Il canto delle Sirene, o le voci di dentro

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Pino Blasone Il canto delle Sirene, o le voci di dentro 1 – Raffigurazioni di Sirene musicanti, a fronte di Ulisse legato all’albero della nave come nel racconto omerico (sul sarcofago di M. A. Romanus, Museo Nazionale Romano Terme di Diocleziano, Roma, 230-40 d. C.; e su un’urna etrusca del 130 a. C., Museo Archeologico di Firenze). Nel primo caso, la parte inferiore dei loro corpi è ornitoforme; nel secondo, l’aspetto è normalmente muliebre. Il non infrequente uso funerario della scena può darsi alludesse a qualche conoscenza iniziatica, in funzione escatologica. Comunque, la parziale iconografia ittiforme delle Sirene si imporrà solo nel Medioevo I mostri sapienti Le Sirene stanno a Ulisse, un po’ come il Minotauro a Teseo. A maggior ragione, esse stanno a Ulisse come la Sfinge a Edipo. In particolare, sia la Sfinge sia le Sirene sono 1

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Il mito di Ulisse e delle Sirene nella storia dell'immaginario e della cultura, da Omero ad Adorno, fino a Delvaux e a Maria Corti...

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Pino Blasone

Il canto delle Sirene,

o le voci di dentro

1 – Raffigurazioni di Sirene musicanti, a fronte di Ulisse legatoall’albero della nave come nel racconto omerico (sul sarcofago di M.

A. Romanus, Museo Nazionale Romano Terme di Diocleziano, Roma,230-40 d. C.; e su un’urna etrusca del 130 a. C., Museo Archeologico

di Firenze). Nel primo caso, la parte inferiore dei loro corpi èornitoforme; nel secondo, l’aspetto è normalmente muliebre. Il noninfrequente uso funerario della scena può darsi alludesse a qualche

conoscenza iniziatica, in funzione escatologica. Comunque, la parzialeiconografia ittiforme delle Sirene si imporrà solo nel Medioevo

I mostri sapienti

Le Sirene stanno a Ulisse, un po’ come il Minotauro a Teseo. A maggior ragione,

esse stanno a Ulisse come la Sfinge a Edipo. In particolare, sia la Sfinge sia le Sirene sono

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depositarie di un sapere. Il sapere della Sfinge è sapienziale ed enigmatico per antonomasia.

Mentre quello del Minotauro era fatto di mura, il suo è un labirinto verbale. Da questo è

illusorio evadere, perché esso riflette la ciclica ricorrenza dei ritmi della natura e insieme

presuppone una cieca fatalità. Una doppia azione determina e limita la realizzazione

individuale, quasi una variabile che si collochi all’intersezione fra tali coordinate. Quale ci

viene presentato da Sofocle e da Seneca – assai più tardi, perfino da Freud –, il dramma di

Edipo somiglia a un teorema o a un sillogismo. Per Edipo a Colono come per Socrate ad

Atene, solo la morte può rappresentare una via d’uscita reale.

In effetti, il proverbiale “Conosci te stesso” collega intimamente il personaggio Edipo

alla persona di Socrate. Il sapere suggerito o ammonito dalla Sfinge tebana è presa di

coscienza dei propri limiti invalicabili. Ma è anche, almeno nel suo sviluppo socratico,

“sapere di non sapere”, premessa metodica a ogni conoscenza attendibile di sé e del mondo.

Essa è prefigurazione della consapevolezza di una dimensione inconscia (o noumenica), che

fa da sfondo e da cornice – sia pure indefinitamente dilatabile – alle conoscenze umane. La

“metafisica” socratica sembra consistere essenzialmente in ciò, ben al di qua di quella che

sarà la costruzione metafisica aristotelica. Con tutti i mutatis mutandis del caso, per quanto

riguarda la conoscenza di un sé individuale e collettivo, essa precorre semmai la moderna

“metapsicologia” di un Sigmund Freud.

Di che tipo è, invece, il sapere delle Sirene? Indubbiamente, in esso c’è un aspetto

che sarà platonico, nel senso che conoscere è soprattutto ricordare. Tale aspetto è però

interpretabile in senso psicoanalitico, dal momento che quella reminiscenza riguarda

soprattutto i contenuti rimossi dalla coscienza. Infatti, nel loro omerico canto rivolto a

Ulisse, le Sirene affermano di sapere tutto “quanto accade sulla terra che nutre tanta gente”.

Ma ciò che effettivamente promettono di narrare è “tutto quello che nell'ampia piana di

Troia patirono Argivi e Troiani per volere degli dei”.[1] Cioè, nulla più di quanto è già nella

memoria dell’eroe, compresi i ricordi apparentemente dimenticati – e probabilmente non

pochi rimorsi – di quella terribile guerra. Ingannevoli nella loro rovinosa seduzione, i canori

mostri altro non sono che le voci di dentro persecutorie dello stesso Ulisse.

