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Il Bene e il Male nell’Uomo I Una Riflessione sulla Struttura antropologica dell’Essere Umano, sulla sua Grandezza e sui suoi Limiti

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Il Bene e il Male nell’Uomo I

Una Riflessione sulla Struttura antropologica dell’Essere Umano,

sulla sua Grandezza e sui suoi Limiti

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Del Male I

• Secondo la comune accezione il male è il contrario del bene, cioè si oppone al bene come un qualche cosa che lo impedisce o lo contrasta, per un'immediata intuizione dell'atto umano come non buono. Si può dire che si tratta di un significato accettabile, anche se incompleto, perché del male, come dei correlati concetti filosofici, etici, religiosi e giuridici citati nel titolo, si possono e si debbono chiarire anche altre dimensioni.

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Del Male II

• Più precisamente, vi è opposizione di contrarietà tra virtù e vizio, cioè gli habitus (disposizione stabile dell'animo umano orientata al bene o al male), che fondano le azioni umane rispettivamente buone o di malizia. Possiamo dire che l'idea del male è presente nella legge naturale che ogni uomo ha inscritto nel "cuore" (cuore è qui inteso secondo il significato semitico di "centro della persona"), così come è nozione ammessa in tutte le culture, filosofie e religioni.

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Del Male III

• Nel manicheismo (da Mani) filosofia religiosa proveniente dall'altopiano iranico e molto diffusa ai tempi del primo cristianesimo, insieme con lo zoroastrismo e il mazdeismo, vi è una concezione talmente dualistica della realtà, che prevede perfino l'esistenza, accanto a un Principio o Dio del Bene, di un Principio del male, che così condizionerebbe la volontà umana piegandola al male stesso.

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Del Male IV

• Dopo Aristotele, che sarà recuperato prima da Boezio e successivamente da san Tommaso, l'analisi più approfondita sulla questione del male viene filosoficamente sviluppata da sant'Agostino. Il Dottore d'Ippona, partendo dalle giovanili posizioni manichee, che forse nel substrato del suo pensiero conserverà a lungo, tratteggia un'analisi sul principio del male che costituirà in seguito la base, sia per il pensiero morale di Tommaso, che per la riflessione moderna e contemporanea

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Del Male V

• (e nella linea neo-tomista di un Maritain o di un padre Fabro, che nella linea induzionista-riflessiva di Cartesio, Kant, Husserl, Heidegger, Edith Stein, ma anche dello stesso Sartre). Sant'Agostino concepisce il male secondo tre gradi o dimensioni: il male metafisico, il male morale e il male fisico, reciprocamente in qualche modo collegati e interdipendenti.

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Del Male VI

• Attenzione, però, al linguaggio, che è strettamente filosofico: il male metafisico è l'"imperfezione", nel senso che ogni res umana, ogni atto umano, ogni modo dell'"essere" (nella duplice accezione di infinito sostantivo e di principio di analogia) umano, è limitato, defettibile, perfettibile, incompleto, o errato, colpevole, e via dicendo. E dunque, in questo senso il male é da intendersi come "non essere", come deficienza di bene. Il male metafisico è quindi un "non essere" oggettivo, ineliminabile, appartenendo esso alla stessa natura delle cose umane.

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Del Male VII

• Vi è poi il male morale, che è quello che più interessa le azioni umane. Il male morale è il non conformare l'agire pratico alla legge naturale, che è conforme alla legge divina. Fin qui il filosofo africano. Più ancora San Tommaso, soprattutto nella Somma teologica, sviluppa la morale delle virtù, riprendendo Agostino nello schema delle Etiche aristoteliche (soprattutto la Nicomachea), e sostenendo che, se la volontà umana si conforma all'intelletto delle cose, non può non agire virtuosamente, guidata dalla prudenza (che è recta ratio agibilium), la quale sovrintende alle altre virtù (oggi diremmo valori o qualità).

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Del Male VIII

• E' una visione un po' strana, forse, per la contemporaneità, dove si combattono una morale dell'obbligo, della colpa e del peccato, e una morale, spesso amorale, del relativo e del contingente (si veda la impostazione neo-radicale, che è un po', purtroppo, trasversale, nelle sinistre politiche). Il male morale, dunque, per Agostino suppone la colpa e il peccato, che è un "mancare" verso Dio e verso il prossimo.

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Del Male IX

• Suppone una responsabilità che è insita nell'umano libero arbitrio. In altre parole, Dio non impedisce il male, pur conoscendolo nella sua prescienza, perchè all'uomo è data costitutivamente la libertà di scelta. Vi è infine il male fisico, la malattia, la sofferenza in tutti i suoi gradi, che appartengono al modo d'essere del vivente (le piante), sensibile (gli animali), sensibile e razionale (l'uomo), che sono imperfetti e mortali. Nell'uomo, il male fisico può essere anche inteso come conseguenza del male morale, ma senza che fra i due mali vi sia un rapporto di causa-effetto.

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Del Male X

• Ciò è particolarmente evidente nei mali dello spirito, nelle sofferenze interiori, nelle somatizzazioni dei sensi di colpa (qui non intesi come nevrotizzazioni), che non sono da rimuovere, ma sono da verificare alla luce della coscienza morale.

• Per ciò che concerne il peccato, che presuppone la colpa derivante dal libero esercizio della volontà, si può dire che si tratta di un principio di valutazione morale, che lede la natura, la coscienza, e la "legge",

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Del Male XI

• e che è presente in ambedue le Tradizioni cui fa riferimento la nostra cultura e la nostra scienza etica, sia quella greco-latina, che quella giudaica. Nella Bibbia (si veda ad esempio Esodo 23, 21 e Isaia 1, 2) il riferimento al peccato è verbalmente amplissimo, constando di oltre trenta etimi, i cui principali si trovano nelle aree semantiche di infedeltà (mà'al), di "oltrepassamento" (àbar), e ingiustizia-violenza (àwel), ma vi è anche il concetto generale del peccato come di un senso di fallimento (àwòn, letteralmente: mancare il bersaglio).

