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ww.iswww.isaforma.it www.istitutotrinacira.it www.isasicurezza.info OTTICO Diritto Commerciale Indice Capitolo I Storia del diritto commerciale Capitolo II Il sistema economico ed il diritto commerciale Capitolo III Il concetto economico-giuridico di imprenditore L’impresa artigiana e l’impresa familiare Capitolo IV La disciplina giuridica dell’odontotecnico e dell’ottico L’ortottista e l’optometrista Capitolo V Lo statuto dell’imprenditore commerciale e la procedura fallimentare Capitolo VI Le Camere di commercio ed il registro delle imprese Capitolo VII L’azienda, i suoi segni distintivi ed il suo trasferimento Capitolo VIII La disciplina nazionale della concorrenza sleale Capitolo IX I consorzi fra imprenditori Capitolo X Il sistema delle società Capitolo XI Le società di persone Capitolo XII Le società di capitali Capitolo XIII Trasformazione, fusione e scissione Capitolo XIV Le società cooperative Capitolo XV Altre forme di imprese collettive Capitolo XVI I contratti dell’imprenditore Capitolo XVII Le banche e la funzione creditizia Capitolo XVIII I titoli di credito La cambiale e l’assegno Capitolo XIX Il lavoro subordinato Capitolo XX La legislazione sociale Capitolo XXI Il sistema tributario italiano

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OTTICO Diritto Commerciale

Indice Capitolo I Storia del diritto commerciale Capitolo II Il sistema economico ed il diritto commerciale Capitolo III Il concetto economico-giuridico di imprenditore L’impresa artigiana e l’impresa familiare Capitolo IV La disciplina giuridica dell’odontotecnico e dell’ottico L’ortottista e l’optometrista Capitolo V Lo statuto dell’imprenditore commerciale e la procedura fallimentare Capitolo VI Le Camere di commercio ed il registro delle imprese Capitolo VII L’azienda, i suoi segni distintivi ed il suo trasferimento Capitolo VIII La disciplina nazionale della concorrenza sleale Capitolo IX I consorzi fra imprenditori Capitolo X Il sistema delle società Capitolo XI Le società di persone Capitolo XII Le società di capitali Capitolo XIII Trasformazione, fusione e scissione Capitolo XIV Le società cooperative Capitolo XV Altre forme di imprese collettive Capitolo XVI I contratti dell’imprenditore Capitolo XVII Le banche e la funzione creditizia Capitolo XVIII I titoli di credito La cambiale e l’assegno Capitolo XIX Il lavoro subordinato Capitolo XX La legislazione sociale Capitolo XXI Il sistema tributario italiano

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Capitolo I Storia del diritto commerciale In età romana non esisteva un “diritto dei mercanti”. Pur avendo conosciuto fiorenti traffici commerciali, il diritto romano non conobbe mai un autonomo diritto commerciale rispetto allo jus civile: invero, nella plurisecolare società romana i mercanti non furono mai antagonisti dei proprietari terrieri nella lotta per il potere. Gli scambi avevano un’importanza marginale nella chiusa società feudale, basata su un’economia essenzialmente agricola. In essa la quasi totalità dei beni prodotti non era destinata allo scambio, ma al consumo dei signori feudali e della popolazione servile. L’origine del diritto commerciale moderno risale all’età comunale italiana, ed è legata al fenomeno della ripresa del commercio e della ricomparsa della figura del mercante. I Comuni del basso Medioevo sono forme di autogoverno cittadino o rurale, dotate di una propria autonomia organizzativa, economica, e giuridica. I Comuni, ciascuno con i propri mercati e le proprie fiere, agevolano l’incontro dei mercanti e favoriscono lo sviluppo degli scambi di merci. In questo tipo di economia di libero scambio il ceto sociale emergente non è più quello dei proprietari terrieri e dei feudatari, bensì quello dei mercanti. Questi faranno dei Comuni più prosperi potenze politiche di prim’ordine. Parallelamente, risultando necessario un articolato sistema rispondente alle sorgere ed al prosperare dei banchieri, capaci di accumulare in pochi anni ingenti fortune. In questa fase si affermano la lettera di cambio, l’istituto del fallimento, la cambiale, l’istituto della girata, i conti di deposito, il contratto di assicurazione, e le società di persone. L’attività commerciale riceve un notevole impulso durante l’età moderna. Con le scoperte geografiche la storia non è più esclusivamente storia europea. Il mondo conosciuto diviene sempre più grande e le profonde e radicali modificazioni socio-economiche mettono adesso in crisi il sistema delle corporazioni, sui cui si era fondato il sistema economico dei Comuni. È in questo periodo che nascono le prime società per azioni: nei primi decenni del Seicento in Inghilterra ed in Olanda vengono costituite le Compagnie delle Indie per lo sfruttamento delle risorse economiche dell’Oriente e del Nuovo Mondo; nate per atto di concessione del sovrano, si consentiva ai sudditi di parteciparvi mediante la sottoscrizione di quote di partecipazione, le quali potevano anche essere cedute a terzi; inoltre, erano caratterizzate dalla limitazione di responsabilità, nel senso che i sudditi partecipanti rimanevano esposti al solo rischio di perdere unicamente il valore della loro quota di partecipazione. Nel 1673 e nel 1681 vengono emanate in Francia da Jean-Baptiste Colbert, ministro del sovrano Luigi XIV, rispettivamente l’Ordonnance du commerce e l’Ordonnance de marine. Sebbene queste si fossero limitate a raccogliere le consuetudini francesi maggiormente invalse e nel campo del commercio in generale e nel campo del commercio marittimo, costituirono in assoluto le prime normative organiche di diritto commerciale, sì da confluire successivamente nel Code de commerce del 1807. Il Settecento è il secolo delle scoperte scientifiche e dell’evoluzione tecnologica. Accanto alla tradizionale figura del mercante si affermano pertanto i proprietari dei mezzi di produzione: gli industriali. Dal punto di vista giuridico si pone il problema di tutelare le invenzioni mediante il brevetto, nonché di consentire la loro più ampia applicazione nei processi produttivi. Consolidato nel tempo il potere economico, la borghesia ottiene nell’età contemporanea, con la Rivoluzione francese del 1789, anche quello politico. Espressione di tale potere sono le codificazioni postrivoluzionarie del diritto civile e commerciale volute dall’imperatore Napoleone I Bonaparte: il Code civil del 1804 ed il Code de commerce del 1807. Tutta la società civile viene adesso organizzata secondo le regole giuridiche ritenute adatte al funzionamento del sistema economico capitalistico.

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Capitolo II Il sistema economico ed il diritto commerciale I principi generali del sistema economico italiano sono regolati dagli articoli 41, 43, 45, e 47 della Costituzione. L’articolo 41 Cost. sancisce che: “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. L’articolo 43 Cost. afferma che: “A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale”. L’articolo 45 Cost. dichiara che: “La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata. La legge ne promuove e favorisce l’incremento con i mezzi più idonei e ne assicura, con gli opportuni controlli, il carattere e le finalità. La legge provvede alla tutela e allo sviluppo dell’artigianato”. L’articolo 47 Cost. statuisce che: “La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito. Favorisce l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese”. Con l’espressione “diritto commerciale” si intende fare riferimento a quel ramo del diritto privato avente ad oggetto la disciplina giuridica dell’impresa. Nell’ordinamento giuridico italiano, il diritto commerciale trova soprattutto la sua fonte nei libri IV e V del Codice civile del 1942, rubricati (27) rispettivamente “delle obbligazioni” e “del lavoro”. Altre fonti sono la “legge cambiaria”, la “legge sull’assegno”, la “legge sul diritto d’autore”, la “legge fallimentare”, lo “statuto dei lavoratori”, l’imposta sul valore aggiunto, la legge sull’artigianato, il testo unico delle imposte sui redditi, la legge sulla tutela della concorrenza e del mercato, la “legge antiriciclaggio”, il testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, la legge sul “riordinamento delle Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura” e sul registro delle imprese, il testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, la legge in materia di professioni sanitarie, la legge sull’affiliazione commerciale, “il codice della proprietà industriale”, il “codice del consumo”, il codice delle assicurazioni private, il decreto legislativo in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie commerciali, le direttive comunitarie di settore, etc. Notevole significato assume la locuzione “commercializzazione del diritto privato”: invero, si ricorda che nel 1865, dopo l’unificazione italiana, vennero emanati separatamente un Codice civile ed un Codice di commercio; questi furono forgiati rispettivamente sui modelli francesi del Code civil del 1804, noto anche come Code Napoléon, e del Code de commerce del 1807; nel 1882 venne emanato un nuovo Codice di commercio, rimasto in vigore fino all’emanazione, nel 1942, dell’attuale Codice civile italiano; il Codice del 1882, incentrato sulla figura del “commerciante”, introduceva istituti giuridici peculiari come l’assegno, la cambiale e le società, e disciplinava differentemente gli stessi contratti ed istituti regolati dal Codice civile; ne derivava una doppia regolamentazione, sovente generatrice di incertezze, che indusse il legislatore italiano del 1942 ad unificare la normativa commerciale con quella civile; nella fusione tra le due normative venne accordata preferenza alle regole commerciali, in quanto maggiormente rispondenti alle esigenze

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dell’attività imprenditoriale, ritenuta comunemente generatrice di nuova ricchezza, e responsabile sola dell’aumento del reddito nazionale e del miglioramento del tenore di vita della collettività. Capitolo III Il concetto economico-giuridico di imprenditore L’impresa artigiana e l’impresa familiare Si premette che il Codice civile non definisce l’impresa ma fornisce la nozione di imprenditore. Invero l’articolo 2082 del Codice civile statuisce che: “È imprenditore chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi”. Elementi necessari ed indefettibili dell’attività d’impresa sono: lo svolgimento dell’attività in modo professionale; lo svolgimento di un’attività economica diretta alla produzione di beni o servizi; l’organizzazione. Il requisito della professionalità sta ad indicare la necessità che l’attività d’impresa sia stabile o abituale, e non occasionale o estemporanea. Il requisito dell’economicità si ravvisa ove lo scopo dell’attività imprenditoriale è rappresentato dal conseguimento di un lucro o dalla massimizzazione del profitto. Quanto al requisito dell’organizzazione l’imprenditore si interpone nel mercato rinvenendo e coordinando la forza lavoro e gli strumenti di produzione per apprestare il prodotto richiesto daiconsumatori. Egli specula sulla differenza tra il costo iniziale dei fattori della produzione ed il ricavo della vendita. Sono piccoli imprenditori, secondo la lettera dell’articolo 2083 c.c., i coltivatori diretti del fondo, gli artigiani, i piccoli commercianti e coloro che esercitano un’attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia. La disciplina dell’attività del piccolo imprenditore è sussunta nella legge regolatrice della figura dell’artigiano, la legge-quadro per l’artigianato dell’8 agosto 1985, n. 443. Secondo l’articolo 2135 c.c., è imprenditore agricolo chi esercita un’attività diretta alla coltivazione del fondo, alla silvicoltura, all’allevamento del bestiame e le relative attività connesse. È altresì imprenditore agricolo chi svolge attività agrituristiche di ricezione o di ospitalità. All’imprenditore agricolo è equiparato l’imprenditore ittico. Contrariamente a quanto accade per l’imprenditore agricolo e per il piccolo imprenditore, il Codice civile non definisce puntualmente l’imprenditore commerciale. Tuttavia dalla lettera dell’articolo 2195 c.c., rubricato “imprenditori soggetti a registrazione”, si desume che sono attività commerciali: l’attività industriale diretta alla produzione di beni o di servizi; l’attività di intermediazione nella circolazione dei beni; l’attività di trasporto per terra, per acqua o per aria; l’attività bancaria o assicurativa; le altre attività ausiliarie delle precedenti. nella rivendita degli stessi, senza alcuna loro trasformazione, svolta dall’imprenditore commerciale s’identifica con la medesima attività svolta, ex articolo 2083 c.c., dal piccolo commerciante. Soccorre alla distinzione soggettiva, stante l’identificazione oggettiva dell’attività svolta, l’articolo 1 del regio decreto del 16 marzo 1942, n. 267, detto comunemente “legge fallimentare”, statuente che sono imprenditori commerciali gli esercenti un’attività commerciale, sia in forma individuale che collettiva, che anche alternativamente hanno effettuato investimenti nell’azienda per un capitale di valore superiore a trecentomila euro o hanno realizzato, in qualunque modo risulti, ricavi lordi, calcolati sulla media degli ultimi tre anni o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, per un ammontare complessivo annuo superiore a duecentomila euro. Le imprese possono essere classificate come individuali o collettive, private o pubbliche, piccole, medie o grandi, agricole o commerciali, artigiane o familiari.

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Secondo la legge-quadro per l’artigianato dell’8 agosto 1985, n. 443, è imprenditore artigiano colui che esercita personalmente, professionalmente e in qualità di titolare, l’impresa artigiana, assumendone la piena responsabilità con tutti gli oneri ed i rischi inerenti alla sua direzione e gestione e svolgendo in misura prevalente il proprio lavoro, anche manuale, nel processo produttivo. L’imprenditore artigiano, nell’esercizio di particolari attività che richiedono una peculiare preparazione ed implicano responsabilità a tutela e garanzia degli utenti, deve essere in possesso dei requisiti tecnico-professionali previsti dalle leggi statali. È artigiana l’impresa che abbia per scopo prevalente lo svolgimento di un’attività di produzione di beni, anche semilavorati, o di prestazioni di servizi, escluse le attività agricole e le attività di prestazione di servizi commerciali, di intermediazione nella circolazione dei beni o ausiliarie di queste ultime, di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande, salvo il caso che siano solamente strumentali ed accessorie all’esercizio dell’impresa. L’impresa artigiana può essere costituita ed esercitata anche in forma di società, anche cooperativa, escluse le società per azioni ed in accomandita per azioni, a condizione che la maggioranza dei soci, ovvero uno nel caso di due soci, svolga in prevalenza lavoro personale, anche manuale, nel processo produttivo e che nell’impresa il lavoro abbia funzione preminente sul capitale. Inoltre l’impresa artigiana può essere costituita ed esercitata in forma di società a responsabilità con socio unico, o in forma di società in accomandita semplice. Infine, l’impresa artigiana può essere svolta anche con la prestazione d’opera di personale dipendente diretto personalmente dall’imprenditore artigiano o dai soci, sempre che non vengano superati i seguenti limiti: diciotto dipendenti per l’impresa con lavorazione non in serie; nove dipendenti per l’impresa con lavorazione in serie parzialmente automatizzata; trentadue dipendenti per le imprese di lavorazioni artistiche, tradizionali, e dell’abbigliamento; otto dipendenti per le imprese di trasporto; e dieci dipendenti per le imprese di costruzioni edili. Nel caso in cui venissero superati i suddetti limiti l’impresa non sarebbe più artigiana, bensì commerciale. Rientra nel novero delle imprese individuali, e non nel novero delle imprese collettive, anche l’impresa familiare, in quanto è il solo titolare dell’impresa familiare che risponde con tutto il suo patrimonio dell’adempimento delle obbligazioni contratte dall’impresa ed, ove imprenditore commerciale, è soggetto al fallimento. Invero, inoltre, è al solo titolare dell’impresa familiare che spetta la gestione ordinaria dell’impresa ed il potere direttivo nei confronti dei dipendenti della stessa. L’impresa familiare è disciplinata dall’articolo 230 bis c.c., ed è stata introdotta dalla legge di riforma del diritto di famiglia. È definita impresa familiare quella alla quale collaborano, prestandovi la loro attività lavorativa in modo continuativo, il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo, senza avere un contratto di lavoro con l’imprenditore stesso e senza neppure essere legati a quest’ultimo da un contratto di società. Il familiare che presta lavoro nell’impresa ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato. Le decisioni concernenti l’impiego degli utili e degli incrementi, nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell’impresa sono adottate a maggioranza dai familiari che partecipano all’impresa stessa. I familiari partecipanti all’impresa che non hanno la piena capacità di agire sono rappresentati nel voto da chi esercita la potestà su di essi. Anche persone non familiari possono prestare il loro lavoro nell’impresa familiare. Ma perché l’impresa familiare resti tale, occorre che l’attività degli estranei sia prestata in qualità di lavoratori subordinati. La legge del 15 maggio 1986, n. 194, prevede che gli imprenditori che si siano resi benemeriti segnalandosi nell’agricoltura, nell’industria, nel commercio, nell’artigianato, e nell’attività

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creditizia ed assicurativa possono essere insigniti del titolo di “Cavaliere del lavoro” dal Presidente della Repubblica. Le candidature per il conferimento delle onorificenze sono proposte da ciascun Ministro competente e, per i cittadini italiani residenti fuori del territorio nazionale, dal Ministro degli Affari Esteri; incorre nella perdita dell’onorificenza l’insignito che se ne renda indegno. L’imprenditore è a capo dell’impresa e da lui dipendono gerarchicamente i suoi collaboratori. L’imprenditore, per lo svolgimento della propria attività, può avvalersi di diverse categorie di collaboratori. Questi si distinguono in lavoratori subordinati o dipendenti, lavoratoti autonomi, lavoratori parasubordinati, e lavoratori a progetto e occasionali. L’imprenditore può farsi rappresentare in azienda da institori, procuratori e commessi. Le tre categorie si differenziano tra di loro per l’ampiezza del potere di rappresentanza di cui possono godere, che è massima per l’institore e circoscritta a specifiche mansioni per il commesso. L’institore, o direttore generale o ancora procuratore generale, ha il potere di compiere gli atti relativi all’esercizio dell’impresa, quali acquistare, vendere, aprire sedi secondarie, assumere personale, etc. Nell’ambito del proprio potere rappresentativo egli è fornito della massima autonomia. È tenuto a rendere conto del proprio operato soltanto all’imprenditore, dal quale unicamente dipende. Il procuratore è colui che è dotato di un potere di rappresentanza non generale ma particolare: la sua autonomia, cioè, non riguarda il potere di gestire l’impresa, ma soltanto l’esecuzione delle direttive che gli vengono impartite dall’imprenditore o dall’institore. Il commesso è dotato di poteri di rappresentanza ancora più ridotti, poiché essi sono riferiti esclusivamente alla sua specifica mansione. È il caso del cameriere di ristorante che incassa il conto, del portiere d’albergo, dei commessi di un esercizio commerciale, di tutti gli impiegati “di sportello” o che vengono abitualmente in contatto con la clientela. L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie per tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. Capitolo IV La disciplina giuridica dell’odontotecnico e dell’ottico L’ortottista e l’optometrista Si noti che in forza del combinato disposto del regio decreto del 31 maggio 1928, n. 1332, dell’articolo 99 del regio decreto del 27 luglio 1934, n. 1265, e dell’articolo 1 della legge del 26 febbraio 1999, n. 42, la professione di odontotecnico e di ottico non rientra nella disciplina dell’artigianato, bensì nella disciplina delle professioni sanitarie. Dette professioni possono essere esercitate previo conseguimento dell’attestato di abilitazione all’esercizio delle arti ausiliarie sanitarie, ex articolo 140 del regio decreto del 27 luglio 1934, n. 1265. In forza dell’articolo 11 del succitato regio decreto del 31 maggio 1928, n. 1332, l’odontotecnico è autorizzato unicamente a costruire apparecchi di protesi dentaria su modelli tratti dalle impronte fornitegli dai medici chirurghi e dagli abilitati a norma di legge all’esercizio dell’odontoiatria e protesi dentaria, con le indicazioni del tipo di protesi da eseguire, e gli è in ogni caso vietato di esercitare, anche alla presenza ed in concorso del medico o dell’abilitato all’odontoiatria, alcuna manovra, cruenta o incruenta, nella bocca sana o ammalata del paziente. Pertanto, commetterebbe il delitto di esercizio abusivo della professione medica, ex articolo 348 del Codice penale, l’odontotecnico il quale provveda direttamente all’installazione di una protesi dentaria, o si limiti a limare monconi o a rilevare impronte, ed inoltre, ex articolo 101 del regio decreto del 27 luglio 1934, n. 1265, si può disporre la chiusura del locale in cui la professione sanitaria sia stata

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abusivamente esercitata ed il sequestro del materiale destinato all’esercizio di essa. In forza dell’articolo 12 dell’appena mentovato regio decreto del 31 maggio 1928, n. 1332, l’ottico può confezionare, apprestare, e vendere direttamente al pubblico occhiali e lenti soltanto su prescrizione del medico, a meno che si tratti di occhiali protettivi o correttivi dei difetti semplici di miopia e presbiopia, esclusa l’ipermetropia, l’astigmatismo, e l’afachia; è in ogni caso consentito all’ottico di fornire direttamente al pubblico e riparare, anche senza prescrizione medica, lenti ed occhiali, quando la persona che ne dà la commissione gli presenti le lenti o le parti delle medesime di cui chiede il ricambio o la riparazione; è del pari consentito all’ottico di ripetere la vendita al pubblico di lenti od occhiali in base a precedenti prescrizioni mediche che siano conservate dall’esercente stesso oppure esibite dall’acquirente. Nella vigenza degli articoli 6 e 7 del regio decreto del 1928 veniva riconosciuto esclusivamente all’ottico abilitato all’esercizio della professione la facoltà di effettuare la pubblica vendita di lenti ed occhiali da vista. In seguito all’abrogazione dei citati articoli 6 e 7 ad opera dell’articolo 42 del decreto legislativo del 31 marzo 1998, n. 112, l’attività di mera vendita di occhiali può essere svolta oggi anche da un imprenditore, non costituendo per il legislatore la mera vendita di tali prodotti, di per sé sola, atto tipico o proprio dell’arte sanitaria di ottico. La legge del 4 agosto 2006, n. 248, la cosiddetta “legge Bersani”, in attuazione del principio di tutela della libera concorrenza direttamente derivante dal Trattato istitutivo della Comunità europea ha rimosso dall’ordinamento giuridico italiano i previgenti limiti quantitativi all’apertura di nuovi esercizi di ottica. Si deve purtroppo rilevare come, in spregio al principio già richiamato, nella sola Sicilia, parte del territorio nazionale fino a prova contraria, il legislatore regionale si ostini nell’abietto intento di favorire artificiosamente la cristallizzazione degli interessi precostituiti, di fatto arrestando l’aumento dell’offerta del servizio e contingentando gli esercizi di ottica: l’articolo 1 della legge regionale del 9 luglio 2004, n. 12, stabilisce che ai fini del rilascio dell’autorizzazione per l’esercizio dell’attività di ottico da parte della competente autorità comunale si tiene conto del rapporto tra residenti ed esercizi di ottica, e fissa tale rapporto in un esercizio di ottica per ogni fascia di popolazione di ottomila residenti. Non si può sottacere che l’ordinamento giuridico italiano con il decreto ministeriale del 14 settembre 1994, n. 743, ha introdotto la professione di ortottista - assistente in oftalmologia. Per esercitare tale professione è necessario aver conseguito il diploma di laurea triennale in “Ortottica e Assistenza Oftalmologica” avente funzione abilitante. Sono di competenza del dottore in “Ortottica e Assistenza Oftalmologica” la prevenzione, la valutazione, e la riabilitazione ortottica dei disturbi visivi. Da un decennio circa si è assistito nell’ordinamento giuridico italiano alla timida affermazione di una nuova figura professionale distinta dall’ottico e dall’ortottista: l’optometrista. Si tiene a precisare immediatamente che al momento non vi è nessuna norma giuridica in Italia che preveda tale figura professionale. Per converso è la giurisprudenza, con i suoi limiti, a definirne puntualmente l’attività. Si riporta per esteso la massima della sentenza dell’11 aprile 2001, n. 27853, della suprema Corte di Cassazione: “L’attività dell’optometrista, che non va confusa con quella, più limitata, dell’ottico, consiste nella misurazione della vista, anche attraverso strumenti più o meno sofisticati, e nella scelta, caso per caso, di quali siano le lenti necessarie per la correzione di quel singolo difetto. Trattasi di un’attività che non è regolata dalla legge e il relativo esercizio, allo stato attuale della normativa, deve, proprio per questo, ritenersi libero, lecito anche penalmente, per la ragione che non esiste norma positiva che lo vieti, a condizione che non venga invaso l’ambito, strettamente curativo, riservato al medico oculista, e, naturalmente, che non vengano effettuate manovre che possano provocare anche indirettamente danni o lesioni al cliente. Nel primo caso, potendosi configurare il reato di esercizio abusivo della professione medica; nel secondo caso, potendosi configurare altre ipotesi criminose, come quella di lesioni personali o altro. Pertanto,

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devono ritenersi consentite all’optometrista, oltre alla semplice attività di ginnastica oculare, quella di misurazione della vista, quella di apprestare, confezionare e vendere, senza preventiva ricetta medica, occhiali e lenti correttive non solo per i casi di miopia e astigmatismo, ma, al contrario dell’ottico, anche nei casi di astigmatismo, ipermetropia e afachia. È precluso, invece, all’optometrista, configurandosi l’esercizio abusivo della professione medica, di compiere valutazioni di carattere diagnostico, di svolgere attività di carattere curativo, di rilasciare ricette, di compiere sull’occhio interventi di qualsiasi tipo, di intervenire in caso di vere e proprie malattie oculari, e non di semplici disfunzioni della funzione visiva come appunto miopia, presbiopia, astigmatismo, ipermetropia e afachia”. Capitolo V Lo statuto dell’imprenditore commerciale e la procedura fallimentare L’imprenditore commerciale è sottoposto ad un particolare regime giuridico che non si applica né al piccolo imprenditore né all’imprenditore agricolo. Il complesso delle disposizioni dettate appositamente per l’imprenditore commerciale viene comunemente denominato “statuto dell’imprenditore commerciale”. Lo “statuto” riguarda: la capacità ad esercitare l’impresa; l’obbligo d’iscrizione nella sezione ordinaria del registro delle imprese istituito presso le Camere di commercio; l’obbligo di tenere le scritture contabili; la soggezione al fallimento ed alle altre procedure concorsuali. Normalmente l’attività di impresa può essere svolta da chiunque goda della capacità di agire. Limitazioni possono discendere nei confronti di chi eserciti una determinata professione, o da provvedimenti amministrativi o da condanne penali. Inoltre, il minore emancipato può essere autorizzato dal Tribunale ad esercitare un’impresa commerciale senza l’assistenza del curatore. L’iscrizione nel registro delle imprese ha lo scopo di rendere pubblicamente noti ai terzi alcuni atti o fatti fondamentali relativi alla vita dell’impresa. L’imprenditore è inoltre obbligato a tenere le seguenti scritture contabili: il libro giornale, il libro degli inventari, e le altre scritture contabili che siano richieste dalla natura e dalle dimensioni dell’impresa. Il libro giornale deve indicare giorno per giorno le operazioni relative all’esercizio dell’impresa. L’inventario deve essere redatto all’inizio dell’esercizio dell’impresa e successivamente ogni anno. In esso devono figurare le attività e le passività relative all’impresa, nonché le attività e le passività dell’imprenditore non rientranti nell’attività d’impresa. Si chiude con il bilancio e con il conto dei profitti e delle perdite. L’inventario deve essere sottoscritto dall’imprenditore entro tre mesi dal termine per la presentazione della dichiarazione dei redditi ai fini delle imposte dirette. Tra le altre scritture contabili richieste dalla natura e dalle dimensioni dell’impresa si distinguono il libro mastro, dove le operazioni vengono annotate non cronologicamente ma in relazione ad un dato flusso economico, per esempio nei riguardi di quel determinato cliente o fornitore, il libro di cassa, relativo alle entrate ed uscite di denaro, ed il libro magazzino, relativo alle entrate ed uscite di merci. Le procedure concorsuali hanno la finalità di fare rispettare la parità di trattamento di tutti i creditori dell’impresa assoggettata a tali procedure: si tratta del principio della cosiddetta “par condicio creditorum”. Esse si distinguono nella procedura di fallimento e in due procedure alternative al fallimento: la liquidazione coatta amministrativa e l’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza. aforma.it www.istitutotrinacira.it www. La procedura di fallimento è disciplinata dal regio decreto del 16 marzo 1942, n. 267, detto comunemente “legge fallimentare”, novellato da ultimo dal decreto legislativo del 9 gennaio 2006, n. 5, recante “riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali”.

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Il fallimento è una procedura concorsuale nel senso che è organizzato in modo da consentire a tutti i creditori del fallito il concorso sul ricavato dell’espropriazione forzata di tutti i suoi beni. L’aspetto fondamentale della concorsualità consiste nel soddisfacimento dei creditori in misura proporzionale ai propri crediti: così se i creditori non possono essere soddisfatti integralmente, poiché quanto viene ricavato dalla liquidazione dell’attivo è inferiore al passivo, tutti i creditori, fatta eccezione per quelli che vantano una causa legittima di prelazione, subiscono la stessa falcidia, venendo soddisfatti tutti nella stessa percentuale. Altre prerogative della procedura di fallimento sono l’universalità e l’ufficiosità: invero, con il fallimento il debitore è spossessato di tutti i suoi beni e di tutti i suoi diritti, ed il fallimento può essere dichiarato anche d’ufficio, cioè su iniziativa dell’autorità giudiziaria. Presupposto soggettivo della dichiarazione di fallimento è che il debitore deve essere un imprenditore commerciale. Non sono perciò soggetti al fallimento né i piccoli imprenditori né gli imprenditori agricoli. Il presupposto oggettivo è rappresentato dallo stato di insolvenza dell’imprenditore, cioè dalla sua incapacità di soddisfare regolarmente le sue obbligazioni. La procedura fallimentare si svolge attraverso una serie di atti che hanno lo scopo di sottrarre al fallito il possesso del suo patrimonio, di custodire ed amministrare detto patrimonio, di liquidare l’attivo, e di distribuire il ricavato della liquidazione tra i creditori del fallito. La “legge fallimentare” stabilisce quali collegi e quali persone hanno il potere di compiere detti atti: il Tribunale fallimentare, il giudice delegato, il curatore, ed il comitato dei creditori sono gli organi del fallimento. Il fallimento è dichiarato su domanda dello stesso debitore, del suo erede, di uno o più creditori, o, come si è anticipato, su richiesta del pubblico ministero. Se l’imprenditore muore dopo la dichiarazione di fallimento, la procedura prosegue nei confronti dell’erede, anche se questi ha accettato con beneficio d’inventario. Si noti che la cessazione dell’attività di impresa o la morte dell’imprenditore non impediscono la successiva dichiarazione di fallimento; il fallimento può essere però dichiarato entro un anno dalla cancellazione dal registro delle imprese, purché lo stato di insolvenza si sia manifestato prima di tali eventi od entro l’anno successivo. La sentenza dichiarativa di fallimento è pronunciata dal Tribunale. Avverso la sentenza che dichiara il fallimento può essere proposto gravame dal debitore presso la Corte d’Appello. Il Tribunale fallimentare nomina, nella stessa sentenza di fallimento, il giudice delegato ed il curatore. Il giudice delegato esercita le funzioni di vigilanza e di controllo sulla regolarità della procedura. Nomina il comitato dei creditori. Il curatore è l’organo di diretta amministrazione del patrimonio fallimentare. L’attività del curatore è finalizzata a realizzare l’interesse della massa dei creditori, che rappresenta in ogni rapporto contrattuale e processuale. Opera sotto il controllo del giudice delegato e del comitato dei creditori. Il comitato dei creditori è composto da tre o cinque membri scelti tra i creditori. Detto comitato vigila sull’operato del curatore, ne autorizza gli atti, ed esprime pareri, anche su richiesta del Tribunale o del giudice delegato, motivando le proprie deliberazioni. Con la dichiarazione di fallimento al fallito sono limitati, per esigenze processuali, alcuni diritti civili garantiti dalla Costituzione: il diritto al segreto epistolare ed il diritto alla libertà di movimento. Il fallimento non costituisce di per sé un reato per l’imprenditore commerciale. Il fallimento può comportare l’applicazione di una sanzione penale quando ad esso si accompagnino determinati comportamenti previsti dalla legge come reati. Tra i reati fallimentari vi è la bancarotta fraudolenta, la bancarotta semplice, ed il ricorso abusivo al credito.