Del resto in parte anche la Sfinge lo era stata per Edipo, così strettamente la sua

immagine viene ad associarsi all’uccisione di Laio da parte del protagonista, e a ciò di

tremendo che ne consegue. L’uccisione del padre da parte dell’eroe era stata inconsapevole,

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in quanto tale. Essa restava pur sempre un delitto per futili motivi. Solo gradualmente se non

del tutto a posteriori, la Sfinge si carica di sensi di colpa e di relative associazioni mentali

nell’animo di Edipo, finché il loro peso diventa insostenibile. Intanto, la Sfinge stessa

assume valenza simbolica di coscienza aurorale o addirittura anticipante. Nelle Fenicie di

Seneca, si assiste alla riunificazione del simbolo con la coscienza che lo ha prodotto: “Là

piace ritrarmi a morire, dove sedette la Sfinge su un’alta rupe, imbastendo tranelli con la

bocca di mezza belva. Là guida il corso dei miei passi, fa’ che tuo padre si arresti. Affinché

non rimanga vacante la triste sede, ivi colloca un mostro maggiore. Sedendo su quella

roccia, declamerò parole oscure sulla mia sorte, di cui nessuno sappia venire a capo”.[2]

Queste parole per niente oscure, anzi rivelatrici, vengono rivolte da Edipo alla figlia

Antigone (va da sé, quel “mostro maggiore” è l’eroe stesso). Ma torniamo a Ulisse sulla sua

nave. Una interpretazione psicoanalitica che si rispetti non può mancare della componente

sessuale. Né si può negare che la scena del navigante legato all’albero spoglio della vela,

mentre ascolta al sicuro il canto infido delle Sirene, offra un vago esempio di simbologia

fallica masturbatoria. Tale suggestione fa da pendant con l’assicurazione omerica sulla

verginità delle Sirene (vergine era pure la Sfinge, a detta di Sofocle e di Seneca). Il quadro

che si delinea è di una sessualità frigida o perversa, lontano dalle fantasie erotiche posteriori

che si imbastiranno sulle Sirene. Questa negatività solitaria ben si accorda con sensi di colpa

e rimorsi che perseguitino il reduce, fuori dalle braccia delle sue Calipso o delle sue Circi.

Ed è la maga Circe, una che a suo modo di sesso si intende, ad avvertire Ulisse su

come comportarsi con le rivali sospette di antropofagia. Né mancherà chi accenni una

malinconica riflessione sull’argomento. Questo qualcuno è Socrate, nel Cratilo platonico.

Egli insinua che nemmeno le Sirene siano sfuggite, “così come tutti gli altri”, a un

provvidenziale istinto di morte.[3] Socrate o Platone che sia, il filosofo allude a un’intima

debolezza delle Sirene, che Circe deve aver intuito. Metafora di una coscienza che non sa

svincolarsi dall’inconscio se non a costo di gravi sacrifici e menomazioni, le incantatrici

sarebbero cadute vittime di un superiore incantesimo, o forse della presunzione di essere

immuni da umane debolezze. Che, non si sa mai, Circe avesse letto Il disagio della civiltà?

A ogni modo, dal bestiale Minotauro all’ibrida Sfinge e alle ambigue Sirene, si ha un

progresso “mostruoso” per il meglio. Così pure della significazione, dagli echi del labirinto

agli enigmi in versi e al canto ammaliatore o rammemorante. Se si volesse insistere nella

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simulazione freudiana, potremmo insinuare che dai muggiti del profondo Es si è passati agli

indovinelli di un Io contrastato, e poi alle voci inibitorie di un Super-Io interiorizzato: i

primi passi incerti di un inconscio sociale, quello della civiltà occidentale, nei rapporti fra

individui e proiezione culturale di se stessa. Mitico o epico, all’origine resta purtroppo un

conflitto. Le Sirene non promettono di narrare solo i ricordi di Ulisse, bensì la materia

dell’Iliade. Esse sono la cripto-firma di Omero.

2 – Paul Delvaux, Sirène au clair de lune: Southampton City ArtGallery; 1940. Nei quadri dell’autore raffiguranti Sirene, più che un

particolare la luna piena è un riferimento associativo frequente

Letture di tenore filosofico

A questo punto scendiamo su un terreno oggettivo, o preteso tale: quello della storia

della cultura, tutt’al più della filosofia della Storia. Già nell’antichità ci si interrogava, anche

oziosamente come attesta Svetonio, sul canto e la musica delle Sirene. È il greco Plutarco,

nelle sue Questioni conviviali, ad accreditare la tesi platonizzante di un loro potere

rammemorante. Tale effetto non è esente da rischi, per l’uomo dall’animo occupato da ansie

nascoste o da inclinazioni volgari. Ma esso può essere positivo per un soggetto predisposto

all’elevazione spirituale (va da sé che Ulisse sia più vicino alla seconda condizione). Tutto

ciò, a tal punto da far accostare se non assimilare le inquietanti Sirene alle divine Muse.[4]

Sulla scorta di suggestioni pitagoriche e del mito di Er nella Repubblica di Platone, dove le

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Sirene sono associate alle fatali Parche, il neopitagorico Giamblico e il neoplatonico Proclo

affideranno loro la cura della cosmica “armonia delle sfere”.