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Del Male XII

• Nei Vangeli sinottici e di san Giovanni, e in san Paolo (si veda Lettera ai Romani), i lessemi greci rinviano a concetti e significati analoghi, poiché, per ingiustizia troviamo adichìa (dalla radice di dichaiusìne, giustizia), e amartìa per peccato di infedeltà. Nell'etica greca e latina (Platone, Aristotele, Seneca, Marco Varrone, Cicerone, Marco Aurelio) così ben studiata da Agostino e Tommaso, troviamo, sia pure senza la dimensione soprannaturale della rivelazione cristiana, un'impostazione che possiede ampie corrispondenze soprattutto nell'ambito morale connotato dall'azione delle virtù e degli opposti vizi.

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Del Male XIII• In ambito cristiano si mantiene dunque un'impostazione legata al

valore della fedeltà a Dio, la cui negazione (aversio a Deo, conversio ad creaturas: allontanamento da Dio per scegliere i beni finiti, cioè le creature) porta al peccato, cioè all'"atto umano cattivo", a tutti i peccati, sia contro se stessi che contro gli altri. Agostino diceva anche: “Pecca fortiter”, perché la redenzione sarà più profonda.

• Ricapitolando possiamo dire: il male di per sé non è come principio, ma esiste ed è conseguenza della responsabile e libera azione dell'uomo, che di sé decide, anche quando agisce verso gli altri, perché in fondo ogni "peccato" è di omissione alla propria umanità. Cioè di rifiuto della possibilità di essere intelligenti.

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Le multiformi facce del male I

• Se leggiamo il Padre Nostro, al capitolo VI del vangelo di Matteo, versetti da 1 a 9, troviamo l’espressione, all’ultimo versetto “(…) ma liberaci dal male (…)”. In greco l’espressione “πονερός” (poneròs) si può intendere sia nel senso di “male” sia nel senso di “maligno”, quindi di personalizzazione del male.

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Le multiformi facce del male II

• Eugenio Montale si pone il problema del male in una sua celeberrima lirica “Spesso il male di vivere ho incontrato/ era il rivo strozzato che gorgoglia/ era l’incartocciarsi della foglia, riarsa,/ era il cavallo stramazzato. (…)”. Si noti la durezza ricercata delle consonanti. Come si può constatare vi è un emergere del senso del male persino nell’espressione vitale della poesia somma, così come nel pensiero dei grandi filosofi: in Severino Boezio (VI sec.”(…) si Deus est unde malum, et si non est unde bonum?”, cioè se Dio c’è da dove proviene il male, e se non c’è come si può concepire il bene?.

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Le multiformi facce del male III

• Ma, se ci si chiede che cosa sia il male, ci si deve anche mettere d’accordo circa ciò che sia il bene.

• La dottrina tradizionale (di Platone, Aristotele, sant’Agostino, san Tommaso d’Aquino) ci spiega che il Bene coincide con l’Essere, e anche con il Bello. “Verum, Bonum et Puchrum convertuntur”, vale a dire “Il Bene, il Vero e il Bello si convertono l’uno nell’altro”. Sono i famosi “trascendentali” della metafisica.

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Le multiformi facce del male IV

• Ma il Bene, se coincide con l’Essere non è detto che qualsiasi bene sia tale per chiunque, per me, per te, per l’altro. Il bene deve essere ordinato al Fine, cioè all’Uomo, se possibile illuminato dalla Grazia (divina).

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Le multiformi facce del male V

• E dunque, a questo punto si pone l’esigenza di un’Etica. Ma quale Etica? Anche l’etica va qualificata: innanzitutto come scienza, cioè “conoscenza certa (soggettivamente) ed evidente (oggettivamente) (…), e poi va qualificata: si tratta di utilitarismo (John Stuart Mill, Jeremy Bentham e liberalismo classico), di edonismo (marketing contemporaneo), di proibizionismo (teorie e prassi penitenziali post – tridentine), di deontologismo (meramente professionale), di emotivismo (Nietzsche e modernità) o di un’Etica del Fine (l’Uomo)? Cioè di un eudemonismo teleologico: come un tendere alla felicità (sempre sfuggente), ma nella prospettiva di un fine di vera autorealizzazione dell’Ente Uomo.

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Le multiformi facce del male VI

• Tornando al Male, esso si può configurare come metafisico, morale e fisico - come dolore e morte (sant’Agostino e Gottfried Leibniz).

• Il male metafisico è la “defectio boni” cioè una mera mancanza di un bene, una mutilazione dell’Essere.

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Le multiformi facce del male VII

• Il male morale si configura, invece, nel peccato (religiosamente) e nella colpa (laicamente).

• Il peccato (colpa) è un “mancare il bersaglio” (tradizione semitica), un “commettere ingiustizia” (tradizione greco-latina).

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Le multiformi facce del male VIII• Il peccato si commette indulgendo nei vizi, a partire dal caput

vitiorum (origine dei vizi), secondo san Gregorio Magno ed Evagrio Pontico, della SUPERBIA (soprattutto se intellettuale o spirituale, il peccato del satana e dell’uomo che ritiene di bastare a se stesso), e continuando con l’AVARIZIA, l’INVIDIA, la LUSSURIA, la GOLA, l’IRA (la quale, però, se si configura come passione e non come collera distruttiva, può diventare utile per superare ostacoli e prove ardue), l’ACCIDIA, cioè il male di vivere, che oggi chiameremmo “depressione”, e rifuggendo le quattro principali virtù (qualità virili, secondo l’etimologia greco-latina di α΄ρητή, aretè, e virtus) umane, o morali (come da elenco risalente a Platone, poi ripreso dai Padri della chiesa):

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Le multiformi facce del male IX

• PRUDENZA (come connectio virtutum, o giusto equilibrio dell’agire umano), GIUSTIZIA (in tutte e tre le sue dimensioni: generale, di scambio e distributiva), FORTEZZA (o coraggio), fomite della pazienza, e TEMPERANZA, o misura della qualità del vivere individuale.