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Se il fallimento non è stato chiuso con il pagamento integrale di tutti i debiti, il fallito seguita, anche dopo la chiusura, ad essere debitore di quanto ancora dovuto ai creditori fallimentari rimasti, in tutto o in parte, insoddisfatti. Pertanto, se l’imprenditore, dopo la distribuzione del ricavato della liquidazione, acquisisce nuovi beni, su tali beni i creditori anteriori al fallimento possono esercitare le azioni esecutive singolari. La legge, tuttavia, ammette che il fallito, se persona fisica, con la chiusura del fallimento possa ottenere dal Tribunale il beneficio della esdebitazione, cioè la liberazione dai debiti residui nei confronti dei creditori concorsuali non ancora soddisfatti; debiti che pertanto vengono dichiarati inesigibili dal Tribunale col decreto di esdebitazione. Secondo la lettera dell’articolo 142 della “legge fallimentare”, il fallito, persona fisica, è ammesso al beneficio della liberazione dai debiti residui nei confronti dei creditori concorsuali non soddisfatti a condizione che: abbia cooperato con gli organi della procedura, fornendo tutte le informazioni e la documentazione utile all’accertamento del passivo e adoperandosi per il proficuo svolgimento delle operazioni; non abbia in alcun modo ritardato o contribuito a ritardare lo svolgimento della procedura; non abbia violato l’obbligo di consegnare al curatore fallimentare la propria corrispondenza, inclusa quella elettronica, riguardante i rapporti compresi nel fallimento; non abbia beneficiato di altra esdebitazione nei dieci anni precedenti la richiesta; non abbia distratto l’attivo o esposto passività insussistenti, cagionato o aggravato il dissesto rendendo gravemente difficoltosa la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari o fatto ricorso abusivo al credito; non sia stato condannato con sentenza passata in giudicato per bancarotta fraudolenta o per delitti contro l’economia pubblica, l’industria e il commercio, e altri delitti compiuti in connessione con l’esercizio dell’attività d’impresa, salvo che per tali reati sia intervenuta la riabilitazione. L’esdebitazione non può essere concessa qualora non siano stati soddisfatti, neppure in parte, i creditori concorsuali. Infine, non si può sottacere che la riforma occorsa nel 2006 ha sostituito al previgente istituto “della riabilitazione civile” l’appena descritto istituto dell’esdebitazione. Si è passati, dunque, dalla volontà del legislatore di consentire, a determinate condizioni, il ripristino delle capacità del fallito alla determinazione di introdurre un istituto ad evidente valenza premiante diretto a liberare il fallito persona fisica, a determinate condizioni, dai debiti residui. Bisogna distinguere tra concordato preventivo e concordato fallimentare. Il primo mira ad evitare l’apertura del fallimento attraverso un accordo preventivo tra debitore e creditori. Il secondo presuppone l’esistenza della sentenza dichiarativa di fallimento e rappresenta lo strumento che consente di pervenire anticipatamente alla cessazione della procedura fallimentare. La liquidazione coatta amministrativa, anch’essa regolata dalla “legge fallimentare”, è il procedimento concorsuale con cui si provvede alla liquidazione dell’impresa a cura dell’autorità amministrativa anziché dell’autorità giudiziaria. Le imprese oggetto di liquidazione coatta amministrativa sono rappresentate dalle società cooperative e da determinate categorie di imprese tassativamente indicate dalla legge, che, per la natura dell’attività svolta o per gli interessi generali che coinvolgono, sono sottoposte a controllo pubblico. Tra esse, per esempio, vi sono le imprese bancarie ed assicurative. La procedura di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza, disciplinata dal decreto legislativo dell’8 luglio 1999, n. 270, e dalla legge del 18 febbraio 2004, n. 39, ha la finalità di tentare il recupero delle grandi imprese in difficoltà, in considerazione dell’interesse generale del sistema economico e dell’interesse sociale al mantenimento, nei limiti del possibile, dei livelli di occupazione. Capitolo VI

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Le Camere di commercio ed il registro delle imprese Le Camere di commercio sono disciplinate dalla legge del 29 dicembre 1993, n. 580, rubricata “riordinamento delle Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura”. Le Camere di commercio, industria, artigianato ed agricoltura, dette comunemente “Camere di commercio”, sono enti autonomi di diritto pubblico che svolgono, singolarmente o in forma associata, nell’ambito della circoscrizione territoriale di competenza, funzioni di interesse generale per il sistema delle imprese, curandone lo sviluppo nell’ambito delle economie locali, la promozione degli interessi, ed il supporto amministrativo ed economico. Le Camere di commercio fanno fronte a tali impegni disponendo di autonomia finanziaria. Invero si provvede al finanziamento ordinario delle Camere di commercio mediante: contributi a carico del bilancio dello Stato, quale corrispettivo per l’esercizio di funzioni di interesse generale svolte per conto della Pubblica Amministrazione; entrate e contributi derivanti da leggi statali, da leggi regionali, o da convenzioni; diritti di segreteria sull’attività certificativa svolta sull’iscrizione in ruoli, elenchi, registri, ed albi tenuti ai sensi delle disposizioni vigenti; diritti annuali dovuti da ogni impresa iscritta o annotata nei registri; un fondo di perequazione istituito presso l’Unioncamere al fine di rendere omogeneo su tutto il territorio nazionale l’espletamento delle funzioni amministrative attribuite dalle leggi dello Stato al sistema delle Camere di commercio; etc. Le Camere di commercio hanno sede in ogni capoluogo di Provincia e la loro circoscrizione territoriale coincide, di regola, con quella della Provincia o dell’Area metropolitana. Le Camere di commercio, singolarmente o in forma associata, possono promuovere la costituzione di commissioni arbitrali e conciliative per la risoluzione delle controversie tra imprese e tra imprese e consumatori ed utenti, predisporre e promuovere contratti-tipo tra imprese, loro associazioni e associazioni di tutela degli interessi dei consumatori e degli utenti, promuovere forme di controllo sulla presenza di clausole inique inserite nei contratti, promuovere l’azione per la repressione della concorrenza sleale ai sensi dell’articolo 2601 c.c., etc.. Sono sottoposte alla vigilanza del Ministero dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato e godono contestualmente di una residuale potestà statutaria. Loro organi sono il consiglio, la giunta, il presidente, ed il collegio dei revisori dei conti. Il consiglio, il cui numero dei componenti, designati dalle organizzazioni rappresentative delle imprese appartenenti ai diversi settori, è variabile a seconda delle imprese iscritte nel registro delle imprese o nel registro delle ditte ovvero annotate nello stesso, svolge le seguenti funzioni: predispone e delibera lo statuto e le relative modifiche; elegge tra i suoi componenti il presidente e la giunta e nomina i membri del collegio dei revisori dei conti; determina gli indirizzi generali ed approva il programma pluriennale dell’attività della Camera di commercio; delibera il bilancio preventivo, le sue variazioni, ed il conto consuntivo dura in carica quattro anni. La giunta è l’organo esecutivo della Camera di commercio. Ne fanno parte il presidente ed un numero di membri, eletti dal consiglio tra i consiglieri, non inferiore a cinque e non superiore ad un terzo dei membri del consiglio; dei suddetti membri almeno quattro devono essere eletti in rappresentanza dei settori dell’industria, del commercio, dell’artigianato, e dell’agricoltura. Oltre a predisporre, per l’approvazione da parte del consiglio, il bilancio preventivo, le sue variazioni, ed il conto consuntivo, svolge le seguenti funzioni: adotta i provvedimenti necessari per la realizzazione del programma di attività e per la gestione delle risorse; delibera sulla partecipazione della Camera di commercio a consorzi, società, associazioni, etc.; delibera l’istituzione di uffici distaccati in altri Comuni della circoscrizione territoriale di competenza; adotta ogni altro atto per l’espletamento delle funzioni e delle attività non rientranti nelle competenze riservate del consiglio e del presidente; delibera in casi d’urgenza sulle materie di competenza del consiglio. La giunta dura in carica quattro anni in coincidenza con la durata del consiglio. Il presidente, eletto dal consiglio tra i consiglieri, rappresenta la Camera di commercio, convoca e presiede il consiglio e la giunta, e ne determina l’ordine del giorno. Il presidente dura in carica

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quattro anni in coincidenza con la durata del consiglio ed è rieleggibile una sola volta (180). Il collegio dei revisori dei conti è nominato dal consiglio ed è composto da tre membri effettivi designati, rispettivamente, dal Presidente della Giunta regionale, dal Ministro dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato, e dal Ministro delle Finanze, e da due membri supplenti. I revisori dei conti devono essere iscritti nell’albo dei revisori dei conti tenuto dal Ministro della Giustizia (181) e devono risiedere nella Regione ove ha sede la Camera di commercio. Il collegio nomina al proprio interno un presidente. Il collegio dei revisori dei conti svolge le seguenti funzioni: collabora con il consiglio nella sua funzione di controllo e di indirizzo; esercita la vigilanza sulla regolarità contabile e finanziaria della gestione della Camera di commercio; attesta la corrispondenza del conto consuntivo alle risultanze della gestione, redigendo una relazione da allegare al progetto di conto consuntivo predisposto dalla giunta; redige una relazione sul bilancio preventivo e sulle relative variazioni; esprime rilievi e proposte tendenti a far conseguire una migliore efficienza, produttività, ed economicità della gestione. I revisori dei conti rispondono della veridicità delle loro attestazioni ed adempiono ai loro doveri con la diligenza del mandatario. Ove riscontrino gravi irregolarità nella gestione, ne riferiscono immediatamente al consiglio. Al collegio dei revisori dei conti si applicano le disposizioni relative ai sindaci delle società per azioni, in quanto compatibili. Il capo secondo della mentovata legge del 29 dicembre 1993, n. 580, è rubricato “registro delle imprese”. L’articolo 8, così come integrato dal decreto del Presidente della Repubblica del 7 dicembre 1995, n. 581, e modificato dall’articolo 16 del decreto legislativo del 2 febbraio 2001, n. 96, e dall’articolo 2 del decreto legislativo del 18 maggio 2001, n. 228, dispone che: presso ciascuna Camera di commercio è istituito l’ufficio del registro delle imprese di cui all’articolo 2188 c.c.; l’ufficio provvede alla tenuta del registro in conformità degli articoli 2188 c.c. e seguenti, sotto la vigilanza di un giudice delegato dal presidente del Tribunale del capoluogo di Provincia; l’ufficio è retto da un conservatore; in una sezione speciale del registro delle imprese sono iscritti gli imprenditori agricoli, i piccoli imprenditori, le società semplici, le imprese artigiane, mentre le società tra avvocati sono iscritte in una sezione speciale relativa alle società tra professionisti; l’iscrizione degli imprenditori agricoli, dei coltivatori diretti e delle società semplici esercenti attività agricola ha funzione di certificazione anagrafica e di pubblicità dichiarativa, mentre negli altri casi l’iscrizione nelle sezioni speciali vale come certificazione anagrafica e pubblicità-notizia, oltre gli effetti previsti da leggi speciali; la predisposizione, la tenuta, la conservazione e la gestione, secondo tecniche informatiche, del registro delle imprese ed il funzionamento dell’ufficio sono realizzati in modo da assicurare completezza ed organicità di pubblicità per tutte le imprese soggette ad iscrizione, garantendo la tempestività dell’informazione, su tutto il territorio nazionale; allo scopo di favorire l’istituzione del registro delle imprese, le Camere di commercio provvedono ad acquisire alla propria banca-dati gli atti comunque soggetti all’iscrizione o al deposito nel registro delle imprese; e gli uffici giudiziari hanno accesso diretto alla banca-dati ed all’archivio cartaceo del registro delle imprese e delle ditte, ed hanno diritto di ottenere gratuitamente copia integrale o parziale di ogni atto per il quale siano previsti l’iscrizione o il deposito. Pertanto il registro è articolato in due sezioni: una sezione ordinaria ed una sezione speciale. Sono tenuti all’iscrizione nella sezione ordinaria: gli imprenditori individuali commerciali non piccoli; tutte le società anche se non svolgono attività commerciali, tranne la società semplice e la società in nome collettivo costituita da avvocati; i consorzi fra imprenditori con attività esterna e le società consortili; etc. L’iscrizione nella sezione ordinaria del registro delle imprese ha funzione di pubblicità legale, cioè ora di pubblicità dichiarativa ora di pubblicità costitutiva. L’iscrizione nella sezione speciale del registro delle imprese ha, invece, efficacia ora di pubblicità-notizia ora di pubblicità dichiarativa. Nel primo caso, pertanto, l’iscrizione consente di prendere conoscenza dell’atto o del fatto iscritto, ma non lo rende di per sé opponibile ai terzi, dovendosi a tal fine sempre provare l’effettiva conoscenza da parte degli stessi. Nel secondo caso, di contro, l’iscrizione rileva sul piano della conoscenza e dell’opponibilità dell’atto o del fatto ai terzi; vale a dire che gli atti ed i fatti soggetti ad iscrizione ed iscritti sono opponibili a chiunque dal momento

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della loro registrazione; compiuta la registrazione, i terzi non potranno eccepire l’ignoranza dell’atto o del fatto iscritto, e qualsiasi prova essi daranno al riguardo sarà inutilmente data. Invece, l’iscrizione nella sezione ordinaria del registro delle imprese ha efficacia ora di pubblicità dichiarativa ora di pubblicità costitutiva. L’iscrizione nel registro delle imprese dell’atto o del fatto ha funzione costitutiva quando l’iscrizione medesima è condicio sine qua non perché l’atto od il fatto sia produttivo di effetti inter partes e sia opponibile ai terzi. Ha efficacia costitutiva l’iscrizione nel registro delle imprese dell’atto costitutivo delle società di capitali e delle società cooperative: prima della registrazione tali società non esistono giuridicamente né tra i soci né per i terzi. Gli atti ed i fatti da registrare sono diversi a seconda della struttura soggettiva dell’impresa. Riguardano essenzialmente gli elementi di individuazione dell’imprenditore e dell’impresa, quali i dati anagrafici dell’imprenditore, la ditta, l’oggetto, la sede principale e le eventuali sedi secondarie dell’impresa, l’inizio e la fine delle attività, etc., nonché la struttura e l’organizzazione della società, quali l’atto costitutivo e le sue modificazioni, la nomina e la revoca degli amministratori, dei sindaci, e dei liquidatori, etc. Sono poi soggette a registrazione, in via di principio, tutte le modificazioni degli elementi già iscritti. Non è invece consentita l’iscrizione di atti e fatti non previsti dalla legge. Le iscrizioni devono essere fatte nel registro delle imprese della Provincia in cui l’impresa ha sede, e, per agevolare le ricerche da parte dei terzi, l’imprenditore e la società devono indicare negli atti e nella corrispondenza il registro presso il quale l’iscrizione è avvenuta. L’iscrizione è eseguita su domanda sottoscritta dall’interessato. Prima di procedere all’iscrizione, l’ufficio del registro deve accertare l’autenticità della sottoscrizione ed il concorso delle condizioni richieste per l’iscrizione. Il rifiuto dell’iscrizione deve essere comunicato con raccomandata al richiedente. Questi può ricorrere entro otto giorni al giudice del registro, che provvede con decreto. L’iscrizione può essere ordinata anche d’ufficio: se un’iscrizione obbligatoria non è stata richiesta, l’ufficio del registro invita mediante raccomandata l’imprenditore a richiederla entro un congruo termine; decorso inutilmente il termine assegnato, il giudice del registro può ordinarla con decreto. L’iscrizione è eseguita mediante inserimento dei dati nella memoria dell’elaboratore elettronico e la consultazione della stessa è a disposizione del pubblico sui terminali per la visione diretta. Ciascun ufficio rilascia, anche per corrispondenza o con tecniche telematiche, certificati e copie tratti dai propri archivi informatici. Il costo di tali certificati e copie non può eccedere il costo amministrativo. Capitolo VII L’azienda, i suoi segni distintivi ed il suo trasferimento Ai sensi dell’articolo 2555 c.c., “l’azienda è il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa”. Azienda ed impresa, sebbene nel linguaggio comune vengano usati come sinonimi, sono giuridicamente due concetti differenti. Tra azienda ed impresa vige un rapporto di mezzo a fine ed è possibile che vi sia una dissociazione tra la titolarità dell’impresa e la proprietà degli strumenti di produzione. La dissociazione tra la titolarità dell’impresa e la proprietà degli strumenti di produzione si riflette nella nozione giuridica di azienda: l’azienda è formata non dai beni di proprietà dell’imprenditore, ma dai beni organizzati da quest’ultimo per un unico fine. I beni che compongono l’azienda possono essere i più vari. Si distinguono beni immobili e beni mobili, beni mobili iscritti in pubblici registri, beni materiali, beni immateriali, contratti, crediti e

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debiti. Beni immobili sono i locali dove si svolge l’attività, etc. La ditta non può essere trasferita separatamente dall’azienda. Nel trasferimento dell’azienda per atto tra vivi la ditta non passa all’acquirente senza il consenso dell’alienante. Nella successione nell’azienda per causa di morte la ditta si trasmette al successore, salvo diversa disposizione testamentaria. L’ufficio del registro delle imprese cura l’iscrizione della ditta delle imprese commerciali. Si parla di ditta in riferimento all’imprenditore individuale, mentre per le società si parla, rispettivamente, di ragione sociale per quelle di persone, e di denominazione sociale per quelle di capitali. L’insegna è il segno distintivo dei locali dove si svolge l’attività economica dell’imprenditore, dove ha quindi materialmente sede l’azienda; dunque contraddistingue lo stabilimento industriale, il locale dell’esercizio commerciale, o l’intero complesso aziendale. Il marchio è il segno distintivo del prodotto o del servizio e ne indica la provenienza. I marchi, insieme alle indicazioni geografiche ed alle denominazioni di origine, ed ai brevetti per invenzione industriale, costituiscono alcuni dei diritti della proprietà industriale, disciplinata dal decreto legislativo del 10 febbraio 2005, n. 30, rubricato “codice della proprietà industriale, a norma dell’articolo 15 della legge 12 dicembre 2002, n. 273”. Il diritto all’uso esclusivo del marchio si acquista mediante la registrazione presso l’Ufficio italiano brevetti e marchi o presso l’Organizzazione Mondiale della Proprietà Industriale di Ginevra (OMPI), ovvero mediante il preuso, cioè l’uso di fatto di un marchio non registrato anteriore alla registrazione dello stesso ottenuta da altri. Tra registrazione e preuso vi sono notevoli differenze relative all’efficacia territoriale della tutela del marchio ed all’onere della prova: invero, la registrazione consente la tutela del Beni mobili sono i macchinari, le materie prime, etc. Beni mobili registrati sono gli automezzi, i motocicli, i ciclomotori, etc. Beni materiali sono le attrezzature, i macchinari, gli immobili, le merci, i prodotti, etc. Beni immateriali sono l’avviamento, la ditta, l’insegna, il marchio, le invenzioni industriali, e le opere dell’ingegno. Tra i contratti si possono annoverare quello di somministrazione, di trasporto, di appalto, di agenzia, di vendita, etc.. L’avviamento consiste nell’idoneità dell’azienda a produrre ex se ricchezza e reddito, cioè nella sua attitudine concreta di produrre profitto. La ditta, l’insegna, ed il marchio rappresentano i segni distintivi dell’azienda. La loro finalità è quella di consentire da un lato all’imprenditore la formazione e la conservazione della propria clientela, e dall’altro ai consumatori di distinguere facilmente la sua impresa, i suoi stabilimenti, i suoi prodotti e servizi da quelli degli imprenditori concorrenti. La ditta è il nome sotto il quale l’imprenditore esercita la sua attività: la ditta, comunque sia formata, deve contenere almeno il cognome o la sigla dell’imprenditore. Questi ha diritto all’uso esclusivo della ditta da lui prescelta . Se la ditta è uguale o simile a quella usata da altro imprenditore e può ingenerare confusione per l’oggetto dell’impresa e per il luogo in cui questa è esercitata, deve essere integrata o modificata con indicazioni idonee a differenziarla. marchio su tutto il territorio nazionale o addirittura in ambito internazionale, mentre il preuso è tutelato esclusivamente nell’ambito territoriale in cui è effettivamente avvenuto; inoltre, mentre l’imprenditore che voglia far valere il preuso è onerato della relativa prova, di contro con la registrazione viene automaticamente conferito il diritto all’uso del marchio. I diritti del titolare del marchio d’impresa registrato consistono nelle facoltà di fare uso esclusivo del marchio e di vietarne ai terzi, salvo proprio consenso, l’uso nell’attività economica. Possono costituire oggetto di registrazione come marchio d’impresa tutti i segni suscettibili di

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essere rappresentati graficamente, in particolare le parole, compresi i nomi di persone, i disegni, le lettere, le cifre, i suoni, la forma del prodotto o della confezione di esso, le combinazioni o le tonalità cromatiche, purché siano atti a distinguere i prodotti o i servizi di un’impresa da quelli di altre imprese. Pertanto non possono costituire oggetto di registrazione come marchio d’impresa i segni privi di capacità distintiva. Né, inoltre, i segni privi di novità o di liceità. Il diritto al marchio è assistito sia da una tutela di natura civile che da una tutela di natura penale. La sentenza civile che accerta la violazione del diritto può disporre il sequestro e la distruzione dei prodotti contraffatti od usurpati, l’inibitoria dell’ulteriore uso del marchio contraffatto od usurpato, il risarcimento del danno, e la pubblicazione della stessa sentenza su uno o più giornali. Costituiscono inoltre illeciti penali la contraffazione e l’alterazione del marchi, l’introduzione di marchi contraffatti od alterati nel territorio dello Stato per farne commercio, e la vendita di prodotti con marchi mendaci. Il marchio può essere trasferito per la totalità o per una parte dei prodotti o servizi per i quali è stato registrato; inoltre, il marchio può essere oggetto di licenza, anche non esclusiva, per la totalità o per parte dei prodotti o dei servizi per i quali è stato registrato, e per la totalità o per parte del territorio dello Stato; in ogni caso dal trasferimento o dalla licenza non deve derivare inganno relativamente a quei caratteri dei prodotti o dei servizi che sono essenziali nell’apprezzamento del pubblico. Il diritto al marchio si perde per rinuncia da parte dell’avente diritto, per mancata rinnovazione, per trasferimento, per non uso per cinque anni dalla registrazione, e per “volgarizzazione”. Il marchio “si volgarizza” quando è divenuto nel commercio denominazione generica del prodotto, cioè quando è diventato talmente noto e diffuso da non riuscire più ad individuare il singolo prodotto al quale si riferisce, quanto piuttosto l’intera categoria alla quale quel prodotto appartiene. La registrazione ha durata decennale a partire dalla data di deposito della domanda ed è rinnovabile di decennio in decennio. Sono protette, inoltre, le indicazioni geografiche e le denominazioni di origine che identificano un Paese, una Regione o una località, quando siano adottate per designare un prodotto che ne è originario e le cui qualità, reputazione o caratteristiche sono dovute esclusivamente o essenzialmente all’ambiente geografico d’origine, comprensivo dei fattori naturali, umani e di tradizione; salva la disciplina della concorrenza sleale, salve le convenzioni internazionali in materia e salvi i diritti di marchio anteriormente acquisiti in buona fede, è vietato, quando sia idoneo ad ingannare il pubblico, l’uso di indicazioni geografiche e di denominazioni di origine, nonché l’uso di qualsiasi mezzo nella designazione o presentazione di un prodotto che indichino o suggeriscano che il prodotto stesso proviene da una località diversa dal vero luogo di origine, oppure che il prodotto presenta le qualità che sono proprie dei prodotti che provengono da una località designata da un’indicazione geografica; tale tutela non permette di vietare ai terzi l’uso nell’attività economica del proprio nome o del nome del proprio dante causa nell’attività medesima, salvo che tale nome sia usato in modo da ingannare il pubblico. La Comunità europea per difendere e tutelare una vasta gamma di prodotti agricoli ed alimentari su tutto il territorio degli Stati membri ha introdotto con il regolamento comunitario 2081/92/CEE il marchio “denominazione di origine protetta”, il cui acronimo suona “d.o.p.”, che identifica la denominazione di un prodotto la cui produzione, trasformazione ed elaborazione avvengono in un’area geografica determinata, il marchio “indicazione geografica protetta”, “i.g.p.”, che identifica la denominazione di un prodotto di cui almeno uno degli stadi della produzione, trasformazione o elaborazione avviene in un’area geografica determinata, ed il marchio “specialità tradizionale garantita”, “s.t.g.”, finalizzato a valorizzare una composizione tradizionale del prodotto o un metodo di produzione nazionale senza alcun riferimento ad un’origine. In seguito all’emanazione del summenzionato regolamento comunitario, il sistema italiano di certificazione “d.o.c.”, denominazione di origine controllata, è utilizzato esclusivamente per contraddistinguere vini di qualità.

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Le invenzioni nuove che implicano un’attività inventiva e sono atte ad avere un’applicazione industriale possono costituire oggetto di brevetto per invenzione industriale. Alle invenzioni si applicano normalmente le regole relative al diritto di marchio. Contrariamente a quanto previsto per il diritto di marchio, il diritto di brevetto per invenzione industriale dura venti anni a decorrere dalla data di deposito della domanda e non può essere rinnovato, né può esserne prorogata la durata. Possono costituire oggetto di brevetto le nuove invenzioni atte ad avere un’applicazione industriale, quali un metodo o un processo di lavorazione industriale, una macchina, uno strumento, un utensile o un dispositivo meccanico, un prodotto o un risultato industriale e l’applicazione tecnica di un principio scientifico, purché essa dia immediati risultati industriali . Inoltre possono costituire oggetto di brevetto per modello di utilità i nuovi modelli atti a conferire particolare efficacia o comodità di applicazione o di impiego a macchine, o parti di esse, strumenti, utensili od oggetti di uso in genere, quali i nuovi modelli consistenti in particolari conformazioni, disposizioni, configurazioni o combinazioni di parti. Con la concessione del brevetto, da parte dell’Ufficio italiano brevetti e marchi, viene conferito il diritto esclusivo di attuare l’invenzione e di trarne profitto entro il limite temporale anzidetto. Perché un’invenzione sia brevettabile questa deve contestualmente godere dei requisiti della novità, dell’industrialità, e della liceità. L’inventore è tutelato sia sotto l’aspetto morale che patrimoniale. Il diritto morale consiste nel diritto dell’autore al riconoscimento della paternità dell’invenzione; tale diritto può essere fatto valere, dopo la morte dell’inventore, dal coniuge e dai discendenti fino al secondo grado; in loro mancanza o dopo la loro morte, dai genitori e dagli altri ascendenti ed in mancanza, o dopo la morte anche di questi, dai parenti fino al quarto grado incluso. Il diritto patrimoniale consiste, invece, nel diritto riconosciuto all’inventore di sfruttare in via esclusiva l’invenzione per trarne profitto; detto diritto patrimoniale è alienabile e trasmissibile. Si può pertanto asserire che mentre il diritto morale, che può considerarsi come un vero e proprio diritto della personalità, presenta i caratteri della durata indefinita, dell’imprescrittibilità, e dell’inalienabilità, per converso il diritto patrimoniale gode delle prerogative della valutabilità economica, della temporaneità, e della trasmissibilità. Se dunque la paternità dell’invenzione non è soggetta a limite temporale, non è soggetta a prescrizione, e non può essere ceduta ad altri sia perché non è convertibile in valore economico sia perché indissolubilmente legata alla persona, per converso il diritto patrimoniale può essere stimato in termini economici e monetari, può essere esercitato in esclusiva per venti anni, e può essere trasmesso sia per atto inter vivos che mortis causa. Quando l’invenzione industriale è fatta nell’esecuzione o nell’adempimento di un contratto o di un rapporto di lavoro o d’impiego, in cui l’attività inventiva è prevista come oggetto del contratto o del rapporto e a tale scopo retribuita, i diritti derivanti dall’invenzione stessa appartengono al datore di lavoro, salvo il diritto spettante all’inventore di esserne riconosciuto autore; se non è prevista e stabilita una retribuzione, in compenso dell’attività inventiva, e l’invenzione è fatta nell’esecuzione o nell’adempimento di un contratto o di un rapporto di lavoro o di impiego, i diritti derivanti dall’invenzione appartengono al datore di lavoro, ma all’inventore, salvo sempre il diritto di essere riconosciuto autore, spetta, qualora il datore di lavoro ottenga il brevetto, un equo premio per la determinazione del quale si terrà conto dell’importanza della protezione conferita all’invenzione dal brevetto, delle mansioni svolte e della retribuzione percepita dall’inventore, nonché del contributo che questi ha ricevuto dall’organizzazione del datore di lavoro. Il diritto di brevetto per invenzione industriale è assistito dalla stessa tutela civile e penale previste per il diritto di marchio. Il brevetto gode anche di una tutela internazionale offerta dalla Convenzione dell’Unione di Parigi già fin dal 1883, dalla Convenzione di Strasburgo, dal Trattato di Washington, e dall’Accordo TRIPS. Esistono inoltre un brevetto comunitario relativo alla brevettazione nei Paesi dell’Unione

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europea, ed un brevetto europeo efficace negli Stati europei, anche non appartenenti all’U.E., che abbiano però aderito a tale Convenzione. Le opere dell’ingegno, cioè le creazioni intellettuali scientifiche, letterarie, musicali, figurative, architettoniche, teatrali e cinematografiche, qualunque ne sia il modo o la forma d’espressione, sono oggetto del diritto d’autore, disciplinato dalla legge del 22 aprile 1941, n. 633, rubricata “protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio”, e dalle successive modificazioni. Il diritto d’autore si acquisisce con la creazione dell’opera, e non per mezzo della registrazione della medesima nel registro pubblico generale delle opere protette istituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri o nel registro pubblico speciale tenuto dalla Società Italiana degli Autori ed Editori (SIAE). Gli autori ed i produttori delle opere dell’ingegno devono depositare presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri un esemplare o copia dell’opera o del prodotto. Tuttavia l’omissione del deposito non pregiudica l’esercizio del diritto d’autore. Anche il titolare del diritto d’autore è protetto sul piano patrimoniale e morale. Sul versante patrimoniale l’autore ha il diritto esclusivo di pubblicare l’opera e di utilizzarla economicamente in ogni forma e modo, nei limiti e per gli effetti fissati dalla legge; i diritti di utilizzazione sono trasferibili ed il trasferimento per atto tra vivi deve essere provato per iscritto; i diritti di utilizzazione economica dell’opera durano per tutta la vita dell’autore e sino al termine del settantesimo anno solare dopo la sua morte. Sul versante morale l’autore, anche dopo la cessione dei diritti sull’opera, conserva il diritto, inalienabile, di rivendicare la paternità dell’opera e di opporsi a qualsiasi deformazione, mutilazione od altra modificazione, e ad ogni atto a danno dell’opera stessa, che possano essere di pregiudizio al suo onore o alla sua reputazione; dopo la morte dell’autore il diritto succitato può essere fatto valere, senza limiti di tempo, dal coniuge e dai figli, e, in loro mancanza, dai genitori e dagli altri ascendenti e dai discendenti diretti; mancando gli ascendenti ed i discendenti, dai fratelli e dalle sorelle e dai loro discendenti; l’azione, qualora finalità pubbliche lo esigano, può altresì essere esercitata dal Ministro per i Beni e le Attività Culturali sentita l’associazione sindacale competente . Anche il diritto d’autore è assistito da difese e sanzioni e civili e penali. L’imprenditore può cedere l’azienda o una parte di essa, purché si tratti di un ramo che possa costituire un’unità produttiva autonoma. Il contratto di cessione comporta le seguenti conseguenze: per le imprese soggette a registrazione, i contratti che hanno per oggetto il trasferimento della proprietà o il godimento dell’azienda devono essere provati per iscritto e, in forma pubblica o per scrittura privata autenticata, devono essere depositati per l’iscrizione nel registro delle imprese; chi aliena l’azienda deve astenersi, per un periodo di cinque anni dal trasferimento, dall’iniziare una nuova impresa che per l’oggetto, l’ubicazione o altre circostanze sia idonea a sviare la clientela dell’azienda ceduta; salvo patto contrario, l’acquirente dell’azienda subentra nei contratti stipulati per l’esercizio dell’azienda che non abbiano carattere personale; la cessione dei crediti relativi all’azienda ceduta, anche in mancanza di notifica al debitore o di sua accettazione, ha effetto, nei confronti dei terzi, dal momento dell’iscrizione del trasferimento nel registro delle impresa; acquirente ed alienante sono responsabili in solido dei debiti inerenti all’esercizio dell’azienda ceduta anteriori al trasferimento e dei debiti che risultano dai libri contabili obbligatori. Infine l’azienda può essere ceduta in usufrutto a favore di terzi, purché l’azienda venga esercitata sotto la ditta che la contraddistingue, e può essere data in affitto.

