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LICEO ARTISTICO IDONEITA' ALLA V ITALIANO - "Il Principe" Machiavelli - "Lettera a Francesco Vettori" Machiavelli - "Il Saggiatore" Galileo Galilei - Il Seicento - Il Teatro - Illuminismo / Goldoni e l'Illuminismo - "La Locandiera" Goldoni - Il Neoclassicismo - Tra Settecento e Ottocento - "Le Ultime Lettere di Jacopo Ortis" Ugo Foscolo - Preromanticismo / Romanticismo in Arte e Letteratura - "Dialogo della Natura e di un Islandese" Leopardi

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LICEO ARTISTICO

IDONEITA' ALLA V

ITALIANO

- "Il Principe" Machiavelli - "Lettera a Francesco Vettori" Machiavelli - "Il Saggiatore" Galileo Galilei - Il Seicento - Il Teatro - Illuminismo / Goldoni e l'Illuminismo - "La Locandiera" Goldoni - Il Neoclassicismo - Tra Settecento e Ottocento - "Le Ultime Lettere di Jacopo Ortis" Ugo Foscolo - Preromanticismo / Romanticismo in Arte e Letteratura - "Dialogo della Natura e di un Islandese" Leopardi

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MACHIAVELLI

IL PRINCIPE

Trattato politico, anche se non sistematico, in cui l’Autore considera i generi dei principati e i modi in cui essi si acquistano e si conservano, portando alcuni esempi, tra cui spiccano quelli di Francesco Sforza e soprattutto del Borgia. In quest’ultimo, in particolare, egli nota notevoli qualità politiche ed inesausta ambizione, ben superiore alla semplice ricerca dell’utile personale, strenua anche nella malattia e fino alla morte. L’Autore procede poi nel rigoroso sviluppo del suo ragionamento sorretto sempre da una tensione che dà tono di fatalità ai soggetti trattati, così che le massime che si ricavano dalla descrizione delle azioni non seguono un rigido criterio deduttivo, ma appaiono piuttosto ispirate da esperienza personale, cui l’Autore dà prova mediante esempi tratti parallelamente dalla storia antica e contemporanea, che le confermano. La parte più famosa, tuttavia, riguarda la figura stessa del Principe, che deve possedere o fingere di possedere determinate qualità; un desiderio di andare alla verità effettuale delle cose, lasciando i regni che non sono mai esistiti. In particolare, il Principe dovrà essere uomo e bestia e come bestia, leone o volpe, a seconda delle occasioni.

Frattura tra il mondo degli antichi e quello dei moderni

Per l’autore Machiavelli la natura umana è una natura malvagia che presenta alcuni fattori, quali le passioni, la virtù e la fortuna. Il frequente ricorso ad exempla virtutis tratti dalla storia antica e dalla sua esperienza nella politica moderna dimostrano che nella sua concezione della storia non vi è alcuna netta frattura tra il mondo degli antichi e quello dei moderni; Machiavelli trae così dalla lezione della storia delle leggi generali, le quali non vanno però intese come norme infallibili, valide in ogni contesto e situazione, ma come semplici tendenze orientanti l'azione del Principe che devono sempre confrontarsi con la realtà. Non vi è alcuna esperienza tràdita dal passato che non possa essere smentita da una nuova esperienza presente; tale mancanza di scientificità spiega la mancata sottomissione di Machiavelli alla auctoritas degli antichi: reverenza ma non ossequio nei suoi confronti; gli esempi storici sono utilizzati per un'argomentazione non scientifica ma retorica.

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La pace è fondata sulla guerra

La pace è fondata sulla guerra esattamente come l'amicizia è fondata sull'uguaglianza, quindi in ambito internazionale l'unica uguaglianza possibile è l'uguale potenza bellica degli Stati.

La forza della sopravvivenza di qualsiasi Stato (democratico, repubblicano o aristocratico) è legata alla forza dell'esercizio del suo potere, e quindi deve detenere il monopolio legittimo della violenza, per assicurare sicurezza interna e per prevenire una 'potenziale' guerra esterna (in riferimento ad una delle lettere proposte al Consiglio Maggiore di Firenze (1503), con la speranza di Machiavelli di convincere il Senato fiorentino l'introduzione di una nuova imposta per rafforzare l'esercito, necessario per la sopravvivenza della Repubblica Fiorentina).

Virtù e Fortuna

Il termine virtù in Machiavelli cambia significato: la virtù è l'insieme di competenze che servono al principe per relazionarsi con la fortuna, cioè gli eventi esterni. La virtù è quindi un insieme di energia e intelligenza, il principe deve essere intelligente ma anche efficace ed energico.

La virtù del singolo e la fortuna si implicano a vicenda: le doti del politico restano puramente potenziali se egli non trova l'occasione adatta per affermarle, e viceversa l'occasione resta pura potenzialità se un politico virtuoso non sa approfittarne. L'occasione, tuttavia, è intesa da Machiavelli in modo peculiare: essa è quella parte della fortuna che si può prevedere e calcolare grazie alla virtù. Mentre un esempio di fortuna può essere che due Stati siano alleati (è un dato di fatto, un evento), un esempio di occasione è il fatto che bisogna allearsi con qualche altro Stato o comunque organizzarsi per essere pronti ad un loro eventuale attacco.

La virtù umana si può poi imporre alla fortuna attraverso la capacità di previsione, il calcolo accorto. Nei momenti di calma l'abile politico deve prevedere i futuri rovesci e predisporre i necessari ripari, come si costruiscono gli argini per contenere i fiumi in piena.

Concezione di libertà

La libertà non è la libertà dell’individualismo moderno ma è una situazione che riguarda gli equilibri di forze nello stato, tali per cui si deve determinare il predominio di uno solo. Quella di Machiavelli è la libertà che si ha allorché i diversi gruppi o ceti che compongono lo stato sono tutti coinvolti nella gestione della

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decisione politica; non è la libertà intesa in senso moderno, cioè la libertà del singolo dal potere dello stato, ma è più vicina all’idea di libertà antica che si ha quando s’interviene alle decisioni politiche. La libertà di Machiavelli ammette il conflitto: il conflitto non è in sé una causa di debolezza ma dà dinamicità al complesso politico, lo mantiene vitale; questa vitalità produce progresso in quanto lascia aperti spazi di libertà che consistono nella prerogativa di ciascuno d’intervenire alle decisioni politiche configgendo con le altri parti. In questo il pensiero di Machiavelli è diverso dall’idea classica di ordine politico come "soluzione dei conflitti". Gli antichi vedevano difatti nel conflitto un elemento d’instabilità della comunità politica.

Concezione della religione

Machiavelli concepisce la religione come un sistema con il quale tenere salda e unita la popolazione nel nome di un'unica fede. La religione per Machiavelli è quindi una religione di stato che deve essere usata per fini eminentemente politici e speculativi, uno strumento di cui il principe dispone per ottenere il consenso comune del popolo, quest'ultimo ritenuto fondamentale dal segretario fiorentino per l'unità e la lungimiranza del principato stesso.

MODO DI SCRIVERE

Lo stile è quello tipico di Machiavelli, cioè molto concreto in quanto deve essere in grado di fornire un modello immediatamente applicabile, non sono presenti particolari ornamentazioni retoriche, piuttosto fa massiccio uso di paragoni e similitudini e metafore tutte basate sulla concretezza, per esempio le metafore arboree spesso presenti.

Il lessico non è aulico ma quasi un sermo cotidianus. Tutto il testo è caratterizzato da un lessico connotativo e una forte espressività, esclusi la Dedica e l'ultimo capitolo che hanno un registro diverso dalla parte centrale, infatti in entrambi prevale il carattere enfatico e specialmente la perorazione finale fuoriesce dalla realtà effettuale che caratterizza l'opera.

La sintassi è molto articolata con prevalenza della ipotassi; la subordinazione è presente soprattutto nel processo dilemmatico, che è una delle caratteristiche di quest'opera, Machiavelli presenta due situazioni: la prima viene svolta rapidamente per poi discutere ampiamente la seconda, questa tecnica fornisce un carattere di scientificità all'opera e suggerisce l'ipotesi giusta secondo l'autore (esempio: nel Capitolo I Machiavelli propone la trattazione De' principati ereditarii e De' principati misti: la prima viene sviluppata in poche righe nel Capitolo II mentre la seconda viene ampiamente argomentata nel Capitolo III).

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I titoli dei capitoli sono tutti in Latino (con corrispondente traduzione in Italiano probabilmente fatta dallo stesso Machiavelli), perché nell'ambiente umanista-rinascimentale si usava scrivere o almeno titolare le opere in Latino in quanto conferiscono dignità e prestigio al testo.

Il Principe e il pensiero

Machiavelli nel Principe teorizza, come ideale un principato assoluto; il suo modello è la Repubblica Romana, con la PARTECIPAZIONE del popolo.

Il dibattito su questa questione è tuttora aperto, tra le ipotesi c'è anche quella dell'opportunismo: Machiavelli avrebbe desiderato riottenere un posto politico di rilevanza e sarebbe stato quindi disposto anche ad accettare la dimensione monarchica, oppure, il suo principe, potrebbe essere un modello universale di capo di stato, di qualunque forma esso sia.

La critica moderna ha però ultimamente ipotizzato che la volontà di scrivere il Principe, e quindi di parlare di monarchia, sia stata mossa dall'aggravarsi della situazione in Italia. Difatti alla fine del 400 ed inizio del 500 l'Italia si trovava in un periodo di continue lotte interne. Machiavelli, attraverso il suo trattato, avrebbe voluto quindi incitare i principati italiani a prendere le redini del paese, ormai sommerso da queste continue guerre, credendo che l'unico modo per riacquistare valore, in quel preciso periodo, fosse proprio un governo di tipo monarchico. È dunque questo il motivo che ha suscitato numerose critiche per lo più fuorvianti.

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Capitolo 18 - La lealtà del principe ovvero la volpe e il leone

Machiavelli, da IL PRINCIPE, La volpe e il leone

Ognuno sa quanto sia apprezzabile, per un principe, essere leale e vivere con onestà, non con l’inganno. L’esperienza dei nostri tempi ci insegna tuttavia che i principi, i quali hanno tenuto poco conto della parola data e ingannato le menti degli uomini, hanno anche saputo compiere grandi imprese e sono alla fine riusciti a prevalere su coloro che si sono invece fondati sulla lealtà.

Dovete dunque sapere come ci siano due modi di combattere: l’uno, con le leggi; l’altro, con la forza. Il primo modo appartiene all’uomo, il secondo alle bestie. Ma poiché molte volte il primo modo non basta, si rende necessario ricorrere al secondo. È pertanto necessario che un principe sappia servirsi dei mezzi adatti sia alla bestia sia all’uomo. Gli antichi scrittori hanno già fornito ai principi questo insegnamento sotto forma di allegoria, quando hanno riferito che Achille e molti altri principi dell’antichità furono affidati al centauro Chirone perché li allevasse e li educasse sotto la sua disciplina. L’avere per precettore qualcuno che sia mezza bestia e mezzo uomo, ha un solo significato: che il principe deve sapersi servire dell’una e dell’altra natura, perché l’una senza l’altra non resiste nel tempo.

Il principe è dunque costretto a saper essere bestia e deve imitare la volpe e il leone. Dato che il leone non si difende dalle trappole e la volpe non si difende dai lupi, bisogna essere volpe per riconoscere le trappole, e leone per impaurire i lupi. Coloro che si limitano a essere leoni non conoscono l’arte di governare. Un signore prudente, pertanto, non può né deve rispettare la parola data se tale rispetto lo danneggia e se sono venute meno le ragioni che lo indussero a promettere. Se gli uomini fossero tutti buoni, questa regola non sarebbe buona. Ma poiché gli uomini sono cattivi e non manterrebbero nei tuoi confronti la parola data, neppure tu devi mantenerla con loro. Né mai a un principe mancarono pretesti legali per mascherare le inadempienze. Se ne potrebbero fornire infiniti esempi tratti dalla storia moderna, e mostrare quante paci, quante promesse furono violate e vanificate dalla slealtà dei principi, e chi meglio ha saputo farsi volpe, meglio è riuscito ad aver successo. Ma è necessario saper mascherare bene questa natura volpina ed essere grandi simulatori e dissimulatori. Gli uomini sono così ingenui e legati alle esigenze del momento che chi vuole ingannare troverà sempre chi si lascerà ingannare.

Voglio portare un esempio recente. Papa Alessandro VI non fece mai altro, non pensò mai ad altro che a ingannare gli uomini, e sempre trovò materia per poterlo fare. Non ci fu mai uomo che promettesse con così grande efficacia, che giurasse con altrettanto

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fervore e che poi mancasse di parola quanto lui. Nondimeno riuscì sempre a ingannare a suo piacimento, perché conosceva bene quest’aspetto del mondo.

Un principe, dunque, non deve realmente possedere tutte le qualità, ma deve far credere di averle. Oserò anzi dire che, se le ha e le usa sempre, gli sono dannose. Se fa credere di averle, gli sono utili. Nel senso che egli deve apparire clemente, degno di fede, umano, onesto, religioso, e anche esserlo realmente; ma se poi gli è necessario non esserlo, il suo animo deve essere sempre pronto a potere e a sapere mutarsi nell’esatto contrario. Bisogna, infatti, capire che un principe, soprattutto un principe nuovo, non può rispettare tutte quelle norme in base alle quali gli uomini sono considerati buoni, perché egli è spesso obbligato, per mantenere il potere, a operare contro la lealtà, contro la carità, contro l’umanità, contro la religione. Bisogna perciò che egli abbia un animo disposto a indirizzarsi secondo il vento della fortuna e il mutare delle situazioni. Insomma, come dissi prima, non si allontani dal bene, quando può, ma sappia entrare nel male, quando vi è costretto.

Un principe deve fare grande attenzione a che non gli esca mai di bocca una parola che non sia piena delle cinque qualità sopra indicate. Deve insomma apparire, a guardarlo e a udirlo, tutto clemenza, tutto lealtà, tutto onestà, tutto umanità, tutto religione. Niente gli è più indispensabile che apparire religioso. Gli uomini, in generale, giudicano più con gli occhi che con le mani, perché tutti vedono e pochi toccano con mano. Tutti vedono quello che tu sembri, ma pochi toccano con mano quel che tu sei, e questi pochi non osano opporsi all’opinione dei molti, che oltre tutto sono protetti dall’autorità dello Stato. Nel giudicare le azioni degli uomini, e soprattutto dei principi che non possono essere convocati in giudizio non si guarda ai mezzi, ma al fine. Il principe faccia quel che occorre per vincere e conservare il potere. I mezzi saranno sempre giudicati onorevoli e lodati da ognuno, perché il volgo bada sempre alle apparenze e al risultato. E nel mondo il popolo è da per tutto. Le minoranze non contano, quando le maggioranze hanno dove appoggiarsi. Un principe dei nostri tempi, che è meglio non nominare [Ferdinando il Cattolico], predica sempre pace e onestà, ma non ha mai rispettato né l’una né l’altra. Del resto, se le avesse rispettate, avrebbe più volte perso la sua autorità o i suoi Stati.

Analisi del testo

Essere onesto e leale è certamente una qualità apprezzabile in un principe. Tuttavia spesso capita di vedere, nella realtà, che abbiano più successo i principi che ingannano e che non mantengono la parola data piuttosto che quelli leali. Ci sono due modi di governare, uno propriamente umano, mediante le leggi e uno proprio delle bestie, mediante la forza. Un principe accorto deve sapersi avvalere dei mezzi propri della bestia e dell’uomo. Quanto ai primi, il principe deve essere al tempo stesso volpe e leone, saper cioè ricorrere all’astuzia e alla forza secondo le circostanze e le necessità. Il leone sa spaventare e sa difendersi dai nemici (dai lupi), ma non sa

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vedere le trappole, come fa invece la volpe. Machiavelli attribuisce grande importanza all’astuzia volpina, che comporta spesso il non tener fede alla parola data e il ricorso all’inganno, se questo è necessario per conservare il potere e se sono venute meno le ragioni della promessa. Gli uomini, infatti, sono malvagi e bugiardi, perciò il principe deve regolarsi di conseguenza. Non gli mancheranno senz’altro i pretesti per giustificare e mascherare le sue inadempienze, se saprà essere bravo a mentire, anche perché gli uomini sono ingenui e di corta memoria, per cui troverà sempre chi si lascerà ingannare.

Un principe non deve possedere tutte qualità buone, anzi, se le ha e ne fa sempre uso questo può addirittura danneggiarlo. Deve però far credere di averle, sembrando clemente, degno di fede, umano, onesto, religioso. Deve anche esserlo veramente, ma se necessario anche non esserlo, adattando il proprio comportamento alle circostanze, facendo ricorso a condotte moralmente discutibili, pur di conservare il potere. L’apparenza però deve essere salva: il principe deve sembrare, agli occhi del popolo, clemente, degno di fede, umano, onesto, religioso. In particolare deve sembrare religioso. Pochi sono in grado di verificare da vicino quel che veramente sei, mentre la massa giudica da quel che vede in superficie. Inoltre, nel giudicare l’operato di un principe, il popolo non guarda tanto ai mezzi che ha usato quanto alle apparenze e al successo concreto di un’azione.

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Lettera a Francesco Vettori

di

MACHIAVELLI

Storia

Il ritiro dalla politica. Nell’Agosto 1512 i Medici tornano a Firenze e Machiavelli, che era stato per 14 anni al servizio del governo repubblicano, viene esonerato dal suo incarico. Successivamente viene incarcerato e torturato con l’accusa di aver partecipato a una congiura contro i medici. Rimesso in libertà, si ritira nella tenuta dell’Albergaccio, vicino San Casciano, emarginato da ogni attività pubblica.

La vita nell’Albergaccio. Il 10 Dicembre 1513 Machiavelli risponde ad una lettera ricevuta il 23 Novembre da parte dell’amico Francesco Vettori. Questi si trovava a Roma presso la corte di Papa Leone X, e in quella lettera informava Machiavelli circa le proprie occupazioni quotidiane, divise tra ozio, cavalcate, banchetti, avventure amorose, attività pratiche. Machiavelli risponde, ironicamente, opponendo le proprie occupazioni all’Albergaccio, dove si rifugiava dopo l’esclusione da ogni incarico presso la corte dei Medici: impicci di vario tipo col vicinato, litigi coi boscaioli, pasti frugali, giochi a carte nella taverna con la gente del posto. A questa descrizione molto mossa e gustosa della sua giornata-tipo, segue invece un momento serio, in cui Machiavelli descrive i propri studi, e annuncia la stesura del Principe.

