Il bilancio e la sua analisi - Carlo Massa...

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0 Il bilancio e la sua analisi Capitolo A Il bilancio aziendale. pag. 1 1 - 3 Beni e aziende pag. 1 4 - 6 Informazioni, dati Patrimoniali e Reddituali e fatti di gestione pag. 2 7 - 17 Sistema informativo, contabilità generale e partita doppia pag. 3 18 - 20 La chiusura dei conti, la riapertura dei conti patrimoniali, la destinazione del reddito pag. 7 21 Gestione caratteristica e extra-caratteristica; gestione ordinaria e straordinaria pag. 8 Capitolo B Sulla “veridicità” dei bilanci. pag. 9 22 Sul valore dei beni e l’impossibilità di bilanci “veri” 23 - 24 Bilancio falso vs bilancio onesto; bilancio attendibile o non attendibile Capitolo C La pubblicità del bilancio pag. 11 25 - 26 Funzione della pubblicità e obblighi di pubblicità 27 Bilancio ordinario, abbreviato e delle micro-imprese Capitolo D I due principi base e i criteri di valutazione. pag. 13 28 – 29 Il principio della prudenza e quello della continuità pag. 13 30 – 31 Le regole (principi) contabili nazionali (O.I.C.) e internazionali (I.A.S.) pag. 14 32 Quali regole si devono o possono adottare in Italia; l’alternativa O.I.C e I.A.S 33 Le due filosofie alla base delle differenze fra regole nazionali e internazionali pag. 15 34 Il significato del termine fair value pag. 16 35 Cosa è il fair value pag. 17 36 Il cortocircùito fra obbligo di prudenza e possibilità di valutazione al fair value pag. 18 37 Un (utile?) ripasso del concetto di tasso d’interesse pag. 19 38 Critiche al “fair value” (mie e di pochi altri dinosauri) pag. 21 39 Un esempio di differenza fra criteri: la valutazione delle immobilizzazioni tecniche pag. 22 40 Un altro esempio: la valutazione dei crediti non a breve (immobilizz. finanziarie) pag. 24 41 La valutazione dei debiti: vecchia pragmatica ragionevolezza pag. 25 e nuovo fanatico perfezionismo 41a Il “costo ammortizzato” pag. 26 41b Il “tener conto del fattore temporale” pag. 27 42 Depilandogli alla perfezione le ascelle, non si rende umano un gorilla pag. 30

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Il bilancio e la sua analisi

Capitolo A Il bilancio aziendale. pag. 1 1 - 3 Beni e aziende pag. 1

4 - 6 Informazioni, dati Patrimoniali e Reddituali e fatti di gestione pag. 2

7 - 17 Sistema informativo, contabilità generale e partita doppia pag. 3

18 - 20 La chiusura dei conti, la riapertura dei conti patrimoniali, la destinazione del reddito pag. 7

21 Gestione caratteristica e extra-caratteristica; gestione ordinaria e straordinaria pag. 8 Capitolo B Sulla “veridicità” dei bilanci. pag. 9 22 Sul valore dei beni e l’impossibilità di bilanci “veri”

23 - 24 Bilancio falso vs bilancio onesto; bilancio attendibile o non attendibile

Capitolo C La pubblicità del bilancio pag. 11 25 - 26 Funzione della pubblicità e obblighi di pubblicità

27 Bilancio ordinario, abbreviato e delle micro-imprese

Capitolo D I due principi base e i criteri di valutazione. pag. 13

28 – 29 Il principio della prudenza e quello della continuità pag. 13

30 – 31 Le regole (principi) contabili nazionali (O.I.C.) e internazionali (I.A.S.) pag. 14

32 Quali regole si devono o possono adottare in Italia; l’alternativa O.I.C e I.A.S

33 Le due filosofie alla base delle differenze fra regole nazionali e internazionali pag. 15

34 Il significato del termine fair value pag. 16

35 Cosa è il fair value pag. 17

36 Il cortocircùito fra obbligo di prudenza e possibilità di valutazione al fair value pag. 18

37 Un (utile?) ripasso del concetto di tasso d’interesse pag. 19

38 Critiche al “fair value” (mie e di pochi altri dinosauri) pag. 21

39 Un esempio di differenza fra criteri: la valutazione delle immobilizzazioni tecniche pag. 22

40 Un altro esempio: la valutazione dei crediti non a breve (immobilizz. finanziarie) pag. 24

41 La valutazione dei debiti: vecchia pragmatica ragionevolezza pag. 25 e nuovo fanatico perfezionismo 41a Il “costo ammortizzato” pag. 26

41b Il “tener conto del fattore temporale” pag. 27

42 Depilandogli alla perfezione le ascelle, non si rende umano un gorilla pag. 30

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Capitolo E La riclassificazione del bilancio. pag. 31

43 L’analisi di bilancio

44 La riclassificazione del bilancio

45 La riclassificazione dello stato patrimoniale

46 La riclassificazione dell’attivo patrimoniale pag. 34

47 Le immobilizzazioni

48 Le rimanenze

49 I crediti a breve

50 La liquidità

51 Le più frequenti “correzioni” dell’attivo patrimoniale pag. 35

52 La riclassificazione delle fonti di finanziamento pag. 36

53 Il patrimonio netto pag. 36

54 Riserve palesi e riserve occulte

55 Una possibile suddivisione del patrimonio netto

56 Capitale sociale e riserva sovrapprezzo azioni

57 Riserve di rivalutazione

58 Riserva legale

59 Riserve statutarie

60 Altre riserve

61 Utile e perdite portati a nuovo

62 Si sa mai che qualcuno non l’abbia ancora capito ... pag. 40

63 Il capitale di terzi pag. 41

64 I Fondi per rischi e spese

65 Il trattamento di Fine Rapporto

66 I debiti (certi nell’importo a scadenza e nel creditore)

67 La riclassificazione del Conto Economico pag. 43

68 Il valore della produzione

69 Il valore aggiunto

70 Dopo il valore aggiunto

71 Sulla significatività dell’E.B.I.T.D.A.

Capitolo G L’autofinanziamento aziendale (tra reddito e patrimonio). pag. 51 72a L’autofinanziamento proprio

72b L’autofinanziamento improprio

73 Breve sintesi di quanto fatto fino a ora pag. 54

Capitolo H L’analisi per indici. Vedi libro di testo pagine da 108 a 137

Capitolo I Il rendiconto finanziario. pag.

Capitolo L La nota integrativa pag.

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Avvertenze per lo studio di questi appunti Nel tentativo di rendere più comprensibile e meno pesante l’argomento ho spesso adottato brutali semplificazioni. Lo studente fanatico diligente può, se vuole, ovviare alle qui abbondanti lacune e imprecisioni studiando anche il libro di testo o navigando intelligentemente su internet (oltre, ovviamente, a rivolgersi a me chiedendomi approfondimenti “personalizzati” su qualsiasi punto qui trattato).

Alcuni punti di queste pagine risulteranno non chiari alla prima lettura: a volte, infatti, per la loro completa comprensione è necessaria la conoscenza di punti successivi (parafrasando Excel: non sono riuscito a evitare alcuni “riferimenti circolari”). Motivo in più per leggere varie volte l’intero documento.

Ho fatto ampio uso delle parentesi per permettere, saltandone il contenuto (scritto con carattere diverso e ridotto), una rilettura più fluida del testo; ciò che è scritto nelle parentesi, però, non è di minore importanza e quindi la sua comprensione è indispensabile. Le soli parti la cui mancata assimilazione non deve preoccuparvi ai fini della preparazione scolastica (ma la cui comprensione è comunque

utile in generale) sono quelle scritte in verde, e – purtroppo per voi – sono decisamente poche rispetto alle altre.

Ho ripetuto alcuni concetti in punti diversi, spesso racchiusi fra le parentesi di cui ho scritto sopra; l’ho fatto non per demenza senile ma per assicurarmi che, rileggendoli più volte, li assimiliate meglio o, almeno, diventino meno estranei.

. Il Bilancio e la sua analisi .

Capitolo A: Il bilancio aziendale.

0. Impara lo schema “Il sistema informativo di bilancio” a pagina 41 del testo (non c’è fretta, hai tempo, entro fine argomento).

1. Un bene (sia materiale, sia servizio) è qualcosa che soddisfa esigenze umane, direttamente (se bene di consumo) o indirettamente (se bene di produzione).

2. Un’azienda (di produzione, ché di quelle di erogazione non ci occupiamo) è un organismo che produce beni, utilizzando lavoro e altri beni, e che ha l’obiettivo di ottenere una produzione (un output) complessivamente di valore maggiore del valore totale dei beni e del lavoro (cioè degli input) consumati per produrre.

3. Le aziende producono sia beni fisici sia beni non materiali, cioè “servizi” (in quasi tutte le aree economicamente sviluppate oltre

i tre quarti del valore prodotto dalle aziende assume la forma di servizi). La caratteristica che distingue i servizi dagli altri beni è il fatto che nei servizi il momento dell’utilizzo non può essere distinto dal momento della produzione (detto in altre parole: non

si possono fare scorte di servizi). In entrambi i casi, comunque, si utilizzano input per ottenere output: lo fa l’impresa edile che trasforma il valore di mattoni, cemento e lavoro cutrese nel valore di una casa (valore in genere superiore a quello

degli input consumati, anche se negli ultimi anni spesso non è andata così, e da qui il fallimento di tante imprese di costruzioni), lo fa l’agente immobiliare che, con un paio di telefonate, segnala a chi vuole vendere una casa il nome di chi è interessato a comprarla. Nel primo caso, l’output prodotto è fisico; nel secondo caso no, è un servizio, ma ugualmente gli input (il computer,

la linea telefonica, il lavoro dell’agente e della sua segretaria ecc.) si sono trasformati in un output (il servizio di mediazione) di valore normalmente superiore. Invece di questa distinzione fra beni fisici e servizi, i libri delle superiori distinguono (il vostro lo fa alla pagina 4) fra produzione diretta (che sarebbe quella fisico-tecnica, tipica delle aziende “industriali”), e produzione indiretta (che sarebbe

quella da loro definita produzione “economica”, quella svolta dalle aziende attive nell’intermediazione degli scambi). Per quanto sia da molti anni che mi ci metto d’impegno, io questa distinzione non l’ho ancora capita, ma se a te appare più chiara della mia qui sopra e me la spieghi, mi sta bene anche quella del libro.

4. In tutte le attività umane, e quindi anche nell’attività di produzione, per decidere cosa fare occorrono informazioni e quindi, soprattutto, dati quantitativi. I dati quantitativi necessari all’azienda per prendere le decisioni si distinguono fra dati di stock, che sono quelli che si riferiscono a un certo istante (come la quantità d’acqua

in una vasca, il valore dei debiti, delle attrezzature, dei crediti, del capitale netto e di tutti gli altri dati “Patrimoniali”) e dati di flusso, quelli che, per avere significato, devono riferirsi a un dato periodo di tempo [come la quantità d’acqua che esce da un rubinetto, le vendite, gli interessi,

l’utile e tutti gli altri dati cosiddetti “Reddituali” (o, da alcuni, “Economici”)]. Se i dati disponibili sono tanti e affidabili, allora le decisioni potranno essere corrette e l’attività aziendale efficiente; se i dati disponibili sono insufficienti o errati, allora le

decisioni saranno sbagliate e l’azienda distruggerà ricchezza (o ne creerà meno di quello che potrebbe fare se avesse a disposizione dati

validi; vedi anche i punti 10. e 11.).

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5. I dati relativi all’azienda vengono raccolti nei “conti”, cioè in prospetti (suddivisi in due sezioni, sinistra e destra) ognuno intestato a un elemento di cui interessa conoscere il valore. I conti sono di due tipi: conti Patrimoniali, da cui si traggono i dati aziendali di stock, e conti Reddituali, che informano sui dati aziendali di flusso.

6. I dati confluiscono nei conti attraverso l’annotazione (la “registrazione”) dei fatti che accadono e che sono relativi all’azienda. Le cose che capitano e che riguardano l’azienda possono distinguersi fra fatti “interni”, cioè quelli che non mettono l’azienda in rapporto diretto con il mondo esterno (come, per un ristorante, il cuocere gli spaghetti o la rottura di un piatto da parte

di un cameriere; i fatti interni non causano alcun movimento finanziario) e fatti “esterni”, cioè quelli che collegano l’azienda all’ambiente in cui opera (come, sempre per il ristorante, l’acquistare la pasta, il saldare un debito a un fornitore, l’incassare il prezzo del servizio prodotto, il pagare la tassa rifiuti

comunale o lo stipendio al cameriere; i fatti esterni possono provocare sia flussi reali di beni ma anche, diversamente dai fatti interni, flussi finanziari).

7. La contabilità, - o, per usare un termine più up to date, il “management information systems” (italianamente “sistema informativo aziendale”) ha la funzione di fornire i dati necessari per prendere decisioni corrette al fine di migliorare l’efficienza aziendale (cioè per fare in modo che l’azienda massimizzi l’utile, che un tempo era chiamato profitto

e ora è ipocritamente sempre più spesso sostituito dal sinonimo “creazione di valore”). Esistono tante branche della contabilità. Noi qui ci occupiamo della cosiddetta “contabilità generale”, quella di cui si occupano soprattutto gli amministrativi (i ragionieri), e che ha cinque funzioni principali:

a. Informare sul valore di ogni elemento patrimoniale dell’azienda in un qualsiasi momento, quindi fornire dati di stock (quanti € di credito abbiamo ora verso il cliente X, quanti di debito verso il fornitore Y, quale era il saldo del c/c Credem il 31.3.2017, quale è adesso

il valore del nostro fabbricato di via Zatti, quanti € di debito avevamo il 31.3.2017 per il mutuo Unicredit., quanti sono adesso i crediti complessivi ecc.);

b. Informare sul valore di ogni elemento reddituale che transita nell’azienda in un qualsiasi periodo di tempo, quindi fornire dati di flusso (quanti € di merci ci ha acquistato il cliente X nel 2° trim. 2017, quanto abbiamo venduto negli U.S.A. nel 2014,

quanti € d’energia elettrica abbiamo acquistato nel 2015, quanto gasolio per auto l’anno scorso, quanti interessi sono maturati nel 1° trim. ‘17 sul mutuo Unicredit ecc.);

c. Informare sulla situazione patrimoniale complessiva che l’azienda ha (aveva) in un qualsiasi momento

della sua esistenza, dalla sua nascita a oggi. Questa informazione è offerta dallo “stato patrimoniale” a un certo istante, una “fotografia” dell’azienda in cui si evidenziano da una parte (a sinistra) gli “impieghi”, cioè i valori attivi patrimoniali e, dall’altra (a destra), le “fonti”, ovvero il “capitale di terzi” (cioè i debiti) e il “capitale proprio”

aziendale, che si ottiene come differenza fra attivo e debiti. Debiti (capitale di terzi) e “Netto” (capitale proprio) sono infatti le due uniche “fonti di finanziamento” dell’attivo aziendale, le fonti attingendo dalle quali l’azienda ha potuto acquisire l’attivo patrimoniale.

Il capitale di terzi viene suddiviso in due macro-voci: I. i debiti propriamente detti, cioè gli impegni di valore certo che l’azienda ha verso soggetti noti; II. i debiti chiamati “fondi”, che sono impegni di valore incerto e/o che l’azienda ha nei confronti di soggetti non ancora individuati e di cui parleremo tra una ventina di pagine ai punti xy. e xy. . Centrano nulla con questi “fondi” i “fondi rettificativi dell’attivo”, in quanto i fondi rettificativi NON sono fonti di finanziamento ma semplicemente importi correttivi di qualche valore dell’attivo, come – ad esempio – le immobilizzazioni (il cui valore d’acquisto viene corretto dal fondo ammortamento), i crediti (il cui valore nominale

viene corretto dal fondo svalutazione crediti) ecc.

Il capitale proprio può avere due origini: I. provenire da fonti esterne, cioè dagli apporti (al netto di eventuali prelievi) effettuati del titolare o dei soci a favore dell’azienda che, in questo modo, è finanziata con “capitale di rischio”; II. può provenire dall’interno, dall’utile realizzato dall’azienda (al netto di eventuali perdite) che, se non viene prelevato, costituisce l’autofinanziamento aziendale.

Visti dalla parte del soggetto finanziatore e non dell’azienda finanziata, mentre il capitale proprio aziendale è detto, come già visto, “capitale di rischio”, il capitale di terzi è detto “capitale di debito” (anche se chi finanzia l’azienda

con capitale di debito non può certo illudersi di non rischiare i propri soldi: rischia solo di meno). E, come esercizio, pensa a perché “di meno”.

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d. Informare sull’andamento economico complessivo dell’azienda in un qualsiasi periodo della sua vita.

Questa informazione è offerta dal “conto economico” del periodo, un “filmato” in cui appare da una parte (a destra) cosa l’azienda ha prodotto nel periodo che ci interessa e quanto vale questo output; dall’altra (a sinistra) ci mostra quali input l’azienda ha impiegato nel periodo e quanto è stato il valore di questi input consumato nel periodo (valore che si è trasferito nell’output ottenuto). Come già detto e come si ripeterà ancora nel punto 10, la differenza fra valore della produzione ottenuta e valore degli input usati è il reddito aziendale del periodo considerato.

e. Ricostruire in un qualsiasi momento le vicende aziendali accadute in un qualsiasi periodo della vita aziendale, anche a distanza di molti anni; ciò, tra l’altro, rende possibile il controllo di quello che è stato fatto. Lo “stato (o situazione) patrimoniale” esistente nell’istante T1 e il “conto economico” del periodo compreso fra l’istante T1 e un momento precedente T0 sono i due documenti di gran lunga più importanti che formano il

“Bilancio” dell’esercizio (del periodo) che va da T0 a T1 (e, infatti, sono gli unici due documenti obbligatori per tutte le aziende).

8. Fare bene un bilancio non è facile, richiede professionalità, impegno lavorativo e tempo: pretendere un bilancio ben fatto prima di un paio di mesi dalla fine del periodo che si vuole rendicontare è demenziale; avere bilanci con una frequenza maggiore del trimestre impone, infatti, il sostenimento di costi amministrativi elevati a fronte di un valore informativo aggiuntivo scarso. Ecco perché, solitamente, i bilanci si fanno con cadenza

annuale (che, tra l’altro, è quella generalmente imposta dalla legge), semestrale o, più di rado, trimestrale.

9. Per giungere ai suoi scopi e quindi anche per redigere il bilancio aziendale, la contabilità (generale) può tranquillamente non occuparsi dei fatti interni di gestione e quindi limitarsi a rilevare solo quelli esterni (vedi punto

6.); per annotare questi fatti si adotta un sistema di registrazione, la “partita doppia”, inventato dai mercanti italiani nel medioevo e che, perfezionatosi nei secoli, prevede essenzialmente queste sei regole che dovete sapere a memoria:

a) Ogni miglioramento del valore di un elemento patrimoniale dell’azienda (un’entrata di cassa, l’aumento di un credito, la

diminuzione di un debito, l’aumento del valore di una immobilizzazione ecc..), si registra a sinistra (in “Dare”) del conto patrimoniale interessato; ogni suo peggioramento (come, ad esempio, un’uscita di cassa, la diminuzione di un credito, l’aumento di un debito, la diminuzione del

valore di un’immobilizzazione ecc.) si inserisce invece a destra (in “Avere”) del conto patrimoniale coinvolto.

b) Il valore consumato di un fattore produttivo (input) si registra a sinistra (in “Dare”) di un conto di reddito; il valore dell’output prodotto si registra a destra (in “Avere”) di un conto di reddito.

c) La registrazione di ogni fatto aziendale provoca l’inserimento nel Dare (di uno o più conti) di un importo complessivo esattamente uguale all’importo complessivo che viene annotato in Avere (di uno o più conti).

d) I fattori produttivi destinati a esaurire la loro utilità in poco tempo (meno di un anno, come lo zucchero per la pasticceria) si fa

finta di averli già completamente consumati fin dal momento dell’acquisto, e quindi (vedi regola b) I parte) il loro acquisto si

annota in dare di un conto di reddito (li si considera già spariti, anche se magari ne abbiamo fatto una scorta che useremo nel prossimo futuro; del

mancato consumo di questi input acquistati e rimasti in scorta si terrà conto, a fine periodo, con una scrittura “di assestamento”- vedi punto16., lett.A).

e) I consumi dei fattori produttivi destinati a dare utilità per molto tempo (più di un anno, come la lavastoviglie per il bar) si registrano solo quando si redige (= si fa) il bilancio, e quindi l’acquisto di questi input, chiamati “immobilizzazioni”, si registra in dare di un conto patrimoniale (vedi regola a) prima parte) e l’annotazione del loro consumo viene fatta in un conto di reddito – ad esempio il conto “ammortamento” – solo a fine periodo (quindi dal momento dell’acquisto fino

all’istante precedente la data del bilancio si finge che il loro valore, nonostante l’uso, non diminuisca - vedi punto 16., lett. B).

f) Il valore dei beni prodotti lo si registra nel momento in cui li si vende (e non nel momento in cui effettivamente li si produce). Quando si dovrà fare il bilancio, e quindi in sede di scritture di assestamento, si terrà poi conto, in aumento dei ricavi, di eventuali beni prodotti ma non ancora venduti e, in diminuzione dei ricavi, di eventuali vendite effettuate nel periodo di beni prodotti nei periodi precedenti (vedi punto 15.).

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10. La differenza fra il valore dei beni prodotti (il valore dell’output) e il valore dei fattori produttivi (il valore degli input)

consumati è il reddito, chiamato utile (quando è positivo), oppure perdita (quando è negativo).

11. Da quanto scritto deriva che se in un certo periodo il reddito aziendale è positivo, allora quell’azienda in quel periodo ha creato ricchezza (perché ha prodotto beni di valore maggiore di quelli consumati per produrre, immettendo nuovo valore nel mondo e

arricchendo così la comunità umana); se, invece, l’azienda è in perdita, allora distrugge ricchezza (impoverendo la comunità umana, come

fanno, ad esempio, l’Alitalia da quasi mezzo secolo e l’Acea di Roma da quando esiste).

12. L’utile (la ricchezza aggiuntiva) lo crea l’azienda (perché capace e/o fortunata), quindi è giusto che spetti a lei e che contribuisca ad aumentarne il valore (come detto alla lettera c del punto 7., l’utile prodotto misura la capacità dell’azienda di autofinanziarsi cioè di incrementare da

sé il capitale netto); la perdita (la distruzione di ricchezza) la provoca l’azienda (perché incapace e/o sfortunata), quindi è giusto che sia lei a subirla (e non è giusto che ricada sul cittadino contribuente come capita, ad esempio, con Alitalia da quasi mezzo secolo e Acea di Roma da quando esiste).

13. Per sapere se in un certo periodo un’azienda è in utile o in perdita, e per sapere di quanto e perché lo è, occorre trovare il valore di ciò che l’azienda ha prodotto e il valore di ciò che ha consumato in quel periodo per produrre. E, come già detto, il risultato di questa ricerca viene riassunto ed evidenziato nel conto economico.

14. Se rileggi il punto precedente noterai l’inesistenza di qualsiasi vocabolo che abbia a che fare con le parole “incassi” e “pagamenti”; questo semplicemente perché il reddito (e quindi anche i ricavi e i costi che, come vedremo appena sotto,

sono i componenti del reddito) ha nulla a che fare con gli incassi e con i pagamenti: in un certo periodo (ad esempio il primo

semestre 2017) un’azienda potrebbe avere ottenuto un utile di 100 milioni senza aver incassato un euro e avendo effettuato pagamenti per 300 milioni. I flussi monetari – detti anche “flussi di cassa” – in entrata e in uscita poco hanno a che fare con i flussi reali (che sono i ricavi e i costi) dei beni che escono (l’output) e che entrano (gli input) nell’azienda. Mentre, come già detto, i flussi reali di valore sono riassunti e descritti dal “conto economico”, più avanti (ai punti xyxy ) vedremo che i flussi monetari sono riassunti e descritti nel “rendiconto finanziario”, altro documento riassuntivo dell’attività aziendale che fa parte del bilancio aziendale, insieme al conto economico e allo stato patrimoniale (e alla nota integrativa e la relazione sulla gestione, due documenti pallosissimi).

15. Per trovare il valore della produzione di un periodo (ad esempio il terzo trimestre 2017) si parte dai ricavi di vendita del periodo (cioè, nell’esempio, dalle vendite di luglio, agosto e settembre 2017), vi si aggiunge il valore di ciò che l’azienda ha prodotto ma non ha ancora venduto entro quel periodo (cioè, nell’esempio, si aggiunge il valore dei prodotti presenti in scorta al 30/9/2017)

e vi si toglie il valore dei beni venduti nel periodo ma che furono prodotti in periodi precedenti (e che, sempre

nell’esempio, erano quindi tra le scorte di prodotti all’inizio del 1° luglio 2017).

In formula: valore produzione = vendite + rimanenze finali beni prodotti – rimanenze iniziali beni prodotti .

Il valore della produzione, infatti e come già anticipato al punto 9 f), è cosa diversa dal valore delle vendite: se in settembre produco piastrelle che ritengo valgano 100.000 € (valore degli input consumati) e le vendo in ottobre, il valore di 100.000 € di componente positivo di reddito l’ho ottenuto (l’ho realizzato, l’ho prodotto) in settembre, non in ottobre, e quindi quei 100.000 € vanno a finire nel reddito del terzo trimestre, non in quello del quarto. Se poi in ottobre quelle piastrelle prodotte in settembre riesco a venderle a 125.000 €, allora nel reddito del quarto trimestre ci andranno a finire solo i 25.000 € di valore ottenuti (realizzati, prodotti) in ottobre grazie all’attività di vendita svolta in ottobre, non anche i 100.000 € di valore che furono prodotti in settembre.

Normalmente, e soprattutto se il periodo interessato è non breve, il valore della produzione non si discosta di molto dal valore delle vendite, ciò perché in genere la maggior parte della produzione di un periodo, ad esempio di un anno, è anche venduta nello stesso periodo (pensate a una pasticceria o a un caldarrostaio ambulante); non sono rari, comunque, i casi in cui fra ricavi delle vendite e valore della produzione la differenza è forte (pensate, questa volta, a

un’azienda edile che nel corso del 2017 ha iniziato ma non ancora terminato la costruzione di un edificio di 50 appartamenti e non ne abbia ancora venduti).

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16. Per trovare il valore degli input usati in un periodo, cioè per trovare i costi, bisogna suddividere tutti gli acquisti in due tipi (vedi quanto già scritto alle lettere d) e e) del punto 9.): A) acquisti di input a rapido consumo (cioè

fattori produttivi a immediato rilascio di valore, quindi di utilità, come il latte per la gelateria o l’energia elettrica per qualsiasi azienda); B) acquisti di input durevoli (quindi fattori produttivi a lento rilascio di valore, come gli autobus per la SETA o la lavastoviglie per un bar). A) dal totale degli acquisti di input a rapido consumo effettuati nel periodo si toglie poi la parte del loro valore che, a fine periodo, non è stato ancora consumato (cioè si toglie il valore delle rimanenze finali di questi input) e vi si aggiunge il valore delle scorte che questi input avevano all’inizio del periodo (cioè si aggiunge il valore delle rimanenze iniziali di questi input).

In formula: costi per input a rapido consumo = acquisti – rimanenze finali input + rimanenze iniziali input .

B) come già scritto nella regola e) del punto 9., gli acquisti di “immobilizzazioni”, venendo registrati in dare di conti patrimoniali, non hanno un’influenza diretta sul reddito. Il costo (il componente negativo di reddito) di cui occorre tenere conto è dato dalla perdita di valore (l’ammortamento) che l’immobilizzazione subisce per effetto dell’uso e dell’invecchiamento (l’acquisto per 90.000 € di un trattore da parte di un’azienda agricola nel 2017 inciderà come costo, nel dare del conto economico di

quest’anno e se il coefficiente di ammortamento è del 10%, solo per 9.000 €; i rimanenti 81.000 rimangono nel Dare dello stato patrimoniale alla voce “immobilizzazioni

tecniche”), e tale perdita di valore la si registra con una scrittura di “assestamento” solo quando si fa il bilancio.

17. Il presente è il frutto di ciò che è accaduto nel passato, perciò anche il patrimonio (nel significato di insieme di tutti gli

elementi patrimoniali sia attivi che passivi) attuale di un’azienda è il risultato di tutti i fatti che le sono capitati da quando è nata a oggi. Le operazioni che si svolgono nell’azienda costituiscono, tutte insieme, la “gestione” aziendale.

Se la gestione viene efficacemente registrata, se cioè i fatti sono correttamente e ordinatamente annotati in contabilità, allora è possibile sia conoscere da cosa è (era) costituito in un qualsiasi istante il patrimonio di quell’azienda (cioè quali sono (erano) e quanto valgono (valevano) i suoi elementi attivi e passivi) sia conoscere cosa e quanto valore l’azienda ha prodotto e cosa e quanto valore ha utilizzato per produrre in un qualsiasi periodo della sua esistenza.

Sempre al fine di ripassare cose che dovreste avere già digerito negli anni scorsi, ricordo che per fare in modo che la gestione venga efficacemente registrata è necessario, anche se non sufficiente, che:

a) i componenti positivi (ricavi) e negativi (costi) del reddito si registrino in contabilità generale, (con le “scritture di esercizio”) nel momento in cui se ne ha la documentazione (costituita in genere da una fattura o una

contabile bancaria, ma non solo) che testimonia il sorgere del debito o del credito, oppure nel momento in cui avviene il pagamento di un componente reddituale non in precedenza fatturato; in questo modo, però, si commettono (consapevolmente) due tipi di errori, perché: err.1) non sempre i ricavi o i costi documentati e quindi registrati si riferiscono al periodo di cui si vorrà, in sede di bilancio, determinare il risultato economico; err.2) non tutti i ricavi e i costi hanno già avuto, alla data del bilancio, la “manifestazione finanziaria” (in sostanza: la

loro documentazione), e quindi non tutti sono stati già registrati;

b) per poter avere un bilancio che tenga conto di tutti i fatti accaduti e che contemporaneamente non sia inquinato da fatti che non riguardano il periodo di cui si vuole determinare il risultato economico si ricorre alle “scritture di assestamento”. Le scritture di assestamento sono annotazioni contabili che correggono gli errori descritti in err.1) (e queste sono le scritture di storno, come la rilevazione dei risconti attivi e passivi o la

“capitalizzazione di costi”, cioè trasferire degli € dal dare di conti di Reddito al dare di conti Patrimoniali) e in err.2) (e queste sono le

scritture di imputazione, come la rilevazione degli ammortamenti e dei ratei attivi e passivi) .

Quando si è sicuri di aver corretto tutti gli “errori” commessi in sede di scritture d’esercizio, cioè una volta terminate le scritture di assestamento, si può procedere alle ultime tre registrazioni contabili da cui scaturiranno i dati finali, sia reddituali che patrimoniali, da inserire nei due fondamentali documenti di bilancio costituiti dal “Conto Economico” del periodo che si vuole analizzare (usualmente un anno) e dalla “Situazione Patrimoniale” esistente alla fine del periodo (usualmente alla mezzanotte del 31 dicembre).

Queste tre registrazioni contabili sono la “chiusura economica”, la “rilevazione del reddito” e la “chiusura patrimoniale” che trovi nel prossimo punto.

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18. La “chiusura dei conti”. Le tre scritture di chiusura contabile sono quanto di più meccanico si possa trovare nella contabilità, infatti all’atto pratico basta solo cliccare su un sotto-menù del software gestionale; essendo però necessario capirne la funzione, ti tocca leggere con attenzione anche questa pagina.

1) la “chiusura dei conti economici” (chiamati anche “conti di reddito”), che consiste nel trasportare in un conto “d’ordine” (cioè né Patrimoniale e né di Reddito, in quanto creato al solo scopo di “ordinare” i saldi contabili concentrandoli in un unico prospetto

e che quindi viene usato solo in questa occasione) chiamato “profitti e perdite” (o “Conto Economico” o “Ricavi e costi”, o “Luca Pacioli” o “Viva la

pizza” o come ti pare) tutti i saldi dei conti economici. Ad esempio: se, terminate tutte le registrazioni (sia d’esercizio, sia

d’assestamento), il saldo del conto “Interessi passivi” (ovviamente saldo “Dare”) risulta 1.234,56 €, la scrittura di “chiusura economica” di quel conto sarà: . Interessi passivi R . profitti e perdite O .

| 1.234,56 1.234,56 | Saldo post chiusura = 0

Procedendo in questo modo per tutti i conti di reddito, alla fine il saldo del conto d’ordine “profitti e perdite” (o

“Conto Economico” o “Costi e ricavi” o “Viva la pizza” o come ti pare) darà quindi la misura del reddito aziendale di quel periodo: se il saldo del conto d’ordine risulta essere in “Avere” (in quanto i ricavi superano i costi, e ti ricordo che “saldo” è sinonimo di “eccedenza”)

allora il reddito è un utile, mentre un saldo del conto d’ordine in “Dare” (perché sono stati i costi a superare i ricavi, quindi

c’è una “eccedenza Dare”) ci dice che l’azienda in quel periodo ha subito una perdita.