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Capitolo VIII La disciplina nazionale della concorrenza sleale Il principio generale di concorrenza rappresenta uno dei capisaldi giuridici tanto dell’ordinamento giuridico comunitario quanto dell’ordinamento giuridico nazionale. Regole disciplinanti la concorrenza, pertanto, operano sia a livello comunitario che nazionale. A livello comunitario le regole di concorrenza riguardano tanto il settore privato quanto il settore pubblico, oltre a condizionare la normativa relativa alla tutela del consumatore. Il settore privato è disciplinato dalle “regole applicabili alle imprese” . Secondo dette regole sono vietati tutti gli accordi tra imprese, tutte le decisioni di associazione di imprese e tutte le pratiche concordate che possano pregiudicare il commercio tra Stati membri e che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all’interno del mercato comune; inoltre è vietato lo sfruttamento abusivo da parte di una o più imprese di una posizione dominante sul mercato comune o su una parte sostanziale di questo, nella misura in cui possa essere pregiudizievole al commercio tra Stati membri. Quanto allo sfruttamento abusivo di una posizione dominante non è vietato il fatto in sé dell’acquisizione di una posizione dominante sul mercato nazionale o comunitario o in una parte rilevante dello stesso, quanto quelle pratiche, abusive, consistenti in particolare: nell’imporre direttamente od indirettamente prezzi d’acquisto, di vendita od altre condizioni di transazione non eque; nel limitare la produzione, gli sbocchi o lo sviluppo tecnico, a danno dei consumatori; nell’applicare nei rapporti commerciali con gli altri contraenti condizioni dissimili per prestazioni equivalenti, determinando così per questi ultimi uno svantaggio per la concorrenza; e nel subordinare la conclusione di contratti all’accettazione da parte degli altri contraenti di prestazioni supplementari, che, per la loro natura o secondo gli usi commerciali, non abbiano alcun nesso con l’oggetto dei contratti stessi. Il settore pubblico è disciplinato dagli “aiuti concessi dagli Stati”. Il dettato comunitario vieta tali aiuti di Stato qualora, favorendo talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza. Gli aiuti di Stato possono identificarsi con una delle seguenti misure poste in essere dai pubblici poteri: agevolazioni fiscali; riduzioni dei carichi sociali; iniezioni di capitale pubblico nel patrimonio sociale; prestiti a tassi agevolati; garanzie fornite dallo Stato; contributi all’esportazione; etc. Quanto alla normativa relativa alla tutela del consumatore si sottolinea che il rapporto intercorrente tra detta tutela ed il principio di concorrenza corrisponde al rapporto intercorrente tra mezzo e fine. A livello nazionale la normativa sulla disciplina concorrenziale è quasi totalmente di derivazione comunitaria, se si considera la legge del 10 ottobre 1990, n. 287, rubricata “norme per la tutela della concorrenza e del mercato”, ed il decreto legislativo del 6 settembre 2005, n. 206, introduttivo del “codice del consumo”, il quale ultimo rappresenta l’ordinata raccolta della normativa comunitaria relativa alla tutela del consumatore ed alla responsabilità del produttore. In codesta sede si tratterà della concorrenza sleale di matrice nazionale. La libertà di iniziativa economica, prevista dall’articolo 41 Cost., implica la normale presenza nel mercato di più imprenditori in competizione fra loro per conquistare il potenziale pubblico dei consumatori e conseguire il maggior successo economico. Nel perseguimento di questi obiettivi ciascun imprenditore gode di un’ampia libertà di azione e può porre in atto le tecniche e le strategie che ritiene più proficue, purché corrette e leali, non solo per attrarre a sé la clientela ma anche per sottrarla ai propri concorrenti. Pertanto in un mercato competitivo non è tutelabile l’interesse degli imprenditori a conservare la clientela acquisita, né è ingiusto e quindi risarcibile il danno subìto da un imprenditore a causa della leale sottrazione della clientela da parte dei concorrenti Se procurarsi un vantaggio nel mercato a scapito di altri concorrenti rientra nelle regole della

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competizione concorrenziale, è tuttavia interesse generale che la stessa competizione tra imprenditori si svolga correttamente e lealmente. Da qui la necessità avvertita dall’ordinamento giuridico italiano di stabilire talune regole comportamentali che devono essere osservate nello svolgimento della competizione. Quest’esigenza è soddisfatta dalla disciplina della concorrenza sleale, alla quale il Codice civile dedica quattro articoli: l’articolo 2598 c.c. rubricato “atti di concorrenza sleale” , l’articolo 2599 c.c. rubricato “sanzioni”, l’articolo 2600 c.c. rubricato “risarcimento del danno”, e l’articolo 2601 c.c. rubricato “azione delle associazioni professionali”. Si noti che la disciplina della concorrenza sleale intende perseguire quei comportamenti degli imprenditori aventi la finalità di ingenerare nei consumatori confusione in ordine alla provenienza di determinati prodotti o servizi ovvero in ordine alla riconducibilità di una determinata attività d’impresa al soggetto che realmente la esercita; che la disciplina della concorrenza sleale intende altresì perseguire quei comportamenti aventi la finalità di falsare gli elementi di valutazione dei consumatori; che la medesima disciplina trova applicazione solo quando i soggetti interessati dall’atto illecito, il soggetto attivo e passivo dell’illecito, rivestono la qualità di imprenditori, privati o pubblici, e si trovano in rapporto di concorrenza economica; che la relazione concorrenziale viene ritenuta sussistente quando gli imprenditori, offrendo beni o servizi identici o affini in grado di soddisfare i medesimi bisogni, si rivolgono alla medesima clientela, operando nel medesimo ambito territoriale; che trova applicazione sia nelle ipotesi di concorrenza effettiva che nelle ipotesi di concorrenza potenziale; che il consumatore cui si fa riferimento è il consumatore medio, dotato di ordinaria diligenza ed attenzione durante l’acquisto di un prodotto o di un bene, e non il consumatore informato, dotato di maggiori cognizioni e quindi di capacità più sottili di disamina e di comparazione dei prodotti. L’articolo 2598 c.c. definisce atti di concorrenza sleale, quindi illeciti e vietati, l’uso di nomi o di segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o con i segni distintivi legittimamente usati da altri, l’imitazione servile dei prodotti di un concorrente, qualsiasi altro atto idoneo a creare confusione con i prodotti e con l’attività di un concorrente, gli atti di denigrazione, l’appropriazione dei pregi dei prodotti o dell’impresa di un concorrente, e qualsiasi comportamento non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda. Il primo contegno ritenuto illecito consiste nell’uso dei segni distintivi altrui, quindi nell’uso del marchio registrato, della ditta, o dell’insegna appartenenti ad altri. L’imitazione servile dei prodotti di un concorrente ricorre nei casi di pedissequa riproduzione delle forme esteriori dei prodotti altrui, quindi dell’involucro, della confezione, del rivestimento o anche dell’aspetto complessivo del prodotto, attuata in modo da indurre i consumatori a supporre che il prodotto originale ed il prodotto imitato provengano dalla stessa impresa. La clausola generale a valore residuale prevista in terz’ordine consente di ritenere illecite le fattispecie diverse dalle altre due delineate precedentemente dal medesimo articolo. A tale previsione sono ritenuti riconducibili i comportamenti imitativi di elementi formali dell’altrui attività, quali, esempligrazia, le imitazioni delle caratteristiche esteriori degli altrui stabilimenti o automezzi, ed ogni comportamento idoneo ad indurre in equivoco la clientela in ordine all’impresa, quale, per esempio, il sistematico parcheggio dei propri mezzi listati di scritte reclamistiche dinnanzi ai locali di un’impresa concorrente. Gli atti di denigrazione consistono nel diffondere notizie ed apprezzamenti sui prodotti e sull’attività di un concorrente sì da determinarne il discredito. Non sempre costituisce atto di denigrazione la pubblicità comparativa, disciplinata dal “codice del consumo” e dal decreto legislativo del 2 agosto 2007, n. 145. Per pubblicità comparativa si intende qualsiasi pubblicità che identifica in modo esplicito o implicito un concorrente o beni o servizi offerti da un concorrente. La comparazione è lecita se sono soddisfatte le seguenti condizioni: non è ingannevole; confronta beni o servizi che soddisfano gli stessi bisogni o che si propongono gli stessi obiettivi; confronta oggettivamente una o più caratteristiche essenziali, pertinenti, verificabili e rappresentative, compreso eventualmente il

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prezzo, di tali beni e servizi; non ingenera confusione sul mercato tra i professionisti o tra l’operatore pubblicitario ed un concorrente o tra i marchi, le denominazioni commerciali, altri segni distintivi, i beni o i servizi dell’operatore pubblicitario e quelli di un concorrente; non causa discredito o denigrazione di marchi, denominazioni commerciali, altri segni distintivi, beni, servizi, attività o posizione di un concorrente; per i prodotti recanti denominazione di origine, si riferisce in ogni caso a prodotti aventi la stessa denominazione; non trae indebitamente vantaggio dalla notorietà connessa al marchio, alla denominazione commerciale ovvero ad altro segno distintivo di un concorrente o alle denominazioni di origine di prodotti concorrenti; non presenta un bene o un servizio come imitazione o contraffazione di beni o servizi protetti da un marchio o da una denominazione commerciale depositati. Si noti che costituisce illecito concorrenziale anche la cosiddetta “exceptio veritatis”, cioè la divulgazione di circostanze o notizie vere ove effettuata in maniera subdola, tendenziosa o comunque scorretta in modo tale da determinare discredito del concorrente. L’appropriazione dei pregi dei prodotti o dell’impresa di un concorrente ricorre nei casi di vanteria tesa ad attribuire ai propri prodotti o alla propria attività pregi e qualità che in realtà appartengono ad uno o più concorrenti. Infine, l’illecito rappresentato da qualsiasi comportamento non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda chiude l’elencazione degli atti di concorrenza sleale previsti dall’articolo 2598 c.c. Pur trattandosi nella specie di comportamenti assai diversi gli uni dagli altri, si suole distinguere tra comportamenti rivolti contro uno specifico concorrente e comportamenti idonei ad alterare nel complesso la situazione di mercato. Alla prima categoria sono in particolare riconducibili tanto i comportamenti potenzialmente lesivi della sfera interna dell’organizzazione del concorrente, quali lo storno di dipendenti, la sottrazione di segreti aziendali ed il concorso nell’altrui inadempimento delle obbligazioni, quanto i comportamenti potenzialmente lesivi della situazione di una data impresa sul mercato, quali la concorrenza di ex-dipendenti o ex-ausiliari, la cosiddetta “concorrenza parassitaria”, il boicottaggio, la violazione di esclusive contrattuali, ed il dumping. Ai comportamenti idonei ad alterare la situazione di mercato vengono ricondotti la pubblicità ingannevole e la pratica del gâchage. Come anticipato, è ingannevole la pubblicità che, attraverso informazioni non rispondenti al vero od omissioni rilevanti, o in qualsiasi altro modo, induce o è idonea ad indurre in errore ed a fare assumere una decisione di natura commerciale che altrimenti non avrebbe preso il consumatore medio che essa raggiunge. Per determinare se la pubblicità è ingannevole se ne devono considerare tutti gli elementi, con riguardo in particolare ai suoi riferimenti: alle caratteristiche dei beni o dei servizi, quali la loro disponibilità, la natura, l’esecuzione, la composizione, il metodo e la data di fabbricazione o della prestazione, l’idoneità allo scopo, gli usi, la quantità, la descrizione, l’origine geografica o commerciale, o i risultati che si possono ottenere con il loro uso, o i risultati e le caratteristiche fondamentali di prove o controlli effettuati sui beni o sui servizi; al prezzo o al modo in cui questo è calcolato ed alle condizioni alle quali i beni o i servizi sono forniti; alla categoria, alle qualifiche ed ai diritti dell’operatore pubblicitario, quali l’identità, il patrimonio, le capacità, i diritti di proprietà intellettuale ed industriale, ogni altro diritto su beni immateriali relativi all’impresa, ed i premi o riconoscimenti. Gli articoli 2599 e 2600 c.c. delineano le sanzioni applicabili qualora risulti accertato il compimento dell’atto di concorrenza sleale. L’apparato sanzionatorio ricomprende l’inibitoria di continuazione dell’illecito, l’emanazione di opportuni provvedimenti per eliminare gli effetti dell’illecito, la pubblicazione della sentenza, ed il risarcimento dei danni. Inoltre, ove ricorrano i presupposti di legge, è ammesso il ricorso ai provvedimenti d’urgenza ex articolo 700 del Codice di procedura civile. Per ultimo, l’articolo 2601 c.c. legittima le associazioni professionali e gli enti che rappresentano la categoria a reagire contro gli atti di concorrenza sleale che pregiudicano gli interessi di una

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categoria professionale. Non si può sottacere che la vasta diffusione del web e l’utilizzo sempre più frequente della rete telematica ha dato luogo del pari ad un’ampia emersione di comportamenti concorrenziali illeciti. Pur nella difficoltà di adattare ad una realtà “virtuale” concetti elaborati per la diversa realtà tradizionale, si è ormai giunti alla qualificazione in termini di illiceità concorrenziale di talune fattispecie di frequente riscontro. Invero l’utilizzazione di “nomi a dominio riservato”, da parte di un concorrente integra la casistica della previsione dell’articolo 2598 c.c., laddove viene ritenuto atto di concorrenza sleale illecito l’uso di nomi o di segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o con i segni distintivi legittimamente usati da altri. Mentre il cosiddetto “deep-linking”, che si realizza ogniqualvolta attraverso l’hypertext-link l’utente viene trasferito all’interno di un altro sito web, così come il “framing”, che si realizza quando lo spostamento al sito altrui viene visualizzato attraverso una cornice che rimane tuttavia inserita nel sito di partenza, costituiscono pratiche specifiche ora a valenza confusoria ora a valenza di scorrettezza professionale. Capitolo IX I consorzi fra imprenditori L’articolo 2602 c.c. statuisce che: “Con il contratto di consorzio più imprenditori istituiscono tra loro una organizzazione comune per la disciplina o per lo svolgimento di determinate fasi delle rispettive imprese”. Dalla lettera dell’articolo discende che un consorzio può essere costituito tanto al fine di disciplinare, limitandola, la reciproca concorrenza fra imprenditori che svolgono la stessa attività o attività similari, quanto al fine di coordinare determinate fasi delle rispettive imprese per ridurre i costi di gestione delle singole imprese consorziate. Pertanto si distingue tra consorzi anticoncorrenziali e consorzi di coordinamento. Così mentre un consorzio costituito per il contingentamento della produzione o degli scambi rappresenta un consorzio con finalità anticoncorrenziale, un consorzio costituito per acquistare in comune determinate materie prime necessarie alle rispettive imprese o per creare un comune centro di vendita dei propri prodotti rappresenta un consorzio di coordinamento. Consorzi anticoncorrenziali e consorzi di cooperazione interaziendale si prestano a valutazioni giuridiche diverse e sollevano problemi legislativi differenti quando si consideri la loro incidenza sulla struttura concorrenziale del mercato. I consorzi anticoncorrenziali sollecitano controlli volti ad impedire che per il loro tramite si instaurino situazioni di monopolio di fatto contrastanti con l’interesse generale. A tal proposito si ricorda che la legge del 10 ottobre 1990, n. 287, nota anche come “legge antitrust” , ha come obiettivo la tutela della concorrenza e la salvaguardia del mercato, mentre l’articolo 81 del Trattato istitutivo della Comunità europea gode sia del requisito della diretta applicabilità che del requisito dell’efficacia diretta. I consorzi di cooperazione interaziendale, invece, rispondendo all’esigenza di accrescere la competitività delle imprese e concorrendo a preservare la struttura concorrenziale del mercato, in quanto favoriscono la sopravvivenza delle piccole e medie imprese, sono guardati con favore dal legislatore, il quale ne agevola l’attività con una serie di provvidenze creditizie e tributarie. I consorzi si distinguono ulteriormente in consorzi con attività interna e consorzi con attività esterna. In entrambi i tipi di consorzio si crea un’organizzazione comune. Nei consorzi con attività interna il compito di tale organizzazione si esaurisce nel regolare i rapporti reciproci fra i consorziati e nel

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controllare il rispetto di quanto convenuto; il consorzio in quanto tale non entra in contatto e non opera con i terzi. Invece, nei consorzi con attività esterna, le parti prevedono l’istituzione di un ufficio comune destinato a svolgere attività con i terzi nell’interesse delle imprese consorziate; è questa la struttura propria dei consorzi di cooperazione interaziendale. Il contratto di consorzio è stipulato normalmente da imprenditori. Il contratto di consorzio deve essere stipulato per iscritto sotto pena di nullità. Deve indicare l’oggetto e la durata del consorzio, la sede dell’ufficio eventualmente costituito, gli obblighi assunti e i contributi dovuti dai consorziati, le attribuzioni ed i poteri degli organi consortili anche in ordine alla rappresentanza in giudizio, le condizioni di ammissione di nuovi consorziati, i casi di recesso e di esclusione, e le sanzioni per l’inadempimento degli obblighi dei consorziati. Se il consorzio ha per oggetto il contingentamento della produzione o degli scambi, il contratto deve inoltre stabilire le quote dei singoli consorziati o i criteri per la determinazione di esse. Il contratto di consorzio è per sua natura un contratto di durata. In mancanza di una determinazione della durata del contratto, questo è valido per dieci anni. All’organizzazione comune è demandato il compito di attuare il contratto, deliberando ed implementando le decisioni utili a tal fine. L’organizzazione consortile è costituita da un organo con funzioni deliberative composto da tutti i consorziati, l’assemblea consortil, e da un organo con funzioni gestorie ed esecutive, l’organo direttivo. Il contratto, se non è diversamente convenuto, non può essere modificato senza il consenso di tutti i consorziati. Le modificazioni devono essere fatte per iscritto a pena di nullità. Salvo diversa pattuizione fra le parti, il trasferimento dell’azienda comporta l’automatico subingresso dell’acquirente nel contratto di consorzio. Tuttavia, se sussiste una giusta causa gli altri consorziati possono deliberare l’esclusione dell’acquirente dal consorzio. Il contratto di consorzio si scioglie per il decorso del tempo stabilito per la sua durata, per il conseguimento dell’oggetto o per l’impossibilità di conseguirlo, per volontà unanime dei consorziati, per deliberazione dei consorziati, per provvedimento dell’autorità governativa nei casi ammessi dalla legge, e per le altre cause previste nel contratto. Il Codice civile, dopo aver previsto una disciplina comune volta a regolare la costituzione del consorzio, i rapporti fra i consorziati, e lo scioglimento del consorzio, detta successivamente delle disposizioni relative ai soli consorzi con attività esterna, le quali regolano i rapporti fra il consorzio ed i terzi che entrano in contatto con lo stesso. Pertanto se il contratto prevede l’istituzione di un ufficio destinato a svolgere un’attività con i terzi, un estratto del contratto deve, a cura degli amministratori, entro trenta giorni dalla stipulazione, essere depositato per l’iscrizione presso l’ufficio del registro delle imprese del luogo dove l’ufficio ha sede. L’estratto deve indicare la denominazione e l’oggetto del consorzio, la sede dell’ufficio, il cognome ed il nome dei consorziati, la durata del consorzio, le persone a cui vengono attribuite la presidenza, la direzione, e la rappresentanza del consorzio, nonché i rispettivi poteri, il modo di formazione del fondo consortile e le norme relative alla liquidazione. I contributi dei consorziati ed i beni acquistati con questi contributi costituiscono il fondo consortile. Per la durata del consorzio i consorziati non possono chiedere la divisione del fondo, né i creditori particolari dei consorziati possono far valere i loro diritti sul fondo medesimo. Quanto alle obbligazioni consortili si distingue tra obbligazioni assunte in nome del consorzio dai suoi rappresentanti ed obbligazioni assunte dagli organi del consorzio per conto dei singoli consorziati. Per le prime, quali ad esempio le spese degli uffici o degli impianti del consorzio, risponde esclusivamente il consorzio ed i creditori possono far valere i loro diritti soltanto sul fondo consortile. Per le seconde, quali ad esempio gli acquisti di materie prime per conto di una delle imprese consorziate, rispondono solidalmente i singoli consorziati col fondo consortile; inoltre, in caso d’insolvenza del consorziato interessato, il debito dell’insolvente si ripartisce fra tutti gli altri consorziati in proporzione delle loro quote. Il fondo consortile costituisce dunque un patrimonio autonomo rispetto ai patrimoni dei singoli consorziati: è infatti destinato a garantire il soddisfacimento dei creditori del consorzio ed è solo da

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questi aggredibile fino allo scioglimento dello stesso. Entro due mesi dalla chiusura dell’esercizio annuale le persone che hanno la direzione del consorzio hanno l’obbligo di redigere la situazione patrimoniale osservando le norme relative al bilancio di esercizio delle società per azioni e di depositarla presso l’ufficio del registro delle imprese. Capitolo X Il sistema delle società Il nostro ordinamento giuridico prevede tre tipologie di società: le società lucrative, le società cooperative, e le società consortili. In questa sede ci si occuperà prevalentemente delle società lucrative, finalizzate al conseguimento di un profitto. L’attività d’impresa può essere esercitata da un imprenditore individuale oppure da un imprenditore collettivo. In entrambi i casi essa può essere svolta da una società. Fonti della società, sia questa un’impresa individuale o collettiva, sono tanto l’atto unilaterale quanto il contratto: invero gli articoli 2328 e 2463 del Codice civile dichiarano rispettivamente che le società per azioni e le società a responsabilità limitata possono essere costituite anche per atto unilaterale; mentre l’articolo 2247 c.c., rubricato “contratto di società”, statuisce che “con il contratto di società due o più persone conferiscono beni o servizi per l’esercizio in comune di un’attività economica allo scopo di dividerne gli utili”. Dalla lettera dell’articolo 2247 c.c. discende che requisiti essenziali del contratto di società sono: il conferimento di beni o di servizi; l’esercizio in comune di un’attività economica; lo scopo di divisione degli utili. Pertanto un’attività d’impresa collettiva con finalità ricreative, culturali o politiche, originata da un contratto che prevede il conferimento di beni e servizi, ma che non prevede la divisione degli utili tra i partecipanti, non dà luogo ad una società, poiché non integra il requisito del fine di lucro. Inoltre, atteso che l’articolo in parola non menziona il requisito della professionalità, una società può essere costituita anche per concludere un affare occasionale. I conferimenti possono essere rappresentati da beni in natura, denaro, crediti o attività lavorativa. In quest’ultimo caso si parla di socio d’opera. La società semplice, la società in nome collettivo, e la società in accomandita semplice sono società di persone. Si tratta di una definizione convenzionale per indicare che ciascun socio decide di far parte della società in considerazione delle persone degli altri soci, in conseguenza della responsabilità personale e solidale dei soci e dell’ampio potere che ciascuno di essi ha nell’amministrazione della società. La loro caratteristica è l’autonomia patrimoniale imperfetta: i soci possono essere chiamati personalmente a rispondere dei debiti sociali. A dimostrazione dell’attenuata autonomia patrimoniale, per l’appunto imperfetta, il creditore sociale può anche pretendere il pagamento dei debiti gravanti sulla società aggredendo il patrimonio personale dei singoli soci. La responsabilità dei soci delle società di persone è illimitata e solidale. Infatti i soci rispondono anche con il loro patrimonio personale per i debiti della società e ciascuno di essi può essere chiamato in causa per pagare l’intero importo dei debiti sociali anche per conto degli altri soci. Da ciò deriva che i terzi creditori sono interessati a conoscere i nomi dei soci, le loro doti morali, e l’entità dei mezzi personali. La società per azioni, la società in accomandita per azioni, e la società a responsabilità limitata sono società di capitali. Si tratta, anche questa volta, di una definizione convenzionale per indicare la minore importanza attribuita alle persone dei soci ed alle loro qualità, rispetto alla maggiore

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importanza attribuita invece ai loro conferimenti. Sono caratterizzate dall’autonomia patrimoniale perfetta, che vale loro il riconoscimento della personalità giuridica. Da ciò discende che: il patrimonio personale dei soci è completamente separato da quello della società; la responsabilità dei soci per le obbligazioni sociali è limitata al capitale conferito; in caso di fallimento della società, la procedura fallimentare non si estende ai soci; del patrimonio sociale non possono disporre i soci come singoli, ma soltanto gli organi della società; i creditori particolari dei soci non possono soddisfarsi sul patrimonio della società, né possono pretendere la liquidazione della quota del socio loro debitore. Da ciò deriva inoltre il logico corollario che i terzi creditori sono, invece, interessati a conoscere l’entità del capitale sociale e del patrimonio sociale. Principio di ordine generale è la libertà di scelta del tipo sociale, ove non sia la stessa legge ad imporre l’adozione di un determinato tipo sociale in relazione all’attività esercitata. La società si definisce mutualistica o cooperativa quando finalità della stessa è fornire beni o servizi od occasioni di lavoro direttamente ai membri dell’organizzazione a condizioni più vantaggiose di quelle che essi otterrebbero sul mercato. Qualora invece si costituiscano società in nome collettivo, società in accomandita semplice, società per azioni, società in accomandita per azioni, o società a responsabilità limitata aventi come oggetto sociale lo svolgimento di determinate fasi delle rispettive imprese dei singoli soci, allora si parlerà di società consortili. Non è ammessa la costituzione di società atipiche, diverse cioè dai canoni espressamente previsti dall’ordinamento giuridico. Qualora vengano utilizzati schemi atipici o non vengano adempiute tutte le formalità, si hanno le cosiddette società irregolari. Capitolo XI Le società di persone 1. La società semplice Si premette che le regole dettate dal Codice civile per la società semplice valgono, ove espressamente non derogate, per gli altri due tipi di società di persone: la società in nome collettivo e la società in accomandita semplice. La società semplice è il tipo più elementare di società. Essa non può essere costituita per l’esercizio di attività commerciali. Il contratto sociale non è soggetto a forme speciali, salve quelle richieste dalla natura dei beni conferiti. Ciò significa che la società semplice può essere costituita anche senza un contratto per iscritto, e quindi verbalmente o con un comportamento concludente. La società semplice deve essere iscritta nella sezione speciale del registro delle imprese istituito presso ciascuna Camera di commercio, entro trenta giorni dall’inizio dell’attività di impresa o dalla conclusione del contratto. La domanda di iscrizione della società semplice, presentata dagli amministratori e corredata del contratto sociale, deve comprendere le seguenti indicazioni: il cognome ed il nome, il luogo e la data di nascita, la cittadinanza, la residenza anagrafica, ed il numero di codice fiscale dei soci; la ragione sociale ed il codice fiscale della società; i soci che hanno l’amministrazione e la rappresentanza della società; la sede della società e le eventuali sedi secondarie; l’oggetto sociale; i conferimenti di ciascun socio ed il relativo valore; le prestazioni alle quali sono obbligati i soci d’opera; le norme secondo le quali gli utili devono essere ripartiti e la quota di ciascun socio negli utili e nelle perdite; e la durata della società. Inoltre gli amministratori della società semplice

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devono richiedere l’iscrizione delle modificazioni del contratto sociale e dello scioglimento della società con l’indicazione delle generalità degli eventuali liquidatori, entro trenta giorni dalle modificazioni e dallo scioglimento. In caso di contratto verbale, la domanda di iscrizione o di modificazione o di cancellazione della società semplice deve essere sottoscritta da tutti i soci. L’iscrizione nella sezione speciale ha normalmente funzione di certificazione anagrafica e di pubblicità-notizia, e funzione di certificazione anagrafica e di pubblicità dichiarativa esclusivamente per le società semplici esercenti attività agricola. Il contratto sociale può essere modificato soltanto con il consenso di tutti i soci, se non è convenuto diversamente. Costituisce obbligo dei soci effettuare i conferimenti previsti nel contratto sociale. Se il valore dei conferimenti non è determinato dal contratto, essi si presumono eguali. Il socio non può servirsi, senza il consenso degli altri soci, delle cose appartenenti al patrimonio sociale per fini estranei a quelli della società. Le parti spettanti ai soci nei guadagni e nelle perdite si presumono proporzionali ai conferimenti. È nullo il cosiddetto “patto leonino”, con il quale uno o più soci sono esclusi da ogni partecipazione agli utili o alle perdite. A ciascun socio vengono riconosciuti sia diritti patrimoniali che personali. Sono diritti patrimoniali il diritto alla propria parte di utili e quello riguardante la liquidazione della propria quota. Sono diritti personali il diritto di compiere atti di gestione, quello di opporsi al compimento di atti di gestione posti in essere da altri soci, chiedere la revoca per giusta causa dell’amministratore, deliberare l’esclusione di un socio, recedere dalla società, e, per i soci non amministratori, il diritto di controllo e di ottenere il rendiconto. Si sottolinea che mentre l’amministrazione della società riguarda i rapporti tra i soci, quindi le sole attività sociali interne, la rappresentanza della società è relativa ai rapporti della società con i terzi, quindi alle sole attività esterne. Salvo diversa pattuizione, l’amministrazione della società spetta a ciascuno dei soci disgiuntamente dagli altri; se l’amministrazione spetta disgiuntamente a più soci, ciascun socio amministratore ha diritto di opporsi all’operazione, prima che la stessa sia compiuta, che un altro voglia compiere; la maggioranza dei soci, determinata secondo la parte attribuita a ciascun socio negli utili, decide sull’opposizione. Se l’amministrazione spetta congiuntamente a più soci, è necessario il consenso di tutti i soci amministratori per il compimento delle operazioni sociali; se è convenuto che per l’amministrazione o per determinati atti sia necessario il consenso della maggioranza, questa si determina sempre secondo la parte attribuita a ciascun socio negli utili; i singoli amministratori non possono compiere singolarmente alcun atto, salvo che vi sia urgenza di evitare un danno alla società. La revoca dell’amministratore nominato con il contratto sociale non ha effetto se non ricorre una giusta causa, la quale può essere richiesta giudizialmente da ciascun socio; invece l’amministratore nominato con atto separato è revocabile secondo le norme relative al contratto di mandato. I diritti e gli obblighi degli amministratori sono regolati dalle norme sul mandato. Gli amministratori sono solidalmente responsabili verso la società per l’adempimento delle obbligazioni ad essi imposti dalla legge e dal contratto sociale; tuttavia la responsabilità non si estende a coloro che dimostrino di essere esenti da colpa. I soci che non partecipano all’amministrazione hanno diritto di avere dagli amministratori notizia dello svolgimento degli affari sociali, di consultare i documenti relativi all’amministrazione, e di ottenere il rendiconto quando gli affari per cui fu costituita la società sono stati compiuti; se il compimento degli affari sociali occupa oltre un anno, i soci hanno diritto di avere il rendiconto dell’amministrazione al termine di ogni anno, salvo che il contratto sociale stabilisca diversamente. Come anticipato, la società acquista diritti ed assume obbligazioni nei confronti dei terzi per mezzo dei soci che ne hanno la rappresentanza, e quindi sta in giudizio nelle persone dei medesimi; in

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mancanza di diversa disposizione del contratto sociale, la rappresentanza spetta a ciascun socio amministratore e si estende a tutti gli atti che rientrano nell’oggetto sociale. Per oggetto sociale s’intende il genere di attività economica svolta dalla società. La responsabilità dei soci per i debiti sociali è illimitata e solidale . A norma dell’articolo 2269 c.c., pure il nuovo socio, cioè colui che entra a far parte di una società già costituita, deve rispondere, al pari dei vecchi soci, per tutte le obbligazioni sociali contratte anteriormente all’acquisto della sua qualità di socio. I soci, tuttavia, possono derogare al principio della responsabilità illimitata e solidale con uno specifico accordo che preveda, invece, per alcuni di loro una responsabilità limitata. In questo caso i beneficiari rispondono dei debiti sociali solo nei limiti della quota di partecipazione o comunque nei limiti indicati nel patto di limitazione della responsabilità. La società semplice è contraddistinta dall’autonomia patrimoniale imperfetta. I creditori sociali, invero, possono far valere i propri crediti indifferentemente nei confronti della società o dei singoli soci. Qualora non sia stato pagato un debito sociale, quindi, i creditori possono aggredire tanto il patrimonio della società, quanto quello personale dei singoli soci. L’unica tutela dei soci è rappresentata dal beneficio di escussione: il socio, richiesto del pagamento dei debiti sociali, può indicare al creditore i beni della società sui quali potersi soddisfare. Condizione perché il socio possa avvantaggiarsi del benefico di escussione è che i beni sociali indicati siano agevolmente aggredibili. Qualora non possa avvalersi del benefico di escussione, il singolo socio può essere richiesto dell’intero debito sociale a prescindere dall’entità della sua quota di partecipazione, essendo la responsabilità dei debitori solidale. Estinta l’obbligazione nei confronti del creditore, al socio è riconosciuta l’azione di regresso: il debitore in solido che ha pagato l’intero debito può ripetere dai condebitori soltanto la parte di ciascuno di essi. Poiché nelle società di persone il contratto sociale è concluso da un socio in considerazione dell’adesione di quel socio piuttosto che di quell’altro o dell’adesione di taluni soci piuttosto che di talaltri, non è possibile il libero trasferimento della partecipazione per atto tra vivi. Pertanto nessun socio può trasferire la sua quota, o parte di essa, ad un terzo, facendolo così diventare socio, se tutti gli altri soci non sono d’accordo o se nel contratto non è stato espressamente ammesso il libero trasferimento. La medesima regola vale anche per l’ingresso di nuovi soci. La società si scioglie per il decorso del temine fissato nell’atto costitutivo, per il conseguimento dell’oggetto sociale o per la sopravvenuta impossibilità di conseguirlo, per la volontà di tutti i soci, per il venir meno della pluralità dei soci, e per le altre cause previste dal contratto sociale. Tuttavia la società è tacitamente prorogata a tempo indeterminato quando, decorso il tempo per cui fu contratta, i soci continuano a compiere operazioni sociali. Verificatasi una causa di scioglimento, la società non si estingue immediatamente: invero la società entra automaticamente in stato di liquidazione. Le finalità del procedimento di liquidazione sono: in primis il soddisfacimento dei creditori sociali, in secundis la distribuzione fra i soci dei beni sociali e dell’eventuale residuo attivo, in tertiis la definizione dei rapporti in corso. Nel tempo intercorrente tra lo scioglimento della società e la nomina dei liquidatori, gli amministratori conservano il potere di amministrare limitatamente agli affari urgenti Il procedimento di liquidazione inizia con la nomina di uno o più liquidatori, che possono essere anche non soci. La nomina richiede il consenso di tutti i soci se nell’atto costitutivo non è previsto diversamente; in caso di disaccordo fra i soci, i liquidatori vengono nominati dal presidente del Tribunale territorialmente competente. I liquidatori possono essere revocati per volontà di tutti i soci ed in ogni caso dal Tribunale per giusta causa su domanda di uno o più soci. Con l’accettazione della nomina i liquidatori prendono il posto degli amministratori. Questi devono consegnare ai liquidatori i beni ed i documenti sociali, e presentare ad essi il conto della gestione relativo al periodo successivo all’ultimo rendiconto. Successivamente gli amministratori ed i liquidatori, insieme, hanno l’obbligo di redigere e sottoscrivere l’inventario dal quale risulti lo stato

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attivo e passivo del patrimonio sociale. In questo momento si esaurisce l’attività degli amministratori. È compito dei liquidatori: chiedere ai soci i versamenti ancora dovuti sulle rispettive quote e, se occorre, le somme necessarie nei limiti della rispettiva responsabilità ed in proporzione della parte di ciascuno nelle perdite, se i fondi disponibili risultano insufficienti per il pagamento dei debiti sociali; vendere anche in blocco i beni sociali; ripartire tra i soci i beni sociali solo dopo che siano stati pagati i creditori della società o siano state accantonate le somme necessarie per pagare gli stessi; ripartire tra i soci l’eventuale attivo residuo in proporzione della parte di ciascuno nei guadagni; definire i rapporti che si ricollegano all’attività sociale, anche rappresentando la società in giudizio o ponendo in essere transazioni e compromessi; e provvedere alla cancellazione della società dalla sezione speciale del registro delle imprese. Si sottolinea che non è necessario che i liquidatori procedano all’effettiva ripartizione dell’attivo residuo fra i soci. I liquidatori, invece, devono astenersi dall’intraprendere nuove operazioni; contravvenendo al suddetto divieto, essi rispondono personalmente e solidalmente per gli affari intrapresi. La chiusura del procedimento di liquidazione determina l’estinzione della società, sempre che la relativa disciplina sia stata rispettata e siano stati perciò soddisfatti tutti i creditori sociali. In mancanza, la società continua ad essere esistente. Un socio cessa di far parte della società per morte, recesso, o esclusione. In caso di morte di uno dei soci, gli altri devono liquidare la quota agli eredi, a meno che non preferiscano continuare la società con gli eredi stessi e questi vi acconsentano. La morte del socio può determinare la volontà dei soci superstiti a sciogliere la società. Mentre il recesso consiste in una manifestazione unilaterale della volontà del socio di non far più parte della società, l’esclusione dalla società viene deliberata dalla maggioranza dei soci contro la sua volontà. Ciascun socio può recedere dalla società quando questa è contratta a tempo indeterminato o per tutta la vita di uno dei soci; in tali casi il recesso deve essere comunicato agli altri soci con un preavviso di almeno tre mesi. Ciascun socio può, inoltre, recedere nei casi previsti dal contratto sociale ovvero quando sussiste una giusta causa. L’esclusione di un socio può avere luogo per gravi inadempienze delle obbligazioni che derivano dalla legge o dal contratto sociale, a causa dell’interdizione o dell’inabilitazione del socio, nonché per la sua condanna ad una pena che importa l’interdizione, anche temporanea, dai pubblici uffici; il socio che ha conferito nella società la propria opera o il godimento di una cosa può altresì essere escluso per la sopravvenuta inidoneità a svolgere l’opera conferita o per il perimento della cosa dovuto a causa non imputabile agli amministratori; parimenti può essere escluso il socio che si è obbligato con il conferimento a trasferire la proprietà della cosa, se questa è perita prima che la proprietà sia acquistata alla società . È escluso di diritto il socio che sia stato dichiarato fallito ed il socio nei cui confronti un suo creditore particolare abbia ottenuto la liquidazione della quota. Invero il creditore particolare del socio, se gli altri beni del debitore sono insufficienti a soddisfare i suoi crediti, può in ogni tempo chiedere ed ottenere che la società liquidi la quota del debitore. La quota deve essere liquidata entro tre mesi dalla domanda, salvo che sia deliberato lo scioglimento della società. Inoltre, il creditore particolare del socio, finché dura la società, può far valere i suoi diritti sugli utili spettanti al debitore e compiere atti conservativi sulla quota spettante a quest’ultimo nella liquidazione. Nei casi in cui il rapporto sociale si scioglie limitatamente ad un socio, questi o i suoi eredi hanno diritto soltanto ad una somma di danaro che rappresenti il valore della quota; la liquidazione della quota è fatta in base alla situazione patrimoniale della società nel giorno in cui si verifica lo scioglimento; se vi sono operazioni in corso, il socio o i suoi eredi partecipano agli utili ed alle perdite inerenti alle operazioni medesime; il pagamento della quota spettante al socio normalmente deve essere fatto entro sei mesi dal giorno in cui si verifica lo scioglimento del rapporto.