In Sui confini del bene e del male il latino Cicerone approfitta dell’interrogativo per

riscattare la figura di Ulisse, varando un nuovo mito destinato a incontrare fortuna, quello

dell’eroe assetato di conoscenza: Vidit Homerus probari fabulam non posse, si cantiunculis

tantus irretitus vir teneretur; scientiam pollicentur, quam non erat mirum sapientiae cupido

patria esse cariorem (“Si accorse Omero che la leggenda non sarebbe stata degna di

approvazione, se si fosse ritenuto che un tale uomo venisse irretito da banali canzoni. No, la

promessa era quella della conoscenza. Né deve destare meraviglia che ciò riuscisse più caro

della stessa patria a uno desideroso di sapere”).[5]

L’Ulisse di Cicerone ispirerà quello dell’Inferno dantesco, dannato per i suoi astuti

inganni non meno che per la sua profana e moderna curiosità di scoperta. In epoca cristiana,

nemmeno le Sirene e il loro magico canto godono di buona fama. Per vari convergenti

motivi e con una punta di misoginia, Giustino Martire, Clemente Alessandrino, Ippolito di

Roma e altri le demonizzano o le trattano da meretrici. Neppure il frequente accostamento, o

una pretesa competizione, con le artistiche Muse può ormai giovare loro. Così recita una

terapeutica allegoria della Filosofia, in La consolazione della filosofia di Severino Boezio:

“Via, o Sirene, esiziali dolcezze. Lasciate piuttosto a me curare e guarire costui, con le mie

arti”.[6] Presto, questa filosofia diverrà però ancella della teologia.

Ci vorranno secoli, prima che le Sirene tornino a farsi ascoltare o a esercitare una

seduzione in campo filosofico. Poi, ciò accade in maniera improvvisa e lucida, come non di

rado in certi casi. “Il dodicesimo canto dell’Odissea narra del passaggio davanti alle Sirene.

La tentazione che esse rappresentano è quella di perdersi nel passato”: ecco come

l’argomento viene introdotto in Dialettica dell’illuminismo, da Max Horkheimer e Theodor

W. Adorno.[7] Siamo intorno al 1944, periodo in cui si è consumata o sta per completarsi

una frattura col passato di entità pari forse solo a quella avutasi in epoca omerica. La poesia

omerica rifletteva la transizione dalla preistoria alla Storia, dalla mitologia all’epica.

Adesso, un rischio di fine di quella Storia è diventato realistico.

Il passato, almeno quello più o meno recente, si carica di sospetto. È un passato da

cui prendere le distanze, sia pure in maniera critica che ne implichi la conoscenza, ma con

quel distacco che neghi l’adesione a esso nonché eventuali condivisioni di responsabilità.

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L’Ulisse di Adorno e Horkheimer è in fuga tanto dalle Sirene quanto dai propri trascorsi che

esse gli evocano, quelli della guerra di Troia. Tuttavia, per fare ciò, egli non sa o non può

rinunciare al potere della propria astuzia. Ancor più che astuzia, è un trucco della ragione:

“In un racconto omerico è custodito il nesso di mito, dominio e lavoro”. Tale è la

condizione di privilegio, che consenta di conseguire un distacco e una consapevolezza

storica a un tempo, i quali ad altri sono prevalentemente negati.

L’espediente di farsi legare all’albero della nave per ascoltare senza pericolo letale,

mentre i marinai remano con le orecchie turate dalla cera, acquista così una valenza

metaforica estesa all’intera società. E non ci sono dubbi che qui si tratti della società

contemporanea, ancor più che di quella dell’età di Omero. Nonostante i suoi presunti sensi

di colpa, in ultima analisi Ulisse è un passato che sopravvive a se stesso, grazie alla

razionalizzazione di opportuni aggiornamenti. La nostalgia di Itaca può tornare a prendere il

sopravvento, ora che i conti con la conoscenza e con la coscienza sembrano regolati una

volta per tutte. Quanto alle Sirene, allontanandosi, esse perdono consistenza etica. In

compenso, recuperano o acquistano quel fascino estetico che le renderà celebri.

Sta di fatto, le fate alate pongono per prime il problema dei rapporti con la Storia.

Memoria artificiale e fondamento di un sé collettivo, essa può rappresentare un bene rifugio

per una individualità e una società statiche o conservatrici; un serbatoio di potenzialità da

investire in vista dell’avvenire, per una civiltà dinamica e progressiva, purché con senso

critico. L’invenzione della Storia lo è di una soggettività dilatabile nel tempo oltre che nello

spazio, benché strumentalmente manipolabile. Contaminate nell’aspetto, ammansite ma mai

domate, le Sirene tornano comunque in primo piano dai racconti fantastici, dalla poesia

lirica, dal melodramma dov’erano confinate e si erano mimetizzate. Più letteraria e

incentrata su Ulisse è l’interpretazione di Maurice Blanchot.[8]

In Le chant des Sirènes, primo capitolo di Le livre à venir, Blanchot paragona

l’omerico Ulisse a Orfeo, quale personaggio del poema ellenistico Argonautiche di

Apollonio Rodio. Entrambi incontrano e sfidano le Sirene, prevalendo sul loro maleficio.