Nel conto d’ordine “profitti e perdite” appariranno quindi tutti i valori che, sebbene con un ordine diverso e addensati in meno voci, ricopieremo nel documento del bilancio aziendale detto “Conto Economico”.

2) la “rilevazione del risultato economico”, cioè il trasferimento del saldo del conto d’ordine “Profitti e perdite” (appena individuato con l’operazione precedente) al conto Patrimoniale “Reddito dell’esercizio” [e che questo conto sia

Patrimoniale non dovrebbe stupirti in quanto da almeno un paio d’anni dovresti aver capito che il reddito prodotto va a variare il Capitale Netto, aumentandolo (se il reddito è positivo, cioè se l’azienda ha ottenuto un utile, ha creato ricchezza) o diminuendolo (se il reddito è negativo, cioè se l’azienda ha subito una perdita,

ha distrutto ricchezza) ]. In questo modo il conto d’ordine “profitti e perdite” si chiude e muore (dopo aver vissuto solo pochi ma

intensi attimi: aperto, nato recependo la precedente prima scrittura ha, dopo questa seconda registrazione, già esaurito la sua funzione). La scrittura sarà quindi (nell’ipotesi di un’eccedenza di ricavi sui costi pari a 666,66): . profitti e perdite O . Reddito d’esercizio P . | 666,66 | 666,66

Saldo post scrittura = 0

3) alla “chiusura dei conti patrimoniali” che consiste nel trasportare in (un altro) conto “d’ordine” chiamato “stato patrimoniale” (o “situazione patrimoniale” o “attivo e fonti” o “Karl Marx” o “Viva i ciccioli” o come ti pare) tutti i saldi dei conti patrimoniali. Ad esempio: se, terminate tutte le registrazioni (sia d’esercizio, sia d’assestamento), il saldo del conto “Debiti v/fornitore Pinco Palla” (che ovviamente sarà, salvo casi particolari, un saldo “Avere”) risulta 6.543,21 €, la scrittura di “chiusura patrimoniale” di quel conto sarà: . Debiti v/forn.Pinco Palla P . stato patrimoniale O . 6.543,21 | | 6.543,21 Saldo post chiusura = 0

Procedendo in questo modo per tutti i conti patrimoniali, alla fine nel conto d’ordine “stato patrimoniale” (o

“attivo e fonti” o “Karl Marx” o “Viva i ciccioli” o come ti pare) si leggeranno, uno dopo l’altro, gli importi di tutti i valori attivi ((in dare)

e di tutte le fonti di finanziamento (in avere) presenti in azienda alla fine del periodo considerato.

Nel conto d’ordine “stato patrimoniale ” appariranno quindi tutti i valori che, sebbene con un ordine diverso e addensati in meno voci, si leggeranno nel documento del bilancio aziendale detto “Stato Patrimoniale”. 19. La “riapertura dei conti patrimoniali”. Terminata questa operazione meccanica, cioè chiusa la contabilità del periodo (ad esempio dell’intero anno 2017) ci si ritrova ora (a inizio 2018) con tutti i saldi contabili pari a zero, il che è certamente utile nel caso dei conti di Reddito (o Economici) in quanto lì ora devono apparire solo i costi e i ricavi del nuovo periodo (quelli sostenuti in precedenza restano memorizzati e archiviati nella contabilità chiusa, ma non devono inquinare la redditività del 2018 che

andremo a valutare fra un anno nel prossimo bilancio), ma non va assolutamente bene per i conti Patrimoniali: se alla mezzanotte del 31 dicembre 2017 in azienda c’erano quei valori, allora in contabilità devono esserci anche all’inizio del primo gennaio 2018. Per sistemare la questione si procede allora alla “riapertura dei conti patrimoniali” con una quarta scrittura meccanica (un solo clic su un altro sotto-menù del software gestionale, e via che si va) esattamente contraria alla precedente appena fatta, cioè opposta alla “chiusura dei conti patrimoniali”.

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Quindi: due o tre clic sul mouse e tutto, chiusura e riapertura dei conti, è fatto e senza possibilità di errori. Voglio però che riflettiate su cosa imponeva, fino a poche decina d’anni fa, fare queste operazioni meccaniche: per calcolare a mano e controllare i saldi di tutti i conti (clienti e fornitori compresi), riscriverli sempre a mano sui conti d’ordine e verificare che il saldo di “profitti e perdite” coincidesse (con segno invertito) con quello di “stato patrimoniale”, cercare gli errori (la contabilità non “quadrava” mai al primo colpo, proprio come nei vostri compiti in classe) occorrevano centinaia o, se l’azienda non era piccola, migliaia di ore-uomo. Quando senti parlare di rivoluzione informatica pensa anche a questo. 20. La destinazione del reddito. Una volta che l’assemblea dei soci ha deciso cosa fare dell’utile o come coprire la perdita del periodo il cui bilancio ha appena approvato (e normalmente questo capita, se il periodo è l’anno solare, in marzo

- aprile) si riporta in contabilità la delibera assembleare. Lo si fa con una scrittura contabile andando a trasferire il saldo del conto patrimoniale “Reddito d’esercizio” nei vari conti costituenti il “Capitale Netto” (quindi, spesso, “Riserva

legale”, “Riserva statutaria”, “Altre riserve”), e/o nel conto “Debiti v/soci per utili da distribuire”. In questo modo i saldi dei conti patrimoniali coinvolti sono corretti, compreso quello, ora pari a zero, del conto patrimoniale “Reddito d’esercizio”. Credo sia utile un doppio esempio, il primo nel caso di reddito positivo e l’altro di perdita.

- l’ipotesi è un utile 2017 di 100.000 € che l’assemblea ha deciso, il 30/4/2018, di accantonare a riserva legale per 5.000 €, a Riserva statutaria per 35.000 € e di distribuire fra i soci per 60.000 €:

. Reddito d’esercizio P . Riserva legale P . Riserva statutaria P Debiti v/soci x utili da distrib. P

| 100.000 (saldo al 1.1.2018) | xy (saldo al 1/1/2018) | yz (saldo al 1/1/2018) | 0 (saldo al 1/1/2018) (30/4/2018) 100.000 | | 5.000 (30/4/2018) | 35.000 (30/4/2018) | 60.000 (30/4/2018)

- l’ipotesi è una perdita 2017 di 100.000 € che l’assemblea del 30/4/2018 ha deciso di coprire mediante azzeramento della Riserva statutaria (il cui saldo precedente era 92.000 €) e riduzione della riserva legale per 8.000 €: Reddito d’esercizio P . Riserva statutaria P . Riserva legale P

(saldo al 1.1.2018) 100.000 | | 92.000 (saldo al 1/1/2018) | yz (saldo al 1/1/2018) | 100.000 (30/4/2018) (30/4/2018) 92.000 | (30/4/2018) 8.000 |

21. Le varie “gestioni”. Una Per avere informazioni più utili è opportuno suddividere la gestione complessiva (cioè tutti i fatti che riguardano l’azienda) in varie aree, spesso identificate in quattro o cinque: la gestione “caratteristica”, la gestione “finanziaria”, la gestione “fiscale” e la (eventuale) gestione “patrimoniale”, (detta anche “extra

caratteristica”).

Sempre ai fini di una maggiore qualità informativa è poi anche necessario evidenziare i fatti “straordinari”, cioè quelli eccezionali, nel senso di non destinati a ripetersi abitualmente, separandoli da tutti gli altri.

Separando i costi e i ricavi causati da operazioni straordinarie o da fatti sì abituali, ma collegati agli aspetti finanziari o fiscali o non tipici della gestione aziendale, per esclusione rimangono solo e tutti i componenti di reddito generati dall’attività tipica e usuale dell’azienda (la gestione detta, appunto, “caratteristica” o “operativa” o “tipica”); in questo modo risulta più chiaro valutare se l’impresa sa fare bene o no il suo mestiere, cioè se l’azienda è o no efficiente nel suo “core business”. Un esempio può essere utile per chiarire:

La falegnameria “Marangoni s.r.l.” ha chiuso il bilancio 2016 con un utile netto di 100.000 €, mentre il suo concorrente, la “Geppetto s.r.l.”, nel 2016 ha avuto una perdita (un reddito negativo) di 50.000 €. Le due falegnamerie hanno un giro d’affari analogo (il valore della produzione è per entrambe pari a 2 milioni). A prima vista, se non distinguiamo le gestioni fra le varie aree, diremmo che la Marangoni è un falegname migliore, più efficiente di Geppetto s.r.l. . Ma se la Geppetto è strangolata dai creditori (nel 2016 ha pagato 120.000 € di interessi passivi), massacrata dal fisco (ha dovuto pagare

180.000 € di imposte) e bersagliata dalla sfortuna (ha subito un paio furti con danni per 230.000 €), mentre la Marangoni s.r.l. si finanzia interamente col capitale proprio (quindi non paga interessi passivi), le sue imposte nel 2016 sono state solo 50.000 € e ogni anno ottiene dalla gestione di un paio di capannoni dati in affitto un reddito di 210.000 €, allora risulta che la Geppetto è un falegname di gran lunga più bravo della Marangoni . Infatti il “reddito operativo” (vedremo meglio il

significato di questo termine al punto 70.) della prima risulta positivo per 480.000 (- 50.000 + 120.000 + 180.000 + 230.000) mentre quello della Marangoni è negativo per 60.000 € di (100.000 + 50.000 – 210.000) .

Su queste distinzioni torneremo con l’argomento “riclassificazione del conto economico”, ai punti da 67. a 71. .

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Capitolo B: Sulla “veridicità” dei bilanci.

22. Sul valore dei beni. Un bene, qualunque sia, non ha un valore: ne ha infiniti. Il valore, infatti, è soggettivo (un posto al concerto di Ligabue per alcuni di voi vale 80 €, vale meno di 0,01 € per me); inoltre, per uno stesso soggetto, il valore di un bene varia da un momento all’altro (per chiunque una cioccolata calda al bar vale meno, e quindi è disposto a pagarla meno, in luglio che in gennaio); infine, nello stesso istante il valore di un bene è per noi decrescente all’aumentare della quantità a nostra disposizione (la seconda cioccolata calda la desideriamo meno - siamo disposti a pagarla meno - della prima appena avuta).

Il valore, quindi, non è una caratteristica intrinseca, oggettiva di un bene (come invece lo sono, ad esempio, il peso e la temperatura:

chiunque misuri l’oggetto con una bilancia e un termometro precisi arriva allo stesso risultato, perciò questi dati sono oggettivi). I 90,00 € a cui il mese scorso ho comprato il mio smartphone non erano il suo valore (inconoscibile in quanto, come già detto, il giusto valore non esiste o,

meglio, un bene ha tantissimi valori contemporaneamente) nemmeno per me e per chi me lo ha venduto (per me valeva di più, altrimenti non

lo avrei scambiato con 90 €, per il venditore di meno, altrimenti non avrebbe preferiti i miei 90 € allo smartphone che mi ha consegnato): il “prezzo” di un bene non è il suo valore, è solo un importo a cui, contemporaneamente, venditore e compratore sono disponibili, rispettivamente, a cederlo e ad acquistarlo.

Ma se il valore “giusto”, corretto, dei beni non è misurabile, non esiste, come si può dire se un bilancio, che è un insieme di valori, è corretto, se cioè rispecchia o no la realtà? Semplice: non si può dire.

23. Quando si dice che il bilancio è la descrizione, l’immagine dell’azienda [la sua fotografia in un certo istante (questo, già lo

sappiamo, è lo stato patrimoniale) e il filmato di ciò che ha fatto in un certo periodo (e questo è il conto economico, come pure già ho scritto)] lo si dice per semplicità, ma chi ha compreso la ragioneria sa che questa immagine invece di uno scatto fotografico è un quadro dipinto, e invece di un filmato ripreso è un racconto scritto.

Come appena detto, la rappresentazione di una azienda non può essere offerta che per “valori”, e questi valori

sono quasi tutti soggettivi [gli unici valori oggettivi che appaiono in bilancio sono quelli delle banconote in €, dei saldi di c/c (ma in caso di gravi crisi

nel sistema finanziario nemmeno questi possono essere considerati dati oggettivi, perché i depositi bancari cessano di essere sicuri, almeno per la parte che supera i 100.000 €) e dei debiti in € (almeno

fino all’anno scorso, perché dal 2016 - come vedremo al punto xy. - il legislatore ha deciso che il valore dei debiti non a breve è soggettivo e minore dell’importo da pagare)] in quanto frutto di stime e di impressioni di chi si è assunto il compito e la responsabilità di fare il bilancio, allo stesso modo in cui la “Gioconda” è la rappresentazione di Monna Lisa Gherardini così come la mente di Leonardo la vedeva, o il “De bello Gallico” riporta i fatti accaduti più di duemila anni fa in Gallia nel modo in cui Giulio Cesare li ricordava.

Chi sa di ragioneria sa quindi che, non esistendo il “giusto prezzo” delle cose, non si può pretendere un bilancio “giusto”, e sa anche che ciò che legittimamente si può e si deve pretendere è unicamente un bilancio fatto bene e onesto, che vuol dire fatto senza errori causati da incapacità professionale e redatto con l’intento di informare correttamente i terzi, e non quindi con la volontà di far loro credere cose, valori, diversi da quelli che chi lo redige pensa, in coscienza, siano giusti (ma che altri potrebbero ritenere anche piuttosto diversi da come il redattore del bilancio li vede e

li rappresenta nelle varie voci).

Solo quando le valutazioni non sono fatte “in buona fede” ma, al contrario, con “dolo”, cioè con l’intento di nascondere e camuffare quella che si ritiene l’immagine realistica, allora il bilancio che ne risulta è un bilancio “falso”.

Quando, invece, le valutazioni sono fatte sì in buona fede, ma sono basate su considerazioni inusuali e frutto di percorsi scarsamente logici o troppo fantasiosi, allora il bilancio che ne risulta è un bilancio “inattendibile”.

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24. Considerando la natura tendenzialmente ottimista, visionaria e volitiva degli imprenditori [il rischio d’impresa

è ineliminabile (a meno di avere forti agganci con la politica), e poiché i pessimisti difficilmente si avventurano in iniziative che non garantiscono risultati positivi, ecco che li si trova più spesso fra i lavoratori dipendenti (e i più prudenti fra essi affollano la pubblica amministrazione); al contrario, la percentuale di ottimisti è elevata fra gli imprenditori. Se poi il prudente è anche visionario e volitivo (come sa e deve essere anche l’imprenditore), allora lo si incontra spessissimo fra coloro – ahimè sempre troppi – che vivono di politica, quelle persone che per cercare di costruire qualcosa di nuovo e utile a sé e agli altri utilizzano risorse sottratte a chi,

imprenditore o dipendente che sia, vive invece di economia] risulta evidente come il confine fra bilancio falso e bilancio inattendibile sia inevitabilmente nebuloso: l’imprenditore considera come un investimento patrimoniale i 2 milioni di euro che l’azienda ha speso nel 2016 (fra stipendi e altri costi) nello sviluppo del prodotto innovativo che sarà lanciato sul mercato l’anno successivo, ed è in buona fede quando mette quel valore (2 milioni) in “dare” dello stato patrimoniale tra le attività immobilizzate, cioè tra i fattori produttivi in grado di offrire utilità in futuro (assimilandoli

in questo modo a una attrezzatura o a un camion che, acquistati nel 2016, saranno usati negli anni successivi), e quindi li toglie dal “dare” del conto economico, cioè li toglie dai costi di competenza del 2016 (per non metterli insieme agli stipendi e agli altri costi relativi ai prodotti venduti

nell’anno, proprio perché quei 2 milioni sono un costo relativo alle vendite che si otterranno nei prossimi anni).

Se, però, nel 2017 il mercato non risponde come l’imprenditore ottimisticamente si aspettava e boccia il prodotto che così viene ritirato, allora ne risulta che i 2 milioni di euro inseriti nell’attivo patrimoniale nel bilancio 2016 erano fasulli: la loro vera natura era di “costo”, di consumo di input, e non di “investimento”, e

quindi nel bilancio 2016 dovevano apparire nel conto economico tra i costi e non nello stato patrimoniale fra le attività (gli impieghi), e della cosa si è già detto nal punto 17., lettera B. (*)

Solo ora, nel 2017, si capisce che il bilancio del 2016 è stato sbagliato, ma chi può dire se la causa fu un errore di valutazione commesso in buona fede nello stimare le potenzialità del nuovo prodotto o, piuttosto, se ci fu l’intenzione di convincere le banche e gli altri creditori a continuare a finanziare l’azienda anche ben sapendo che i 2 milioni si erano già volatilizzati?

Sicuramente la verità sta da una qualche parte fra questi due estremi, ma chi è in grado di stabilire se, nel caso concreto, nella mente di chi redigeva il bilancio prevaleva l’ottimismo e la buona fede oppure la malizia e l’intento di ingannare i creditori?

Solo chi è molto presuntuoso o chi ha un forte istinto prevaricatore può pensare di riuscire a capirlo, e infatti questo ruolo se lo sono preso i magistrati, categoria che più di ogni altra assomma in sé entrambe le caratteristiche.

(*) A chi ancora zoppica in ragioneria e non ha quindi ben colto quanto scritto al punto 9 di pagina 4 faccio notare che se non registro un importo in “Dare” fra i costi, cioè in un conto di Reddito, è inevitabile che quel valore lo registri pur sempre in “Dare” ma in un conto Patrimoniale, e quindi fra le attività patrimoniali, facendo così aumentare l’attivo dello Stato patrimoniale e, di conseguenza, anche il patrimonio netto. Trasformare un costo (un consumo di

input) in un valore patrimoniale attivo (in un investimento) permette di evidenziare sia un reddito maggiore (perché dichiaro

meno costi) sia un patrimonio netto più elevato (perché se aumenta il totale impieghi aumenta anche il totale fonti, e poiché i debiti non

sono stati variati allora è il “Netto” a subire la variazione).

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Capitolo C: La pubblicità del bilancio.

25. Funzione della pubblicità. E’ l’esigenza di conoscere, la necessità di avere e di dare informazioni, che

porta alla redazione del bilancio. Il bilancio viene redatto dagli amministratori, approvato dall’assemblea dei soci (se l’azienda veste l’abito giuridico di società) e poi reso pubblico (se la società è una società di capitali, cioè una S.p.A., una S.r.l. o una Soc.

Cooperativa) per dare informazioni a chiunque sia interessato, e i soggetti maggiormente interessati all’azienda e quindi al suo bilancio sono:

a) i soci (i proprietari dell’azienda), che anche sulla base del bilancio valutano le capacità degli amministratori e, in assemblea, decidono se conservare o togliere loro l’incarico; b) lo stato, che anche sulla base del bilancio determina quante imposte l’azienda deve pagare; c) le banche, che anche sulla base del bilancio stabiliscono quanto credito concedere all’azienda; d) i fornitori, che anche sulla base del bilancio decidono quanto credito di fornitura concedere al cliente.

Oltre a questi soggetti, possono poi essere interessati a conoscere il bilancio anche: e) i risparmiatori, per valutare l’opportunità di investire la loro liquidità diventando soci (azionisti, in caso di azienda

con forma giuridica di S.p.A.) oppure creditori (obbligazionisti, la veste più usuale dei finanziatori non aziende di credito) dell’azienda; f) i dipendenti e i loro sindacati, anche al fine di meglio modulare le pretese salariali; g) i concorrenti, anche per meglio programmare la propria attività; h) i clienti, per valutare l’affidabilità del loro fornitore; i) i curiosi, i giornalisti (che purtroppo raramente sono curiosi e si limitano a scrivere a pagamento ciò che l’azienda gli detta) e altri rompiscatole per le ragioni più varie.

26. Obblighi di pubblicità. In considerazione del fatto che vi è un interesse generale alla conoscenza dei bilanci, la normativa italiana impone a non poche aziende di renderli pubblici attraverso il loro deposito nel “Registro delle imprese” tenuto dalla C.C.I.A.A. (camera di commercio, per i pignoli Camera di Commercio, Industria, Artigianato e

Agricoltura, ente pubblico della cui inutilità tutti, tranne me e pochi altri, fanno finta di non accorgersi). Al prezzo di pochi euro chiunque può accedere, via Internet, ai bilanci depositati.

L’obbligo riguarda solo le aziende aventi veste giuridica di società di capitali [ quindi le: S.p.A. (Società per Azioni), S.r.l.

(Società a responsabilità limitata), S.c. (Società cooperativa), oltre alle rare S.a.p.a. (Società in accomandita per azioni) e alle rarissime S.r.l.s. (Società a responsabilità

limitata semplificata) ] e quelle società di persone [ cioè le s.n.c. (società in nome collettivo), le s.a.s. (società in accomandita semplice) e le s.s. (società semplici)

] che fra i soci si ritrovano una società di capitali. Detto in altro modo, a negativo: le ditte individuali e le società di persone (se non partecipate da società di capitali) non devono rendere pubblici i loro bilanci.

Attenzione, non sto dicendo che le ditte individuali e la gran parte delle società di persone (cioè tutte meno quelle con

società di capitali fra i soci) non abbiano alcun obbligo di dichiarare i propri dati di bilancio: il fatto che non debbano renderli disponibili a tutti (attraverso il deposito presso il registro delle imprese della CCIAA) non significa che non siano obbligate, ad esempio, a dichiararli all’agenzia delle entrate (cioè al ministero delle finanze, la vorace bocca dell’insaziabile grande porco) in sede di dichiarazione dei redditi o ad altre autorità pubbliche per altri motivi.

Questo diverso trattamento è motivato dal fatto che le società di capitali sono dotate di “autonomia patrimoniale perfetta” mentre quelle di persone ne hanno una decisamente imperfetta, per non parlare delle ditte individuali per le quali l’autonomia patrimoniale proprio non c’è. Nell’ipotesi non del tutto irrealistica che ti ricordassi nulla in fatto di autonomia patrimoniale, ti riassumo qui, brutalizzandolo non poco, il concetto: l’autonomia patrimoniale è la separazione fra il patrimonio della società e quello dei suoi soci.

Quando , come nelle società di capitali, l’autonomia patrimoniale è perfetta, allora i creditori della società che non riescono a ottenere da lei quanto a loro spetta non potranno mai e in alcun modo seccare i soci (il fornitore che

legittimamente pretende 100.000 € da una s.r.l. insolvente può solo togliersi la soddisfazione di chiederne il fallimento, ottenuto il quale, con ogni probabilità, dei suoi

100.000 € non riceverà nemmeno quanto gli è costata la pratica legale), i quali potranno così serenamente continuare a godersi il loro patrimonio personale stappando champagne per brindare alla faccia dei creditori impuffettati dalla società.

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Quando invece, come nelle società di persone, l’autonomia patrimoniale è imperfetta, allora il creditore che non sia riuscito a ottenere dalla società quanto gli spetta può agire anche sui soci, attaccando il loro personale patrimonio (i loro depositi bancari, l’appartamento al mare, bottiglie di champagne in cantina comprese). Quel poco di autonomia patrimoniale che c’è nelle società di persone serve solo a imporre ai creditori, per poter attaccare il patrimonio dei soci, di richiedere e ottenere preventivamente il fallimento della società.

Nelle ditte individuali, poi, ai fini dei rapporti con i creditori non c’è alcuna distinzione fra patrimonio aziendale e personale dell’imprenditore (vi è, quindi, “confusione patrimoniale”, ma solo dal punto di vista giuridico, perché contabilmente la separazione deve

invece essere nettissima: nel bilancio aziendale non si deve trovare traccia né di beni personali dell’imprenditore nello stato patrimoniale, né di eventuali redditi

personali (pensione, lavoro dipendente ecc.) nel conto economico).

Chiarita la faccenda della diversa autonomia, l’attento e sagace studente ha già intuito il motivo per cui la legge impone la pubblicità dei bilanci alle sole società di capitali (oltre a quelle di persone se fra i soci hanno una società di capitali). A chi non è attentissimo o straordinariamente sagace faccio rilevare che chi ha rapporti d’affari con una società di persone è interessato (per effetto della non perfetta autonomia patrimoniale) non soltanto a conoscere le condizioni economiche-patrimoniali della società ma anche di quelle personali dei soci. Ecco allora che per offrire i dati necessari per valutare la rischiosità di un rapporto d’affari con una società di persone bisognerebbe obbligare anche i soci a rendere disponibili le informazioni sulle proprie condizioni (quali beni possiedono, quali debiti hanno, quanto

guadagnano e in che modo ecc.) a cani e porci, e questo sarebbe una intollerabile violazione della privacy. Poiché l’obbligo di rendere pubblico il bilancio ha, nel caso delle società di persone, una utilità ben più scarsa rispetto al caso delle società di capitali, ecco che ha senso obbligare alla pubblicità solo le seconde.

L’estensione dell’obbligo di pubblicità alle società di persone partecipate da società di capitali, infine, è certamente sensato: una s.r.l. rischia, in caso di fallimento della s.n.c. in cui è socia magari anche solo all’1%, di dover pagare interamente i debiti della partecipata (qualsiasi creditore di una s.n.c. fallita ha il diritto di pretendere da uno qualsiasi dei soci anche l’intero ammontare del proprio credito), pertanto chi intrattiene rapporti d’affari con la s.r.l. che è socia di una s.n.c. deve avere la possibilità, per valutare correttamente i rischi che corre, di conoscere non solo i dati di bilancio della s.r.l. ma anche quelli della s.n.c. di cui la s.r.l. è socia.

27. Il bilancio “ordinario”, il bilancio “abbreviato” e il bilancio delle micro-imprese.

In funzione delle dimensioni, un’azienda con forma giuridica di società di capitali deve rendere pubblici i propri dati di bilancio seguendo uno dei tre schemi previsti dal legislatore: le aziende più grandi devono presentare il bilancio “ordinario” (sulla base degli articoli 2423, 2424 e 2425 del codice civile), le aziende più piccole possono adottare il bilancio delle “micro-imprese” (art. 2435 ter c.c.), tutte le altre, quelle di dimensioni intermedie, possono utilizzare lo schema del “bilancio abbreviato” previsto dall’articolo 2435 bis del codice. Detto che è ovviamente comunque possibile per le imprese di dimensioni medio-piccole adottare uno schema di bilancio superiore (anche la più “micro” delle aziende può, se vuole, pubblicare i suoi dati seguendo lo schema del bilancio ordinario), nella tabella qui sotto trovate i limiti dimensionali previsti dal legislatore italiano. Affinché un’azienda sia obbligata a passare a uno schema di bilancio “superiore” è necessario che superi per due anni di seguito almeno due dei tre limiti.

Parametri quantitativi Tipo di bilancio Bilancio delle micro-imprese Bilancio in forma abbreviata Bilancio ordinario

Totale attivo patrimoniale Fino a 175.000 € Fino a 4.400.000 € Oltre 4.400.000 € Totale ricavi netti Fino a 350.000 € Fino a 8.800.000 € Oltre 8.800.000 € Numero medio dipendenti Fino a 5 Fino a 50 Oltre 50

Documenti di bilancio

Stato patrimoniale abbreviato Conto economico abbreviato

Stato patrimoniale abbreviato Conto economico abbreviato Nota integrativa abbreviata

Stato patrimoniale Conto economico Nota integrativa Rendiconto finanziario

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Capitolo D: I due princìpi base, le regole contabili e i criteri di valutazione

28. La prudenza. Per cercare di ridurre le potenziali conseguenze negative derivanti da eccesso di ottimismo o da un difetto di onestà in chi redige il bilancio, e quindi per cercare di tutelare i terzi che lo leggono, il legislatore

ha stabilito (2423 bis c.c.) che le valutazioni debbano rispettare il principio della prudenza . In base a questo principio:

la creazione di valore (l’utile) derivante dall’attività svolta in un periodo può essere considerata nel bilancio di quel periodo solo se ciò che è stato prodotto è stato anche venduto nel periodo. Così, se – grazie

alla casuale scoperta della pietra filosofale – nel 2017 sono riuscito a trasformare senza altri costi un quintale di piombo (acquistato per 200 €) in 100 chili d’oro (il cui valore di mercato è 3.000.000 €, 30 € al grammo), ma al 31 dicembre 2017 non ho ancora venduto l’oro prodotto, nel bilancio 2017 non posso segnalare l’utile di 2.999.800 €, non posso cioè inserire i 3.000.000 € di valore dell’oro posseduto il 31.12.2017 nel “dare” del conto patrimoniale “scorte di prodotti” (e nell’”avere” del conto di reddito, cioè nel valore della produzione, alla voce “variazione delle scorte di prodotti”); dovrò, invece, valutare le rimanenze finali di prodotti solo 200 €, perché non avendolo ancora venduto, quell’oro deve essere prudentemente valutato al minore fra il costo di produzione (200 €) e il valore di mercato (3.000.000). In questo modo, e supponendo che l’oro sia poi venduto nel 2018 proprio a 3.000.000 €, i 2.999.800 € di utile realizzato (di valore creato) nel 2017 saranno evidenziati nel bilancio del 2018 (3.000.000 € di ricavi di vendita meno 200 €

di costi (le rimanenze iniziali (al 1.1.2018) di scorte di prodotti che, nel 2018, usciranno dal dare del conto patrimoniale “scorte di prodotti” per finire

nel dare del conto di reddito “variazione delle scorte di prodotti”), mentre nel bilancio 2017 l’operazione “pietra filosofale”

chiuderà in pareggio (200 € di costi della produzione, 200 € di valore della produzione).

Le distruzioni di valore (le perdite) devono essere segnalate in bilancio anche quando sono solo temute e non si è ancora certi di averle subite. Supponiamo che il 31 dicembre 2017 noi si abbia crediti per 100.000 € verso il cliente Pinco scadenti nel giugno 2018 e che questi crediti siano garantiti parzialmente da una fidejussione bancaria a prima chiamata di 60.000 €; supponiamo anche che prima della redazione del bilancio

2017 (che probabilmente completeremo nei mese di marzo 2018) noi si venga a conoscenza del fatto che Pinco è in difficoltà finanziarie; stando così le cose, dovremo già mettere in bilancio al 31.12.2017 quantomeno la perdita di 40.000 € (la parte non garantita del credito), anche se non l’abbiamo ancora subita e le possibilità che in giugno il cliente paghi siano ancora concrete. La ratio (si legge razio, e sta per “ragion d’essere”, per “fine che si prefigge”) del principio di prudenza è chiaramente quella di fare in modo che chi vuole farsi un’idea della salute di un’azienda abbia più probabilità, leggendone il bilancio, di ricavarne un’immagine meno attraente di quanto probabilmente sia in effetti, e quindi adotti comportamenti più cauti nel relazionarsi con essa.