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Inoltre nei casi in cui il rapporto sociale si scioglie limitatamente ad un socio, questi o i suoi eredi sono responsabili verso i terzi per le obbligazioni sociali fino al giorno in cui si verifica lo scioglimento; lo scioglimento deve essere portato a conoscenza dei terzi con mezzi idonei; in mancanza non è opponibile ai terzi che lo hanno ignorato senza colpa. 2. La società in nome collettivo Come già dichiarato, alla società in nome collettivo si applicano, ove non derogate, le norme disciplinanti la società semplice. La società in nome collettivo può essere costituita o con scrittura privata con sottoscrizione autenticata o con atto pubblico. L’atto costitutivo deve indicare: le generalità dei soci; la ragione sociale; i soci che hanno l’amministrazione e la rappresentanza della società; la sede della società e le eventuali sedi secondarie; l’oggetto sociale; i conferimenti di ciascun socio, il valore ad essi attribuiti e il modo di valutazione; le prestazioni a cui sono obbligati i soci d’opera; le norme secondo le quali gli utili devono essere ripartiti e la quota di ciascun socio negli utili e nelle perdite; la durata della società. L’atto costitutivo può essere modificato, salvo patto contrario, con il consenso di tutti i soci. La società in nome collettivo è soggetta all’iscrizione nella sezione ordinaria del registro delle imprese anche se non esercita un’attività commerciale. L’atto costitutivo della società, con sottoscrizione autenticata dei contraenti, o una copia autenticata di esso se la stipulazione è avvenuta per atto pubblico, deve essere depositato entro trenta giorni per l’iscrizione a cura degli amministratori; se gli amministratori non provvedono al deposito nel termine indicato, ciascun socio può provvedervi a spese della società, o far condannare gli amministratori ad eseguirlo; se la stipulazione è avvenuta per atto pubblico, è obbligato ad eseguire il deposito anche il notaio. Un estratto dell’atto costitutivo deve essere depositato per l’iscrizione presso l’ufficio del registro delle imprese del luogo in cui la società istituisce sedi secondarie con una rappresentanza stabile, entro trenta giorni dall’istituzione delle medesime; l’estratto deve indicare l’ufficio del registro presso il quale è iscritta la società e la data dell’iscrizione; l’istituzione di sedi secondarie deve essere denunciata per l’iscrizione nello stesso termine anche all’ufficio del registro del luogo ove è iscritta la società. Se la collettiva esercita un’attività commerciale è obbligata a tenere i libri e le scritture contabili. Caratteristica peculiare della società in nome collettivo è la responsabilità solidale ed illimitata di tutti i soci per le obbligazioni sociali. Pertanto, contrariamente a quanto potrebbe accadere nelle società semplici, il patto di limitazione di responsabilità per alcuni soci non ha mai effetto nei confronti dei creditori. Ne deriva che i creditori possono sempre rivolgersi per i crediti sociali a qualunque socio senza il rischio di vedersi opporre un patto sociale in forza del quale quel socio non risponde dei debiti sociali o ne risponde solo parzialmente. La mancata iscrizione del contratto costitutivo nel registro delle imprese non produce né l’inesistenza né l’invalidità della società, ma soltanto la sua irregolarità, di guisa che la società non registrata viene denominata “irregolare”. Anche se irregolare la società esiste ed opera, ma i rapporti tra la società ed i terzi sono regolati, ferma restando la responsabilità illimitata e solidale di tutti i soci, dalle disposizioni relative alla società semplice; inoltre i patti che attribuiscono la rappresentanza soltanto ad uno dei soci o che limitano i poteri di rappresentanza non sono opponibili ai terzi, a meno che si provi che questi ne erano a conoscenza. La società in nome collettivo agisce sotto una ragione sociale costituita dal nome di uno o più soci con l’indicazione del rapporto sociale; la società può conservare nella ragione sociale il nome del socio receduto o defunto, se il socio receduto o gli eredi del socio defunto vi acconsentono. Dato il carattere strettamente personale della società, il socio non può fare concorrenza alla società di cui fa parte; in caso di violazione del detto divieto, la società ha diritto al risarcimento dei danni.

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La società in nome collettivo può decidere di ridurre il capitale sociale. La deliberazione di riduzione del capitale, mediante rimborso ai soci delle quote pagate o mediante liberazione di essi dall’obbligo di ulteriori versamenti, può essere eseguita soltanto dopo tre mesi dal giorno dell’iscrizione nel registro delle imprese, purché entro questo termine nessun creditore sociale anteriore all’iscrizione abbia fatto opposizione. Il Tribunale, nonostante l’opposizione, può disporre che l’esecuzione abbia luogo, previa prestazione da parte della società di un’idonea garanzia. Nella società in nome collettivo vale l’obbligo della preventiva escussione del patrimonio sociale: trattasi del cosiddetto “beneficium ordinis”. Mentre nella società semplice il creditore sociale può rivolgersi indifferentemente alla società o al socio, nella società in nome collettivo il creditore deve in ogni caso agire contro la società ed il suo patrimonio, e solo dopo che questo si sia rivelato insufficiente può rivolgersi al socio. Le collettive si sciolgono per le stesse cause delle società semplici e, limitatamente a quelle aventi ad oggetto un’attività commerciale, anche a seguito della dichiarazione di fallimento. Nella società in nome collettivo i liquidatori devono redigere il bilancio finale ed il piano di riparto. Il primo è il rendiconto della gestione dei liquidatori: espone le entrare e le uscite verificatesi, nonché la situazione patrimoniale finale. Il secondo è, invece, una proposta di divisione fra i soci dell’attivo residuo. Con l’approvazione del bilancio i liquidatori sono liberati di fronte ai soci ed il procedimento di liquidazione ha termine. Non è invece necessario, come già visto per la società semplice e diversamente da quanto previsto per le società di capitali, che i liquidatori procedano all’effettiva ripartizione dell’attivo residuo fra i soci. Dopo l’approvazione del bilancio finale di liquidazione da parte dei soci, i liquidatori devono chiedere la cancellazione della società dal registro delle imprese. Avvenuta la cancellazione, il procedimento di liquidazione ha termine e la società si estingue. Tuttavia i creditori sociali rimasti insoddisfatti dopo la cancellazione della società possono far valere entro dieci anni i loro crediti nei confronti dei soci, che restano personalmente ed illimitatamente responsabili per le obbligazioni sociali inadempiute, e, se il mancato pagamento è dipeso da colpa dei liquidatori, anche nei confronti di questi. Nella società semplice il creditore particolare del socio può in ogni tempo chiedere ed ottenere che la società liquidi la quota del debitore. Questa regola non vale per le collettive. Invero, nelle società in nome collettivo il creditore del socio non può chiedere la liquidazione della quota del socio-debitore, se non dopo che sia stata esaurita la liquidazione dell’intera società. Nell’impossibilità per il creditore particolare del socio di ottenere la liquidazione della quota di questi finché la società è in vita, si nota, pertanto, una più accentuata autonomia patrimoniale, per quanto ancora imperfetta, delle collettive rispetto alle società semplici. Si noti, tuttavia, che in caso di proroga espressa della società il creditore particolare del socio può fare opposizione alla proroga medesima entro tre mesi dall’iscrizione della relativa deliberazione nel registro delle imprese; se l’opposizione è accolta, la società deve, entro tre mesi dalla notificazione della sentenza, liquidare la quota del socio debitore dell’opponente. 3. La società in accomandita semplice Alla società in accomandita semplice si applicano le disposizioni relative alla società in nome collettivo in quanto compatibili. Nella società in accomandita semplice si distinguono due categorie di soci: i soci accomandatari ed i soci accomandanti. I soci accomandatari rispondono solidalmente ed illimitatamente per le obbligazioni sociali, mentre i soci accomandanti rispondono limitatamente alla quota conferita. Entrambe le categorie di soci

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beneficiano della preventiva escussione sul patrimonio sociale. Le quote di partecipazione non possono essere rappresentate da azioni. La ragione sociale è costituita dal nome di almeno uno dei soci accomandatari seguito dall’indicazione del rapporto sociale. Ove l’accomandante acconsenta a che il suo nome sia compreso nella ragione sociale, risponde di fronte ai terzi illimitatamente e solidalmente con i soci accomandatari per le obbligazioni sociali. L’atto costitutivo deve indicare sia i soci accomandatari che i soci accomandanti. La società in accomandita semplice può essere amministrata e rappresentata soltanto dagli accomandatari, che hanno gli stessi diritti e gli stessi obblighi dei soci della società in nome collettivo. I soci accomandanti non possono compiere atti di amministrazione, né trattare o concludere affari in nome della società, se non in forza di procura speciale per singoli affari; il socio accomandante che contravviene a tale divieto assume responsabilità illimitata e solidale verso i terzi per tutte le obbligazioni sociali e può essere escluso; i soci accomandanti possono tuttavia prestare la loro opera sotto la direzione degli amministratori e, se l’atto costitutivo lo consente, dare autorizzazioni e pareri per determinate operazioni, nonché compiere atti di ispezione e di sorveglianza; in ogni caso essi hanno diritto di avere comunicazione annuale del bilancio e del conto dei profitti e delle perdite, e di controllarne l’esattezza, consultando i libri e gli altri documenti della società. I soci accomandanti non sono tenuti alla restituzione degli utili riscossi in buona fede secondo il bilancio regolarmente approvato. La diversa posizione degli accomandatari e degli accomandanti si riflette sulla disciplina del trasferimento della partecipazione sociale. Per i soci accomandatari vale la disciplina prevista per i soci della collettiva: se l’atto costitutivo non dispone diversamente, il trasferimento per atto inter vivos della quota può avvenire soltanto con il consenso di tutti gli altri soci, accomandatari ed accomandanti; per il trasferimento mortis causa è necessario che tutti i soci vogliano continuare la società con gli eredi e che questi vi acconsentano. Diversa è, invece, la disciplina dettata per il trasferimento della quota degli accomandanti: salvo che l’atto costitutivo non disponga diversamente, il trasferimento per atto fra vivi è possibile con il consenso dei soci, accomandatari ed accomandanti, che rappresentano la maggioranza del capitale sociale; per il trasferimento a causa di morte la quota è liberamente trasferibile, cioè non è necessario il consenso dei soci superstiti . La società si scioglie, oltre che per le stesse cause di scioglimento della società in nome collettivo, quando rimangono soltanto soci accomandanti o soci accomandatari, sempre che nel termine di sei mesi non sia stato sostituito il socio che è venuto meno. Inoltre se vengono a mancare tutti i soci accomandatari, gli accomandanti devono nominare un amministratore provvisorio, anche tra gli stessi accomandanti, per il compimento degli atti di ordinaria amministrazione; l’amministratore provvisorio non assume la qualità di socio accomandatario, e perciò non risponde illimitatamente per le obbligazioni sociali. I procedimenti di liquidazione e di estinzione della società in accomandita semplice sono analoghi a quelli relativi alla società in nome collettivo. Tuttavia, cancellata la società dal registro delle imprese, i creditori sociali rimasti insoddisfatti nella liquidazione della società possono far valere i loro crediti anche nei confronti dei soci accomandanti, ma limitatamente alla quota liquidata. È irregolare la società in accomandita semplice il cui atto costitutivo non sia stato iscritto nel registro delle imprese. Come per la società in nome collettivo, l’omessa registrazione non impedisce la nascita della società. Fin quando la società in accomandita semplice non venga iscritta nel registro delle imprese, ai rapporti fra la società ed i terzi si applicano le disposizioni dell’articolo 2297 c.c. relativo alla società in nome collettivo; tuttavia per le obbligazioni sociali i soci accomandanti rispondono limitatamente alla loro quota, salvo che abbiano partecipato ad operazioni sociali.

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Capitolo XII Le società di capitali 1. La società per azioni Come la società semplice costituisce il modello per le società di persone, così la società per azioni rappresenta il modello per le società di capitali. La società per azioni può essere costituita per contratto o per atto unilaterale. La società per azioni è una società di capitali nella quale il capitale è suddiviso in quote, dette azioni, e per le obbligazioni sociali risponde soltanto la società con il suo patrimonio; eccezionalmente, in caso di insolvenza della società, per le obbligazioni sociali sorte nel periodo in cui le azioni sono appartenute ad una sola persona, questa risponde illimitatamente quando i conferimenti non siano stati effettuati secondo quanto previsto dall’articolo 2342 c.c. o fin quando non sia stata attuata la pubblicità prescritta dall’articolo 2362 c.c.. È una persona giuridica e gode di una piena e perfetta autonomia patrimoniale. La denominazione sociale, in qualunque modo formata, deve contenere l’indicazione di società per azioni o l’acronimo “s.p.a.”. La società per azioni deve costituirsi con un capitale non inferiore a centoventimila euro. Non possono formare oggetto di conferimento le prestazioni d’opera o di servizi; se nell’atto costitutivo non è stabilito diversamente, il conferimento deve farsi in danaro; al momento della sottoscrizione dell’atto costitutivo deve essere versato presso una banca almeno il venticinque per cento dei conferimenti in danaro. Se il socio non esegue i pagamenti dovuti, decorsi quindici giorni dalla pubblicazione di una diffida nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, gli amministratori, se non ritengono utile promuovere azione per l’esecuzione del conferimento, offrono le azioni agli altri soci, in proporzione alla loro partecipazione, per un corrispettivo non inferiore ai conferimenti ancora dovuti; in mancanza di offerte possono far vendere le azioni a rischio e per conto del socio, a mezzo di una banca o di un intermediario autorizzato alla negoziazione in mercati regolamentati; qualora la vendita non possa aver luogo per mancanza di compratori, gli amministratori possono dichiarare decaduto il socio, trattenendo le somme riscosse, salvo il risarcimento dei maggiori danni; le azioni non vendute, se non possono essere rimesse in circolazione entro l’esercizio in cui fu pronunziata la decadenza del socio moroso, devono essere estinte con la corrispondente riduzione del capitale; il socio in mora nei versamenti non può esercitare il diritto di voto. L’atto costitutivo deve essere redatto, a pena di nullità, per atto pubblico, quindi mediante rogito notarile. L’atto costitutivo deve indicare: le generalità dei soci ed il numero di azioni che ciascuno di essi ha sottoscritto; la denominazione sociale e la sede sociale; l’oggetto sociale; l’ammontare del capitale sottoscritto e di quello versato; il numero e l’eventuale valore nominale delle azioni, le loro caratteristiche e le modalità di emissione e circolazione; il valore dei crediti e dei beni conferiti in natura; i criteri di ripartizione degli utili; il numero degli amministratori, i loro poteri, e l’indicazione di quelli tra loro che hanno la rappresentanza della società; il numero dei componenti del collegio sindacale; la durata della società; l’ammontare delle spese di costituzione della società. Dall’atto costitutivo deve essere tenuto distinto lo statuto della società. Mentre l’atto costitutivo rappresenta la volontà delle parti diretta a costituire la società, lo statuto contiene le norme relative al funzionamento della stessa. Lo statuto, anche se forma oggetto di atto separato, costituisce parte integrante dell’atto costitutivo. E in caso di contrasto tra le clausole dell’atto costitutivo e quelle dello statuto prevalgono le seconde . Il notaio che ha ricevuto l’atto costitutivo deve depositarlo entro venti giorni presso l’ufficio del registro delle imprese nella cui circoscrizione è stabilita la sede sociale; se il notaio o gli amministratori non provvedono al deposito entro il termine succitato, ciascun socio può

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provvedervi a spese della società; l’iscrizione della società nel registro delle imprese è richiesta contestualmente al deposito dell’atto costitutivo; l’ufficio del registro delle imprese, verificata la regolarità formale della documentazione, iscrive la società nel registro; se la società istituisce sedi secondarie, si applica l’articolo 2299 c.c. relativo alla società in nome collettivo. Con l’iscrizione nel registro delle imprese la società acquista la personalità giuridica e viene ad esistenza. La funzione di pubblicità costitutiva assolta dall’iscrizione nel registro delle imprese dell’atto costitutivo della società per azioni non rende configurabile, diversamente da quanto visto precedentemente per le società di persone, una società per azioni irregolare. Tuttavia per le operazioni compiute in nome della società prima dell’iscrizione, il socio unico ed i soci che hanno agito sono responsabili verso i terzi rispettivamente illimitatamente nonché solidalmente ed illimitatamente. È meritevole di menzione l’istituto della nullità della società per azioni, dato che viene profondamente derogata la disciplina comune della nullità dei contratti. Avvenuta l’iscrizione, la nullità può essere pronunciata soltanto nei seguenti casi: mancata stipulazione dell’atto costitutivo nella forma dell’atto pubblico; illiceità dell’oggetto sociale; mancanza nell’atto costitutivo di ogni indicazione riguardante la denominazione della società, o i conferimenti, o l’ammontare del capitale sociale o l’oggetto sociale. Come appena anticipato, contrariamente a quanto previsto normalmente per i contratti, la dichiarazione di nullità della società per azioni non pregiudica l’efficacia degli atti compiuti in nome della società dopo l’iscrizione nel registro delle imprese. E, si badi, di tutti gli atti compiuti: nei confronti dei terzi ed anche nei confronti dei soci, e tanto se gli uni e gli altri erano in buona fede, quanto se erano a conoscenza della causa di nullità. Inoltre e conseguentemente i soci non sono liberati dall’obbligo di conferimento fino a quando non sono soddisfatti i creditori sociali, né hanno diritto di ripetere i conferimenti già eseguiti. In breve, la dichiarazione di nullità non produce effetti sull’attività già svolta, ma opera soltanto per il futuro come semplice causa di scioglimento della società: invero la sentenza che dichiara la nullità nomina i liquidatori. Tuttavia la nullità non può essere dichiarata quando la causa di essa è stata eliminata e di tale eliminazione è stata data pubblicità con iscrizione nel registro delle imprese. In conclusione, sarebbe stato forse più congruo con la disciplina generale dei contratti rubricare l’articolo 2332 c.c., testé parafrasato, “annullabilità della società” piuttosto che “nullità della società”. La stipulazione dell’atto costitutivo può essere simultanea o per pubblica sottoscrizione. Normalmente la costituzione di una società per azioni avviene per costituzione simultanea: coloro che intendono costituire la società sottoscrivono il capitale sociale e stipulano direttamente l’atto sotto forma di atto pubblico alla presenza di un notaio. Con la costituzione per pubblica sottoscrizione i promotori redigono un programma con l’indicazione dell’oggetto e del capitale, delle principali disposizioni dell’atto costitutivo e dello statuto, dell’eventuale partecipazione che i promotori si riservano agli utili, e del termine entro il quale deve essere stipulato l’atto costitutivo. Il programma, con le firme autenticate dei promotori, viene depositato presso un notaio e quindi vengono raccolte le adesioni dei sottoscrittori, anch’esse risultanti da atto pubblico o da scrittura privata autenticata. I sottoscrittori devono versare almeno presso una banca il venticinque per cento dei conferimenti in danaro e viene convocata dai promotori l’assemblea dei sottoscrittori. L’assemblea dei sottoscrittori: accerta l’esistenza delle condizioni richieste per la costituzione della società; delibera sul contenuto dell’atto costitutivo e dello statuto; delibera sulla riserva di partecipazione agli utili fatta a proprio favore dai promotori; nomina gli amministratori ed i sindaci ovvero i componenti del consiglio di sorveglianza, e, quando previsto, il soggetto cui è demandato il controllo contabile. Stipulato l’atto costitutivo, questo deve essere normalmente depositato per l’iscrizione nel registro delle imprese.

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È possibile per i soci stipulare, in qualunque forma, anche orale, appositi accordi, definiti “patti parasociali” o “sindacati azionari”, non inseriti nello statuto sociale, diretti a regolamentare l’esercizio del diritto di voto nelle assemblee od a porre dei limiti al trasferimento delle partecipazioni sociali; tali patti parasociali hanno la finalità, evidentemente valutata dal legislatore meritevole di tutela, di stabilizzare gli aspetti proprietari ed il governo della società; i patti sono inopponibili ad i terzi, mentre nei rapporti interni tra i soci aderenti dalla loro violazione scaturisce l’obbligo del risarcimento del danno patito; non possono avere durata superiore a cinque anni e si intendono stipulati per questa durata anche se la parti hanno previsto un termine maggiore; i patti sono rinnovabili alla scadenza; qualora il patto non preveda un termine di durata, ciascun contraente. ha il diritto di recedere con un preavviso di centottanta giorni. Nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio i patti parasociali devono essere comunicati alla società e dichiarati in apertura di ogni assemblea; la dichiarazione deve essere trascritta nel verbale e questo deve essere depositato presso l’ufficio del registro delle imprese. L’azione costituisce una frazione indivisibile o atomistica del capitale sociale ed attribuisce al titolare la qualità di socio-azionista. Le azioni sono dei titoli di credito di massa che indicano la misura della partecipazione del socio al capitale sociale. Ogni azione, in altri termini, rappresenta una porzione del capitale sociale, il quale viene diviso per il numero di azioni. Se esempligrazia una società ha un capitale sociale di duecentomila euro ed emette duecento azioni, queste avranno un valore nominale di mille euro cadauna. Diverso è il valore reale delle azioni: questo è legato all’andamento economico della società, al diverso valore del patrimonio sociale rispetto al capitale, alle aspettative che il mercato ripone sul genere di attività esercitata, ed al prezzo al quale ogni risparmiatore è disposto a comprare l’azione. Ogni azione conferisce all’azionista sia diritti patrimoniali che personali. Sono diritti patrimoniali: il diritto agli utili ed alla quota di liquidazione; il diritto di recesso riconosciuto ai soci dissenzienti sulle modificazioni dello statuto; il diritto di opzione, per cui le azioni di nuova emissione devono essere offerte ai soci in proporzione al numero delle azioni possedute. Sono diritti personali: il diritto di intervento in assemblea; ed il diritto all’esercizio del voto. A differenza di quanto accade nelle società di persone, nelle società per azioni la quota sociale di solito è liberamente trasferibile. È riconosciuto all’azionista contrario a determinate modificazioni dello statuto, il diritto di recedere dalla società per tutte o parte delle proprie azioni. Il socio ha diritto alla liquidazione delle azioni per le quali esercita il recesso; il valore di liquidazione delle azioni è determinato dagli amministratori, sentito il parere del collegio sindacale e del soggetto incaricato della revisione contabile. Gli amministratori offrono in opzione le azioni del socio recedente agli altri soci in proporzione al numero delle azioni possedute; qualora i soci non acquistino in tutto o in parte le azioni del recedente, gli amministratori possono collocarle presso i terzi; in caso di mancato collocamento presso i terzi, le azioni del recedente vengono rimborsate mediante acquisto da parte della società utilizzando riserve disponibili; in assenza di utili o riserve disponibili, deve essere convocata l’assemblea straordinaria per deliberare la riduzione del capitale sociale, ovvero lo scioglimento della società. Di regola la società non può acquistare azioni proprie: la ratio del divieto di acquisto delle azioni proprie da parte della società riposa sulla considerazione secondo la quale se la società potesse acquistare le proprie azioni liberamente trasferendo agli azionisti in corrispettivo somme di danaro che fanno parte del suo patrimonio, si avrebbe una diminuzione del patrimonio e quindi della garanzia dei creditori sociali, senza che questi ne siano nemmeno informati attraverso una riduzione di capitale. Pur tuttavia l’acquisto di azioni proprie, praticabile soltanto per le azioni interamente liberate, è

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consentito quando avvenga: nei limiti degli utili distribuibili e delle riserve disponibili risultanti dall’ultimo bilancio regolarmente approvato; in esecuzione di una deliberazione dell’assemblea di riduzione del capitale, da attuarsi mediante riscatto ed annullamento delle azioni; a titolo gratuito; per effetto di successione universale o di fusione o scissione; in occasione di esecuzione forzata per il soddisfacimento di un credito della società. Accanto alle azioni ordinarie, che attribuiscono i diritti patrimoniali e personali succitati, le società per azioni possono emettere altre categorie di azioni: le azioni a favore dei prestatori di lavoro; le azioni di godimento; le azioni privilegiate; le azioni di risparmio; etc. Se lo statuto lo prevede, l’assemblea straordinaria può deliberare l’assegnazione di utili ai prestatori di lavoro dipendenti dalla società mediante l’emissione, per un ammontare corrispondente agli utili stessi, di speciali categorie di azioni da assegnare individualmente ai prestatori di lavoro, con norme particolari riguardo alla forma, al modo di trasferimento ed ai diritti spettanti agli azionisti. Il capitale sociale deve essere aumentato in misura corrispondente. In seguito alla riduzione del capitale sociale, la società può, durante la sua vita, rimborsare parte dei conferimenti, restituendo agli azionisti una somma corrispondente al valore nominale delle azioni rimborsate. Se però il valore reale delle azioni è superiore al loro valore nominale, ai titolari delle azioni rimborsate possono essere attribuite delle azioni di godimento, che assicurino loro l’esercizio dei diritti residui rispettando la parità di trattamento tra tutti gli azionisti: pertanto negli esercizi successivi i possessori delle azioni di godimento hanno diritto a concorrere nella ripartizione degli utili con i possessori delle azioni non rimborsate, soltanto dopo che a costoro sia stato preliminarmente attribuito un dividendo pari all’interesse legale; in caso di liquidazione della società, essi concorrono nella ripartizione del patrimonio sociale che residua dopo che ai titolari delle altre azioni sia stata rimborsata una somma pari al loro valore nominale. Salvo diversa disposizione dello statuto, le azioni di godimento sono prive del diritto di voto in assemblea. Sebbene non siano previste dal Codice civile, lo statuto può prevedere azioni privilegiate nella ripartizione degli utili o nel rimborso del capitale ovvero in entrambi i casi. Il privilegio statutario nella ripartizione degli utili fa sì che anche quando la società, in un determinato esercizio sociale, non ha realizzato utili tali da permettere il pagamento a tutti i soci della percentuale stabilita, egualmente i soci privilegiati possano ottenerne il pagamento, con danno degli altri soci che ricevono una percentuale inferiore o che addirittura possono rimanere senza utili, qualora questi bastino soltanto per pagare le azioni privilegiate fino alla percentuale stabilita; il privilegio nel rimborso del capitale fa sì che, anche quando la società ha subìto delle perdite, queste vengano sopportate prima dai soci non privilegiati, i quali non conseguono in tutto o in parte il rimborso dei valori conferiti e poi, solo dopo il sacrificio di detti soci, dai soci privilegiati, titolari di azioni postergate nell’incidenza delle perdite. Le azioni privilegiate possono essere sprovviste del diritto di voto nelle assemblee ordinarie. Le azioni di risparmio, parimenti non previste dal Codice civile, riconoscono ai possessori diversi privilegi, quali l’attribuzione di un dividendo maggiore rispetto a quello riconosciuto alle azioni ordinarie, la prelazione sul riparto degli utili o nel rimborso del capitale in caso di scioglimento, etc. Le azioni di risparmio possono essere emesse soltanto dalle società quotate in mercati regolamentati europei. Sono prive del diritto di voto nelle assemblee ordinarie e straordinarie. Si definiscono società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio le società con azioni quotate in mercati regolamentati o diffuse fra il pubblico in misura rilevante. Di norma a tali società si applicano le regole dettate per le società per azioni comuni. Le società per azioni, su deliberazione degli amministratori, possono ricorrere al mercato finanziario contraendo mutui, a fronte dei quali rilasciano ai creditori dei documenti denominati obbligazioni. Le obbligazioni sono titoli di credito emessi in serie. A differenza delle azioni, le obbligazioni non rappresentano quote di partecipazione alla società, ma rappresentano soltanto il diritto di credito che l’obbligazionista vanta verso la società in corrispondenza della somma che le ha versato a seguito della sottoscrizione del mutuo obbligazionario. Pertanto, a differenza degli

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azionisti, gli obbligazionisti non hanno diritto alla distribuzione periodica degli eventuali utili conseguiti dalla società, né sopportano le eventuali perdite che incidono sul capitale sociale, ma hanno diritto di percepire periodicamente l’interesse stabilito e, alla scadenza, di avere restituita la somma mutuata alla società. Inoltre, l’assemblea straordinaria può deliberare l’emissione di obbligazioni convertibili in azioni, determinando il rapporto di cambio, il periodo, e le modalità della conversione. L’assemblea dei soci, l’organo amministrativo, ed il collegio dei sindaci sono gli organi della società per azioni. L’assemblea è l’organo volitivo e deliberativo della società. Gli altri due organi, l’organo amministrativo ed il collegio dei sindaci, sono subordinati all’assemblea, dato il potere di questa nella loro nomina e revoca. Nelle società prive del consiglio di sorveglianza, l’assemblea ordinaria: approva il bilancio; nomina e revoca gli amministratori; nomina i sindaci ed il presidente del collegio sindacale e, quando previsto, il soggetto al quale è demandato il controllo contabile; determina il compenso degli amministratori e dei sindaci, se non è stabilito nello statuto; delibera sulla responsabilità degli amministratori e dei sindaci; delibera sugli altri oggetti attribuiti dalla legge alla competenza dell’assemblea, nonché sulle autorizzazioni eventualmente richieste dallo statuto per il compimento di atti degli amministratori, ferma restando in ogni caso la responsabilità di questi per gli atti compiuti. L’assemblea ordinaria deve essere convocata almeno una volta all’anno. L’assemblea in sede straordinaria a sua volta delibera: sulle modificazioni dello statuto; sulla nomina, sulla sostituzione, e sui poteri dei liquidatori; e su ogni altra materia espressamente attribuita dalla legge alla sua competenza. L’assemblea è convocata dagli amministratori o dal consiglio di gestione mediante avviso contenente l’indicazione del giorno, dell’ora e del luogo dell’adunanza, e dell’elenco delle materie da trattare. La convocazione dell’assemblea avviene mediante avviso da pubblicare sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica almeno quindici giorni prima di quello fissato per l’adunanza; l’assemblea può essere convocata anche mediante pubblicazione dell’avviso in un quotidiano indicato nello statuto sempre almeno quindici giorni prima di quello fissato. Lo statuto delle società che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio può consentire la convocazione mediante avviso comunicato ai soci almeno otto giorni prima dell’assemblea con mezzi che garantiscano la prova dell’avvenuto ricevimento. L’assemblea delibera secondo il principio maggioritario, ove non derogato dai “patti parasociali”: la volontà espressa dai soci riuniti in assemblea, che rappresentano determinate aliquote del capitale sociale stabilite di volta in volta, vale come volontà della società e vincola tutti i soci, anche se assenti o dissenzienti. Salvo disposizione contraria dello statuto, i soci possono farsi rappresentare in assemblea; la rappresentanza deve essere conferita per iscritto ed i documenti relativi devono essere conservati dalla società; la delega non può essere rilasciata con il nome del rappresentante in bianco ed è sempre revocabile nonostante ogni patto contrario; il rappresentante può farsi sostituire solo da chi sia espressamente indicato nella delega; la rappresentanza non può essere conferita né ai membri degli organi amministrativi o di controllo o ai dipendenti della società, né alle società da essa controllate o ai membri degli organi amministrativi o di controllo o ai dipendenti di queste; la stessa persona non può rappresentare in assemblea più di un determinato numero di soci. La gestione dell’impresa spetta esclusivamente agli amministratori, i quali compiono le operazioni necessarie per l’attuazione dell’oggetto sociale; l’amministrazione della società può essere affidata anche a non soci; quando l’amministrazione è affidata a più persone, queste costituiscono il consiglio di amministrazione; se lo statuto non stabilisce il numero degli amministratori, ma ne indica solamente il numero massimo e minimo, la determinazione spetta all’assemblea; il consiglio di amministrazione sceglie tra i suoi componenti il presidente, se questi non è nominato dall’assemblea. Salvo diversa previsione dello statuto, il presidente convoca il consiglio di amministrazione, ne