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Le multiformi facce del male X

• Ancora, circa il “male”, lo troviamo come “radicale – radicato” nell’uomo (in Immanuel Kant), e pertanto, per il grande solitario di Könisberg, deve essere combattuto con l’impegno individuale al rispetto delle regole: “(…) fai in modo che la massima del tuo agire possa costituire legislazione universale” (Critica della ragione pura pratica); in Dostoievskij, in personaggi come Rask’olnikov di “Delitto e castigo”, in R.L. Stevenson “Doctor Jekill (la faccia rassicurante del “bene”) e Mr Hyde (la faccia angosciosa del male)”; in Leopardi come “pessimismo cosmico”; nel libro biblico di Giobbe, là dove il satana ha perfino un posto dialogante alla “corte di Dio”.

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Le multiformi facce del male XI

• San Tommaso d’Aquino, nella quaestio disputata “De malo” (il male), spiega come esso si possa configurare come conseguenza di ignoranza (colpevole o incolpevole), di debolezza, e di malizia, annettendo a questa ultima la maggiore gravità e responsabilità nell’ambito di un atto umano libero.

• Il male peccaminoso radicale, per il Doctor Angelicus si configura come atto compiuto con caratteristiche di “materia grave” (ad es. omicidio, stupro, pedofilia, etc..), “piena avvertenza” (salute mentale, consapevolezza e lucidità psicologica) e “deliberato consenso” (libertà di agire).

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Le multiformi facce del male XII

• In tutte le culture, infine, sia del bacino mediterraneo, sia nordiche, sia orientali, vi sono “luoghi di espiazione”, l’inferno, abitato dal separatore (il greco dià-bolos – διάβολος, l’ebraico satàn, l’arabo al-shaitaan), che comunque, con la sua azione di persuasore, attenta sempre alla lucidità mentale dell’uomo, dis-orientadolo verso il male. E talvolta, pare, anche secondo recentissimi studi comparati e integrati, di psichiatria e demonologia, addirittura, possedendolo, come potenza che governa, a tratti, la stessa personalità individuale.

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Le multiformi facce del male XIII

• E’ consigliabile, pertanto, stare lontani dalle cosiddette “porte del maligno”, che sono lo spiritismo, i vari occultismi, comprese le magie, che, in quanto “e-vocative” e non “in-vocative” come la preghiera umile, sono sempre pericolose, il satanismo in tutte le sue forme, e da tutte quelle culture sincretistiche, modaiole, che pretendono di semplificare la grande questione del bene e del male, applicandovi criteri cognitivi irrazionali ed approssimativi.

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Istinti, Passioni, Ragione I

• L'uomo agisce inizialmente con azioni i cui moti sono istintivi, quasi come quelli degli animali. L'impulso a dare un pugno sul naso di chi mi offende, fa il paio con l'artiglio veloce del gatto che mi scoraggia a tormentarlo ancora. Questi atti si chiamano moti primi-primi, o pulsioni pre-riflesse, o gesti istintivi.

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Istinti, Passioni, Ragione II

• Non hanno rilevanza morale di sorta, anche se possono averne di giuridica e penale. In questo caso, pur se il diritto si deve fondare sull'etica, esso interviene là dove l'etica resta ancora un "attimo in attesa", perché essa deve interrogarsi innanzitutto se vi siano nel soggetto agente cattive intenzioni, mentre il diritto deve sanzionare comunque la violazione oggettiva.

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Istinti, Passioni, Ragione III

• Gli impulsi talvolta sono irresistibili, e quindi vanno messi nel conto del normale agire umano. Risulta dalle biografie di tante persone virtuose, che comunque ebbero i loro momenti d'ira, cui seguiva solitamente una fase di ripresa dell'autocontrollo.

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Istinti, Passioni, Ragione IV

• Poi abbiamo i moti primi-secondi, passioni o emozioni. Inizia l'area del cosiddetto "governo politico" della ragione, o coscienza, sulle passioni che spingono per un'agire immediato e forte. Qui la ragione, guidata dalla prudenza, dovrebbe possibilmente "limitare i danni", se proprio non riesce a governare. Ma spesso non riesce. Perché le passioni sono principi forti, fortissimi.

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Istinti, Passioni, Ragione V

• La tradizione filosofica ne propone addirittura undici, che qui non elencheremo, poiché si possono riassumere in due grandi generi: le passioni legate al principio dell'irascibile (uno dei due cavalli che secondo Platone trainano la vita di ogni uomo, e che debbono essere controllati e guidati dall'anima razionale), e al principio del concupiscibile (l'altro "cavallo").

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Istinti, Passioni, Ragione VI

• All'irascibile si annettono tutte le passioni correlate ai moti d'ira, collera, esercizio del coraggio nell'affrontare prove ardue: l'esercizio della sua moderazione è aiutato dalla fortezza, che induce a controllare lo slancio e ad avere pazienza. Molti aspetti e circostanze dell'esercizio dell'irascibile sono da considerare positivi: basti pensare a tutte le volte in cui si è chiamati a superare degli ostacoli e a vincere la paura.