29. La continuità. L’altro principio base a cui occorre attenersi nelle valutazioni di bilancio è quello della

continuazione dell’attività aziendale in base al quale la valutazione delle voci dell’attivo aziendale sono

fatte nell’ipotesi (se realistica) che l’azienda continuerà a operare per un tempo indefinito. Se, invece, ipotizzassi che l’azienda dovesse cessare l’attività in un futuro non lontano, allora le sue immobilizzazioni tecniche dovrebbero essere stimate al loro prezzo “di realizzo”, ma poiché sradicare un impianto o una attrezzatura dalla sua struttura produttiva per inserirlo in un’altra (quella dell’ipotetico acquirente) comporta necessariamente dei costi spesso anche rilevanti, il prezzo di realizzo sarebbe inferiore al valore (dato dall’utilità residua che ancora quell’immobilizzazione

potrebbe offrire nella struttura originaria se questa rimanesse operativa in futuro) che, pur in un’ottica prudenziale, ha nel bilancio dell’azienda ancora attiva. Il passaggio da una valutazione d’uso a una di liquidazione porterebbe quindi all’evidenziazione di un minor valore delle immobilizzazioni tecniche (e spesso anche di quelle immateriali e non di rado quelle

finanziarie). Il principio della continuità è quindi in contrasto con quello della prudenza: la continuità aziendale non è mai certa in assoluto (il futuro è inconoscibile), ma poiché il principio di continuità prevale su quello della prudenza, allora le immobilizzazioni tecniche, tutte le volte che non è prevedibile la cessazione dell’attività, si inseriscono

legittimamente nell’attivo per un valore anche molto superiore a quello di presumibile realizzo. Provo a chiarire il concetto con un esempio: supponiamo che a metà dicembre 2017 una pizzeria installi una grande insegna luminosa spendendo 10.000 €; il valore al 31.12.2017 dell’investimento appena fatto lo possiamo stimare in 10.000 € solo se ipotizziamo che quei locali saranno utilizzati dalla pizzeria ancora per vari anni, cioè solo se supponiamo che quell’azienda, continuando a operare a lungo, da quell’insegna potrà trarre negli anni molta

utilità, molto valore (almeno 10.000 €). Se, invece, questa ipotesi manca, se, ad esempio, si prevede che

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quell’azienda cesserà l’attività nei primi mesi del 2018, allora il valore di bilancio al 31.12.2017 dell’insegna, per essere onesto e prudente, dovrà essere probabilmente prossimo a zero, in quanto l’insegna, non potendo a breve essere più utile a nessuno, non ha alcun valore significativo

30. Al punto 22. ho provato a farvi riflettere sull’inesistenza del “giusto valore” di qualsiasi bene; al punto 24. vi ho segnalato che il naturale ottimismo tipico di chi fa impresa può portare a valutazioni che, seppure in buona fede, si rivelano in seguito pericolosamente irrealistiche; al punto 28., infine, si è visto come l’intera redazione del bilancio d’esercizio, almeno di quello ufficiale che deve essere reso pubblico, deve adeguarsi al principio della prudenza (ammesso non si adottino i criteri IAS, ma questo lo vedremo in seguito, nei punti dal 33. al 41.).

Ora è il momento di segnalare che, anche nella duplice ipotesi di inesistenza di dolo e di rispetto delle norme di legge, la sola osservazione delle leggi e dei principi di prudenza (e della continuità) non garantisce la produzione di bilanci attendibili. Affinché un bilancio possa definirsi attendibile, “corretto”, è infatti anche necessario che le valutazioni siano state fatte seguendo percorsi indicati dai cosiddetti “principi contabili”.

31. I principi (le regole) contabili (nazionali e internazionali) sono regole pensate e suggerite dalla “dottrina” aziendalistica (in sostanza: dai più affermati docenti universitari e noti esperti di economia aziendale) italiana e internazionale. I principi contabili nazionali sono curati e pubblicati dall’O.I.C. (organismo italiano di contabilità), un’entità a cui partecipano le associazioni rappresentative di alcune categorie professionali (come l’ordine dei commercialisti), o rappresentative di aziende (come Confindustria e Confcommercio) e l’A.B.I. (Associazione Bancaria Italiana), l’associazione che rappresenta le banche. I principi contabili internazionali sono, invece, raccolti e pubblicati a cura dello I.A.S.B. (international accounting standards

board) e sono noti sia coll’acronimo I.A.S. sia come I.F.R.S (international financial reporting standards), sigle entrambre comunemente utilizzate e qui in questi appunti da me impiegate con lo stesso significato.

32. Quali principi (O.I.C. oppure I.A.S.) si possono adottare in Italia. La gran parte del milione e mezzo (circa) di aziende italiane operanti sotto forma di società di capitali adotta ancora i principi contabili nazionali. Le uniche società che, da oltre un decennio, sono obbligate dalla legge italiana ad adottare i principi contabili internazionali sono, sostanzialmente, le società quotate in borsa (che sono poche centinaia), le banche, le assicurazioni e una parte delle altre società finanziarie (complessivamente, quindi, sono solo qualche migliaio di società).

Mentre fino all’anno scorso quasi tutte le altre società (cioè quelle “normali”, non quotate n borsa, non banche, non assicurazioni ecc.)

erano obbligate a seguire i principi contabili italiani e solo poche (in pratica solo le società appartenenti a gruppi guidati da società

obbligate agli IAS) potevano scegliere fra OIC e IAS, dal 2016 il legislatore italiano ha dato facoltà a quasi tutte le società di capitali di scegliere se adottare i principi nazionali o internazionali, lasciando l’obbligo dell’adozione dei principi nazionali solo alle società di capitali più piccole, cioè a quelle ammesse alla redazione del bilancio in forma abbreviata (ex. art. 2435-bis c.c., vedi punto 27.).

Restano anche obbligate ai principi nazionali di redazione del bilancio tutte le aziende non soggette all’obbligo della pubblicità, cioè quelle gestite in forma di società di persone o di ditta individuale, che in tutto sono circa tre milioni. Si può dire, quindi, che dall’anno scorso il legislatore italiano ha concesso ad alcune centinaia di migliaia di società di capitali (quelle non operanti nel settore finanziario e non “piccole”) il diritto di scegliere sulla base di quali principi contabili (i nazionali OIC o gli internazionali IAS) redigere il bilancio. Il motivo che ha spinto il legislatore a estendere la possibilità di adottate gli IAS / IFRS è la convinzione che l’utilizzo di questi principi favorisca la conoscibilità, la visibilità e la confrontabilità internazionale dei soggetti che intendano, o anche solo non escludano, quotarsi in borsa per accedere così al mercato dei capitali di rischio (che, per sua natura, è internazionale) raccogliendo più facilmente risorse finanziarie.

Aziende obbligate ai principi O.I.C. Aziende libere di scegliere fra O.I.C. e I.A.S. Aziende obbligate ai principi I.A.S. Ditte individuali (No obbligo pubblicità)

Società di capitali obbligate al bilancio ordinario (diverse da quelle nella colonna a destra)

S.p.A. quotate in borsa

Società di persone (No obbligo pubblicità) Banche, assicurazioni (tranne alcune piccole)

e altre società finanziarie Società di capitali ammesse al bilancio abbreviato

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33. Le due filosofie alla base delle differenze fra principi contabili nazionali e quelli internazionali derivano dalla diversa idea di fondo su cui si vuole sia basato il bilancio: da noi deve essere il più possibile basato su dati oggettivi, e quindi su dati ricavati dai documenti contabili (fatture, contratti ecc.), anche a rischio di evidenziare valori non molto aderenti a quelli correnti (cioè, in pratica, ai valori di mercato) del patrimonio aziendale; nella maggior parte degli altri paesi (e, in particolare, nel mondo anglosassone, U.S.A. in primis) si vuole, invece, che il bilancio offra dati il più possibile in linea con quella che si ritiene essere la realtà del momento.

Si può dire, quindi, che mentre i principi O.I.C. privilegiano l’imparzialità e l’oggettività della fonte anche a

scapito dell’aderenza con la realtà, gli I.A.S. sono invece massimamente attenti all’aderenza dei valori di bilancio a quelli di mercato e sono invece meno riguardosi dei dati contabili storici.

Questa differente impostazione di base porta, in caso di adozione degli I.A.S. e come conseguenza della sempre maggiore variabilità dell’ambiente economico e quindi anche dei valori di mercato, a una significativa maggiore fluttuazione nel tempo (da un esercizio all’altro) dei risultati economici dell’azienda.

Il costante invito degli I.A.S. a badare più alla realtà che alla forma, porta anche a privilegiare la sostanza dei rapporti economici intrattenuti dall’azienda rispetto alla loro natura giuridica formale.

L’esempio della diversa contabilizzazione del leasing può servire sia per chiarire quest’ultimo concetto, sia per ripassare cose vecchie e sempre utili. Lo trovate riquadrato qui sotto.

Il ristorante “Polenta, Porco e Peperoncino” gestito dalla P.P.P. srl decide di rinnovare l’arredo stipulando con il Credemleasing s.p.a. un contratto di leasing finanziario di durata quinquennale in base al quale:

- Credemleasing, su indicazione di P.P.P., il 31.12.2016 acquista per 70.000 € dalla Novi Arredo srl i beni che sono subito e direttamente consegnati dal fornitore Novi Arredo e dati in uso (in locazione) al ristorante dal Credemleasing;

- P.P.P. si impegna a pagare a Credemleasing 61 canoni mensili anticipati, il primo dei quali (il “maxi-canone”) è pari a

10.000 € e viene corrisposto il 31.12.2016 (al momento della stipula del contratto), gli altri 60 sono di 1.100 € l’uno e saranno pagati ogni fine mese (l’ultimo canone, quindi, scadrà il 31.12.2021);

- a fine contratto (il 31.12.2021) P.P.P. potrà (esercitando l’opzione prevista in contratto) acquisire la proprietà dei beni pagando a Credemleasing un “prezzo di riscatto” di 1,00 €.

Giuridicamente i beni rimangono di proprietà di Credemleasing fino al termine del 2021 quando, esercitando l’opzione d’acquisto e pagando il prezzo di un euro, P.P.P. ne acquisterà la proprietà; ancorché non ne sia ancora il proprietario ma solo il detentore, P.P.P. assume però immediatamente tutti i rischi relativi ai beni.

Se è pacifico che dal punto di vista giuridico-formale per tutta la durata del contratto di leasing il ristorante non è proprietario del “suo” arredo, è anche evidente che dal punto di vista sostanziale l’utilizzatore si comporta come se avesse già acquisito quei beni nel suo patrimonio. Ecco allora che, se si privilegia l’aspetto contrattuale-formale come nella tradizione italica, P.P.P. srl inserirà quegli arredi nelle immobilizzazioni soltanto dal bilancio dell’anno 2021 (e le inserirà per un valore di 1,00 €, il prezzo che appare

nella fattura di vendita, l’ultima fattura emessa da Credemleasing), e nell’attivo patrimoniale del 2016 e dei quattro anni successivi apparirà solo il risconto attivo sul maxi-canone iniziale (che, poiché è stato pagato proprio il 31.12.2016, sarà di 10.000 € il primo anno e

diminuirà gradualmente di 2.000 € l’anno fino ad azzerarsi il 31.12.2021). Se, invece, si adotta l’ottica I.A.S. tendente a evidenziare la sostanza e non la forma dei rapporti economici, allora il valore degli arredi figurerà fra le immobilizzazioni di P.P.P. srl fin dal bilancio al 31.12.2016 (e, nel passivo,

apparirà il debito verso Credemleasing per tutti i canoni non ancora pagati).

V’è da dire, infine, che dal 2016 le differenze fra principi O.I.C. e I.A.S. si sono ridotte grazie, soprattutto, all’introduzione, anche nella normativa nazionale, del principio della prevalenza della sostanza sulla forma (principio inserito nel nuovo n. 1 bis del 1° comma dell’art. 2423 bis del codice civile che recita: “la rilevazione e la presentazione delle voci deve

essere fatta tenendo conto della sostanza dell’operazione o del contratto”). Segnalo anche, però, che il legislatore ha previsto, proprio per la contabilizzazione del leasing finanziario, un’eccezione al nuovo principio, per cui tutto quanto detto nel riquadro qui sopra in merito alle scritture collegate al leasing rimane valido ancora oggi (2017).

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Delle varie differenze esistenti tra principi O.I.C. e principi I.A.S./I.F.R.S., quella di gran lunga più importante è la continua adozione, negli IAS, del criterio di valorizzazione basato sul “fair value” e cioè - sostanzialmente - sul prezzo di mercato, a fronte di una invece più frequente adozione del criterio del “costo storico” da parte dell’OIC, criterio in base al quale il valore di bilancio si fonda sul costo di acquisto.

Queste ultime quattro righe vi saranno comunque più chiare dopo la lettura dei successivi punti (da 34. a 36.)

34. Significato del termine fair value.

Appena sopra, traducendo il termine “fair value” (letteralmente “equo”, “giusto” valore) con “valore di mercato”, ho operato una di quelle “brutali semplificazioni” già confessate nelle avvertenze iniziali. Per di più, è una semplificazione che risulta non molto utile se non si definisce cosa s’intende per “valore di mercato”. Ecco allora che, data la sua importanza, è opportuno soffermarsi sull’argomento più di poche righe, e infatti sul fair value ci rimarremo in questo e nel prossimo punto.

Il fair value, qualunque sia la tecnica di valutazione usata per individuarlo, ha la finalità di stabilire quale prezzo avrebbe avuto una certa operazione (quanto si sarebbe pagato per l’acquisto di un bene o uno strumento finanziario, quanto per liberarci da un

debito) nella data di valutazione in un libero scambio motivato da normali considerazioni commerciali.

Il vostro libro riporta, a fine pagina 57, la definizione “ufficiale” di fair value data dall’IFRS n. 13 (al n. 9 del paragrafo 52), e cioè: “il prezzo che si percepirebbe per la vendita di un'attività ovvero che si pagherebbe per il trasferimento

di una passività in una regolare operazione tra operatori di mercato alla data di valutazione”.

Un’altra definizione diffusamente accettata, e anche riportata da Wikipedia, è: “corrispettivo al quale un'attività può essere scambiata, o una passività estinta, tra parti consapevoli e disponibili, in una transazione

tra terzi indipendenti”.

Prima di impararle a memoria, provate a eliminare da queste dotte definizioni le parole superflue e a utilizzare

termini meno ricercati: la prima diventa: “il fair value di un bene in una certa data è il prezzo che si percepirebbe o si pagherebbe in caso di normale acquisto o vendita in quella data”; la seconda definizione, invece, si trasforma in “il fair value di un bene è il prezzo al quale due persone sane di mente sono disposte a compravenderlo liberamente”.

Poiché queste due definizioni di fair value mi sembrano, tutto sommato, tanto vaghe quanto lo è “il fair value è

il valore di mercato”, direi che possiamo accontentarci di quest’ultima che, almeno, è decisamente più breve.

Nell’identificare il fair value con il valore di mercato bisogna però essere consapevoli che il “valore di mercato” (di un certo bene in un certo istante) è raramente individuabile in modo oggettivo, in quanto per esserlo occorre sostanzialmente un mercato perfetto (o assai prossimo alla perfezione), e questo capita solo quando sono contemporaneamente realizzate queste due ben particolari condizioni: 1) il bene è perfettamente fungibile

(come lo sono alcune materie prime, le azioni, le obbligazioni, le divise estere e, spesso, anche i prodotti agricoli), 2) esistono moltissimi operatori desiderosi di acquistare il bene e moltissimi interessati a venderlo; condizioni, soprattutto la 1) , che si presentano in pochi casi.

Per quanto i super esperti dell’O.I.C., dello I.A.S.B. e del mondo accademico italiano e internazionale cerchino, trovino e impongano procedure di valutazione sempre più raffinate e complesse, è mia convinzione che il fair value sia (e resterà) un dato: a) oggettivo solo in pochi casi, b) un dato anche fortemente inquinato da considerazioni soggettive in molti altri casi e c) un dato pesantemente influenzato dalla fantasia in altri ancora.

E per capirlo non è necessaria la comprensione della teoria unificata del valore economico e la conoscenza della matematica finanziaria più complessa: basta un po’ di buon senso, la comprensione delle basi di economia e

non essere ipocriti, e il perché dovrebbe chiarirsi nei prossimi punti.

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35. Cosa è il “fair value” (secondo la migliore dottrina e il libro).

Anche nel libro si legge dell’esistenza di tre fair value diversi per grado di attendibilità; all’inizio di pagina 58, infatti, c’è scritto: (le parti in corsivo rosso le ho copiate dal testo, le parole [ tra parentesi quadre, in nero e non in corsivo ] sono mie e tentano di chiarire quelle del libro )

Si hanno tre livelli di fair value a seconda del grado di attendibilità degli elementi su cui si fonda la determinazione di tale valore:

- il livello 1 è quello dei prezzi rilevabili in mercati attivi per beni identici a quello da valutare; si tratta in pratica di quotazioni (...) riguardanti, in particolare, gli strumenti finanziari.

[ E’, questo, l’unico caso in cui il valore individuato è oggettivo, e – come ho scritto nel punto 34. – tale livello è

raggiungibile solo quando si è in presenza di un mercato sostanzialmente perfetto, vale a dire solo nel caso di beni quotati in borsa; la frase “prezzi rilevabili in mercati attivi è infatti traducibile con “prezzi di borsa”.

Il livello 1, quindi, è il mio caso a) di fine punto 34., e in pratica si tratta quasi sempre del prezzo di azioni,

obbligazioni e altri prodotti finanziari scambiati nelle borse valori ];

- il livello 2 è dato dal prezzo rilevabile in un mercato attivo, ma per beni similari [ e quindi non identici ] a quelli da valutare, oppure rilevabile in un mercato “non attivo”, ma per elementi patrimoniali identici o simili a quelli da valutare.

[ Quanto alla prima parte (prezzo di beni similari scambiati in mercati attivi), è evidente che se il bene di cui si conosce in

modo certo e oggettivo il valore in un dato momento (perché emerso da un mercato “attivo”) non è identico ma solo “similare” a quello che devo valorizzare in bilancio, nello stimare le differenze fra i due beni si infiltra una abbondante dose di soggettività. Come esempio di un prezzo di bene similare rilevato in un mercato attivo potete pensare alla valutazione rilevata allo borsa valori di Milano di un certa obbligazione (magari l’obbligazione

ventennale ENEL 5,25% 2003 – 2023) che viene presa come riferimento per dare un valore alle obbligazioni emesse da una qualsiasi società non quotata in borsa (come, rimanendo a Reggio, la Max Mara, la Annibale Franzini o la Play Games – Fit Village), obbligazioni le cui caratteristiche (tasso d’interesse nominale, piano di rimborso ecc.) sono simili quelle dell’Enel 5,25%. Ora, anche ammesso che i due titoli abbiano le caratteristiche tecniche uguali (stesso tasso, stesso piano di rimborso ecc.), restano pur sempre due crediti vantabili su soggetti diversi (avere un credito verso l’Enel è cosa diversa che averlo verso la Play Games – Fit Village

di Reggio Emilia o anche, per estremizzare, verso la Giorgio De Bonis s.r.l. o la Alex Barani s.p.a.), ed è nella stima della diversa solvibilità dei due debitori (cioè della diversa probabilità che le due obbligazioni saranno onorate) che, ancora una volta, si infiltra una dose massiccia di soggettività.

Quanto, invece, alla seconda parte (prezzo di beni identici o simili rilevabile in un mercato “non attivo”, cioè tutti i prezzi non di borsa, e quindi il caso

del mercato delle auto, quello degli spilli, degli hipad, degli alimenti per cani, delle scarpe sportive, dei vasetti di yogurt , degli hard-disk, dei farmaci per uso veterinario,

il mercato delle brugole, delle mute da sub, dei droni, dei peluche, dei coriandoli, degli zainetti scolastici ...), per constatare quanto peso abbia la soggettività che comunque si inserisce nella valutazione vi invito a dare un valore alla Yamaha 125 di Massimiliano: prendetevi tutto il tempo che volete, consultate la rubrica “prezzi dell’usato” di qualche rivista specializzata, chiedete tutte le informazioni che volete, ma alla fine vedrete che la forchetta di oscillazione (il

campo di variazione) delle vostre valutazioni rimarrà piuttosto ampio.

Il “livello 2”, in entrambe le sue parti, è il mio caso b) del punto 34. ]

- il livello 3 è costituito, se non si può fare riferimento ad alcuna delle due ipotesi precedenti, da un valore determinato tramite stime tecniche, cioè calcolando il valore attuale dei flussi finanziari attesi dell’elemento patrimoniale che è oggetto di valutazione.

[ Il “livello 3”, che coincide con il mio caso c) del punto 34., riguarda quasi tutti i beni a lunga utilità e stabilmente

inseriti nell’azienda, quindi tutti i brevetti e le altre immobilizzazioni immateriali, tutti gli impianti, molte attrezzature e in genere le immobilizzazioni materiali (a eccezione, soprattutto, degli automezzi, la cui vendita sul mercato dell’usato è in

genere agevole e quindi rientrano nel “livello 2”) e non poche immobilizzazioni finanziarie.

Di esempi, quindi, se ne possono fare tantissimi, dall’arredo di un negozio agli elefanti ammaestrati in un circo, dal capannone industriale sfitto a Corte Tegge alla quota di partecipazione del 16,67% nella “Gelateria Le

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Ciliegie S.n.c., dalle palle da bowling di una sala giochi ai frigobar di un albergo ecc. ecc. … . Il “livello 3” del fair value riguarda, quindi, quasi tutte le immobilizzazioni materiali, immateriali, finanziare (con la sola esclusione di quelle

costituite o assimilabili ad azioni, obbligazioni o altri prodotti finanziari quotati in borsa) ].

Su questo “livello di fair value” (in relazione al quale nel punto precedente ho scritto che può originare valori anche pesantemente influenzati dalla fantasia), e quindi sulla valutazione di elementi patrimoniali attuata “tramite stime tecniche, cioè calcolando il valore attuale dei flussi finanziari attesi”, torno al prossimo punto 36., dove avremo anche l’occasione per un utile ripasso di matematica finanziaria (ri)parlando del metodo del “V.A.N.” .

36. Il “cortocircùito” fra obbligo di prudenza e possibilità di valutazione al “fair value”.

Che il fair value sia, per sua natura, un criterio spesso confliggente con quello della prudenza lo si capisce anche semplicemente pensando all’elevata variabilità dei prezzi di mercato (variabilità accentuatasi nel corso degli ultimi decenni

e presumibilmente destinata a ulteriormente aumentare, sia per effetto della maggiore interconnessione delle aree geografiche e dei settori

economici, sia come conseguenza dei sempre più rapidi sviluppi tecnologici); e se i prezzi subiscono marcate e rapide variazioni, allora il valore “fair” di oggi potrebbe risultare, in un vicino domani, del tutto inadeguato.

Qui, ora, voglio però attirare la vostra attenzione (?) su un motivo di contrasto fra prudenza e fair value che esplica i suoi effetti soprattutto sui prezzi delle immobilizzazioni finanziarie e degli immobili (nel senso di edifici e terreni; le altre

immobilizzazioni e, ancor di più, i beni costituenti l’attivo circolante, sono assai meno toccati da questo problema per effetto del naturale declino del loro valore nel tempo (per le immobilizzazioni materiali diverse dagli immobili) o del rapido annullamento del valore (per i beni dell’attivo circolante, il cui valore si trasferisce

velocemente in qualcosa d’altro). Anche in questo caso parleremo di tasso d’interesse e di matematica finanziaria: sarà l’ultima occasione per farvi capire la forte influenza che la variazione dei tassi d’interesse ha su alcuni prezzi.

Prendendo spunto dal racconto di Buzzati “La giacca stregata”, pensate a una giacca da una tasca della quale, ogni giorno e per sempre (o, se il concetto di eternità vi disturba, potete pensare anche ai prossimi 100 anni: cambia quasi nulla), sarà certamente possibile estrarre una banconota da 100 €. Immaginate poi di non possedere nemmeno un euro e, però, di avere la possibilità di finanziare, indebitandovi al “prime rate” (cioè al tasso migliore, quello che riescono a ottenere i debitori considerati sicuramente

solvibili) e senza limiti di tempo (o, se volete, fino a 100 anni) l’acquisto di quella giacca qualunque sia il suo prezzo.

Che prezzo sareste disposti a pagare per comprarla? (Considerando che 100 € al giorno equivalgono a circa 36.500 € l’anno e che 100 anni

sono, per la vita di un uomo, una eternità, il caso può anche essere visto in questi termini: quanto paghereste oggi il diritto di ricevere 36.500 € l’anno per sempre?)

Immagino che se il prezzo fosse 100.000 € tutti voi vi precipitereste in banca a chiederli in prestito per poi correre a comprare la giacca: in meno di tre anni con i soldi presi dalla sua tasca riuscireste a rimborsare il prestito e a pagare annualmente gli interessi maturati, dopo di che, come si dice, è tutto grasso che cola.

Ma se per acquistare la giacca occorresse un milione di euro? Probabilmente ci pensereste un po’ di più prima di decidere, perché dovreste fare un calcolo basato sul tasso d’interesse che la banca vi chiede: se il tasso annuo fosse “alto”, ad esempio il 10%, rinuncereste all’operazione (dovreste pagare alla banca 100.000 € di interessi l’anno a fronte di un

reddito proveniente dalla giacca di soli 36.500: ci rimettereste di brutto); se, però il tasso fosse basso, ad esempio il 2%, vi converrebbe indebitarvi per un milione e acquistare la giacca (otterreste 36.500 € l’anno dalla giacca, 20.000 all’anno li dareste alla banca per gli interessi

e vi rimarrebbero 16.500 € da spendere come vi pare - e come è meglio che io non sappia -; oppure, se siete particolarmente prudenti e temete di non riuscire, rivendendo la giacca alla scadenza del prestito, a rimborsare il milione ottenuto dalla banca, allora potreste accantonare ogni anno una parte dei 16.500 € (anche senza considerare

gli interessi attivi che potreste ottenere, nel caso dell’esempio vi basterebbe mettere da parte 10.000 € l’anno) e spendere come vi pare il resto, cioè almeno 6.500 l’anno; e

ricevere qualche migliaio d’euri l’anno per tutta la vita senza fare un tappo è comunque meglio di niente).

Voi, però, non siete gli unici al mondo con disponibilità monetarie: c’è una miriade di altri soggetti che non hanno difficoltà a finanziare, con capitale proprio o anche a debito, l’acquisto di quella giacca, pertanto se il tasso d’interesse è il 2% e voi offrite al venditore 1.000.000, ci saranno tantissimi altri a offrire di più (perché si accontentano di guadagnare un po’ meno di voi). Ecco il motivo per cui, con un tasso d’interesse del 2%, quella giacca sarà venduta a un prezzo vicino a 1.573.000 (il valore attuale della somma di tutti i 36.500 € incassabili annualmente nel prossimo

secolo è, infatti, 1.573.090, e come esercizio vai su excel e creati le due colonne, una del valore attuale e l’altra della somma progressiva dei valori attuali di tutti gli

anni da 1 a 100 così controlli se ho fatto bene i conti. Nel caso tu fossi ancora imbranato in excel, qui c’è la formula del valore attuale +$C$1*1/(1+$B$1)^A2) con in C1 la rata annua (nel nostro caso 36.500 €), in B1 il tasso d’interesse (nell’esempio il 2%) e nelle celle della colonna A, dalla riga 2 alla 101, gli anni da 1 a 100); l’altra

colonna, (quella dei progressivi dove alla riga 101 leggerai 1.573.090), se non la sai fare da te suicidati. Dopo che hai fatto, sostituisci al 2% un tasso più alto e vedrai che il valore della giacca diminuisce, mentre - ovviamente - se ci metti il tasso minore aumenta fino a che, con il tasso minimo dello 0%, il valore della giacca raggiunge il massimo

(con 100 anni di rendita) di 3.650.000 €. E se non capisci il perché ti perdono solo se me lo confessi), e col tasso del 10% il prezzo della giacca precipita a poco meno di 365.000 (esattamente a 364.974).

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Riepilogando: i.: gli IAS impongono una generalizzata adozione, nella valutazione dei beni (e dei debiti), del fair value; ii.: il fair value è, in sostanza, il prezzo di mercato; iii.: il prezzo di mercato è, frequentemente (e soprattutto per le immobilizzazioni), individuato “a livello 3” (usando il linguaggio del

libro), cioè è fondato su “stime tecniche” basate sull’attualizzazione dei flussi di cassa originati dal bene (o dal debito); iv.: l’attualizzazione dei flussi di cassa impone la scelta di un tasso d’interesse; v.: il tasso d’interesse influenza enormemente il risultato del calcolo (cioè il “valore attuale” del bene o del debito); vi.: il principale componente del tasso d’interesse (ne parliamo subito qui sotto, nel prossimo punto 37.) è la rischiosità percepita dell’investimento; vii.: la percezione del rischio è fortemente soggettiva (alcuni “risk manager” sono convinti di poter calcolare oggettivamente il rischio, ma lo

sono perché il tanto tempo dedicato allo studio della matematica e della statistica ha loro impedito di comprendere le basi dell’economia e quindi della realtà). Partendo da i. e arrivando fino a vii. si può allora dedurre che:

viii.: l’utilizzo del fair value è, non di rado, una puttanata (perché porta, non di rado, a valutazioni altamente soggettive)

37. Un (utile?) ripasso del concetto di tasso d’interesse.

Ripartiamo dall’esempio della giacca magica con il quale vi ho, appena sopra, fatto constatare come la variazione del tasso d’interesse influisce pesantemente sul prezzo dei beni produttivi di reddito. In quel caso ho scelto di utilizzare un periodo lunghissimo per massimizzare l’effetto. Per farvi constatare che l’influenza del tasso sul valore è comunque piuttosto pesante anche per investimenti con orizzonti temporali non così lunghi, ora vediamo un caso più normale; servirà anche per ripassare il metodo del V.A.N. .

Prima, però, quattro righe per ricordarvi che al di fuori degli esempi e degli esercizi scolastici, e quindi all’interno dell’azienda e nel mondo reale, il problema è trovare e scegliere i dati (il tasso d’interesse, i flussi di cassa, il numero di anni da

considerare ecc.), e non è certo la loro elaborazione. Insomma, le reali difficoltà che si incontrano in azienda sono, a scuola, già state superate nel momento in cui l’autore del testo si è inventato l’esercizio o l’insegnante ha preparato la verifica. E ora passiamo a vedere il problema (in termini scolastici, con tutti i dati già pronti).

Ipotizziamo di dover valutare la convenienza di un investimento, ad esempio di 100.000 €, da cui ci attendiamo di ottenere dei flussi di cassa netti (cioè delle differenze fra flussi di cassa positivi e negativi) di: 3.000 € dopo un anno, di 14.000 in ognuno degli otto anni successivi e di 10.000 il decimo anno; alla fine del decimo anno l’investimento riteniamo che avrà perso interamente la sua produttività e quindi prevediamo di ottenere nulla da un’eventuale sua vendita. Nella tabella qui sotto puoi leggere questi dati:

Flussi netti - 100.000 3.000 14.000 14.000 14.000 14.000 14.000 14.000 14.000 14.000 10.000

anno 0 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10

Se facciamo la semplice somma algebrica di tutti i flussi di cassa otteniamo 25.000, come dire che i 100.000 € spesi all’anno 0 permettono di ottenere, nei 10 anni successivi, flussi di cassa netti pari a 125.000. Ciò significa che, se per noi il valore di un euro rimane immutato al variare del momento in cui è disponibile, quell’investimento lo consideriamo conveniente essendo il suo valore attuale netto positivo ( + 25.000 €).

Noi sappiamo, però, che ricevere 14.000 euro in futuro è giudicato, in genere, cosa piuttosto diversa che riceverli immediatamente: salvo rarissime eccezioni, le persone danno infatti un valore via via inferiore ai beni man mano che la loro disponibilità si allontana nel tempo, e se hai dei dubbi leggi qui sotto.

(Preferiresti vincere oggi un biglietto per una crociera di una settimana in prima

classe sulla MSC Preziosa utilizzabile già da quest’anno, oppure un biglietto

identico però sfruttabile solo dal 2027? Presumo che tu preferisca il biglietto utilizzabile già da adesso, e questo significa che la crociera identica, ma disponibile fra 10 anni, per te vale meno. Come vedi, l’allontanarsi della disponibilità di un bene, e quindi anche l’allontanarsi della disponibilità del denaro (perché serve per l’acquisto dei beni) ne fa diminuire il valore.

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Poiché un € disponibile (utilizzabile) fra qualche tempo ha un valore diverso (minore) di un euro spendibile prima, non è possibile sommare flussi di cassa relativi ad anni diversi: sarebbe come sommare due chili con tre etti e dire che fa 5 chili. Bisogna, quindi, prima rendere tutti gli euro omogenei, equivalenti fra loro, cioè renderli di pari valore. La matematica finanziaria serve a questo: rende confrontabili, e quindi sommabili, somme di denaro disponibili in momenti diversi; e la velocità, il ritmo con cui per noi il valore di un euro diminuisce all’allontanarsi del momento in cui è disponibile è segnalata dal tasso d’interesse che decidiamo di usare per fare i calcoli finanziari.

Ora verificheremo come il giudizio di convenienza muti al variare del tasso d’interesse scelto: se decidiamo di usare un tasso basso, diremo che l’investimento è un buon affare; se applichiamo un tasso più alto allora giudicheremo lo stesso investimento una fregatura. Infatti, con il tasso ad esempio del 2% la somma dei valori attuali dei flussi di cassa risulta positiva (+ 11.690 €), mentre se utilizziamo ad esempio il 10% gli stessi flussi di cassa hanno un valore negativo (– 25.518 €).