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fissa l’ordine del giorno, ne coordina i lavori e provvede affinché adeguate informazioni sulle materie iscritte all’ordine del giorno vengano fornite a tutti i consiglieri; se lo statuto o l’assemblea lo consente, il consiglio di amministrazione può delegare proprie attribuzioni ad un comitato esecutivo composto da alcuni dei suoi componenti, o ad uno o più dei suoi componenti. La centralità della loro posizione all’interno della società per azioni è scolpita dalle numerose ed articolate funzioni di cui sono per legge investiti. Gli amministratori deliberano su tutti gli argomenti attinenti alla gestione della società che non siano riservati all’assemblea: è questo il cosiddetto “potere gestorio” degli amministratori. Gli amministratori hanno la rappresentanza generale della società. Hanno cioè il potere di manifestare all’esterno la volontà sociale, determinata dall’assemblea o dallo stesso organo amministrativo, ponendo in essere i singoli atti giuridici in cui si concretizza l’attività sociale. Gli amministratori, come si è già detto, danno impulso all’attività dell’assemblea, convocandola e fissandone l’ordine del giorno; ed hanno il potere-dovere di impugnare quelle delibere assembleari che violano la legge o lo statuto. Gli amministratori devono curare la tenuta dei libri e delle scritture contabili della società, ed in particolare devono redigere annualmente il bilancio di esercizio da sottoporre all’approvazione dell’assemblea. Devono inoltre provvedere agli adempimenti pubblicitari prescritti dalla legge. Di tutte queste funzioni gli amministratori sono investiti per legge e non per mandato dei soci. E si tratta di funzioni che essi esercitano autonomamente sia perché devono vigilare sul rispetto della legge anche da parte dell’assemblea ed hanno il potere-dovere di astenersi dal dare esecuzione alle delibere della stessa qualora ne possa derivare un danno per la società, sia perché dell’adempimento dei loro doveri essi sono personalmente responsabili e civilmente e penalmente. Gli amministratori, infine, devono adempiere i doveri ad essi imposti dalla legge e dallo statuto con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze; essi sono solidalmente responsabili verso la società dei danni derivanti dall’inosservanza di tali doveri, a meno che si tratti di attribuzioni proprie del comitato esecutivo o di funzioni in concreto attribuite ad uno o più amministratori; in ogni caso gli amministratori sono solidalmente responsabili se, essendo a conoscenza di fatti pregiudizievoli, non hanno fatto quanto potevano per impedirne il compimento od eliminarne od attenuarne le conseguenze dannose; la responsabilità per gli atti o le omissioni degli amministratori non si estende a quello tra essi che, essendo immune da colpa, abbia fatto annotare senza ritardo il suo dissenso nel libro delle adunanze e delle deliberazioni del consiglio, dandone immediata notizia per iscritto al presidente del collegio sindacale. L’azione di responsabilità contro gli amministratori è promossa su deliberazione dell’assemblea, anche se la società è in stato di liquidazione; la deliberazione dell’azione di responsabilità importa la revoca dall’ufficio degli amministratori contro cui è proposta, purché sia presa con il voto favorevole di almeno un quinto del capitale sociale; l’azione può essere esercitata entro cinque anni dalla cessazione dell’amministratore dalla carica; la società può comunque rinunziare all’esercizio dell’azione di responsabilità e transigere, purché la rinunzia e la transazione siano approvate con espressa deliberazione dell’assemblea, e purché non vi sia il voto contrario di una minoranza di soci che rappresenti almeno il quinto del capitale sociale o, nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, almeno un ventesimo del capitale sociale. Inoltre se vi è fondato sospetto che gli amministratori, in violazione dei loro doveri, abbiano compiuto gravi irregolarità nella gestione che possono arrecare danno alla società o ad una o più società controllate, i soci che rappresentano il decimo del capitale sociale o, nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale del rischio, il ventesimo del capitale sociale possono denunziare i fatti al Tribunale con ricorso notificato anche alla società; il Tribunale, sentiti in camera di consiglio gli amministratori ed i sindaci, può ordinare l’ispezione dell’amministrazione della società; se le violazioni denunciate sussistono, nei casi più gravi, il Tribunale può revocare gli amministratori, ed eventualmente anche i sindaci, e nominare un amministratore giudiziario determinandone i poteri e la durata del suo ufficio; l’amministratore giudiziario può proporre l’azione di responsabilità contro gli amministratori ed i sindaci; prima della scadenza del suo incarico l’amministratore rende conto

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al Tribunale che lo ha nominato, e convoca e presiede l’assemblea per la nomina dei nuovi amministratori e sindaci o per proporre, se del caso, la messa in liquidazione della società o la sua ammissione ad una procedura concorsuale; tali provvedimenti possono essere richiesti anche dal collegio sindacale, dal consiglio di sorveglianza o dal comitato per il controllo sulla gestione, nonché, nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, dal pubblico ministero. Specifici requisiti di onorabilità, professionalità, ed indipendenza sono richiesti da leggi speciali per gli amministratori di società che svolgono determinate attività, per esempio quella assicurativa, bancaria, etc., o possono essere previsti dallo statuto. Non possono invece essere nominati amministratori, e se nominati decadono dal loro ufficio, l’interdetto, l’inabilitato, il fallito, o chi è stato condannato ad una pena che importa l’interdizione, anche temporanea dai pubblici uffici, o l’incapacità ad esercitare uffici direttivi. Gli amministratori non possono essere nominati per un periodo superiore a tre esercizi. Il collegio sindacale è l’organo di controllo interno. È dovere del collegio sindacale vigilare sull’osservanza della legge e dello statuto, sul rispetto del principio di corretta amministrazione, ed in particolare sull’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile adottato dalla società e sul suo concreto funzionamento. È suo dovere riferire all’assemblea. Lo statuto delle società che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio e che non sono tenute alla redazione del bilancio consolidato può prevedere che il controllo contabile sia esercitato dal collegio sindacale. In tal caso il collegio sindacale è costituito da revisori contabili iscritti nel registro istituito presso il Ministero della Giustizia. Mentre il collegio sindacale delle società con azioni non quotate si compone di tre o cinque membri effettivi, soci o non soci, più due membri supplenti, l’atto costitutivo delle società quotate consente di determinare liberamente il numero dei sindaci, sì da poter adeguare il numero dei sindaci alla complessità dell’impresa sociale. Nelle società non quotate almeno un membro effettivo ed uno supplente devono essere scelti tra gli iscritti nel registro dei revisori contabili istituito presso il Ministero della Giustizia. I restanti membri, se non iscritti in tale registro, devono essere scelti fra gli iscritti negli albi professionali tenuti dagli ordini e collegi degli avvocati, dottori commercialisti, ragionieri e periti commerciali, e consulenti del lavoro, individuati con decreto del Ministro della Giustizia del 29 dicembre 2004, n. 320, o fra i professori universitari di ruolo in materie economiche o giuridiche. Il decreto ministeriale del 30 marzo 2000, n. 162, invece, individua i requisiti di professionalità ed onorabilità dei sindaci delle società quotate iscritti nel registro dei revisori contabili, e stabilisce che possono ricoprire la carica di sindaco anche coloro che abbiano maturato un’esperienza complessiva di almeno un triennio nell’esercizio dell’attività di amministrazione o di controllo ovvero di compiti direttivi presso società di capitali che abbiano un capitale sociale non inferiore a due milioni di euro, nell’esercizio di attività professionali o di insegnamento universitario di ruolo in materie giuridiche, economiche, finanziarie e tecnico-scientifiche, strettamente attinenti all’attività dell’impresa, ovvero nell’esercizio di funzioni dirigenziali presso enti pubblici o Pubbliche Amministrazioni operanti nei settori creditizio, finanziario ed assicurativo o comunque in settori strettamente attinenti a quello di attività dell’impresa. Nel registro dei revisori contabili possono iscriversi persone fisiche in possesso di specifici requisiti di professionalità ed onorabilità, che abbiano superato un apposito esame di ammissione, nonché società che abbiano per oggetto esclusivo la revisione o l’organizzazione contabile delle imprese e rispondano a determinati requisiti. I sindaci sono nominati per la prima volta nell’atto costitutivo e successivamente, come anticipato, dall’assemblea in seduta ordinaria, salvo eccezioni; anche il presidente del collegio sindacale è nominato dall’assemblea in seduta ordinaria, salvo eccezioni. I sindaci restano in carica per tre esercizi, e decadono dall’incarico alla data dell’assemblea convocata per l’approvazione del bilancio relativo al terzo esercizio della carica; possono essere

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revocati soltanto per giusta causa, e la deliberazione deve essere approvata con decreto dal Tribunale, sentito l’interessato; la nomina dei sindaci, con l’indicazione per ciascuno di essi del cognome e del nome, del luogo e della data di nascita e del domicilio, e la cessazione dall’ufficio devono essere iscritte, a cura degli amministratori, nel registro delle imprese nel termine di trenta giorni. Secondo quanto previsto dall’articolo 2399 c.c., rubricato “cause di ineleggibilità e di decadenza”, non possono essere eletti alla carica di sindaco e, se eletti, decadono dall’ufficio: l’interdetto, l’inabilitato, il fallito, o chi è stato condannato ad una pena che importa l’interdizione, anche temporanea, dai pubblici uffici, o l’incapacità ad esercitare uffici direttivi; il coniuge, i parenti e gli affini entro il quarto grado degli amministratori della società, gli amministratori, il coniuge, i parenti e gli affini entro il quarto grado degli amministratori delle società da questa controllate, delle società che la controllano e di quelle sottoposte a comune controllo; coloro che sono legati alla società o alle società da questa controllate o alle società che la controllano o a quelle sottoposte a comune controllo da un rapporto continuativo di consulenza o di prestazione d’opera retribuita, ovvero da altri rapporti di natura patrimoniale che ne compromettano l’indipendenza. Lo statuto sociale può, inoltre, prevedere altre cause di ineleggibilità o decadenza. I sindaci possono in qualsiasi momento procedere, anche individualmente, ad atti di ispezione e di controllo; il collegio sindacale può chiedere agli amministratori notizie, anche con riferimento a società controllate, sull’andamento delle operazioni sociali o su determinati affari; il collegio sindacale può, altresì, scambiare informazioni con i corrispondenti organi delle società controllate in merito ai sistemi di amministrazione e controllo ed all’andamento generale dell’attività sociale; nell’espletamento di specifiche operazioni di ispezione e di controllo i sindaci, sotto la propria responsabilità ed a proprie spese, possono avvalersi di propri dipendenti ed ausiliari che non si trovino in una delle condizioni previste dall’articolo 2399 c.c.; l’organo amministrativo può rifiutare agli ausiliari ed ai dipendenti dei sindaci l’accesso ad informazioni riservate. Il collegio sindacale deve riunirsi almeno ogni tre mesi; il sindaco che, senza giustificato motivo, non partecipa durante un esercizio sociale a due riunioni del collegio decade dall’ufficio; delle riunioni del collegio deve redigersi verbale che deve essere sottoscritto dagli intervenuti; il collegio sindacale è regolarmente costituito con la presenza della maggioranza dei sindaci e delibera a maggioranza assoluta dei presenti; il sindaco dissenziente ha diritto di fare iscrivere a verbale i motivi del proprio dissenso. I sindaci devono assistere alle adunanze del consiglio di amministrazione, alle assemblee, ed alle riunioni del comitato esecutivo; i sindaci, che non assistono senza giustificato motivo o, durante un esercizio sociale, a due adunanze consecutive del consiglio di amministrazione o del comitato esecutivo, decadono dall’ufficio. In caso di omissione o di ingiustificato ritardo da parte degli amministratori, il collegio sindacale deve convocare l’assemblea ed eseguire le pubblicazioni prescritte dalla legge; il collegio sindacale può altresì, previa comunicazione al presidente del consiglio di amministrazione, convocare l’assemblea qualora nell’espletamento del suo incarico ravvisi fatti censurabili di rilevante gravità e vi sia urgente necessità di provvedere. I sindaci devono adempiere i loro doveri con la professionalità e la diligenza richieste dalla natura dell’incarico; sono responsabili della verità delle loro attestazioni e devono conservare il segreto sui fatti e sui documenti di cui hanno conoscenza per ragione del loro ufficio; essi sono solidalmente responsabili con gli amministratori per i fatti o le omissioni di questi, quando il danno non si sarebbe prodotto se essi avessero vigilato in conformità degli obblighi della loro carica; l’azione di responsabilità è normalmente promossa in seguito a deliberazione dell’assemblea. Ogni socio può denunciare i fatti che ritiene censurabili al collegio sindacale. Il legislatore, a maggior tutela degli azionisti e dei creditori, ha previsto un controllo esterno sulla gestione contabile della società. Tale controllo esterno è affidato ad un revisore contabile o ad una società di revisione, iscritti nel registro istituito presso il Ministero della Giustizia; per le società che fanno ricorso al mercato del

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capitale di rischio il controllo deve essere esercitato da una società di revisione iscritta nel registro dei revisori contabili e controllata dalla Commissione Nazionale per le Società e la Borsa (CONSOB). Il revisore o la società incaricata del controllo contabile deve: verificare, nel corso dell’esercizio e con periodicità almeno trimestrale, la regolare tenuta della contabilità sociale e la corretta rilevazione nelle scritture contabili dei fatti di gestione; verificare se il bilancio di esercizio e, ove redatto, il bilancio consolidato corrispondono alle risultanze delle scritture contabili e degli accertamenti eseguiti e se sono conformi alle norme che li disciplinano; esprimere con apposita relazione un giudizio sul bilancio di esercizio e sul bilancio consolidato, ove redatto. Come anticipato, l’incarico del controllo contabile è conferito dall’assemblea, la quale ne determina anche il corrispettivo; l’incarico ha la durata di tre esercizi e può essere revocato solo per giusta causa, sentito il parere del collegio sindacale; la deliberazione di revoca deve essere approvata con decreto dal Tribunale. Non possono essere incaricati del controllo contabile, e se incaricati decadono dall’ufficio, i sindaci della società o delle società da questa controllate, delle società che la controllano o di quelle sottoposte a comune controllo, nonché coloro che si trovano nelle condizioni previste dall’articolo 2399 c.c. Lo statuto sociale può, inoltre, prevedere altre cause di ineleggibilità o di decadenza. I soggetti incaricati del controllo contabile sono sottoposti alle medesime responsabilità dei sindaci, e sono inoltre responsabili nei confronti della società, dei soci, e dei terzi per i danni derivanti dall’inadempimento ai loro doveri; nel caso delle società di revisione i soggetti che hanno effettuato il controllo contabile sono responsabili in solido con la società medesima. In alternativa al sistema tradizionale di amministrazione e di controllo, basato sulla presenza del consiglio di amministrazione e del collegio sindacale, i soci possono scegliere alternativamente nello statuto il cosiddetto “sistema dualistico” d’ispirazione tedesca, incentrato sulla presenza di un consiglio di gestione e di un consiglio di sorveglianza, ovvero il cosiddetto “sistema monistico” d’ispirazione anglosassone, incentrato sulla presenza del solo consiglio di amministrazione soggetto al controllo di un comitato costituito all’interno dello stesso consiglio. La principale differenza del sistema dualistico rispetto al sistema tradizionale non va ricercata sul piano dell’amministrazione, in quanto la disciplina del consiglio di gestione corrisponde a quella del consiglio di amministrazione. La principale differenza si ritrova, invece, sul piano del controllo, in quanto al consiglio di sorveglianza sono attribuiti diversi poteri che, nel sistema tradizionale, spettano alla stessa assemblea e al collegio sindacale, organo quest’ultimo mancante nel sistema dualistico. Qualora i soci preferiscano il sistema monistico, la gestione spetta al consiglio di amministrazione ed il controllo ad un comitato costituito all’interno dello stesso consiglio. Rispetto al sistema tradizionale, assemblea e consiglio di amministrazione mantengono i rispettivi ruoli, mentre al comitato per il controllo sulla gestione spettano le attribuzioni del collegio sindacale. Al termine di ogni esercizio sociale gli amministratori devono redigere il bilancio di esercizio, costituito dallo stato patrimoniale, dal conto economico, e dalla nota integrativa. Lo stato patrimoniale, contenendo le voci dell’attivo e del passivo, indica la consistenza del patrimonio della società economica. Il conto economico indica il risultato economico dell’esercizio, risultato che corrisponde alla differenza tra i ricavi e i costi dell’attività produttiva, e tra i proventi e gli oneri di natura finanziaria: se la somma dei ricavi e dei proventi è superiore alla somma dei costi di produzione e degli oneri finanziari, la differenza costituisce l’utile dell’esercizio; se invece è inferiore, la differenza costituisce la perdita dell’esercizio. La nota integrativa indica i criteri di valutazione seguiti ed integra in modo analitico i dati dello stato patrimoniale e del conto economico. Al bilancio di esercizio gli amministratori devono allegare una relazione sulla situazione della società e sull’andamento della gestione.

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Nella redazione del bilancio gli amministratori sono obbligati ad osservare i principi di chiarezza, di verità, e di correttezza, nonché di prudenza nella valutazione delle singole voci, di competenza, e di continuità nei criteri di valutazione. Il bilancio viene approvato dall’assemblea ordinaria. Il capitale sociale può essere aumentato o ridotto tramite delibera dell’assemblea straordinaria. L’aumento del capitale può essere effettuato mediante l’emissione di nuove azioni, mediante il passaggio delle riserve a capitale oppure mediante l’aumento del valore nominale delle azioni. Vi è una differenza sostanziale tra l’emissione di nuove azioni ed il passaggio delle riserve a capitale. Con l’emissione di nuove azioni la società raccoglie nuovi conferimenti e quindi l’aumento di capitale non è soltanto contabile ma anche reale. Con l’imputazione delle riserve a capitale non si verifica, invece, un incremento effettivo del capitale sociale, ma semplicemente si varia la sua composizione. Anche in questo caso la parte di capitale aumentata deve essere rappresentata da azioni di nuova emissione. Tuttavia queste azioni devono essere attribuite ai soci gratuitamente. Si ha riduzione del capitale sociale o per esuberanza rispetto all’oggetto sociale o a causa di perdite. La riduzione del capitale sociale per esuberanza può essere effettuata o mediante liberazione dei soci dall’obbligo dei versamenti ancora dovuti o mediante rimborso ai soci del capitale. Tale riduzione è deliberata discrezionalmente dall’assemblea. Poiché la riduzione in parola comporta una diminuzione delle garanzie a favore dei creditori sociali, è concesso a questi ultimi di fare opposizione alla riduzione. La riduzione del capitale diventa invece obbligatoria nell’ipotesi in cui il valore del patrimonio, in conseguenza delle perdite subite, è divenuto inferiore di oltre un terzo rispetto al capitale sociale. La riduzione del capitale sociale per perdite si ottiene con la diminuzione del valore nominale delle azioni esistenti. Se, per la perdita di oltre un terzo del capitale, questo si riduce al disotto di centoventimila euro, gli amministratori o il consiglio di gestione, o, in caso di loro inerzia, il collegio sindacale o il consiglio di sorveglianza, devono senza indugio convocare l’assemblea per deliberare la riduzione del capitale ed il contemporaneo aumento del medesimo ad una cifra non inferiore al detto minimo, o la trasformazione della società. La società per azioni si scioglie per il decorso del termine, per il conseguimento dell’oggetto sociale o per la sopravvenuta impossibilità di conseguirlo, per l’impossibilità di funzionamento o per la continua inattività dell’assemblea, per la riduzione del capitale al disotto di centoventimila euro, per deliberazione dell’assemblea, per altre cause previste dall’atto costitutivo o dallo statuto, in seguito alla sentenza dichiarativa della nullità della società ed in seguito alla dichiarazione di fallimento. Le cause di scioglimento operano di diritto, tranne evidentemente il caso in cui sia la stessa assemblea, suo impulsu, a deliberare lo scioglimento della società. Come già visto per le società di persone, il verificarsi di una causa di scioglimento non determina l’immediata estinzione della società per azioni: si deve provvedere, attraverso il procedimento di liquidazione, al pagamento dei creditori sociali anche attraverso la continuazione parziale dell’attività di impresa, ed alla ripartizione fra i soci dell’eventuale residuo attivo. Si vuole sottolineare immediatamente che gli istituti dello scioglimento e della liquidazione sono trattati dal Codice civile in un’unica sede in riferimento al genus società di capitali, e non in riferimento singolare alle tre species rappresentate dalla società per azioni, società in accomandita per azioni, e società a responsabilità limitata. Verificatasi una causa di scioglimento, gli amministratori o, in caso di loro inerzia, il Tribunale su istanza di singoli soci o amministratori ovvero dei sindaci, devono convocare l’assemblea straordinaria dei soci perché questa nomini dei liquidatori; nell’inerzia dell’assemblea, i liquidatori sono nominati dal Tribunale; i liquidatori possono essere revocati dall’assemblea o, quando sussiste

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una giusta causa, dal Tribunale su istanza di soci, dei sindaci o del pubblico ministero. I provvedimenti di nomina e di revoca dei liquidatori devono essere iscritti, a loro cura, nel registro delle imprese; avvenuta l’iscrizione, gli amministratori cessano dalla carica e devono consegnare ai liquidatori i libri sociali, una situazione dei conti alla data di effetto dello scioglimento ed un rendiconto sulla loro gestione relativo al periodo successivo all’ultimo bilancio approvato; alla denominazione sociale deve essere aggiunta l’indicazione che la società versa in stato di liquidazione. Poteri, doveri, e responsabilità dei liquidatori sono modellati su quelli degli amministratori, sia pure con alcuni adattamenti imposti dalla peculiarità dello stato di liquidazione. Pertanto: i liquidatori hanno il potere di compiere tutti gli atti utili per la liquidazione della società; i liquidatori devono adempiere i loro doveri con la diligenza e la professionalità richieste dalla natura dell’incarico e la loro responsabilità per i danni derivanti dall’inosservanza di tali doveri è disciplinata dalle norme relative alla responsabilità degli amministratori. L’attività dei liquidatori deve essere innanzitutto diretta al pagamento dei creditori sociali: i liquidatori non possono ripartire tra i soci acconti sul risultato della liquidazione, salvo che dai bilanci risulti che la ripartizione non incide sulla disponibilità di somme idonee all’integrale e tempestiva soddisfazione dei creditori sociali; i liquidatori possono condizionare la ripartizione alla prestazione da parte del socio di idonee garanzie; se i fondi disponibili risultano insufficienti per il pagamento dei debiti sociali, i liquidatori possono chiedere proporzionalmente ai soci i versamenti ancora dovuti; i liquidatori sono personalmente e solidalmente responsabili per i danni che ne derivano ai creditori sociali. I liquidatori devono redigere il bilancio e sottoporlo all’approvazione dell’assemblea o dei soci; qualora i liquidatori abbiano deciso per una continuazione, anche parziale, dell’attività di impresa, le relative poste di bilancio devono avere un’indicazione separata. Completata la liquidazione del patrimonio sociale con la conversione in danaro dell’attivo, i liquidatori devono redigere il bilancio finale di liquidazione, il cosiddetto “piano di riparto”, indicando la parte spettante a ciascun socio nella divisione dell’attivo; il piano di riparto, sottoscritto dai liquidatori, deve essere depositato presso l’ufficio del registro delle imprese. Il bilancio finale di liquidazione deve essere approvato dai singoli soci e non dall’assemblea, dato che a questo punto entra in gioco l’interesse del singolo all’ottenimento della quota di liquidazione, entro novanta giorni dall’iscrizione dell’avvenuto deposito; il bilancio finale di liquidazione s’intende approvato se non sono stati opposti reclami entro il suddetto termine. Diversamente da quanto previsto per le società in nome collettivo e più in generale per le società di persone, i liquidatori devono quindi procedere all’effettiva ripartizione dell’attivo residuo fra i soci. Approvato il bilancio finale di liquidazione, i liquidatori devono chiedere la cancellazione della società dal registro delle imprese; analogamente a quanto accade per le società di persone, intervenuta la cancellazione dal registro, la società si estingue solo se i soci sono stati interamente soddisfatti; viceversa i creditori sociali rimasti insoddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione, e nei confronti dei liquidatori, se il mancato pagamento è dipeso da colpa di questi. L’articolo 1 del decreto legislativo del 17 gennaio 2003, n. 6, in recepimento della direttiva comunitaria 89/667/CEE, ha introdotto nell’ordinamento giuridico italiano la società per azioni unipersonale. Invero, come già anticipato, la società per azioni può essere costituita anche con un atto unilaterale da un unico socio, ex articolo 2328 c.c. La costituzione per atto unilaterale consente all’unico azionista il duplice vantaggio dell’autonomia decisionale e della responsabilità limitata al solo patrimonio della società per l’adempimento delle obbligazioni sociali. Si consente, quindi, al socio fondatore di costituire anche da solo un patrimonio autonomo a cui limitare, in sostanziale deroga al principio generale per cui il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutto il suo patrimonio presente e futuro, la responsabilità per le obbligazioni derivanti dalla propria attività

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imprenditoriale. Purché però operi la limitazione di responsabilità dell’unico socio fondatore al solo patrimonio sociale, è necessario, nell’interesse dei terzi che entrano in contatto con un’impresa formalmente societaria ma sostanzialmente individuale, che: l’unico socio, al momento della sottoscrizione dell’atto costitutivo, versi presso una banca l’intero ammontare dei conferimenti in danaro, e non solo il venticinque per cento come previsto per la società per azioni pluripersonale, e gli amministratori depositino per l’iscrizione nel registro delle imprese una dichiarazione contenente i dati anagrafici dell’unico socio. Si noti che la responsabilità illimitata viene meno per le sole obbligazioni sorte dopo che i conferimenti siano stati integralmente eseguiti o dopo che la pubblicità sia stata effettuata. Inoltre per consentire ai terzi di riconoscere agevolmente una società unipersonale, negli atti e nella corrispondenza, ma non nella denominazione sociale, deve essere indicato se questa ha un unico socio. Per assicurare maggiore trasparenza nei rapporti che intercorrono tra la società ed il socio unico, è stabilito che i contratti della società con l’unico socio o le operazioni a favore di questi sono opponibili ai creditori della società solo se risultano dal libro delle adunanze e delle deliberazioni del consiglio di amministrazione o da atto scritto avente data certa anteriore al pignoramento. Infine, la società per azioni unipersonale può essere costituita anche da una persona giuridica o da una persona fisica che sia contemporaneamente socio unico di un’altra società di capitali.. 2. La società in accomandita per azioni Nella società in accomandita per azioni si trovano riunite le caratteristiche tipiche della società in accomandita semplice e della società per azioni. Invero la società in accomandita per azioni condivide con la società in accomandita semplice la distinzione tra soci accomandatari, che rispondono illimitatamente e solidalmente dei debiti sociali, e soci accomandanti, che, invece, rispondono dei debiti sociali soltanto nei limiti della quota di capitale conferita; mentre la società de qua condivide con la società per azioni la circostanza che le quote di partecipazione sono rappresentate da azioni. Alla società in accomandita per azioni si applicano le norme relative alla società per azioni, in quanto compatibili. Ed invero è una società di capitali avente personalità giuridica. Tuttavia la caratteristica propria che rende la società in accomandita per azioni un tipo autonomo di società è rappresentata dal nesso indissolubile fra la qualità di accomandatario ed amministratore. Sicché i soci accomandatari indicati nell’atto costitutivo sono tutti, di diritto, amministratori della società e senza limiti di tempo; il socio accomandatario che cessa dall’ufficio di amministratore non risponde illimitatamente e solidalmente per le obbligazioni della società sorte posteriormente all’iscrizione nel registro delle imprese della cessazione dall’ufficio, e diventa socio accomandante; il nuovo amministratore assume la qualità di socio accomandatario dal momento dell’accettazione della nomina, e risponde illimitatamente e solidalmente delle obbligazioni sociali sorte a partire da quel momento. Seguono alcune norme particolari. Gli accomandatari, in quanto soci amministratori, non hanno diritto di voto per le azioni ad essi spettanti nelle deliberazioni dell’assemblea che concernono la nomina e la revoca dei sindaci ovvero dei componenti del consiglio di sorveglianza e l’esercizio dell’azione di responsabilità. Le modificazioni dell’atto costitutivo devono essere deliberate dall’assemblea straordinaria, e devono inoltre essere approvate da tutti i soci accomandatari. A questi ultimi è quindi riconosciuto il diritto di veto sulle eventuali modifiche dell’atto costitutivo della società; diritto che indubbiamente rafforza la loro posizione e ridimensiona i poteri deliberativi dell’assemblea. La revoca degli amministratori deve essere deliberata con la maggioranza prescritta per le

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deliberazioni dell’assemblea straordinaria della società per azioni. Identica maggioranza è necessaria per la nomina dei nuovi amministratori, che inoltre deve essere approvata dagli amministratori rimasti in carica. Dunque, gli amministratori, se possono essere privati dall’assemblea della loro carica, non possono essere costretti contro la loro volontà a condividere l’ufficio con soci non graditi. Per le società in accomandita per azioni con azioni quotate in mercati regolamentati, i soci accomandatari non hanno diritto di voto nelle deliberazioni dell’assemblea relative alla nomina ed alla revoca della società di revisione contabile. Infine, la società si scioglie, oltre che per le cause di scioglimento della società per azioni, in caso di cessazione dall’ufficio di tutti i soci accomandatari, se nel termine di centottanta giorni non si è provveduto alla loro sostituzione ed i sostituti non hanno accettato la carica. Per questo periodo il collegio sindacale nomina un amministratore provvisorio per il compimento degli atti di ordinaria amministrazione; l’amministratore provvisorio non assume la qualità di socio accomandatario. 3. La società a responsabilità limitata Anche la società a responsabilità limitata è una società di capitali dotata di personalità giuridica. A differenza della società per azioni, il dato caratterizzante la società a responsabilità limitata è rappresentato dalla valorizzazione dei profili di carattere personale presenti soprattutto nelle piccole e medie imprese. Invero, la società a responsabilità limitata si presta meglio della società per azioni per l’organizzazione di imprese di modeste dimensioni, a base familiare e comunque con compagine societaria ristretta. Il capitale sociale minimo è di diecimila euro. Possono essere conferiti, come accade nelle società di persone, tutti i beni suscettibili di valutazione economica, quindi anche le prestazioni d’opera o di servizi; se viene conferito danaro, al momento della sottoscrizione dell’atto costitutivo ne deve essere versato presso una banca almeno il venticinque per cento; il conferimento di prestazioni d’opere o di servizi è consentito purché l’intero valore assegnato a tale conferimento sia garantito da una polizza di assicurazione o da una fideiussione bancaria. Se il socio non esegue il conferimento nel termine prescritto, gli amministratori diffidano il socio moroso ad eseguirlo nel termine di trenta giorni; decorso inutilmente questo termine gli amministratori, qualora non ritengano utile promuovere azione per l’esecuzione dei conferimenti dovuti, possono vendere agli altri soci, in proporzione della loro partecipazione, la quota del socio moroso; la vendita è effettuata a rischio e pericolo del medesimo per il valore risultante dall’ultimo bilancio approvato; in mancanza di offerte per l’acquisto, se l’atto costitutivo lo consente, la quota è venduta all’incanto; se la vendita non può avere luogo per mancanza di compratori, gli amministratori escludono il socio, trattenendo le somme riscosse; il capitale deve essere ridotto in misura corrispondente; la medesima procedura si applica anche nel caso in cui per qualsiasi motivo siano scadute o divengano inefficaci la polizza assicurativa o la garanzia bancaria prestate dai soci; resta salva in tal caso la possibilità del socio di sostituirle con il versamento del corrispondente importo di danaro. È prevista la possibilità che i soci finanzino la società quando risulta un eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto oppure quando la società versa in una situazione finanziaria in cui appare ragionevole un conferimento; tuttavia il rimborso dei finanziamenti dei soci è postergato rispetto alla soddisfazione degli altri creditori, e deve essere restituito alla società se avvenuto nell’anno precedente la dichiarazione di fallimento della stessa. Se l’atto costitutivo lo permette, la società può emettere obbligazioni su deliberazione o dei soci o degli amministratori; tali titoli di debito possono però essere sottoscritti soltanto da investitori professionali soggetti a vigilanza prudenziale; in caso di successiva circolazione dei medesimi, chi li trasferisce risponde della solvenza della società nei confronti degli acquirenti che non siano