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Istinti, Passioni, Ragione VII

• Al concupiscibile ineriscono invece le passioni legate al desiderio di possesso, di qualsiasi specie lo intendiamo: il potere, i beni, il sesso fine a se stesso, le altre persone. Concupire è brama di acquisizione di dominio sulle cose e sugli altri. Come si vede, ognuna di queste due grandi pulsioni concorrono a rendere difficile il rapporto dell'individuo con le altre persone e con le cose. Si può dire, a titolo esemplificativo, che Bush e Saddam sono stati, sia pure in condizioni molto diverse, presi in modo irresistibile dalle stesse passioni: l'uno per dimostrare al mondo la propria primazia, a qualsiasi costo, l'altro per tentare di continuare ad essere un "re pastore", padrone del popolo, crudele e spietato.

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Istinti, Passioni, Ragione VIII

• Da ultimo, e soprattutto vi é la ragione, o coscienza, o luce dello spirito. Lì c'é una sorta di "risonanza ontologica dell'uomo", una specie di manifestazione dell'essere dell'uomo quale non si trova in nessun'altra facoltà sottostante. Si può dire che la ragione denota l'uomo differenziandolo in modo radicale dagli altri animali. La ragione, non solo accede alla conoscenza razionale, tramite i tre livelli dei processi astrattivi, dell'esperienza e delle scienze fisiche, della matematica e della metafisica, ma è il "luogo" nel quale risuona quella che si può chiamare "voce della coscienza" o della "legge morale naturale".

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Istinti, Passioni, Ragione IX

• E' un luogo che può essere pieno di vita, cioè di idee, ragionamenti, deduzioni, intuizioni, oggetti d'immaginazione, interpretazioni, ipotesi, scelte, decisioni di esercizio della volontà, ma anche luogo di silenzio, esperienza di deserto, là dove ci può essere spazio per l'indagine più intima sulle scelte morali. Che però sono sempre passibili di essere fuorviate, poiché resta rilevante la pressione dell'inconscio e delle passioni: ricordiamo anche che l'uomo non può avere mai una conoscenza completa di sé, poiché molto di questo sé resta inespresso o inesprimibile, nascosto, ottenebrato e ambiguo.

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Istinti, Passioni, Ragione X

• Le 11 passioni sono da considerare in 5 coppie e una separata:

• Amore/Odio,• Desiderio/Fuga (o Repulsione)• Piacere/Dolore• Speranza/Disperazione• Gioia/Tristezza• Ira

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L'Invidia, la Gelosia, il Desiderio, il Destino I

• L'invidia deriva dal verbo latino in-vidère, cioè un "vedere contro", considerare inviso a se stessi l'altro. E', dunque, propriamente un "diventare ciechi", incapaci di valutazione oggettiva, razionale.

• Vizio capitale, come è stato considerato da Evagrio Pontico (IV-V), da papa san Gregorio Magno (VI-VII), da san Simeone il Nuovo Teologo (X), da Gregorio Palamas (XIV) nell'ambito della dottrina morale classica, propriamente significa malevolenza nei confronti degli altri, a cui, volendo male, si auspica (e talvolta si opera affinché) perdano i beni posseduti.

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L'Invidia, la Gelosia, il Desiderio, il Destino II

• Guardiamoci in giro, anche in questo nostro Friuli Venezia Giulia: quanto diffusa è l'invidia! La vediamo trapelare da ogni anfratto vitale: nella politica tra i politici e gli aspiranti tali per questioni di potere e di "spazi vitali"; nella vita sociale dei piccoli paesi ("chissà cosa vuole quello, chissà chi crede di essere", talora solo perché qualcuno desidera ragionare con il proprio cervello); tra le popolazioni della regione con l'eterna, inutile, oramai penosa diatriba sulle specificità; nelle professioni; tra i parenti più stretti.

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L'Invidia, la Gelosia, il Desiderio, il Destino III

• La gelosia, invece, è un sentimento umanissimo e profondamente diverso dal vizio dell'invidia. Per alcuni aspetti è un sentimento anche positivo, soprattutto se serve da stimolo alla crescita personale, per imitare i migliori. E' altamente plausibile anche nei rapporti affettivi maschio-femmina. In qualche modo costituisce la misura di un interesse per l'altra persona, poiché se in amore non vi fosse neppure un pizzico di gelosia vi sarebbe motivo di dubitare dell'amore stesso. Anche in questo ambito, comunque, bisogna tenere conto della misura, poiché un eccesso di gelosia si configurerebbe come forma nevrotica.

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L'Invidia, la Gelosia, il Desiderio, il Destino IV

• Il desiderio è primariamente da de-sidera (lat.: quasi un moto da luogo strumentale, letteralmente significa "dagli astri"). Il desiderio nasce dall'esigenza, tutta umana, di possedere il bene e su ciò essere rassicurati, e così conoscere il proprio futuro. Per questo, fin dall'antichità ha avuto largo seguito il sapere dei sacerdoti astrologhi in Mesopotamia e in Egitto, impegnati a concordare i destini e gli atti umani con i moti degli astri, degli haruspices in Grecia e a Roma, che divinavano il futuro osservando il fumo dei sacrifici e le interiora degli animali sacrificati, degli sciamani e stregoni africani, siberiani e americani, adusi alle droghe e ai vaticini richiesti ai defunti.

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L'Invidia, la Gelosia, il Desiderio, il Destino V

• Ma il desiderio è anche una passione che si oppone alla passione contraria, che è la paura, la quale determina la fuga del soggetto, prima desiderante. Desiderio e fuga sono contrastanti e nel contempo si attraggono, perché spesso, quando il desiderio-passione viene temperato dalla prudenza, ecco che vi sono momenti di stasi, nei quali la persona non si sa decidere, non ha la forza sufficiente per prendere una strada o l'altra, non riesce a discernere ciò che sia il bene-vero per sé. Questa è la quaestio principalis: sapere ciò che sia il bene-vero per sé.