- 100.000 3.000 14.000 14.000 14.000 14.000 14.000 14.000 14.000 14.000 10.000 Valore attuale al tasso 0%

0 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 anni

-100.000 2.941 13.456 13.193 12.934 12.680 12.432 12.188 11.949 11.715 8.203 Valore attuale al tasso 2%

- 100.000 2.727 11.570 10.518 9.562 8.693 7.903 7.184 6.531 5.937 3.855

Valore attuale al tasso 10%

Ma come si fa a scegliere il tasso d’interesse da utilizzare per valutare un investimento? Per capirlo conviene, preliminarmente, consolidare la comprensione del concetto di tasso d’interesse.

Che il tasso d’interesse sia il prezzo (unitario) per l’uso del denaro lo avete sentito tante volte in questi anni a scuola, anche da me; che sia la velocità con cui il valore di un euro (o di un’altra unità monetaria, dollaro, yen ecc.) diminuisce man mano che si allontana la sua disponibilità lo avete letto qui sopra poco fa.

Le due definizioni sono entrambe corrette; se la prima è più semplice da comprendere è perché siamo abituati a pagare per l’uso delle cose non nostre (che sia il noleggio di una sdraio al mare o l’interesse di un prestito cambia nulla: il calcolo del prezzo

dovuto è comunque quantità x tempo x prezzo unitario; nel caso di una sdraio il tempo cui si riferisce il prezzo è l’ora, nel caso di un euro è l’anno, ma l’operazione è la

stessa); la seconda, che risulta più ostica perché raramente ci soffermiamo a riflettere sulla perdita di valore dei beni all’allontanarsi della loro disponibilità, ha però il vantaggio di far intuire meglio l’essenza del fenomeno “interesse”, fenomeno che è del tutto naturale e inevitabile in quanto intimamente legato all’unica scarsità ineluttabile per l’uomo: la scarsità del tempo a lui disponibile (a meno d’essere immortali).

A queste vostre conoscenze dovete ora aggiungere che il tasso d’interesse con cui si fanno i calcoli finanziari è la somma di tre addendi: il tasso d’inflazione atteso, il prezzo per il rischio e il tasso “puro”.

Il tasso d’inflazione (se è maggiore di zero) misura la perdita di potere d’acquisto che una moneta (l’€, il $ USA, la £ sterlina ecc.)

subisce nel tempo: se nel corso del 2016 in una certa area geografica i prezzi dei beni acquistabili sono mediamente aumentati del 2,1% allora si dirà che in quell’area l’inflazione nel 2016 è stata del 2,1%; se, al contrario, i prezzi nel 2015 in media sono diminuiti dello 0,3% allora nel 2015 c’è stata deflazione o, come anche si dice, un’inflazione negativa dello 0,3%.

E’ chiaro che prestare soldi a un tasso inferiore del tasso d’inflazione significa, anche se il debitore rispetta l’impegno di restituire il capitale e di pagare gli interessi, ritrovarsi alla fine dell’operazione più poveri di quanto si fosse prima: se ho prestato 1.000 € per un anno al 5% ma l’inflazione in quell’anno è stata del 7%, con il montante accumulato a fine prestito (1.050 €) riuscirò a comprare meno beni di quelli che avrei potuto acquistare prima di prestare (per acquistare gli stessi beni dovrei infatti ora spendere 1.070 €, e quindi me ne mancano 20: significa che

nell’anno mi sono impoverito dell’1,872%, pari a 20 su 1.070).

Il prezzo per il rischio è il prezzo che compensa la non certezza del buon esito dell’operazione: se ritengo probabile solo al 90% che oggi Andrea mi restituirà i 1.000 euro che mi deve, sarò razionalmente disposto a vendere il mio credito (in scadenza oggi) per 900 €: i 100 € di differenza sono il prezzo del rischio. (La cosa può anche

essere vista in questo modo: ci sono 100 palline in un’urna, 99 bianche e una nera. Se estrai la nera vinci nulla, se esce una qualsiasi delle 99 bianche vinci 200 € . Quanto sei disposto a pagare per un biglietto valido per un solo tentativo? Se sei razionale ti spingi fino a 198 €, cioè 200 moltiplicato per la probabilità di riceverli, probabilità che è pari a 0,99; come dire che 2 € è quanto pretendi per correre il rischio - oggettivamente del’1% - di

perdere la somma puntata).

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La differenza fra il caso del credito e quello dell’urna sta nella modalità di individuazione del prezzo del rischio: stima soggettiva per il credito (stima basata su una quantità di informazioni a volte anche enorme, ma pur sempre soggettiva), applicazione oggettiva della logica e della matematica nel secondo. Il trucco utilizzato (spesso inconsapevolmente, nel senso che molti credono

davvero in quello che fanno) da tanti operatori per rassicurare sulla validità delle loro valutazioni dei prodotti finanziari

che piazzano sul mercato sta proprio nel far sembrare oggettive le procedure di valutazione, e lo fanno nascondendo la soggettività dietro il paravento di caterve di dati statistici e la nebbia di calcoli raffinatissimi.

Il tasso “puro” d’interesse è il prezzo unitario che si formerebbe sul mercato per l’uso del denaro nell’ipotesi di inflazione attesa nulla e debitori certamente solvibili. Come tutti i prezzi, anche il tasso puro varia continuamente nel tempo per effetto della sempre mutevole pressione (dimensione) sia della domanda sia dell’offerta di moneta (o, come anche si dice, domanda e offerta di credito, ché se chiedo di usare soldi non miei significa che sto chiedendo che mi sia

fatto credito, e se offro l’uso dei miei soldi significa che sto offrendo credito). Quando l’economia “tira”, nel senso che la produzione e quindi i redditi (ricordo che il valore della produzione, sia quella di un’azienda sia il P.I.L. di un paese, coincide con la somma dei redditi di coloro che,

rispettivamente, con quell’azienda hanno collaborato o in quel paese risiedono) aumenta rapidamente, allora la domanda di credito si fa più consistente (le aziende chiedono credito per fare nuovi investimenti che permettano di soddisfare l’accresciuta domanda dei loro prodotti; le famiglie, spinte

dall’ottimismo a sua volta generato dai redditi in crescita, chiedono credito per acquistare più beni di consumo di quelli che riuscirebbero usando la sola liquidità che

possiedono; gli enti pubblici chiedono più finanziamenti, ma questo - ahimè - lo fanno sempre, che l’economia sia in crescita o in declino: è nei loro cromosomi.), e se l’offerta di moneta non aumenta proporzionalmente allora i tassi salgono. Diversamente rispetto ai secoli passati, nei sistemi finanziari moderni l’offerta di moneta è fortemente influenzata dal “banchiere centrale” (la

B.C.E. per i l’euro, la FED per il dollaro, la BOJ per lo yen ecc.) il quale può così regolare i tassi d’interesse in modo che si avvicinino a quelli che ritiene più opportuni per i vari orizzonti temporali (tassi per prestiti a breve, a medio o a lungo termine). La capacità tecnica dei banchieri centrali di regolare l’offerta di moneta e quindi di credito e con essa i tassi d’interesse è enormemente aumentata negli ultimi decenni (grazie ai progressi scientifici in economia monetaria ma soprattutto grazie alla disponibilità di

informazioni ora ben più copiose, attendibili e tempestive) e questo, tra l’altro, spiega perché mentre nel 1929 la FED dell’allora governatore Roy Young non riuscì a gestire la crisi finanziaria che così portò alla depressione economica da cui gli USA uscirono solo una quindicina d’anni dopo, nel 2007 la FED di Ben Bernanke, allievo di Milton Friedman, è riuscita a evitare il peggio e a contenere i tempi della crisi economica a una decina di trimestri (nel 2010 il PIL

americano era già tornato sopra il livello pre-crisi).

In periodi (come l’attuale) di inflazione molto bassa (da qualche anno, fortunatamente, l’inflazione oscilla tra lo zero e il 2%) e di tassi puri prossimi allo zero anche per orizzonti temporali non brevi (oggi, ottobre 2017, la repubblica federale tedesca, cioè un debitore giudicato

a rischio zero, riesce a finanziarsi in euro a 10 anni a un tasso dello 0,4%) il tasso d’interesse dipende quasi totalmente dal fattore rischio, che dei tre componenti è spesso il più variabile e difficilmente stimabile.

38. Critiche al “fair value” (mie e di pochi altri dinosauri). Sono vecchio, ma non è per questo che la sostituzione del tradizionale criterio di valutazione basato sul costo storico (corretto dalle quote di ammortamento e abbinato al principio di

prudenza) con quello del fair value non mi va giù: decenni fa, quando non ero ancora vecchio e il fair value si diffondeva rapidamente nel mondo anglosassone, mi stava già sullo stomaco (e anche un po’ più giù) per almeno due motivi, uno di carattere economico e uno ragionieristico: circa il primo, sono convinto che il diffondersi della prassi di valutare al fair value abbia l’effetto negativo di essere “pro-ciclica”, cioè enfatizzi le fasi di crescita e di depressione dell’economia rendendo più instabile il sistema, anche a causa del fatto che agevola la diffusione delle “bolle” (e delle conseguenti crisi finanziarie) da un settore economico all’intera economia. Dovendo però trattare, in questi appunti, solo di argomenti “aziendalistici”, non è il caso di approfondire questo aspetto.

Dal punto di vista esclusivamente ragionieristico, un ampio uso della valutazione al fair value lo ritengo sbagliato in quanto penso che sia giustificato solo in caso di applicazione al suo “livello 1” (cioè nella valutazione di elementi

patrimoniali identici a beni il cui prezzo è stato rilevato in borsa nella stessa data a cui si riferisce il bilancio). In tutti gli altri casi, mancando un prezzo certo dell’elemento patrimoniale da valutare, il definire “fair” il valore inserito rafforza solo l’illusione che l’immagine che si offre a chi legge il bilancio sia aderente alla realtà, ed è un’illusione perché quella “realtà”, cioè il valore “giusto” dell’elemento patrimoniale, semplicemente non esiste (come già visto al ponto 22.). Quindi, dovendo comunque indicare un importo e non potendo questo importo che essere il risultato di riflessioni

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personali, meglio basarsi su dati storici certi e oggettivi correggendoli poi seguendo percorsi per quanto possibile semplici e standardizzati: si guadagna in oggettività e non si può perdere in aderenza rispetto a un non individuabile vero.

39. Un esempio di differenza fra criteri: la valutazione delle immobilizzazioni tecniche.

39.a Il criterio del costo storico diminuito dalle quote di ammortamento. E’, si è già detto, il criterio tradizionale, e tradizionale lo è anche per voi, nel senso che è quello che avete sempre adottato in classe: inizialmente, al momento dell’acquisto, il bene è valutato al costo che risulta dalla fattura di acquisto (a cui è anche

possibile sommare eventuali spese accessorie come trasporto, dazi, installazione, collaudo, perizie, ecc.).

In seguito, col passare degli anni, questo valore viene diminuito in base alle quote di ammortamento calcolate, di solito, tenendo conto sia della durata del periodo di tempo in cui si ritiene che il fattore produttivo sarà utile, sia dell’eventuale (e di rado significativo, salvo che per gli automezzi e gli immobili) valore di cessione al momento della sua dismissione (e l’ammortamento, cioè la diminuzione di valore subita dal bene nell’esercizio, sarà registrato in conto o fuori conto, cioè inserito in avere

dello stesso conto patrimoniale dell’immobilizzazione oppure, nel caso dell’ammortamento “fuori conto”, annotato in avere del conto patrimoniale “Fondo

ammortamento”). Può essere utile un esempio.

Ipotizziamo che un’impresa edile a inizio gennaio 2017 acquisti una gru per 50.000 €, che intenda usarla in modo sostanzialmente uniforme per 10 anni e che preveda di cederla a inizio 2027 per 5.000 €. In questo caso è probabile che nel “piano di ammortamento” si indichino quote di ammortamento annue costanti e pari a 4.500 € [(50.000 - 5.000) / 10 ], per cui, dopo le scritture di assestamento, Attrezzature P Ammortamento attrezzature R

----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------ -------

i mastrini coinvolti appariranno (2.1.2017) 50.000 | (31.12.2017) 4.500 |

con questi dati (ammesso che si utilizzi | 4.500 (31.12.2017) |

l’ammortamento in conto) (saldo 31.12.2017) 45.500 | (saldo 31.12.2017) 4.500 |

In virtù del principio della prudenza (e se non ricordi torna al n. 28.) ogni anno al momento della redazione del bilancio (e

quindi in sede di scritture di assestamento) occorre comunque verificare che il valore della gru risultante dal piano di ammortamento non sia superiore a quello in quel momento giudicato realistico: se il valore dell’immobilizzazione risultasse ridotto per effetto di una causa non momentanea, allora occorre ridurre il valore contabile con una “svalutazione”.

Continuiamo l’esempio precedente ipotizzando che nel 2018 il parlamento approvi una norma sulla sicurezza in base alla quale dal 2022 il campo di utilizzo delle gru di quel tipo sarà fortemente ridotto. L’utilità che la gru sarà in grado di apportare negli ultimi anni di vita residua è perciò minore (supponiamo, ad esempio, di 7.500 €) di quanto si riteneva prima, quindi in sede di bilancio 2018 bisogna non solo ammortizzare secondo il piano originario ma

anche svalutare l’immobilizzazione (vedi l’art. 2426, comma 1 n. 3); nel 2018 la movimentazione dei mastrini sarà questa: Attrezzature P Ammortamento attrezzature R Svalutazione attrezzature R ----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- ----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- ---------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- --------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

(saldo iniz. al 1.1.2018) 45.500 | (31.12.2018) 4.500 | (31.12.2018) 7.500 | | 4.500 (31.12.2018 ammort.) | | (saldo fin. al 31.12.2018) 33.500 | 7.500 (31.12.2018 svalutaz.) (s.do fin.31.12.2018) 4.500 | (saldo fin. 31.12.2018) 7.500 |

Sempre per il principio di prudenza, quando si adottano i principi contabili italiani (quelli raccolti a cura dell’OIC) non si tiene conto di eventuali maggiori valori dell’immobilizzazione rispetto a quello determinato dal piano di ammortamento. Con il criterio del costo storico eventuali rivalutazioni non sono infatti ammesse, ad eccezione del caso in cui venga introdotta una norma di legge che lo consenta. Vediamo quest’altro esempio:

Nel 2007 acquistammo per 500.000 un edificio commerciale alla periferia sud di Zurigo; a fine 2016 lo abbiamo in bilancio al valore (al netto del fondo di ammortamento accumulato) di 425.000 €, in quanto lo abbiamo ammortizzato con quote annue di 7.500 € calcolate sulla base di un periodo di utilizzo di 50 anni (quindi un ammortamento annuo del 2%) e un valore residuo presunto, al momento della sua dismissione, di 125.000 € [quindi: (500.000 – 125.000) / 50 = 7.500 ].

Successivamente al nostro acquisto, la zona in cui insiste il fabbricato è stata oggetto di una progressiva riqualificazione urbanistica e, in particolare, nei pressi del nostro immobile è stata aperta quest’anno una nuova

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fermata della metropolitana e inaugurato un importante centro congressi; così ora, a fine 2017, il valore del nostro immobile riteniamo sia lievitato a 1.013.000 € (ce lo confermano anche un paio di serie proposte d’acquisto ricevute di recente e da

noi rifiutate). Se adottiamo il criterio del costo, nel bilancio al 31 dicembre 2017 non terremo conto di questa rivalutazione: privilegeremo il dato storico rispetto alla realtà per come ci appare nel momento e indicheremo un valore di 417.500 € (i 425.000 di valore contabile al 1.1.2017 meno i 7.500 € di ammortamento relativo al 2017).

39.b Con il criterio del fair value, mentre nulla cambia rispetto a prima per quanto riguarda la determinazione e la registrazione del costo d’acquisto dell’immobilizzazione tecnica, si complicano, invece, le scritture di assestamento. Ciò in quanto adottando questo criterio è sempre necessario, dopo aver calcolato la quota di ammortamento esattamente come nel caso precedente, stimare il valore di mercato del bene “usato” e confrontare questo “fair value” con il valore dato dalla differenza tra il costo di acquisto e le quote di ammortamento cumulate.

Utilizzando gli stessi esempi di prima, nulla cambia nel caso della gru il cui valore si è ridotto più di quanto

previsto dal piano di ammortamento: le scritture saranno le stesse (e le ripeto qui per tua comodità):

Attrezzature P Ammortamento attrezzature R Svalutazione attrezzature R ----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- ----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- ---------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- ----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- ---------------------------------------------------------------------------------------------------------

(saldo iniz. al 1.1.2018) 45.500 | (31.12.2018) 4.500 | (31.12.2018) 7.500 | | 4.500 (31.12.2018 ammort.) | | (saldo fin. al 31.12.2018) 33.500 | 7.500 (31.12.2018 svalutaz.) (s.do fin.31.12.2018) 4.500 | (saldo fin. 31.12.2018) 7.500 |

Nel caso, invece, dell’immobile di Zurigo il cui fair value è salito da 425.000 € fino a 1.013.000 €, e ipotizzando che il suo valore residuo alla dismissione sia ora stimabile in 533.000 € (è soprattutto il valore del terreno su cui è edificato che è

aumentato in virtù degli sviluppi urbanistici della zona, e il valore del terreno non si riduce col tempo come invece capita all’edificio) i mastrini coinvolti avranno, dopo gli assestamenti del 2017, questo aspetto:

Fabbricati commerciali P Ammortamento fabbricati commerciali R Riserve di rivalutazione P ----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- ------------------------------------------------------------------ ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- ----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

(saldo al 1.1.2017) 425.000 | | | 0 (saldo al 1.1.2017)

| 12.000 (31.12.2017) (31.12.2017) 12.000 | | (31.12.2017) 600.000 | | | 600.000 (31.12.2017)

(saldo finale) 1.013.000 | (saldo finale) 12.000 | | 600.000 (saldo finale) Segnalo che il maggior valore (di 600.000 €) non viene annotato in avere di un conto di reddito (a scuola, invece, l’anno

scorso lo avremmo registrato nel conto di reddito “Plusvalenze”, il cui saldo confluisce nell’avere del “Conto economico”) bensì in avere del conto patrimoniale “Riserve di rivalutazione”.

Come certamente avrai intuito, “Riserve di rivalutazione” non è un conto acceso ai debiti (quei 600.000 € l’azienda non li

deve a nessuno) bensì un conto che fa parte del “Capitale Netto”: la ricchezza netta aziendale è comunque aumentata di 600.000 € (anche se, in questo caso, non per meriti suoi).

La principale motivazione del mancato inserimento a conto economico della rivalutazione è da ricercare nel fatto che i 600.000 € aggiuntivi di valore che ora appaiono in patrimonio non sono stati creati nell’esercizio cui si riferisce il bilancio ma in tutti gli anni in cui la periferia sud di Zurigo si è progressivamente rivalutata per effetto degli interventi urbanistici: inserire quei 600.000 € nel conto economico del solo anno 2017 sarebbe quindi una forzatura.

Torneremo, comunque, a parlare di capitale netto e di riserve di valutazione ai punti 53. e 57. .

Faccio infine notare che la quota annua di ammortamento è divenuta di 12.000 € (prima della rivalutazione era di 7.500)

perché, se non abbiamo motivo di ritenere che la vita utile del fabbricato sia mutata (è solo aumentato il suo valore, ma la

sua fisicità è la stessa) ora quel fabbricato potrà rilasciare utilità per i residui previsti 40 anni (50 meno i 10 già trascorsi) e allora, essendo ora stimato il valore residuo alla data di dismissione in 533.000, i 12.000 € l’anno di ammortamento risultano da questo calcolo: (1.013.000 - 533.000) / 40 = 12.000.

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40. Un altro esempio: la valutazione dei crediti non a breve (immobilizzazioni finanziarie).

Alle aziende obbligate al bilancio in forma ordinaria, il codice civile da quest’anno impone un modo di valutazione dei crediti diverso da quello d’un tempo (che fu serenamente usato per secoli e fino al 2016); soltanto le aziende che possono redigere il bilancio “abbreviato” possono ancora applicare, nella valutazione dei crediti, il tradizionale criterio del minor valore fra il nominale e quello di presunto realizzo.

L’art. 2426 (al n. 8 del comma 1) ora infatti dispone che “i crediti e i debiti sono rilevati in bilancio secondo il criterio del costo

ammortizzato, tenendo conto del fattore temporale e, per quanto riguarda i crediti, del valore di presumibile realizzo”.

Quel dover “tenere conto del fattore temporale” significa che occorre calcolarne il valore attuale (e, ovviamente,

se non si è certi di incassare il 100% del credito, bisogna diminuirne il valore di un importo proporzionale alla perdita temuta).

Prima del 2016 la valutazione dei crediti era più semplice: fino all’anno scorso, infatti, i crediti venivano valutati al minore fra il loro valore di accensione (cioè, nel caso di crediti finanziari, l’importo prestato) e il presunto valore di realizzo. La differenza fra prima e dopo il 2016, quindi, è che mentre un tempo, ferme restando le considerazioni sulla probabilità di incasso, ci si fermava alla lettura dell’importo prestato (che spesso coincide con quello

dovuto a scadenza, il “valore nominale” su cui si applica il tasso concordato), ora è necessario calcolarne il valore attuale, e per far questo occorre applicare la matematica finanziaria.

Lo studente bravo potrebbe pensare, secondo me ingenuamente, che il cambiamento vada nella giusta direzione, che porti cioè a bilanci più corretti: avere un credito di 100.000 € che scade fra tre mesi è cosa diversa dall’avere un credito di 100.000 che scade fra due anni o fra venti; io stesso ve l’ho sempre detto: più la disponibilità di un bene (una crociera alle Maldive, un abbonamento teatrale alla stagione di prosa, una somma di denaro ecc.) si allontana nel tempo e meno noi, oggi, a quel bene utilizzabile in futuro diamo valore, meno cioè noi siamo oggi disposti a pagarlo (se Andrea è disposto a pagare oggi 250 € l’abbonamento per il prossimo campionato del Milan, certamente sarà disposto a pagare molto meno, sempre

oggi, lo stesso abbonamento per il campionato del 2038). Quindi, se a un credito di 100.000 € che sta per scadere (verso un debitore

certamente solvibile) noi oggi diamo un valore di 100.000 €, a uno analogo e infruttifero di interessi che però scade fra molti anni non diamo certo lo stesso valore (a meno che noi si ragioni con il tasso dello 0%); è giusto, allora, calcolarne il suo valore attuale, e la matematica finanziaria, come abbiamo appena visto, ci dice che basta moltiplicare il suo valore nominale per 1/(1+i)n (ripeto che la matematica finanziaria solo a questo serve: a rendere confrontabili somme di denaro disponibili

in momenti diversi, e se il credito non a breve è fruttifero di interessi e/o rimborsabile a rate allora occorrerà attualizzare tutti i flussi di cassa che si originano durante

la sua vita e non solo quello causato dall’incasso a scadenza; il calcolo del valore attuale si allunga, ma il principio è lo stesso).

I problemi, però, arrivano proprio qui, nel momento in cui si deve scegliere il tasso d’interesse da utilizzare per calcolare il valore attuale; e affinché vi rendiate ben conto di quanto sia rilevante questo problema vi faccio

notare che se attualizzo al tasso del 2% un credito (infruttifero) di 100.000 € che scade fra 20 anni trovo che oggi ha un valore di 67.297 € [ 100.000 x 1/(1 + 0,02)20

], mentre se applico il tasso del 12% il suo valore attuale (cioè di oggi)

risulta di soli 10.367 € [ 100.000 x 1/(1 + 0,12)20 ].

Ora ditemi: come informazione, vi pare più utile sapere che l’azienda ha un credito (che ritiene di sicuro incasso) di 100.000 € incassabile fra 20 anni (la scadenza la potete leggere nella nota integrativa) oppure vi sembra di avere le idee più chiare sapendo che l’azienda ha un credito (reputato di sicuro incasso) che oggi in base al tasso del 2% (e l’importo del tasso è leggibile nella

nota integrativa) ha un valore di 67.297 € ?

Personalmente, penso che il “vecchio” sistema di evidenziare i crediti (al loro valore nominale – se di sicuro incasso – con l’aggiunta

della data di scadenza) sia migliore del nuovo (al loro “fair value”, in pratica il valore attualizzato in base a un certo tasso) per almeno due ragioni: è più semplice (non impone alcun calcolo e le registrazioni contabili sono banali) e, motivo ben più importante, evita l’immissione di una ulteriore dose di soggettività nei valori di bilancio; poiché è il lettore del bilancio, per definizione, che vuole avere un’idea dei dati aziendali, non ha senso indicargli che il valore di quel credito secondo gli amministratori dell’azienda è 67.297 o 10.367 € o qualche altro valore in base a qualche tasso; è molto più corretto e oggettivo dirgli che si tratta di 100.000 € che si ritiene sicuramente incassabili fra 20 anni, in modo che sia il lettore del bilancio a dare a quel credito, in base alle sue “preferenze temporali” (cioè in base al tasso d’interesse con il quale lui stima

il valore odierno dei beni disponibili in futuro) il valore attuale che ritiene equivalente a 100.000 € disponibili fra 20 anni. Il significato di quel “costo ammortizzato” che appare nella prima parte del n. 8 dell’art. 2426 lo si vedrà al punto dopo, dove tratto della valutazione dei debiti. E ci sarà da piangere.

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41. La valutazione dei debiti: vecchia pragmatica ragionevolezza e nuovo fanatico

perfezionismo.

Già si è visto che nell’art. 2426 del codice civile, al n. 8, ora si legge: “i crediti e i debiti sono rilevati in bilancio secondo il criterio del costo ammortizzato, tenendo conto del fattore temporale.” Un tempo, e fino al 2016, il codice civile nemmeno si preoccupava di dire come dovessero essere indicati i debiti: era scontato che in bilancio ci finivano con il loro valore nominale. Fino all’anno scorso il codice si limitava a

stabilire che i crediti dovevano essere inseriti al loro valore di presumibile realizzo e taceva sui debiti.

Ritengo utile, prima di affrontare le conseguenze di questo cambiamento, vedere le scritture contabili che scaturiscono dal “vecchio” modo di valutazione dei debiti (sistema, comunque, ancora adottabile dalle aziende che redigono il bilancio in

forma “abbreviata”); lo facciamo utilizzando l’esempio di un mutuo ipotecario triennale di 100.000 € rimborsabili per intero alla scadenza e con interessi pagabili annualmente il 31/12 al tasso nominale del 2%; il mutuo è stato erogato a inizio gennaio e per ottenerlo il mutuatario (il debitore) si è visto addebitare dalla banca mutuante 400 € di spese istruttoria pratica, 2.000 € di imposta sostitutiva, 300 di spese di perizia sull’immobile oggetto d’ipoteca, 500 di spese di assicurazione e 800 di compenso notarile, per un totale di 4.000 € di costi accessori.

La scrittura relativa all’accensione, nel caso non si applichi il nuovo criterio introdotto dalla recente riforma, è:

. Credem c/c n. xy P Mutuo n. wz P . . Immobilizzazioni finanziarie (o Risconti attivi) P 1/1/17 96.000 | | 100.000 1/1/17 1/1/17 4.000 | (accensione mutuo Credem n. xy)

I 4.000 € di costi che la banca ha addebitato al cliente dovete vederli come un investimento, esattamente come lo sarebbero se fossero serviti per acquistare un’attrezzatura che si ritiene possa essere utile per 3 anni: anche quei 4.000 € di spese accessorie saranno utili all’azienda per 3 anni (l’intera durata del finanziamento) in quanto quella fonte finanziaria continuerà per tutto quel tempo a svolgere uniformemente (uniformemente perché il mutuo è a totale pre-ammortamento

e se capisci questa parentesi complimenti) la funzione di sostenere l’attivo aziendale, esattamente come l’attrezzatura continuerà svolgere per 3 anni la sua funzione produttiva. Quel finanziamento è un servizio che sarà utile per lungo tempo, e se per ottenerlo si è dovuto pagare subito 4.000 €, quei 4.000 € costituiscono una immobilizzazione, un costo di competenza dell’intero triennio 1/1/2017 – 31/12/2019, un fattore produttivo analogo ai macchinari, agli impianti, ai brevetti ecc., un’attività patrimoniale il cui valore, la cui utilità residua, calerà col tempo man mano che si accorcia la durata residua del finanziamento, esattamente come diminuisce il valore di un trattore, di un impianto, di un brevetto ecc.

Se fissando l’attenzione sulla cifra “4.000,00” annotata in dare di quel conto Patrimoniale (“Immobilizzazioni finanziarie”

o “Risconti attivi” o “Costi finanziari accessori da ammortizzare”, chiamatelo come vi pare, basta che sia Patrimoniale) riuscite a intravedere la sagoma

di un martello pneumatico, allora non andate troppo male nella comprensione delle basi di ragioneria.

Al pagamento degli interessi e, successivamente, in sede di assestamenti per il bilancio al 31/12/2017 si registrerà:

Costi finanziari R . Credem c/c n. xy P . Immobilizzazioni finanziarie (o Risconti attivi) P 31/12/17 2.000 | (pagamento rata interessi) | 2.000 31/12/17 1/1/17 4.000 | 31/12/17 1.333 | (assestamenti x bil.2017) | | 1.333 31/12/17 (assestamenti x bil. 2017)

Nella tabella qui sotto riporto i valori che appaiono in bilancio nei 3 esercizi di durata del prestito se si adottano

i vecchi criteri di valutazione dei debiti, quelli che, dinosauricamente, ritengo ragionevoli e pragmatici. Bilancio anno

Valore del debito al 31/12 (voce D.4 Stato Patrimoniale)

Interessi passivi (voce C.17 Conto

Economomico)

Ammortamento del costo iniziale (voce B.10.a Conto

Economico)

Costi finanziari annui complessivi

Costi capitalizzati al 31/12 (voce B.I.7 Sato Patrimoniale)

2017 100.000,00 2.000,00 1.333,33 3.333,33 2.666,67

2018 100.000,00 2.000,00 1.333,33 3.333,33 1.333,33

2019 0,00 2.000,00 1.333,33 3.333,33 0,00

Totale 6.000,00 4.000,00 10.000,00

Ora è tempo di tuffarci nella modernità, fatta di rigore, precisione, purezza e fanatica intolleranza verso qualsiasi imperfezione. Andiamo “al top” del bilancio, al bilancio a 5 stelle, il bilancio del ragionier Grillino.

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41a. Il “costo ammortizzato” Dividiamo il testo del n. 8 del 2426 in due parti e cominciamo dall’analisi dalla prima , quella in cui si impone che “i crediti e i debiti sono rilevati in bilancio secondo il criterio del costo ammortizzato”. La frase, sebbene non abbia ancora capito perché, significa in pratica che i debiti (e i crediti) possono apparire in bilancio al valore nominale (cioè, in genere, per l’importo che dovrà essere restituito) solo nel caso in cui non si siano sostenuti dei costi per ottenerli (cioè per contrarre il debito o per acquisire il credito); tutte le volte che, invece, si devono pagare dei costi accessori (e quindi assai spesso

nel caso di debiti di finanziamento, ma più raramente nel caso dei crediti) come spese per perizie, per imposte, assicurazioni, istruttoria pratica eccetera, allora il debito (o il credito) va evidenziato solo per la differenza fra importo nominale e quei costi.

(Qui tratto solo il caso “debiti”, anche in considerazione del fatto che difficilmente si sostengono spese accessorie nell’acquisizione di crediti).

In altre parole, e per cercare di dare un senso a questa recente innovazione: il debito che si segnala in bilancio è pari all’importo che effettivamente è stato ottenuto e che quindi può essere sfruttato; si vuole, cioè, che la fonte di finanziamento che viene inserita nel passivo patrimoniale sia pari alla risorsa finanziaria che si è acquisita.