Pessimismo. Fin dalle prime righe emerge la visione disincantata e pessimista tipica del pensiero di Machiavelli, e la sua tendenza a ricercare sempre leggi universali che regolano l’esperienza umana («Perché chi lascia i sua comodi per li comodi d’altri, perde è sua, e di quegli non gli è saputo grado»).

La fortuna. In questa lettera compare anche un altro motivo cardine: la riflessione sulla fortuna. Nella lettera però compare un atteggiamento più remissivo e rassegnato, disposto a «lasciar fare» e «stare quieto», apparentemente opposto a quello combattivo e alieno da acquiescenza tipico del Principe (XXV). La contraddizione è solo apparente: anche qui compare il concetto di «occasione» che la fortuna può offrire e che la virtù umana può e deve saper cogliere. Il pensiero di Machiavelli è quello di adeguare il comportamento alle circostanze, e in questa particolare situazione la cosa migliore da fare è adeguarsi, attendere, cedere momentaneamente.

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Insistenza su operazioni futili. Nella descrizione della propria giornata spicca l’insistenza su operazioni futili e insignificanti. Ma questa è un’immagine solo apparentemente comica: in realtà nasconde tutta l’amarezza e l’ira di chi si è occupato di affari di Stato, ha trattato con sovrani stranieri e con la diplomazia europea, e ora si trova a dover assolvere a queste avvilenti occupazioni.

Il chiaroscuro. Il fine di questa insistenza di particolari futili è quindi ben chiaro: Machiavelli vuol fare risaltare, a partire dalle cose stesse, l’entità della sua degradazione; in secondo luogo vuole creare un effetto di chiaroscuro: la descrizione particolareggiata di una vita futile e inautentica mette ancora più in rilievo il momento del riscatto, della vita autentica, cioè lo studio serale degli autori classici.

Lo studio della natura umana. Il contatto con la gente di bassa estrazione sociale offre inoltre a Machiavelli l’occasione di soddisfare la sua curiosità nei confronti del reale, di osservare da vicino vari aspetti della vita umana, e di raccogliere materiale che servirà da fondamento per la sua riflessione politica. E importa se si tratta di povera gente: i comportamenti umani, nei loro meccanismi profondi, sono dominati dalle medesime leggi, a tutti i livelli.

L’impeto eroico contro la fortuna. Nel paragrafo finale erompe lo sdegno che prima aveva trattenuto sotto il velo dell’ironia distaccata: toccare il fondo della degradazione, avvolgersi tra quei «pidocchi» è come una sfida nei confronti della fortuna, nel tentativo di indurla a vergognarsi di tanta ostilità verso chi non la merita. Emerge il lato eroico, vibrante e appassionato di Machiavelli che al pacato ragionare dei primi paragrafi, giustappone uno slancio finale appassionato: questo tipo di dialettica è tipica anche del finale del Principe.

Il colloquio coi classici. L’atteggiamento con cui Machiavelli si accosta ai classici è squisitamente umanistico: vede negli antichi esempi supremi di vita civile, considera lo studio humanitas, cioè l’essenza stessa dell’uomo. Ma non si tratta di una fuga dalla realtà: il colloquio coi classici ha come risultato la riflessione sulla politica alla base del Principe, che non è opera teorica, ma vuole essere «utile a chi la ‘ntenda».

- L’umanesimo «civile». È questo il cosiddetto umanesimo civile di Machiavelli, che è eminentemente fiorentino. La lettera al Vettori è un documento prezioso che ci informa sulle condizioni in cui nasce il Principe.

La «verità effettuale». A un certo punto Machiavelli vaglia le ragioni per cui non ritiene opportuno recarsi a Roma: e in questo emerge un altro suo tipico atteggiamento, che è quello di analizzare «la verità effettuale della cosa», misurata sugli effettivi vantaggi e svantaggi delle azioni umane.

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L’anelito all’azione. Nelle righe finali della lettera il procedere logico e razionale del discorso è sostituito da uno slancio appassionato, che esprime tutta la disperazione di Machiavelli di essere nell’inattività, e il suo anelito all’azione: «Che questi signori Medici mi cominciassino adoperare, se dovessino cominciare a farmi voltolare un sasso».

Interpretazione complessiva

• La prima parte della lettera è una descrizione in termini assai ironici di una giornata tipo di Machiavelli all'Albergaccio, il podere di S. Casciano in cui era stato confinato dopo l'arresto nel febbraio 1513 e dove conduceva una vita impegnata in affari di ordinaria amministrazione, che egli paragona all'incarico diplomatico del Vettori, ambasciatore a Roma presso il papa: dice di alzarsi presto la mattina e di seguire il taglio della legna in un bosco di sua proprietà, dove assiste agli alterchi dei boscaioli e litiga con gli acquirenti che vogliono truffarlo sul prezzo; legge libri di Dante e Petrarca per svagarsi e poi, il pomeriggio, trascorre il tempo all'osteria giocando d'azzardo con altri avventori del paese, per trarre "el cervello di muffa" e scordare la malignità della sorte che gli è toccata (è evidente l'insofferenza per l'esilio forzato e l'allontanamento dagli incarichi pubblici decretato dai Medici ai suoi danni). L'inizio della lettera è colloquiale e Machiavelli si rallegra per aver ricevuto una missiva dall'amico Francesco, temendo che quello non gli scrivesse più perché pensava che lui avesse mostrato le sue lettere a qualcuno, cosa da evitare dato il carattere confidenziale delle conversazioni; l'autore cita a proposito Filippo Casavecchia, uomo politico fiorentino amico di entrambi (anche più avanti, parlando del Principe) e Paolo Vettori, fratello di Francesco, come i soli cui abbia mostrato le lettere del suo corrispondente.

• La seconda parte della lettera è per noi più interessante e in essa Machiavelli descrive anzitutto le sue occupazioni all'Albergaccio una volta arrivata la sera, quando entra nel suo "scrittoio" (studio) dopo essersi tolto i vestiti di ogni giorno metaforicamente sporchi di fango e indossando "panni reali e curiali", con i quali entra "nelle antique corti delli antiqui huomini" attraverso la lettura delle opere degli storiografi del passato: è evidente lo "stacco" anche stilistico rispetto alle righe precedenti e particolarmente efficace è l'immagine dell'autore che ha l'impressione di dialogare con gli scrittori dell'antichità classica, attività nella quale si sprofonda per ore senza sentire la minima noia e scordando le miserie del presente ("tutto mi transferisco in loro"). Machiavelli annuncia poi la composizione di un "opuscolo" intitolato De principatibus ("Sui principati", titolo latino del Principe) in cui spiega "che cosa è principato, di quale spezie sono, come è si acquistono, come è si mantengono, perché è si perdono", che ha scritto nella speranza di dimostrare ai Medici la sua competenza negli affari di Stato e di ottenere un qualche incarico politico, frase

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che rappresenta la più antica testimonianza della scrittura dell'opera (l'autore probabilmente l'aveva prodotta nei mesi precedenti, in maniera assai rapida). Manifesta l'intenzione di dedicare il Principe a Giuliano de' Medici, che sarebbe morto nel 1516 costringendolo a indirizzare il libro a Lorenzo di Piero de' Medici, e si dice dubbioso se presentarlo subito ai signori di Firenze oppure no, temendo maldicenze da parte dei suoi nemici personali come Piero Ardighelli, che potrebbe addirittura appropriarsi della paternità dell'opera per screditarlo. Alla fine si dice deciso a farsi avanti a causa dell'estrema povertà in cui si trova a causa dell'esilio, che lo ha reso "contennendo" (latinismo per "disprezzabile") e spiega il declino del suo tenore di vita rispetto agli anni precedenti, quando aveva ricoperto i più alti incarichi presso la Repubblica. Il Principe fu stampato postumo solo nel 1532 e con un titolo che probabilmente non è d'autore, mentre nella lettera Machiavelli afferma di essere ancora impegnato in correzioni del testo (che quindi non era quello definitivo) e lo definisce "opuscolo" e "ghiribizzo", alludendo in maniera ironica alle sue ridotte dimensioni e, forse, al poco tempo speso nello scriverlo.

• Lo scopo principale di Machiavelli nel comporre il Principe era accreditarsi presso i Medici e ottenere da loro un incarico pubblico, anche di modesta entità (in metafora "voltolare un sasso"), dimostrando loro di avere un'alta competenza negli affari di Stato e un'esperienza accumulata nei quindici anni trascorsi al servizio della Repubblica, anni che lui afferma di non avere "dormiti né giuocati": nella sua prospettiva il lavoro per la Repubblica o i Medici non fa grande differenza ed è evidente la sua smania di tornare alla politica attiva, sfuggendo alla vita misera e ritirata cui il confino a S. Casciano lo costringeva (prima aveva detto di sentirsi "rinvolto in tra... pidocchi"). Dichiara con una certa solennità di avere appreso a mantenere la fedeltà allo Stato e di non essere cambiato all'età di 43 anni, cosa che sarebbe dimostrata proprio dall'estrema povertà in cui è ridotto e dal fatto che non ha commesso tradimenti o malefatte di sorta. L'atteggiamento di Machiavelli è quello dell'uomo di Stato che è ansioso di dimostrare la propria capacità al mondo e che agogna la vita pubblica più di qualunque altra, dunque in modo diametralmente opposto ad Ariosto che nelle Satire e in altri scritti diceva di preferire una vita tranquilla e modesta, nell'intimità della propria casa, dove comunque non è esclusa una certa "maniera" dell'autore che, non va scordato, era comunque uomo di corte al servizio degli Este).

"Il Saggiatore"

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di

GALILEO GALILEI

Introduzione

Il Saggiatore è un trattato di Galileo Galilei pubblicato nel 1624 in cui, rispondendo alle critiche di un avversario in merito alla comparsa in cielo di alcune comete nel 1618, lo scienziato pisano espone i punti fondamentali del suo metodo di ricerca.

Struttura, temi e stile dell’opera

La vicenda che porta Galileo alla composizione della sua seconda grande opera scientifica dopo il Sidereus Nuncius ha inizio nell’autunno del 1618, quando la comparsa in cielo di tre comete, oltre a suscitare grande scalpore ed interesse tra addetti ai lavori e tra osservatori comuni, spinge Orazio Grassi (1583-1654), un padre gesuita che si occupa di matematica ed architettura, ad esporre nel suo trattato in latino De tribus cometis anni 1618 disputatio astronomica la posizione “scientifica” del Collegio Romano, principale organo d’istruzione della Compagnia di Gesù. Nel trattato di Grassi, che costituisce il rendiconto di un’assemblea di gesuiti tenutasi proprio al Collegio e che rimane ancorata ai precetti della filosofia tolemaica, si sostiene che le comete siano corpi celesti privi di luce ed orbitanti su traiettorie predefinite tra Terra e cielo della Luna. Grassi si dimostra poi scettico sulla reale utilità del cannocchiale galileiano, di cui si mette addirittura in dubbio la reale capacità di ingrandire le immagini a distanza.

La replica di Galileo è attentamente studiata, anche per gli scrupoli dell’autore a tornare sulla questione dell’eliocentrismo, dopo che nel marzo del 1616 il De revolutionibus orbium coelestium (1543) di Copernico (1473-1543) è stato messo all’Indice e lo stesso Galileo ammonito di non professare più le tesi delle sue Lettere copernicane. Galileo risponde infatti attraverso un suo giovane discepolo, Mario Guiducci (1583-1646) che pubblica col proprio nome un testo del maestro, il Discorso sulle comete (1619). Qui, chiamando in causa anche la teoria di Tycho Brahe (1546-1601) e il retroterra dell’aristotelismo, Galilei smentisce seccamente le tesi di Grassi. Quest’ultimo, dietro lo pseudonimo di Lotario Sarsi, replica con la Libra astonomica ac philosophica (la “libra” è una comune bilancia, detta anche “stadera”, di origine romana).

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Galileo, che sa di doversi muovere con grande accortezza per il continuo pericolo di cadere in eresia, lavora con cura a Il Saggiatore, che vede la luce, stampato per conto dell’Accademia dei Lincei di Roma (che aveva accolto al proprio interno Galilei sin dal 1611), solo nel 1624, con una dedica a papa Urbano VIII. L’opera ha forma epistolare ed è scritta in italiano per rispondere al latino filosofico di Grassi, il Saggiatore è abilmente bilanciato tra ironia e precisione metodologica.

Da un lato, infatti, il Saggiatore si caratterizza per la carica demistificante con cui le tesi di Grassi, ancora viziate dal rispetto del principio d’autorità e del tutto prive di una verifica sperimentale, sono smontate e derise una per una. Dall’altro, Galileo sa esporre, in un linguaggio chiaro e spontaneo, immediato ma esattissimo, i punti irrinunciabili di un moderno metodo scientifico. L’impostazione è chiara sin dal titolo: il “saggiatore” è una bilancetta di precisione usata dagli orafi, e si contrappone per principio alla rozza e semplicistica “libra” di Grassi. Se la tesi di Galileo sulle comete del 1618 si rivelerà col tempo errata, ha tuttavia maggior importanza il procedimento metodologico con cui si arriva ad una ipotesi di spiegazione dei fatti naturali: non conta il sapere nozionistico basata sui libri, tipico dell’erudizione di Grassi, ma la verifica empirica dei fatti e delle ipotesi, così che ogni conquista scientifica non è altro che un punto di partenza per nuove indagini.

La struttura epistolare del saggio permette poi l’uso di un tono e di uno stile informali e colloquiali, come se il “maestro” si trovasse a lezione con i suoi studenti, e confrontasse con loro le proprie idee. L’esempio migliore è nel noto passo del sesto capitolo del Saggiatore, dove Galileo spiega in quale “lingua” sia scritto il “libro della natura”:

[Lotario Sarsi] forse stima che la filosofia sia un libro e una fantasia d’un uomo, come l’Iliade e l’Orlando Furioso, libri ne’ quali la meno importante cosa è che quello che vi è scritto sia vero. Signor Sarsi, la cosa non istà così. La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l'universo), ma non si può intendere se prima non s'impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne' quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto.

Quest’appello e quello alla “vera filosofia” contenuto nella Prefazione indicano allora l’atteggiamento che per Galileo deve tenere lo scienziato (e il filosofo) moderno: studiare il mondo e il suo funzionamento con gli strumenti con cui il mondo stesso è stato scritto e composto, senza pregiudizi e senza verità precostituite. Il linguaggio della natura, per questa sua essenza matematica, è poi intrinsecamente democratico;

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chiunque, una volta posseduti gli strumenti di analisi, può leggere ed interpretare il mondo circostante. Ciò che bisogna evitare sono allora le tesi preconcette, o quelle acriticamente riprese dalla tradizione, ma prive di una validazione nei fatti e nelle esperienze: è questa l’impostazione critica che animerà, nel 1632, il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo.

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IL SEICENTO

Il '600 rappresenta, sul piano letterario, una degenerazione rispetto al '500, cioè il trionfo dell'effetto più che del gusto, della forma più che del contenuto. Esso riflette la più generale decadenza sociale, politica ed economica della società italiana, soggetta da un lato all'egemonia spagnola (dalla pace di Cateau-Cambresis del 1559 con la Francia, alla pace di Utrecht del 1713, che segna il passaggio dal dominio spagnolo a quello austriaco), e dall'altro soggetta all'affermazione della Controriforma cattolica: cosa questa che determinerà il rigido controllo della chiesa su tutta la vita intellettuale e letteraria italiana. La crisi del '600 sarà molto visibile nella seconda metà del secolo, dopo la morte di Bruno, Campanella, Galilei, Tassoni, Marino, Sarpi...

Il '600 è un secolo caratterizzato da profonde contraddizioni:

• alla corte signorile isolata si sostituisce un'area culturale più estesa, caratterizzata da una precisa attività intellettuale (si pensi ad es. alla nascita delle Accademie: Roma, Napoli, Venezia; quella della Crusca di Firenze cura nel 1612 l'ediz. del Vocabolario), o da un preciso genere letterario (p.es. romanzo a Genova-Venezia, ricerca scientifica in Toscana-Veneto, discipline giuridico-civili a Napoli, letteratura dialettale nel Sud). Tuttavia, la letteratura e la poesia non conosceranno alcun vero nome di spicco;

• in questo secolo, con Galilei, si pongono le basi della scienza moderna sperimentale, ma nel contempo si diffonde enormemente la superstizione e il culto semplicemente esteriore-formale della religione, nonché l'uso massiccio del tribunale dell'Inquisizione;

• si pone agli intellettuali il problema di un pubblico nuovo, assai più vasto e meno raffinato di quello delle corti rinascimentali (ora in profonda decadenza), ma la letteratura che gli intellettuali offrono è spesso di evasione, per un pubblico spesso assai arretrato culturalmente;

• gli intellettuali tendono a considerarsi superiori agli antichi scrittori greci e latini, per cui rifiutano il culto dell'autorità dei modelli classici (come invece nel '400-'500), e tuttavia questa rivendicazione di libertà-autonomia spesso si traduce in una mera preoccupazione a stupire e meravigliare il pubblico (concezione edonistica dell'arte, Marinismo);

• nella trattatistica politica si discute molto sulla "ragion di Stato", sui rapporti tra politica e morale, tra Stato e Chiesa, tra individuo e potere (come forse nel '500 non si era mai fatto), eppure le conclusioni che se ne traggono sono quanto mai negative: si proclama la necessaria subordinazione dello Stato alla Chiesa, del singolo allo Stato; la politica diventa calcolo della convenienza; forte è la tendenza alla finzione-simulazione (sopravvivere dietro una "maschera"). In Campanella l'indirizzo politico diventa utopistico (vedi La

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città del sole, con cui si anticipano alcune tesi socialiste).