Ma Orfeo vi riesce non grazie a qualche sotterfugio della ragione, bensì scendendo in campo

aperto, sullo stesso terreno della musica e del canto. Se c’è una dimensione in cui l’uomo

può misurarsi con successo duraturo, con le forze a volte avverse della natura e del destino,

essa è quella artistica e letteraria. In tale ambito, lo scontro si rivela un confronto

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vantaggioso a lungo termine, perché arricchisce sempre chi ne divenga attore e fruitore. A

differenza di Ulisse, Orfeo ha ascoltato e assimilato fino in fondo il canto delle Sirene. Lui

sì potrebbe magari dirci “che cosa le Sirene siano solite cantare”.[9]

Diversamente dal pratico Ulisse, in un noto mito Orfeo tenterà l’intentabile. Egli

impiegherà anche la lezione strappata alle Sirene, per cercare di aggirare la morte e riportare

in vita la sua Euridice. Non solo amore per la conoscenza, dunque, ma amore tout court.

Sulla scia di Blanchot, al sottile legame fra Euridice e le Sirene in Il pensiero del di fuori

Michel Foucault ha dedicato un intero capitoletto, per concludere subito dopo: “Tendere

l’orecchio verso la voce argentata delle Sirene, rivoltarsi verso il volto proibito che già si è

sottratto alla vista, non è soltanto infrangere la legge per affrontare la morte, non è soltanto

abbandonare il mondo e la distrazione dell’apparenza, è sentire improvvisamente crescere in

sé il deserto nel quale, all’altra estremità […] balena un linguaggio senza l’assegnazione di

un soggetto, una legge senza Dio, un pronome personale senza personaggio, un volto senza

espressione e senza occhi, un altro che è il medesimo”.[10]

3 – P. Delvaux, Le village des sirènes: The Art Institute of Chicago;1942

Il silenzio, letterario, delle Sirene

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Sul momento lo scampato Ulisse pare più che altro interessato al presente, proiettato

verso un futuro da ricostruire, preoccupato di un passato paralizzante o imbarazzante. E le

narratrici omeriche hanno assolto il loro compito di conversione all’epica, forma precoce di

storicizzazione, a compimento di una tradizione orale affabulante ampiamente femminile.

Ma esse lasciano in sospeso quel residuo arcaico, che è il loro stesso mito. Adorno e

Horkheimer così commentano: “L’epos non dice che cosa accade alle cantatrici dopo che la

nave di Odisseo è scomparsa. Ma nella tragedia sarebbe stata certo la loro ultima ora, come

per la Sfinge quando Edipo risolve l’indovinello, eseguendo il suo ordine e così

rovesciandola”. In effetti il poeta Licofrone, il geografo Strabone e il mitografo Igino ci

informano su un loro suicidio o inabissamento, a causa dello scacco subìto.

Nell’apologo Il silenzio delle Sirene, è Franz Kafka a fornirci una risposta alternativa

sul loro destino. Esse sarebbero state ridotte al silenzio. Anzi, l’autore insinua che abbiano

sempre taciuto. Tuttavia, l’astuzia “puerile” di Ulisse fu tale, da lasciare loro lo spazio di

cantare nella propria immaginazione. Si può aggiungere quanto implicito nella narrazione di

Kafka. Che quello spazio si sia talmente ridotto in epoca moderna, da non permettere più di

esprimersi alle voci dell’inconscio personale – in questo caso, attendibilmente comunicante

con uno naturale –, se non in maniera remota, deformata e confusa. Oggi come oggi, quel

silenzio sarebbe pressoché totale. E “le Sirene hanno un’arma ancora più terribile del canto,

cioè il loro silenzio”. Per fortuna, l’ironia kafkiana lascia aperto uno spiraglio, tramite la

morale di una pensosa didascalia: “Dimostrazione del fatto che anche mezzi inadeguati,

persino puerili, possono contribuire alla salvezza”.[11]

Il tema del silenzio delle Sirene viene ripreso e sviluppato da Maria Corti, nel

racconto Il silenzio della sirena, compreso nella raccolta Il canto delle sirene. Ma qui

l’ambientazione è spostata nel Medioevo, nel Sud d’Italia, dalle parti di Otranto. Il giovane

pittore Basilio prende il posto di Ulisse o di Orfeo, in quanto protagonista maschile. Allora,

le Sirene non erano ancora scomparse dalla fantasia popolare, specialmente in una terra e su

un mare che erano stati Magna Grecia. E Basilio se ne fa un’idea personale: “le sirene

invece di scomparire dalla storia umana davano luogo a frequenti apparizioni, ritorni qua e

là nel corso dei secoli; niente meraviglia che figurassero in capitelli, in libri di poesia, nelle

prediche, di volta in volta con diversa natura”.[12]

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Pian piano, l’idea diventa una magnifica ossessione. Basilio dipinge Sirene, si mette

sulle loro tracce sperando – e temendo – di essere fra gli eletti cui esse accordino le loro

apparizioni, crede di avvertirne la misteriosa presenza durante i suoi tragitti sul mare intorno

a Otranto, si pone in ascolto del loro canto. Ciò che ottiene è solo un profondo, panico

silenzio. In parte, è però questo silenzio a ispirare quello che egli ritiene il suo capolavoro:

un sacro dipinto di Santa Sofia, la divina sapienza raffigurata secondo la tradizione

dell’iconografia bizantina. È qui evidente, da parte della narratrice e filologa, un recupero

dell’idealizzazione pitagorico-platonica delle Sirene, ma anche del loro pathos “esiziale”.