Se, tornando all’esempio di prima, per ottenere un mutuo ipotecario di 100.000 € devo pagare 400 € di spese istruttoria pratica, 2.000 € di imposta sostitutiva, 300 di spese di perizia, 500 € di spese di assicurazione e 800 di compenso notarile, per un totale di 4.000 € di costi accessori, allora quel debito deve inizialmente apparire

in bilancio (a parte la questione dell’attualizzazione che vedremo dopo) per 96.000 € e non per i 100.000 che dovrò comunque restituire. Banca c/c n. xy P . Mutuo n. wz P . La registrazione contabile al momento dell’accensione del finanziamento sarà: 96.000 | | 96.000

Ipotizzando sempre che il tasso sia il 2%, che gli interessi siano pagabili annualmente il 31 dicembre, che il mutuo abbia durata dal 1/1/2017 al 31/12/2019 e che il rimborso sia in un’unica soluzione alla scadenza, allora il 31/12/2017 al pagamento della prima rata interessi di 2.000 si registrerà: . Banca c/c n. xy P . . Interessi passivi R | 2.000 2.000 |

Le cose si fanno più complicate con le scritture di assestamento: in sede di redazione del primo bilancio successivo all’accensione del mutuo (cioè per il bilancio al 31/12/2017) occorre infatti determinare il T.I.R. (tasso interno di rendimento) dell’operazione di finanziamento, cioè il tasso che rende il valore attuale di tutti i flussi di cassa derivanti dal debito uguale all’importo effettivamente ricevuto; in pratica il T.I.R. coincide con quello che viene spesso chiamato, specie nelle operazioni di credito al consumo, “TAEG” (tasso annuo effettivo globale), che è appunto il costo unitario che tiene conto sia degli interessi sia di tutti gli elementi accessori di costo.

Nell’esempio il calcolo del TIR è:

96.000 = 2.000 / (1+i)1 + 2.000 / (1+i)2 + 2.000 / (1+i)3 + 100.000 / (1+i)3 → i = 3,4257%

[ Se non si sa usare la funzione TIR.X di excel (è nel menù “formule”), nulla di grave: è sufficiente, utilizzando comunque excel, andare a tentativi modificando il tasso fino a che si verifichi l’uguaglianza; tra l’altro, sarebbe buona cosa, da parte tua, provarci: ti servirebbe per migliorare le tue non eccelse capacità excelliche. Se non ci riesci, puoi comunque verificare la correttezza del dato (3,4257%) attraverso i conteggi esposti qui sotto. ]

(Infatti: 2.000/1,0342571 + 2.000/1,0342572 + 102.000/1,0342573 = 1.933,76 + 1.869,70 + 1.807,75 + 90.388,79 = 96.000,00 €)

Una volta individuato il tasso effettivo del finanziamento siamo in grado di calcolare gli importi (debito al 31/12 e interessi dell’anno) da inserire in bilancio. I risultati sono qui sotto.

Bilancio anno

a (nom. - costi acc.)

Valore debito all’1 gennaio

b ( a x 3,4257% )

Interessi passivi TIR 3,4257% (voce C.17 Conto Econ. “nuovo”)

c (nom. x 2%)

Interessi passivi pagati (tasso nominale 2%)

d (b - c) Differenza

e (a + e) Valore del debito al 31 dicembre

2017 96.000,00 3.288,67 2.000,00 1.288,67 97.288,67

2018 97.288,67 3.332,83 2.000,00 1.332,83 98.621,50

2019 98.621,50 3.378,50 2.000,00 1.378,50 100.000,00

Totale 10.000,00 6.000,00 4.000,00

Come puoi notare, col vecchio criterio i tre anni coinvolti (2017, 2018 e 2019) recepivano ognuno lo stesso costo per il finanziamento (pari a 3.333 euro); il nuovo criterio, invece, diminuisce di 44 € il costo del 2017, aumenta di altrettanto quello del 2019 e lascia inalterato il costo di competenza del 2018. In pratica, lo 0,44% (44/10.000) dei costi complessivi del mutuo vengono spostati dall’ultimo al primo anno. (Much ado about nothing, direbbe il vecchio Willy).

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41b. Il “tener conto del fattore temporale” Per inquadrare subito la portata delle complicazioni che derivano da questa storica tappa verso la perfezione contabile (leggere con tono ironico, pliis), copio incollo due delle trenta pagine scritte da Luigi Facchin, giovine commercialista convinto (o almeno così mi pare) delle magnifiche e progressive sorti di cui l’intero genere umano (ma

particolarmente la sottospecie sapiens sapiens contabilis) beneficerà in virtù di questa per me sciagurata tendenza. (Tenete conto che il

caso qui proposto è certamente tra i più semplici e banali che si possono presentare: vi avessi evidenziato la contabilizzazione di un mutuo passivo con rimborso

parziale anticipato e variazione di tasso, dieci pagine di spiegazioni non bastavano). Incollando sulla barra l’indirizzo a fianco potete, se vi va, scaricare l’intero documento del dott. Facchin. [ digitalibri.egeaonline.it/getFile.php?id=20409 ] L’applicazione dell’attualizzazione ad un credito commerciale. Al fine di illustrare il procedimento, si consideri l’ipotesi di un credito commerciale di € 1.700.000, oltre Iva al 22%, per il quale sia stato concordato il pagamento in tre rate di pari importo, comprensive degli interessi nel frattempo maturati, rispettivamente a sei, diciotto e ventiquattro mesi dalla fornitura o conclusione del servizio avvenuta in data 31 ottobre 2016. L’accordo prevede la corresponsione di interessi sulla dilazione di pagamento al tasso annuo dell’1,5%. Il creditore sostiene costi di transazione per € 2.000 (onorari per redazione contratti). Il piano di ammortamento del credito sia, quindi, il seguente (1.700.000 + IVA 22% = 2.074.000)

data causale Importo totale capitale interessi

31/10/2016 Credito da fornitura (2.074.000,00)

30/04/2017 Prima rata 706.760,48 691.333,33 15.427,15

30/04/2018 Seconda rata 712.073,33 691.333,33 20.740,00

31/10/2018 Terza rata 696.560,96 691.333,34 5.227,62

2.074.000,00 41.394,77

Il tasso contrattuale dell’1,5%, non essendovi altre componenti contrattuali (commissioni ecc.), corrisponde al T.I.R. che avremmo potuto calcolare. Da tenere presente che in questo calcolo iniziale non vanno considerati i costi di transazione. Tenuto conto del costo del denaro e del rischio di controparte, tuttavia, viene giudicato equo un tasso di interesse di mercato del 3,5%. A questo punto, per calcolare il valore del credito in sede di rilevazione dello stesso, è necessario procedere all’attualizzazione dei flussi finanziari utilizzando il tasso del 3,5%. Quindi

706.760,48 / (1+0,035)181/365 + 712.073,33 / (1+0,035)546/365

+ 696.560,96 / (1+0,035)2 =

= 694.805,87 + 676.356,38 + 650.247,11 = 2.021.409,36

All’importo così determinato dovranno essere aggiunti i costi di transazione di € 2.000, arrivando quindi ad un valore di rilevazione iniziale del credito di € 2.023.409,36. Conseguentemente, il tasso interno di rendimento risulterà dalla soluzione, rispetto alla variabile i dell’equazione

− 2.023.409,36 + 706.760,48 / (1+i)181/365 + 712.073,33 (1+i)546/365 + 696.560,96 (1+i)2

=

i risulterà pari al 3,4221634%. Il tasso del 3,4221634% dà un equivalente tasso semestrale del 1,696688%. Il corrispondente tasso convertibile annuo si determina moltiplicando il tasso semestrale per due, quindi è del 3,33933759%. Nella tabella seguente vengono riportati i valori del credito in corrispondenza di ciascuna rata e in corrispondenza delle date di chiusura degli esercizi.

data Ricavi di competenza Interessi incassati

Quote capitale incassate

Valore di iscrizione in bilancio

31/10/2016 . 2.023.409,36

31/12/2016 2.023.409,36 x 0,033933 x 61/365 = 11.475,00 0 0 2.023.409,36 + 11.475,00 = 2.034.884,36

30/04/2017 2.023.409,36 x 0,033933 x 120/365 = 22.573,77 15.427,15 691.333,33 2.034.884,36 + 22.573,77 - 15.427,15 -

- 691.333,33 = 1.350.697,65

31/12/2017 1.350.697,65 x 0,034222 x 245/365 = 31.026,45 0 0 1.350.697,65 + 31.026,45 = 1.381.724,10

30/04/2018 1.350.697,65 x 0,034222 x 120/365 = 15.196,63 20.740,00 691.333,33 1.381.724,10 + 15.196,63 – 20.740,00 –

- 691.333,33 = 684.847,40

31/10/2018 684.847,40 x 0,033933 x 184/365 = 11.715,,23 5.227,62 691.333,34 684.847,40 + 11.715,23 – 5.227,62 –

- 691.333,34 = 0,00

Dobbiamo, a questo punto, prendere in considerazione la differenza tra il valore nominale del credito, al momento della sua costituzione, pari ad € 2.074.000, e il valore dello stesso come risulta dalla attualizzazione, prima dell’aggiunta dei costi di transazione, pari ad € 2.021.409,36. La differenza, di € 52.590,64, dovrà essere ripartita tra la parte di credito costituita dal corrispettivo delle merci o dei servizi forniti, cioè l’imponibile della fattura, e la relativa Iva. La parte della differenza riferibile all’imponibile andrà a rettificare il ricavo, mentre la parte riferibile all’Iva costituirà un onere finanziario. Infatti, l’Iva a debito conseguente all’emissione della fattura dovrà essere versata integralmente nel mese successivo al compimento dell’operazione commerciale e, di conseguenza, la società creditrice sosterrà un onere proporzionale al tempo intercorrente tra il versamento dell’imposta e l’incasso dilazionato della stessa per rivalsa sul cliente. Facendo tale riparto della differenza, risulterà un importo di € 43.107,08 relativo all’imponibile e un importo di € 9.483,56 relativo all’Iva. L’OIC 15, relativo ai crediti, considera gli oneri finanziari relativi alla dilazione della rivalsa Iva come costo dell’esercizio nel quale vi è la rilevazione iniziale del credito attualizzato.

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Di seguito, vengono presentati i prospetti contenenti le scritture contabili e i prospetti di bilancio. Data Conto Dare Avere Note

31/10/2016

Crediti v/clienti 2.074.000,00

Registrazione fattura di vendita Ricavi di vendita 1.700.000,00

Iva a debito 374.000,00

31/10/2016

Ricavi di vendita 43.107,08 Rettifica ricavi per interessi impliciti e rilevazione oneri finanziari per I.V.A.

Crediti v/clienti 52.590,64

Oneri finanziari 9.483,56

31/10/2016 Crediti v/clienti 2.000,00 2.000,00

Rilevazione costi di transazione Debiti v/fornitori

31/12/2016 Crediti v/clienti 11.475,00 Rilevazione rateo proventi finanziari su

credito Altri proventi finanziari 11.475,00

Stato patrimoniale al 31/12/2016 Conto economico 2016

Attivo Passivo Costi Ricavi

C.II 1) Crediti v/clienti

2.034.884,36 €

C 17) Oneri finanziari

9.483,56 €

A I) Ricavi di vendita

1.656.892,92

C 16 d) Proventi finanziari

11.475,00 €

Data Conto Dare Avere Note

30/04/2017 Banca c/c 706.760,48

Registrazione incasso prima rata Crediti v/clienti 706.760,48

30/04/2017

Crediti v/clienti 22.573,77 Rilevazione interessi periodo

01/01/2017 - 30/04/2017 Altri proventi finanziari 22.573,77

31/12/2017 Crediti v/clienti 31.026,45

Rilevazione interessi maturati a fine 2017 Altri proventi finanziari 31.026,45

Stato patrimoniale al 31/12/2017 Conto economico 2017

Attivo Passivo Costi Ricavi

C.II 1) Crediti v/clienti

1.381.724,10 €

C 16 d) Proventi finanziari

53.600,22 €

Data Conto Dare Avere Note

30/04/2018 Banca c/c 712.073,33

Registrazione incasso seconda rata Crediti v/clienti 712.073,33

30/04/2018 Crediti v/clienti 15.196,63 Rilevazione interessi periodo

01/01/2018 - 30/04/2018 Altri proventi finanziari 15.196,63

31/10/2018 Crediti v/clienti 11.715,23

Rilevazione interessi maturati Altri proventi finanziari 11.715,23

31/10/2018 Banca c/c 696.560,96

Rilevazione incasso terza rata Crediti v/clienti 696.560,96

Stato patrimoniale al 31/12/2018 Conto economico 2018

Attivo Passivo Costi Ricavi

C.II 1) Crediti v/clienti 0,00

C 16 d) Proventi finanziari

26.911,86 €

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Da qui basta col bravissimo dott. Facchin: riprendo io, ripartendo dalla seconda parte della frase leggibile al n. 8 dell’art. 2426.

Quel dover “tenere conto del fattore temporale” impone ora (cioè dai bilanci presentati nel 2017) di valutare i debiti e i crediti oltre che in base all’importo (come si è sempre fatto) anche in funzione della scadenza (se non è a breve).

La logica è impeccabile (lo dico senza alcuna ironia): se, a parità di tutte le altre condizioni, un credito di 100 che scade domani vale oggi di più di uno di 100 infruttifero di interessi (cioè a tasso 0% ) che scade fra 10 anni (se non capisci perché

sei sgarbianamente capra, e per rientrare fra gli umani torna al n. 40. e poi anche al 37.), allora altrettanto dev’essere per i debiti. Infatti, se devo avere un debito di 500.000 €, meglio che abbia 10 anni di tempo per rimborsarlo piuttosto che dover trovare le risorse per farlo entro domani; il debito a breve pesa, a parità di altre condizioni, di più di quello a scadenza lontana, e quindi il secondo vale meno.

Da qui, allora, la necessità di attualizzare il valore di tutti i debiti che non siano a breve scadenza [perché se il debito scade entro 12 mesi i principi contabili, per ora, permettono di trascurare la differenza tra il valore nominale del debito e il suo valore attuale in considerazione del suo scarso peso (l’ultimo “suo” è riferito a “differenza”)].

Se la logica è senz’altro impeccabile, è sull’utilità della sua applicazione che c’è da discutere: valgono, anche qui, le stesse considerazioni già fatte per i crediti al punto 40. (la cui parte finale, per tua comodità, copio-incollo qui adattandola ai

debiti): personalmente, penso che il “vecchio” sistema di evidenziare i debiti (al loro valore nominale con l’aggiunta della data di

scadenza) sia migliore del nuovo (al loro “valore attuale” calcolato in base a un certo tasso) per almeno due ragioni: è più semplice (non

impone alcun calcolo e le registrazioni contabili sono semplici) e, motivo ben più importante, evita l’immissione di una ulteriore dose di soggettività nei valori di bilancio; poiché è il lettore del bilancio, per definizione, che vuole avere un’idea dei dati aziendali, non ha senso indicargli che il valore di quel debito secondo gli amministratori dell’azienda è 23.130 € [se era infruttifero di interessi e gli è stato applicato il tasso di attualizzazione del 5%: 100.000 x 1/(1,0530)] o 47.675 [se è stato applicati il tasso del

2,5%: [100.000 x 1/(1,02530)] o qualche altro valore in base a qualche altro tasso di attualizzazione; è molto più corretto e oggettivo dirgli che si tratta di un debito infruttifero di interessi di 100.000 € da saldare fra 30 anni, in modo che sia il lettore del bilancio a dare a quel debito, in base alle sue “preferenze temporali” (cioè in base al tasso d’interesse

con il quale lui stima il valore (negativo) odierno dei debiti) il valore attuale che ritiene ora equivalente a 100.000 € rimborsabili fra 30 anni.

Nella mia ottica dinosaurica, la valutazione in base al valore attuale dei debiti, in realtà, è comunque ben più accettabile di quella dei crediti, e ciò in quanto la dose di soggettività che viene inserita nei dati di bilancio è di gran lunga minore: nel caso dei debiti, infatti, la scelta del tasso d’interesse con cui attualizzare i flussi di cassa futuri è per gran parte sottratta alle elucubrazioni personali degli amministratori perché si è vincolati ad applicare il tasso di mercato (e, essendo il mercato finanziario un mercato “perfetto” i cui prezzi sono rilevati in borsa, siamo al livello “1” del fair value,

e se non capisci torna al n. 35.) rilevabile, al momento della valutazione, per i debiti di pari orizzonte temporale e verso soggetti a rischio zero. Diversamente da quanto capita nell’attualizzazione dei crediti, coi debiti non si deve valutare alcun rischio di insolvenza (rischio che peserebbe fortemente sul tasso, vedi parte finale del punto 37.) in quanto quei debiti da valutare sono i nostri (nel senso: sono quelli della società di cui stiamo valutando il bilancio), e l’obbligo che abbiamo di pagarli, al contrario della possibilità di incassare un credito, non può essere messo in dubbio.

Applicare, nel calcolo dell’attualizzazione dei flussi di cassa futuri che il debito provocherà, il tasso dei debitori a rischio zero, quindi un tasso minimo (perché formato dalla somma delle sole componenti “tasso “base” e “inflazione attesa”, e quindi il più basso

rilevato nel mercato), permette anche di rispettare il principio della prudenza: il valore del debito che sarà segnalato in bilancio sarà, infatti, il più alto possibile; applicare il tasso effettivo a cui quel debito è stato contratto porterebbe, invece, alla conseguenza che i bilanci dei soggetti più scalcagnati (sgarrupati, per gli anglofoni) non risentirebbero fin da subito del peso dei futuri pesanti interessi passivi che si sono impegnati a pagare. Tanto per dare un’idea: oggi, 31 ottobre 2017, un mutuo decennale di 100.000 € con preammortamento totale (cioè rimborsabile in un’unica soluzione fra 10 anni, quindi con 9 “rate capitale” annue uguali a zero e l’ultima di 100.000, così semplifico i calcoli) contratto al tasso fisso dell’8%, cioè un tasso praticato a soggetti non certo di serie “A” ma comunque ancora “bancabili”,

ha, ovviamente, un VAN di 100.000 € se applico il tasso (contrattuale) dell’8% [*], mentre, se applico il tasso (in

questo momento di mercato per i soggetti più solidi) dell’1% il suo valore attuale lievita a 166.300 [**]. [*] 8.000 / (1+0,08)1 + 8.000 / (1+0,08)2 + 8.000 / (1+0,08)3 + ... ... ... + 8.000 / (1+0,08)9 + 108.000 / (1+0,08)10 = 100.000

[**] 8.000 / (1+0,01)1 + 8.000 / (1+0,01)2 + 8.000 / (1+0,01)3 + ... ... ... + 8.000 / (1+0,01)9 + 108.000 / (1+0,01)10 = 166.300

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42. Depilandogli alla perfezione le ascelle, non si rende umano un gorilla.

Gli effetti dell’ossessiva ricerca della perfezione contabile, di cui il “costo ammortizzato” e il “criterio del valore attualizzato” sono tra le manifestazioni più eclatanti, sono negativi non tanto per le complicazioni che impongono (so bene che con i moderni software queste difficoltà si superano brillantemente), quanto perché ingenerano l’idea che il bilancio possa essere una fedele rappresentazione della realtà. Tornate all’impeccabile, e non c’è ironia, documento del dott. Facchin e soffermatevi sulle dieci cifre decimali del tasso interno di rendimento sapientemente calcolato nel 3,33933759%, cioè 0,0333933759. Difficile sfuggire al fascino di tale precisione: chi oserà mai dubitare che il 31 dicembre il valore di quel credito, attualizzato al tasso del 3,33933759%, non fosse proprio 1.381.724,10 € ? E invece, come sa bene chiunque abbia compreso le basi dell’economia, quel valore non è il reale, non può essere il reale perché la realtà dei valori economici, semplicemente, non può essere colta e rappresentata.

Tutti questi sforzi miranti all’esatta individuazione di un inesistente “vero” non sono quindi solo inutili, sono pericolosi, e lo sono per almeno due motivi:

a) contribuiscono a dare certezze là dove, invece, è bene che i dubbi prevalgano, ancor più se il grado di finanziarizzazione dell’economia è, come è ora e come ancor di più sarà in futuro, elevato; più aumenta il rapporto fra valore dei prodotti finanziari scambiabili sul mercato e valore dei beni reali esistenti (più il sistema

lavora con un leverage elevato) e più è necessario che gli operatori (cioè tutti, produttori e famiglie) siano consapevoli che i rischi del loro agire (del loro indebitarsi o del loro investire, ma non solo) se anche diventano meno evidenti, si fanno in realtà solo più sfuggenti, ma certamente non si attenuano, anzi;

b) contribuiscono alla deresponsabilizzazione degli operatori di un po’ tutti i livelli professionali, soprattutto di quelli del settore finanziario, ai quali si lascia sempre meno autonomia decisionale sostituendola con algoritmi calati dall’alto dei vertici amministrativi aziendali. Capisco la necessità e apprezzo anche gli effetti benefici della sostituzione del lavoro con il capitale (nella forma non più dei telai meccanici ma di software avanzatissimi), ma qui temo che, diversamente dalla lavorazione dei tessuti, la qualità del prodotto ne risenta negativamente.

I dotti aziendalisti (cattedratici e non) e i legislatori ignoranti (italiani e non), invece di questa folle, idiota e pure costosa ricerca della (inesistente) perfezione contabile, avrebbero fatto meglio a imporre alle aziende la semplice indicazione in bilancio della durata media dei debiti, magari già nello stato patrimoniale a fianco del totale “D” (“Debiti”, ma sarebbe utile anche per le voci “B” “Fondi rischi e spese” e “C” “Fondo T.F.R.”) del passivo e possibilmente arrotondata alla sola

prima cifra decimale (e punendo con 6 anni di galera chi ci mette più di due cifre decimali, in modo da causare laceranti tormenti al bravissimo dott. Faccin); esempio: “D Debiti: 5.432.100 (durata media 3,1 anni). Un dato facile da calcolare (qualche minuto di lavoro) e di elevata valenza informativa; un dato intelligente; un dato apprezzabile solo da dinosaurici imperfettisti.

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Capitolo E: La riclassificazione del bilancio.

43. L’analisi del bilancio. Nella forma in cui viene reso pubblico, forma che è imposta dal legislatore negli 8

articoli dal 2423 al 2425 del codice civile (ci sono alcuni bis e ter), il bilancio non è del tutto adatto a offrire informazioni che rispondano efficacemente a domande del tipo “quell’azienda riuscirà a pagare i suoi debiti?”, oppure “è efficiente la sua struttura produttiva?”, o anche “quanto è opportuno pagare per diventarne proprietario di una quota?” o altre analoghe curiosità che albergano nella mente dei curiosi incontrati al numero 25. Ecco allora che per agevolare la ricerca delle risposte a tali domande si procede con “l’analisi del bilancio”.

L’analisi di bilancio è l’attività che, attraverso l’elaborazione dei dati di bilancio e la loro comparazione nel tempo (il confronto fra i dati di anni diversi) e nello spazio (il confronto con i dati di altre aziende) porta a ottenere maggiori informazioni sulla impresa e sulla sua gestione (maggiori rispetto a quelle immediatamente ritraibili dalla semplice lettura del suo bilancio).

L’analisi di bilancio è soprattutto utile ai terzi (nel senso di soggetti esterni rispetto l’azienda), in quanto chi amministra l’azienda ha a disposizione moltissime altre informazioni (ricavate dalla contabilità analitica, dai budget e, in generale, dal controllo di gestione) e alcuni altri strumenti che complessivamente gli permettono un’analisi aziendale ben più efficace della elaborazione dei dati evidenziati dal bilancio reso pubblico.

Diversamente dai soggetti interni, i terzi [(cioè tutti i soggetti visti alle lettere da a) a i) del punto 25. (a eccezione di b), ché allo stato non gliene frega

niente di come sta l’azienda, essendo il suo unico obiettivo spennarla il più possibile)] per formulare un giudizio sulla “salute” dell’azienda spesso non hanno altri dati da utilizzare se non quelli resi pubblici con il deposito del bilancio d’esercizio. E così, avendo poche informazioni disponibili, è necessario cercare di usarle in modo efficace, e per far questo si incomincia con la riclassificazione del bilancio (che vedremo dal prossimo punto 44. al 71.) per poi approdare alla determinazione degli indici di bilancio (che, invece, vedrete sul libro alle pagine da 108 a 137).

44. La riclassificazione del bilancio. Ho già scritto che per meglio analizzare un bilancio è opportuno rielaborarne le voci, sia dello stato patrimoniale che del conto economico, in modo da poterne più agevolmente trarre valide informazioni utili anche per fare confronti spaziali e temporali.

Gli scopi della riclassificazione del bilancio d’esercizio sono quindi principalmente tre:

i.Ricercare alcuni valori espressivi della gestione che non appaiono tra i dati del conto economico ufficiale (come, ad esempio, il valore aggiunto o il reddito operativo) e altri valori indicativi della situazione patrimoniale non evidenti nello stato patrimoniale ufficiale (come, ad esempio, il capitale circolante sia lordo che netto).

ii.Rendere omogenei i dati per consentire il loro confronto nel tempo e nello spazio, e quindi permettere, rispettivamente, l’individuazione dei trend(s) di medio periodo e il confronto con altre aziende.

iii.Separare gli elementi attinenti la gestione caratteristica e ordinaria dell’impresa da quelli che si riferiscono alle gestioni atipica e straordinaria.

i., ii., e iii. vi potranno essere chiari solo dopo aver terminato questo capitolo.

45. La riclassificazione dello Stato Patrimoniale. Qui sotto trovi un esempio, assolutamente scolastico, di stato patrimoniale riclassificato in cui appaiono le voci più sintetiche possibili. Nelle successive due pagine ho riportato lo schema di stato patrimoniale imposto dal legislatore (in caso di bilancio ordinario).

STATO PATRIMONIALE RICLASSIFICATO (ULTRASINTETICO) IMMOBILIZZAZIONI 1.500.000 CAPITALE PROPRIO 2.000.000

CAPITALE CIRCOLANTE 3.500.000 DEBITI A MEDIO/LUNGO TERMINE 500.000

DEBITI A BREVE TERMINE 2.500.000

TOTALE IMPIEGHI 5.000.000 TOTALE FONTI 5.000.000

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Articolo 2424 Contenuto dello stato patrimoniale. In vigore dal 01/01/2016 Lo stato patrimoniale deve essere redatto in conformità al seguente schema.

Attivo:

A) Crediti verso soci per versamenti ancora dovuti, con separata indicazione della parte già richiamata.

B) Immobilizzazioni, con separata indicazione di quelle concesse in locazione finanziaria:

I - Immobilizzazioni immateriali:

1) costi di impianto e di ampliamento; 2) costi di sviluppo; 3) diritti di brevetto industriale e diritti di utilizzazione delle opere dell'ingegno; 4) concessioni, licenze, marchi e diritti simili; 5) avviamento; 6) immobilizzazioni in corso e acconti; 7) altre. Totale.

II - Immobilizzazioni materiali: 1) terreni e fabbricati; 2) impianti e macchinario; 3) attrezzature industriali e commerciali; 4) altri beni; 5) immobilizzazioni in corso e acconti. Totale.

III - Immobilizzazioni finanziarie, con separata indicazione, per ciascuna voce dei crediti, degli importi esigibili entro l'esercizio successivo:

1) partecipazioni in: a) imprese controllate; b) imprese collegate; c) imprese controllanti; d) imprese sottoposte al controllo delle controllanti; d-bis) altre imprese;

2) crediti: a) verso imprese controllate; b) verso imprese collegate; c) verso controllanti; d) verso imprese sottoposte al controllo delle controllanti; d-bis) verso altri;

3) altri titoli; 4) strumenti finanziari derivati attivi;

Totale.

Totale immobilizzazioni (B); C) Attivo circolante:

I - Rimanenze: 1) materie prime, sussidiarie e di consumo; 2) prodotti in corso di lavorazione e semilavorati; 3) lavori in corso su ordinazione; 4) prodotti finiti e merci; 5) acconti. Totale

II - Crediti, con separata indicazione, per ciascuna voce, degli importi esigibili oltre l'esercizio successivo:

1) verso clienti; 2) verso imprese controllate; 3) verso imprese collegate; 4) verso controllanti;

5) verso imprese sottoposte al controllo delle controllanti; 5-bis) crediti tributari; 5-ter) imposte anticipate; 5-quater) verso altri;

Totale. III - Attivita' finanziarie che non costituiscono immobilizzazioni: 1) partecipazioni in imprese controllate; 2) partecipazioni in imprese collegate; 3) partecipazioni in imprese controllanti;

3-bis) partecipazioni in imprese sottoposte al controllo delle controllanti; 4) altre partecipazioni; 5) strumenti finanziari derivati attivi; 6) altri titoli. Totale.

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IV - Disponibilita' liquide: 1) depositi bancari e postali; 2) assegni; 3) danaro e valori in cassa. Totale.

Totale attivo circolante (C).

D) Ratei e risconti.

Passivo: A) Patrimonio netto: I - Capitale. II - Riserva da soprapprezzo delle azioni. III - Riserve di rivalutazione. IV - Riserva legale. V - Riserve statutarie

VI - Altre riserve, distintamente indicate. VII - Riserva per operazioni di copertura dei flussi finanziari attesi. VIII - Utili (perdite) portati a nuovo. IX - Utile (perdita) dell'esercizio. X - Riserva negativa per azioni proprie in portafoglio.

Totale.

B) Fondi per rischi e oneri: 1) per trattamento di quiescenza e obblighi simili;

2) per imposte, anche differite; 3) strumenti finanziari derivati passivi; 4) altri.

Totale.

C) Trattamento di fine rapporto di lavoro subordinato.

D) Debiti, con separata indicazione, per ciascuna voce, degli importi esigibili oltre l'esercizio successivo: 1) obbligazioni; 2) obbligazioni convertibili; 3) debiti verso soci per finanziamenti; 4) debiti verso banche; 5) debiti verso altri finanziatori; 6) acconti; 7) debiti verso fornitori; 8) debiti rappresentati da titoli di credito; 9) debiti verso imprese controllate; 10) debiti verso imprese collegate; 11) debiti verso controllanti;

11-bis) debiti verso imprese sottoposte al controllo delle controllanti; 12) debiti tributari; 13) debiti verso istituti di previdenza e di sicurezza sociale; 14) altri debiti.

Totale.

E) Ratei e risconti

Se un elemento dell'attivo o del passivo ricade sotto più voci dello schema, nella nota integrativa deve annotarsi, qualora ciò sia

necessario ai fini della comprensione del bilancio, la sua appartenenza anche a voci diverse da quella nella quale è iscritto.

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La riclassificazione dello stato patrimoniale consiste nel riorganizzare le poste, cioè le voci, dell’attivo e delle fonti secondo criteri di liquidità e di esigibilità (= estinguibilità). Questo significa non solo che si distinguono i crediti e i debiti in base alle loro scadenze [quelli con scadenza a breve vengono separati da quelli con scadenza più

lontana nel tempo], ma in realtà è tutto l’attivo che viene ordinato in base al tempo che deve presumibilmente passare prima che si trasformi in denaro (criterio di liquidità), e sono tutte le fonti di finanziamento che vengono ordinate in base al momento in cui provocheranno una uscita di denaro (criterio di esigibilità).

46. La riclassificazione dell’attivo patrimoniale. Seguendo il criterio della liquidità, nell’attivo

appaiono per prime le immobilizzazioni , poi le rimanenze (scorte), poi i crediti (a breve) verso i clienti e gli altri crediti a breve e, per ultime, le attività liquide (cassa, c/c bancari ed eventuali investimenti di rapido e sicuro smobilizzo come i titoli di stato).

Rimanenze, crediti commerciali e liquidità formano il “capitale circolante” o “attivo corrente” o “attivo a breve” (sono sinonimi).

47. Le immobilizzazioni (come i macchinari, i brevetti, le partecipazioni in altre aziende ecc.) sono beni non destinati alla vendita e la cui utilità si protrae per molto tempo; le immobilizzazioni sono quindi ben lontane dal trasformarsi direttamente in liquidità: la loro capacità di generare entrate monetarie è solo indiretta, in quanto il loro valore si trasferisce gradualmente nei beni che contribuiscono a produrre nel corso degli anni, beni la cui vendita genererà, quando finalmente se ne otterrà l’incasso dal cliente, l’introito monetario.

[Un’immobilizzazione, ad esempio l’auto di un taxista, si trasforma (indirettamente) in denaro in un lasso di tempo pari approssimativamente al suo periodo di

ammortamento, ad esempio 6 anni. Un analista fanatico e ossessionato dal concetto di duration che volesse inserire l’auto nel corretto ordine di liquidità dovrebbe

considerare quella immobilizzazione allo stesso livello dei crediti che hanno scadenza pari a circa la metà del suo periodo di ammortamento (nell’esempio 6 ÷ 2 = 3 anni)].