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L'Invidia, la Gelosia, il Desiderio, il Destino VI

• Qui confliggono le varie morali: soprattutto quella delle virtù che individua il bene nel proprio fine, e quella relativistico-utilitarista, cioè della scelta come convenienza hic et nunc. La cesura fondamentale fra le etiche è tra una scelta per un qualcosa che possa rispondere ad una legge universale di giustizia e di realizzazione del fine buono particolare, e un'etica che risponde solo alla convenienza del momento, senza porsi questioni di principio, un'etica dunque che si affida alla cultura prevalente o alla legislazione storicamente data: un'etica di questo genere è la stessa che riteneva normale che gli Spartani operassero una eugenetica verso i fragili.

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L'Invidia, la Gelosia, il Desiderio, il Destino VII

• Destino deriva forse dal greco epistème - ̉ή, scienza, come a significare un qualcosa che è solido, che sta lì (ancora dal greco upò ìsthemi - ̉ ̀ ̉�, stare sopra, consistere), e dunque non se ne può prescindere. Vi è quella particella infissa "ste-sti" che dà il senso all'ipotesi che propongo. Il destino lo si ritiene di solito ineluttabile, come se qualcuno avesse pre-scelto per noi il percorso esistenziale e i suoi esiti, e finanche, ab initio, le nostre inclinazioni o vocazioni. Ciò è implausibile, se non sotto due prospettive specifiche: quella della concausalità materiale e quella della prescienza divina.

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L'Invidia, la Gelosia, il Desiderio, il Destino VIII

• Per concausalità materiale si intende che tutti gli eventi sono tra loro collegati, per cui talora ci sembra che le cose siano guidate dal caso, mentre invece, se potessimo accedere ad una meta-visione del tutto, ci accorgeremmo che ogni atto, fatto, evento, dipendono da una serie di concause spesso non evidentemente concatenate: ad esempio, sul lavoro scatta una promozione perché il capo precedente, inopinatamente, si dimette.

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L'Invidia, la Gelosia, il Desiderio, il Destino IX

• Circa la prescienza si presuppone il dato della fede in Dio. Come spiega benissimo sant'Agostino nel De libero arbitrio, solo Dio, che ha la visione del tutto, conoscendo tutto, vede anche ciò che per noi uomini appartiene a ciò che ancora non ha (per il momento) l'essere, cioè il futuro.

• Per il resto sussiste e funziona il nostro libero arbitrio individuale, che è la radice della responsabilità morale degli atti che compiamo.

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La Cupidigia I

• San Gregorio Magno, grande papa del sesto secolo, considera la cupidigia, detta anche avarizia, come uno dei due fomiti principali degli altri vizi, insieme con la superbia, confortato dall'opinione di sant'Agostino, il quale chiama concupiscenza tutte le inclinazioni dell'uomo che lo portano ad "idolatrare" beni finiti, beni terreni, il loro possesso e dominio. L'idolatria, il denaro, il potere sono collegati, perché il denaro e il potere, se assurgono a fine supremo, diventano idoli cui si sacrifica tutto, anche i veri beni, che sono quelli spirituali, le virtù morali e il rapporto che abbiamo con Dio e gli altri.

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La Cupidigia II

• San Bernardo di Clairvaux specifica nel dettaglio la consecutio vitiorum, soffermandosi specialmente sulla superbia, come primo dei vizi, definendola caput vitiorum, e analizzandola in dodici modi scalarmente più gravi, con Gregorio e con san Tommaso d'Aquino: "appetito disordinato della propria eccellenza". San Bernardo sostiene che il più grave moto di superbia é la ribellione esplicita a Dio, come quella di Adamo e di Lucifero, ma il suo inizio sta nei primi moti dell'autocompiacimento di se stessi.

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La Cupidigia III

• Il primo comandamento "Io sono il Signore Dio tuo, non avrai altro Dio, il settimo "non ruberai", il decimo "non desiderare ciò che gli altri possiedono", sono strettamente correlati e connessi nel primo, perché se Dio diventa un dio-denaro-potere, allora non c'è più posto per Lui. Lucio Anneo Seneca in diversi scritti, san Paolo nelle lettere ai Corinzi, a Tito e a Timoteo, più volte riprendono il tema grave della cupidigia, paventando con toni analoghi (il filosofo stoico e l'apostolo cristiano) il pericolo mortale dell'egoismo e dell'avarizia.

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La Cupidigia IV• Nell'Antico Testamento troviamo soprattutto in Ezechiele la

condanna di questo vizio, e in Giobbe la grande figura di chi riesce a non rinnegare Dio anche perdendo tutto, salute, figli, armenti, casa, proprietà e denari. Giobbe, pur sollecitato a farlo da satana (deverbale ebr. da satàh, separare) e dai tre visitatori che dialogano con lui, oramai derelitto, non cede, perché crede nella misericordia del Signore. E così tutto gli viene ri-dato in sovrabbondanza. Un'altra grande lezione ci viene dal buddhismo. Il primo dei quattro precetti principali é la liberazione dal desiderio e dal desiderio di possesso, prima causa del dolore umano. Siamo sempre sullo stesso tema, e la soluzione proposta é ancora più radicale di quella stoico-cristiana.

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La Cupidigia V

• Che dire dell'oggi circa la cupidigia? Che é un vizio diffuso oltremodo come una sfrenata bramosia di avere, ed é presentato spesso come valore, specialmente quando viene correlato all'esigenza dell'autoaffermazione, all'essere "vincenti" ad ogni costo. I modelli che vengono fatti passare sono espliciti richiami a un ordine di valori di tipo quantitativo, estetistico (non estetico), imperativo: "se non viaggi con quell'auto, sei un fallito con gli altri, con le donne, ..", "se non vai in vacanza in quel posto esotico, non sei dei nostri, (belli, patinati e vincenti)", "se non vesti questa o quella griffe, non sei spendibile in certi ambienti!".