Infatti, a differenza di Ulisse, Basilio perirà nel naufragio della sua barca.

Ma poi, alla fin fine, Ulisse si era salvato davvero? In un altro racconto della stessa

raccolta, Cronaca di antiche seduzioni, la Corti ci disillude in merito, con un volo pindarico

ricollegando il tardo Ulisse di Dante a quello originario di Omero. Più la complicità di un

pizzico della “noia” di Pascal e di Leopardi, motore nascosto di non poche grandi imprese.

Ed è la rivincita delle Sirene, estrema e inesorabile: “è legge di natura che fra le inesauribili

esperienze che hanno riempito la vita di ciascuno ve ne sia una che s’impone su tutte le

altre. Per lui fu il lontano meriggio in cui, legato all’albero maestro, udì la voce della sirena.

Gli accadeva nella sua Itaca come se la udisse ancora con la stessa misteriosa forza direttiva.

Fu dunque cosa naturale che egli riprendesse il mare; e il naufragio al di là delle Colonne

d’Ercole fu il capolavoro delle sirene, creato a lunga distanza”.[13]

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4 – P. Delvaux, studio per Les grandes sirènes: Musées Royaux desBeaux-Arts de Belgique, Bruxelles; 1947

Umanità e animalità delle Sirene

Presumibilmente, il trattato migliore di Michel Foucault resta Le parole e le cose.

Un’archeologia delle scienze umane. La prefazione prende le mosse da una citazione da

L’idioma analitico di John Wilkins, in Altre Inquisizioni di Jorge Luis Borges. Si tratta di

una singolare – a dir poco – classificazione, che il narratore argentino asserisce di aver

desunto da “una certa enciclopedia cinese”: “gli animali si dividono in: a) appartenenti

all'imperatore, b) imbalsamati, c) addomesticati, d) maialini da latte, e) sirene, f) favolosi, g)

cani in libertà, h) inclusi nella presente classificazione, i) che si agitano follemente, j)

innumerevoli, k) disegnati con un pennello finissimo di peli di cammello, l) et caetera, m)

che fanno l’amore, n) che da lontano sembrano mosche”.[14]

Per inciso, sarebbe da capire perché Foucault abbia sostituito “che fanno l’amore”

all’originale “che hanno rotto il vaso”. Può darsi, ma ne dubitiamo, che in cinese le due

espressioni siano legate da un doppio senso. Ancor meno credibile, che il filosofo francese

si sia lasciato scoraggiare da un risibile nonsenso nel nonsenso. Rimane in piedi la

congettura di un lapsus ammiccante. A ogni modo il problema, evidenziato per assurdo dalla

parodia, è che il senso di una generalizzazione dipende dal contesto e dalle motivazioni.

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All’addetto ai censimenti in un paese remoto nello spazio e nel tempo, al limite la

catalogazione di cui sopra sarebbe apparsa meno scriteriata e arbitraria. Omologazioni ben

più raffinate, aggiornate, tendenziose, possono diffondere deduzioni errate. Tanto ci

autorizza a calarci, per un attimo, nel punto di vista delle Sirene.

Sorvoliamo sul dettaglio della lettera iniziale minuscola. Nell’ordine della sequenza

in questione, l’accostamento delle “sirene” con degli esseri “favolosi” può anche funzionare.

Meno lusinghiera e convincente suona la generalizzazione “animali”. Ciò significherebbe

esorcizzare, imbalsamare o ridurre a mera apparenza la componente umana pure presente,

anzi costitutiva di esseri favolosi quali le Sirene. Ma un non esistente, che si finga animale e

perfino umano, sarebbe il massimo inganno. Toccherebbe ammettere un nulla che giochi a

mascherarsi, per meglio adescarci, magari speculando sulla nostra sete di assoluto come per

il povero pittore Basilio di Maria Corti.

Viceversa sussiste l’ipotesi che le Sirene, tanto più in quanto non esistenti, non

intendano ingannare nessuno, a partire da Ulisse e da Orfeo. Esse sarebbero immagini

speculari tanto dell’umanità quanto dell’animalità che sono in noi, in proporzioni da

definirsi. E concediamo che sia in Ulisse sia in Orfeo l’umanità abbia prevalso, nonostante

sovrapposizioni mitiche successive che – proprio o anche per questo – li danno come

perdenti. Quello che essi hanno proiettato e intravisto nello specchio sono rispettivamente la

Storia e l’arte: costruzioni tipicamente umane ma tali da non resistere a lungo

all’inconsistenza e all’annullamento, qualora illuse di potersi sganciare dall’animalità che le

ha generate, che continua a costituirne un alimento eppure il rischio di fondo.