Le immobilizzazioni in genere le si suddivide, in base alla loro natura, fra:

i. Immobilizzazioni materiali, cioè tangibili (= palpabili, come impianti, attrezzature, arredi, automezzi ecc.);

ii. Immobilizzazioni immateriali, cioè non tangibili, come brevetti, marchi, avviamento;

iii. Immobilizzazioni finanziarie, cioè gli investimenti nella proprietà – intera o per quota – di altre aziende che si intende conservare a lungo (e questi investimenti prendono il nome di “partecipazioni”), nonché i crediti di finanziamento (ad es. obbligazioni) e quelli di fornitura, cioè verso clienti (detti anche crediti commerciali; questi

crediti, comunque, in genere rientrano nel capitale circolante avendo raramente scadenza superiore all’anno) con scadenza superiore a 12 mesi.

48. Le rimanenze (di materie prime, di componenti, di merci e di prodotti finiti) si trasformano in denaro in un arco temporale più breve rispetto alle immobilizzazioni: normalmente anche le rimanenze meno liquide, e cioè quelle di materie prime (come il cacao per la Ferrero) si trasformano in moneta entro i 12 mesi (e quindi rientrano nel “capitale

circolante”) in quanto in genere la somma dei tempi della loro trasformazione in prodotto finito, di consegna del prodotto al cliente e di incasso del credito resta inferiore all’anno. Ovviamente, ancor più brevi sono i tempi di trasformazione in moneta delle rimanenze di prodotti finiti (come, sempre per la Ferraro, i vasetti di Nutella e i Kinder Delice già

confezionati) e delle merci (come il vasetto di Nutella e i Kinder Delice, ma questa volta non più per la Ferrero ma per l’Esselunga) in quanto in entrambi i casi manca il tempo della trasformazione fisica.

49. I crediti a breve (a volte definiti anche “liquidità differite” – secondo me stupidamente, ché anche tutto il

resto dell’attivo patrimoniale può essere inteso come “liquidità differita”: differita di poco o di molto ma pur sempre differita –) si considerano tali (cioè a breve termine) se scadono entro 12 mesi. Come già detto, i crediti commerciali (i crediti verso clienti)

sono, salvo casi particolari, a breve termine, dal momento che i più usuali modi di pagamento prevedono tempi compresi fra i 30 e i 180 giorni (la scadenza media, in Italia, è di circa 80 giorni;la media U.E. è circa 50, in Germania di circa 30); si considerano crediti commerciali anche i – non frequenti – crediti verso fornitori per anticipi. Oltre a quelli commerciali possono a volte essere presenti altri crediti a breve, come i crediti fiscali (ad esempio verso lo stato per IVA), crediti verso soci per apporti non ancora effettuati e altri di minore importanza.

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50. La liquidità (o “liquidità immediata”, se si è così sciocchi da chiamare “liquidità differite” i crediti a breve) è costituita dai saldi attivi sui conti correnti bancari, dal contante in cassa, nonché da tutti i titoli di credito (libretti di deposito,

assegni ecc.) con scadenza a vista e, infine, dalle obbligazioni di semplice smobilizzo, cioè la cui eventuale vendita dà origine a un incasso rapido e certo come importo (in pratica si tratta di titoli di stato, di altre obbligazioni quotate in borsa e poco altro).

Lo schema imposto dal legislatore suddivide l’attivo patrimoniale non nelle sole due macro-voci “immobilizzazioni” e “capitale circolante” bensì in quattro (“A”, “B”, “C” e “D”): oltre alle “Immobilizzazioni” (voce “B”) e all’ “Attivo circolante” (voce “C”) si possono infatti leggere altre due voci: “Crediti verso soci” (voce

“A”) e “Ratei e risconti” (voce “D”).

Nei crediti verso soci formanti la voce “A” ci sono (come già anticipato nel precedente punto 49.) gli eventuali impegni dei soci nei confronti della società ad effettuare degli apporti; questa voce, la cui presenza non è quindi frequente, è quasi sempre inquadrabile fra i crediti a breve termine e quindi nel capitale circolante, in quanto è anomalo (e preoccupante) che gli amministratori concedano ai soci oltre 12mesi di tempo per eseguire il finanziamento che hanno promesso.

I ratei e risconti attivi, come certamente ricorderai, sono crediti che hanno la particolarità di crescere gradualmente nel tempo per poi morire brutalmente (questi sono i ratei attivi) o di nascere già adulti come Venere e Minerva per poi declinare pian piano e scomparire dopo un’agonia lunga l’intera loro vita (e questi sono

i risconti attivi). Quasi sempre anche questi crediti particolari hanno vita breve, inferiore ai 12 mesi, in quanto

collegati a operazioni (come - esempio di rateo attivo - il diritto di riscuotere posticipatamente degli interessi o come - esempio di risconto attivo - l’aver pagato

in anticipo dei premi assicurativi) il cui orizzonte temporale non supera l’anno e pertanto il più delle volte li si considera tutti nel capitale circolante; l’esempio più frequente di risconto attivo inquadrabile non nel capitale circolante bensì fra le immobilizzazioni finanziarie è il risconto originato dal primo (maxi) canone pagato alla stipula di un contratto di leasing pluriennale, e lo abbiamo incontrato al numero 33. (nell’ultima parte del testo riquadrato).

51. Le più frequenti “correzioni” dell’attivo.

Poiché lo scopo dell’analisi del bilancio di un’azienda è ottenere maggiori e più utili informazioni rispetto a quelle che si possono trarre dalla lettura dei documenti “ufficiali” (nel senso di resi pubblici, fatti conoscere ai terzi), è opportuno, in sede di riclassificazione dell’attivo patrimoniale, controllare almeno tre cose: a) la “qualità” delle eventuali immobilizzazioni immateriali; b) la presenza di evidenti sottovalutazioni delle immobilizzazioni e/o sopravalutazioni di fondi spese o rischi; c) la variazione del valore delle scorte da un anno all’altro.

a) la presenza fra le immobilizzazioni immateriali della voce B.I.1 “Costi di impianto e ampliamento”, formata più frequentemente dalle componenti “Costi di pubblicità” e “Costi di ricerca e sviluppo” deve allarmare, soprattutto quando appaiono in un bilancio non brillante (nel senso che il reddito è deludente rispetto ai ricavi e/o il capitale netto è scarso in

rapporto all’attivo); ciò in quanto si tratta di spese che, essendo state inserite nell’attivo patrimoniale e non tra i costi del conto economico, è previsto che produrranno utilità negli anni successivi (allo stesso modo di un trattore acquistato da

un’azienda agricola). Ma mentre il contadino ha tutte le ragioni per ritenere ragionevole che il trattore comprato quest’anno gli servirà per almeno i prossimi dieci, la “ragionevole certezza” che questi investimenti immateriali saranno utili per vari anni è più difficile da giustificare. Affinché la spesa per una campagna pubblicitaria possa legittimamente essere inserita fra le immobilizzazioni è, infatti, non solo necessario che riguardi il lancio di un prodotto nuovo (e non sia, quindi, una pubblicità “di sostegno” di un prodotto commercializzato già da tempo dall’azienda, perché in questo caso si tratterebbe

evidentemente di un costo d’esercizio, come la benzina per il taxista), ma anche che si sia ragionevolmente certi che quel prodotto avrà successo nel mercato (magari in virtù di esaltanti dati iniziali di vendita).

La stessa cosa vale per le spese di ricerca e sviluppo di nuovi prodotti: il loro inserimento nell’attivo patrimoniale invece che fra i costi del conto economico (come dire: il considerarli un

investimento e non il consumo di un input) è giustificato solo se ci sono fondati motivi per ritenere che l’impegno profuso per la ricerca, la progettazione e la realizzazione del prototipo siano andati a buon fine, abbiano cioè permesso di ottenere un prodotto innovativo che sarà accolto entusiasticamente dal mercato. Ed è evidente quanto sia difficile giungere sensatamente a una tale convinzione (ricorrere alle divinazioni del Mago Otelma a volte sarebbe più serio).

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b) Una seconda correzione che può essere necessario fare ai bilanci “ufficiali”, ma questa volta in senso migliorativo, consiste nel fare emergere e quindi evidenziare le eventuali “riserve occulte” (su cui torneremo tra breve al

punto 54.). Qui, ora, mi limito a fare due esempi, il primo di sottovalutazione dell’attivo, l’altro di sopravalutazione del passivo: 1°: se alcuni decenni fa la nostra società acquistò a Montecarlo un immobile commerciale di 100 m2 con ampie vetrine sul Boulevard des Moulins il cui costo nel corso degli anni è stato completamente ammortizzato e mai adeguato al valore realistico, oggi verosimilmente intorno ai 4 milioni di euro, allora nell’attivo patrimoniale indicato in bilancio mancano 4 milioni, il che implica che anche il capitale netto, per offrire un’informazione più aderente alla realtà, dovrebbe essere di 4 milioni superiore. Ecco allora che, accanto alle varie “Riserve” ufficiali del bilancio reso pubblico (che troverete elencate al punto 53.), l’analista deve inserirne un’altra (“occulta”, che significa nascosta) per poter svolgere un’analisi più corretta.

2°: se ogni anno e per vari decenni la nostra società ha accantonato al “Fondo rischi per garanzia prodotti” (di

“Fondi Rischi” si parlerà al punto 64.) importi assai più elevati dei costi poi in seguito effettivamente sostenuti per assolvere agli impegni presi coi clienti (l’impegno assunto all’atto della vendita con la garanzia è un debito il cui valore è pari alla sommatoria dei costi che si

sosterranno in futuro per la rimozione, gratis, dei “difetti di fabbrica” che verranno riscontrati nel periodo coperto da garanzia; è quindi un debito di importo incerto e verso soggetti non

ancora identificati (non sappiamo chi tra i nostri clienti lamenterà un problema di funzionamento), l’importo che si è accumulato negli anni in questa posta di bilancio rappresenta prevalentemente capitale netto e non capitale di terzi (dove i terzi, in questo caso, sono i nostri

clienti che ci hanno già pagato, con il prezzo, anche i servizi di riparazione in garanzia che dovremo svolgere “gratuitamente” in futuro) ; anche in questo caso saremo in presenza, quindi, di una “Riserva occulta” del bilancio ufficiale che occorre rendere evidente nel bilancio riclassificato per poi procedere alla sua analisi. c) Soprattutto in presenza di un bilancio ufficiale deludente va senz’altro prestata attenzione all’andamento delle rimanenze (sia di prodotti, sia di componenti e materie prime): un loro aumento, specie se consistente, deve fare suonare l’allarme in quanto è il modo forse più frequente di edulcorare (= addolcire, migliorare) la situazione aziendale. Tra l’altro, anche un incremento effettivo, reale, del valore delle rimanenze in presenza, però, di un volume di produzione non altrettanto in aumento, sarebbe comunque un indizio di una gestione poco efficiente del magazzino.

52. La riclassificazione delle fonti.

Le fonti di finanziamento, come già detto, si evidenziano in ordine crescente di esigibilità e pertanto la prima fonte ad apparire è il patrimonio netto (che ha esigibilità nulla, non esistendo alcun obbligo di rimborsarlo) e poi seguono i debiti, prima quelli a più lontana scadenza per poi chiudere con quelli a breve o a vista (cioè già esigibili da parte del creditore).

53. Il Patrimonio netto (Voce A) dell’art. 2424 c.c., la fonte interna di finanziamento, anche detta capitale proprio)

Il valore che il capitale proprio ha a una certa data si è formato nel tempo (a partire dalla nascita della società e fino a quella data)

grazie agli apporti dei soci (al netto di eventuali prelievi) e dagli utili prodotti e non distribuiti.

Formalmente, il capitale proprio è suddiviso in capitale sociale, riserve e reddito dell’esercizio (cioè l’utile, se il reddito

è positivo, o la perdita se il reddito del periodo di cui si sta facendo il bilancio è negativo). La distinzione in queste sub voci risponde unicamente a esigenze giuridico-formali, e infatti avvocati e magistrati la ritengono importantissima; nella sostanza, però, il capitale proprio, non potendo che essere definito come la differenza fra l’attivo e i debiti (siano,

quest’ultimi, espliciti o mascherati da “fondi”), è un valore assolutamente omogeneo. Ecco perché chi capisce la ragioneria (e

quindi quasi mai gli avvocati e i magistrati, per natura e per studi spesso impossibilitati a comprenderla) non bada molto, salvo casi particolarissimi, alla distinzione fra capitale sociale e riserve (e ancor meno fra vari tipi di riserva).

L’unica distinzione sensata e necessaria è quella fra la parte dell’utile ottenuto nel periodo e che si sa già essere destinata a essere distribuita ai soci e la parte che, invece, l’assemblea ha deciso debba rimanere a finanziare la società: la parte da distribuire, infatti, perde la natura di capitale netto e assume quella di debito (verso i soci, e di

debito a breve, visto che generalmente i “dividendi” sono pagati ai soci nella prima parte dell’anno successivo a quello in cui l’utile è stato ottenuto).

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Poiché, però, la suddivisione del patrimonio netto in parti “ideali” (nel senso di non concrete) eccita tanto coloro che preparano le prove scritte di maturità, è opportuno dedicarvi un paio di pagine, non prima, però, che confessi la colpa (grave, agli occhi di non pochi colleghi di materia) che ho sulla coscienza fin dai tempi delle prime lezioni di ragioneria, colpa costituita dall’aver sempre chiamato il capitale netto esistente all’inizio del periodo di cui si fa il bilancio “capitale netto INIZIALE” e il capitale netto alla fine del periodo “capitale netto FINALE”. Ebbene, sappiate ora che a scuola il capitale netto iniziale si deve chiamare “capitale proprio” (o, anche, “capitale netto”), mentre il capitale netto finale deve essere definito “patrimonio netto”. E non chiedetemene la ragione, ché non la so.

Alleggeritomi la coscienza, possiamo ora analizzare le parti “ideali” che, formalmente, costituiscono il patrimonio netto.

Le parti ideali in cui formalmente si suddivide il patrimonio netto sono (nell’ordine indicato dall’art. 2424 del codice civile.):

I Capitale sociale; II Riserva da sovrapprezzo azioni; III Riserve di rivalutazione; IV Riserva legale; V Riserve statutarie; VI Riserva per azioni proprie in portafoglio; VII Altre riserve; VIII Utili (perdite) portati a nuovo; IX Utile (perdita) d’esercizio.

Prima, però, di trattare le singole parti ideali del netto previste dal codice civile ritengo prudente tornare sull’importante concetto di “riserva” e, in particolare, della distinzione fra riserve evidenziate nel bilancio ufficiale e riserve “occulte” appena affrontato al punto b) del numero 51..

54. Riserve palesi e riserve occulte Apparendo le voci da I a IX nel bilancio pubblico, e quindi essendo evidenti, la loro somma dà il patrimonio netto ufficiale della società, quello che si dichiara ai terzi; ma poiché, come visto al punto 28., il bilancio deve rispettare il principio della prudenza, capita non di rado (a meno che si adottino i principi IAS) che alcune voci dell’attivo patrimoniale, in particolare le immobilizzazioni, siano evidenziate con un valore eccessivamente basso e non realistico (un esempio diverso da quello dell’immobile a Montecarlo già visto alla lettera b del n. 51: supponiamo

che alla Ferrari S.p.A. il marchio con l’immagine del cavallino rampante sia costato solo 1.000 €, l’importo pagato per registrarlo (in

quanto il marchio fu regalato a Enzo Ferrari dalla madre di Francesco Baracca, un famoso aviatore della prima guerra mondiale); poiché oggi dalla vendita di quel marchio, cioè dalla vendita del diritto di utilizzarlo, la Ferrari SpA otterrebbe certamente molto più di un miliardo, ne risulta che

l’attivo patrimoniale evidenziato nel suo bilancio ufficiale è sottostimato di almeno un miliardo) e quindi anche il patrimonio netto che appare è inferiore a quello più realistico. La differenza fra l’importo del patrimonio netto evidenziato nel bilancio reso pubblico e il patrimonio netto “realistico” (nel senso di quello che si otterrebbe dando una

valutazione più vicina alla realtà alle voci patrimoniali sottovalutate) dà origine a una “riserva occulta”, cioè nascosta, che nel bilancio ufficiale non appare ma di cui occorre tenere conto quando lo si analizza.

55. Una possibile suddivisione del patrimonio netto. Sottolineata ancora (dopo quanto già detto al punto b) della precedente

pagina) la possibile esistenza, a fianco delle riserve palesi, di “riserve occulte” derivanti da sottovalutazioni dell’attivo o da sopravalutazioni del passivo (e il più delle volte le passività sopravvalutate sono i fondi rischi e spese, voci di cui parleremo tra

non molto, al numero 64.), vediamo ora una classificazione delle nove possibili voci “ufficiali” costituenti il capitale

proprio, raggruppandole in tre categorie in base al modo in cui si sono originate.

Se ricordate, vi ho sempre detto che il capitale netto può aumentare solo in due modi: grazie agli utili prodotti (e non distribuiti) dall’azienda, oppure grazie agli apporti (al netto dei prelievi) effettuati dai soci (o dal titolare se è

un’azienda individuale). Ebbene, delle nove “parti ideali” in cui il legislatore impone di suddividere il patrimonio netto delle società di capitali, due derivano da apporti (e sono il capitale sociale e la riserva sovrapprezzo azioni), sei da utili evidenziati nei bilanci e non distribuiti e una (le riserve di rivalutazione) da utili non evidenziati nei bilanci.

56. Capitale sociale e riserva sovrapprezzo azioni (voci I e II). Cominciamo dalle due voci originate da apporti. Dovreste già sapere che l’importo del capitale sociale è dato dal prodotto tra il numero di azioni (o

di quote, se si tratta di una s.r.l.) in cui è suddivisa la proprietà dell’intera società e il loro valore nominale unitario. Vediamo un esempio.

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Due soci, A e B, al momento della costituzione della società “S” decidono di dotarla di un capitale sociale di 750.000 € [e quindi si impegnano a versare complessivamente alla società 750.000 € (supponiamo 500.000 € A, e 250.000 € B) non appena l’organo

amministrativo (il consiglio di amministrazione o l’amministratore unico, nominati dai soci stessi una prima volta al momento della costituzione e in seguito in sede di assemblea) lo

chiederà]: i soci fondatori possono stabilire che la proprietà della società sia suddivisa fra un qualsiasi numero di azioni (o di quote, se srl), ad esempio 750.000 azioni da 1,00 € di valore nominale (e, proseguendo nell’esempio, in questo caso il

socio A sarebbe titolare di 500.000 azioni e il socio B si 250.000) o 750 azioni da 1.000,00 € di valore nominale (e in questo caso ad A

andrebbero 500 azioni e a B 250); l’effetto non cambia: il capitale sociale è comunque pari a 750.000 €, pari al credito che la società ha verso i soci sottoscrittori, credito che resterà tale fino a quando i soci eseguiranno il “versamento di capitale” alla società da loro promesso (e credito che, in bilancio, trova posto alla lettera A dell’attivo patrimoniale).

Sono passati alcuni anni, la società “S” è cresciuta rapidamente e così, anche grazie agli abbondanti utili non distribuiti fra i soci, il patrimonio netto contabile è ora pari a 5.000.000 di €; i due soci hanno da poco ricevuto da una grande azienda del settore (che ritiene esistano notevoli sinergie fra le due aziende, e che magari è anche preoccupata per la rapida crescita

di un concorrente così agguerrito) un’offerta di 15 milioni di € per la totalità delle azioni: si può così dire (anche se forzando un

po’) che il valore di mercato di “S” è 15.000.000. Pur allettati dall’offerta, A e B decidono di non vendere ma, anzi, di rafforzare ulteriormente la società attraverso un apporto di 1.500.000 €. Non volendo però investire altri capitali personali nella società, A e B propongono al comune amico C di divenire loro socio investendo 1,5 milioni della cospicua eredità che egli ha appena ricevuto da un prozio americano tempestivamente deceduto.

In cambio dell’apporto di 1.500.000 € in contanti, C riceverà delle azioni di “S”, ma attenzione: non sono le azioni “vecchie” sottoscritte anni prima dai soci fondatori A e B, sono azioni nuove (sebbene indistinguibili dalle vecchie) che “S”

emette proprio per ricevere altro capitale di rischio. A e B, cioè, non vendono a C una parte delle loro azioni: A

resta proprietario di 500 azioni e B di 250 azioni, ognuna del medesimo valore nominale di 1.000 € (e dal presumibile

valore di mercato di 20.000 €, i 15.000.000 di valore complessivo della società suddiviso fra le 750 “vecchie” azioni).

E’ la società “S” che offre a C di sottoscrivere delle altre azioni, sempre da 1.000 € di valore nominale.

Quante azioni “nuove” vorrà ottenere C in cambio del suo bel bonifico di un milione e mezzo che farà a “S”? Chiederne 1.500 (1.500.000 ÷ 1.000 di valore nominale unitario) sarebbe ridicolo: con 1.500 azioni in mano, il socio C, sborsando solo 1.500.000 €, avrebbe i due terzi dell’intera proprietà della società [il cui capitale sociale sarebbe infatti

ora suddiviso in 2.250 azioni: le 750 vecchie più le 1.500 nuove, e 1.500 ÷ 2.250 = 66,67%, cioè 2/3 ], e quindi avrebbe ricevuto 11.000.000 di valore [2/3 dei 16,5 milioni del nuovo valore di mercato della società C, valore che dai 15 milioni di prima è ora aumentato di 1,5

milioni per effetto del denaro fresco ricevuto ]. E’ ovvio che C dovrà e potrà accontentarsi di ricevere un numero di azioni nettamente inferiore, in quanto ognuna avrà un valore di mercato molto superiore al valore nominale di 1.000 €.

Infatti, come leggibile dai calcoli qui sotto, il numero corretto di nuove azioni da dare al nuovo socio è 75 .

( 15.000.000 + 1.500.000 ) / ( 750 + 75 ) = 16.500.000 ÷ 825 = 20.000 € Valore società prima + incremento del valore per n. vecchie + n. nuove valore società dopo ÷ n. tot. = valore unitario dell’aumento di capitale effetto del nuovo apporto azioni azioni l’aumento di capitale azioni (immutato)

La cosa può essere vista anche in questo modo: il numero di azioni in cui è suddivisa l’intera proprietà della società “S” è, dopo l’operazione di aumento di capitale, 825 (750 + 75); il nuovo valore della società, per effetto dell’apporto da parte del nuovo socio, è, come abbiamo già visto, 16.500.000 (i 15 milioni di prima più il milione e mezzo arrivato

di fresco e in contanti), quindi il valore di mercato di ogni azione (vecchia o nuova che sia non ha importanza: sono tutte uguali) è ancora 20.000 € (16.500.000 ÷ 825 = 20.000) €, per cui C ha ricevuto un valore, in azioni, di 1.500.000 €: lo scambio è equo.

Che lo scambio sia equo lo si può verificare anche considerando che i vecchi soci non ci guadagnano né ci rimettono: il valore del loro investimento nella società è rimasto uguale a quello di appena prima l’aumento di capitale (10.000.000 € quello di A (500 azioni x 20.000) e 5.000.000 quello di B (250 azioni x 20.000).

Ciò che è cambiata è la quota (la percentuale) della società di cui sono proprietari: prima A aveva il 66,67% (500/750)

e B il rimanente 33,33% (250/750); ora, dopo l’aumento e la relativa emissione di 75 nuove azioni, A ha il 60,606% (500/825), B il 30,303% (250/825), mentre C ha il rimanente 9,0909% (75/825). A e B hanno ora una quota inferiore di una società il cui valore totale (il valore del 100% delle azioni) è però aumentato per effetto dell’apporto di 1,5 milioni fatto da C, e l’aumento del valore complessivo della società compensa la diminuzione della % di possesso. Last but not least, la società ha ora 1,5 milioni di euro liquidi da investire per espandersi.

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Ricevere 75 azioni del valore nominale di 1.000 € pagando 1.500.000 € significa pagare ogni azione 20.000, e quindi 19.000 € più del valore nominale. Visto dalla parte della società, tale importo (19.000 €) è il “sovrapprezzo”, e il sovrapprezzo complessivo (19.000 x 75 = 1.475.000 €) va a formare la voce “Riserva sovrapprezzo azioni” numerata romanamente II dall’articolo 2424 del c.c., mentre la voce I “Capitale sociale”, per effetto dell’operazione di “aumento di capitale” aumenta, nell’esempio appena proposto, di soli 75.000 € (1.000 € di valore

nominale unitario x 75 nuove azioni).

Quasi sempre l’importo del sovrapprezzo richiesto è però minore, anche sensibilmente, del sovrapprezzo “teorico” (nel caso

descritto potrebbe essere, ad esempio, di 10.000 € anziché di 19.000), e non di rado il sovrapprezzo non è previsto; certamente c’è un limite massimo al sovrapprezzo, ed è dato dalla differenza fra valore di mercato e valore nominale dell’azione (perché altrimenti nessuno

sarebbe disposto a sottoscrivere le azioni nuove in quanto sarebbe più conveniente comprarne delle “vecchie” da un azionista), ma non c’è alcun limite minimo, potendo il sovrapprezzo essere anche nullo. Se anche non si prevede il sovrapprezzo (e quindi, sempre nel caso della società “S”, se le nuove azioni vengono a costare solo 1.000 €) i vecchi azionisti hanno il modo di non rimetterci, in quanto a loro (meglio: alle loro azioni “vecchie”) spetta il “diritto d’opzione”, cioè il diritto di precedenza nella sottoscrizione delle azioni nuove; e se l’azionista “vecchio” non vuole esercitare questo diritto (perché non vuole apportare altri capitali nella società) lo può vendere (vendere cioè il diritto di sottoscrivere le azioni nuove) a chi è invece interessato a investire i propri risparmi in quella società. Come si è visto prima nel caso dei due soci A e B, l’unico effetto negativo per il “vecchio” azionista che non sottoscrive le azioni nuove (cioè che “non esercita il diritto d’opzione”) è che si ritrova con lo stesso numero di azioni che aveva prima e quindi con una quota di proprietà più piccola (poiché è aumentato il numero di azioni

in cui è suddivisa la proprietà della società).

57. Riserve di rivalutazione (voce III). Detto delle due voci originate da apporti, vediamo ora l’unica voce derivante da utili mai evidenziati in bilancio, cioè le “Riserve di rivalutazione”. Per comprenderne la natura ripartiamo dal caso (visto al numero 54.) in cui ipotizzo che il marchio del cavallino rampante valga più di un miliardo di euro ma sia valutato nel bilancio della società Ferrari S.p.A. al suo costo storico (di soli 1.000 €), e ciò in ossequio al principio di prudenza imposto dal codice civile (agli artt. 2423/bis e 2426) .

Ora dovete aggiungere alle vostre conoscenze che il legislatore, di tanto in tanto e con una legge ad hoc (cioè fatta

apposta), permette agli amministratori di aumentare i valori di bilancio delle immobilizzazioni per renderli più coerenti con la realtà (di questa possibilità si è già detto al numero 39a a fine pagina 22) senza pagare maggiori imposte sul reddito.

Supponiamo che la Ferrari S.p.A., approfittando di un simile intervento legislativo, nel 2017 aumenti il valore del marchio da 1.000 € a un miliardo di euro. In questo caso, il maggior valore che viene inserito nell’attivo patrimoniale (999.999.000 € in più nelle “Immobilizzazioni immateriali”, e quindi in dare) NON ha come contropartita (in avere) un ricavo, cioè i 999.999.000 € NON si registrano fra i componenti positivi del reddito, bensì direttamente in avere del patrimonio netto, alla voce “Riserva di rivalutazione Legge X/2017” (dove X è il numero della legge che ha reso possibile

la rivalutazione). Come già spiegato al 39b di pagina 23, registrare i 999.999.000 € dell’aumento di valore del marchio in avere di un conto di reddito, e quindi fra i ricavi del conto economico del 2017, sarebbe scorretto (a meno di

indicarlo, come si poteva fare fino al 2016 alla voce “E” “Proventi straordinari”) in quanto non si tratta di valore creato dall’azienda nel 2017 ma in tutti i precedenti anni in cui il valore del marchio è cresciuto. Ecco allora che è più ragionevole inserire direttamente questo valore nel capitale netto, alla voce “Riserva di rivalutazione ex legge X/2017”.

Per chiudere l’argomento “Patrimonio netto” resta ora solo da parlare delle cinque voci inquadrabili fra le riserve derivanti da utili evidenziati in bilanci precedenti, cioè delle voci IV, V, VI, VII e VIII.

58. Riserva legale (voce IV). Il codice civile (art. 2430) impone alle società di capitali che almeno 1/20 (cioè il 5%) degli utili prodotti nell’esercizio sia non distribuito e venga invece accantonato in questa voce (a volte detta anche

“riserva ordinaria”) fino a quando tale voce di bilancio raggiunge il 20% (cioè 1/5) del capitale sociale (per le banche e le assicurazioni

la legge prevede limiti minimi di accantonamento maggiori). Tale riserva potrà essere utilizzata (cioè ridotta) solo per coprire una perdita d’esercizio e solo se non ci sono altre riserve.

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59. Riserve statutarie. (voce V). Lo statuto sociale (in inglese “by-laws”, e se vuoi un eccitante esempio si statuto sociale ecco

qui il link per il by-laws di E.N.I. S.p.A https://www.eni.com/docs/en_IT/enicom/publications-archive/governance/by-laws/Statuto-ENG-Maggio-2014-mark-up.pdf ) è, copiaincollando da wikipedia, “l'atto normativo fondamentale che disciplina l'organizzazione e il funzionamento di un ente pubblico o privato”. In pratica sono regole di funzionamento stabilite dai soci (al momento della nascita della

società, ma modificabili con apposite successive delibere assembleari) che si vanno ad aggiungere a quelle fissate dal legislatore per la generalità delle società. Ecco allora che se lo statuto prevede che si debbano accantonare altri utili, questi saranno accreditati, cioè scritti in “avere”, in un conto chiamato “Riserva statutaria”. Anche le statutarie sono, come la legale, riserve “obbligatorie” in quanto imposte da una norma (e che la norma sia stata prevista dai soci stessi non la rende

meno vincolante, a meno che la si modifichi, di una norma di legge).

60. Altre riserve. (voce VII). Sono le cosiddette “riserve libere” o “facoltative” o “volontarie”, in quanto decise liberamente, su proposta degli amministratori, dall’assemblea che approva il bilancio. Essendo state costituite e alimentate “volontariamente”, una successiva assemblea può utilizzarle come meglio crede, mentre l’utilizzo

di quelle “obbligatorie” è vincolato a quanto prevede la norma (di legge o statutaria) che le ha stabilite.

61. Utili o perdite portati a nuovo (voce VIII). Questa voce nasce quando l’assemblea che approva il bilancio decide di rinviare la decisione di come usare una parte degli utili prodotti nell’esercizio (o di come “coprire” le perdite subite nel periodo il cui bilancio si sta approvando).

Lo studente non distratto avrà notato che ho saltato la voce VI “Riserva per azioni proprie”. L’ho fatto perché mi sono rotto più io a scrivere di parti ideali del netto che voi a leggerle.

62. Si sa mai che qualcuno non l’abbia ancora capito ...

Che sia ben chiaro: le riserve, comunque chiamate,

NON sono scorte di denaro!!! .

Le “Riserve” sono Capitale netto, cioè maggiore attivo aziendale rispetto ai debiti, non sono soldi.

Se, ad esempio, accantono il 5% dei 600.000 € di utili prodotti nel 2017 a Riserva legale, quei 30.000 € che vanno a finire in quella riserva NON sono soldi accantonati in un qualche cassetto o conto bancario!!!

L’operazione di “accantonamento a riserva” si esaurisce in una mera (= semplice, pura, sola) scrittura contabile: scrivo 30.000 in dare del conto “Reddito d’esercizio” e scrivo 30.000 in avere del conto Patrimoniale “Riserva legale”. Faccio nient’altro! Non ci sono banconote, non ci sono operazioni bancarie, non c’è alcun deposito in cassette di sicurezza né sotterramenti notturni di beni aziendali. L’unico effetto di "accantonare a Riserva” è che per quell’importo, poiché gli si dà la natura di capitale netto e non di debito verso i soci, viene escluso l’esborso finanziario che la sua distribuzione fra i soci avrebbe provocato.

E quando si “utilizza una riserva per coprire una perdita di bilancio”, ad esempio di 543.210 €, non c’è alcun dissotterramento, non c’è alcun prelievo da qualche cassetta di sicurezza, non c’è alcun addebito di conto bancario né qualche banconota viene usata in un qualsiasi modo: c’è solo una scrittura contabile contraria a quella vista prima: scrivo 543.210 in dare del conto Patrimoniale “Riserva xy” e 543.210 in avere del conto “Reddito d’esercizio”.