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La Cupidigia VI

• Ma, forse più pericolosi ancora, sono i modelli "muti", cioè i comportamenti reali di molte persone "visibili" (e perciò imitabili come cliches del successo) nei vari ambienti, i quali sono spesso connotati da un insopportabile cinismo, carrierismo, disprezzo degli altri e delle regole comuni.

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La Cupidigia VII

• Tra questi si annoverano spesso politici e amministratori pubblici, grandi manager, opinion makers e conduttori televisivi. Dei nomi tra questi ultimi, a mo' di esempio? Costanzo, Baudo. Anche qui, senza fare d'ogni erba un fascio, vi sono anche persone altolocate, che possono essere considerate buoni esempi di comportamento, ma la loro normalità sembra non fare mai notizia. In realtà sono immensamente più numerose le situazioni buone, gli atti buoni, le virtù praticate, ma bisogna cercarle negli interstizi del non detto, nella filigrana delle non-cronache, nelle commessure della storia piccola. Questo conforta, perché significa che lo Spirito, che va dove vuole, continua ad agire tra di noi.

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L’Accidia I

• “L’Accidia è una freddura,/ ce reca senza mesura,/ posta ‘n estrema paura,/ co la mente alienata”. (Jacopone da todi, Laudi - Trattato e Detti, a cura di Franca Ageno, Ed. Le Monnier, Firenze 1953).

• Così il Tuderte, frate matto e geniale, autore dello Stabat Mater (dolorosa,/ iuxta crucem lacrimosa,/ dum pendebat filius,/ etc.), parla del vizio dell’accidia, il più controverso, il meno citato, il più arcaico dei vizi capitali classici. Di per sé l’accidia (dal greco a-kèdion, dove l’alfa privativo sta per “senza”, mentre kèdion significa “cura”), è un’indolenza, una specie di contrarietà all’operare, una noia, uno stato di indifferenza.

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L’Accidia II

• Dante, nel Convivio, seguendo in questo San Tommaso d’Aquino, ritiene l’accidia un “vizio per difetto dell’ira”, poiché nella dottrina classica l’ira è sì un vizio, ma anche una passione, la quale, se governata, spinge l’uomo al combattimento spirituale, anche per superare ostacoli ardui. Il Poeta, poi, tratta molto male gli accidiosi, collocandoli, al Canto VII dell’Inferno, nella palude dello Stige insieme con gli iracondi, e in ciò vi è una specie di contrappasso, mentre nel Purgatorio li colloca nel Canto XVII, dove si comportano da veri penitenti, invocando la sollecitudine come virtù contraria al loro vizio.

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L’Accidia III

• Correntemente, dunque, l’accidioso è colui che si fa prendere dalla noia, che declina ogni entusiasmo e perciò si presenta incline alla depressione. Scoraggiamento, negligenza, prostrazione, indebolimento psicologico e spirituale, sono sintomi e nello stesso tempo effetti dell’accidia, in un circolo che si può rivelare, molto spesso, vizioso. Probabilmente le neuroscienze ci possono e ci potranno spiegare qualcosa di più circa eventuali origini di tipo organico-genetico individuale, ma ciò non inficia in alcunché la connotazione anche morale di quello stato d’animo.

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L’Accidia IV

• Si deve piuttosto fare attenzione a non scambiare per accidia l’atteggiamento di chi non ritiene di dover dedicare tutto il proprio tempo ed energie ad un’occupazione lucrativa o alla ricerca di un sempre maggiore potere. Cioè di un amor, una libido sui (amore di sé) smodati e devastanti. In questo caso si tratterebbe di un attivismo smodato, e paradossalmente fomite un tipo particolare di accidia, quella di chi crede di potere fare qualsiasi cosa, anche al di là delle proprie forze, finendo per crollare, sia sul piano psicologico, sia, molto spesso, sul piano fisico.

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L’Accidia V• L’accidia porta con sé dolore, senso di spaesamento, disequilibrio

nelle scelte quotidiane, facendo talora apparire i problemi e le difficoltà come ostacoli insuperabili. In questo senso è veramente una “carenza di ira”, nel senso di una mancanza di forza vitale.

• Bisogna dunque rifuggire sia l’ozio sia l’attivismo smodato, ambedue comportamenti estremi che possono favorire l’accidia. È invece opportuno scoprire o riscoprire il “senso creaturale di sé”, cioè la nozione del limite e della finitudine esistenziale, che riguarda, senza eccezioni, ognuno di noi. Ho conosciuto in vita mia molti “padreterni”, ma ho sempre pensato che dietro la loro onnipotenza stava in agguato il tempo, con i suoi corollari dell’invecchiamento, dell’indebolimento, della perdita di un qualcosa.

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L’Accidia VI

• Affinché questa condizione non sia solo di perdita, bisogna attrezzarsi per dare valore anche ad altro, agli aspetti più interiori, spirituali, disinteressati della propria esperienza.

• Un altro suggerimento può essere quello di dare spazio a virtù morali, che fanno parte della fortezza, come la pazienza e la perseveranza, le quali possono “vaccinare” la psiche umana da un eccesso di aspettative, dall’impazienza, dall’ansia, le quali, a loro volta, se frustrate, possono originare accidia, e poi depressione, e poi…

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L’Accidia VII

• L’accidia è un’espressione antica e, nel contempo, una malattia contemporanea, ma anche un peccato, o, laicamente, un venire meno a se stessi, perché implica responsabilità personale, e dunque possiede una rilevanza morale. Bisogna quindi “essere indaffarati”, ma per dei fini buoni, positivi, costruttivi, solidali, evitando le esagerazioni. Il lavoro è un valore in sé, ma anche un equilibrato riposo lo è, così come anche la consapevolezza (= coscienza sapiente) dei propri limiti, del senso di opportunità nell’agire, dell’ascolto attivo degli altri.