L'insieme di forme e realizzazioni artistiche (architettura, pittura, musica, letteratura) prende il nome di Barocco (altro nome è Concettismo). In questo fenomeno la forma vuole essere così raffinata da apparire strana e stupefacente, mentre il contenuto vuole essere esteriormente grandioso. Gli intellettuali avvertono che il Rinascimento è giunto a un tale grado di perfezione oltre il quale non è più possibile andare se non appunto perfezionando le forme. Di qui i tentativi di rinnovare le parole, rendendole più retoriche e artificiali.

Si inizia così ad abusare dell'immagine o Metafora, dietro la quale non esiste alcun vero sentimento (la metafora -la più importante delle figure retoriche- è una similitudine nella quale non appaiono i due termini di paragone -uno astratto, l'altro concreto-, ma la fusione d'entrambi in una sola immagine, generalmente concreta: p.es. "è un pozzo di scienza", "il filo del discorso").

L'arte non è più imitazione ma finzione, la quale si sostituisce alla realtà. La realtà risulta troppo complessa per essere fedelmente riprodotta. Le contraddizioni sociali dell'epoca vengono considerate irrisolvibili: di qui il tentativo degli intellettuali di puntare su una novità formale fine a se stessa. Fanno eccezione, in questo senso, poche persone: Galilei sul piano scientifico, Sarpi nell'ambito giuridico-politico, Bruno e Campanella in quello filosofico.

Marinismo

Questa ricerca forzata della novità nelle forme esteriori ed estetiche viene chiamata Marinismo (dal nome del poeta Giambattista Marino, napoletano), per il quale fine della poesia è la meraviglia delle cose eccellenti. Le sue poesie (come tutte le liriche del '600) non inventano nulla di nuovo, ma si limitano a utilizzare in maniera stravagante (combinando motivi e immagini fino all'assurdo) i moduli stilistici e le situazioni della tradizione poetica che va dal Petrarca al Tasso. Poema principale del Marino: ADONE (mitologico in 5.000 ottave. Il pastore Adone, eletto re di Cipro, ottiene l'amore di Venere, ma la gelosia di Marte lo fa uccidere da un cinghiale in una battuta di caccia).

Gli antimarinisti. Si rifanno a due poeti classici greci: Pindaro e Anacreonte. Accettano la poetica della meraviglia, ma provocandola con i toni eroici e sublimi e con meno musicalità. La differenza è solo di forma.

Dunque in che cosa consiste la poetica della meraviglia?

• nel timore d'incorrere nelle condanne dell'Inquisizione con una poesia impegnata;

• nel ritenere che la poesia non abbia altro fine che il diletto; • nell'evitare qualunque riproduzione diretta della natura (considerata la

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maggior nemica dell'arte); • nell'usare lo strumento della metafora fino all'accesso (p.es. posta una

metafora di fondo: la rosa regine dei fiori, attribuire alla rosa tutte le qualità proprie di una regine). La poesia diventa un gioco intellettualistico, bizzarro, ricercato, astruso, spesso volutamente oscuro.

I generi letterari più significativi

Letteratura scientifica

Grazie a Galilei si ha la creazione del metodo induttivo-sperimentale (dal particolare al generale): nasce la scienza moderna. Netto distacco da teologia e filosofia. La scienza afferma propria autonomia di metodo, di contenuto, di mezzi per la ricerca e sperimentazione. Galilei affermava che l'esperienza è più valida degli antichi testi; che bisogna adattare la filosofia (aristotelica) all'esperienza del mondo e della natura; che Dio parla all'uomo attraverso la Natura oltre che la Bibbia, per cui ciò che viene dimostrato dall'esperienza non può essere negato dalla Bibbia; che l'ipotesi eliocentrica di Copernico è migliore di quella geocentrica di Tolomeo.

Per queste ragioni Galilei venne processato, costretto a ritrattare e condannato al carcere perpetuo (pena poi mitigata con la libertà vigilata a causa dell'età e della salute). Opere più importanti: Dialogo dei massimi sistemi e Il Saggiatore.

- Come si è arrivati a tutto ciò? Ideologia umanistica, laico-razionale del '400-'500; valorizzazione della tecnica; collaborazione tra tecnici e scienziati; invenzione del cannocchiale; trasformazione dell'artigiano in borghese; scoperte geografiche e astronomiche...

- La nuova scienza viene esposta in volgare non in latino, perché Galilei e altri avevano bisogno dell'appoggio della borghesia e della collaborazione dei tecnici della nazione. Anche all'estero si cominciano a scrivere testi filosofici e scientifici in volgare.

La commedia dell'arte

Un genere veramente nuovo della civiltà barocca. E' detta anche commedia a soggetto o improvvisata. Generalmente una commedia in 3 atti, recitata da comici di professione, riuniti in compagnie sotto la direzione di un capocomico, che si spostavano da una città (o nazione) all'altra. L'autore di una commedia (poteva anche essere uno degli attori) stendeva dei canovacci o scenari (trame di carattere generale) di cui poi gli attori si servivano improvvisando sulla scena il dialogo. Altri elementi di questa commedia erano i lazzi (gag), cioè scene comico-mimiche (quasi mute) intercalate al dialogo, e le maschere tipologiche, nelle quali si erano fissati i tipi

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comici presenti nella commedia latina e nel teatro rinascimentale, anche se le più famose sono quelle che caratterizzavano gli abitanti di una regione o città (Pulcinella, Arlecchino, Brighella, Pantalone...).

Melodramma

Altro genere nuovo. E' detto anche dramma musicale (oggi: l'opera). Si voleva una tragedia come quella greca, accompagnata dalla musica (recitar cantando). La musica sarà sempre superiore al libretto.

Il romanzo

Nasce e si diffonde nel '600, come in Francia. E' più ampio e più complesso della novella, destinato al vasto pubblico. E' una specie di riduzione in prosa del vecchio poema avventuroso: una letteratura evasiva e patetica, da sostituire a quella cavalleresca ed eroica.

Poema eroicomico

Inventato da Alessandro Tassoni (nato a Modena). Con La secchia rapita (1621) canta in forma eroica argomenti comici. La trama deriva dalla fusione di due guerre tra modenesi e bolognesi. Nella seconda i modenesi, dopo aver sconfitto i bolognesi, tolgono loro, come trofeo di guerra, il secchio di un pozzo. Molti degli eventi narrati non sono storici. Fine dell'opera: 1) contro il municipalismo-campanilismo delle città italiane del tempo (fonte, per lui, di una fiacca resistenza all'egemonia spagnola), 2) contro la moda dei poemi epici, che in effetti dopo la pubblicazione della sua opera ebbero scarsa fortuna. Tuttavia se il Tassoni mise in ridicolo la figura degli eroi, non riuscì a creare dei personaggi più umani e realistici.

Poesia satirica

Gli scrittori satirici evitano i temi politici e religiosi (si scagliano però contro gli eretici e i liberi pensatori). Ridicolizzano i difetti delle corti, ma senza andare troppo a fondo. Trattano molto dei vizi, ma senza riferimenti precisi a fatti e persone. Salvator Rosa, in particolare, polemizza contro quanti imitano Petrarca e Boccaccio, e quanti usano metafore strampalate.

Nella storiografia Paolo Sarpi, che scrisse Storia del concilio di Trento, sostiene che i risultati raggiunti dalla Chiesa furono più formali che sostanziali. Per le sue idee laiche e anticlericali fu fatto uccidere dal papato.

Nella Critica letteraria va segnalato il poema di Boccalini, Ragguagli di Parnaso, che è una satira allegorica contro Aristotele, Guicciardini, i gesuiti e gli spagnoli. E' l'antesignano della letteratura antispagnola.

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IL TEATRO

Tra cinquecento e seicento

Nel periodo che va dalla fine del ‘500 al ‘700 si afferma il teatro e questo accade per ragioni sociali e culturali: nelle corti diventa strumento di diffusione di idee politiche, mentre nelle classi più basse il teatro diventa strumento per esprimere la propria ribellione. Inoltre in questo periodo è la vita ad essere concepita come un teatro: nella vita, infatti, avviene spesso uno scambio tra realtà e finzione, ci si trova a dover impersonare vari ruoli, proprio come accade agli attori teatrali che devono portare una maschera. In Italia il teatro non ha una particolare diffusione, probabilmente anche a causa della crisi economica che nel ‘600 attraversò il nostro paese. In Inghilterra invece ricordiamo Shakespeare e in Francia Molière.

IL TEATRO “REGOLARE” ITALIANO TRA FINE CINQUECENTO E SEICENTO

La tragedia viene concepita più come un testo da leggere piuttosto che da rappresentare in teatro. Anche la commedia letteraria perde la sua diffusione, se si fa eccezione per il Candelaio di Giordano Bruno. Il melodramma costituisce invece una grande novità, grazie alla quale l’Italia manterrà il primato europeo fino a tutto l’Ottocento. Esso nasce a Firenze inizialmente da alcuni studi sul teatro greco, nel quale la musica aveva un ruolo molto importante. Il primo tentativo fu ad opera di Rinuccini con La favola di Dafne. Importante da ricordare è anche il dramma pastorale, cioè un dramma che era ambientato in luoghi campestri. Un esempio è dato dall’Aminta di Tasso e dal Pastor fido di Guarini. Il dramma pastorale è scritto in endecasillabi e settenari.

LA COMMEDIA DELL’ARTE

La commedia dell’arte si dice appunto dell’“arte” nel senso che vuole valorizzare il talento artistico individuale. In questo periodo (siamo nel ‘600) quello dell’attore diventa un vero e proprio mestiere e nascono i primi teatri pubblici, distinti dalle corti.

La prima compagnia teatrale di professionisti nasce a Padova e nel Veneto si era affermata la “commedia degli zanni”. Anche le donne diventano attrici e

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assumono un ruolo molto importante, specialmente quando viene affrontato il tema amoroso.

Le caratteristiche principali della commedia dell’arte sono:

- In primo piano ci sono i contrasti tra tipi di personaggi diversi e non più la trama o i dialoghi.

- I personaggi sono personaggi-tipo, indicano cioè alcune caratteristiche umane e sociali; i personaggi comici parlano in dialetto e portano la maschera (Pulcinella, Arlecchino).

- Il canovaccio (cioè il copione) non contiene i discorsi, ma solo i comportamenti che gli attori dovranno adottare.

La posizione della Chiesa nei confronti della commedia dell’arte era quella di contrastare questo tipo di teatro, proprio per il suo carattere improvvisato e poco controllabile e perciò spesso gli spettacoli venivano censurati.

La commedia dell’arte, come già accennato, ebbe un grande successo che attraversò secoli, fino ad arrivare ai nostri giorni. Le ragioni di tale successo sono da attribuire innanzitutto all’improvvisazione, al fatto cioè che gli attori diventano dei veri e propri professionisti, capaci di improvvisare scene senza avere un copione prestabilito. Inoltre il pubblico non è più un pubblico solo aristocratico: chiunque può entrare a teatro, è necessario solo pagare il biglietto. Questo fatto lo rende uno spettacolo accessibile a tutti e quindi in grado di raggiungere più persone.

SHAKESPEARE, IL TEATRO E NOI

Shakespeare è uno degli autori più famosi e importanti della tradizione europea, famoso in tutto il mondo. il motivo di questa celebrità è da attribuire al fatto che i drammi di Shakespeare parlano di argomenti universali, comuni a tutti gli uomini (l’amore, la morte, ecc.) e che vanno quindi al di là di un determinato contesto storico. Un altro aspetto è quello della centralità del personaggio: attraverso i suoi personaggi Shakespeare vuole trasmettere qualcosa di più grande della persona stessa, vuole trasmettere dei valori universali (come l’amore in Romeo e Giulietta). I personaggi dunque esprimono quei conflitti interiori che ogni uomo si trova a vivere.

VITA DI WILLIAM SHAKESPEARE

William Shakespeare è nato nel 1564 a Stratford upon- Avon. E’ senza dubbio uno dei drammatici più grandi ammirati e rappresentanti di tutti i tempi per

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l’universalità dei temi e il linguaggio straordinariamente ricco. Figlio di un guantaio e piccolo proprietario terriero, Shakespeare sposa a 18 anni una donna maggiore di lui da cui ha due figli. A 22 anni abbandona la famiglia per cercare fortuna a Londra dove diventa attore oltre che autore di testi e impresario teatrale. Raggiunto il successo, grazie all’appoggio del duca di Southampton, diviene nel 1599 proprietario di un teatro, il celebre Globe, dove fa rappresentare i suoi testi. Della sua vita privata si sa ben poco: le uniche notizie riguardavano vicende legali di scarsa importanza oppure le date di pubblicazione o di rappresentazione delle suo opere. Dopo aver accumulato una discreta fortuna, ritorna a Stratford dove vive da gentiluomo di campagna fino alla morte, avvenuta nel 1616.

I SONETTI E LE PRIME OPERE TEATRALI

Possiamo distinguere tre fasi nella produzione di Shakespeare:

- In una prima fase Shakespeare sperimenta generi diversi, anche non riguardanti il teatro. In questo periodo ricordiamo i Sonetti e alcune tragedie (ricordiamo Romeo e Giulietta); i drammi storici, come Riccardo III.

- La seconda fase coincide con la produzione teatrale più importante. Tra le tragedie ricordiamo Giulio Cesare, Amleto, Otello, Macbeth.

L’Amleto è una tragedia in cui il protagonista, che è appunto Amleto, deve vendicare la morte del padre, di cui scopre l’assassino perché gli viene rivelato da un fantasma. La vicenda si complica perché Amleto non riesce subito ad uccidere l’assassino del padre, a causa dal suo carattere incerto, e questo genera una serie di circostanze per le quali muoiono molti dei personaggi, tra i quali, alla fine, anche lo stesso Amleto. Il personaggio di Amleto rispecchia l’uomo moderno proprio per questa sua incertezza e incapacità di prendere decisioni.

Nell’Otello, invece, accade che il protagonista uccide la propria amata a causa di un inganno e poi si uccide a sua volta, quando viene a sapere che la sua amata, Desdemona, non lo aveva realmente tradito, ma era stata anche lei vittima dell’inganno.

- Nella terza fase della produzione di Shakespeare ricordiamo in particolare la Tempesta, un romance di tipo fiabesco in cui l’autore immagina un mondo in cui prevalgono la giustizia e la serenità. Protagonista è il mago Prospero, che alla fine avrà il compito di educare gli uomini alla civiltà.

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ILLUMINISMO

I principali filosofi e scrittori del '700

Chiamato anche "secolo dei Lumi", quest’ultimo ha visto l’affermarsi dell’Illuminismo e dei suoi principali filosofi e scrittori del ’700 ai quali si deve il merito di aver portato avanti le idee fondanti del movimento. L’Illuminismo fu, infatti, un movimento che è possibile definire non solo letterario, ma anche politico, sociale, culturale e filosofico il quale si è sviluppato intorno al XVIII secolo e ha abbracciato gran parte dell’Europa, fino a raggiungere l’America.

Nato in Inghilterra ebbe larga diffusione in Francia fino a interessare tutta l’Europa: il nome che prese, ovvero illuminismo, divenne presto il termine per identificare ogni forma di pensiero che si pone l’obiettivo di illuminare le menti degli uomini, scacciando via l’ignoranza, le false credenze e la superstizione. Lo sguardo degli illuministi è proiettato sul futuro e in modo particolare sul progresso inteso come percorso verso il futuro.

Le armi dell’Illuminismo sono principalmente due: da una parte la ragione, dall’altra la scienza, entrambe per eliminare l’oscurità e fare chiarezza sugli aspetti che interessano l’uomo, la vita e l’esistenza.

Per entrare nel merito richiamiamo alla memoria la definizione del filosofo Immanuel Kant:

«L’illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stesso è questa minorità, se la causa di essa non dipende da difetto d’intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! È questo il motto dell’Illuminismo.» (Immanuel Kant, Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo?, 1784)

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Per gli illuministi la fede risiede nella ragione: a quest’ultima infatti è affidato il compito di determinare gli eventi, le possibilità, i limiti umani. L’Illuminismo non riconosce la verità intesa come rivelata o innata.

In altre parole l’uomo, creato libero dalla Natura, è affetto da pigrizia cronica o viltà, non ha quindi il coraggio per cercare la verità. Una scelta che si traduce, per i più furbi, in autoproclamarsi guide per coloro che hanno scelto la via comoda. E proprio queste guide possono essere abili manipolatori, capaci di imprigionare i pigri ad essere sempre non autonomi.

Così l’illuminista si propone di tutelare gli uomini mostrando loro la strada per diventare maggiorenni, l’uso della ragione è l’unica via di salvezza per essere liberi davvero e liberarsi dalle verità già date, tanto nell’ambito della conoscenza quando in quello religioso. La ragione, infatti, rifiuta a priori tutto ciò che non deriva da essa e da una ricerca proficua in cui l’esperienza è parte fondamentale, in quanto oggetto di analisi e dibattiti. Vediamo nel dettaglio quali sono stati i maggiori esponenti dell’Illuminismo settecentesco, tra filosofi e scrittori famosi che hanno contribuito alla diffusione del movimento in Europa e oltreoceano.