In questo modo mostrerò in bilancio un capitale netto diminuito di 543.210 € rispetto all’anno precedente, e tanto basta: la perdita subita nell’anno è stata coperta, nel senso che il conto “reddito d’esercizio”, in cui in sede di “chiusura dei conti” avevo fatto confluire tutti i saldi dei conti di reddito, ora ha saldo zero.

L’idea che una società abbia a disposizione tanti soldi per il solo fatto che ha un valore elevato di riserve è da deficienti (nel senso di persona che difetta di preparazione in economia aziendale) e, infatti, alberga in tante teste. Il sospetto che anche uno solo dei miei studenti possa pensare una coglionata simile mi spingerebbe a richiedere il pensionamento immediato.

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63. Il capitale di terzi (le fonti esterne di finanziamento, i debiti) Al di fuori del capitale netto tutte le altre “fonti” di finanziamento sono debiti: tertium (si legge terzium) non datur (che

significa: una terza alternativa non c’è; lo si dice in latino per darsi un tono).

Se però diamo un occhio alle voci che appaiono nei bilanci ufficiali (il cui schema è imposto dall’art. 2424 del c.c.), troviamo che oltre alle due categorie naturali [ Patrimonio netto (voce “A”) e Debiti (voce “D”) ] ne troviamo altre tre [

“Fondi per rischi e oneri” (voce “B”), “Trattamento di fine rapporto” (voce “C”) e “Ratei e risconti” (voce “E”)].

Non dovete però farvi ingannare: anche se chiamati “t.f.r.”, “fondi” e “ratei e risconti” passivi, sono in ogni caso tutti debiti, almeno se – come logicamente si deve fare e come vi ho sempre detto fino da quando eravate piccoli – si dà al termine debito il significato ampio di “impegno da assolvere”.

Che il t.f.r. sia un debito (verso chi, come i dipendenti, operando nell’azienda guadagna un compenso che gli sarà però corrisposto solo alla fine della

collaborazione) lo sanno anche gli oranghi, e che i ratei e i risconti passivi siano debiti lo dovresti sapere anche tu da un paio d’anni e comunque se hai capito quanto scritto a fine punto 44., perché analogamente ai ratei e risconti attivi visti là tra i crediti, i ratei e i risconti passivi sono debiti con l’unica particolarità di crescere gradualmente e morire di colpo (i ratei) o di nascere di colpo e morire gradualmente (i risconti). Resta quindi da chiarire la natura di debito di ciò che viene inserito nella voce “fondi”.

64. La voce B) Fondi per rischi e spese (è questo il nome completo assegnato a questi debiti dal legislatore) contiene debiti che hanno la particolarità di essere incerti o nell’ammontare, o nel soggetto che ha diritto ad esigerli, o per entrambi questi aspetti. Ad esempio: essendo estremamente probabile che, a causa della complessità e nebulosità della normativa fiscale, anche il più ligio degli imprenditori prima o poi verrà ingiustamente aggredito dal fisco con sanzioni, pene pecuniarie ed imposte arretrate, allora ogni azienda dovrebbe prudenzialmente stimare questo “debito” verso l’erario; ma, essendo quel debito non del tutto certo nell’esistenza e ancor meno nell’ammontare, allora invece di metterlo insieme ai debiti normali lo si inserisce nel passivo alla voce “fondi rischi e spese”; oppure: in questa voce la Fiat inserisce il valore stimato di tutte le riparazioni in garanzia che prevede di dover effettuare in futuro (in sostanza è un debito nei confronti dei suoi clienti che hanno un auto nuova) o la Mulinex gli indennizzi che potrebbero pretendere le massaie che rimanessero sfregiate dal frullatore malfunzionante. Ma di fondi torneremo a parlare più avanti, al punto 72.

Ritengo prudente segnalare, anche se dovrebbe essere superfluo, che c’entrano nulla coi questi fondi i fondi ammortamento e i fondi svalutazione, avendo questi natura affatto (= completamente) diversa. Queste voci, non a caso, in effetti non appaiono tra le fonti di finanziamento bensì sono inseriti, con valore negativo, fra le attività aziendali: infatti sono importi che vanno a diminuire dei valori attivi quali le immobilizzazioni (nel caso dei fondi ammortamento) o i crediti (nel caso dei fondi svalutazione) per tenere conto del loro diverso valore che si ritiene abbiano alla data del bilancio rispetto a quello storico che avevano al momento in cui vennero acquisiti. Si chiamano tutti “fondi” solo per creare confusione nelle teste degli studenti e poterne così bocciare qualcuno in più.

65. La voce C) Trattamento di fine rapporto contiene gli impegni verso i dipendenti e altri collaboratori per compensi da corrispondere alla fine del loro rapporto con l’azienda (il cosiddetto “T.F.R.”). La collocazione dei debiti per T.F.R. tra le passività consolidate è generalmente corretta in quanto il “turn over” annuo in uscita dei collaboratori (cioè il rapporto “numero collaboratori usciti nel periodo / numero medio collaboratori del periodo”), per quanto possa essere

elevato, difficilmente si avvicina all’unità (se il turn over fosse così intenso da rendere quel rapporto uguale o superiore a uno allora il fondo TFR

dovrebbe essere considerato fra le passività a breve).

Poiché i debiti sotto forma di “Fondi” (sia la voce B) Fondi rischi-spese, sia la voce C) Fondo T.F.R.) sono in genere per la maggior parte a medio-lungo, si spiega l’indicazione dell’art. 2424 di inserirli dopo il patrimonio e prima dei debiti “normali” che, al contrario, sono prevalentemente a breve: l’ordine crescente di esigibilità è rispettato (e

se non capisci torna al n. 39 a pag. 22).

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66. D) Debiti (certi nell’importo a scadenza e nel creditore). Sempre in virtù di quanto dispone l’art. 2424, nel bilancio reso pubblico si deve indicare, oltre al totale dei debiti (diversi dai precedenti, cioè diversi dai Fondi rischi e spese e dal Fondo

T.F.R.), la loro suddivisione per categoria di debitori (verso fornitori, verso banche ecc. per un totale di 14 sotto-voci) e poi segnalare l’eventuale presenza, all’interno di ciascuna voce, di debiti con scadenza superiore ai 12 mesi [ad

esempio: debiti v/banche: 2.950.000 (di cui 850.000 scadenti oltre l’esercizio successivo)]. Per dare un’idea più immediata della struttura patrimoniale e quindi anche della solvibilità aziendale è però più utile accorpare i debiti in funzione non tanto della tipologia di creditore (debiti verso fornitori, verso banche, verso stato ecc.)

bensì in base alla loro scadenza; ecco perché spesso in sede di “riclassificazione” dello stato patrimoniale i debiti, in qualunque modo siano chiamati, li si distingue fra “passività consolidate” (o debiti a medio/lungo termine) e “passività correnti” (o debiti a breve). Ancor più utile sarebbe conoscere la media ponderata della durata dei debiti (come anche dei crediti), ma il legislatore non ha inserito questo dato fra quelli obbligatori da indicare, nemmeno

in nota integrativa, né l’idea è venuta in mente ai dotti e sapienti dediti a migliorare continuamente i principi contabili e che spesso collaborano con il legislatore (o forse a loro è venuto in mente, ma poiché il dato è sì molto utile ai terzi, ma è anche

di semplice calcolo e quindi poco costoso per l’azienda, l’hanno considerato un suggerimento non degno di loro: più propongono cose complesse, non importa se

scarsamente utili, e più possono pavoneggiarsi coi colleghi e crescere nella considerazione di chi è ignorante in materia).

Le passività consolidate sono gli impegni da assolvere oltre l’esercizio successivo (e quindi con scadenza più lontana di 12

mesi dalla data del bilancio); si trovano qui, oltre alla gran parte dei fondi rischi e spese e del fondo TFR di cui già si è detto, principalmente:

1. la maggior parte dei mutui bancari (la maggior parte perché frequentemente i mutui sono finanziamenti pluriennali e quindi sono meno le rate

scadenti entro un anno rispetto a quelle da rispettare nel medio/lungo termine); per determinare con esattezza la ripartizione di un mutuo

fra debiti a medio-lungo termine e debiti a breve occorre avere a disposizione il suo piano di ammortamento;

2. la maggior parte delle obbligazioni eventualmente emesse (quelle con scadenza entro i dodici mesi vanno, ovviamente, tra i

debiti a breve); anche in questo caso, per distinguere la parte del prestito obbligazionario con scadenza inferiore all’anno è necessario leggere il regolamento del prestito e, in particolare, il piano di rimborso previsto;

3. eventuali finanziamenti a medio-lungo termine ottenuti da società appartenenti allo stesso gruppo aziendale (tipico è la holding – o società capogruppo – che finanzia le sue “partecipate”, cioè le società che controlla grazie al possesso di una

percentuale elevata di azioni o di quote del loro capitale sociale).

Le passività correnti, ossia i debiti con scadenza entro l’esercizio successivo (e quindi con scadenza non superiore ai 12

mesi), possono essere:

a) debiti commerciali, vale a dire verso le aziende fornitrici di fattori produttivi (debiti che, come già visto

quando si è parlato dei crediti, usualmente hanno scadenze comprese fra i 30 e i 180 giorni);

b) acconti ricevuti da clienti in anticipo rispetto allo svolgimento dell’impegno assunto; se è vero che, in genere, il pagamento anticipato è piuttosto raro, è invece usuale quando si lavora “su commessa” (cioè quando si

è incaricati dal cliente di fornirgli un bene con caratteristiche particolari, adatte solo a lui e che pertanto rendono quel bene difficilmente commerciabile,

nel senso di vendibile ad altri) e ci si vuole cautelare dal rischio che il cliente non lo ritiri quanto ha ordinato;

c) debiti per finanziamenti bancari a breve termine (come l’anticipo s.b.f. di ri.ba. e di fatture, l’anticipazione bancaria su titoli

o su merci) o “a vista” (come l’apertura di credito in c/c, cioè l’impegno assunto dalla banca, quasi sempre per un tempo indeterminato, di effettuare pagamenti

su richiesta del cliente correntista anche quando il saldo del suo conto è negativo. La possibilità che la banca ha di recedere in un qualunque momento da questo impegno e di chiedere il “rientro” al cliente nel giro di pochissimi giorni fa inserire questi debiti fra le passività correnti anche se, di norma e salvo situazioni patologiche,

all’atto pratico con questo sistema di finanziamento le banche continuano a finanziare l’azienda per un periodo anche lunghissimo di tempo);

d) i mutui a breve termine e le rate scadenti entro un anno dei mutui a medio-lungo termine (vale quanto scritto sopra al punto 1.);

e) eventuali finanziamenti a breve termine ottenuti da società appartenenti allo stesso gruppo aziendale;

f) la parte di T.F.R. che presumibilmente dovrà essere liquidata entro l’anno, per effetto dei prevedibili pensionamenti, licenziamenti o dimissioni a breve;

g) altri debiti a breve diversi dai precedenti, come i debiti per imposte, debiti verso enti previdenziali per contributi, debiti verso dipendenti per stipendi e ratei di 13a o 14a e altri debiti residuali.

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67. La riclassificazione del Conto Economico.

Quando si passa al Conto Economico la questione della riclassificazione si fa più complicata; in parte perché la struttura del conto economico imposta dal legislatore per i bilanci ufficiali fa schifo (mentre quella dello stato patrimoniale è, tutto sommato, decorosa), ma anche perché, al fondo, è più facile descrivere una sagoma piuttosto che un movimento, come è più semplice fare una buona foto che un buon film.

Ecco perché se, partendo dal documento reso pubblico con il deposito nel Registro delle imprese, vogliamo ottenere una descrizione efficace di quello che l’azienda ha fatto nell’ultimo periodo e di come lo ha fatto, allora dobbiamo impegnarci di più di quanto è necessario per la rielaborazione della sua situazione patrimoniale. Di questo argomento si è cennato al n. 44.; ora occorre approfondire.

Le tre tappe principali da percorrere nella riclassificazione del conto economico quando si parte dallo schema “ufficiale” imposto dall’art. 2525 del c.c. sono:

a) la distinzione dell’attività aziendale (svolta nel periodo di cui si sta analizzando il conto economico) fra la sua parte tipica (o “caratteristica” o “operativa”) e la parte atipica (o “extra-caratteristica” o “patrimoniale”) dell’attività;

b) la distinzione fra attività ordinaria (nel senso di frequente, iterata) e straordinaria (nel senso di occasionale, non ripetibile con frequenza);

c) la riorganizzazione delle voci in modo da evidenziare la formazione progressiva di vari risultati intermedi tra il valore della produzione e il reddito netto (come il valore aggiunto, il margine operativo lordo, il reddito lordo di cui si parlerà

fra poco ). a) Rientrano nell’attività (o gestione) caratteristica le operazioni che sono tipiche, usuali per le

aziende del settore in cui opera quella il cui conto economico stiamo riclassificando, cioè quelle attività senza le quali l’azienda difficilmente potrebbe operare in quel settore. Così, ad esempio, per un bar l’acquisto di caffè e del servizio di pulizia della vetrina avviene all’interno della gestione caratteristica; ma se, nei momenti della giornata in cui vi è meno clientela, l’imprenditore è solito impegnarsi nel videopoker utilizzando risorse aziendali, allora i costi e i ricavi di questa attività, sebbene sia abituale, non possono essere confusi con quelli tipici di un bar, e pertanto vanno da essi tenuti distinti relegandoli nella “gestione extra-caratteristica”.

In considerazione del fatto che frequentemente i ricavi e i costi “non caratteristici” di una azienda derivano dalla gestione da beni patrimoniali (quasi sempre immobilizzazioni come partecipazioni in società o edifici concessi in locazione) che poco o nulla hanno a che fare con la sua attività tipica, spesso la gestione extra-caratteristica viene anche definita “gestione patrimoniale”.

b) Come già scritto, la distinzione fra attività ordinaria e straordinaria sta nella abitualità; un esempio di operazione straordinaria ma frutto della gestione tipica (o caratteristica) potrebbe essere la vendita di un ramo aziendale: se CEPU, all’inizio del 2017, vende a un concorrente per 10 milioni di euro il settore umanistico dei suoi corsi per concentrarsi sui settori scientifico e professionale, la straordinarietà sta nella impossibilità di ripetere nel tempo operazioni analoghe; il ricavo della vendita, però, sarebbe pur sempre da collegare con l’attività tipica di CEPU; quei 10 milioni di valore che sono finiti nei ricavi del 2017 sono stati generati dall’azienda per mezzo della sua attività ordinaria negli anni precedenti quando, dal nulla, ha creato il ramo “corsi umanistici” e poi col passare degli anni ne ha accresciuto il valore. Nonostante questo occorre però escludere dal valore della produzione del 2017 quei 10 milioni perché tale valore non è stato prodotto nel 2017, essendo frutto dell’attività di tutti gli anni precedenti in cui CEPU si è affermata sul mercato anche dei corsi di latino, greco, storia e italiano.

Per chiarire meglio i due concetti di gestione “caratteristica o extra-caratteristica” e di gestione “ordinaria o straordinaria” segnalo che la vendita per 20.000 € dei cuccioli che, ogni anno, nascono dai 12 mastini napoletani che fanno la guardia alla sede del CEPU (per difendere gli amministratori dalle ire dei clienti bocciati), ripetendosi ogni anno (i mastini napoletani sono molto passionali e hanno sane inclinazioni sessuali) rientra nell’attività ordinaria ma non in quella caratteristica, perché ben poco ha che fare con l’attività tipica delle aziende operanti nel settore istruzione (salvo,

forse, si tratti di una scuola specializzata in corsi veterinari).

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c) Quando si parla di valore della produzione, di risultati intermedi e, in generale, di riclassificazione del conto economico, si è concentrati soprattutto sulla gestione ordinaria e tipica dell’azienda: eventuali componenti positivi o negativi di reddito provenienti da operazioni straordinarie e/o di natura diversa dalla gestione tipica sono tagliate fuori dall’analisi, non interessano in quanto l’obiettivo principale è valutare l’efficienza del nucleo produttivo centrale aziendale, cioè del suo cosiddetto “core business”. Al fine della valutazione complessiva dell’azienda, i componenti reddituali straordinari e quelli non caratteristici sono analizzati a parte, successivamente.

Qui sotto propongo uno dei due schemi più utilizzati di conto economico riclassificato, quello “a valore aggiunto”. L’altro è quello “a costo e ricavi del venduto” e gli dedicheremo meno spazio in quanto la sua elaborazione, oltre a essere più complessa, richiede la conoscenza di troppi dati disponibili solo a un analista interno all’azienda e quindi in genere non a chi può solo utilizzare i dati resi pubblici nel bilancio col deposito in CCIAA

CONTO ECONOMICO SCALARE A VALORE AGGIUNTO

Ricavi di vendita + 14.800.000 98,43%

+ aumento ( – diminuzione) scorte prodotti finiti. + 300.000 2,36%

+ aumento ( – diminuz.) scorte prodotti in corso di lavoraz. - 100.000 - 0,79%

VALORE DELLA PRODUZIONE 15.000.000 100,00%

Acquisti di beni e servizi (compreso uso beni di terzi) 8.250.000 55,00%

- aumento ( + diminuzione) scorte materie e componenti - 750.000 5,00%

- diminuzione scorte materie e componenti

altre spese di gestione tipica (diverse dalle successive) 300.000 2,00%

VALORE AGGIUNTO 7.200.000 48,00%

- Costi del personale - 5.000.000 33,33%

MARGINE OPERATIVO LORDO (M.O.L.) o E.B.I.T.D.A. (1) 2.200.000 14,67%

- Ammortamenti immobilizzazioni - 700.000 4,67%

- Svalutazioni - 100.000 0,67%

- Accantonamenti (a fondi rischi e spese) - 200.000 1,33%

RISULTATO (o REDDITO) OPERATIVO o E.B.I.T. 1.200.000 8,00%

Saldo gestione finanziaria (+ proventi finanziari – oneri finanziari)

- 330.000 2,20%

Saldo gestione accessoria (+ ricavi - costi attività non “core business”)

+ 30.000 0,2%

Saldo gestione straordinaria (+ proventi straordinari - costi straordinari)

+ 1.000 0,01%

REDDITO (o UTILE) LORDO o E.B.T. 901.000 6,01%

- Imposte - 500.001 3,34%

RISULTATO DI ESERCIZIO (o REDDITO NETTO) 400.000 2,67%

(1) per gli anglofoni: EBITDA = Earnings Before Interests Taxes Depreciation and Amortization

[quiz di allenamento: si tratta di un’azienda produttrice di beni o servizi? Perché? Industriale o mercantile? Perché?]

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Qui sotto trovate l’art. 2425 c.c. con lo (stupido) schema di conto economico imposto dal vostro parlamento e dalla U.E.. Contenuto del conto economico. In vigore dal 01/01/2016 Il conto economico deve essere redatto in conformità al seguente schema:

A) Valore della produzione: 1) ricavi delle vendite e delle prestazioni;

2) variazioni delle rimanenze di prodotti in corso di lavorazione, semilavorati e finiti;

3) variazioni dei lavori in corso su ordinazione;

4) incrementi di immobilizzazioni per lavori interni;

5) altri ricavi e proventi, con separata indicazione dei contributi in conto esercizio.

Totale valore della produzione.

B) Costi della produzione: 6) per materie prime, sussidiarie, di consumo e di merci;

7) per servizi;

8) per godimento di beni di terzi;

9) per il personale: a) salari e stipendi; b) oneri sociali; c) trattamento di fine rapporto; d) trattamento di quiescenza e simili; e) altri costi;

10) ammortamenti e svalutazioni: a) ammortamento delle immobilizzazioni immateriali; b) ammortamento delle immobilizzazioni materiali; c) altre svalutazioni delle immobilizzazioni; d) svalutazioni dei crediti compresi nell'attivo circolante e delle disponibilita' liquide;

11) variazioni delle rimanenze di materie prime, sussidiarie, di consumo e merci;

12) accantonamenti per rischi;

13) altri accantonamenti;

14) oneri diversi di gestione.

Totale costi della produzione.

Differenza tra valore e costi della produzione (A - B).

C) Proventi e oneri finanziari: 15) proventi da partecipazioni, con separata indicazione di quelli relativi ad imprese controllate e collegate e di quelli

relativi a controllanti e a imprese sottoposte al controllo di queste ultime;

16) altri proventi finanziari: a) da crediti iscritti nelle immobilizzazioni, con separata indicazione di quelli da imprese controllate e collegate e di quelli da controllanti e da imprese sottoposte al controllo di queste ultime; b) da titoli iscritti nelle immobilizzazioni che non costituiscono partecipazioni; c) da titoli iscritti nell'attivo circolante che non costituiscono partecipazioni; d) proventi diversi dai precedenti, con separata indicazione di quelli da imprese controllate e collegate e di quelli da controllanti e da imprese sottoposte al controllo di queste ultime;

17) interessi e altri oneri finanziari, con separata indicazione di quelli verso imprese controllate e collegate e verso

controllanti;

17-bis) utili e perdite su cambi.

Totale (15 + 16 - 17+ - 17 bis).

D) Rettifiche di valore di attivita' e passivita' finanziarie: 18) rivalutazioni:

a) di partecipazioni; b) di immobilizzazioni finanziarie che non costituiscono partecipazioni; c) di titoli iscritti all'attivo circolante che non costituiscono partecipazioni; d) di strumenti finanziari derivati;

19) svalutazioni: a) di partecipazioni; b) di immobilizzazioni finanziarie che non costituiscono partecipazioni; c) di titoli iscritti nell'attivo circolante che non costituiscono partecipazioni. d) di strumenti finanziari derivati;

Totale delle rettifiche (18 - 19).

Risultato prima delle imposte (A – B + - C + - D);

20) imposte sul reddito dell'esercizio, correnti, differite e anticipate;

21) utile (perdite) dell'esercizio.

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Nella voce “A” (valore della produzione) ci sono tutti i componenti positivi di reddito eccetto i proventi finanziari (che

rientrano nelle voci “C” e “D”); ecco allora che, se si vuole valutare l’efficienza produttiva dell’azienda occorre depurare la voce A dall’eventuale presenza di componenti positivi di reddito derivanti da operazioni straordinarie (anche

se inerenti l’attività tipica aziendale) e di componenti reddituali ordinari che però nulla hanno a che fare con la gestione tipica.

Le informazioni circa l’esistenza e la consistenza di tali (eventuali) ricavi si devono cercare nella nota integrativa.

Analoga operazione deve essere fatta sulla voce “B” (costi della produzione).

I componenti positivi e quelli negativi tolti, rispettivamente, dalle voci “A” e “B” del conto economico “ufficiale” li si re-inserisce, poi, alla fine di quello rielaborato, appena prima della determinazione del reddito lordo, indicandone sinteticamente la somma algebrica alle voci “Saldo della gestione straordinaria” e “Saldo della gestione non caratteristica”.

68. Il valore della produzione.

Sebbene lo abbia già detto più volte (ad esempio al n. 15.), può essere utile ricordare che il “valore della produzione” di un periodo (ad esempio dell’anno 2017) non coincide con il valore delle vendite di quel periodo per un duplice motivo: a) nel corso dell’esercizio 2017 io posso aver prodotto beni che poi venderò nell’anno 2018 o anche dopo; b) nel 2017 posso aver venduto cose che avevo prodotto nel 2016 o anche prima.

Ecco allora che, per determinare il “valore della produzione” del 2017, si parte dalle vendite del periodo (l’anno

2017) e poi si aggiunge il valore delle rimanenze finali (le scorte di prodotti finiti o in corso di lavorazione presenti alla mezzanotte

del 31.12.2017 e che (presumibilmente) sono stati prodotti nel 2017) e si toglie il valore delle rimanenze iniziali (le scorte di prodotti

finiti o in corso di lavorazione che erano presenti al mattino del 1.1.2017 e che furono prodotti nel 2016 (o prima ancora)).

Chiamando “variazione scorte” la differenza “ scorte finali meno scorte iniziali ” ne deriva che il “valore della produzione” è uguale a ricavi di vendita + variazione scorte (di prodotti finiti e semilavorati).

Le rimanenze della cui variazione di valore si tiene conto nella voce “A” (ai numeri 2 e 3) possono essere:

a) scorte di beni fisici prodotti “per il magazzino” (come le confezioni di spaghetti n. 5 da ½ kg o le Duster Brave2 Diesel), cioè beni che saranno acquistati da clienti non ancora individuati;

b) rimanenze di beni fisici prodotti “su commessa” (come gli sterilizzatori ohmici richiesti alla Pinco Palla srl di Piacenza dalla Barilla

s.p.a. per essere inseriti nella linea di produzione da 5 kg al secondo di sughi pronti del suo stabilimento a Rubbiano; oppure come fu, per Michelangelo, il

dipinto su tavola tonda raffigurante la Sacra Famiglia a lui commissionato da Messer Agnolo Doni), cioè beni con particolari caratteristiche richiesti da uno specifico cliente (e per i quali essendo difficile, in caso di mancato ritiro da parte del committente, la

vendita sul mercato, quasi sempre il fornitore impone il pagamento anticipato di almeno una parte del prezzo concordato);

c) rimanenze di servizi (come la progettazione, iniziata nel 2017 ma a fine anno non ancora terminata, di un complesso elemento di un impianto

industriale di cui una società di engineering ha ricevuto l’incarico dalla Barilla).

69. Il valore aggiunto

Ora cerchiamo di capire perché questo schema di conto economico (quello a pag. 40) è detto “a valore aggiunto”.

Per valore aggiunto si intende il valore che l’azienda aggiunge, con l’impiego dei fattori produttivi “interni”, al valore dei fattori produttivi (beni e

servizi) a breve ciclo di utilizzo che acquisisce da altre aziende di produzione.

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Questi beni e servizi acquisiti da altre aziende di produzione sono principalmente:

a) componenti, materie prime, di consumo, merci (acquisti + la diminuzione delle loro rimanenze o – il loro aumento);

b) le prestazioni di servizi (lavorazioni esterne, trasporti, riparazioni, consulenze, pubblicità, servizi telefonici, ecc. ecc.);

c) i costi per il godimento di beni di terzi (affitti, noleggi e canoni di leasing).

Si può esprimere lo stesso concetto in quest’altro modo: se dalla ricchezza prodotta nel periodo dall’azienda (dico “ricchezza prodotta” e non “incremento di ricchezza” o “creazione” di ricchezza, perché sto parlando di valore della produzione e non di utile) togliamo quella acquistata (e quindi prodotta) da altre aziende, troviamo la ricchezza prodotta internamente all’azienda, valore che chiamiamo “valore aggiunto” (sottinteso dall’azienda, al suo interno).

La logica di questo modo di determinare il “valore aggiunto” non è certo del tutto rigorosa, soprattutto per il motivo che all’interno di tale voce resta il valore del consumo delle immobilizzazioni acquistate da altre aziende (in pratica il valore degli ammortamenti), e non ha molto senso trattare in modo diverso il valore che da questi input si riversa sull’output rispetto al valore che proviene dal consumo degli input ugualmente “esterni” ma a breve ciclo di utilizzo.

Il difetto di logica che sta dietro a questa definizione di valore aggiunto risulta evidente se si pensa a due aziende in tutto identiche tranne per il fatto che la prima ha acquistato direttamente le immobilizzazioni materiali, mentre la seconda le ha acquisite in leasing: pur avendo la medesima struttura produttiva (stessi impianti e attrezzature,

stesso capitale circolante, stessa tecnica di produzione, stessi dipendenti, stessa rete di vendita, stessi prodotti, stessa politica commerciale ecc.), la

prima evidenzierà un valore aggiunto significativamente superiore della seconda.

Il “valore aggiunto”, oltre a essere definibile per differenza, è anche definibile per somma: è, infatti, la somma dei compensi che vanno a coloro, diversi dalle altre aziende di produzione, che hanno contribuito alla produzione dell’output. Infatti, il valore aggiunto si ripartisce fra:

1) i dipendenti, cui spettano stipendi, contributi e quote di T.F.R. maturate nell’anno;

2) chi ha finanziato l’attività attraverso il capitale di debito, meritandosi gli interessi;

3) il supremo grassatore (lo stato), che preleva le imposte (nei libri di scuola trovate la storiella secondo cui le imposte devono

considerarsi il prezzo per i servizi di carattere generale (giustizia, ordine pubblico ecc.) che lo stato eroga gratuitamente beneficiando tutti e quindi risultando utili anche per l’attività aziendale; ma, si sa, uno degli scopi della scuola è forgiare bravi cittadini sempre disposti a rispettare le leggi qualunque cosa

impongano e quindi anche a vivere facendosi tosare come pecore);

4) chi ha finanziato l’attività attraverso il capitale di rischio, a cui va la parte di utile netto eventualmente distribuita;

5) l’azienda stessa, sotto forma di “autofinanziamento”. Il concetto di autofinanziamento comprende:

5a) l’autofinanziamento proprio cioè l’utile netto che non viene prelevato dai soci (vedi precedente punto 4)), e che quindi viene “accantonato a riserva” andando così a incrementare il capitale proprio;

5b) l’autofinanziamento improprio che è costituito dagli ammortamenti e dagli accantonamenti.

Tra le componenti del “valore aggiunto” appena elencate la voce “autofinanziamento” necessita più delle altre di spiegazioni, ed è per questo che ci si tornerà sopra al n. 72. .

70. Dopo il valore aggiunto

Si è già visto che il valore aggiunto, determinato per differenza, è dato da:

valore della produzione meno acquisto di materie prime, componenti e merci meno diminuzione di (o più aumento di) rimanenze materie prime, componenti e merci meno acquisti di servizi meno costi per godimento beni di terzi.

Se dal valore aggiunto togliamo il costo del personale (stipendi + contributi + quota annua T.F.R.) si ottiene il “Margine Operativo Lordo” (M.O.L.) che oggi va di moda chiamare “E.B.I.T.D.A.”, acronimo che, come già scritto sta per Earnings Before Interests, Taxes, Depreciations (in italiano: svalutazioni e accantonamenti) and Amortizations.

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Se poi dal Margine Operativo Lordo si sottraggono gli ammortamenti, gli accantonamenti e le svalutazioni, si ottiene il Reddito Operativo, in inglese E.B.I.T. (e, rispettoso della vostra intelligenza, non sto a scrivere cosa significa).

Infine, se dal Reddito Operativo si tolgono gli interessi si ha il Reddito Lordo, o “Utile prima delle imposte” detto all’inglese E.B.T. (albionamente Earnings Before Taxes).

L’EBIT o Reddito (o Risultato) Operativo è il frutto della gestione tipica dell’impresa, e quindi dà la misura della ricchezza generata (se l’EBIT è positivo) o assorbita, distrutta (se l’EBIT è negativo) dalla attività specifica aziendale, prescindendo dalla (= senza tenere conto della) situazione finanziaria, da eventi di natura straordinaria, dalle attività fuori dal core business e dalla famelicità dello stato. [Lo stesso concetto può essere espresso dicendo che l’EBIT, il Reddito Operativo, è la parte di Valore Aggiunto che va a beneficiare lo

stato (che vi attingerà pesantemente con le imposte), i finanziatori (che si arricchiranno con gli interessi) e i proprietari dell’azienda (cui rimarrà l’utile netto)].

Il reddito operativo è quindi un dato di fondamentale importanza in quanto esso, essendo influenzato solo dai componenti di reddito inerenti l’attività tipica e ordinaria, è il dato più significativo della efficienza produttiva aziendale.

Meno semplice è capire la significatività dell’EBITDA o Margine Operativo Lordo, che pure va tanto di moda. Sui libri si legge che esso “esprime la ricchezza in termini di risorse finanziarie generata dall’attività caratteristica e ordinaria”.

La differenza tra questa definizione di EBITDA e quella del risultato operativo (EBIT) sta nell’aggiunta di quel “in termini di risorse finanziarie” che qualifica la creazione di ricchezza misurata.

In effetti, la differenza di valore fra EBITDA e EBIT (fra MOL e reddito operativo, è la stessa cosa detta in italiano) è data dall’ammontare degli ammortamenti, degli accantonamenti e delle svalutazioni, vale a dire da componenti negativi di reddito che non hanno causato nell’esercizio alcun esborso finanziario, in quanto l’esborso finanziario o ci fu in precedenza (quando si acquisirono quelle immobilizzazioni e quei beni di cui ora misuriamo, con gli ammortamenti e

le svalutazioni, la diminuzione di valore) o ci sarà in futuro (quando si dovranno pagare i debiti che sono stati chiamati col nome di “fondi rischi e spese”,

e se questa parentesi fai fatica a capirla allora torna indietro al punto 64. e impara a studiare meglio).