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5 – P. Delvaux, Les grandes sirènes: Metropolitan Museum of Art,New York; 1947

Io narrante e sé narrativo

Se si considera attendibile l’interpretazione del canto delle Sirene come “voci di

dentro” del protagonista dell’Odissea, l’episodio omerico di Ulisse e delle Sirene viene a

essere il primo tentativo di rappresentare un sé inconscio, nella storia delle letterature

occidentali. Come altrimenti nei sogni, quest’inconscio viene proiettato all’esterno,

oggettivato e in qualche misura sublimato, nelle figure delle vergini alate e nel suono delle

loro magiche voci. Ma va notato che solo in parte l’io narrante interpretato da Ulisse

coincide col sé narrato, per giunta in maniera così obliqua. Circa metà dell’accaduto è

raccontato in prima persona dal naufrago ad Alcinoo re dei Feaci, e alla sua corte. Per l’altra

metà, il narratore riferisce parole a suo tempo a lui dirette da Circe, che prefigurano il

pericolo costituito dai mostri canori e impartiscono consigli su come affrontarlo ed evitarlo.

A sua volta, Ulisse racconta di aver riferito le parole di Circe ai meno fortunati

compagni, i quali si sono attenuti alle direttive conseguenti. Quanto veniamo a sapere del

canto delle Sirene è filtrato attraverso una pluralità frammentaria di testimonianze, in modo

tale che per ricomporlo siamo rimandati da un soggetto all’altro. Ci riesce difficile giungere

a una fonte unitaria, identificabile con la coscienza dell’eroe. Una verità probabile è che il

gioco dissimulante non sia un puro virtuosismo letterario. Esso è piuttosto motivato dal fatto

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che in nessun punto del poema, come in questo caso, la percezione da parte di un

personaggio collima con la coscienza del poeta. Ulisse e Omero si sovrappongono, quasi si

identificano. D’altronde, è un passo in cui l’epica riflette su se stessa e si mostra in

trasparenza. Così facendo, essa si trascende. In effetti, il canto delle Sirene sembra

anticipare il coro della tragedia, nelle sue espressioni migliori e formalmente impersonali.

Parafrasando il pensatore a noi contemporaneo Paul Ricoeur, in Temps et récit,

assistiamo alla nascita di un “sé narrativo”, che si lasci alle spalle ogni dichiarato io narrante

o, meglio, che lo riassorba nella dimensione di una soggettività diffusa e indeterminata.

L’Ulisse del canto delle Sirene potrebbe essere uno di noi, se non ciascuno di noi. Le Sirene

stesse cantano una canzone, che può risultare familiare e insieme sconcertante. Una

seduzione sta nella loro promessa di rinsaldare la coerenza dei nostri io, fondandoli nella

memoria e integrandoli nella Storia, al riparo da forze centrifughe e dissolutrici. Inquietante

sarebbe il loro dare i rispettivi sé come narrati una volta per tutte, incapaci di alterazioni e

ulteriori sviluppi, irrigiditi in una sorta di ripetitiva oggettività.

Questa severa visione delle Sirene ne smentisce la fama erotica. Essa concorda con

un’antica tradizione, che le favoleggia mutate in mostri dalla dea dell’amore Afrodite, per

punirle di un ostinato attaccamento alla propria castità. Pur volendo rispettare tale

impostazione, permangono argomenti validi per sostenere la tesi opposta. Proprio per il

carattere inquietante, la vocazione rammemorante delle Sirene funge da stimolo a un

ripensamento dinamico della propria identità, se non altro per antitesi rispetto a errori o

orrori del passato. Se Ulisse avesse prestato un po’ più ascolto alle sue voci di dentro,

indulgendo all’esame di coscienza da esse suggerito, forse si sarebbe liberato da residui

arcaismi eroici. Reduce infine a Itaca, si sarebbe astenuto da nuove vendette e stragi, questa

volta fra le pareti domestiche. Ciò, almeno nei limiti del superfluo o del gratuito. Ma non si

può pretendere troppo da un archetipo, né attribuire un’eccessiva saggezza all’inconscio.

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6 – P. Delvaux, La grande sirène del 1949, collezione privata

L’Ulisse minimo di Delvaux

A partire dal Medioevo, l’iconografia relativa alle Sirene ha subito una

trasformazione influenzata dalle leggende del Nord-Europa: da donne-uccelli a donne-pesci.

In via eccezionale, esse sono raffigurate come semplici donne; ad esempio da parte di Paul

Delvaux, pittore surrealista belga specialmente attratto dal tema, da lui attualizzato in una

dimensione onirica. Ciò non toglie che il pittore abbia dipinto Sirene nella forma

tradizionale tarda, con busto di donna e lunga coda di pesce, come la Sirène au clair de lune

del 1940 e La grande sirène del 1949, ambientate in paesaggi notturni urbani o portuali. Il

mare accennato o suggerito sullo sfondo è facile metafora di un grande inconscio, da cui

tutto proceda e in cui rifluisca. In qualche misura le Sirene più umanizzate di Delvaux,

mediatrici silenziose ed enigmatiche, richiamano quelle letterarie di Kafka.