I principali filosofi e scrittori del ’700: l’Illuminismo e i suoi maggiori esponenti francesi

Tra i principali filosofi e gli scrittori del ’700 troviamo senza dubbio illuministi, ovvero esponenti dell’Illuminismo ai quali si deve la diffusione del movimento nel mondo, in particolare in Inghilterra, la culla, e successivamente in Francia. Tra i filosofi e scrittori del ’700 identificabili con la volontà di una rottura definitiva con il passato ricordiamo, in modo particolare, quelli francesi:

• Voltaire, esponente di spicco della filosofia illuminista, divulgò le nuove teorie newtoniane negli "Elementi della filosofia di Newton". Successivamente pubblicò le famose &lqquo;Lettere inglesi”, primo libro di successo. Deve la sua celebrità all’opera "Trattato sulla tolleranza", anche se la sua produzione è molto ampia;

• Montesquieu, il primo vero illuminista al quale fu riconosciuto grande successo in patria e all’estero. La sua opera più famosa è intitolata "Lettere Persiane", pubblicata nel 1721. Il racconto è incentrato sulla visita in Europa da parte di due persiani e ai loro occhi è affidato lo sguardo su usi e costumi del vecchio continente. Il suo capolavoro è, invece, "Lo spirito delle leggi" del 1748 in cui l’autore affronta il tema delle diverse forme di governo, lasciando trapelare la preferenza per

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quello inglese; • Jean-Jacques Rousseau, personaggio emblematico all’interno del

movimento illuminista in quanto si professò a volte in accordo, alle volte in antitesi, con le tesi fondanti. Scrisse, su incarico di Diderot, alcune voci per l’"Enciclopedia", fu autore del "Discorso sulle scienze e le arti" che lo rese famoso e, nonostante la rottura con l’ambiente parigino, pubblicò saggi di grande importanza quali il "Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza" del 1755, "La nuova Eloisa" del 1761, "Il contratto sociale" e l’"Emilio" del 1762;

• Denis Diderot, curatore con Jean-Baptiste Le Rond d’Alembert della famosa e citata "Enciclopedia", conosciuto per essere ancora più anti-religioso di Voltaire. Scrisse "pamphlet", commedie, satire, romanzi, lettere, saggi, ebbe grande influenza sulla zarina Caterina II, ma le sue proposte riformiste non vennero mai attuate;

• Jean-Baptiste Le Rond d’Alembert, tra i più importanti protagonisti dell’Illuminismo collaborò con Diderot alla stesura del testo fondante. Fu il direttore di alcune sezioni in particolare, ovvero matematica e scienze. Scrisse nel 1751 il famoso "Discorso preliminare" e a lui si deve il noto "Teorema d’Alembert" sui polinomi e il "Principio di d’Alembert", sulla quantità di movimento.

Ad essi si deve la diffusione dell’Illuminismo in Francia, furono ispirati dalle idee e dalla filosofia dei predecessori inglesi, ovvero Locke, Newton e David Hume, a loro volta influenzati dal pensiero di Francis Bacon. Sempre di origine francese, inoltre, è l’idea di mettere a punto quello che può essere definito come l’emblema dell’illuminismo francese: si tratta dell’Enciclopedia o Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri. 17 volumi, 11 tavole e 60.000 voci, pubblicati dal 1751 al 1772 per opera di un gruppo di intellettuali diretti da due nomi importanti sulla scena di quel tempo, ovvero Diderot e D’Alembert.

Il documento avrà l’obiettivo di diffondere i principi dell’Illuminismo non solo in Francia ma nell’Europa intera.

L’Illuminismo e i suoi esponenti italiani, tra filosofi e scrittori del bel paese

Come in parte accennato, l’Illuminismo ebbe esponenti, filosofi e scrittori in tutto il mondo, anche in Italia.

In particolare, nel bel paese si distinsero cinque personalità che furono presto

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riconosciute come di rilievo per la diffusione del movimento:

• Paolo Frisi, uno dei primi in Italia ad abbracciare il movimento, di origini lombarde e italiane fu un matematico e un astronomo;

• Pietro Verri, fondò nel 1761 l’Accademia dei Pugni e successivamente la nota rivista "Il Caffè";

• Giuseppe Parini, letterato, abate e filosofo fu tra gli esponenti delle idee illuministe;

• Cesare Beccaria, grande sostenitore della filosofia illuminista, ricordato per la sua opera più importante, Dei delitti e delle pene, pubblicata nel 1764;

• Francesco Mario Pagano, sostenitore delle idee illuministe e proveniente dalla scuola napoletana, autore dei "Saggi politici de’ principii, progressi e decadenza della società".

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GOLDONI E L'ILLUMINISMO La caratteristica principale che emerge dalle commedie goldoniane è la critica al ceto nobiliare affiancata da un elogio alle virtù positive della borghesia. Goldoni nelle sue opere introduce personaggi e caratteri reali e a lui contemporanei caratterizzati da qualità come la ragionevolezza, l’accortezza, l’oculatezza nelle questioni economiche. A questi soggetti, che spesso sono portavoce del punto di vista dell’autore, per contrasto, se ne affiancano altri di origine aristocratica, boriosi e presuntuosi. Questa critica ai nobili può essere considerata un “Illuminismo popolare”; Goldoni non si inserisce consapevolmente nel programma di rinnovamento culturale del 1700 pur condividendo le stesse ideologie. Non si riscontrano tensioni rivoluzionarie; il suo pensiero è autonomo e naturale.

Una figura di rilievo nella classe sociale appena analizzata è quella femminile. Le donne borghesi sono intelligenti, capaci di usare le loro doti quando ce ne sia bisogno; esse tuttavia appaiono disposte a restare entro i ruoli subordinati che assegna loro la società. Chiedono, però, e pretendono, il rispetto che si deve loro come persone civili e talvolta anche indipendenti e autonome: sono quindi personaggi femminili, spesso, a mettere in scena quella razionalità e quella civiltà che Goldoni ammira nella borghesia.

La tendenza illuministica di Goldoni emerge soprattutto dalla rappresentazione realistica del mondo che viene indagato nelle sue contraddizioni con uno spirito critico e acuto, attraverso un registro espressivo quotidiano e dialettale, lontano dai classicismi letterari. Il problema è particolarmente delicato per la lingua italiana, data l’assenza di uno vocabolario per la comunicazione di ogni giorno. La lingua scelta da Goldoni è ricca di venetismi, lombardismi e francesismi, presenta inoltre forme del toscano colloquiale. Il risultato ottenuto è un linguaggio artificiale, puramente scenico, ma capace di produrre l’effetto della vivacità linguistica. Il dialetto contraddistingue i personaggi da un punto di vista sociale e caratteriale. La volontà di penetrare nelle pieghe della concreta condizione umana è perseguita da Goldoni con ogni mezzo, anche quello formale.

L’autore trova difficoltà solo nella rappresentazione dei sentimenti amorosi, poiché non riesce a fondere in modo armonioso le esigenze teatrali e la realtà. Goldoni evita ogni riferimento erotico all’interno delle sue opere, gli innamorati esternano le loro emozioni, cercando però di reprimere la loro passione.

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“La locandiera”

di

CARLO GOLDONI

Introduzione

La locandiera è una commedia in tre atti di Carlo Goldoni, composta nel 1751, al termine della collaborazione tra il commediografo e il teatro Sant’Angelo, e messa in scena all’apertura della stagione di carnevale 1752-1753. La trama verte attorno al personaggio della locandiera Mirandolina, che, aiutata dal cameriere Fabrizio, si trova a doversi difendere dalle proposte amorose dei clienti dell’albergo da loro gestito nei pressi di Firenze. Al centro delle vicende c’è sempre la vigile e smaliziata intelligenza di Mirandolina, che sa far prosperare la sua attività commerciale e mettere in scacco l’altezzoso cavaliere di Ripafratta, uno dei suoi pretendenti.

La locandiera è considerata uno degli esempi più riusciti della “commedia di carattere” goldoniana, con cui l’autore veneziano capovolge e rinnova la tradizione della Commedia dell’Arte.

Riassunto

Nel primo atto Mirandolina, una giovane ed affascinante locandiera abituata a ricevere attenzioni e lusinghe dai clienti, viene corteggiata da due ospiti: il Marchese di Forlipopoli, un nobile decaduto, e il Conte di Albafiorita, un mercante arricchito che ha comprato il titolo nobiliare grazie ai suoi commerci. Anche nel corteggiamento i due si comportano in modo conforme al proprio ruolo sociale: il Marchese è convinto che basti il prestigio del suo titolo per conquistare l’amore di Mirandolina, mentre il Conte crede di poterla comprare per mezzo di regali e doni. Arriva però alla locanda un terzo ospite, il Cavaliere di Ripafratta, burbero e misogino, che si prende gioco perché insistono a dimostrare interesse per una donna (per giunta popolana), mentre egli, preferendo di gran lunga la libertà del celibato, non si abbasserebbe mai tale condizione. Mirandolina, offesa e stimolata dal comportamento del Cavaliere, spiega in un monologo voler di minare le sue convinzioni, facendolo innamorare di lei. Segue quindi uno screzio tra lei e il conte sulla biancheria dell’albergo: entrambi ribadiscono di preferire la libertà piuttosto che il matrimonio. Entrano in scena Dejanira e Ortensia, due attrici di commedia che si fingono gran dame e che si contendono le attenzioni del Marchese

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di Forlipopoli e del Conte di Albafiorita. Mirandolina ribadisce il suo progetto di conquistare il Cavaliere.

Il secondo atto vede quindi Mirandolina mettere in atto i suoi propositi. Durante un pranzo in cui si siedono alternativamente a tavola i due nobile, Dejanira e Ortensia, il Cavaliere e Mirandolina, quest’ultima fa sfoggio del proprio carattere indipendente e sincero, come quando dichiara al Marchese che il vino da lui ritenuto eccelso è in realtà pessimo o come quando spiega al Cavaliere che anche lei disprezza la superficialità del genere femminile. Le due finte dame provano anch’esse a sedurre il Cavaliere ma quest’ultimo, quando scopre che sono solo attricette teatrali, vorrebbe andarsene sdegnato. Mirandolina, nell’accomiatarsi da lui, finge di piangere e, ad un certo punto, sviene di fronte a lui. Il Cavaliere cade nel tranello della protagonista, innamorandosi di lei.

Nel terzo atto acquista visibilità il cameriere Fabrizio, cui il padre di Mirandolina, in punto di morte, ha affidato la figlia. Il Cavaliere dona a Mirandolina una preziosa boccetta d’oro ma la donna rifiuta, ignorando pure la successiva dichiarazione d’amore dell’uomo. Il Marchese smaschera la passione del Cavaliere che, in un ultimo disperato assalto, provoca la reazione di gelosia di Fabrizio, che, innamorato di Mirandolina, la difende. Il Cavaliere, ormai preda di quella passione amorosa che aveva sempre sfuggito, è a tal punto furente da far scoppiare una lite col Conte, che rischia di degenerare in un duello. Mirandolina, ormai soddisfatta per aver realizzato il suo piano, interviene annunciando che sposerà il cameriere Fabrizio: il Cavaliere non può che abbandonare la locanda su tutte le furie, mentre il Marchese e il Conte sono invitati a trovare un altro alloggio e a desistere dai loro propositi. Mirandolina, del resto, promette al futuro sposo di smetterla di sedurre gli uomini per divertimento. Nel monologo finale, Mirandolina mette in guardia il pubblico dalle abilità di una donna e dalle sue lusinghe.

Analisi e commento

La locandiera è una delle opere di Goldoni che hanno goduto di maggior fortuna critica e di pubblico e una di quelle che meglio riassume le caratteristiche del teatro goldoniano. Si nota innanzitutto la riuscita caratterizzazione dei personaggi che, in maniera opposta a quanto succede con le “maschere” fisse della Commedia dell’arte, sono definiti ciascuno in modo individuale e peculiare. A svettare su tutti è ovviamente la figura di Mirandolina: intelligente e determinata, bella e consapevole di sé, la “locandiera” ha come primo interesse il profitto della sua attività e quindi sa sia disimpegnarsi con stile dalle mediocri tentativi di seduzione del Conte e del Marchese e sia tener testa all’orgoglio borioso del Cavaliere, facendolo infine capitolare. Mirandolina è così regista e attrice dell’azione scenica, tanto da rivolgersi spesso al pubblico coinvolgendolo nella sua finzione e spiegando in dettaglio come agirà per battere il “nemico”. La locandiera si sdoppia infatti tra l’azione e la

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premeditazione delle battute in controscena. Attraverso di lei, Goldoni da un lato stabilisce un dialogo diretto con il suo pubblico e dall’altro pone in rilievo l’arma con cui Mirandolina trionfa, ovvero l’intelligenza.

È del resto questa, insieme con l’intraprendenza e il senso del dovere, la dote della nuova classe borghese, che nella Venezia di metà Settecento è in piena ascesa; tutt’altra cosa rispetto all’inutilità e al parassitismo della vecchia classe aristocratica, improduttiva ed arroccata sul superato concetto del prestigio e del rispetto del titolo. Il dinamismo di Mirandolina è anche la dote che mette in scacco la misoginia e il carattere superbo del Cavaliere. La conclusione della commedia è però nel segno dell’ordine: Mirandolina, pur vincente, ammette d’aver esagerato e rientra nei ranghi con il matrimonio con Fabrizio, come le era stato consigliato dal padre morente. Questo del resto è in linea con la finalità etica che, con un pizzico d’ironia, Goldoni indica nella prefazione intitolata L’autore a chi legge: la storia de La locandiera deve mettere in guardia gli uomini dalle illusioni e dagli amari tranelli che le donne sanno, con somma astuzia, architettare.

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IL NEOCLASSICISMO

Il risveglio della coscienza nazionale, motivo comune alla storiografia di questo

periodo, agisce positivamente in due direzioni:

1. suscita una sempre più accentuata nostalgia del passato, in funzione di un

informe vagheggia mento del futuro;

2. favorisce la tendenza ad evadere dal presente, per ritrovare in un mondo di

serena bellezza l'acquetamento delle inquietudini e delle ansie suscitate dalla

caduta degli ideali illuministici.

! I preromantici si trasferirono con il pensiero all'età medievale, ed in genere a

quelle età in cui l'uomo poteva ancora vivere felice nella contemplazione della

bellezza di una natura vergine e selvaggia;

! altri si volsero al mondo dell' Ellade come ad un mitico regno di giovinezza

eterna, tutto armonia, tutto grazia, tutto decoro, nel quale la bellezza,

innalzata a supremo ideale, aveva avuto la sua migliore ed intramontabile

espressione. Furono questi ultimi a dar vita al movimento che prese il

nome di Neoclassicismo e che informò di sé la letteratura, l'architettura,

le arti figurative, e le cosiddette arti minori.

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Di classicismo si è già avuto modo di parlare nei secoli precedenti, soprattutto

allorché ci si era trovati di fronte alla religiosa passione rinascimentale per il

mondo antico, od alla reazione classica, in funzione antibarocca, del Settecento

(Arcadia, Parini): ora ci si trova innanzi ad una nuova interpretazione della

classicità, in quanto si tende ad estrinsecare in forma misurata ed armonica, in

vaghezza di immagini ed in equilibrato rapporto di proporzioni, la ricchezza

interiore dei sentimenti: «su dei pensieri nuovi facciamo dei versi antichi »,

aveva ammonito il giovane poeta Andrea Chenier, che non pensava di aver in

tal modo sintetizzato l'aspirazione della nuova corrente artistico-letteraria (si

ricordi anche l’Accademia dei Trasformati, cui aveva aderito Parini, e il suo

programma consistente in: Stile classico + contenuti moderni).

Tale interpretazione è da collegarsi con la scoperta dell'arte greca, scoperta in

gran parte determinata dai rinvenimenti archeologici di Ercolano e Pompei, di

tutta una serie di antiche sculture e pitture destinate, con la incomparabile

grazia della loro linea, ad agire profondamente sul gusto europeo. Si

moltiplicarono stampe e disegni riproducenti gli antichi capolavori venuti alla

luce (si pensi alle incisioni in rame del Piranesi).

Fondamentale, per la delineazione del gusto neoclassico, è la Storia dell'arte

dell'Antichità di Johann Joachim Winckelmann (1717-1768), un tedesco che

aveva nutrito, fin dalla giovinezza, un vivissimo interesse per il mondo antico,

e che trascorse parecchi anni a Roma per studiare da vicino monumenti e

memorie di ciò che per lui era diventato un mito.

Attribuito un valore esemplare all'arte greca, Winckelmann definì la bellezza

“uno dei misteri cui vediamo e sentiamo l’effetto, ma i cui non è riuscito ad

alcuno dare un’idea ben determinata”.

A Winckelmann pertanto si deve l’elaborazione di una teoria estetica (= filosofia

dell’arte) volta alla definizione del concetto di bellezza con particolare riferimento

all’arte.

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Egli afferma che il concetto che noi abbiamo di bellezza, che è quindi

impossibile definire in maniera univoca, è tanto più perfetto quanto più è

conforme e concordante con “l’essere supremo”.

Cosa vuol dire? Vuol dire che lo studioso dà una definizione di bellezza in

senso mistico e pirituale, coincidente con l’ideale.

E siccome gli attributi di questo essere supremo sono l’unità e la semplicità,

egli conclude che l’arte, per rispettare i canoni di bellezza, dovrà tendere ad

una “calma grandezza” e ad una “nobile semplicità”.

Da questo concetto e dal presupposto che l’arte greca fosse caratterizzata dalla

“serenità”, Winckelmann dedusse il canone dell’Impassibilità:

ogni opera desiderosa di avvicinarsi alla perfezione artistica della statuaria

greca, deve avere come requisito la compostezza (valga per tutte l'immagine

del dio Apollo che dal cielo scende « tremendo e sereno»).

Egli additò nella statuaria greca del periodo Classico proprio tutti i requisiti

teorizzati.

I greci avevano scoperto il dominio delle passioni, bisognava quindi seguire il loro esempio. Tale concetto di bellezza quindi è da intendersi in senso ideale, la bellezza

così descritta non è quindi terrena, ma spirituale (insomma l’arte si distacca dal

realismo).

Da qui deriva anche il concetto di bellezza rasserenatrice (vedi Foscolo):

osservando la bellezza l’animo umano si rasserena e domina le passioni (“e

mentre io guardo la tua pace, dorme/ quello spirito guerrier ch’entro mi

rugge” Foscolo, “Alla sera”)

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In molti dei poeti, pittori, scultori, architetti che ne seguirono le orme, questa

«serenità » finì per tradursi in una cristallizzazione di immagini, di colori, di

linee, ed in una strumentalizzazione, per lo più politica, degli antichi miti, per

cui personaggi ed avvenimenti della vita contemporanea furono travestiti

mitologicamente con esiti artistici di dubbio esiti artistici di dubbio valore

decorativo e coreografico.

Questa strumentalizzazione raggiunse il suo apice nel periodo dell'Impero, quando

Napoleone veniva dipinto nelle vesti di Giove olimpico o di Cesare, o rappresentato

scultoreamente come un eroe dell'antica e mitica Ellade, o gli venivano innalzati

archi di trionfo, o rievocava egli stesso il tempo antico assumendo l'appellativo di

«console», attribuendo al figlio il titolo di Re di Roma, inserendo sui labari delle

legioni i simboli delle aquile imperiali.

