione polemica di Ejzenstejn) destinati

ad arricchire il racconto con inserti analogici e comparativi.

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Pudovkin

Pur non perdendo necessariamente il carattere estetico, qui il

montaggio ricopre la funzione compositiva di «impaginare» il

racconto per valorizzarne le possibilità espressive, nella

convinzione che la «costruzione» in fase di montaggio può

rendere meglio il senso di ciò che accade (l’esplosione di una

bomba, ad esempio si capisce meglio mostrando immagini

frammentarie di sassi, polvere, luci, ombre, ecc.).

.

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Pudovkin

Con Pudovkin anche gli errori di raccordo acquistano dignità e

valenza sovversiva: una persona che esce dall’inquadratura a

destra e in quella successiva invece di rientrare da sinistra lo fa

dallo stesso lato, può produrre un effetto originale, così come le

ripetizioni possono creare un esito simile alle variazioni musicali.

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Pudovkin

Si tratta quindi di un «montaggio narrativo», usato nel quadro di

un’epica costruita e organizzata attorno al modello della presa di

coscienza di personaggi popolari che sviluppa una struttura

realistico-descrittiva funzionale al messaggio politico/ideologico.

Film come La Madre (1926), Tempeste sull’Asia (1928), La fine

di San Pietroburgo (1927) ricorrono spesso a soluzioni di

montaggio analogico e metaforico (ne La madre un fiume in

piena simboleggia la collera rivoluzionaria).

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Poetika kino

Nel 1927 Boris Michajlovic Ejchenbaum,

autorevole esponente dell’Opojaz, (la

«Società per lo studio del linguaggio

poetico», attiva dal 1917 come uno dei

gangli vitali della scuola formalista) cura

un saggio a più voci intitolato Poetika kino

(Poetica del cinema) che costituisce il

prodotto più rilevante della riflessione

formalista sul cinema e riunisce i

contributi di studiosi di letteratura e

operatoti cinematografici.

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Poetika kino

Al di là dell’eterogeneità dei saggi (non esiste una vera e propria

teoria cinematografica accreditabile alla scuola formale), il

volume presuppone un’idea di testo cinematografico largamente

condivisa e caratterizzante, anche in rapporto alla comprensione

dei fenomeni letterari propria del formalismo. Per capire i

contributi del formalismo alla definizione concreta del fatto

cinematografico occorre prestare attenzione a questa più ampia

considerazione del testo artistico.

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I Fondamenti del cinema

Tynjanov parte da un semplice presupposto: la riproduzione

cinematografica della realtà visibile è piena di manchevolezze

(bidimensionalità, assenza del suono e del colore ecc.), ma

proprio in questa sua «povertà» (bednost) risiedono la sua forza

e il suo «principio costruttivo».

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Antinaturalismo

Se l’immagine cinematografica fosse percepita come una copia

del mondo reale, il cinema non avrebbe alcuna speranza di

rendersi formalmente autonomo e, di conseguenza, gli sarebbe

inibita ogni elaborazione semantica e stilistica. Per contro, l'arte

del cinema comincia nel momento stesso in cui l’immagine

dichiara la sua emancipazione dalla base riproduttiva e

trasforma le sue carenze illusionistiche in opportunità costruttive.

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Mondo visibile

Grazie alla sua «povertà», il cinema lavora con un materiale che

ha più del segno convenzionale che non dell'immagine

analogica, rendendosi idoneo, in tal modo, a configurare un vero

e proprio discorso. Qual è allora - si chiede Tynjanov - il

«protagonista» del cinema? Non «l’uomo visibile» o «l’oggetto

visibile», come ritiene Béla Balász, bensì il mondo visibile

«restituito non come tale ma nelle sue correlazioni di senso».

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Lo stile

Ma «la correlazione semantica del mondo visibile deriva dalla

sua trasformazione stilistica». Senza un’elaborazione stilistica

coerente e sistematica, cioè, il «mondo visibile» che costituisce

il materiale del cinema verrebbe a mancare del tratto decisivo: la

«segnicità», cioè la facoltà di dar luogo a «correlazioni di senso»

che solo un’azione compositiva responsabile può far sorgere.

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Sistema di testi

La precedenza del momento stilistico sullo stesso momento

«segnico» si raccorda meglio con una teoria del testo filmico

che con l’idea di un linguaggio cinematografico. Ogni film

inventa il suo linguaggio, a condizione «che lo stile sia

organizzato, che l’angolazione e l’illuminazione non siano

casuali ma facciano sistema». Il tratto sistematico non è

garantito da una grammatica prestabilita ma determinato, volta

per volta, dai singoli testi. Una «teoria generale del cinema», di

conseguenza, dovrà limitarsi all’inventario dei procedimenti

stilistici di base richiesti da qualsiasi sistema testuale.

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Sistema di testi

Il concetto di «sistema testuale» anticipa alcune conclusioni

della semiotica moderna ma l’intransigenza sulla «povertà» del

cinema preclude a Tynjanov (ma un po’ a tutti i formalisti) la

possibilità di comprendere l’introduzione del suono e del colore

come l’apporto di nuovi elementi costruttivi e non come un

semplice perfezionamento dell’adeguatezza riproduttiva, in

quanto tale dannoso se non addirittura fatale per l’arte

cinematografica (e qui la posizione di Tynjanov coincide in pieno

con quella che sarebbe stata sostenuta da Rudolf Arnheim).