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investitori professionali ovvero soci della società medesima. Le partecipazioni dei soci non sono rappresentate da azioni, ma da quote; è fatto divieto di sollecitare l’investimento di terzi. I diritti sociali spettano ai soci in misura proporzionale alla partecipazione posseduta da ciascun socio, e, se l’atto costitutivo non dispone diversamente, le partecipazioni dei soci sono determinate in misura proporzionale al conferimento. Tuttavia l’atto costitutivo può prevedere l’attribuzione a singoli soci di particolari diritti riguardanti l’amministrazione della società o la distribuzione degli utili; tali diritti possono essere modificati soltanto con il consenso di tutti i soci. Le partecipazioni sono liberamente trasferibili per atto tra vivi e per successione a causa di morte. L’atto costitutivo può, tuttavia, non solo limitare ma anche escludere del tutto il trasferimento delle quote; qualora l’atto costitutivo ne preveda l’intrasferibilità o ne subordini il trasferimento al gradimento di organi sociali, di soci o di terzi, il socio od i suoi eredi possono esercitare il diritto di recesso; per assicurare maggiore stabilità alla compagine societaria, l’atto costitutivo può comunque prevedere che il recesso non possa essere esercitato prima di due anni dalla costituzione della società o dalla sottoscrizione della partecipazione. L’atto costitutivo, godendo di ampia autonomia, determina i casi e le modalità del recesso del socio. In ogni caso il diritto di recesso compete inderogabilmente al socio che non ha consentito al cambiamento dell’oggetto sociale o del tipo di società, alla sua fusione o scissione, alla revoca dello stato di liquidazione, al trasferimento della sede all’estero, all’eliminazione di una o più cause di recesso previste dallo statuto, al compimento di operazioni che comportano una sostanziale modifica dell’oggetto sociale o una rilevante modifica dei diritti particolari attribuiti al singolo socio, ed all’aumento di capitale sociale, o se la società è stata contratta a tempo indeterminato; la quota del socio receduto deve essere determinata tenendo conto del suo valore di mercato al momento della dichiarazione di recesso; la quota del socio receduto deve essere offerta prima in opzione ai soci, e successivamente ad un terzo purché sia stato individuato concordemente dagli stessi soci; qualora non vi siano acquirenti, il rimborso è effettuato utilizzando le riserve disponibili o, in mancanza, riducendo il capitale sociale, e qualora la riduzione medesima dovesse risultare impossibile, la società deve essere posta in stato di liquidazione. La quota può formare oggetto di espropriazione da parte dei creditori personali del socio, con conseguente vendita forzata o assegnazione della stessa al creditore procedente; ciò avviene anche in caso di fallimento del socio; se la partecipazione non è liberamente trasferibile e il creditore, il debitore e la società non si accordano sulla vendita della quota stessa, la vendita ha luogo all’incanto; la vendita è priva di effetto se la società presenta entro dieci giorni un altro acquirente che offra lo stesso prezzo. Si consente così di impedire l’ingresso di soggetti non graditi alla compagine sociale. Quanto agli organi della società a responsabilità limitata, vale la nota tripartizione assemblea - organo amministrativo - collegio sindacale. L’assemblea però degrada da organo essenziale ad organo solo eventuale: invero, le materie rimesse alle decisioni dei soci sono definite autonomamente dall’atto costitutivo, ed inoltre gli amministratori o tanti soci che rappresentano almeno un terzo del capitale sociale possono rimettere alle deliberazioni assembleari le decisioni da prendere; sono riservate alla competenza dell’assemblea: l’approvazione del bilancio e la distribuzione degli utili; la nomina degli amministratori, se prevista nell’atto costitutivo; la nomina eventuale dei sindaci, del presidente del collegio sindacale, e del revisore; le modificazioni dell’atto costitutivo; la decisione di compiere operazioni che comportano una sostanziale modificazione dell’oggetto sociale determinato nell’atto costitutivo o una rilevante modificazione dei diritti dei soci. Inoltre l’atto costitutivo può prevedere che le decisioni dei soci siano adottate mediante consultazione scritta o sulla base del consenso espresso per iscritto; in tal caso le decisioni sono adottate, salvo diversa disposizione dell’atto costitutivo, con il voto favorevole di una maggioranza che rappresenti almeno la metà del capitale sociale. L’assemblea deve però necessariamente riunirsi per le modificazioni dell’atto costitutivo, dell’oggetto sociale, o dei diritti dei soci, per la riduzione

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del capitale per perdite, e quando ne sia fatta richiesta da uno o più amministratori o dai soci che rappresentano almeno un terzo del capitale sociale. Salvo diversa disposizione dell’atto costitutivo, l’amministrazione della società è affidata ad uno o più soci nominati dall’assemblea; gli amministratori restano in carica a tempo indeterminato; quando l’amministrazione è affidata a più persone, queste costituiscono il consiglio di amministrazione; l’amministrazione può essere svolta disgiuntamente oppure congiuntamente; la redazione del progetto di bilancio, dei progetti di fusione o scissione, nonché le decisioni di aumento del capitale sono in ogni caso di competenza dell’organo amministrativo. Gli amministratori hanno la rappresentanza generale della società. La presenza del collegio sindacale e dell’organo del controllo contabile non è sempre necessaria; la nomina del collegio sindacale è obbligatoria se il capitale sociale è superiore a centoventimila euro o se non ricorrono le condizioni stabilite per la redazione del bilancio di esercizio in forma abbreviata ex articolo 2435 bis c.c.; se l’atto costitutivo non dispone diversamente, il controllo contabile è esercitato dal collegio sindacale. Nelle società in cui manca il collegio sindacale, alcuni dei poteri di controllo propri dei sindaci sugli amministratori sono riconosciuti direttamente ad ogni singolo socio che non partecipa all’amministrazione, il quale può altresì chiedere, in caso di gravi irregolarità nella gestione della società, che sia adottato un provvedimento cautelare di revoca degli amministratori medesimi. Infine, non si può sottacere che il decreto legislativo del 3 marzo 1993, n. 88, nel recepire la dodicesima direttiva comunitaria 89/667/CEE, ha introdotto nell’ordinamento giuridico italiano la società a responsabilità limitata unipersonale. Capitolo XIII Trasformazione, fusione e scissione Gli istituti della trasformazione, fusione e scissione sono regolati dagli articoli 2498 - 2506 quater c.c. La trasformazione è una modificazione dell’atto costitutivo tramite la quale una società di un certo tipo sociale assume la forma di un altro tipo. Con la trasformazione la società trasformata conserva i diritti e gli obblighi e prosegue in tutti i rapporti, anche processuali, della società che ha effettuato la trasformazione. Può farsi luogo alla trasformazione anche in pendenza di procedura concorsuale, purché non vi siano incompatibilità con le finalità e lo stato della stessa. La trasformazione in società per azioni, in accomandita per azioni o a responsabilità limitata deve risultare da atto pubblico. Nei casi di trasformazione di società di persone in società di capitali i soci a responsabilità illimitata non sono liberati dalla responsabilità per le obbligazioni sociali anteriori alla trasformazione, salvo che i creditori sociali abbiano acconsentito alla trasformazione. Inoltre, ai soci che non hanno concorso alla decisione dell’assemblea straordinaria è riconosciuto il diritto di recesso. La società di persone trasformata in società di capitali acquisisce la personalità giuridica con l’iscrizione della delibera nel registro delle imprese. Nei casi di trasformazione di società di capitali in società di persone, i soci che assumono responsabilità illimitata sono richiesti del loro consenso, mentre i soci dissenzienti possono sempre esercitare il diritto di recesso. Inoltre, i soci che con la trasformazione assumono responsabilità illimitata, rispondono illimitatamente anche per le obbligazioni sociali sorte anteriormente alla trasformazione.

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È ammessa la trasformazione “eterogenea” da società di capitali in consorzi, società consortili, società cooperative, comunioni di azienda, associazioni non riconosciute, e fondazioni, e la trasformazione “eterogenea” da consorzi, società consortili, comunioni d’azienda, associazioni riconosciute, e fondazioni, in società di capitali. La fusione rappresenta una modalità di concentrazione delle imprese societarie che consente di ampliarne le dimensioni e la competitività nel mercato. La disciplina dell’istituto della fusione è stata profondamente modificata dal decreto legislativo del 16 gennaio 1991, n. 22, che ha dato piena applicazione nell’ordinamento giuridico italiano delle direttive comunitarie 78/855/CEE e 82/891/CEE, e dal decreto legislativo del 17 gennaio 2003, n. 6. La fusione di più società può eseguirsi mediante la costituzione di una nuova società, o mediante l’incorporazione in una società di una o più altre. Il procedimento di fusione si articola nelle seguenti tre fasi essenziali: progetto di fusione, delibera, atto di fusione. La fusione deve risultare da atto pubblico. La società che risulta dalla fusione o quella incorporante assumono i diritti e gli obblighi delle società partecipanti alla fusione, proseguendo in tutti i loro rapporti, anche processuali, anteriori alla fusione. Non possono partecipare ad operazioni di fusione le società in liquidazione che abbiano iniziato la distribuzione dell’attivo. L’istituto della scissione, introdotto dal decreto legislativo del 16 gennaio 1991, n. 22, in attuazione della direttiva 82/891/CEE, realizza un’operazione giuridico-economica inversa rispetto a quella attuata con la fusione. In questa ipotesi, invero, il patrimonio di un ente viene suddiviso ed attribuito, in tutto o in parte, ad altre società, preesistenti o di nuova costituzione, in funzione di un’esigenza di ristrutturazione e di riorganizzazione aziendale. Con la scissione una società assegna l’intero suo patrimonio a più società, preesistenti o di nuova costituzione, o parte del suo patrimonio, in tal caso anche ad una sola società, e le relative azioni o quote ai suoi soci. La scissione può essere attuata mediante due distinte modalità: la “scissione vera e propria”, e la “scorporazione”. La “scissione vera e propria” si realizza mediante il trasferimento dell’intero patrimonio di una società, che si estingue, a due o più società, preesistenti o di nuova costituzione, le cui azioni o quote vengono assegnate ai soci della società scissa. La “scorporazione” si realizza mediante il trasferimento di una parte del patrimonio di una società, che continua a svolgere la sua attività, a vantaggio di una o più società beneficiarie preesistenti o di nuova costituzione. Il procedimento elaborato dal legislatore per la scissione si svolge secondo le modalità proprie della fusione. La partecipazione alla scissione non è consentita alle società in liquidazione che abbiano iniziato la distribuzione dell’attivo. Capitolo XIV Le società cooperative Le cooperative sono società a capitale variabile con scopo mutualistico e non speculativo. Queste cioè non vengono costituite per conseguire degli utili da ripartire ai soci, ma per svolgere un’attività

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economica che dia ai soci stessi la possibilità di ottenere beni o servizi a condizioni più favorevoli rispetto a quelle generalmente praticate nel mercato. Invero, nelle società cooperative l’attività economica è svolta direttamente dai soci, detti cooperativisti, i quali destinano a proprio favore la maggior parte del profitto che spetterebbe altrimenti all’imprenditore. Il principio mutualistico trova riconoscimento già nella Costituzione. L’articolo 45 stabilisce che “la Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità, e la legge ne promuove e favorisce l’incremento con i mezzi più idonei e ne assicura, con gli opportuni controlli, il carattere e le finalità”. In attuazione del precetto costituzionale, la legge favorisce le cooperative e la loro “funzione sociale” con sgravi tributari, concessioni di finanziamenti agevolati, ed agevolazioni contributive. Le società più diffuse nel campo cooperativo sono: le cooperative di consumo; le cooperative agricole; le cooperative edilizie; le cooperative di produzione e di lavoro; le cooperative di credito; le cooperative di assicurazione. Le cooperative di consumo mirano a fornire ai soci beni e servizi a condizioni più favorevoli di quelle prospettate nel mercato. A tal fine l’acquisto viene effettuato collettivamente. La società si assume i rischi imprenditoriali e le spese di distribuzione, evitando in tal modo qualsiasi forma di intermediazione. Le cooperative agricole vendono o trasformano i prodotti acquistati presso i propri soci-agricoltori che operano in una stessa area geografica. Anche in questo caso la cooperativa consente di eliminare i passaggi intermedi con possibilità per i soci di maggiori margini di profitto. Le cooperative edilizie costruiscono case di abitazione da assegnare poi, a condizioni particolarmente vantaggiose, ai cooperativisti. Le cooperative di produzione e di lavoro assumono incarichi lavorativi che vengono poi svolti dai soci-lavoratori, ai quali viene così data l’opportunità di trovare più facilmente un lavoro, ed ai quali viene riconosciuta, sotto forma di utili sociali, una retribuzione pari o superiore a quella che essi potrebbero ricavare lavorando presso qualsiasi altro datore di lavoro. Le cooperative di credito, dette anche “banche popolari” o “banche di credito cooperativo”, concedono ai propri soci finanziamenti ad un tasso di interesse particolarmente agevolato. Le cooperative di assicurazione danno ai propri soci la possibilità di stipulare polizze assicurative particolarmente vantaggiose. In quel particolare tipo di cooperativa di assicurazione che è la mutua assicuratrice, inoltre, le qualità di socio e di assicurato finiscono col coincidere, poiché cooperativisti si diventa assicurandosi presso la società e la qualità di socio si perde con l’estinguersi del contratto. Le cooperative si distinguono in cooperative a mutualità prevalente ed in cooperative a mutualità non prevalente. Possono quindi svolgere attività anche con i terzi, cioè fornire a questi le medesime prestazioni che formano oggetto della gestione a favore dei soci. Sono società cooperative a mutualità prevalente, in ragione del tipo di scambio mutualistico, quelle che: svolgono la loro attività prevalentemente in favore dei soci, consumatori o utenti di beni o di servizi; si avvalgono prevalentemente, nello svolgimento della loro attività, delle prestazioni lavorative dei soci; si avvalgono prevalentemente, nello svolgimento della loro attività, degli apporti di beni o di servizi da parte dei soci. Si ha prevalenza quando i ricavi dalle vendite dei beni e dalle prestazioni di servizi verso i soci sono superiori al cinquanta per cento del totale dei ricavi delle vendite e delle prestazioni; quando il costo del lavoro dei soci è superiore al cinquanta per cento del totale del costo del lavoro; quando il costo della produzione per servizi ricevuti dai soci ovvero per beni conferiti dai soci è rispettivamente superiore al cinquanta per cento del totale dei costi dei servizi ovvero al cinquanta per cento del totale dei costi delle merci o materie prime acquistate o conferite. Nelle cooperative agricole la condizione di prevalenza sussiste quando la quantità o il valore dei prodotti conferiti dai soci è superiore al cinquanta per cento della quantità o del valore totale dei prodotti.

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Nello statuto delle cooperative a mutualità prevalente devono essere inserite le seguenti previsioni: il divieto di distribuire dividendi in misura superiore all’interesse massimo dei buoni postali fruttiferi, aumentato di due punti e mezzo rispetto al capitale effettivamente versato; il divieto di remunerare gli strumenti finanziari offerti in sottoscrizione ai soci cooperatori in misura superiore a due punti rispetto al limite massimo previsto per i dividendi; il divieto di distribuire le riserve fra i soci cooperatori; l’obbligo di devolvere, in caso di scioglimento della società, l’intero patrimonio sociale, dedotto soltanto il capitale sociale ed i dividendi eventualmente maturati, ai fondi mutualistici per la promozione e lo sviluppo della cooperazione. Le società cooperative a mutualità prevalente e non prevalente devono essere iscritte nell’albo delle società cooperative istituito presso il Ministero delle Attività Produttive e gestito dagli uffici delle Camere di commercio. Con l’iscrizione in detto albo le società cooperative acquistano personalità giuridica. Alle società cooperative si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni relative alla società per azioni. L’atto costitutivo può prevedere anche che trovino applicazione, in quanto compatibili, le norme relative alla società a responsabilità limitata nelle cooperative con un numero di soci cooperatori inferiore a venti ovvero con un attivo dello stato patrimoniale non superiore ad un miliardo di euro. Pertanto, nelle cooperative per le obbligazioni sociali risponde soltanto la società con il suo patrimonio. La denominazione sociale, in qualunque modo formata, deve contenere l’indicazione di società cooperativa; l’indicazione di cooperativa non può essere usata da società che non hanno scopo mutualistico; le cooperative a mutualità prevalente devono indicare negli atti e nella corrispondenza il numero di iscrizione presso l’albo delle società cooperative. L’atto costitutivo, redatto per atto pubblico, deve indicare: il cognome e il nome o la denominazione, il luogo e la data di nascita o di costituzione, il domicilio o la sede, la cittadinanza dei soci; la denominazione, ed il Comune ove è posta la sede della società e le eventuali sedi secondarie; l’indicazione specifica dell’oggetto sociale con riferimento ai requisiti ed agli interessi dei soci; la quota di capitale sottoscritta da ciascun socio, i versamenti eseguiti e, se il capitale è ripartito in azioni, il loro valore nominale; il valore attribuito ai crediti ed ai beni conferiti in natura; i requisiti e le condizioni per l’ammissione dei soci ed il modo ed il tempo in cui devono essere eseguiti i conferimenti; le condizioni per l’eventuale recesso o per l’esclusione dei soci; le regole per la ripartizione degli utili ed i criteri per la ripartizione dei ristorni; le forme di convocazione dell’assemble; il sistema di amministrazione adottato, il numero degli amministratori ed i loro poteri, indicando quali tra essi hanno la rappresentanza della società; il numero dei componenti del collegio sindacale; la nomina dei primi amministratori e sindaci; l’importo globale, almeno approssimativo, delle spese per la costituzione poste a carico della società. Per procedere alla costituzione di una società cooperativa è necessario che i soci siano almeno nove; può essere costituita una società cooperativa da almeno tre soci quando i medesimi sono persone fisiche e la società adotta le norme della società a responsabilità limitata; nel caso di attività agricola possono essere soci anche le società semplici; se successivamente alla costituzione il numero dei soci diviene inferiore a quanto dianzi stabilito, esso deve essere integrato nel termine massimo di un anno, trascorso il quale la società si scioglie e deve essere posta in liquidazione; la legge può comunque derogare a quanto appena affermato determinando il numero minimo di soci necessario per la costituzione di particolari categorie di cooperative. Ferma restando l’ampia discrezionalità riconosciuta all’atto costitutivo nello stabilire i requisiti di ammissione dei nuovi soci, non possono comunque divenire cooperativisti quanti esercitano in proprio imprese in concorrenza con quella della cooperativa. Le cooperative, a differenza delle altre società, sono società a capitale variabile, nel senso che il capitale sociale non è determinato in un ammontare prestabilito. Pertanto, il numero dei soci può aumentare o diminuire, con conseguente aumento o diminuzione del capitale, senza che ciò importi modificazione dell’atto costitutivo.

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Nelle cooperative la partecipazione sociale può essere rappresentata indifferentemente da quote o da azioni, secondo quanto stabilito dall’atto costitutivo; il valore nominale di ciascuna quota o azione non può essere inferiore a venticinque euro; il valore nominale di ciascuna azione non può essere superiore a cinquecento euro; per stimolare l’allargamento della compagine sociale nessun socio può avere una quota superiore a centomila euro, né tante azioni il cui valore nominale superi tale somma; tuttavia l’atto costitutivo, nelle società cooperative con più di cinquecento soci, può elevare l’appena menzionato limite sino al due per cento del capitale. Le quote e le azioni dei cooperativisti non possono essere cedute, con effetto verso la società, senza l’autorizzazione degli amministratori; il provvedimento che concede o nega l’autorizzazione deve essere comunicato al socio entro sessanta giorni dal ricevimento della richiesta fatta con lettera raccomandata; il silenzio vale assenso; il provvedimento che nega al socio l’autorizzazione deve essere motivato; contro il diniego il socio, entro sessanta giorni dal ricevimento della comunicazione, può opporre opposizione al Tribunale; l’autorizzazione in ogni caso non potrà essere validamente concessa qualora l’acquirente non possegga i requisiti soggettivi legali o previsti dall’atto costitutivo. Il creditore particolare del socio cooperatore, finché dura la società, non può agire esecutivamente sulla quota o sulle azioni del medesimo. Fermo restando che è in facoltà dell’atto costitutivo optare per il sistema di amministrazione dualistico o monistico, l’organizzazione tradizionale interna della cooperativa è suddivisa tra l’assemblea, il consiglio di amministrazione, l’organo di controllo, ed il collegio dei probiviri. Quanto all’organo deliberativo, rileva il principio personalistico del voto capitari dei soci in assemblea: ciascun socio cooperatore persona fisica dispone di un solo voto, qualunque sia il valore della sua quota o il numero delle azioni possedute. Tuttavia, ai soci cooperatori persone giuridiche l’atto costitutivo può attribuire più voti, ma non oltre cinque, in relazione all’ammontare della quota oppure al numero dei loro membri. L’atto costitutivo può prevedere che il voto venga espresso anche per corrispondenza, ovvero mediante altri mezzi di telecomunicazione. Nelle cooperative disciplinate dalle norme sulla società per azioni ciascun socio può rappresentare sino ad un massimo di dieci soci; il socio imprenditore individuale può farsi rappresentare nell’assemblea anche dal coniuge, dai parenti entro il terzo grado, e dagli affini entro il secondo grado che collaborano all’impresa. Degne di menzione, in quanto costituiscono una particolarità tra i tipi sociali previsti, sono le assemblee separate. Queste devono essere obbligatoriamente previste dall’atto costitutivo quando la società cooperativa conta più di tremila soci e svolge la propria attività in più Province ovvero se conta più di cinquecento soci e si realizzano più gestioni mutualistiche; le assemblee separate deliberano sulle stesse materie che formeranno oggetto dell’assemblea generale ed eleggono dei soci-delegati che parteciperanno a quest’ultima; l’assemblea generale, costituita dai delegati designati dalle assemblee separate, delibera definitivamente sulle materie iscritte all’ordine del giorno; le deliberazioni delle assemblee separate non possono essere autonomamente impugnate; le deliberazioni dell’assemblea generale, invece, possono essere impugnate anche dai soci assenti o dissenzienti nelle assemblee separate quando, senza i voti espressi dai delegati delle assemblee separate irregolarmente tenute, verrebbe meno la necessaria maggioranza. La nomina degli amministratori spetta all’assemblea, tranne la nomina dei primi amministratori che, come si è visto, sono nominati nell’atto costitutivo, e la nomina di uno o più amministratori che può essere riservata dall’atto costitutivo allo Stato o ad altro ente pubblico; in ogni caso la nomina della maggioranza degli amministratori è riservata all’assemblea; la maggioranza degli amministratori è scelta tra i soci cooperatori ovvero tra le persone indicate dai soci cooperatori persone giuridiche; l’atto costitutivo può prevedere che uno o più amministratori siano scelti tra gli appartenenti alle diverse categorie dei soci, in proporzione dell’interesse che ciascuna categoria ha nell’attività sociale; in ogni caso, ai possessori di strumenti finanziari non può essere attribuito il diritto di eleggere più di un terzo degli amministratori.

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La nomina del collegio sindacale è obbligatoria se il capitale sociale è superiore a centoventimila euro o se non ricorrono le condizioni stabilite per la redazione del bilancio di esercizio in forma abbreviata ex articolo 2435 bis c.c.; inoltre la nomina del collegio sindacale è obbligatoria se la società emette strumenti finanziari non partecipativi; per la nomina del collegio sindacale l’atto costitutivo può attribuire il diritto di voto, in deroga al principio personalistico del voto capitario valido in assemblea, proporzionalmente alle azioni o quote possedute ovvero in ragione della partecipazione allo scambio mutualistico; lo statuto può inoltre prevedere che i possessori di strumenti finanziari dotati di diritti di amministrazione possono eleggere fino ad un terzo dei componenti dell’organo di controllo. È prassi consolidata la previsione negli statuti delle cooperative di un ulteriore organo sociale: il collegio dei probiviri. A tale organo è affidata la risoluzione di eventuali controversie fra soci o fra soci e società, riguardanti il rapporto sociale o la gestione mutualistica. L’istituzione del collegio dei probiviri ha come finalità, dunque, di evitare che le controversie sociali sfocino in liti da incardinare dinnanzi all’autorità giudiziaria.. Le società cooperative sono sottoposte alla vigilanza dell’autorità governativa, al fine di assicurare il regolare funzionamento amministrativo e contabile delle stesse ed il rispetto delle condizioni richieste per la concessione delle agevolazioni tributarie e creditizie. Eccezion fatta per alcune categorie di cooperative, la vigilanza spetta al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ed è esercitata tramite ispezioni ordinarie, che debbono aver luogo una volta ogni due anni, ed ispezioni straordinarie, disposte ogniqualvolta se ne ravvisi l’opportunità. Le ispezioni ordinarie sono normalmente eseguite dalle associazioni nazionali di rappresentanza, assistenza e tutela del movimento cooperativo legalmente riconosciute. In caso di irregolare funzionamento delle società cooperative, l’autorità di vigilanza governativa può revocare gli amministratori ed i sindaci, ed affidare la gestione della società ad un commissario, determinandone i poteri e la durata. L’autorità di vigilanza, con provvedimento da pubblicarsi nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica e da iscriversi nel registro delle imprese, può sciogliere le società cooperative che non perseguono lo scopo mutualistico o non sono in condizione di raggiungere gli scopi per cui sono state costituite, o che per due anni consecutivi non hanno depositato il bilancio di esercizio o non hanno compiuto atti di gestione; se vi è luogo a liquidazione, con lo stesso provvedimento sono nominati uno o più commissari liquidatori. Le società cooperative sono assoggettate, oltre che al controllo governativo, anche al controllo giudiziario: se vi è il fondato sospetto che gli amministratori, in violazione dei loro doveri, abbiano compiuto gravi irregolarità nella gestione che possono arrecare danno alla società, queste possono essere denunciate al Tribunale dai soci che siano titolari del decimo del capitale sociale ovvero da un decimo del numero complessivo dei soci, e, nelle società cooperative con più di tremila soci, da un ventesimo dei soci; il ricorso deve essere notificato a cura dei soci anche all’autorità di vigilanza governativa; il Tribunale, sentiti in camera di consiglio gli amministratori, i sindaci, e l’autorità di vigilanza, dichiara improcedibile il ricorso se per i medesimi fatti sia stato già nominato un ispettore od un commissario dall’autorità di vigilanza; parimenti, l’autorità di vigilanza dispone la sospensione del procedimento dalla medesima iniziato se il Tribunale per i medesimi fatti ha già nominato un ispettore od un amministratore giudiziario. La società cooperativa si scioglie: per la riduzione del numero dei soci al di sotto del numero minimo di nove o di tre, se questo non viene reintegrato entro un anno; per il decorso del tempo; per il conseguimento dell’oggetto sociale o per la sopravvenuta impossibilità di conseguirlo; per l’impossibilità di funzionamento o per la continuata inattività dell’assemblea; qualora non sia possibile rimborsare la quota del socio receduto ex articoli 2437 quater e 2473 c.c.; per deliberazione dell’assemblea; per altre cause previste dall’atto costitutivo o dallo statuto; per la perdita totale del capitale sociale; per atto dell’autorità di vigilanza governativa e per atto dell’autorità giudiziaria; e per insolvenza. In caso di insolvenza della società, l’autorità governativa alla quale spetta il controllo sulla società

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dispone la liquidazione coatta amministrativa; le cooperative che svolgono attività commerciale sono soggette anche al fallimento; la dichiarazione di fallimento preclude la liquidazione coatta amministrativa ed il provvedimento di liquidazione coatta amministrativa preclude la dichiarazione di fallimento. Infine, come anticipato, in caso di scioglimento della società l’intero patrimonio sociale deve essere devoluto, dedotto il capitale sociale versato e rivalutato ed i dividendi eventualmente maturati, ai fondi mutualistici per la promozione e lo sviluppo della cooperazione. Capitolo XV Altre forme di imprese collettive Per società di fatto si intende quella società in cui due o più persone agiscono concretamente come soci in assenza di un esplicito accordo rivolto a tal fine. La società di fatto si configura sovente come una società di persone, poiché l’esistenza delle società di capitali, come si è detto, è subordinata all’atto formale dell’iscrizione nel registro delle imprese. Alle società di fatto che svolgono o meno attività di carattere commerciale viene applicata la disciplina relativa alle società semplici. Si parla di società occulta quando due o più soggetti decidono di dar vita ad una società convenendo, però, che l’esistenza della stessa non sia rilevabile dall’esterno. In pratica, essi dispongono che nei confronti dei terzi la società appaia come un’impresa individuale e che uno solo dei soci, o addirittura un terzo, si assuma esclusivamente la responsabilità per le obbligazioni assunte, evitando così l’esposizione degli altri soci ai debiti sociali. Qualora i terzi vengano a conoscenza del rapporto sociale occultato, i soci occulti divengono responsabili illimitatamente e solidalmente nei confronti di quelli. La mancata esteriorizzazione della società occulta non impedisce l’estensione del fallimento dell’imprenditore individuale illimitatamente responsabile ai soci occulti. Viceversa, si parla di società apparente quando due o più soggetti, non legati da alcun rapporto societario, si comportano in modo da ingenerare nei terzi la convinzione che essi agiscano in qualità di soci, inducendoli a fare affidamento sull’esistenza della società e sulla responsabilità solidale per le obbligazioni assunte. Anche questa volta, in applicazione dei principi generali della buona fede e del legittimo affidamento, si ritiene comunemente che i soci apparenti, che colposamente o dolosamente hanno posto in essere una situazione difforme dalla realtà, siano responsabili illimitatamente e solidalmente per le obbligazioni assunte. Con il contratto di associazione in partecipazione l’associante attribuisce all’associato una partecipazione agli utili della sua impresa o di uno o più affari verso il corrispettivo di un determinato apporto. La gestione dell’impresa o dell’affare spetta all’associante. L’associante è responsabile dei debiti con tutto il suo patrimonio e non può associare altri all’impresa senza il consenso dei precedenti associati. Salvo patto contrario, l’associato partecipa alle perdite nella stessa misura in cui partecipa agli utili, ma le perdite che colpiscono l’associato non possono superare il valore del suo apporto. Negli ultimi tempi si fa sempre più forte nel mercato la richiesta di una prestazione professionale articolata e complessa, fondata su un’ampia gamma di competenze tecniche e specialistiche. Sotto il profilo strettamente tecnico, l’attività posta in essere da un gruppo di professionisti, pur assumendo carattere economico, in quanto produttiva di servizi, non può essere qualificata come una vera e propria attività imprenditoriale: ciò in quanto nelle società tra professionisti non sarebbe

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riscontrabile una vera organizzazione per l’esercizio della libera professione, poiché la prestazione tecnica offerta è prodotta, essenzialmente se non esclusivamente, dall’intelletto del professionista. Tale considerazione, tuttavia, non pare idonea a precludere la configurabilità di una società tra professionisti per due ordini di motivi: da un lato la lettera dell’articolo 2238 c.c., secondo cui ai professionisti intellettuali si applicano le norme sull’impresa soltanto se l’esercizio della professione costituisce elemento di un’attività organizzata in forma d’impresa; dall’altro l’esistenza nell’ordinamento giuridico italiano di “società senza impresa”. Parrebbe pertanto che non ostino le mal concilianti disposizioni del Codice civile disciplinanti l’esercizio delle professioni intellettuali, in particolare laddove si sancisce il carattere personale dell’attività del prestatore d’opera, e si stabilisce che il compenso deve essere adeguato all’importanza dell’opera ed al decoro della professione. La principale preclusione all’esercizio in forma societaria delle professioni intellettuali era rappresentata dalla legge del 23 novembre 1939, n. 1815, che regolava gli studi di assistenza e consulenza. La cosiddetta “legge Bersani” ha abrogato espressamente l’articolo 2 della summenzionata legge, consentendo l’esercizio delle professioni intellettuali in forma societaria e demandando ad un regolamento interministeriale l’attuazione pratica del nuovo fenomeno. Sono così nate le società di engineering, che operano anche nell’ambito dei lavori pubblici, le società di revisione contabile, etc. Si deve registrare che il decreto legislativo del 2 febbraio 2001, n. 96, in attuazione della direttiva comunitaria 98/5/CE, ha reso costituibili nell’ordinamento giuridico italiano le società tra avvocati nella forma di società in nome collettivo. Come già anticipato, la società tra avvocati è iscritta in una sezione speciale, relativa alle società tra professionisti, del registro delle imprese tenuto dalle Camere di commercio, e l’iscrizione ha funzione di certificazione anagrafica e di pubblicità-notizia. La società tra avvocati è costituita con atto pubblico o scrittura privata con sottoscrizioni autenticate dei contraenti, ed è iscritta inoltre in una sezione speciale dell’albo del Consiglio dell’ordine nella cui circoscrizione è posta la sede legale. La società tra avvocati agisce sotto la ragione sociale costituita dal nome e dal titolo professionale di tutti i soci ovvero di uno o più soci, seguito dalla locuzione “ed altri”, e deve contenere l’acronimo “s.t.p.” di società tra professionisti. L’amministrazione della società tra avvocati spetta ai soci e non può essere affidata a terzi; salvo diversa pattuizione, l’amministrazione della società spetta a ciascuno dei soci disgiuntamente dagli altri. L’incarico professionale è conferito alla società, e non ai soci; il cliente, tuttavia, ha il diritto di chiedere che l’esecuzione dell’incarico sia affidata ad uno o più soci da lui scelti; in difetto di scelta, prima dell’inizio dell’esecuzione del mandato, la società comunica al cliente il nome del socio o dei soci incaricati. I compensi derivanti dall’attività professionale dei soci costituiscono crediti della società, e non dei soci. Particolarmente originale è la disciplina dei debiti, in quanto si distingue tra responsabilità professionale e responsabilità sociale. Delle obbligazioni derivanti dall’attività professionale sono responsabili personalmente ed illimitatamente soltanto il socio o i soci incaricati dell’esecuzione dell’incarico, mentre la società risponde con il suo patrimonio; se però la società non ha comunicato al cliente il nome del socio o dei soci incaricati, responsabili sono tutti i soci. Per le obbligazioni sociali non derivanti dall’attività professionale opera, invece, la disciplina propria delle società collettive, per cui di tali obbligazioni, oltre alla società, rispondono personalmente e solidalmente tutti i soci; il patto contrario non ha effetto nei confronti dei terzi.