E’ questo il Neoclassicismo in senso stretto: moda, gusto, imitazione pedissequa

degli antichi, priva di contenuti nuovi; un’arte disimpegnata, cortigiana e al servizio

del potere.

In altri letterati, tuttavia, pochi invero, la serenità greca rappresentò il poetico

affinamento degli impulsi sentimentali, e diede vita a mirabili creazioni nelle quali le

passioni umane si addolciscono in una armonica euritmia di atteggiamenti che

sembrano disegnare, su uno sfondo di ellenistica eleganza, figure evocate dal sogno,

e queste acquistano la compostezza religiosa di un rito.

In questi pochi il Neoclassicismo espresse il meglio di se stesso, da elemento

decorativo si trasformò in profonda ragione di poesia (Foscolo), acquistò vigoria di

espressione e nitidità di disegno nelle arti figurative (Canova), e non si esaurì con la

scomparsa delle cause contingenti che ne avevano favorito, se non il sorgere, la

notevole diffusione.

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In questi pochi esponenti il Neoclassicismo diventa mezzo per rivestire, in forme

antiche, contenuti nuovi, di carattere politico o sentimentale; diventa arte impegnata

e non a caso assume punti in comune con il preromanticismo, corrente parallela che

era sorta dalla stessa crisi spirituale, pur scegliendo soluzioni diverse.

L’artista neoclassico (Foscolo ad esempio) che non si isola dalla realtà, dal mondo,

non può che vedere ed essere toccato dalle stesse problematiche che appassionano i

suoi colleghi preromantici: di qui le affinità, le tangenze ed interferenze da un punto

di vista tematico, tra le due correnti di questo periodo di transizione, denominato Età

Napoleonica.

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TRA SETTECENTO E OTTOCENTO

IL CONTESTO Il periodo storico compreso tra la Rivoluzione francese (1789) e la Restaurazione (1815) viene definito in maniera diversa, a seconda che si vogliano sottolineare gli aspetti culturali piuttosto che politici, così viene denominato:

• Età neoclassica o preromantica " definizione che evidenzia le due prevalenti tendenze contemporanee del gusto artistico e letterario

• Età napoleonica " definizione che evidenzia l’evento storico dell’epoca, cioè dall’ascesa alla caduta di Napoleone.

PANORAMA STORICO, POLITICO E SOCIALE La campagna militare di Napoleone Bonaparte incide notevolmente sulla configurazione territoriale dell’Italia. Si possono ricostruire tre fasi:

• 1° fase repubblicana (1796-1799) " creazione della Repubblica Transpadana e Cisalpina, Cessione del Veneto all’Austria col trattato di Campoformio (1797), instaurazione della Repubblica Partenopea e Romana, fuga del Papa in Toscana. Caduta delle Repubbliche giacobine.

• 2° repubblicana (1800-1805) " proclamazione della seconda Repubblica Cisalpina, ricostruzione della Repubblica Ligure, nascita della Repubblica Italiana con capitale Milano (1802)

• 3° fase (1805-1814) " Napoleone si proclama re d’Italia, falli9mento dell’impresa napoleonica in Russia (1812), con la disfatta di Lipsia (1813) e quella di Waterloo (1814) crolla l’impero francese e l’Italia ritorna sotto l’egemonia austriaca

Relativamente agli aspetti sociali, la politica napoleonica mira a creare una nuova classe dirigente favorevole al suo governo e aperta alle innovazioni giuridiche, economiche e culturali da lui promosse. Ciò si verifica soprattutto nell’Italia settentrionale, dove occorrono intellettuali di tutto il paese, attratti, oltre che dalle possibilità di lavoro, anche dalla fede nei principi rivoluzionari. Nel regno di Napoli, invece, la repressione attuata dai Borboni nei confronti degli intellettuali coinvolti nella Repubblica Partenopea distrugge quasi completamente la cultura meridionale, creando un vuoto destinato a permanere per parecchi8 anni. Sul piano della società culturale, l’intellettuale attraversa una profonda crisi di ruolo: scomparsa del vecchio

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modello intellettuale cortigiano (l’ultimo esempio è Monti), si pone il problema, relativamente al rapporto cultura-potere politico, della scelta da parte dell’intellettuale tra la partecipazione o l’astensione. Le soluzioni che i letterati attuano sono molteplici: in linea di massima partecipano, pur con riserve intellettuali, e diventano elementi attivi nella promozione del consenso governativo. PANORAMA CULTURALE Fra Settecento e Ottocento due politiche sono particolarmente attive: una, che si richiama al Classicismo, viene detta Neoclassicismo; l’altra che si rifà al gusto sentimentale o orroroso già diffuso dall’illuminismo, viene denominata Preromanticismo. Il Neoclassicismo Sollecitato dalla scoperta di resti di Ercolano e Pompei (le città sepolte dall’eruzione del Vesuvio del 79 d.c.) e accompagnato da un intensa attività di archeologia, il Neoclassicismo indica in primo luogo un atteggia mento di ammirazione nei confronti della scultura e dell’architettura greco- latine, riproposte come modelli di perfezione da imitare. L’archeologo e storico dell’arte Johann Joachim Winckelmann è considerato come il teorico della corrente; celebre è la definizione che egli da all’arte classica, nella sua opera “pensieri sull’imitazione dell’arte greca nella pittura e nella scultura”(1775) : “Il buon gusto che si va sempre più diffondendo nel mondo, evbbe origine in terra greca (…)la generale e principale caratteristica dei capolavori greci è una nobile semplicità e una quieta grandezza, sia nella posizione che nell’espressione. Come la profondità del mare che resta sempre immobile per quanto agitata ne sia la superficie, l’espressione delle figure greche, per quanto agitate da passione, mostra sempre un’anima grande e posata”. In letteratura il Neoclassicismo assume un significato più profondo: si configura cine il vagheggiamento del mito, nella fattispecie dell’ideale di bellezza quantificata dall’arte greca, intesa come sinonimo dell’Ellade serena e cioè come età di equilibrio dello spirito umano. In questo ideale si rispecchia l’aspirazione per un mondo di pace, di bellezza e armonia, e quindi, per contrasto, si esprime la delusione per il presente e il desiderio di fuga della società napoleonica, rilevatasi oppressiva e violenta. Il Neoclassicismo è caratterizzato dalla produzione di forme d’arte lineari e armoniche, da una scrittura controllata, elaborata ed elegante e da un interpretazione della poesia e dell’arte come contemplazione della bellezza ideale: in questa ottica la poesia, poiché riesce a superare, sublimandole, le passione umane e le contraddizioni della storia assume una funzione purificatrice.

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Il Preromanticismo Negli ultimi decenni del Settecento si diffonde in Europa una sensibilità reattiva al razionalismo illuministico, che rivendica la priorità dal sentimento sulla ragione, il senso drammatico della vita e i grandi temi esistenziali: la fantasia e il mistero diventano predominanti; è il preludio della stagione romantica ottocentesca, denominato dai critici del Novecento: Preromanticismo. Questo gusto sorge in Inghilterra e si caratterizza per un senso di malinconia e di tenerezza per l’inclinazione a meditazioni gravi e patetiche, intrise di commozione. Tale letteratura influisce notevolmente sulla sensibilità e sulla scrittura di poeti e prosatori italiani, che ne risentono anche sul livello linguistico e stilistico: il verso o la musicalità si caricano di quello che Ippolito Pindemonte definisce “grave stil”. I GENERI LETTERARI

LA PROSA Il romanzo Nella prosa narrativa l’unico testo importante è il romanzo epistolare “Le ultime lettere di Jacopo Ortis” di Foscolo. Per il resto, il periodo è dominato dalla prosa giornalistica e dalla saggistica storico- politica. Il giornalismo Tra i numerosi periodici pubblicati nel triennio giacobino (più di cento), il più importante è il termometro politico della Lombardia diffuso nell’intera Italia. Nell’attività giornalistica si impegnano quasi tutti gli intellettuali dell’epoca: i temi maggiormente trattati – con tono quasi sempre enfatico e oratorio – sono di natura politica e riguardano l’indipendenza italiana, le insidie antirivoluzionistiche tese dagli aristocratici e dai rappresentanti ecclesiastici e la miseria del popolo. Durante il regime napoleonico la stampa è asservita al potere e diviene di propaganda dai programmi politici e culturali. La trattatistica La trattatistica storico-politica affronta in modo più approfondito le tematiche discusse nei periodici, conservandone spesso lo stile retorico. Principali autori storici sono:

• Francesco Lomonaco " diffonde con il suo “Rapporto al cittadino Carnot” la prima ancorata denuncia alla repressione borbonica

• Melchiorre Gioia " scrive prevalentemente saggi di economia e statistica intesi a sostenere lo sviluppo della nuova società borghese

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• Vincenzo Cuoco " incarna l’ideale dello scrittore illuminista che sente la letteratura come testimonianza dell’impegno civile. Fondamentale è “Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799”, nel quale si critica l’astrattezza degli ideali giacobini, causa di fallimento del loro moto rivoluzionario. L’estrema concretezza, insieme allo stile asciutto, privo di retorica, fanno avvicinare, l’opera di Cuoco allo storicismo romantico.

Il purismo Fenomeno italiano del primo Ottocento, il Purismo si inquadra nell’annosa questione della lingua e consiste nella ripresa delle teorie cinquecentesche di Pietro Bembo, che aveva individuato il modello puro della lingua italiana nei grandi scrittori del Trecento, e in particolare in Tetrarca per la poesia e Boccaccia per la prosa. Su questi principi l’Accademia della Crusca aveva elaborato ben cinque edizioni del “Vocabolario” i cui punti di riferimento erano stati allargati agli autori minori del Cinquecento. Il purismo ottocentesco assume un carattere particolare, perché si configura come una reazione all’influenza del francese sull’italiano. Tra i promotori:

• Padre Antonio Cesari " curatore della “crusca veronese”, la nuova e più severa edizione del vocabolario.

• Pietro Giordani " prosatore, amico e corrispondente di Leopardi • Basilio Puoti " maestro di De Sanctis

La Poesia La poesia si fa interprete del duplice gusto dell’epoca, neoclassico e preromantico. I migliori esiti si raggiungono con Foscolo, tuttavia tra gli altri si ricordano:

• Aurelio Bertola " poeta e traduttore. Le sue opere sono caratterizzate da cadenze malinconiche e da un prepotente sentimento della natura

• Alfonso Varano " tragediografo e poeta, noto per le sue opere nelle quali si richiama Dante e la Bibbia, con immagini cupe al fine di rendere la paura del peccato.

• Melchiorre Cesarotti " illumista, si interessa alla poesia sepolcrale • Ippolito Pindemonte " autore di tragedie, poemetti, romanzi e traduzioni dal

greco, amico di Fosco0lo. Nelle sue liriche egli sa mescolare la limpidezza della sua formazione classica con la malinconia che proviene dalla poesia sepolcrale inglese.

• Edoardo Calvo "medico e intellettuale, autore di liriche rivoluzionarie in dialetto pieemontese

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• Ignazio Ciaia " nelle liriche celebra la fiducia nella Francia come centro di libertà, uguaglianza e fraternità.

Il teatro Si segnalano nel periodo napoleonico le tragedie di Giovanni Pindemonte, Vincenzo Monti, e Foscolo. Solo alla fine di questo periodo si hanno le prime esperienze del nuovo melodramma che avrà pieno sviluppo nell’Ottocento con Rossigni. LE LETTERATURE STRANIERE Area Francese Fra settecento e Ottocento in Francia si segnalano due scrittori avversi a Napoleone:

• Madame de Stael " autrice di romanzi di ispirazione femminista e del “trattato della Germania” (1810), manifesto del Romanticismo europeo. Nella sue opera Madema de Stael formula il famoso giudizio basato sui nessi tra clima, società e letteratura, per cui le letterature mediterranee sono plastiche, colorite e sensuali, quelle nordiche, mediative e spirituali.

• François – Renè de Chateaubriand " autore di opere di successo, nelle quali sullo sfondo di un continuo oscillare dal più intimo autobiografismo a considerazioni di ordine universalistico, emergono temi destinati a lunga fortuna, come la rivalutazione dello stile gotico, la bellezza della campagna deserta e la maestosità della Grecia antica.

Area Inglese In Inghilterra le inquietudini preromantiche diffondono il gusto dell’orrido nel cosiddetto romanzo “nero” e “gotico” e trovano voce di spicco nella poesia sepolcrale. Troviamo ad esempio le opere di Thomas Gray e di Edward Young. Di gusto preromantico è anche il mito di sapore medioevale del poeta vate, come il leggendario Ossian, bardo dei celti gallesi del III secolo, i cui “canti” composti in realtà dallo scozzese James Macpherson trasmisero il senso epico della natura e il gusto dei notturni. Decisamente romantica è invece l’ispirazione di William Blake, pittore, incisore e poeta di straordinaria forza visionaria. Celebri i suoi “canti dell’innocenza” e “canti dell’esperienza”, pubblicati e illustrati dal poeta stesso. Classico e insieme romantico è John Keats, autore di famosissime Odi. Il poeta si estranea dalla realtà per rifugiarsi nel passato, greco e medioevale. La poesia è concepita come incarnazione della bellezza.

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Area Tedesca Già nel Settecento le radici della cultura tedesca sono di natura mistico- sentimentale; ciò spiega perché in questa regione, più che altrove, si sviluppa la contemplazione sentimentale della natura, che fa dell’area tedesca la patria dello spirito romantico. A questo proposito si ricorda lo “Sturm und Drang”, movimento culturale che si oppone all’arte classicheggiante e conformista; l’arte deve attingere solo al libro dell’uomo e della natura, In Germania nella stagione preromantica si segnalano:

• Johann Wolfgang Goethe " autore del romanzo dell’amore impossibile “Die Leiden des Jungen Werthers”. Tra le altre sue opere ricordiamo „Il Faust“, poema tragico e testo sacro delle conoscenza moderna ; Faust gioca con la sua anima in un patto col diavolo in cambio della suprema conoscenza della vita.

• Friedrich Schiller • Friedrich Holderlin

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LE ULTIME LETTERE DI JACOPO ORTIS

Le Ultime lettere di Jacopo Ortis è un romanzo di Ugo Foscolo: è il capostipite del romanzo epistolare italiano. Venne pubblicato la prima volta nel 1802.

In Ultime lettere di Jacopo Ortis vengono idealmente raccolte le lettere scritte dal protagonista Jacopo Ortis e spedite all’amico Lorenzo Alderani. Costui avrebbe deciso di darle alla stampa dopo il suicidio di Jacopo, aggiungendovi una presentazione e una conclusione. Vi ricorda un po’ I dolori del giovane Werther di Johann Wolfgang von Goethe? Decisamente sì, anche se Ultime lettere di Jacopo Ortis è stato fortemente influenzato pure da Vittorio Alfieri.

L’appello al Lettore

La prima parte del romanzo inizia con l’appello al Lettore di Lorenzo Alderani, l’amico di Jacopo, destinatario delle sue lettere. Lorenzo le raccoglie e, dopo il suicidio di Jacopo, le pubblica per rendere omaggio all’amico che è stato un esempio di virtù coltivata senza alcun interesse o ambizione (virtù sconosciuta). Questa espressione rimanda al dialogo di Vittorio Alfieri Della virtù sconosciuta dove lo scrittore immagina di parlare con Francesco Gori Gandellini, un commerciante di seta appassionato di arte e di letteratura, che aveva conosciuto durante un viaggio a Siena. Gori Gandellini era diventato uno dei suoi pochi, cari amici di Alfieri, che nelle sue memorie lo descrive come uomo di senno, giudizio, gusto e cultura (Vita). Alfieri avrebbe voluto dare alle stampe il Saggio d’istoria pittorica sanese scritto dall’amico, facendolo precedere da una biografia dell’autore, ma Gori, di carattere riservato e schivo, fu sempre contrario alla pubblicazione.

Lorenzo, quindi, addita l’amico Jacopo come esempio di nobiltà d’animo, chiede per lui rispetto e compassione e termina il suo appello citando i versi (Purgatorio, canto I) con cui Virgilio presenta Dante (che va cercando la libertà dal peccato) a Catone, suicida per non dover subire la dittatura di Cesare (vv 71-72).

Al lettore

Pubblicando queste lettere, io tento di erigere un monumento alla virtù sconosciuta; e di consecrare alla memoria del solo amico mio quelle lagrime, che ora mi si vieta di spargere su la sua sepoltura. E tu, o Lettore, se uno non sei

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di coloro che esigono dagli altri quell’eroismo di cui non sono eglino stessi capaci, darai, spero, la tua compassione al giovine infelice dal quale potrai forse trarre esempio e conforto.

Lorenzo Alderani

Libertà va cercando, ch’è sì cara,

come sa chi per lei vita rifiuta.

La prima lettera

Jacopo lascia la sua città e si rifugia sui colli Euganei per sottrarsi alle persecuzioni politiche; la madre e l’amico Lorenzo rimangono a Venezia. Questa prima lettera viene scritta a Lorenzo pochi giorni prima della firma ufficiale del trattato di Campoformio (17 ottobre 1796) che ratificherà la fine della Repubblica di Venezia. È una lettera dai toni intensi e incalzanti che hanno lo scopo di stabilire un contatto immediato fra il lettore e il protagonista, sconvolto dal tradimento di Napoleone e dalla disfatta dei patrioti.

Da’ colli Euganei, 11 Ottobre 1797

Il sacrificio della patria nostra è consumato: tutto è perduto; e la vita, seppure ne verrà concessa, non ci resterà che per piangere le nostre sciagure, e la nostra infamia. Il mio nome è nella lista di proscrizione, lo so: ma vuoi tu ch’io per salvarmi da chi m’opprime mi commetta a chi mi ha tradito? Consola mia madre: vinto dalle sue lagrime le ho obbedito, e ho lasciato Venezia per evitare le prime persecuzioni, e le più feroci. Or dovrò io abbandonare anche questa mia solitudine antica, dove, senza perdere dagli occhi il mio sciagurato paese, posso ancora sperare qualche giorno di pace? Tu mi fai raccapricciare, Lorenzo; quanti sono dunque gli sventurati? E noi, purtroppo, noi stessi italiani ci laviamo le mani nel sangue degl’italiani. Per me segua che può. Poiché ho disperato e della mia patria e di me, aspetto tranquillamente la prigione e la morte. Il mio cadavere almeno non cadrà fra le braccia straniere; il mio nome sarà sommessamente compianto da’ pochi uomini, compagni delle nostre miserie; e le mie ossa poseranno su la terra de’ miei padri.