Ecco allora che se al risultato operativo aggiungiamo i costi non finanziari (cioè, ripeto allo sfinimento, i costi che non hanno fatto

diminuire la liquidità o aumentare i debiti nel periodo di cui si fa il conto economico, come ammortamenti e svalutazioni) troviamo la capacità dell’azienda di migliorare la sua situazione finanziaria nell’esercizio (cioè durante il periodo analizzato dal conto economico). Il discorso avrebbe senso, e quindi il dato dell’EBITDA avrebbe un qualche valore informativo, se le immobilizzazioni non dovessero essere mai sostituite e i debiti rappresentati dai fondi rischi e spese mai pagati, ma ovviamente non è così: nessuna azienda può essere efficiente con impianti e attrezzature obsoleti e mal funzionanti, e nessuna azienda può esimersi dall’assolvere i propri impegni.

L’EBITDA (il MOL) non è quindi un valido indicatore dell’efficienza produttiva poiché dice poco e confusamente sulla capacita operativa aziendale di creare ricchezza; ha solo un significato finanziario e per di più piuttosto limitato: infatti non è poi così vero che “esprime la ricchezza in termini di risorse finanziarie generata dall’attività

caratteristica e ordinaria”, in quanto nell’attività operativa, cioè in quella ordinaria e caratteristica, rientrano anche gli acquisti di immobilizzazioni tecniche (è fisiologico, normale, che un bar o un taxista acquistino – rispettivamente – lavastavoglie o

automobili), e se nel 2017 un taxista ha ottenuto un Margine Operativo Lordo positivo di 30.000 € e ha acquistato un taxi nuovo pagandolo 40.000 € è sbagliato dire che la sua attività operativa ha “generato” risorse finanziarie

per 30.000 €: ne ha, al contrario, assorbito per 10.000.

Basare la valutazione dell’aspetto finanziario della gestione sull’EBITDA sfiora il ridicolo, e infatti per quello scopo si fa il Rendiconto Finanziario, documento che affianca lo stato patrimoniale e il conto economico proprio per dare informazioni sulla provenienza e sulla destinazione dei flussi monetari che hanno interessato l’azienda nel periodo del bilancio. Di questo documento parleremo nella parte finale di questi appunti, nei numeri da xy a wz.

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71. Sulla significatività dell’EBITDA

Viene quindi da chiedersi perché oggi si dia tanta enfasi (= importanza) all’EBITDA: sono tutti scemi gli autori dei testi e l’unico intelligente è chi scrive, o è il contrario? Né la prima cosa e né, spero, l’altra. In realtà ritengo che tutta questa attenzione per il MOL sia nata, principalmente, dalla necessità per gli analisti di trovare una giustificazione ai prezzi progressivamente sempre più alti (almeno come linea di tendenza) ai quali negli ultimi decenni venivano compravendute le aziende, prezzi che, soprattutto per le aziende in perdita, non trovavano giustificazione con i tradizionali criteri di valutazione.

Per comprendere la questione è però prima necessario correggere un’idea sbagliata ma piuttosto diffusa.

Il profano spesso crede che a stabilire quale sia il valore di un’azienda (così come di una casa o un terreno o qualsiasi altro bene da

investimento) siano gli esperti, i “periti”. In realtà, a svolgere l’attività di valutazione è, quasi per intero, il mercato: il giudizio del perito (sia esso il geometra di Cadelbosco che stima la villetta a schiera o il mega studio di sapienti commercialisti milanesi che valuta la quota

di maggioranza della S.p.A.) incide solo sui dettagli. E’ un po’ come facciamo noi per valutare un’auto usata: partiamo dal valore che il mercato dà ai modelli di quel tipo e di quell’anno (e che leggiamo sulle riviste specializzate che lo rilevano e aggiornano

periodicamente) e poi lo correggiamo un po’, o in diminuzione per tenere conto di eventuali ammaccature, o in aumento nel caso di un ottimo stato di manutenzione.

Come per le auto usate e praticamente per tutti i beni, anche per le aziende il prezzo lo fa il mercato: se metto in vendita la mia azienda o una sua quota riceverò varie offerte, e tra queste individuerò la migliore; può darsi che io la ritenga insoddisfacente, cioè reputi il prezzo offerto inferiore al valore che io ritengo abbia, ma a questo punto non venderò e quel prezzo (per me “giusto” ma per il mercato eccessivo) non si formerà.

Ricordate: il valore è soggettivo (e quindi non esiste il valore giusto), a essere oggettivo è il prezzo, e questo si forma sul mercato.

In caso di compravendita di un’azienda si richiede l’intervento dei periti non tanto al fine dell’individuazione del prezzo (ché quello in sostanza lo stabiliscono il mercato e le abilità contrattuali delle due parti), quanto per pararsi il culo (save one’s ass, per i linguisti

più raffinati) in caso di possibili future contestazioni sul prezzo da parte di terzi, in particolare da parte 1) del fisco, sempre famelico (che potrebbe ritenere troppo basso il prezzo dichiarato per pretendere più imposte), 2) dei magistrati, spesso invasati (che,

convinti di sapere loro il “vero” valore della compravendita, potrebbero sospettare chissà quali imbrogli), 3) di qualche socio dell’azienda venduta o di quella acquirente (che, ritenendo di essere stato ingiustamente danneggiato dall’operazione, potrebbe far causa agli amministratori e attivare così un

magistrato invasato).

Una volta stabilito con la controparte il prezzo della compravendita in X € è perciò prudente, per ridurre il rischio e le conseguenze negative di eventuali contrasti con questi soggetti, pagare una profumata parcella a un professionista a cui, in sostanza, si dà l’incarico di costruire una bella perizia dalla quale risulterà che il valore dell’azienda compra-venduta è (guarda caso ...) proprio X € (o, più spesso e per pudore, nella quale si indica una “forchetta” di valori,

cioè da un minimo a un massimo, e in cui l’importo “X” è circa nel mezzo).

Ora mettetevi nei panni del perito che riceve l’incarico: deve mettere la sua firma su un documento attestante che il valore dell’azienda è quello che (in modo esplicito e brutale o con un po’ più di grazia) gli è stato indicato dal suo cliente, e deve arrivare a questo valore con un percorso per quanto possibile logico, comprensibile e riconosciuto valido dalla generalità degli esperti (suoi colleghi o meno).

Per far questo ha a disposizione un mucchio di testi, manuali e trattati in cui dottamente si disquisisce di vari criteri di valutazione, tutti raffinatissimi e ben impreziositi da formule matematiche inoppugnabili, ma che, al fondo, si basano sul banale concetto che l’appetibilità di un’azienda, e quindi il suo prezzo, dipende sia dal valore del suo capitale netto sia dall’ammontare dell’utile che si ritiene sia in grado di generare nel tempo: se le aziende A e B hanno un capitale netto simile, ma A è prevedibile che produca utili doppi di B, è ovvio che per acquistare A si sia disposti a pagare un prezzo più alto (ma meno del doppio) di quanto si pagherebbe per B.

Così, da sempre, il sistema più o meno esplicitamente e più o meno consapevolmente usato dagli analisti per stimare il valore di un’azienda consiste, al fondo, nel partire da una cifra basata sul valore del capitale netto e poi aggiungere un importo pari a un multiplo dei presumibili futuri utili annui.

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Ad esempio:

Azienda

Capitale

netto

Utile netto

Tasso di attualizzazione

degli utili

Fattore moltiplicativo equivalente

Valore attuale degli utili futuri

Valore della azienda

A 1.500 200 20% 5 1.000 (*) 2.500 B 1.500 100 20% 5 500 (**) 2.000

(*) 200 / 20% = 200 / 0,2 = 1.000 € Le due formuline rispondono alla domanda: quanto vale oggi la possibilità di

(**) 100 / 20% = 100 / 0,2 = 500 € ottenere in futuro e per un tempo indeterminato 200 (o 100) di reddito annuo?

Come però ho già detto, dalla fine degli anni ’90 il valore che il mercato (la cui vista è da allora sempre più annebbiata dai tassi

artificialmente bassi generati dalle autorità monetarie) ha dato alle aziende si è andato discostando sempre di più da quello ottenibile con i tradizionali criteri di stima.

Per un po’ gli analisti (commercialisti, società di revisione, insigni cattedratici ecc.) se la sono cavata abbassando il tasso di attualizzazione degli utili futuri, in ciò giustificati dal generale abbassamento dei tassi d’interesse. Questo sistema, però, non serve se l’azienda è da anni in perdita e non è credibile che possa mettersi a macinare utili nel giro di poco tempo.

E’ per questo che gli analisti, alla disperata ricerca di dati positivi in grado di giustificare gli elevati prezzi che il mercato assegnava anche in presenza di perdite economiche, hanno cominciato a prendere in considerazione non più l’utile ma il risultato operativo (e, fin qui, la cosa poteva ancora apparire ragionevole anche a un osservatore vecchio e outdated come

me), per poi arrivare all’EBITBA, risalendo così sempre più su verso la parte alta del conto economico, alla disperata ricerca di sufficienti valori positivi da capitalizzare.

E ora che in alcuni casi occorre, per non essere costretti a evidenziare bilanci con il capitale netto negativo (e

quindi dichiarare il fallimento o essere costretti a immettere nell’azienda vagonate di capitali a titolo di apporto), tenere vergognosamente alti i valori delle immobilizzazioni finanziarie costituite dalle partecipazioni in altre aziende (valori vergognosamente più alti di quelli a cui

realisticamente si riuscirebbe a venderli, cioè più alti del cosiddetto “fair value”), già qualcuno, scarseggiando in pudore, comincia a guardare al “valore aggiunto” positivo, pur in presenza di EBITDA negativo, come giustificazione valida per dare a un’azienda un valore superiore al suo capitale netto (ancora nessuno si è spinto a considerare “appetibile” un’azienda che evidenzi perfino un valore

aggiunto negativo; magari ci si arriverà fra un po’ ,basandosi sul fatto che ha ricavi di vendita maggiori di zero; attendiamo fiduciosi).

Il discorso si allaccia sempre alla reale natura della crisi finanziaria che si è manifestata dieci anni fa (ma le cui origini

risalgono a una decina d’anni prima), legata all’artificiale abbassamento dei tassi provocato dalle politiche monetarie eccessivamente espansive delle banche centrali (FED in primis, ma BCE e tutte le altre a ruota). I tassi più bassi hanno indotto il mercato a valutare sempre di più i beni da investimento (e quindi anche le aziende, oltre

agli immobili e alle obbligazioni a tasso fisso), e hanno quindi obbligato i periti a innovare in modo piuttosto ardito i tradizionali criteri di valutazione per inseguire i prezzi di mercato.

L’illogicità di capitalizzare in positivo un risultato operativo negativo è la stessa, vista da altra angolazione, riscontrabile nel considerare gli ammortamenti e gli accantonamenti come “autofinanziamento” aziendale.

Meglio, quindi, assicurarsi di aver compreso il concetto di autofinanziamento. Il prossimo punto ha questo fine.

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72. L’autofinanziamento aziendale

Al punto 69. si è detto che la parte di “valore aggiunto” che non va a remunerare i contributi offerti all’azienda dai dipendenti, dai finanziatori (sia a titolo di capitale di debito che di capitale di rischio) e dagli enti pubblici percettori delle imposte costituisce l’autofinanziamento dell’azienda, e questo autofinanziamento può essere suddiviso fra “proprio”, l’utile netto non distribuito ai soci, e “improprio”, a sua volta dato dagli ammortamenti e dagli accantonamenti.

In questo paragrafo c’è niente di nuovo: solo concetti già visti ma che qui ripropongo in forma un po’ diversa; lo faccio per dare, a quelli di voi che ancora capiscono poco la ragioneria, un’altra occasione per comprenderla; a chi, invece, ritiene di aver già raggiunto una solida preparazione, suggerisco comunque di non saltare il paragrafo: se è vero che tutto è stato già assimilato, la lettura di queste ulteriori righe avrà un benefico effetto

rilassante in grado anche di rafforzare le difese immunitarie (in chiave, soprattutto, antinfluenzale).

72a L’autofinanziamento proprio

Circa l’autofinanziamento proprio, poiché coincide con l’utile, se solo avete capito l’abc della ragioneria c’è nulla di particolare da osservare, nel senso che dovrebbe risultarvi chiarissimo il motivo per cui l’utile netto viene considerato “autofinanziamento”: quale voce del conto economico potrebbe far parte del “valore aggiunto” (cioè del valore prodotto all’interno dell’azienda e non quindi acquisito dalle aziende fornitrici) in modo più chiaro e legittimo dell’utile netto? (La domanda è da intendersi come retorica, dacché nulla più dell’utile, che è creazione di nuova ricchezza, merita di contribu ire al valore aggiunto e

alla funzione di fonte di finanziamento; insomma, la risposta alla domanda dovrebbe essere un forte, corale e convinto: “NESSUUUNAAA!!).

72b L’autofinanziamento improprio

Le perplessità, invece, sono legittime per quanto riguarda l’autofinanziamento improprio, cioè quello costituito dagli ammortamenti e dagli accantonamenti ai “fondi per rischi e oneri”; perplessità che, come in parte ho già scritto a pagina 47, nascono dal fatto che la logica vorrebbe che il valore aggiunto fosse al netto degli ammortamenti e degli accantonamenti, in quanto:

1) gli ammortamenti altro non sono che il costo per l’impiego di fattori produttivi (il computer, l’autocarro e tutti quegli

input destinati a fornire utilità per vari anni e il cui consumo, per semplicità, si registra solo al momento della redazione del bilancio con una scrittura

di assestamento) che, al pari delle materie prime e dei servizi, sono stati acquistati e perciò prodotti da altre aziende: non si capisce perché se acquisto un computer io debba evidenziare un valore aggiunto maggiore rispetto al caso in cui lo stesso computer lo abbia noleggiato. Il costo per ammortamento sostituisce quello per noleggio, ma la loro natura è sostanzialmente la stessa: si tratta pur sempre di utilità derivante dall’uso di una attrezzatura acquisita dall’esterno. E allora non si vede perché non eliminare anche l’ammortamento dal valore aggiunto, così come da esso, correttamente, si eliminano le spese per godimento beni di terzi.

2) gli accantonamenti ai fondi rischi e oneri (e, come già si è visto al punto 64., questi “fondi” sono pur sempre debiti, anche se hanno

la particolarità di essere incerti nell’importo e/o nel momento in cui provocheranno una esigenza finanziaria e/o nel soggetto creditore) nascono, come gli ammortamenti e tutte le altre scritture di assestamento, dall’esigenza di correggere prima della redazione del bilancio gli errori di imputazione di ricavi o di costi che consapevolmente si sono commessi durante l’anno registrando le operazioni d’esercizio in modo “semplificato”, utilizzando cioè quelle regole viste al n. 9. di pagina 4, e in particolare le “finzioni” descritte alle lettere d), e) e f). Ben conscio che il concetto può non esservi ancora chiarissimo, vi delizio con altri esempi: un paio relativo a errori di registrazione di ricavi e un paio a errori di registrazione di costi.

R1) errata registrazione di ricavi (sopravvalutazione): è il caso, ad esempio, dell’accantonamento per spese future dovute alla garanzia prodotti venduti: se nel 2017 la Nissan vende le auto garantendole per 5 anni, significa che ha già inserito fra i ricavi del 2017 anche i servizi di riparazione che sarà costretta a svolgere “gratuitamente” fino al 2022. Le riparazioni in garanzia non sono affatto gratis per i clienti, e ciò in quanto vengono pagate in anticipo nel momento dell’acquisto dell’auto.

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Infatti, se la Nissan avesse vendute le auto senza garanzia, si sarebbe dovuta accontentare di un prezzo di vendita inferiore, e quindi avrebbe dovuto contabilizzare nell’esercizio dei ricavi inferiori.

L’importo degli accantonamenti per rischi di questo tipo, quindi, bisognerebbe sottrarlo dal valore della produzione del 2017 e distribuirlo nel valore della produzione dei prossimi 5 anni, il periodo in cui verranno prodotti i servizi di riparazione il cui prezzo ho già considerato in anticipo tra i ricavi nel 2017. Se faccio così (ma

in realtài non si fa così), se cioè non tolgo dal valore della produzione 2017 quello dei servizi di riparazione (valore che ho

già preteso ma che non ho ancora prodotto) per poi distribuirlo fra i vari anni in cui effettivamente li eseguirò (dal 2018 al 2022), io gonfio indebitamente il valore della produzione del 2017 e deprimo quello dei cinque anni successivi. La logica vorrebbe, allora, che gli accantonamenti per rischi di questo tipo non rimanessero nel valore aggiunto del 2017, in quanto non sono nemmeno valore della produzione di quell’anno; è certamente più corretto togliere l’importo di questi accantonamenti dai ricavi di vendita piuttosto che, come invece in genere si fa, inserirlo fra i costi alla voce “accantonamenti”. Qui sotto trovate la scrittura di assestamento che rimedia agli errori di “gonfiatura dei ricavi di vendita” commessi in sede di scritture d’esercizio quando, durante l’anno, si registrarono le vendite: ve la propongo in due versioni: la prima è quella logicamente impeccabile (quella che farei io), mentre la seconda è quella che invece si deve fare nella realtà (perché imposta dal legislatore nell’osceno schema di conto economico previsto dal 2425 del c.c.) . L’ipotesi è che l’azienda stimi in 1.000.000 il costo che dovrà sostenere nei prossimi cinque anni per riparare “gratuitamente” i prodotti che ha venduto nel 2017 con garanzia quinquennale:

La scrittura di assestamento per il bilancio al 31.12.2017 che farei io è questa:

D Accantonamento a Fondo garanzia prodotti R A D Fondo spese x garanzia prodotti P A

| - 1.000.000 | 1.000.000

e il conto di reddito “Accantonamento a Fondo garanzia prodotti” confluirebbe (= andrebbe a finire dentro) nella voce “A” del valore della produzione (magari col numero 6) ) andando a diminuirla.

La scrittura di assestamento per il bilancio al 31.12.2017 che si fa realmente, per ossequiare la legge e anche per adeguarsi alle indicazioni (non impeccabili, a mio parere) dei principi contabili (vedi OIC n. 31 del dicembre 2016) è, invece:

D Accantonamento a Fondo garanzia prodotti R A D Fondo spese x garanzia prodotti P A

1.000.000 | | 1.000.000

e il conto di reddito “Accantonamento a Fondo garanzia prodotti” confluisce fra i costi nella voce “B”, al numero 13).

Il conto patrimoniale che recepisce la fonte di finanziamento è, in entrambi i casi, il medesimo: non c’è alcun dubbio, infatti, che la fonte è costituita dal debito nei confronti dei clienti che hanno già pagato un servizio che l’azienda deve ancora produrre.

Alla mia critica al modo in cui la legge e gli OIC impongono di annotare i costi futuri originati dalla garanzia prodotti (inserirli, cioè, come costi del periodo in cui si effettua la vendita e non come diminuzione dei ricavi) si potrebbe obiettare che il valore della garanzia pluriennale offerta va effettivamente ad aumentare il valore del prodotto e, pertanto, deve restare nel valore della produzione del periodo in cui il bene viene consegnato al cliente: il valore immesso sul mercato (e quindi il valore entrato nel patrimonio del cliente, la soddisfazione che ottiene dall’acquisto) comprende anche la tranquillità offerta dalla garanzia, perciò l’output generato è pari all’intero prezzo di vendita.

Questa interpretazione dei fatti mi pare abbia molto dell’arrampicatura sugli specchi (Hail Mary, albionicamente). Mi pare assai più lineare vedere l’impegno preso coi clienti con il nostro obbligo di riparazioni gratuite come un nostro debito nei loro confronti, debito originato dal pagamento anticipato di un servizio che ancora non abbiamo svolto. Quella parte del prezzo di vendita, pertanto, dovrebbe essere stornata dai ricavi e non inserita fra i costi.

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R2) Ancora errata imputazione di ricavi (sopravvalutazione): siamo a inizio 2018 in sede di preparazione del bilancio 2017. Nel maggio 2016 stipulammo con un cliente-rivenditore un contratto di 24 mesi in base al quale, alla scadenza, gli dobbiamo riconoscere un premio pari al 5% del valore dei suoi acquisti nel caso questi abbiano complessivamente superato, nel corso dei 24 mesi, gli 800.000 €. Il rivenditore ha acquistato per 200.000 € nel 2016 e per 400.000 € nel 2017, con un trend in leggera ma continua crescita. E’ quindi probabile, ma non certo, che nel 2018, alla scadenza del contratto, dovremo emettere una nota di accredito (cioè, in pratica, dovremo ridurgli i

prezzi a cui gli abbiamo venduto) di almeno 40.000 euro (il 5% di 800.000), e in questo caso 10.000 € (il 5% dei 200.000 € di

vendite 2016) servirebbero per correggere l’eccesso di fatturazione del 2016, e 20.000 quello del 2017 (il 5% dei

400.000). Il principio della prudenza (vedi pag. 7) ci impose di annotare fra i costi del 2016 questi 10.000 € e ci impone di inserire 20.000 € fra i costi 2017, “accantonando” tutto tra i debiti nel passivo dello stato patrimoniale (infatti, anche se messo fra i fondi rischi, è un probabile debito che abbiamo già maturato nei confronti del nostro cliente-rivenditore, e il saldo di questo

fondo dovrà essere di 10.000 al 31.12.2016 e di 30.000 al 31.12.2017).

C1) Errata imputazione di costi (sottovalutazione): il caso più frequente riguarda gli accantonamenti per la responsabilità civile del produttore, cioè per il rischio di dovere subire in futuro degli esborsi monetari a causa di indennizzi dovuti per il cattivo funzionamento di un bene da noi venduto. Se, ad esempio, vendo nastri trasportatori e ho ragione di temere che qualcuno dei miei prodotti già venduti possa, per un difetto di costruzione, provocare un temporaneo fermo produttivo a qualche mio cliente e quindi la legittima sua pretesa di essere da me indennizzato per il danno subito, io devo considerare questo possibile costo futuro, anche se incerto, come un componente negativo di reddito di competenza dell’esercizio, ad esempio il 2017, in cui ho contabilizzato la vendita del nastro trasportatore difettoso.

Se avessi stipulato una buona polizza d’assicurazione R.C.P. (Responsabilità Civile Prodotti) pagando ad esempio 50.000 € di premio, non dovrei più considerare questo rischio (e quindi non dovrei inserire l’accantonamento fra i costi del conto economico

2017 e nel passivo dello stato patrimoniale al 31.12.2017), ma in cambio nel conto economico ci sarebbe, fra i costi del 2017, il premio assicurativo pagato di 50.000 € e nello stato patrimoniale maggiori debiti o minore liquidità (se, come è

la regola, il premio assicurativo è pagato anticipatamente) per 50.000 €. L’“accantonamento al fondo rischi” ha la stessa natura economica di un acquisto di un servizio assicurativo, essendo costi dall’identica funzione: quella di mettere in grado l’azienda di fronteggiare eventi negativi futuri e incerti causati da attività già svolte; ma nonostante questo, nella prassi generalmente adottata il premio di assicurazione riduce il valore aggiunto e l’accantonamento no (analogamente a quanto già visto con noleggio e ammortamento).

C2) Ancora errata imputazione di costi (sottovalutazione): l’ufficio marketing, per promuovere le vendite e contemporaneamente fidelizzare la nostra clientela, ci ha convinto di dare inizio nell’ultimo trimestre del 2017 a una “operazione a premio”. Ci siamo così impegnati a consegnare dei regali (peluche di personaggi Disneyani) ai clienti che entro il 30 giugno 2018 avranno raccolto sufficienti prove d’acquisto dei nostri prodotti. Al momento di fare il bilancio del 2017, non sapendo quanti ce ne saranno richiesti, non abbiamo ancora provveduto all’acquisto dei peluche; è però innegabile che abbiamo già maturato, per le vendite dell’ultimo trimestre, l’impegno alla consegna di un numero imprecisato di peluche, e questo impegno è un debito che già abbiamo il 31 dicembre 2017 nei confronti della nostra clientela. Ecco allora che dobbiamo inserire nel conto economico, fra i costi del 2017, il valore dei peluche collegabile alle vendite 2017 e, nel passivo patrimoniale, dobbiamo immettere nella voce “Fondi spese” quel debito che dovrò stimare con prudente buon senso”.

In effetti, la ragione per la quale gli ammortamenti e gli accantonamenti non si sottraggono al valore della produzione ma si considerano tra i costi e solo verso la fine del conto economico, lasciandoli quindi sia nel valore aggiunto sia nel MOL (EBITDA), in realtà è soltanto riconducibile al fatto che tali costi non sono monetari, nel senso che a questi componenti negativi di reddito non è collegabile, nel periodo che ci interessa al fine del bilancio (periodo in cui sono maturati) alcuna uscita monetaria: nel caso degli ammortamenti l’uscita monetaria è relativa all’acquisto della immobilizzazione, e quindi è stata registrata in un precedente esercizio; nel caso dell’accantonamento a fondo rischi o oneri l’uscita monetaria la si avrà in un esercizio successivo, quando si dovranno sostenere le spese (nei quattro esempi fatti: per le riparazioni in garanzia, per il premio di raggiungimento budget, per

l’indennizzo del danno provocato e per l’acquisto dei peluche).

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Questo è il motivo per cui molti considerano gli ammortamenti e gli accantonamenti una forma di autofinanziamento aziendale, seppure aggiungendo, per pudore, l’aggettivo “improprio”. In sintesi, ciò che più mi infastidisce della terminologia adottata e del modo in cui si evidenziano in bilancio questi componenti reddituali è:

per gli ammortamenti, il fatto di far rientrare nel “valore aggiunto” un valore che l’azienda non ha per nulla aggiunto con la sua risorse “interne” ma, al contrario, ha acquisito dai fornitori delle immobilizzazioni tecniche. In questo modo, tra l’altro, si contribuisce a confondere il povero studente ancora intento a chiarirsi le idee in merito alla distinzione fra aspetto economico e finanziario della gestione.

per gli accantonamenti, il fatto di considerare fra i costi dell’esercizio la mancata produzione di ricavi già incassati. Se ho già inserito fra i ricavi il valore di servizi (di garanzia, di assicurazione o altro) che non ho ancora prodotto, la correzione più opportuna non è aggiungere tra i componenti negativi di reddito i costi che finanziariamente si manifesteranno in futuro quando produrrò quei servizi; meglio correggere andando a diminuire i ricavi (se lo si fa con i risconti passivi, perché non farlo anche in questi casi?) per un importo pari al costo che ritengo dovrò finanziariamente sostenere in futuro per loro produzione.

73. Breve sintesi di quanto fatto fino a ora e rinvio al libro (pagg. da 108 a 137)

Partiti da un rapido ripasso del concetto di valore e delle basi di contabilità e partita doppia, abbiamo subito dopo constatato che se vogliamo avere un’idea di come è e come va l’azienda Pinca Pallina il più delle volte abbiamo a disposizione – se non siamo in una posizione “interna” privilegiata – solo il suo bilancio ufficiale depositato al Registro Imprese della CCIAA;

poi ci siamo avventurati in un’entusiasmante esplorazione dei criteri di valutazione e dei principi contabili su cui devono essere basati i valori di bilancio (con annessa mia polemica contro la deriva perfettista della moderna dottrina

aziendalistica, un mio presuntuoso tentativo di convincervi che i dinosauri a volte hanno ragione), e vi ho illustrato la forma imposta dal legislatore allo stato patrimoniale e al conto economico che devono essere resi pubblici;

abbiamo poi visto che, essendo il bilancio pubblico strutturato in modo piuttosto penoso (per le infelici scelte

del legislatore, in particolare in relazione al conto economico), è necessario rielaborarlo procedendo alla “riclassificazione”, sia dello stato patrimoniale sia del conto economico, anche utilizzando le informazioni leggibili nella nota integrativa e nella relazione degli amministratori (anch’essi documenti facenti parte del bilancio);

abbiamo poi verificato come la riclassificazione dello stato patrimoniale consista essenzialmente nell’ordinare in modo più chiaro le voci dell’attivo e delle fonti in funzione – rispettivamente – della loro liquidità e della loro esigibilità;

abbiamo dedicato più tempo alla riclassificazione del conto economico perché i limiti informativi del conto economico ufficiale sono più gravi di quelli dello stato patrimoniale (il cui schema imposto dalla legge è già

sostanzialmente ordinato in base alla liquidità dell’attivo e alla esigibilità delle fonti), derivando questi limiti informativi (intendo

quelli del conto economico “civilistico”) anche dal fatto che non essendoci una chiara distinzione fra componenti reddituali della gestione tipica (o caratteristica) e quelli invece della gestione atipica (extra-caratteristica) e nemmeno essendoci distinzione fra componenti reddituali straordinari (occasionali, non ripetibili) e ordinari (abituali,

frequenti), non è possibile leggere i tre risultati intermedi del: 1. Valore aggiunto; 2. EBITDA (o margine operativo lordo); 3. EBIT (o risultato operativo). Per superare tali limiti si deve quindi ricostruire il conto economico nella forma scalare “a valore aggiunto”.

Infine, anche per un altro utile ripasso dei concetti di base ragionieristici, ci siamo soffermati sul concetto di autofinanziamento (proprio e, soprattutto, improprio).

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E’ ora, quindi, di parlare di “indici di bilancio”, ma a parlare, questa volta, sarà soprattutto il libro. Io mi limito a poche righe introduttive. Sul libro troverete le definizioni di vari indici e di alcuni margini.

Gli indici sono dei rapporti fra due grandezze, e così gli “indici di bilancio” sono rapporti fra due dati del bilancio. Per poter trovare un rapporto (ratio, in inglese) occorre, e non ci vuole Newton per capirlo, conoscere il numeratore e il denominatore. Quasi mai, però, i dati più utili da mettere in rapporto sono esplicitamente

segnalati nel bilancio depositato, e quindi questi dati li si legge più spesso nel bilancio riclassificato.

Di indici se ne possono calcolare a cariolate, essendocene tantissimi e di vari tipi: ci sono indici che mettono in rapporto due valori entrambi dello stato patrimoniale, oppure due valori entrambi del conto economico, ma vi sono anche indici costituiti dal rapporto di un valore indicato nello stato patrimoniale e un valore presente nel conto economico o viceversa. Il risultato di ognuno di questi rapporti potrà essere indicativo dell’andamento economico, oppure della condizione patrimoniale o di quella finanziaria dell’impresa (1), ma una cosa deve essere ben chiara:

nessun indice, da solo, è adeguatamente significativo!

Ogni indice, infatti, deve essere interpretato e valutato sia in una visione d’insieme, cioè con gli altri indici (relativi alla stessa azienda) ad esso correlati, sia in una visione dinamica, cioè osservandone l’andamento nel tempo, in modo da comprendere in quale direzione si sta muovendo l’impresa, e, infine e facendo confronti con i valori medi di aziende analoghe, in una visione spaziale, nell’ipotesi, ovviamente, che siano disponibili dati attendibili di un numero sufficientemente ampio di aziende simili per settore di attività e per dimensione.

Altre informazioni su cui basare il giudizio sull’azienda ci possono essere offerte dai “margini”. Così come gli indici sono dei rapporti fra valori di bilancio, i margini sono delle differenze: differenze fra due valori dello stato patrimoniale (e questi sono i margini di struttura e i margini finanziari) oppure differenze fra dati del conto economico (e alcuni di questi

ne abbiamo già conosciuti: il valore aggiunto, il margine operativo lordo, il risultato operativo). Leggendo il libro trovate, da pagina 108, tante interessantissime notizie sugli indici e i margini. Prima di tuffarvi avidamente nella lettura sappiate, comunque, che gli indici e i margini che troverete lì sono solo quelli di più frequente utilizzo; non esiste, infatti, alcun elenco “ufficiale” di indici e margini da utilizzare (tanto è vero che per ognuno

di essi si usano tanti nomi diversi, e questo è per voi una complicazione in quanto dovrete imparare i vari sinonimi): ognuno si va a calcolare i rapporti (gli indici) e le differenze (i margini) che più ritiene interessanti, magari anche inventandosene dei nuovi, nel caso ritenga utile conoscere quel valore.

(1) L’aspetto finanziario di un’impresa è, per come lo intendo io, una parte del più generale aspetto patrimoniale, e precisamente la parte che riguarda gli elementi patrimoniali costituiti da crediti, liquidità e debiti.