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In caso di insolvenza, la società tra avvocati non è soggetta a fallimento. Infine si deve ricordare il gruppo europeo di interesse economico e la società europea, entrambi istituti di derivazione comunitaria. Il gruppo europeo di interesse economico, introdotto e disciplinato a livello comunitario dal regolamento 2137/85/CEE ed entrato in vigore in tutti i Paesi della Comunità europea in data 1° luglio 1989, è assimilabile all’istituto dell’ordinamento giuridico italiano del consorzio: invero il fine del g.e.i.e. è quello di agevolare o sviluppare l’attività economica dei suoi membri, e di migliorare o di aumentare i risultati della loro attività. Per tale ragione il “gruppo” non ha tra i suoi scopi la realizzazione di profitti per sé stesso. Il gruppo europeo di interesse economico non può: esercitare, direttamente od indirettamente, il potere di direzione o di controllo delle attività dei partecipanti; detenere, direttamente od indirettamente, a qualsiasi titolo, partecipazioni in un’impresa-membro; avere più di cinquecento dipendenti; essere utilizzato da una società per concedere un prestito ad un dirigente della società; essere membro di un altro gruppo europeo di interesse economico. Il g.e.i.e. è dotato di soggettività giuridica, mentre per quanto riguarda l’ulteriore qualifica di persona giuridica viene riconosciuta ampia facoltà agli Stati membri di attribuirla o meno. Possono ricorrere al g.e.i.e. tanto le persone fisiche quanto le persone giuridiche; perché il g.e.i.e. possa essere costituito è necessario che vi partecipino almeno due soggetti appartenenti a Stati membri diversi. Il g.e.i.e. è stato utilizzato in una vastissima serie di situazioni: dalla banca dati per imprenditori di un determinato settore allo scopo di raccogliere e distribuire informazioni circa bandi, gare d’appalto, facilitazioni ed aiuti comunitari, al centro servizi comune a più imprenditori o a più professionisti, dal centro di ricerca e documentazione per imprenditori pubblici e privati al centro di coordinamento tra enti regionali o soggetti privati in vista della realizzazione di un’opera o di un progetto di interesse comune, dal centro di coordinamento tra più studi legali che esercitano attività di consulenza giuridica o fiscale o tributaria a livello internazionale al centro studi di interesse comune a soggetti, persone fisiche o giuridiche, in qualunque settore, etc. Di contro la società europea, introdotta e disciplinata dal regolamento 2157/01/CE e dalla direttiva 01/86/CE, non può essere costituita da persone fisiche ma soltanto da persone giuridiche. L’obiettivo che si vuole raggiungere questa volta è quello di creare una società dotata di un proprio statuto giuridico, per permettere a società di Stati membri diversi di fondersi, di formare una holding o una filiale comune senza dover sottostare ai vincoli giuridici e pratici derivanti da ordinamenti giuridici differenti. Si premette che il regime della società europea rimane opzionale ed alternativo rispetto a quello nazionale applicabile ad una società per azioni dello Stato membro in cui la società ha la propria sede legale. La società europea è una società per azioni dotata di personalità giuridica; per la sua costituzione è necessario che almeno due società per azioni abbiano la loro sede legale in Stati membri diversi; il capitale minimo sottoscritto non può essere inferiore a centoventimila euro; nella denominazione sociale deve comparire l’indicazione società europea o l’acronimo “s.e.”; l’iscrizione, la liquidazione, e la cancellazione sono atti soggetti a pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea; la sede sociale della società europea deve essere situata all’interno della Comunità. Sono organi della società europea: l’assemblea generale degli azionisti, il consiglio di gestione ed il consiglio di sorveglianza, oppure alternativamente l’assemblea generale degli azionisti ed il consiglio di amministrazione. I sistemi “dualistico” e “monistico” rappresentano, pertanto, gli unici sistemi di amministrazione e di controllo previsti.

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Capitolo XVI I contratti dell’imprenditore 1. Rappresentanza, procura e mandato Si premette che l’articolo 1321 c.c. stabilisce che “il contratto è l’accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale”. Se l’attività giuridica ed economica dovesse essere compiuta esclusivamente e personalmente dal soggetto interessato, grave sarebbe l’intralcio che verrebbe arrecato alle relazioni giuridiche ed economiche. La rappresentanza è l’istituto per cui ad un soggetto, detto rappresentante, è attribuito, dalla legge o dall’interessato, un apposito potere di sostituirsi ad un altro soggetto, detto rappresentato, nel compimento di attività giuridica per conto di quest’ultimo e con effetti diretti nella sua sfera giuridica. Questo potere può derivare dalla legge, e si parlerà di rappresentanza legale, o essere conferito dal soggetto interessato, ed allora si parlerà di rappresentanza volontaria. Volendosi trattare della sola rappresentanza volontaria, il negozio giuridico con il quale una persona conferisce ad un’altra il potere di rappresentarla si definisce procura. Pertanto, il rappresentante volontario si chiama procuratore. Funzione della procura è quella di rendere noto ai terzi, con i quali il rappresentante volontario dovrà venire in contatto per assolvere l’incarico, che questi è autorizzato dal rappresentato a trattare in nome del rappresentante. La procura, che consiste in un atto unilaterale, deve essere tenuta distinta dal rapporto interno tra rappresentante e rappresentato: questo rapporto interno, cosiddetto “rapporto di gestione”, può derivare da un contratto di mandato, da un contratto di lavoro, da un contratto di società, etc. Pertanto, la procura si può definire come negozio unilaterale ed a rilevanza esterna. Unilaterale perché per la sua efficacia non occorre l’accettazione del procuratore; a rilevanza esterna perché incide sui rapporti esterni tra il rappresentato ed i terzi. Inoltre la procura è un atto recettizio e preparatorio. Può essere espressa o tacita, generale o generica o speciale, revocabile od irrevocabile. La procura deve essere conferita con la stessa forma prescritta per il negozio giuridico che il rappresentante deve concludere. Procura e mandato, perciò, non sono sinonimi indicanti il medesimo istituito giuridico: non solo la procura può essere rilasciata in esecuzione di un negozio diverso dal mandato, ma il mandato può essere accompagnato o meno da una procura e può quindi essere con o senza rappresentanza. Il mandato è il contratto col quale una parte, detta mandatario, si obbliga a compiere uno o più atti giuridici per conto dell’altra, detta mandante. Di solito tali atti giuridici sono contratti.. Proprio la natura dell’attività che forma oggetto dell’obbligazione del mandatario, la quale consiste nel compimento di atti giuridici, consente di distinguere il contratto di mandato dal contratto d’opera, dal contratto di appalto, dal contratto di trasporto, o dal contratto di lavoro subordinato, etc. Come anticipato, il mandato può essere con rappresentanza o senza rappresentanza. Se il mandato è con rappresentanza, cioè al mandatario è stata conferita altresì una procura, gli effetti giuridici degli atti compiuti dal mandatario in nome del mandante si verificano direttamente in capo al mandante. Perciò se il mandatario compra un bene determinato, la proprietà del bene viene acquistata dal mandante, il quale è obbligato a versare il prezzo al venditore. Se il mandato è senza rappresentanza, il mandatario compie gli atti giuridici soltanto per conto del mandante ma in nome proprio. I terzi non entrano in rapporto con il mandante, anche se sanno dell’esistenza del mandato, e che quindi il mandatario agisce nell’interesse del mandante. Perciò se

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il mandatario compra un bene immobile, ne acquista la proprietà; ha poi l’obbligo, in virtù del mandato ricevuto, di trasferire il diritto acquistato al mandante con un successivo negozio. Il contratto di mandato può essere concluso in qualsiasi forma. Però se il mandato, anche quello senza rappresentanza, ha per oggetto l’acquisto o l’alienazione di beni immobili, esso deve essere stipulato per iscritto a pena di nullità. Il mandato si presume oneroso. 2. I contratti tipici I contratti tipici sono quelli disciplinati specificamente dal legislatore. Il contratto preliminare è quel contratto col quale le parti si obbligano a stipulare un successivo contratto definitivo, di cui, peraltro, devono avere già determinato nel preliminare il contenuto essenziale. Il contratto preliminare è destinato a soddisfare particolari esigenze. Spesso può accadere che le parti siano d’accordo su un certo scambio e che intendano vincolarsi reciprocamente ad attuarlo, ma preferiscano rinviarne la realizzazione in un tempo futuro. Onde l’opportunità di vincolarsi con un contratto preliminare, che ancora non produce gli effetti programmati, ma che già obbliga le parti a stipulare un futuro contratto definitivo, che produrrà al momento prestabilito tutti gli effetti che fin d’ora sono stati fissati. Qualora una parte sia inadempiente all’obbligo della stipulazione del contratto definitivo, l’altra parte ha la facoltà di ottenere, ove lo voglia, qualora sia possibile e non sia escluso dal titolo, una sentenza che produca gli stessi effetti del contratto non concluso. Poiché mediante il processo e la sentenza costitutiva si giunge, sulla base del contratto preliminare, allo stesso risultato a cui si sarebbe pervenuti con il contratto definitivo, si spiega la regola per cui il contratto preliminare deve essere fatto, a pena di nullità, nella stessa forma che la legge prescrive per il contratto definitivo. La vendita è il contratto che ha per oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa o il trasferimento di un altro diritto verso il corrispettivo di un prezzo. Il prezzo è la somma di denaro pagata dall’acquirente al venditore come corrispettivo del diritto trasferito sul bene. La permuta è il contratto che ha per oggetto il reciproco trasferimento della proprietà di cose, o di altri diritti, da un contraente ad un altro. Con il contratto estimatorio una parte, detta fornitore, consegna una o più cose mobili ad un’altra, detta ricevente, e questa si obbliga a pagare il prezzo, salvo che restituisca le cose nel termine stabilito. Il contratto estimatorio viene impiegato nel commercio di quegli oggetti la cui vendita risulta particolarmente difficile ed aleatoria. Il ricevente si obbliga a pagare al fornitore il prezzo di stima dell’oggetto, donde la denominazione del contratto, ma ha la facoltà di liberarsi da quell’obbligo restituendogli integra la cosa nel termine stabilito dal contratto. Se la cosa perisce, anche per caso fortuito, nelle mani del ricevente, o se questi lascia trascorrere il termine senza restituirla, deve pagare il prezzo. Il ricevente rivende, di solito, la cosa ad un prezzo maggiore, a meno che nel contratto non sia stabilito il contrario. La proprietà della cosa non passa al ricevente fino a quando questi non ne abbia pagato il prezzo. La facoltà di disposizione, però, spetta al ricevente, il quale sopporta il rischio dell’impossibilità della restituzione. Pertanto, si assiste ad una divaricazione tra proprietà e potere di disposizione della cosa. La somministrazione è il contratto con il quale una parte si obbliga, verso corrispettivo di un prezzo, ad eseguire, a favore di un’altra, prestazioni periodiche o continuative di cose. Poiché la somministrazione ha per oggetto l’esecuzione di prestazioni periodiche o continuative di cose, ne deriva che nel caso di prestazioni, anche se periodiche o continuative, di servizi non si ha un contratto di somministrazione, bensì un contratto di prestazione d’opera, la cosidderra “locatio

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operae”, ovvero di appalto, la cosiddetta “locatio operarum”. La locazione è il contratto col quale una parte, detta locatore, si obbliga a far godere ad un’altra, detta conduttore, una cosa mobile o immobile per un dato tempo verso un determinato corrispettivo. Quando la locazione ha per oggetto il godimento di una cosa produttiva, mobile o immobile, l’affittuario deve curarne la gestione in conformità della destinazione economica della cosa e dell’interesse della produzione. A lui spettano i frutti e le altre utilità della cosa. Trattasi del contratto di affitto. Il locatore può chiedere la risoluzione del contratto se l’affittuario non destina al servizio della cosa i mezzi necessari per la gestione di essa, se non osserva le regole della buona tecnica, ovvero se muta stabilmente la destinazione economica della cosa. L’appalto è il contratto col quale una parte, detta appaltatore, si obbliga, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, nei confronti di un’altra, detta committente, al compimento di un’opera o di un servizio verso un corrispettivo in danaro. Con il contratto di subfornitura un imprenditore si impegna, verso il corrispettivo di un prezzo, a compiere, per conto di un’impresa committente, lavorazioni su prodotti semilavorati o su materie prime fornite dallo stesso committente, ovvero si impegna a fornire all’impresa prodotti o servizi destinati ad essere incorporati o comunque ad essere utilizzati nell’ambito dell’attività economica del committente o nella produzione di un bene complesso. Col contratto di trasporto il vettore si obbliga, verso corrispettivo, a trasferire persone o cose da un luogo ad un altro. La normativa relativa al contratto di trasporto si differenzia a seconda che si tratti di trasporto di persone o di cose. La stipulazione del contratto di trasporto di persone è accompagnata dalla consegna al viaggiatore di un biglietto di viaggio, nel quale il contratto stesso è documentato. Il biglietto di viaggio non è un titolo di credito, ma costituisce un documento di legittimazione: l’esibizione del biglietto è necessaria per esigere la prestazione del trasporto. La responsabilità del vettore è più gravosa nel trasporto di persone piuttosto che in quello di cose. Il contratto di commissione è un mandato senza rappresentanza che ha per oggetto l’acquisto o la vendita di beni per conto del committente ed in nome del commissionario. Al commissionario spetta una provvigione. Il contratto di spedizione è un mandato senza rappresentanza col quale lo spedizioniere assume l’obbligo di concludere verso corrispettivo, in nome proprio e per conto del mandante, un contratto di trasporto e di compiere le operazioni accessorie. Col contratto di agenzia una parte, detta agente, assume stabilmente l’incarico di promuovere, per conto di un’altra, detta preponente, verso retribuzione, la conclusione di contratti in una zona determinata. L’agente può svolgere la sua attività o in qualità di imprenditore commerciale o come collaboratore subordinato del preponente. Il preponente può conferire all’agente speciali poteri rappresentativi, in modo da consentirgli anche di concludere e perfezionare quei contratti di cui è stato promotore. In tal caso si avrà la figura dell’agente con rappresentanza o rappresentante di commercio. È mediatore colui che mette in relazione due o più parti per la conclusione di un affare, senza essere legato ad alcuna di esse da rapporti di collaborazione, di dipendenza o di rappresentanza. Il mediatore ha diritto alla provvigione da ciascuna delle parti, se l’affare è concluso per effetto del suo intervento. Il deposito è il contratto col quale una parte riceve dall’altra una cosa mobile con l’obbligo di custodirla e restituirla in natura. Il deposito si presume gratuito, salvo che dalla qualità professionale del depositario o da altre circostanze si debba desumere una diversa volontà delle parti. Il depositario deve usare nella custodia la diligenza del buon padre di famiglia.

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Il sequestro convenzionale è il contratto col quale due o più persone affidano ad un terzo una cosa o una pluralità di cose, rispetto alla quale sia nata tra esse una controversia, perché la custodisca e la restituisca a quella a cui spetterà quando la controversia sarà definita. Il sequestratario ha diritto al compenso, se non si è pattuito diversamente, ed al rimborso delle spese e di ogni altra erogazione fatta per la conservazione e per l’amministrazione della cosa. Il comodato è il contratto col quale una parte, detta comodante, consegna ad un’altra, detta comodatario, una cosa mobile o immobile, affinché se ne serva per un tempo o per un uso determinato, con l’obbligo di restituire la stessa cosa ricevuta. Il comodato è essenzialmente gratuito. Il mutuo è il contratto col quale una parte, detta mutuante, consegna ad un’altra, detta mutuatario, una determinata quantità di danaro o di altre cose fungibili, e l’altra si obbliga a restituire altrettante cose della stessa specie o qualità. Le cose date a mutuo passano in proprietà del mutuatario. Salvo diversa volontà delle parti, il mutuatario deve corrispondere gli interessi al mutuante. Con il contratto di conto corrente le parti, di solito due imprenditori, si obbligano ad annotare in un conto i crediti derivanti da reciproche rimesse, considerandoli inesigibili ed indisponibili fino alla chiusura del conto. Con il contratto di deposito di danaro, il cliente trasferisce alla banca la proprietà di una somma di danaro e la banca si obbliga a restituirla alla scadenza del termine convenuto ovvero a richiesta del depositante, con l’osservanza del periodo di preavviso stabilito dalle parti o dagli usi. Trattandosi di un contratto passivo per la banca, questa si obbliga, inoltre, a corrispondere al depositante un interesse sulla somma depositata. Il deposito in conto corrente è un particolare contratto di deposito bancario mediante il quale il correntista può depositare più somme in momenti diversi, mediante dei versamenti, e richiedere più volte la restituzione delle somme depositate, mediante dei prelevamenti. Anche il deposito in conto corrente costituisce un’operazione passiva per la banca. L’apertura di credito bancario è il contratto col quale la banca, ricevendo in compenso un interesse, si obbliga a tenere a disposizione dell’altra parte, detta accreditato, una somma di danaro per un dato periodo di tempo o a tempo indeterminato. Ricorre, sovente, al contratto di apertura di credito bancario il soggetto che voglia assicurarsi la disponibilità di una somma, ma che ignori se ne avrà bisogno, se avrà bisogno di tutta la somma o di parte di essa, o quando ne avrà bisogno. Con il contratto di anticipazione bancaria, la banca dà o pone a disposizione del cliente una somma di danaro dietro garanzia di merci o di titoli dati in pegno. Possono costituire oggetto di pegno soltanto le merci o i titoli aventi un prezzo corrente agevolmente individuabile. La banca, oltre al corrispettivo dovutole, ha diritto al rimborso delle spese occorse per la custodia delle merci o dei titoli. Un altro contratto attivo per la banca è il contratto di sconto bancario. La banca, previa deduzione di un interesse, detto sconto, anticipa salvo buon fine al cliente, detto scontatario, l’importo del credito nei confronti di terzi che questi le cede. Se la banca non riesce ad esigere il credito dal debitore ceduto, essa può rivalersi sullo scontatario. Al contratto di sconto bancario sogliono fare di solito ricorso gli imprenditori commerciali, i quali sempre di più fanno credito ai propri clienti. In questo modo possono realizzare in tempi più brevi gli importi di detti crediti, sostenendo dei sopportabili costi pari agli interessi passivi. Evidentemente l’interesse, che la banca detrae dall’importo del credito, è proporzionale al tempo che intercorre tra il momento dello sconto ed il momento di scadenza del credito ceduto. L’assicurazione è il contratto col quale l’assicuratore, verso il pagamento di una somma di danaro, detta premio, si obbliga a risarcire l’assicurato, entro i limiti convenuti, del danno a questi prodotto da un evento dannoso, detto sinistro, ovvero a pagare un capitale o una rendita al verificarsi di un evento attinente alla vita umana. Pertanto, si distingue tra assicurazione contro i danni ed assicurazione sulla vita.

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Mentre la gestione delle assicurazioni obbligatorie, per la loro spiccata rilevanza nel campo della sicurezza sociale, è affidata ad appositi enti pubblici, la conclusione in serie di contratti di assicurazioni volontarie avviene ad opera di imprese commerciali di grande dimensione. Il legislatore ha disposto che l’impresa di assicurazione possa essere esercitata, oltre che da enti pubblici, soltanto da società per azioni o da cooperative e mutue assicuratrici. Data la loro funzione, le imprese assicuratrici raccolgono ed impiegano ingenti capitali, onde è interesse generale della collettività assicurare il loro buon andamento. Sono così sottoposte al controllo di un ente pubblico, l’Istituto per la Vigilanza sulle Assicurazioni Private e di Interesse Collettivo, che svolge funzioni di vigilanza per controllare la sana e prudente gestione delle imprese di assicurazione, nonché la correttezza e trasparenza dei loro comportamenti. Con decreto legislativo del 7 settembre 2005, n. 209, è stato varato il codice delle assicurazioni private: si tratta di un testo unico di riordino di tutta la disciplina del settore assicurativo. Rispondendo alle pressanti istanze provenienti dal mondo dell’impresa, indotte dalla crescente importanza del fenomeno, il franchising ha finalmente trovato una propria regolamentazione nell’ordinamento giuridico italiano con la legge del 6 maggio 2004, n. 129, recante “norme per la disciplina dell’affiliazione commerciale”. In precedenza, in assenza di una normativa civilistica ad hoc, il franchising veniva configurato quale contratto atipico. L’affiliazione commerciale è quel contratto tra due soggetti giuridici, economicamente e giuridicamente indipendenti, in base al quale una parte, detta affiliante, concede ad un’altra, detta affiliato, la disponibilità, verso corrispettivo, di un insieme di diritti di proprietà industriale o intellettuale relativi a marchi, denominazioni commerciali, insegne, modelli di utilità, disegni, diritti d’autore, know-how, brevetti, assistenza o consulenza tecnica e commerciale, inserendo l’affiliato in un sistema costituito da una pluralità di affiliati distribuiti sul territorio, allo scopo di commercializzare determinati beni o servizi..  3.  I  contratti  atipici   Un principio fondamentale in materia di contratti è il principio di autonomia contrattuale. In forza di tale principio, si riconosce alle parti la facoltà di potere liberamente determinare il contenuto del contratto entro i limiti imposti dalla legge. Inoltre, si riconosce alle parti la facoltà di potere concludere contratti che non appartengono ai tipi aventi una disciplina particolare, purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico: tali contratti sono comunemente definiti “atipici”. Il leasing è il contratto con il quale una parte, detta concedente, concede ad un’altra, detta utilizzatore, per un tempo determinato, il godimento di un bene mobile o immobile verso un corrispettivo rateale ed offrendo all’utilizzatore, alla scadenza del contratto, o la possibilità di restituire il bene concessogli in locazione, o la possibilità di chiedere ed ottenere la rinnovazione, detta proroga, del contratto versando un canone notevolmente ridotto, o la possibilità di esercitare l’opzione di acquisto mediante il versamento del prezzo residuo, o la possibilità di richiedere la sostituzione del bene con un altro bene. Il catering è il contratto con cui una parte si obbliga, verso il corrispettivo di un prezzo, ad approvvigionare un’altra parte di pasti pronti per essere consumati. Tale contratto ha avuto una larga diffusione specialmente nel trasporto aereo, in quanto la limitata disponibilità di spazio a bordo comporta per i vettori aerei la necessità di fornirsi di pasti precotti. Il contratto atipico di catering contiene aspetti tipici sia del contratto di somministrazione che di quello d’appalto.

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Capitolo XVII Le banche e la funzione creditizia Un’azienda, sia nella fase di costituzione che in quella di funzionamento, ha necessità di disporre di mezzi finanziari da investire nell’acquisizione dei fattori produttivi. Tali mezzi possono essere acquisiti o con l’apporto di capitale proprio o ricorrendo al capitale di terzi, siano questi gli istituti di credito, gli obbligazionisti o gli stessi fornitori che sovente concedono agli imprenditori dilazioni nei pagamenti. L’attività bancaria consiste principalmente nella funzione di intermediazione nella circolazione dei capitali, e cioè nell’esercizio congiunto della raccolta del risparmio tra il pubblico e dell’attività di concessione di crediti. Per la sua rilevanza sociale l’attività bancaria ha rilevanza costituzionale. Invero, l’articolo 47 Cost. afferma che lo Stato incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme, e che disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito. L’attività bancaria e creditizia è regolata dal testo unico emanato con decreto legislativo del 1° settembre 1993, n. 385. L’esercizio dell’attività bancaria è riservato soltanto alle banche. Le banche devono avere la forma o di società per azioni ovvero di società cooperative per azioni. Hanno forma di società cooperative le banche popolari e le banche di credito cooperativo. Le banche di credito cooperativo, già casse rurali ed artigiane, esercitano l’attività bancaria prevalentemente in favore dei soci, e sono perciò considerate cooperative a mutualità prevalente. Perché possano legittimamente esercitare l’attività bancaria in Italia e negli altri Paesi dell’Unione europea, le banche aventi sede legale in Italia devono ottenere un’autorizzazione amministrativa dalla Banca d’Italia, ed essere iscritte in un apposito albo tenuto dalla stessa. Alla Banca d’Italia è riconosciuto un ruolo centrale nella vigilanza e nel controllo sulla regolarità della gestione delle banche, a garanzia della loro solvibilità e redditività, con conseguente tutela dell’interesse del pubblico dei risparmiatori alla restituzione dei capitali affidati al sistema bancario. Le banche solitamente si procurano le somme necessarie per l’erogazione del credito attraverso i depositi di denaro dei risparmiatori ovvero mediante l’emissione di titoli con obbligo di rimborso. I contratti con cui le banche esercitano la funzione di intermediazione nella circolazione dei capitali possono essere distinti in due grandi categorie. In un prima categoria si sogliono collocare i contratti che costituiscono operazioni passive, perché mediante gli stessi la banca diventa debitrice dei suoi clienti, cioè riceve credito dai risparmiatori: ad esempio i contratti di deposito di danaro e di deposito in conto corrente. In una seconda categoria si sogliono collocare i contratti costituenti operazioni attive, perché mediante gli stessi la banca diventa creditrice dei suoi clienti, cioè fa credito a questi: ad esempio i contratti di apertura di credito, di anticipazione bancaria, di sconto. Oltre alla funzione creditizia delle banche, rilevantissima a livello economico-sociale in quanto la loro presenza stimola la formazione del risparmio e consente l’utilizzo di detto risparmio verso attività produttive che favoriscono lo sviluppo dell’intero sistema economico, gli istituti di credito svolgono anche altre funzioni. Le banche sono il cardine del sistema dei pagamenti, che vengono effettuati soprattutto attraverso la moneta bancaria, rappresentata dagli assegni, dalle carte di credito, etc. Trattasi della funzione monetaria delle banche. Inoltre, le banche, mediante le operazioni di credito, agiscono di fatto sul processo di produzione della ricchezza nazionale e, con la variazione dei tassi applicati, possono influire sulla massa monetaria in circolazione. Trattasi della funzione di politica economica delle banche.

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Capitolo XVIII I titoli di credito La cambiale e l’assegno 1. I titoli di credito e la regola “possesso di buona fede vale titolo” Per comprendere la funzione dei titoli di credito e apprenderne la disciplina, è opportuno ricordare alcune nozioni elementari di ordine economico e giuridico. Dal punto di vista economico, è noto che l’economia moderna si fonda largamente sul credito. La maggior parte dei produttori, infatti, per potere collocare il maggior numero di beni prodotti, li vendono a credito; a loro volta, gli stessi produttori hanno bisogno di ricostituire i loro capitali in moneta, per potere riprendere il ciclo di produzione; questi in tanto possono vendere a credito i prodotti, in quanto riescono a cedere ad altri, di solito le banche, i crediti verso la clientela. In linea generale può affermarsi che chi ha bisogno di credito l’ottiene tanto più facilmente quanto più il creditore è sicuro di potere, sempre che lo voglia, cedere ad altri il suo credito e realizzarne così il valore in denaro. Dal punto di vista giuridico, pertanto, è emersa l’esigenza di predisporre una disciplina normativa che renda agevole la cessione e quindi la circolazione dei crediti, consentendone il trasferimento nel modo più rapido e sicuro possibile, al fine di realizzare appieno la suddetta funzione economica. Tuttavia occorre riconoscere che la disciplina elaborata nel Codice civile per consentire la cessione ordinaria dei diritti di credito non ne ha assicurato una circolazione né sufficientemente rapida né sufficientemente sicura. La circolazione dei crediti non è sufficientemente rapida a causa delle particolari formalità civilistiche: invero, con la stipulazione del contratto di trasferimento del credito, colui che lo acquista, detto cessionario, acquista il credito soltanto nei confronti di colui che glielo trasferisce, detto cedente. Per acquistare il credito anche nei confronti del debitore ceduto o dei terzi, occorre che il debitore abbia accettato l’avvenuto trasferimento o che questo gli sia stato notificato dal cessionario. La disciplina ordinaria della cessione dei crediti non è neppure sufficientemente sicura, a causa dei gravi rischi a cui va incontro il cessionario. Per indicare detti rischi bisogna cominciare col considerare che la maggior parte dei crediti oggetto di trasferimento ha origine da un contratto: perciò il contenuto del diritto di credito, ad esempio l’ammontare e la scadenza, dipende dalle clausole del contratto. Un primo rischio che corre il cessionario consiste nella possibilità che il cedente gli riferisca inesattamente le clausole del contratto: rischio che però può essere superato se il contratto è stato documentato per iscritto, specie se per atto pubblico. Ma esiste un secondo rischio non superabile: è possibile che con un accordo successivo tra cedente e debitore ceduto siano state modificate le clausole originarie del contratto, onde il cessionario ne subirà le conseguenze. Esiste ancora un terzo rischio: se il contratto, da cui ha origine il credito, è un contratto con prestazioni corrispettive, questo può essere soggetto a risoluzione ovvero a rescissione, con la conseguenza che la risoluzione e la rescissione fanno venire meno il contratto ceduto. Quarto: vi è ancora il rischio che lo stesso credito venga ceduto dal titolare a più persone: in questo caso il cessionario, anche se la sua cessione è stata anteriore, non prevale, anzi soccombe, nei confronti del cessionario successivo che abbia provveduto a notificare per primo l’atto di cessione al debitore o ne abbia ricevuto l’accettazione con atto di data certa. Vi è, infine, un ultimo rischio: anche se il cessionario ha acquistato validamente ed efficacemente il credito, corre sempre il pericolo che il debitore ceduto non sia in condizioni patrimoniali tali da poter adempiere la

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propria obbligazione: e se il cedente, che quando la cessione è a titolo oneroso risponde solo dell’esistenza del credito, non ha assunto con un patto espresso la garanzia della solvibilità del debitore, il cessionario non potrà agire contro di lui neppure per ottenere la restituzione di quanto gli ha dato in corrispettivo della cessione. La via per assicurare ai crediti, invece, una veicolazione spedita e sicura è quella di renderli normativamente simili ai beni mobili, in modo da applicare loro l’analoga disciplina circolatoria. Si rammenta che per i beni mobili vale la regola “possesso di buona fede vale titolo”, espressa dall’articolo 1153 c.c. Secondo tale principio, colui al quale sono alienati beni mobili da parte di chi non ne è proprietario, ne acquista la proprietà mediante il possesso, purché sia in buona fede al momento della consegna e sussista un titolo idoneo al trasferimento della proprietà. La proprietà si acquista libera da diritti altrui sulla cosa, se questi non risultano dal titolo e vi è la buona fede dell’acquirente. Inoltre, secondo la lettera dell’articolo 1155 c.c., se taluno con successivi contratti aliena a più persone un bene mobile, quella tra esse che ne ha acquistato in buona fede il possesso è preferita alle altre, anche se il suo titolo è di data posteriore. Il risultato è stato realizzato mediante i titoli di credito, cioè mediante particolari documenti sottoscritti dal debitore in cui questi dichiara di obbligarsi a compiere una determinata prestazione nei confronti di chiunque si trovi alla scadenza in possesso del documento stesso. Si è ottenuta così la materializzazione del diritto di credito nel documento, detta incorporazione o cartolarizzazione, con la conseguenza che esso, identificandosi nel documento da cui risulta, diventa suscettibile di possesso analogamente a quanto si verifica per i beni mobili.. 2. Le caratteristiche dei titoli di credito La letteralità, l’autonomia, e l’astrattezza sono le caratteristiche dei titoli di credito. Letteralità del diritto cartolare significa che il debitore che ha assunto un’obbligazione cartolare deve compiere la prestazione esattamente indicata nel titolo, cioè quale risulta secondo i termini letterali delle clausole contenute nel documento, e quindi senza potersi richiamare ad accordi successivi che modifichino detto contenuto, a meno che questi accordi non siano intercorsi proprio con l’attuale titolare del credito cartolare. Autonomia significa che il titolare del credito è immune dalle eccezioni derivanti dal rapporto sottostante tra il cedente ed il debitore ceduto. Per rapporto sottostante, o rapporto fondamentale, si intende il rapporto giuridico che è alla base e che quindi ha dato luogo all’emissione del titolo di credito. Autonomia significa, pertanto, che il titolare del credito acquista un diritto come se fosse nuovo, cioè un diritto autonomo ed originario rispetto a quello che aveva il precedente titolare. Ne deriva che il debitore non può opporre all’attuale possessore le eccezioni opponibili al proprio creditore. Astrattezza significa che il titolo di credito non contiene menzione della causa per la quale è stato emesso. Causa che sovente consiste in un pagamento differito, in una somma presa a mutuo, etc. 3. Il trasferimento dei titoli di credito Per trasferire il titolo di credito, e quindi per trasferire il credito cartolare nei confronti del debitore o di terzi, è sufficiente fare diventare l’acquirente del credito portatore legittimo del titolo. In relazione al regime di circolazione del titolo si distingue tra titoli al portatore, titoli all’ordine, e titoli nominativi. Presupposto comune e necessario per il trasferimento di tutti i titoli è cha avvenga la trasmissione del possesso del documento. Nei titoli al portatore è sufficiente essere possessori del titolo per esserne portatori legittimi. In seguito alla trasmissione del possesso mediante la consegna del titolo, al portatore del titolo si trasferisce anche la legittimazione a pretendere dal debitore la prestazione indicata nel titolo mercé la semplice presentazione del titolo stesso. Nei titoli all’ordine per essere portatori legittimi del titolo, oltre il possesso, è necessaria una serie continua di girate. Per girata si intende una dichiarazione, scritta sul titolo e sottoscritta, con cui

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l’attuale portatore legittimo del titolo, detto girante, ordina al debitore di adempiere nei confronti di un altro soggetto, detto giratario. Perché si diventi portatore legittimo di un titolo nominativo è necessario, oltre al possesso dello stesso, che l’emittente annoti il nome dell’acquirente sul titolo e sul suo registro. Pertanto, se un possessore di un credito cartolare subisce il furto o la distruzione del titolo di credito, ha perso la legittimazione ad ottenere la prestazione indicata nel titolo stesso; né può trasferire ad altri il suo credito. L’ammortamento è la procedura che il possessore di un titolo di credito all’ordine o di un titolo nominativo può esperire nel caso in cui il titolo sia stato smarrito, sottratto o distrutto. Il procedimento è diretto a far dichiarare l’inefficacia del titolo di credito ed a consentire l’esercizio dei diritti cartolari indipendentemente dal possesso dello stesso. L’ammortamento si svolge innanzi al Tribunale del luogo ove il titolo doveva essere pagato. Il decreto di ammortamento pronunciato dal Tribunale ha un duplice effetto: da una parte autorizza colui che ha presentato ricorso a farsi rilasciare dal debitore un duplicato del titolo; dall’altra rende totalmente inefficace il titolo smarrito, sottratto o distrutto, di modo che il debitore sarà legittimamente autorizzato a rifiutare il pagamento del titolo eventualmente ancora in circolazione a chiunque ne sia venuto in possesso. L’ammortamento, invece, non è ammesso per i titoli al portatore, che per tal ragione offrono minore sicurezza rispetto a quelli all’ordine ed a quelli nominativi. Invero, dato che i titoli al portatore si trasferiscono con la sola consegna del titolo, cioè immettendo nel possesso il creditore, per gli stessi opera appieno il principio “possesso di buona fede vale titolo”, che regolamenta, come si è detto, la circolazione dei beni mobili. Pertanto, colui che in buona fede, ritenendo cioè che il portatore legittimo del titolo abbia effettivamente il potere di disporre del credito cartolare, acquista da lui un credito cartolare e diventa a sua volta portatore legittimo del titolo, acquista il credito cartolare anche se chi glielo ha trasferito non ne era titolare, o perché non lo è mai stato in quanto ad esempio ha il possesso del titolo per averlo sottratto al proprietario, o perché ha già perso la titolarità del credito per averlo anteriormente trasferito. Sviluppando il primo esempio: Tizio è titolare di un titolo al portatore che gli viene rubato da Caio; Caio non è certamente divenuto titolare del titolo e del credito in esso incorporato, poiché il furto non costituisce un fatto giuridico idoneo a trasferire il titolo e il credito cartolare da Tizio a Caio; ma Caio, pur non essendone titolare, egualmente è divenuto portatore legittimo del titolo, avendone il possesso e trattandosi di un titolo al portatore; se perciò Sempronio acquista da Caio il credito cartolare, ritenendo che Caio ne sia il titolare e facendosi trasmettere dallo stesso Caio il possesso del titolo, acquista il credito benché il sua dante causa, Caio, non ne sia il titolare, e così Tizio non può più rivendicare la proprietà del titolo e perde il suo diritto di credito. 4. La cambiale La cambiale è un titolo di credito particolarmente importante e diffuso. Il suo impiego è frequente non solo nei rapporti fra imprese commerciali, ma anche tra privati e nell’ambito del cosiddetto credito al consumo con pagamento dilazionato e ripartito nel tempo. In questi rapporti la cambiale svolge la funzione economica di strumento di credito. Invero, con l’emissione di cambiali, il debitore ottiene subito la prestazione, rimandandone però il pagamento in un momento successivo. Tra l’altro il creditore può trattenere la cambiale fino alla scadenza, così come può girarla ai terzi per pagare i propri debiti, oppure può finanche presentarla subito ad una banca chiedendone lo sconto. La cambiale è disciplinata dal regio decreto del 14 dicembre 1933, n. 1669, detto “legge cambiaria”. Se l’autore del titolo, detto emittente, assume l’obbligo di pagare personalmente al portatore legittimo il debito cartolare si ha la cambiale propria, detta anche pagherò cambiario oppure vaglia cambiario. Se, invece, l’autore del titolo, detto traente, rivolge l’obbligo di pagare ad un altro soggetto, detto trattario, si ha la cambiale tratta. Il soggetto al quale deve essere pagata la somma indicata nel titolo è detto prenditore o beneficiario della cambiale.