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A conferire drammaticità al testo concorrono alcuni accorgimenti, tipici dello stile di Foscolo:

• i periodi molto brevi, con struttura sintattica semplice (Il sacrificio della patria nostra è consumato: tutto è perduto; Il mio nome è nella lista di proscrizione, lo so; Per me segua che può; Il mio cadavere almeno non cadrà fra le braccia straniere);

• la ripetizione e la triplicazione: tre soggetti scandiscono il primo periodo (il sacrificio, tutto, la vita) e l’ultimo (il mio cadavere, il mio nome, le mie ossa), dove l’aggettivo viene ripetuto tre volte;

• interrogazioni introdotte dall’avversativa (ma vuoi tu? Ma dovrò io?); • le espressioni enfatiche (vinto dalle sue lagrime; il mio sciagurato paese; mi

fai raccapricciare; ho disperato) o di grande impatto espressivo (ci laviamo le mani nel sangue; il mio cadavere non cadrà fra braccia straniere; le mie ossa poseranno su la terra de’miei padri)

L’epilogo

Jacopo si uccide la notte del 25 marzo. In una lettera scritta a Lorenzo in quello stesso giorno ha indicato le sue ultime volontà, che verranno rispettate:

Fa’ ch’io sia sepolto, così come sarò trovato, in un sito abbandonato, di notte, senza lapide, sotto i pini del colle che guarda la chiesa. Il ritratto di Teresa sia sotterrato col mio cadavere.

Il romanzo termina con il racconto di Lorenzo che descrive il ritrovamento di Jacopo, ormai prossimo alla morte, e il suo funerale:

Lo trovò steso sopra un sofà con tutta quasi la faccia nascosta fra’ cuscini: immobile, se non che ad ora ad ora anelava. S’era piantato un puguale sotto la mammella sinistra ma se l’era cavato dalla ferita, e gli era caduto a terra. Il suo abito nero e il fazzoletto da collo stavano gittati sopra una sedia vicina. Era vestito del gilè, de’ calzoni lunghi e degli stivali; e cinto d’una fascia larghissima di seta di cui un capo pendeva insanguinato, perché forse morendo tentò di svolgersela dal corpo. Il signore T*** gli sollevava lievemente dal petto la camicia, che tutta inzuppata di sangue gli si era rappressa su la ferita. Jacopo si risentì; e sollevò il viso verso di lui; e riguardandolo con gli occhi nuotanti nella morte, stese un braccio, come per impedirlo, e tentava con l’altro di stringergli la mano - ma ricascando con la testa su i guanciali, alzò gli occhi al cielo, e spirò.

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Non so come ebbi tanta forza d’avvicinarmi e di porgli una mano sul cuore presso la ferita; era morto, freddo. Mi mancava il pianto e la voce; ed io stava guardando stupidamente quel sangue: finché venne il parroco e subito dopo il chirurgo, i quali con alcuni famigliari ci strapparono a forza dal fiero spettacolo. Teresa visse in tutti que’ giorni fra il lutto de’ suoi in un mortale silenzio. - La notte mi strascinai dietro al cadavere che da tre lavoratori fu sotterrato sul monte de’ pini.

Riassunto delle «Ultime lettere di Jacopo Ortis»

Jacopo Ortis è uno studente universitario originario del Veneto. Di fede repubblicana, il suo nome è finito inevitabilmente nelle liste di proscrizione. Incapace di sostenere emotivamente il sacrificio della sua patria, Jacopo decide di isolarsi sui colli Euganei, in compagnia della propria solitudine e tristezza. Qui legge Plutarco, scrive all’amico Lorenzo Alderani e ogni tanto conversa con il curato del paese, con il medico e pochi altri.

Ben presto Jacopo fa la conoscenza del signore T., delle figlie Teresa e Isabellina e di Odoardo, fidanzato di Teresa. Sempre funestato dal pensiero della schiavitù della sua patria, solo in casa del signor T. riesce a rilassarsi un po’.

I giorni si trascinano lenti, fatti di piccoli gesti quotidiani: aiuta i contadini a trapiantare i pini sulla montagna, visita insieme alla famiglia di Teresa la casa di Petrarca ad Arquà e comincia a innamorarsi proprio della ragazza. È un amore che non ha sbocchi, ma Jacopo è sempre più innamorato di Teresa.

La ragazza non è che lo scoraggia, anzi, gli fa sapere che pure lei è infelice perché non ama Odoardo: i due sono premessi sposi solo per motivi economici, cosa che fra l’altro fece indispettire la madre della ragazza, obbligandola ad abbandonare il tetto coniugale.

Arriviamo a dicembre, Jacopo va a Padova perché l’Università è stata riaperta. Qui incontra le dame dell’alta società, rivede i suoi vecchi amici, comincia ad annoiarsi e decide di tornare da Teresa. Odoardo fortunatamente è via, quindi ricomincia a flirtare con la ragazza. Se solo potesse sposarla, forse sarebbe finalmente felice, ma il suo destino è di essere infelice.

I giorni passano, finalmente Jacopo e Teresa si baciano per la prima e unica volta, e lui finisce per ammalarsi, sempre più disperato. Il signor T. va a trovarlo e Jacopo

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non può fare a meno di confessargli di amare la figlia. Ripresosi in parte dalla malattia, scrive una lettera a Teresa e va via. Comincia un tour che tocca le città di Ferrara, Bologna e Firenze dove si reca in visita alle tombe dei grandi a Santa Croce. Sempre più depresso e infelice, va a Milano e qui incontra Giuseppe Parini.

A Milano vorrebbe fare qualcosa per l’altra sua grande tristezza della vita, la Patria, ma Parini gli consiglia di non farlo: uccidere un tiranno per rimpiazzarlo con un altro non servirebbe, anche se ormai il popolo è giunto a un punto tale che pare che questa sia la sua unica speranza.

Sempre più depresso, Jacopo va in Francia, ma arrivato a Nizza cambia idea e torna indietro. Il colpo di grazia gli viene dato dalla notizia del matrimonio di Teresa. Allora decide di tornare ai colli Euganei per incontrare un’ultima volta Teresa, va a Venezia a salutare la madre, torna ai colli, scrive una lettera a Teresa e una all’amico di sempre Lorenzo Alderani e infine si suicida pugnalandosi al cuore.

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PREROMANTICISMO

Il Preromanticismo è una corrente storico-tipologica che tenta di inquadrare un periodo (la seconda metà del XVIII secolo), in cui nascono nuovi tipi di sensibilità in riferimento ai nuovi stimoli delle grandi rivoluzioni.

La critica più recente ha tentato di prescindere da quell'impostazione, in chiave teleologica, della storia per cui alcuni "atteggiamenti" di artisti, letterati e uomini di cultura, avrebbero anticipato ciò che sarebbe stato proprio del Romanticismo ottocentesco. In realtà, la seconda metà del XVIII secolo è meglio inquadrabile attraverso una miglior conoscenza delle teorie di Jean-Jacques Rousseau e dell'Illuminismo della seconda metà del XVIII secolo: si tratta di Illuminismo "antirazionale" e non di irrazionalismo (appartenente invece alla cultura romantica):

• Antirazionalismo = nel processo evolutivo dell'uomo, la ragione ha portato ad un progressivo soffocamento delle sue componenti naturali (istinti, sentimenti, passioni e immaginazione); tuttavia, la ragione non viene completamente considerata negativa in assoluto, ma è bene trovare un equilibrio tra i due poli (ragione e natura) che sono ingeniti e congeniti nell'uomo (vero senso del ritorno allo stato di natura predicato da Rousseau).

• Irrazionalismo = la ragione viene considerata troppo debole e insufficiente per poter conoscere il mondo e i suoi segreti, venendo quindi messa da parte ad onta della sola componente naturale nell'uomo.

Gli autori principali di questo periodo furono in Inghilterra Thomas Gray (con la sua opera principale Elegia scritta in un cimitero campestre) e James MacPherson (di cui ricordiamo i famosi Canti di Ossian), in Germania Gotthold Ephraim Lessing e i poeti dello Sturm und Drang, in Italia Vittorio Alfieri, Ugo Foscolo e Ippolito Pindemonte. In Italia, Melchiorre Cesarotti traduce i Canti di Ossian; l'"illuminista" Alessandro Verri immagina di discorrere con le ombre degli antichi (Notti Romane); Ippolito Pindemonte effonde le sue malinconie nelle Poesie e nelle Prose campestri nonché in un saggio di poesia sepolcrale (I Cimiteri); Vittorio Alfieri manifesta inquietudini preromantiche nelle sue opere (un "protoromantico" lo definì Benedetto Croce).

Le riflessioni sulla morte, sui cimiteri e le immagini tenebrose dei Canti di Ossian di James MacPherson (1736-1796), il recupero delle leggende medievali, sono invece privilegiate in un'ottica romantica, poiché le produzioni artistiche e letterarie del

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Medioevo vennero considerate come libera e genuina espressione del popolo (Volksgeist).

Appartengono a questa temperie culturale il gusto per atteggiamenti patetici e malinconici, la ricerca della solitudine, l'esaltazione della tenerezza sentimentale e della capacità di commozione come segno di nobiltà e fierezza di spirito. Erano motivi già presenti nelle letterature europee del XVIII secolo, specie in Gran Bretagna e Francia, diffusi con il genere larmoyant (lacrimevole) e l'esaltazione sentimentale di Jean Jacques Rousseau.

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IL ROMANTICISMO IN ARTE E IN LETTERATURA

Il Romanticismo è un vasto e complesso movimento culturale, filosofico ed artistico che nasce in Germania e in Gran Bretagna a cavallo tra la fine del 1700 e l’inizio del 1800 e che poi si propaga in tutta Europa. Il termine italiano “romantico” deriva dal corrispettivo inglese romantic che, a metà del XVII secolo, designa l’atteggiamento irrazionale e immaginoso nei confronti della realtà, con particolare riferimento alla lettura dei romances (opposti al novel, di ispirazione realistica) e dei romanzi d’avventura. Il termine - che inizialmente ha una sfumatura negativa se non dispregiativa - va poi a definire quel rapporto con il mondo in cui sulla verità naturale prevalgono le sensazioni indistinte, le aspirazioni ideali, il fascino per il mistero e l’ignoto. Questa tensione all’assoluto (resa col termine tedesco Sensucht, “aspirazione, anelito”) si unisce col piacere che deriva dalla categoria estetica “sublime”, ovvero quel piacere che deriva dalla contemplazione di uno spettacolo (soprattutto naturale) grandioso e pauroso al tempo stesso.

Se il Romanticismo, soprattutto in campo storico e filosofico, nasce come reazione alla “ragione” illuministica, cui opporre invece il primato della “passione” e del “sentimento”, gli sviluppi e gli influssi culturali del movimento sono davvero sterminati e coinvolgono buona parte della cultura moderna. Il Romanticismo in senso stretto si sviluppa tra fine del XVIII secolo e primi decenni del XIX sulla scia del movimento tedesco dello Sturm und Drang e tra i suoi grandi temi possiamo citare:

• Il primato dell’individualismo: in antitesi all’immagine razionale dell’uomo ereditata dalla filosofia illuministica e aal connesso primato del raziocinio si propugna l’irriducibile individualità di ogni essere umano, nella sua specificità storico-culturale e socio-politica. Ogni uomo, secondo i Romantici, non obbedisce solo ai principi della ragione ma anche (e soprattutto) alle sue passioni e ai suoi sentimenti;

• Lo storicismo: opponendosi all’universalismo della filosofia dei lumi (simboleggiata al meglio dell’impresa dell’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert) il Romanticismo rivaluta le tradizioni nazionali e il patrimonio culturale di ogni popolo, valorizzando e rivalutando periodi storici (tra tutti, il Medioevo, considerato dagli illuministi un “periodo buio” per l’umanità) prima caduti nel dimenticatoio. Parallelamente alla riscoperta della Storia c’è il crescente interesse per il folklore e la cultura popolare, ritenuta depositaria dei valori puri ed autentici ormai smarriti dall’uomo borghese;

• Il sentimento e il dolore: due veri e propri Leitmotiv dell’eroe romantico è l’idea che le passioni e le pulsioni dell’uomo non possano trovare pace, e che la vita sia di fatto un “tendere verso” qualcosa di assoluto ed impossibile, che non è mai dato possedere completamente. L’uomo romantico anzi definisce la

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propria identità in stretta relazione allo Streben a cui è sottoposto. Da qui la vasta gamma di ansie e disillusioni, speranze e disfatte cui va incontro l’uomo romantico, che si tormenta nella misura in cui la sua sensibilità è troppo sviluppata e il suo desiderio di patire impossibile da soddisfare completamente. Alla ricerca dell’ordine e dell’armonia si sostituisce allora la nostalgia indefinita per qualcosa che non si è posseduto mai del tutto oppure il desiderio irrisolto per ciò che non si può avere. Queste due tensioni spostano spesso in un “altrove” distante nel tempo e nello spazio (l’Oriente esotico, piuttosto che la Grecia classica o i secoli passati) il luogo della pace e della felicità individuali, mentre all’uomo romantico non resta che la “noia” che, intesa come assenza di contrasti e di emozioni, è la peggior condizione possibile 4. L’esaltazione delle passioni individuali conduce anche alla scoperta del lato irrazionale dell’individuo, con un particolare interesse per la dimensione del sogno e della follia;

• Solitudine e titanismo: l’uomo romantico non è in armonia con il mondo in cui vive, che gli sembra piattamente orientato al soddisfacimento dei bisogni puramente materiali. Da qui derivano due atteggiamenti intrecciati tra loro: da un lato, la solitudine dell’eroe, che è tale proprio nella capacità stoica di sopportare le conseguenze della propria eccezionalità; dall’altro, il titanismo, cioè la ribellione volontaria contro forze così grandi e superiori (il Tiranno, il Mondo, la Natura, Dio) che l’inevitabile sconfitta diventa un segno di coraggio e di animo indomito. Esito spesso tragico di queste due tendenze è il suicidio, attraverso cui l’eroe romantico dimostra, in modo estremo, di non volere e di non potere scendere a patti con un mondo che egli non accetta;

• L’amore e la Natura: l’amore (inteso in particolare sotto la forma della passione assoluta e spesso infelice) e la Natura sono i due grandi termini di confronto dell’eroe romantico, che vede nell’esperienza amorosa il vertice più alto del suo animo superiore e nello spettacolo della Natura la rappresentazione plastica e concreta del concetto di “divino”, in cui infondere i propri tormenti e le proprie illusioni, secondo appunto un atteggiamento tragico e titanico. Le figure femminili romantiche sono spesso protagoniste di amori tragici, mentre i paesaggi naturali vedono la prevalenza di scenari notturni, lugubri rovine o cimiteri, boschi e cascate, secondo il gusto del “sublime” e dell’“orrido”. Per altro verso, è possibile che il paesaggio naturale divenga invece il confidente per le inquietudini del protagonista, che qui può finalmente trovare pace e serenità;

• L’ironia: di fronte alla grandezza della Natura e all’Infinito a cui l’uomo tende nel suo Streben c’è posto anche per un atteggiamento antitetico al titanismo e al dolore. quello dell’ironia, che nasce appunto dalla sproporzione tra le aspirazioni ideali e la realtà di fatto in cui l’uomo di trova immerso. Tale concetto verrà teorizzato in particolare da Friedrich Schlegel (1772-1829) nei suoi Frammenti (1797-1798).

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Nel suo complesso, il Romanticismo apre allora una complessa ed articolata fase della storia umana, che, inaugurando la modernità, modifica in profondità i rapporti tra l’uomo e il mondo sulla scia di grandi eventi storici come il fallimento della Rivoluzione francese e l’età napoleonica e i primi segnali della Rivoluzione industriale. Il suo effetto è ravvisabile, oltre che in letteratura e in filosofia, anche nelle altre arti. In campo artistico ha molta importanza la teorizzazione sul “sublime”, “l’orrido” e sul “pittoresco” (ovvero ciò che sfugge alla norma e alla convenzione, con particolare riguardo per i paesaggi naturali). Con il Romanticismo, in arte prende spazio quindi la ricerca di temi e soggetti che si allontanino dalla tradizione classica e dal gusto neoclassico. L’arte, nel pensiero romantico, diventa la porta d’accesso privilegiata per la conoscenza e, al tempo stesso, il campo in cui si manifesta al massimo grado l’eccellenza spirituale dell’individuo. Il pensiero romantico, oltre che sulla letteratura, avrà un profondo influsso sulla pittura e la musica, che viene considerata in questo periodo il linguaggio per eccellenza del sublime e di tutto ciò che va oltre le facoltà razionali dell’uomo.

In Inghilterra, gli esempi di arte romantica vanno dalla rivalutazione dell’arte gotica da parte di John Ruskin (1819-1900) fino ai paesaggi dei quadri di William Turner (1775-1851), Johann Heinrich Füssli (1741-1825) e John Constable (1776-1837). In Germania è la pittura di Caspar David Friedrich (1774-1840) ad assurgere a modello e simbolo del movimento stesso, come nel suo quadro più celebre, il Viandante sul mare di nebbia del 1818.

In Francia, la scuola pittorica romantica si afferma con Théodore Géricault (1791-1824; La zattera della Medusa, 1818-1819) e Eugène Delacroix (1798-1863; La libertà che guida il popolo, 1830), mentre in Italia la scuola “romantica” è quella di ispirazione risorgimentale di Francesco Hayez (1791-1882; Il bacio, 1859). In ambito musicale, l’espressione più caratteristica del Romanticismo sono il dramma musicale e il “teatro totale” di Richard Wagner (1813-1883). La stagione romantica vede tra i suoi protagonisti anche Ludwig van Beethoven (1770-1827) e Franz Schubert (1797-1828), a cui poi si aggiungono, in area tedesca, Felix Mendelssohn (1809-1847), Robert Schumann (1810-1856), Franz Liszt (1811-1886) e, in Francia, Frédéric Chopin (1810-1849) e Hector Berlioz (1803-1869). Tra i nomi del Romanticismo musicale italiano si possono citare Niccolò Paganini (1782-1840), Gaetano Donizetti (1797-1848), Gioachino Rossini (1792-1868), Vincenzo Bellini (1801-1835) e Giuseppe Verdi (1813-1901).