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Šklovskij

Viktor Šklovskij, uno dei padri del formalismo, parte da posizioni

minimaliste. Già nel 1923 ha scritto che «il cinema nella sua

vera essenza si colloca al di fuori dell’arte», escludendo dal

dominio del «poetico» l’immagine in movimento, riproduttiva e

discontinua, interessante solo dal punto di vista narrativo, ma

solo perché offre un arricchimento tecnico (effetti speciali,

montaggio, straniamento) dell’invenzione compositiva o della

sequenza temporale.

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Straniamento

Con la teoria dello «straniamento»

(ripresa poi da Brecht nel teatro) egli

attribuisce al cinema proprio la

capacità di produrre un cambiamento

improvviso del punto di vista,

aprendo nuove frontiere in un

concetto di opera d’arte inserito in un

contesto narrativo che tende a

ripetere schemi prefissati. Il celebre

modello invocato è la «mossa del

cavallo» degli scacchi: sempre

angolare, trasversale, imprevedibile.

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Poesia e prosa nel cinema

Nel contributo del 1927, invece, considera un oggetto di ricerca

promettente la distinzione tra «poesia e prosa nel cinema»,

sebbene il confronto fra il cinema e le arti della parola, o il

trasferimento dei principi formali dal linguaggio verbale

all’immagine appaiano talvolta artificiosi. La distinzione tra

cinema poetico (o «versificato») e cinema prosastico sembra

utile a Šklovskij a patto di limitare il primo al cosiddetto «cinema

senza intreccio», di cui porta ad esempio i film di Dziga Vertov.

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Poesia e prosa nel cinema

Solo occupandosi di Ejzenštejn Šklovskij scioglie le sue riserve

sull’artisticità del cinema, mettendo da parte il parallelo con la

letteratura e apprezzandone le autonome potenzialità narrative.

«Affinché comparisse Ejzenštejn ‒ doveva prima esserci

Kulešov, con il suo atteggiamento cosciente nei confronti del

materiale cinematografico, dovevano esserci i kinoki, Dziga

Vertov, i costruttivisti, doveva nascere l’idea del cinema senza

intreccio» (Cinque feuilleton su Ejzenštejn, 1928).

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Ejchenbaum

Il saggio di Ejchenbaum è il più meritevole di attenzione, un

testo autenticamente fondativo caratterizzato da due apporti

essenziali e originali: la distinzione di un elemento «linguistico»

e uno «fotogenico» (che cooperano alla configurazione formale

dell’immagine cinematografica) e il rilievo accordato al ruolo

dello spettatore, cui Ejchenbaum riconosce la prestazione

determinante di un «discorso interno» che procede via via

nell’articolazione e nella connessione di ciò che il film mostra.

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Linguistico e fotogenico

L’elemento «linguistico» (inteso in senso ampio) valorizza i tratti

dell’immagine e del rapporto tra immagini che si prestano a

un’elaborazione costruttiva sovraordinata all’aspetto fotografico

e riproduttivo, offrendosi in tal modo a una vera e propria lettura.

L’elemento «fotogenico» valorizza l’insieme indeterminato delle

risonanze semantiche che l’immagine innesca «al di fuori di ogni

nesso con l’intreccio» (anche se non per forza in contrasto).

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Linguistico e fotogenico

Per Ejchenbaum il cinema è diventato una forma espressiva

autonoma quando è cominciata l’interazione fra questi due

elementi dell’immagine entro un’organizzazione consapevole.

Liberandosi dal parallelismo inconcludente tra cinema e arti

letterarie, Ejchenbaum si mette in condizione di riconoscere

nella diversa proporzione tra i due elementi dell’immagine non

solo la condizione di possibilità di una peculiare forma di

racconto, ma anche lo spazio specifico della sua evoluzione.

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Linguistico e fotogenico

Gli sembra naturale, infatti, che all’inizio il «linguistico» abbia

dovuto imporre i suoi requisiti di discorsività e di leggibilità non

meramente riproduttiva a spese del «fotogenico», ma si aspetta

anche (e la storia del cinema gli darà ragione) che quest’ultimo

avrebbe cercato e trovato il modo di interagire sempre più

profondamente con il primo, rafforzando complessivamente

l’autonomia formale del discorso cinematografico.

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Il discorso interno

Un secondo tema importante è quello del «discorso interno».

Ejchenbaum afferma che «lo spettatore cinematografico si trova

in condizioni di percezione completamente nuove e opposte a

quelle della lettura: dall’oggetto, dal movimento visibile egli

muove verso la comprensione, verso la costruzione di un

discorso interno».

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Il discorso interno

Il cinema non è neppure «un’arte muta», dato che manca solo

della «parola udibile» (siamo nel 1927), «ma questo non annulla

la funzione della parola, la pone semplicemente su un altro

piano» (quello, appunto, del discorso interno). Con questi rilievi

lo studioso mostra come la teoria del cinema sia tenuta a farsi

carico anche della «prestazione interpretativa» dello spettatore,

anticipando un tema decisivo per gli studi odierni.

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l «realismo»

Alla fine degli anni Venti, mentre

il cinema mondiale si trasforma

con l’introduzione del sonoro e la

riflessione dei cineasti russi deve

affrontare punti di snodo decisivi,

il consolidamento del regime

staliniano in Unione Sovietica

inizia a ridurre gli spazi per le

sperimentazioni e a comprimere

la libertà degli artisti, fino ad

emanare, nel 1934, il dogma del

«realismo socialista».