In particolare, conviene concentrarsi su Le village des sirènes del 1942 e Les grandes

sirènes del 1947.[15] La prima è una scena diurna, ben poco solare. In primo piano e oltre,

le Sirene stanno sedute davanti a porte e facciate di case basse, schierate ai due lati e rivolte

verso la via di un villaggio. I loro occhi sono spalancati e lo sguardo è perso nel vuoto. Le

mani sono congiunte sul grembo di vestiti scuri, lunghi e accollati. Esse somigliano

vagamente a vedove di guerra. In effetti, l’opera fu composta dall’autore durante il secondo

conflitto mondiale. Il mare visibile in fondo alla strada tortuosa è grigio, sovrastato da una

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brulla scogliera e dal cielo livido. Anziché di vitalità o erotismo, un senso di sterilità e

angoscia fa pensare alla versione più arcaica del mito originario.

Con riferimento al quadro del 1947, la catastrofe bellica è ormai trascorsa. La

sensualità congeniale a Delvaux riaffiora e si impone nella seminudità delle nuove Sirene,

quasi risvegliate da una cupa realtà eppure ancora attonite. L’artista può tornare al sogno, e

alle atmosfere lunari, fuori dal lungo incubo a occhi aperti. Gli occhi delle amabili signorine

ingioiellate sono sbarrati. Ma le loro mani poggiate sui grembi si sollevano e in qualche

caso accennano gesti automatici, come in cerca di significati superstiti da proporre. Alcune

di esse sono sedute in sequenza. Altre si sono levate in piedi e provano perfino un passo di

danza. Una di loro, eretta, ha una mano alzata sotto il mento, in atteggiamento pensoso e

perplesso. Una incertezza della composizione è attestata dal fatto che l’ultima figura, in uno

studio preparatorio ora al Museo Reale di Belle Arti di Bruxelles, era interamente vestita. Il

paesaggio è diventato neoclassico, fra pose statuarie e templi in stile dorico.

Se si confrontano i due quadri fra loro e con la tradizione del mito, colpisce

l’ambiguità simbolica delle Sirene in essi modernamente riproposta. Severe o gaie,

inquietanti o seducenti secondo aspetti e momenti, contemporaneamente fuori del tempo e

testimoni del proprio tempo, esse occupano un crocevia tra Natura e Storia. Altro fattore

sconcertante è la loro ripetitiva pluralità, cioè una serialità non priva di possibili significati

traslati. Convinta di essersi sganciata dalla servitù alla ciclica ricorrenza dei ritmi naturali,

l’umanità è scivolata in una coazione a ripetere più insidiosa: quella di eventi storici, che

anzi si sviluppano in un crescendo negativo degli effetti da essi prodotti. Quasi si direbbe

che le Sirene riflettano una tendenza critica non dispiegata a un livello cosciente, eppure

insita nell’inconscio collettivo, a fronte di gravi allarmi o emergenze.

In tutto questo, che fine ha fatto Ulisse, o chi per lui? Se l’Ulysses del romanzo

famoso di James Joyce è un medio-borghese, quello anonimo di Delvaux è più piccolo,

letteralmente parlando. Sullo sfondo di entrambi i quadri, un ometto si allontana verso il

mare, di spalle alla scena in primo piano che si presume abbia attraversato indenne. Ripreso

in La grande sirène del 1949, sia pure in maniera obliqua il dettaglio è più fedele

all’originale di quanto possa sembrare (destinato infine alla cecità, Delvaux era un cultore di

Omero). Quello ascoltato da Ulisse nell’Odissea non è il canto delle Sirene. È solo una

promessa o dichiarazione di canto. L’omissione equivale a un silenzio. Non è dato sapere se

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si sarebbe trattato di quanto dichiarato o di altro, e di che altro. L’occasione persa dall’eroe

lo è anche per noi. Ciò che le loro voci hanno da dirci somiglia troppo a un’eco, perché si

possa seguitare a immaginare qualcosa dentro tale incognita e ad agire di conseguenza.

L’opera di mediazione delle Sirene, tra inconscio e coscienza, si arresta qui. Tuttavia, nel

dipinto del 1949, l’Ulisse minimo di Delvaux avanza verso la luce remota di un faro…

7 – P. Delvaux, La grande sirène del 1950,collezione privata. Sotto, Elisabeth Jerichau-

Baumann, En havfrue: Ny Carlsberg Glyptotek,Copenaghen; 1873. Della tenebrosa Sirena

dipinta dall’artista danese, probabile modelloispiratore di alcune tra quelle di Delvaux,

esistono più versioni simili ma differenti fra loro

Copyright [email protected] 2007

[1] Omero, Odissea, canto XII, vv. 39-54 e 153-200.[2] Lucio Anneo Seneca, Phoenissae, vv. 118-124. Quanto al personaggio di Ulisse e sia pure conun’ottica etica moderna, sulle sue colpe o presumibili sensi di colpa è eloquente il poeta greco