Il Romanticismo in filosofia

L’infinito è il punto principale attorno cui verte la filosofia romantica. Questo concetto viene definito secondo due modelli differenti: quello panteistico e quello trascendentistico. Secondo il modello panteistico, infatti, il finito è la realizzazione

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dell’infinito. Al suo interno possiamo trovare due ulteriori correnti: quella naturalistica, che identifica l’infinito con la natura, e quella idealistica, che identifica l’infinito con lo spirito. Il modello trascendentalista concepisce invece il finito come una manifestazione solo parziale dell’infinito che muove ben al di là delle forme finite.

Le radici della filosofia romantica rimandano comunque a Immanuel Kant e all’introduzione del concetto di noumeno nella Critica della ragion pura (1787), che definisce la coscienza umana come realtà indipendente e a sé stante. Questo è un punto-chiave della filosofia del Romanticismo, che troverà nell’Idealismo tedesco il suo compimento più pieno. Il fondatore di questa corrente è comunemente considerato Johann Gottlieb Fichte (1762-1814), che nei Fondamenti dell’intera dottrina della scienza (1794) definisce i concetti di Spirito come attività creatrice e dell’io puro come attività di pensiero che è infinitamente ed ininterrottamente protesa verso l’Assoluto. La lezione di Fichte viene ripresa ed approfondita dall’allievo Friedrich Schelling (1775-1854), che postula come principio di realtà l’Assoluto, in cui il soggetto e l’oggetto sono uniti in maniera indifferenziata. Momento supremo dell’Assoluto e sua massima manifestazione è appunto la creazione artistica.

Il principale filosofo dell’Idealismo tedesco è tuttavia Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831), che elabora un sistema compiuto e strutturato (detto “idealismo assoluto”) al cui vertice troviamo lo Spirito assoluto. Nel panorama della filosofia romantica, a fianco dell’idealismo hegeliano, che sancisce il primato della filosofia come attività dell’autocoscienza spirituale, c’è però Arthur Schopenhauer (1788-1860) che, in netta antitesi a Hegel, pone l’accento sulla “volontà” umana.

Il Romanticismo in letteratura

La Germania

Il Romanticismo letterario nasce anch’esso in Germania alla fine del XVIII secolo: il movimento, pur presentando poi considerevoli varietà a livello nazionale, si sviluppa da un lato dal movimento dello Sturm und Drang di Johann Georg Hamann (1730-1788) e Johann Gottfried Herder (1744-1803), e dall’altro attorno al cosiddetto “gruppo di Jena” e alla rivista Athenaeum, fondata nel 1798 dai fratelli Schlegel (Friedrich, 1772-1829; August Wilhelm, 1767-1845) e dal poeta Novalis (Friedrich Leopold von Hardenberg, 1772-1801).

Hamann ed Herder sono i primi sostenitori di concetti-chiave delle poetiche romantiche successive, come quelli della genialità del poeta e del carattere rivelatore e profetico dell’arte, che è l’unico strumento che può e sa interpretare i segni del divino nel mondo (in polemica con l’atteggiamento razionalizzante ed illuministico dei philosophes). Herder formula la distinzione tra poesia d’arte (che è

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prodotto di un banale procedimento d’imitazione dei classici) e poesia di natura, che invece è “popolare” e sorge spontaneamente dall’azione dei grandi geni (quali sono, per i romantici, Omero, Dante e Shakespeare). Lo Sturm und Drang vede la sua massima espressione in due opere di Johann Wolfgang Goethe (1749-1832), I dolori del giovane Werther e l’Urfaust (la prima versione del poema drammatico Faust). Figura particolare del clima romantico e assai vicina a Goethe è quella di Friedrich Schiller (1759-1805), che nei suoi scritti teorizza la funzione educatrice dell’arte e lo sviluppo organico delle facoltà umane al di là delle scissioni causate dalla modernità.

Le tesi dello Sturm und Drang sono fatte proprie da Friedrich Schlegel nel suo Corso sull’arte drammatica (1808), che diventa il principale teorico del movimento tedesco: assai importanti sono le tesi sul rapporto con i classici e il favore accordato al genere del romanzo. Per quanto concerne il primo aspetto, è caratteristico del Romanticismo il rifiuto del principio di imitazione, tipico del Classicismo, per privilegiare invece la creatività e il “genio” individuali. In tal senso, vengono meno i modelli tradizionali per i singoli generi letterari, che ora si mescolano e si contaminano. In antitesi con il precetto classico della suddivisione degli stili, il Romanticismo sostiene la commistione di stile e contenuto, così che si possa trattare in maniera seria un argomento umile e quotidiano (e, viceversa, trattare comicamente un tema serio e “alto”). A ciò si affianca un nuovo genere letterario, nato tra fine Settecento e inizio Ottocento, ovvero il romanzo. La narrazione lunga in prosa diventa il modello letterario prevalente per illustrare la nuova visione del mondo romantica, soggettiva ed individuale. Per usare le parole di Hegel nelle Lezioni di estetica, il romanzo sostituisce il poema epico come genere letterario egemone, configurandosi come la “moderna epopea borghese” che rappresenta artisticamente “la totalità di una concezione del mondo e della vita”.

Due altri autori rappresentativi del periodo sono Novalis e Friedrich Hölderlin (1770-1843). Nella poesia del primo (Inni alla notte, 1797-1800) si esalta la “notte” come momento privilegiato in cui l’artista può entrare in contatto con l’assoluto e con il principio della divinità, dando libero sfogo alla sua sensibilità interiore. Questa visione idealistica ed irrazionalistica - si è parlato per Novalis di “idealismo magico” - si riflette bene anche nel romanzo incompiuto di Novalis, l’Enrico di Ofterdingen, intriso di elementi topici del Romanticismo (la Sensucht, il ruolo dell’intuizione oltre i limiti della ragione, la nostalgia come percezione del mondo, il viaggio e il legame profondo tra protagonista e natura) e incentrato sul percorso di formazione ed iniziazione del giovane protagonista. La posizione di Hölderlin (le sue opere principali sono, oltre alla raccolta delle liriche, il romanzo epistolare Iperione e una tragedia incompiuta, La morte di Empedocle) è invece a metà strada tra il Classicismo, considerato come unità di misura ed pace, e il Romanticismo. La poesia e la bellezza sono per Hölderlin lo strumento per attingere l’armonia perduta e per consolarsi dai mali e dalle angosce del mondo reale.

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L’Inghilterra

Il movimento romantico conosce nell’Inghilterra la sua prima terra d’esportazione. L’Inghilterra, infatti, vede affermarsi lungo tutto il XVIII secolo due correnti letterarie, quella sepolcrale e quella ossianica, da cui si svilupperanno in seguito le manifestazioni più strettamente romantiche. La poesia sepolcrale nasce da riflessioni intorno alla morte e allo scorrere inesorabile del tempo, affiancate dal fascino cupo e notturno dei cimiteri. Tra i massimi esponenti di questo genere possiamo ricordare Robert Blair (1699-1746), Edward Young (1683-1765), autore dei Pensieri notturni, e in particolare Thomas Gray (1716-1771) con la sua celebre Elegia scritta in un cimitero campestre. La poesia ossianica (il nome si ispira ad un leggendario cantore, o bardo, della tradizione gaelico-irlandese) invece ripropone in veste moderna l’antica epica scozzese e tratta quindi di cavalieri erranti nella brughiera, di amori segnati dalla morte e dalla sventura e di spettri che tormentano nella notte i propri discendenti senza riuscire a trovare pace. La moda ossianica nasce con la pubblicazione dei Canti di Ossian, editi nel 1760 dal poeta James Macpherson (1736-1796), che li spaccia come un ritrovamento di liriche del III secolo d.C. In realtà si tratta di un falso storico, in quanto Macpherson, partendo da pochi frammenti, scrive di suo pugno gran parte dei testi.

Il romanticismo inglese nasce però ufficialmente solo nel 1798, con la Prefazione alle Lyrical Ballads di Wordsworth e Coleridge. Il compito che i due poeti si pongono è quello di rappresentare la vita quotidiana e il rapporto dell’uomo con le piccole cose della vita e in particolare con la Natura, al cui interno si nasconde però una fitta rete di senso e mistero, che spetta alla poesia indagare e rappresentare in forme eleganti ed ordinate (come da esempio nella lirica Daffodils). Se Wordsworth (1770-1850) rappresenta la parte più razionale di questo binomio poetico, Samuel Taylor Coleridge (1772-1834) è il componente più irregolare e romantico, come dimostrano alcuni suoi testi come La ballata del vecchio marinaio (1797-1798) e l’incompiuto Kubla Khan (1816).

Un altro autore tipico del panorama romantico inglese è Lord George Byron (1788-1824), le cui opere (ma soprattutto la biografia personale) definiscono la tipologia dell’eroe letterario che, incurante dei propri nobili natali, disprezza le ricchezze materiali e le rigide norme sociali in favore dell’amore passionale e di una ricerca del sé che culmina con l’autodistruzione. John Keats (1795-1821), poco noto e apprezzato in vita, ricopre invece il ruolo del poeta romantico cantore della bellezza ideale (che in particolare sarà quella dell’arte e dell’architettura greche), intesa come l’unico valore che sopravvive alla precarietà dell’esistenza grazie alla funzione eternante della poesia e dell’immaginazione. “Manifesto” di questa concezione dell’arte è l’Ode su un’urna greca (1819) dove - quasi anticipando le posizioni dell’estetismo di Oscar Wilde - Keats afferma: “Beauty is truth, truth beauty” (“La

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bellezza è verità, la verità è bellezza”). Sul versante immaginifico e misticheggiante, è invece di spicco la figura di William Blake, incisore ed autore, tra le altre cose, dei Songs of Innocence e dei Songs of Experience, dove compaiono le poesie The Lamb e The Tyger.

Sul piano romanzesco, gli autori di riferimento sono invece Walter Scott (1771-1832) e Jane Austen (1775-1817). Il primo è considerato con Ivanhoe (1820) l’ideatore del romanzo storico come oggi lo conosciamo. Scott dà vita ad una vicenda in cui gli eventi storici realmente accaduti si mescolano con l’invenzione letteraria senza scadere nel meraviglioso nel fantastico, ma evocando - in linea con lo storicismo e la riscoperta del Medioevo del movimento romantico - l’atmosfera della storia inglese del XII secolo. In Jane Austen, autrice di romanzi come Ragione e Sentimento (1811), Orgoglio e pregiudizio (1813) ed Emma (1815), la componente romantica è declinata nella raffinata analisi ed introspezione psicologica sui personaggi femminili della middle class in via d’ascesa d’inizio Ottocento.

Francia e Italia

In Francia il Romanticismo si diffonde nei salotti parigini grazie al pamphlet di Madame de Staël (Anne-Louise Germaine Necker, 1766-1817) De l’Allemagne (Sulla Germania, 1810), dove la scrittrice e nobildonna di origini svizzere si interessava alla cultura, alla filosofia e all’arte tedesche incoraggiandone e favorendone la diffusione e attirandosi indirettamente le ire del governo di Napoleone Bonaparte. Il Romanticismo francese vede poi tra i suoi protagonisti Alphonse de Lamartine (1790-1869) e Alfred de Vigny (1797-1863) e si diffonde poi nelle opere di Victor Hugo (1802-1885; oltre alla già citata Prefazione del Cromwell, si possono citare Notre-Dame de Paris e I miserabili), di Stendhal (pseudonimo di Henri Beyle, 1783-1842), autore de Il rosso e il nero (1831) e La certosa di Parma (1839), e François-René de Chateaubriand (1768-1848), che pubblica René nel 1802.

Il Romanticismo italiano nasce invece a seguito della pubblicazione, sul primo numero del periodico «Biblioteca Italiana» (organo ufficiale del ricostituito governo austriaco), di un articolo di Madame de Staël, già animatrice del dibattito culturale francese coll’opuscolo De L’Allemagne: il testo, intitolato significativamente Sulla maniera e l’utilità delle traduzioni, è di chiara ispirazione romantica (l’importanza del sentimento e dell’ispirazione poetica, l’attenzione alle differenze nazionali, il rifiuto dei modelli classici, l’esaltazione della creatività) e sostiene il ruolo cruciale delle traduzioni dalle letterature straniere per svecchiare la tradizione nazionale, ancora legata al gusto della mitologia classica e a una letteratura più di forma che di sostanza. Scoppia così la cosiddetta polemica tra classicisti e romantici, che vede i primi schierati a difesa della tradizione nazionale e altri, identificati soprattutto attorno al gruppo milanese che poi darà vita alla rivista «Il Conciliatore» (1818-1819), che si fa portavoce delle istanze progressiste e liberali della classe alto-

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borghese ed aristocratica lombarda e della nuova idea di letteratura. Di questo gruppo fanno parte ad esempio Silvio Pellico (1789-1854), Ludovico Di Breme (1780-1820), Pietro Borsieri (1788-1852) e Giovanni Berchet (1783-1851), tutti sostenitori di una cultura nuova e al passo con i tempi, che si ponga come problema anche quello dell’indipendenza nazionale.

“Manifesto” dell’atteggiamento dei romantici lombardi è un breve testo con cui Giovanni Berchet partecipa al dibattito sulle pagine del «Conciliatore», ovvero la Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliuolo. Qui Berchet, che si nasconde dietro la figura fittizia di Grisostomo (ironicamente, la “bocca d’oro”) che scrive al figlio raccomandandogli la lettura e lo studio dei nuovi scrittori “romantici” (la de Staël stessa, Giambattista Vico, Schlegel e Schiller), identificandone le qualità specifiche. Emerge così il concetto di poesia popolare, che è opposta alla maniera imitativa dei classicisti e che per Berchet-Grisostomo sa assecondare e coltivare lo spirito nazionale, e la differenza tra romanticismo e classicismo, che è solo “imitazione di imitazione”, in quanto non sa che replicare senza sentimento né partecipazione le formule degli antichi. In particolare, l’autore della Lettera semiseria mette a fuoco molto bene il nuovo pubblico cui deve rivolgersi lo scrittore romantico: non si tratta né dei troppo sofisticati “parigini” (corrispondenti al pubblico troppo sofisticato e incline solo al ragionamento astratto) né dei troppo ignoranti “ottentotti”, ma della categoria intermedia del “popolo”, che costituisce la fetta più ampia dell’uditorio. Il programma culturale di Berchet-Grisostomo si caratterizza quindi per la sua apertura e per la ricerca del dialogo attivo con le nuove forze della società, come conferma anche l’escamotage ironico con cui si chiude la lettera (appunto, “semiseria”): Grisostomo, fingendo di ritrattare le sue posizioni, consiglia al figlio di lasciar perdere i suoi consigli e di tornare al rassicurante studio dei classici.

Le posizioni del Romanticismo lombardo trovano in Alessandro Manzoni (1785-1873) il loro principale esponente, sempre su quella linea che coniuga rinnovamento della tradizione letteraria e ideologia liberale in campo politico. In tal senso è molto importante il dramma storico Il conte di Carmagnola, che nel 1820 rinfocola le polemiche tra romantici e classicisti. Nella Prefazione alla sua opera Manzoni aderisce alle posizioni romantiche rifiutando, in virtù della natura soggettiva della creazione artistica, le tre unità aristoteliche (tempo, spazio e azione) ereditate dalla tradizione, ritenendole “principi arbitrari” o sostenendo al contrario la necessità del rapporto tra verità storica e “scopo morale” dell’opera d’arte. L’autore, allineandosi alle tesi sostenuto da Friedrich Schlegel, riscopre poi la funzione del “coro”, cui affida il ruolo di esporre il punto di vista morale dell’autore.

Le posizioni manzoniana sono ribadite con notevole coerenza anche nella Lettre à Monsieur Chauvet del 1823, in cui l’autore replica alle critiche mossegli dal letterato francese Victor Chauvet. Manzoni esprime limpidamente l’esigenza di una profonda analisi storica, in cui il rispetto del “vero storico” (come poi sarà ne I promessi sposi) è la condizione fondamentale per l’interesse dello spettatore, senza che sia necessaria

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suscitare passioni violente e moralmente discutibili per incuriosire il pubblico. In questa conciliazione tra rispetto della verità storica e invenzione poetica sta per Manzoni il fine educativo dell’arte. Altro testo teorico manzoniano sulla questione è la lettera Sul Romanticismo al marchese Cesare D’Azeglio in cui, all’interno della polemica con il fronte classicista (la lettera è del 1823, anche se pubblicata solo nel 1846), l’autore delinea alcune linee di poetica fondamentali, come il rifiuto dell’imitazione dei classici, della mitologia e delle unità aristoteliche. Manzoni afferma anche qui la necessità di perseguire il “vero”, tenendo ben presenti le finalità morali dell’arte (per Manzoni, il Romanticismo è anzi vicino alla sensibilità cristiana) ma senza dimenticare la necessità di interessare e coinvolgere i lettori con vicende tratte dalla vita quotidiana. Si tratta di elementi che si ritrovano anche nei Promessi sposi a partire dalla scelta, dichiarata nell’Introduzione, di dedicarsi alle vicende di “genti meccaniche, e di piccol affare” fino alla concezione della Storia e della Provvidenza che emerge dal finale del romanzo.