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L’Accidia VIII

• L’Apocalisse di Giovanni al capitolo terzo, recita così: “Io conosco le tue opere, che tu non sei né freddo né caldo. Oh, fossi tu freddo e caldo! Così, perché sei tiepido e non sei né freddo né caldo, io sto per vomitarti dalla mia bocca. Poiché tu dici: io sono ricco, mi sono arricchito e non ho bisogno di nulla e non sai invece di essere disgraziato, miserabile, povero, cieco e nudo. Ti consiglio di comperare da me dell’oro affinato col fuco per arricchirti, e delle vesti bianche per coprirti, e non far apparire così la vergogna della tua nudità, e di ungerti gli occhi con del collirio, affinché tu veda (…).”

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L’Accidia IX

• Si tratta di un passo della lettera alla chiesa di Laodicea (Anatolia), che San Paolo aveva fondato nel corso del suo secondo viaggio missionario, verso il 52 - 54 d. C..

• Anche allora l’uomo era come adesso, cosicché deve (e dovrà) sempre emendarsi.

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La Vera la Falsa Modestia I

• Jean de La Bruyère affermava che “la modestia è una forma raffinata di vanità”, mentre invece Arturo Schopenhauer, negli Aforismi, giungeva a dire che « nelle persone di capacità limitate la modestia è semplice onestà, ma in chi possiede un grande talento è ipocrisia ». Un apoftegma dei Padri del deserto (non so se di Abbà Antonio o di Abbà Pacomio) invece recitava “la falsa modestia è la più decente di tutte le menzogne (ma la più repellente, ndr)”.

• Anche se non sono solito ricorrere agli aforismi, questa volta ne abuso.

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La Vera la Falsa Modestia II

• “Io modesto? È il solo difetto che mi onoro di non avere”, sentenziava Gabriele D’Annunzio. E Gustave Flaubert “L’orgoglio è una bestia feroce che vive nelle caverne e nei deserti; la vanità, invece, è un pappagallo che salta di ramo in ramo e chiacchiera in piena luce”.

• Conosco alcuni falsi modesti, e somigliano ai pappagalli; hanno anche i tratti del viso compunti del pènthos, o dolore contrito, e così si portano nel mezzo della folla plaudente, incapace di vedere il vero volto del falso modesto.

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La Vera la Falsa Modestia III

• Umberto Eco invece si accontenta di poco “Non miro a diventare Alessandro Magno, casomai il suo tutore Aristotele: e scusate la modestia”. E Petrolini “E’ modesto, ma se ne vanta (dicendo di un commediografo). Oddio come mi rugano quelli che fanno finta di mettersi in fondo alla sala o alla situazione, ma sanno che saranno sempre chiamati in prima fila, o addirittura tra i relatori, perché funziona così: tu fai finta di essere piccolo, povero e modesto, ma sei d’accordo da prima con chi comanda, e allora questi fa scattare il detto evangelico “beati gli ultimi (e quel che segue)”. Come mi è simpatico il Vate (D’Annunzio), così sincero nella sua presupponenza.

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La Vera la Falsa Modestia IV

• La falsa modestia è dunque la capacità di apparire (falsamente) timidi mentre spieghiamo quanto siamo bravi, oppure è la specializzazione in “excusationes non petitae” (scuse non richieste), le quali, freudianamente, significano esattamente ciò che si vuol negare. Prodighi scribi di insensate premesse.

• La modestia è diversa dall’umiltà, la quale è virtù creaturale che rende l’uomo consapevole della propria finitezza. La falsa modestia è invece un vero imbroglio. Parente stretta della falsa modestia è la vanagloria conclamata, come quella di quel notissimo giornalista che pubblicò “Intervista con Io”. A chi se lo ricorda gli regalo un libro.

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La Vera la Falsa Modestia V

• Napoleone Bonaparte, che possedeva un’autostima espansa, ebbe a dire ”la modestia è l’arte di incoraggiare gli altri a scoprire quanto sei importante”.

• Poi ci sono “quelli che gli chiedono insistentemente di scrivere un’autobiografia”. Ma sono troppo modesti per farlo. Però poi, per altruismo lo fanno lo stesso. E sono gli stessi “quelli che ricevono premi ad personam, ma poi spergiurano che il premio va al gruppo di lavoro”. Grandi!

• Nicolas de Chamfort, invece “Cosa diventa un presuntuoso privo della sua presunzione ? Provate a levare le ali a una farfalla: non resta che un verme”.

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La Vera la Falsa Modestia VI

• Il Belli Gioacchino: “Non faccio per vantarmi, ma oggi è una bellissima giornata”. Ma in questo caso l’aforisma diverte perché paradossale, discontinuità poetica del reale.

• Winston Churchill, un altro galantuomo noto per la sua modestia ebbe ad affermare “Attlee (Premier inglese di parte laburista, ndr) è un uomo molto modesto. E con ragione”.

• Trovo scritto anche questa, e non so di chi sia, “Era troppo pieno di sé, credeva di essere Gesù Cristo: per questo firmava con la croce”.

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La Vera la Falsa Modestia VII• Risponderei così a chi dice “Posso dire la mia modesta opinione?”,

“Se è modesta non ce ne frega un cavolo”. Dire “modesto” in questo caso è puro formalismo, falso ed edulcorato, untuoso formulario. Tipico dei furbi che allignano in tutti i recessi sociali. In tutti, dico, nessuno escluso. Dico, nessuno escluso. Ma proprio nessuno.