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Ghiannis Ritsos nel componimento “La disperazione di Penelope” (in Pietre Ripetizioni Sbarre.Poesie 1968-1969, trad. it. di Nicola Crocetti, Feltrinelli, Milano 1978; pp. 54-55). Cfr. anche leliriche di Jorge Luis Borges “Odissea, libro ventitreesimo” ed “Edipo e l’enigma” (in L’altro, lostesso, trad. a cura di Tommaso Scarano, Adelphi, Milano 2002; pp. 102-103 e 184-185).[3] Platone, Kratýlos, 403d-e: οὐδένα δεῦρο ἐθελῆσαι ἀπελθεῖν τῶν ἐκεῖθεν, οὐδὲ αὐτὰς τὰςΣειρῆνας, ἀλλὰ κατακεκηλῆσθαι ἐκείνας τε καὶ τοὺς ἄλλους πάντας (con riferimento all’aldilà,“nessuno poi desidera davvero tornare qui, nemmeno le Sirene, eppure loro stesse sono lì attrattecome tutti gli altri”). Nella Repubblica, 617b, di esse si ha una più celestiale, musicale e catarticamitizzazione, contrastante con quella di una seduzione ingannevole loro solitamente attribuita.[4] Plutarco, Symposiakà, libro IX, questione 14.[5] Marco Tullio Cicerone, De finibus bonorum et malorum, libro primo, XVIII 49.[6] Anicio Manlio Severino Boezio, Consolatio Philosophiae, I 1: Sed abite potius, Sirenes usquein exitium dulces, meisque eum Musis curandum sanandumque relinquite. Circa una competizionenel canto fra Sirene e Muse, da cui le seconde sarebbero uscite vincitrici, cfr. Guida della Grecia diPausania (IX 34, 3) e la scena raffigurata su un sarcofago romano di età severiana, oggi alMetropolitan Museum of Art di New York.[7] Max Horkheimer e Theodor W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, trad. it. di Renato Solmi daDialektik der Aufklärung. Philosophische Fragmente (1944, 1947 e 1969), Einaudi, Torino 1997;pp. 39-86.[8] Maurice Blanchot, Le chant des Sirènes, in Le livre à venir, Parigi, Gallimard, 1959.[9] Tranquillo Svetonio, in De vita Caesarum, Vita Tiberii, 70: quid Sirenes cantare sint solitae.[10] Michel Foucault, Il pensiero del di fuori, in Scritti letterari, trad. it. di Cesare Milanese da Lapensée du dehors (apparso nella rivista francese Critique nel 1966), Feltrinelli, Milano 1996; p.128.[11] Franz Kafka, Il silenzio delle sirene, in Il silenzio delle sirene. Scritti e frammenti postumi(1917-1924), trad. it. di Andreina Lavagetto da Das Schweigen der Sirenen, Feltrinelli, Milano1994. È comunque da annotare che già in L’ultimo viaggio di Giovanni Pascoli (Poemi conviviali,1904), le Sirene questa volta tacciono, e Ulisse muore nel naufragio della sua nave tra gli scogli.[12] Maria Corti, Il silenzio della sirena, in Il canto delle sirene, Bompiani, Milano 1989; p. 76.Una interpretazione psicoanalitica in chiave junghiana, e molto mediterranea, degli archetipi delleSirene è data in Basilio Reale, Sirene siciliane. L’anima esiliata in “Lighea” di Giuseppe Tomasi diLampedusa, Moretti & Vitali, Bergamo 2001.[13] M. Corti, Cronaca di antiche seduzioni, in Il canto delle sirene, op. cit.; pp. 31-32. Cfr. Dante,Inferno, canto XXVI, vv. 90-142.[14] M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, trad it. di EmilioPanaitescu da Le mots et les choses (1966), Rizzoli, Milano 1996; p. 5. Cfr. J. L. Borges, L’idiomaanalitico di John Wilkins, in Altre Inquisizioni, in Tutte le opere, vol. I, Einaudi, Torino 1994; pp.1004-5.[15] Le due opere si trovano rispettivamente presso The Art Institute of Chicago e il MetropolitanMuseum of Art di New York. La grande sirène del 1949, appresso citata e attualmente in unacollezione privata, è stata venduta presso Sotheby’s a Londra nel 2002 e a New York nel 2005 (danon confondere con altra versione con lo stesso titolo, del 1950, acquistata sul mercato d’arte nel2007 ed esposta nel 2010 presso la Galerie Oscar De Vos, Sint-Martens-Latem, Belgio). Delvaux,che aveva dipinto Sirène au clair de lune o en pleine lune nel 1940 (oggi alla Southampton City ArtGallery), nel 1969 produrrà anche una litografia a colori più convenzionale e intitolata La sirène.Purtroppo, è andata persa una grande figura di Sirena eseguita a tempera dall’autore fra il 1946 e il1949, su un muro interno della casa del suo amico George Grard a Saint-Idesbald in Belgio.

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8 – La percezione moderna della figura delle Sirene è assai oscillante:si va da quella paradossale materna di una Sirena allattante del

Pinturicchio, in un riquadro del rinascimentale Soffitto dei Semidei(Palazzo dei Penitenzieri, Roma; 1490), a una fatale e apocalittica delpittore simbolista francese Gustave Adolphe Mossa in La sirena sazia

(Musée des Beaux-Arts Jules Chéret, Nizza; 1905)

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