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LEOPARDI

"Dialogo della Natura e di un Islandese"

Riassunto e analisi

Questo dialogo viene scritto nel 1824 e compare nella prima edizione delle Operette morali nel 1827. Mentre nelle operette precedenti la causa della sofferenza è posta nell'uomo stesso, si evidenzia qui, per la prima volta, il passaggio di Leopardi da una concezione positiva e benefica della Natura a quella contraria di Natura matrigna, crudele e indifferente. Prendendo spunto da un'opera del filosofo illuminista francese, Voltaire Storia di Jenni o il saggio e l’ateo (1775), in cui il filosofo parla delle minacce naturali, quali gelo e vulcani, a cui sono sottoposti gli islandesi, Leopardi sviluppa l'idea di un Islandese che viaggia, fuggendo la Natura. Ma giunto in Africa, in un luogo misterioso ed esotico, incontra proprio colei che stava evitando, con la forma di una donna gigantesca dall'aspetto "tra bello e terribile". La Natura interroga l'Islandese sulle ragioni della sua fuga. La spiegazione dell'uomo è un lungo monologo in cui egli ripercorre le sue concezioni sulla condizione umana: un'articolata riflessione che lo porta a comprendere l'ineliminabile infelicità dell'esistenza. Inizialmente ritiene che la sofferenza nasca dai rapporti umani, spesso violenti. Ma il dolore può nascere anche dall'esterno, quindi inizia a credere che l'individuo soffra perché valica i limiti assegnati dalla Natura. Infine comprende che la sofferenza è insita nell'uomo, caratterizzato da un piacere mai realizzabile del tutto, e non può essere eliminata. La vera causa dell'infelicità è la Natura, che crea e poi tormenta gli esseri viventi. Questa ha assegnato all'uomo il desiderio insaziabile di piacere che non solo è irraggiungibile nel corso di una vita intera, ma a volte è anche dannoso e debilitante:

Io soglio prendere non piccola ammirazione considerando che tu ci abbi infuso tanta e sì ferma e insaziabile avidità del piacere; disgiunta dal quale la nostra vita, come priva di ciò che ella desidera naturalmente, è cosa imperfetta: e da altra parte abbi ordinato che l’uso di esso piacere sia quasi di tutte le cose umane la più nociva alle forze e alla sanità del corpo, la più calamitosa negli effetti in quanto a ciascheduna persona, e la più contraria alla durabilità della stessa vita. Ma in qualunque modo, astenendomi quasi sempre e totalmente da ogni diletto, io non ho potuto fare di non incorrere in molte e diverse malattie: delle quali alcune mi hanno posto in pericolo della morte.

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E come afferma in un passo precedente a questo, l'esistenza è sempre in pericolo e si vive costantemente nella paura. Conclude il discorso poi citando le Naturales Quaestiones di Seneca: "tanto che un filosofo antico non trova contro al timore, altro rimedio più valevole della considerazione che ogni cosa è da temere".

Dopo il lungo monologo dell'Islandese interviene la Natura, che ribalta la posizione dell'uomo: questa è totalmente insensibile al destino degli esseri da lei creati, ma agisce meccanicisticamente secondo un processo di creazione e distruzione, che coinvolge direttamente tutte le creature. Quella dell'Islandese è una visione antropocentrica - e per tal motivo errata e parziale della realtà. Con la conclusione di questo dialogo viene superata la concezione dell'uomo come elemento centrale dell'universo, ma rimane senza risposta la domanda dell'Islandese: "a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell'universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono?". Il dialogo come si è detto è in realtà un monologo dell'Islandese, e solo all'inizio e alla fine interviene la Natura con poche e dure battute. Le parole dell'Islandese sono aspre ed accese, e ripercorrono le sue diverse riflessioni sulla sofferenza. Il protagonista accusa la Natura di essere crudele e ingiusta. Ma questa appare del tutto insensibile alle critiche, le sue parole sono ancora più dure: essa non agisce per assecondare l'uomo, ma è del tutto indifferente e insensibile davanti agli esseri da lei creati. Ed è qui che si evidenzia la voluta contraddittorietà della Natura leopardiana:

Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n’avveggo, se non rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei.

E nello stesso modo amaro e tragico si conclude l’operetta con la notizia, riportata dal narratore, della probabile morte dell’Islandese:

è fama che sopraggiungessero due leoni, così rifiniti e maceri dall’inedia, che appena ebbero forza di mangiarsi quell’Islandese; come fecero; e presone un poco di ristoro, si tennero in vita per quel giorno. Ma sono alcuni che negano questo caso, e narrano che un fierissimo vento, levatosi mentre che l’Islandese parlava, lo stese a terra, e sopra gli edificò un superbissimo mausoleo di sabbia: sotto il quale colui diseccato perfettamente, e divenuto una bella mummia, fu poi ritrovato da certi viaggiatori, e collocato nel museo di non so quale città di Europa.

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DIALOGO DELLA NATURA E DI UN ISLANDESE

Un Islandese, che era corso per la maggior parte del mondo, e soggiornato in diversissime terre; andando una volta per l'interiore dell'Affrica, e passando sotto la linea equinoziale in un luogo non mai prima penetrato da uomo alcuno, ebbe un caso simile a quello che intervenne a Vasco di Gama nel passare il Capo di Buona speranza; quando il medesimo Capo, guardiano dei mari australi, gli si fece incontro, sotto forma di gigante, per distorlo dal tentare quelle nuove acque. Vide da lontano un busto grandissimo; che da principio immaginò dovere essere di pietra, e a somiglianza degli ermi colossali veduti da lui, molti anni prima, nell'isola di Pasqua. Ma fattosi più da vicino, trovò che era una forma smisurata di donna seduta in terra, col busto ritto, appoggiato il dosso e il gomito a una montagna; e non finta ma viva; di volto mezzo tra bello e terribile, di occhi e di capelli nerissimi; la quale guardavalo fissamente; e stata così un buono spazio senza parlare, all'ultimo gli disse. Natura. Chi sei? che cerchi in questi luoghi dove la tua specie era incognita? Islandese. Sono un povero Islandese, che vo fuggendo la Natura; e fuggitala quasi tutto il tempo della mia vita per cento parti della terra, la fuggo adesso per questa. Natura. Così fugge lo scoiattolo dal serpente a sonaglio, finché gli cade in gola da se medesimo. Io sono quella che tu fuggi. Islandese. La Natura? Natura. Non altri. Islandese. Me ne dispiace fino all'anima; e tengo per fermo che maggior disavventura di questa non mi potesse sopraggiungere. Natura. Ben potevi pensare che io frequentassi specialmente queste parti; dove non ignori che si dimostra più che altrove la mia potenza. Ma che era che ti moveva a fuggirmi? Islandese. Tu dei sapere che io fino nella prima gioventù, a poche esperienze, fui persuaso e chiaro della vanità della vita, e della stoltezza degli uomini; i quali combattendo continuamente gli uni cogli altri per l'acquisto di piaceri che non dilettano, e di beni che non giovano; sopportando e cagionandosi scambievolmente infinite sollecitudini, e infiniti mali, che affannano e nocciono in effetto; tanto più si allontanano dalla felicità, quanto più la cercano. Per queste considerazioni, deposto ogni altro desiderio, deliberai, non dando molestia a chicchessia, non procurando in modo alcuno di avanzare il mio stato, non contendendo con altri per nessun bene del

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mondo, vivere una vita oscura e tranquilla; e disperato dei piaceri, come di cosa negata alla nostra specie, non mi proposi altra cura che di tenermi lontano dai patimenti. Con che non intendo dire che io pensassi di astenermi dalle occupazioni e dalle fatiche corporali: che ben sai che differenza e dalla fatica al disagio, e dal viver quieto al vivere ozioso. E già nel primo mettere in opera questa risoluzione, conobbi per prova come egli e vano a pensare, se tu vivi tra gli uomini, di potere, non offendendo alcuno, fuggire che gli altri non ti offendano; e cedendo sempre spontaneamente, e contentandosi del menomo in ogni cosa, ottenere che ti sia lasciato un qualsivoglia luogo, e che questo menomo non ti sia contrastato. Ma dalla molestia degli uomini mi liberai facilmente, separandomi dalla loro società, e riducendomi in solitudine: cosa che nell'isola mia nativa si può recare ad effetto senza difficoltà. Fatto questo, e vivendo senza quasi verun'immagine di piacere, io non poteva mantenermi però senza patimento: perché la lunghezza del verno, l'intensità del freddo, e l'ardore estremo della state, che sono qualità di quel luogo, mi travagliavano di continuo; e il fuoco, presso al quale mi conveniva passare una gran parte del tempo, m'inaridiva le carni, e straziava gli occhi col fumo; di modo che, né in casa né a cielo aperto, io mi poteva salvare da un perpetuo disagio. Né anche potea conservare quella tranquillità della vita, alla quale principalmente erano rivolti i miei pensieri: perché le tempeste spaventevoli di mare e di terra, i ruggiti e le minacce del monte Ecla, il sospetto degl'incendi, frequentissimi negli alberghi, come sono i nostri, fatti di legno, non intermettevano mai di turbarmi. Tutte le quali incomodità in una vita sempre conforme a se medesima, e spogliata di qualunque altro desiderio e speranza, e quasi di ogni altra cura, che d'esser quieta; riescono di non poco momento, e molto più gravi che elle non sogliono apparire quando la maggior parte dell'animo nostro è occupata dai pensieri della vita civile, e dalle avversità che provengono dagli uomini. Per tanto veduto che più che io mi ristringeva e quasi mi contraeva in me stesso, a fine d'impedire che l'esser mio non desse noia né danno a cosa alcuna del mondo; meno mi veniva fatto che le altre cose non m'inquietassero e tribolassero; mi posi a cangiar luoghi e climi, per vedere se in alcuna parte della terra potessi non offendendo non essere offeso, e non godendo non patire. E a questa deliberazione fui mosso anche da un pensiero che mi nacque, che forse tu non avessi destinato al genere umano se non solo un clima della terra (come tu hai fatto a ciascuno degli altri generi degli animali, e di quei delle piante), e certi tali luoghi; fuori dei quali gli uomini non potessero prosperare né vivere senza difficoltà e miseria; da dover essere imputate, non a te, ma solo a essi medesimi, quando eglino avessero disprezzati e trapassati i termini che fossero prescritti per le tue leggi alle abitazioni umane. Quasi tutto il mondo ho cercato, e fatta esperienza di quasi tutti i paesi; sempre osservando il mio proposito, di non dar molestia alle altre creature, se non il meno che io potessi, e di procurare la sola tranquillità della vita. Ma io sono stato arso dal caldo fra i tropici, rappreso dal freddo verso i poli, afflitto nei climi temperati dall'incostanza dell'aria, infestato dalle commozioni degli elementi in ogni dove. Più luoghi ho veduto, nei quali non passa un dì senza temporale: che è quanto dire che tu dai ciascun giorno un assalto e una battaglia formata a quegli abitanti, non rei verso te di nessun'ingiuria. In altri luoghi la serenità ordinaria del cielo è

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compensata dalla frequenza dei terremoti, dalla moltitudine e dalla furia dei vulcani, dal ribollimento sotterraneo di tutto il paese. Venti e turbini smoderati regnano nelle parti e nelle stagioni tranquille dagli altri furori dell'aria. Tal volta io mi ho sentito crollare il tetto in sul capo pel gran carico della neve, tal altra, per l'abbondanza delle piogge la stessa terra, fendendosi, mi si è dileguata di sotto ai piedi; alcune volte mi è bisognato fuggire a tutta lena dai fiumi, che m'inseguivano, come fossi colpevole verso loro di qualche ingiuria. Molte bestie salvatiche, non provocate da me con una menoma offesa, mi hanno voluto divorare; molti serpenti avvelenarmi; in diversi luoghi è mancato poco che gl'insetti volanti non mi abbiano consumato infino alle ossa. Lascio i pericoli giornalieri, sempre imminenti all'uomo, e infiniti di numero; tanto che un filosofo antico non trova contro al timore, altro rimedio più valevole della considerazione che ogni cosa è da temere. Né le infermità mi hanno perdonato; con tutto che io fossi, come sono ancora, non dico temperante, ma continente dei piaceri del corpo. Io soglio prendere non piccola ammirazione considerando che tu ci abbi infuso tanta e sì ferma e insaziabile avidità del piacere; disgiunta dal quale la nostra vita, come priva di ciò che ella desidera naturalmente, è cosa imperfetta: e da altra parte abbi ordinato che l'uso di esso piacere sia quasi di tutte le cose umane la più nociva alle forze e alla sanità del corpo, la più calamitosa negli effetti in quanto a ciascheduna persona, e la più contraria alla durabilità della stessa vita. Ma in qualunque modo, astenendomi quasi sempre e totalmente da ogni diletto, io non ho potuto fare di non incorrere in molte e diverse malattie: delle quali alcune mi hanno posto in pericolo della morte; altre di perdere l'uso di qualche membro, o di condurre perpetuamente una vita più misera che la passata; e tutte per più giorni o mesi mi hanno oppresso il corpo e l'animo con mille stenti e mille dolori. E certo, benché ciascuno di noi sperimenti nel tempo delle infermità, mali per lui nuovi o disusati, e infelicità maggiore che egli non suole (come se la vita umana non fosse bastevolmente misera per l'ordinario); tu non hai dato all'uomo, per compensarnelo, alcuni tempi di sanità soprabbondante e inusitata, la quale gli sia cagione di qualche diletto straordinario per qualità e per grandezza. Ne' paesi coperti per lo più di nevi, io sono stato per accecare: come interviene ordinariamente ai Lapponi nella loro patria. Dal sole e dall'aria, cose vitali, anzi necessarie alla nostra vita, e però da non potersi fuggire, siamo ingiuriati di continuo: da questa colla umidità, colla rigidezza, e con altre disposizioni; da quello col calore, e colla stessa luce: tanto che l'uomo non può mai senza qualche maggiore o minore incomodità o danno, starsene esposto all'una o all'altro di loro. In fine, io non mi ricordo aver passato un giorno solo della vita senza qualche pena; laddove io non posso numerare quelli che ho consumati senza pure un'ombra di godimento: mi avveggo che tanto ci è destinato e necessario il patire, quanto il non godere; tanto impossibile il viver quieto in qual si sia modo, quanto il vivere inquieto senza miseria: e mi risolvo a conchiudere che tu sei nemica scoperta degli uomini, e degli altri animali, e di tutte le opere tue; che ora c'insidii ora ci minacci ora ci assalti ora ci pungi ora ci percuoti ora ci laceri, e sempre o ci offendi o ci perseguiti; e che, per costume e per instituto, sei carnefice della tua propria famiglia, de' tuoi figliuoli e, per dir così, del tuo sangue e delle tue viscere. Per tanto rimango privo di ogni speranza: avendo compreso che gli uomini finiscono di

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perseguitare chiunque li fugge o si occulta con volontà vera di fuggirli o di occultarsi; ma che tu, per niuna cagione, non lasci mai d'incalzarci, finché ci opprimi. E già mi veggo vicino il tempo amaro e lugubre della vecchiezza; vero e manifesto male, anzi cumulo di mali e di miserie gravissime; e questo tuttavia non accidentale, ma destinato da te per legge a tutti i generi de' viventi, preveduto da ciascuno di noi fino nella fanciullezza, e preparato in lui di continuo, dal quinto suo lustro in là, con un tristissimo declinare e perdere senza sua colpa: in modo che appena un terzo della vita degli uomini è assegnato al fiorire, pochi istanti alla maturità e perfezione, tutto il rimanente allo scadere, e agl'incomodi che ne seguono. Natura. Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l'intenzione a tutt'altro che alla felicità degli uomini o all'infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n'avveggo, se non rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei. Islandese. Ponghiamo caso che uno m'invitasse spontaneamente a una sua villa, con grande instanza; e io per compiacerlo vi andassi. Quivi mi fosse dato per dimorare una cella tutta lacera e rovinosa, dove io fossi in continuo pericolo di essere oppresso; umida, fetida, aperta al vento e alla pioggia. Egli, non che si prendesse cura d'intrattenermi in alcun passatempo o di darmi alcuna comodità, per lo contrario appena mi facesse somministrare il bisognevole a sostentarmi; e oltre di ciò mi lasciasse villaneggiare, schernire, minacciare e battere da' suoi figliuoli e dall'altra famiglia. Se querelandomi io seco di questi mali trattamenti, mi rispondesse: forse che ho fatto io questa villa per te? o mantengo io questi miei figliuoli, e questa mia gente, per tuo servigio? e, bene ho altro a pensare che de' tuoi sollazzi, e di farti le buone spese; a questo replicherei: vedi, amico, che siccome tu non hai fatto questa villa per uso mio, così fu in tua facoltà di non invitarmici. Ma poiché spontaneamente hai voluto che io ci dimori, non ti si appartiene egli di fare in modo, che io, quanto è in tuo potere, ci viva per lo meno senza travaglio e senza pericolo? Così dico ora. So bene che tu non hai fatto il mondo in servigio degli uomini. Piuttosto crederei che l'avessi fatto e ordinato espressamente per tormentarli. Ora domando: t'ho io forse pregato di pormi in questo universo? o mi vi sono intromesso violentemente, e contro tua voglia? Ma se di tua volontà, e senza mia saputa, e in maniera che io non poteva sconsentirlo né ripugnarlo, tu stessa, colle tue mani, mi vi hai collocato; non è egli dunque ufficio tuo, se non tenermi lieto e contento in questo tuo regno, almeno vietare che io non vi sia tribolato e straziato, e che l'abitarvi non mi noccia? E questo che dico di me, dicolo di tutto il genere umano, dicolo degli altri animali e di ogni creatura. Natura. Tu mostri non aver posto mente che la vita di quest'universo è un perpetuo

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circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra sé di maniera, che ciascheduna serve continuamente all'altra, ed alla conservazione del mondo; il quale sempre che cessasse o l'una o l'altra di loro, verrebbe parimente in dissoluzione. Per tanto risulterebbe in suo danno se fosse in lui cosa alcuna libera da patimento. Islandese. Cotesto medesimo odo ragionare a tutti i filosofi. Ma poiché quel che è distrutto, patisce; e quel che distrugge, non gode, e a poco andare è distrutto medesimamente; dimmi quello che nessun filosofo mi sa dire: a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell'universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono? Mentre stavano in questi e simili ragionamenti è fama che sopraggiungessero due leoni, così rifiniti e maceri dall'inedia, che appena ebbero forza di mangiarsi quell'Islandese; come fecero; e presone un poco di ristoro, si tennero in vita per quel giorno. Ma sono alcuni che negano questo caso, e narrano che un fierissimo vento, levatosi mentre che l'Islandese parlava, lo stese a terra, e sopra gli edificò un superbissimo mausoleo di sabbia: sotto il quale colui diseccato perfettamente, e divenuto una bella mummia, fu poi ritrovato da certi viaggiatori, e collocato nel museo di non so quale città di Europa.