• Woody Allen “Fino all’anno scorso avevo un solo difetto: ero presuntuoso”. Beata sincerità giudaica. E che dire di quelli che spergiurano di avere molti difetti, salvo uno, la vanità?

• Mi par che dietro molte false modestie stia questo detto “E’ inutile che cerchiate di lusingarmi: non sono presuntuoso, anche se avrei mille motivi per esserlo (questo non è detto, è solo pensato)”. Bravo!

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La Vera la Falsa Modestia VIII

• A questi preferisco Aldo Busi “Perché mai dovrei desiderare di esser Flaubert, quando ho la fortuna di essere Aldo Busi?”.

• Se la puzzola è tra tutti gli animali quella che si dà più arie, stiamo tranquilli, ché l’uomo è un ottimo suo competitore, come animal rationale.

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L’Ira, l’Odio, la Vendetta I

• Pare proprio che l'uomo abbia sempre bisogno di qualche tabù. Ciò é stato fino dai primordi, come ci spiegano gli antropologi contemporanei e il dottor Freud, ma, pur cambiando le culture e le civiltà, il senso del proibito costituisce una parte essenziale delle psicologie individuali e collettive. Ed é un bene quando sollecita, secondo i dettami della legge morale naturale, a scegliere fra il bene-da-farsi e il male-da-evitarsi, ma può diventare un problema quando esprime un disagio fondamentale a un sano approccio alla vera umanità di ciascuno.

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L’Ira, l’Odio, la Vendetta II

• L'occidente ha vissuto con il tabù del sesso per secoli, confondendo ciò che é un bene in sè, se vissuto umanamente, con la sua depravazione: sono allora sorte le morali del divieto e sono venute meno le morali delle virtù, dimenticando che le azioni umane sono anzitutto un qualcosa di positivo per conseguire dei beni. L'ipocrisia "vittoriana", le prùderie diffuse, il moralismo bigotto e l'ignoranza dei contadi hanno fatto il resto, collocando il sesso nell'ambito del famoso trattato morale chiamato "de sexto" (del sesto comandamento, sulla fornicazione, che letteralmente significa "accompagnarsi con coloro che stanno tra le arcate, i fornici", cioè le prostitute).

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L’Ira, l’Odio, la Vendetta III

• Attualmente, siccome ci "siamo liberati", sul sesso sta trionfando la banalità del quotidiano sbandieramento di glutei e seni, spesso preternaturali. E' poi diffusa la strana, ambigua e insufficiente nozione di libertà, come separazione fra due o più "licenze di fare quello che si vuole". Da un tabù all'altro. Oggi per contro impera il tabù riferito alle passioni dell'ira, dell'odio e del desiderio di vendetta. Per essere come si deve, per non violare il politically correct, quasi tutti i magistri contemporanei collocano ira, odio e vendetta nel novero dei sentimenti riprovevoli, e basta.

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L’Ira, l’Odio, la Vendetta IV

• E allora assistiamo allo spettacolo del pacifismo unilaterale, alle polemiche sulla legittima difesa, alle ambiguità sul diritto all'uso della forza. Invece le cose stanno diversamente, come ci spiegano coloro che la struttura umana conoscono veramente, e non hanno remore a parlarne. San Tommaso d'Aquino descrive senza moralismi queste passioni, dando a ciascuna di esse il giusto peso.

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L’Ira, l’Odio, la Vendetta V

• L'uomo può essere irascibile, e talvolta deve esserlo, per superare prove ardue: le passioni dell'irascibile contemplano anche la speranza e il coraggio, pur se talora (nel caso di collere improvvise e distruttive) debbono essere moderate dalla fortezza, dalla pazienza e dalla temperanza. Il rancore, invece, che é una specie di tristezza per non avere conseguito la vendetta su qualcuno da cui si é subito un male, va combattuto perché é un male in sé, provoca dolore ed é improduttivo.

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L’Ira, l’Odio, la Vendetta VI

• L'odio é un rancore violento e continuo, che non trova pace, e quindi va controllato e combattuto, ma é plausibile, esiste, é umano, ci appartiene come passione naturale, se non come attitudine morale. Anche sulla vendetta c'è tutta una letteratura che si può definire "buonista", perché si limita a stracciarsi le vesti, evitando accuratamente di analizzarne il senso profondo. "Troppo umano", diceva Nietzsche, grande smascheratore di anime belle.

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L’Ira, l’Odio, la Vendetta VII

• Pare che la vendetta sia bandita, anche come concetto, da Beccaria in poi, quantomeno, e che anche lo stato, come soggetto legalmente deputato ad esercitare la giustizia tra i cittadini, abbia qualche problema a trattare il tema dell'afflittività della pena. La vendetta non è necessariamente sangue e dolore fisico, ché molte vendette sono perpetrate da signori in giacca e cravatta o da signore in tailleur, ma basta non dirlo. Si pensi alla politica, quante vendette!

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L’Ira, l’Odio, la Vendetta VIII

• Si pensi ai rapporti interparentali, al mondo dell'economia e dei commerci. Si pensi all'uomo, che é un impasto talora ferino di cattiveria e di sensi di colpa fondati sulla colpa reale. Si pensi al godimento per il male altrui, all'invidia, alla maldicenza. L'ira, l'odio, la vendetta esistono: bisogna saperlo e dirlo, e con fiducia usare la potente ragione di cui siamo provvisti.

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L’Ira, l’Odio, la Vendetta IX

• Bisogna infine che conosciamo bene ciò che queste due passioni (l’ira e l’odio) possono fare nell’anima umana, e anche ciò che significa vendetta.

• Dobbiamo sapere che l’odio va controllato e infine spento, che l’ira va governata e utilizzata solo in quanto spinta a superare ostacoli ardui, e che, in fine, la vendetta non appartiene a noi esseri umani.