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È un titolo all’ordine in quanto è trasferibile mediante girata. La girata ha la duplice funzione di trasferimento del diritto cartolare e di garanzia del pagamento. È un titolo completo in quanto tutte le clausole, che individuano e regolano il diritto cartolare di credito, devono essere contenute nello stesso documento cambiario, senza possibilità di riferimenti ad altri documenti. È un titolo astratto in quanto non menziona il rapporto sottostante, detto rapporto di valuta, tra emittente o traente e primo prenditore, che può essere il più vario, quale per esempio l’obbligo di pagare il prezzo di una vendita, l’obbligo derivante da un contratto di mutuo, etc. La cambiale, infine, se è stata regolarmente bollata sin dall’origine, è un titolo esecutivo, in quanto il creditore cambiario può direttamente procedere all’esecuzione forzata sui beni del La cambiale è un titolo di credito all’ordine, completo, astratto, ed avente efficacia di titolo esecutivo. debitore se questi non onora la cambiale, senza bisogno di ottenere prima una sentenza di condanna o un decreto ingiuntivo di pagamento. Si distingue tra clausole indispensabili o essenziali della cambiale e clausole non indispensabili della cambiale. La mancanza di una delle clausole indispensabili fa sì che la cambiale non valga più come tale, ma che da essa derivino soltanto obbligazioni di diritto comune. In mancanza, invece, di una clausola non indispensabile si applicano le norme suppletive. Sono clausole indispensabili: la denominazione di cambiale; l’ordine incondizionato o la promessa incondizionata di pagare una somma determinata; il nome del creditore, primo prenditore o beneficiario; l’indicazione della data di emissione; la sottoscrizione del traente o dell’emittente. Sono clausole non indispensabili: l’indicazione della data di scadenza; l’indicazione del luogo di pagamento; l’indicazione del luogo di emissione. Se manca l’indicazione della data di scadenza, la cambiale si considera pagabile a vista, cioè immediatamente; se manca l’indicazione del luogo di pagamento, si intende per tale il domicilio del trattario per la tratta ed il domicilio dell’emittente per il vaglia cambiario; se manca l’indicazione del luogo di emissione, si considera tale quello indicato accanto al nome del traente e quello indicato accanto al nome dell’emittente. Sulla base del rapporto di provvista il trattario è debitore non cambiario del traente. Perché egli diventi obbligato cambiario nei confronti del portatore legittimo della cambiale, deve apporre sul documento la dichiarazione di accettazione. L’accettazione, perciò, è un istituto proprio della cambiale tratta, e il suo effetto è quello di far diventare il trattario obbligato cambiario diretto. Prima dell’accettazione, invero, il portatore non ha contro il trattario nessuna azione, né cambiaria in quanto manca l’accettazione, né ordinaria in quanto anche se il trattario è debitore verso il traente e questi l’ha obbligato a pagare, tale obbligazione sussiste soltanto verso il traente, e non verso il portatore legittimo della cambiale. L’avallo è una dichiarazione con cui taluno garantisce totalmente o parzialmente il pagamento di una cambiale in luogo di altri. Pertanto, si definisce avallante colui che presta la garanzia cambiaria, mentre si definisce avallato l’obbligato cambiario a favore del quale l’avallo è prestato. L’avallante e l’avallato sono debitori cambiari solidali. L’avallante non gode del beneficio di escussione. L’avallante è obbligato nello stesso modo dell’avallato: è un obbligato diretto se l’avallato è un obbligato diretto, è un obbligato di regresso se l’avallato è un obbligato di regresso. Tutti coloro che hanno apposto la propria firma sulla cambiale diventano obbligati cambiari, e sono conseguentemente tenuti in solido al pagamento. L’azione cambiaria è diretta se esercitata contro gli obbligati principali, cioè contro l’accettante ed i suoi avallanti nella tratta e contro l’emittente ed i suoi avallanti nel pagherò. L’azione cambiaria è di regresso se esercitata contro ogni altro obbligato, cioè contro il traente, il girante ed i loro avallanti nella tratta, ed i giranti ed i loro avallanti nel pagherò. L’azione di regresso può essere esercitata qualora il pagamento non abbia avuto luogo alla scadenza

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o se l’accettazione sia stata rifiutata in tutto o in parte o, ancora, in caso di fallimento del trattario o in caso di fallimento del traente di una cambiale non accettabile. L’esercizio dell’azione di regresso è subordinato ad un onere: il protesto del titolo. Il protesto è un atto pubblico, redatto da un notaio, da un ufficiale giudiziario o da un segretario comunale, con il quale si accerta in forma solenne l’avvenuta presentazione della cambiale ed il conseguente rifiuto ad accettare o pagare da parte degli obbligati principali. Molti pagamenti, specie per cifre rilevanti, si fanno per mezzo delle banche, perché così si evitano i rischi e gli inconvenienti relativi alla custodia ed al trasporto di moneta. È anche vietato, al diverso scopo di contrastare l’impiego in attività economiche lecite di denaro di provenienza illecita, il pagamento in contanti per somme superiori a dodicimilacinquecento euro. Uno dei più comuni mezzi di pagamento è l’assegno bancario, del quale si serve chi stipula con la banca un contratto bancario in virtù del quale, sulla base di una cosiddetta convenzione di assegno, si viene autorizzati dalla banca a trarre su di essa dei titoli di credito, detti assegni bancari. Con l’assegno il cliente ordina alla banca trattaria di pagare una somma determinata al legittimo portatore del titolo; con maggiore esattezza, il cliente è autorizzato a trarre assegni fino ad un ammontare determinato, che costituisce la somma che il cliente ha disponibile presso la banca, detta provvista. La disponibilità può derivare da un contratto di deposito in conto corrente, da un contratto di apertura di credito bancario, o da altra operazione bancaria anche atipica, e la convenzione di assegno suole costituire una clausola inserita in uno di tali contratti, da cui il cliente deriva la disponibilità della somma presso la banca. Gli assegni bancari sono di solito redatti su modelli stampati, che compongono il cosiddetto “libretto degli assegni” o “carnet di assegni”, che la stessa banca fornisce al cliente al momento della stipula della convenzione di assegno. L’assegno bancario, pertanto, è un titolo di credito mediante il quale il traente ordina ad un banchiere di pagare a vista una somma determinata al portatore legittimo del documento. Sul piano strutturale, l’assegno assomiglia alla cambiale tratta. Da questa, però, si distingue sul piano funzionale per due ragioni. Primo: l’assegno costituisce uno strumento di pagamento, e quindi la sua scadenza è sempre a vista. Secondo: se nella cambiale il trattario con l’accettazione diventa obbligato cambiario, nell’assegno, in base alla convenzione di assegno, il banchiere non diventa obbligato cartolare nei confronti del portatore legittimo dell’assegno; infatti, il banchiere è obbligato extracartolare a pagare la somma indicata nell’assegno soltanto nei confronti del traente, e fino al limite della provvista; se perciò il banchiere rifiuta il pagamento al portatore legittimo del titolo, questi non ha nessuna azione contro di lui, ma può agire in via di regresso contro il traente e gli eventuali giranti. Da quanto si è detto, emerge che l’assegno bancario adempie ad una funzione di pagamento, cioè è uno strumento che serve per effettuare pagamenti. Invece la cambiale, come si è già affermato, adempie ad una funzione di credito, cioè serve per ottenere credito. La disciplina dell’assegno è contenuta nel regio decreto del 21 dicembre 1933, n. 1736, detto “legge sull’assegno”, coevo alla “legge cambiaria”. La maggior parte della disciplina applicabile all’assegno coincide con la disciplina propria della cambiale, salve alcune differenze che derivano dalla diversa funzione dei due titoli. Sono requisiti dell’assegno bancario: la denominazione di “assegno bancario” o quella francese di “chéque”; l’ordine incondizionato di pagare una somma determinata; il nome del trattario designato a pagare; l’indicazione del luogo di pagamento; l’indicazione della data e del luogo dove l’assegno bancario è emesso; la sottoscrizione di colui che emette l’assegno. Il divieto di emettere assegni senza data o con data successiva all’emissione si giustifica con la scadenza dell’assegno bancario a vista. Il trattario deve essere sempre un banchiere. L’assegno bancario può essere all’ordine o al portatore. Negli assegni all’ordine la girata ha, come nella cambiale, la duplice funzione di trasferimento del

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diritto cartolare e di garanzia del pagamento: il girante è obbligato di regresso. L’assegno bancario senza clausola espressa vale come assegno all’ordine. L’assegno bancario può essere all’ordine dello stesso traente. La circolazione dell’assegno bancario al portatore, piuttosto raro per i pericoli che comporta, è regolata dalle disposizioni generali del Codice civile in materia di titoli al portatore. L’assegno bancario senza indicazione del prenditore vale come assegno bancario al portatore. Qualsiasi promessa di interessi inserita nell’assegno bancario si ha per non scritta. Al pari della cambiale, anche l’assegno è un titolo esecutivo, può essere garantito mediante avallo, ed è assistito dalla procedura dell’ammortamento. Per ostacolare il riciclaggio di denaro proveniente da attività illecite, il legislatore ha voluto impedire la circolazione di assegni bancari al portatore di importo superiore a dodicimilacinquecento euro: in tale ipotesi l’assegno deve essere emesso con l’indicazione del prenditore e con la clausola “non trasferibile”. L’assegno bancario emesso o girato con la clausola “non trasferibile” non può essere pagato se non al prenditore o, a richiesta di costui, accreditato nel suo conto corrente. Questi non può girare l’assegno se non ad un banchiere per l’incasso, il quale non può ulteriormente girarlo. Le girate apposte nonostante il divieto si hanno per non scritte. La cancellazione della clausola si ha per non avvenuta. I principali vantaggi dell’assegno bancario non trasferibile sono di due ordini. Primo: se l’assegno viene rubato o smarrito, il ladro o il ritrovatore non possono né esigere la somma né trasferire il credito, perché il pagamento può farsi solo al prenditore, il quale deve essere identificato secondo particolari cautele. Secondo: in caso smarrimento, distruzione o sottrazione, il prenditore non deve ricorrere alla procedura di ammortamento, ma ha diritto di ottenere a proprie spese un duplicato denunciando lo smarrimento, la distruzione o la sottrazione al trattario ed al traente. L’assegno bancario, però, non offre al portatore legittimo, verso cui il banchiere trattario non assume nessuna obbligazione cartolare, la sicurezza dell’esistenza della provvista. Ad un principio diverso è ispirato l’assegno circolare: anch’esso è uno strumento di pagamento, ma la sua struttura formale non ricalca quella della cambiale tratta, bensì si modella su quella del pagherò cambiario, perché viene emesso direttamente, su richiesta del cliente, che versa l’importo corrispondente o ne consente l’addebitamento sul proprio conto, da una banca che perciò assume la veste di debitore principale, obbligandosi a pagarlo a vista al portatore presso tutti i recapiti indicati sul titolo. L’assegno circolare è un titolo di credito all’ordine. In quanto compatibili con la natura dell’assegno circolare e qualora non siano espressamente derogate dalla “legge sull’assegno”, si applicano all’assegno circolare le disposizioni della cambiale relative alla girata, al pagamento, al protesto, al regresso, ed alla procedura di ammortamento. Anche l’assegno circolare, se di importo superiore a dodicimilacinquecento euro, deve essere emesso con la clausola “non trasferibile”. 6. I titoli di Stato I titoli di Stato sono titoli di credito pubblici di massa, riconducibili alla cambiale semplice. Lo Stato vi ricorre normalmente poiché non riesce a coprire le spese pubbliche sostenute a favore della collettività con le sole entrate ordinarie. Invero, già dal secolo scorso si è assistito ad una progressiva estensione degli interventi dello Stato in economia, con la relativa espansione della spesa pubblica. Pertanto lo Stato è costretto a ricorre al debito pubblico. Per debito pubblico si intende la raccolta del risparmio privato mediante l’emissione di titoli di Stato. Lo Stato emette titoli del debito pubblico e i privati, se vogliono, possono sottoscrivere, cioè acquistare, tali titoli. Lo Stato ad una certa scadenza restituirà loro la somma datagli in prestito comprensiva di un saggio di interesse.

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Si noti che solo apparentemente i titoli di Stato rappresentano un’entrata straordinaria, in quanto il saggio di interesse corrisposto ai privati sottoscrittori costituisce realmente un costo o una spesa a carico del bilancio dello Stato. Lo Stato italiano emette un’ampia varietà di titoli di Stato, i quali possono essere classificati secondo differenti criteri. Si distingue tra titoli di Stato a breve termine, con durata inferiore ai dodici mesi, e titoli di Stato a medio-lungo termine, con durata superiore ai dodici mesi. I primi, quali i Buoni Ordinari del Tesoro (BOT), sono normalmente utilizzati al fine del reperimento delle risorse finanziarie necessarie a consentire la copertura di situazioni temporanee di squilibrio tra entrate ed uscite di cassa; gli altri, invece, quali i Certificati del Tesoro Zero Coupon (CTZ), i Buoni del Tesoro Poliennali (BTP), i Buoni del Tesoro Poliennali indicizzati all’Inflazione Europea (BTP€i), ed i Certificati di Credito del Tesoro (CCT), vengono emessi per reperire risorse finanziarie necessarie per far fronte alle spese in conto capitale, cioè alle spese per investimenti. I titoli di Stato possono poi essere classificati in titoli privi di cedole, quali i BOT ed i CTZ, titoli con cedole fisse, quali i BTP, e titoli con cedole variabili, come i BTP€i ed i CCT. Inoltre si distingue tra titoli la cui remunerazione è interamente determinata dallo scarto di emissione, pari alla differenza tra il valore nominale ed il prezzo corrisposto, come i BOT ed i CTZ, e titoli la cui remunerazione è variabile, come i BTP, i BTP€i, ed i CCT. Diversamente da quanto avviene per la cambiale e l’assegno, i titoli di Stato non sono più rappresentati da certificati cartacei, ma sono oggi dematerializzati, ossia sono rappresentati esclusivamente da scritture contabili totalmente informatizzate. Tale dematerializzazione esime, da un lato, i risparmiatori dal rischio di smarrimento, sottrazione e distruzione dei propri titoli, ma obbliga, dall’altro, gli stessi ad accendere presso qualsiasi istituto di credito dei contratti di deposito in conto corrente su cui consentire gli addebiti relativi all’acquisto dei titoli di Stato e i gli accrediti discendenti dal pagamento degli interessi e dal rimborso del capitale. I titoli di Stato scontano tutti un’aliquota fiscale del dodici virgola cinquanta per cento. Tale aliquota viene applicata al momento dell’acquisto sullo scarto di emissione per i BOT, al momento del rimborso sullo scarto di emissione per i CTZ, e sulle cedole e sull’eventuale scarto di emissione al momento del rimborso per i BTP, i BTP€i, ed i CCT. 7. La ricevuta bancaria “La ricevuta bancaria consiste in un documento, non riconducibile alla categoria dei titoli di credito, con cui il creditore dichiara di aver ricevuto una somma di denaro versata a mezzo banca a saldo di una determinata fattura e costituisce lo strumento attraverso il quale la banca procede alla riscossione dell’importo indicato, secondo le istruzioni impartite dal cliente”. Dunque la ricevuta bancaria si identifica in un semplice documento cartaceo di quietanza, ed è particolarmente diffusa oggigiorno nei rapporti continuativi tra venditore ed acquirente caratterizzati da fiducia vicendevole. Il sintagma “ricevuta bancaria” si è affermato in ambito aziendalistico negli anni Ottanta del secolo scorso, quale strumento d’incasso di crediti derivanti da un rapporto di fornitura di beni o servizi tra creditore e debitore. In particolare, il sostantivo “ricevuta” si traduce nell’attestazione, rilasciata dal creditore al debitore, di aver ricevuto una determinata somma di denaro; l’aggettivo “bancaria”, invece, indica il ruolo ricoperto da un istituto di credito nella procedura della riscossione e non la provenienza della dichiarazione, poiché quest’ultima è sottoscritta dal solo creditore. Va sottolineato immediatamente, come anticipato, che la ricevuta bancaria non è un titolo di credito, mancando i requisiti dell’incorporazione, della letteralità, dell’autonomia, e dell’astrattezza. Invero, non ricorre la caratteristica dell’incorporazione del diritto nella ricevuta bancaria in quanto il semplice possesso della ricevuta non attribuisce alla banca né la titolarità del credito né la pretesa esclusiva alla sua riscossione; non ricorre la caratteristica della letteralità in quanto nella ricevuta bancaria non compare nessuna dichiarazione riferibile al debitore, né l’emissione del documento

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esclude la possibilità di estinzione dell’obbligazione tramite il pagamento diretto al creditore; non ricorre la caratteristica dell’autonomia in quanto il debitore conserva intatta la possibilità di opporre all’istituto di credito richiedente tutte le eccezioni attinenti al rapporto negoziale sottostante; infine, non ricorre neppure la caratteristica dell’astrattezza in quanto la dichiarazione contenuta nel documento fa espresso riferimento all’operazione sottostante. Va registrato da ultimo il rilevante fenomeno per cui la cambiale tratta, che normalmente regolava gli affari commerciali intercorrenti tra produttori, commercianti e consumatori, è stata adombrata dalla ricevuta bancaria qui in parola. Ciò è stato senz’altro dovuto a due ordini di motivazioni: in primo luogo, la crescente opposizione del debitore ad assumere su di sé le pesanti. responsabilità discendenti dal regime cambiario; in secondo luogo, il minor costo del servizio scontato dalle ricevute rispetto alle tratte. La procedura di pagamento delle ricevute bancarie si articola nelle seguenti fasi: la consegna da parte del creditore alla propria banca (banca assuntrice) delle disposizioni relative all’incasso; l’obbligo della banca assuntrice di inoltrare la richiesta di pagamento alla banca del debitore (banca domiciliataria); l’impegno della banca domiciliataria ad inviare l’avviso di pagamento al domicilio del debitore; la consegna da parte della banca domiciliataria al debitore, una volta avvenuto il pagamento, della ricevuta bancaria; l’obbligo della banca domiciliataria di avvisare, in caso di mancato pagamento, la banca assuntrice, che a sua volta dovrà provvedere ad avvisare il creditore del mancato pagamento. L’avvento delle tecnologie informatiche, nel catalizzare maggiormente il ricorso alle ricevute bancarie, ha dato luogo alle ricevute bancarie elettroniche, dette “Ri.Ba.”. Con il procedimento Ri.Ba., la consegna delle ricevute dal cedente alla banca assuntrice, il trattamento delle informazioni da parte di tutte le banche interessate, la predisposizione degli avvisi di pagamento, la stampa delle ricevute, e la restituzione delle ricevute in caso di mancato pagamento avvengono esclusivamente per via elettronica. Ciò consente di eliminare la materialità della ricevuta bancaria nei rapporti tra cliente, creditore e banca assuntrice da un lato e tra questa e la banca domiciliataria dall’altro. Inoltre il procedimento Ri.Ba. consente di velocizzare, rendere più sicuro e conoscere immediatamente l’esito delle operazioni. Parimenti non sono titoli di credito né i documenti di legittimazione né i titoli impropri. I primi servono solo ad identificare l’avente diritto ad una determinata prestazione, quali per esempio i biglietti di viaggio, i biglietti delle lotterie, e le contromarche del parcheggio custodito. I secondi consentono il trasferimento di un diritto senza le forme proprie della cessione, ma non attribuiscono al cessionario alcun diritto letterale ed autonomo, quali esempligrazia il vaglia postale trasferibile mediante girata e le polizze assicurative con la clausola all’ordine o al portatore. Capitolo XIX Il lavoro subordinato Nell’ordinamento giuridico italiano, la Costituzione dedica al lavoro subordinato diverse norme. Già l’articolo 1 Cost. afferma che l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro, mentre l’articolo 4 Cost. dichiara che la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendono effettivo questo diritto. Parafrasando l’articolo 1 Cost., si sottolinea che il legislatore costituzionale intende il lavoro come quell’attività attraverso la quale ciascun individuo realizza le proprie aspirazioni ed afferma la propria personalità. Mentre la dichiarazione di principio contenuta nell’articolo 4 Cost. deve essere intesa non nel senso che viene riconosciuto al singolo il diritto o la pretesa di ottenere un lavoro, ma nel senso che lo Stato si assume l’onere di promuovere l’occupazione. L’articolo 36 Cost. asserisce che il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro ed in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia

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un’esistenza libera e dignitosa, che la durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge, e che il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, non potendovi rinunziare. L’articolo 37 Cost. dichiara il principio di parità tra lavoratori di sesso diverso, il principio di tutela della donna lavoratrice, ed il principio di tutela del lavoro minorile. Invero, l’articolo 37 Cost. dichiara che la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore, che le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento dell’essenziale funzione familiare della donna ed assicurare alla madre ed al bambino una speciale adeguata protezione, che l’età minima per il lavoro salariato è stabilita dalla legge, e che la Repubblica tutela il lavoro dei minori con speciali norme e garantisce ad essi, a parità di lavoro, il diritto alla parità di retribuzione. L’articolo 38 Cost. riconosce ai lavoratori il diritto all’assistenza sociale ed alla previdenza sociale. L’articolo 39 Cost. riconosce ai lavoratori il diritto di sindacato, consistente nella libertà di costituire associazioni sindacali e nel diritto di ogni lavoratore di associarsi al sindacato prescelto, senza che ciò possa comportare limiti o discriminazioni nei suoi confronti. L’articolo 40 Cost. attribuisce ai lavoratori il diritto di tutelare i propri interessi anche mediante lo sciopero, cioè l’astensione volontaria dal lavoro. L’esercizio del diritto di sciopero comporta per il lavoratore la perdita del diritto alla retribuzione per tutto il tempo di astensione dal lavoro. Al diritto di sciopero il datore di lavoro può opporre la serrata, cioè la chiusura dell’azienda. Poiché, a differenza dello sciopero, la serrata non costituisce un diritto costituzionalmente garantito, il datore di lavoro resta tenuto al pagamento della retribuzione al lavoratore e può anche, a seconda dei casi, essere perseguito per condotta antisindacale. Oltre alle norme costituzionali succitate, rilevante per il lavoro subordinato è la legge del 20 maggio 1970, n. 300, nota come “statuto dei lavoratori”. Lo “statuto dei lavoratori” tutela in particolare due aspetti della vita lavorativa: la libertà e la dignità del lavoratore sul posto di lavoro, e la libertà sindacale. La libertà e la dignità del lavoratore sul posto di lavoro sono tutelate mediante il riconoscimento ai lavoratori della libertà di opinione, il divieto per il datore di lavoro di sottoporre i lavoratori a controllo tramite guardie giurate o impianti audiovisivi, il divieto per il datore di lavoro di effettuare accertamenti sanitari sulle persone dei lavoratori se non tramite gli istituti previdenziali o i medici del Servizio Sanitario Nazionale, il divieto per il datore di lavoro di infliggere sanzioni disciplinari non previste o senza l’osservanza del procedimento disciplinare previsto dalla legge, e il divieto per il datore di lavoro di effettuare indagini, anche a mezzo di terzi, sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore, nonché su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore. La libertà sindacale prevede il riconoscimento a tutti i lavoratori del diritto di costituire associazioni sindacali, di aderirvi e di svolgere attività sindacale all’interno dei luoghi di lavoro, il divieto per il datore di lavoro di porre in essere atti discriminatori di natura sindacale, politica, religiosa, razziale, linguistica, o sessuale, e il diritto dei lavoratori di costituire rappresentanze sindacali aziendali all’interno di ogni unità produttiva. Come già anticipato, è prestatore di lavoro subordinato, in forza dell’articolo 2094 c.c., chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore; mentre, in forza dell’articolo 2222 c.c., è lavoratore autonomo chi, in forza di un contratto d’opera, la cosiddetta “locatio operae”, si obbliga a compiere verso un corrispettivo un’opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente. Oltre al lavoro subordinato ed autonomo, si distingue il lavoro parasubordinato, un tertium genus che coagula gli aspetti caratterizzanti degli articoli 2094 e 2222 c.c. Si definisce, pertanto, parasubordinato il rapporto di lavoro che, a prescindere dalla sua formale ed incontestata autonomia, si caratterizzi, oltre che per la continuità, per il carattere strettamente personale della prestazione, integrata nell’impresa e da questa coordinata.

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In base all’articolo 2095 c.c., i prestatori di lavoro subordinato si distinguono in dirigenti, quadri, impiegati, e operai. I dirigenti sono figure di elevata professionalità e dotate di potere decisionale; i quadri sono le figure di raccordo tra i dirigenti e gli impiegati; gli impiegati sono le figure che esercitano le attività amministrative e contabili; gli operai sono le figure che svolgono mansioni prevalentemente esecutive o manuali rivolte all’attività produttiva. A loro volta, tradizionalmente, gli operai vengono distinti in operai specializzati, operai qualificati, operai comuni, manovali, ed apprendisti. Si distingue tra contratti collettivi di lavoro e contratti individuali di lavoro. I primi sono degli accordi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dalle corrispondenti associazioni dei datori di lavoro alla presenza dello Stato. I contratti collettivi di lavoro sono normalmente costituiti da una parte economica, che prevede il trattamento retributivo, e da una parte normativa, che regola le modalità della prestazione lavorativa. Le disposizioni contenute nei contratti collettivi di lavoro sono efficaci nei confronti di tutti gli aderenti ai sindacati che li hanno sottoscritti. Per evidenti ragioni di equità ed opportunità, i contratti collettivi vengono di fatto estesi anche ai lavoratori non iscritti ai sindacati. Con il contratto individuale di lavoro, invece, si costituisce il rapporto di lavoro. L’assunzione definitiva viene normalmente preceduta da un periodo di prova della durata di sei mesi, in cui valgono tutti i diritti ed i doveri tipici del rapporto di lavoro, fatta salva la possibilità riconosciuta alle parti di recedere dal contratto senza obbligo di preavviso o d’indennità. L’assunzione del prestatore di lavoro per un periodo di prova deve risultare da atto scritto. Nello svolgimento del rapporto di lavoro il prestatore è tenuto a rispettare determinati obblighi e gode di determinati diritti. Gli obblighi del lavoratore sono quelli di usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta e dall’interesse dell’impresa, e di osservare, nell’esecuzione del lavoro, le disposizioni e le direttive impartite dall’imprenditore o dai collaboratori di questi dai quali gerarchicamente dipende, e di non svolgere attività in concorrenza con l’imprenditore e non divulgare notizie riservate attinenti all’organizzazione ed ai metodi di produzione dell’impresa. L’inosservanza dei suddetti obblighi da parte del lavoratore può comportare l’irrogazione di sanzioni disciplinari. Sono diritti del lavoratore: il diritto alla retribuzione; il diritto a non superare un determinato orario di lavoro giornaliero o settimanale; il diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite; il diritto ad essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. I diritti del lavoratore sono normalmente inderogabili. Da parte datoriale, l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie per tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. Si distingue tra rapporto di lavoro a tempo indeterminato, cioè senza preventiva determinazione della sua scadenza, e rapporto di lavoro a tempo determinato, cioè con preventiva determinazione della sua durata. Inoltre, si distingue tra rapporto di lavoro a tempo pieno, e rapporto di lavoro a tempo parziale o part-time. Il primo prevede che l’orario normale di lavoro sia di quaranta ore settimanali. Il secondo obbliga o consente di lavorare in misura ridotta, con varia distribuzione temporale, rispetto al modello del lavoro a tempo pieno. Il rapporto di lavoro a tempo indeterminato si estingue per il recesso del prestatore di lavoro o per il recesso del datore di lavoro. Si parla di dimissioni quando è il lavoratore a manifestare la sua intenzione di estinguere il rapporto di lavoro con l’impresa. Le dimissioni possono essere presentate in qualsiasi momento e non devono essere motivate. L’unico obbligo da cui è gravato il lavoratore è quello di rispettare la

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regola del preavviso, posta nell’interesse della parte receduta per consentirle di provvedere tempestivamente alla sostituzione. L’obbligo di preavviso per il prestatore di lavoro viene meno quando questi receda dal contratto per giusta causa, cioè quando si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche temporanea, del rapporto Si parla, invece, di licenziamento quando è il datore di lavoro a recedere dal contratto. Il datore di lavoro, però, può licenziare individualmente i suoi dipendenti soltanto ed esclusivamente in determinati casi tassativamente indicati dalla legge. Il licenziamento può avvenire o per giusta causa o per giustificato motivo. Si ha giusta causa di licenziamento quando si verifica un fatto che non consenta la prosecuzione, nemmeno provvisoria, del rapporto di lavoro. Costituiscono ipotesi di giusta causa di licenziamento, per esempio, il furto da parte del dipendente, il sabotaggio dei macchinari, la grave violazione dell’obbligo di fedeltà, la costante insubordinazione, etc. Invece, il licenziamento per giustificato motivo può essere determinato o dal notevole inadempimento degli obblighi contrattuali da parte del lavoratore, cosiddetta causa soggettiva, o da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa, cosiddette cause oggettive. Il datore di lavoro che licenzi per giustificato motivo, sia soggettivo che oggettivo, è tenuto ad osservare il periodo di preavviso o, in mancanza, a corrispondere al lavoratore un’indennità pari alla retribuzione che gli sarebbe spettata per il periodo di preavviso. La rigida normativa del licenziamento riguarda tutti i datori di lavoro, indipendentemente dalle dimensioni dell’azienda e dal numero dei dipendenti occupati. Al momento dello scioglimento del rapporto di lavoro subordinato, qualunque sia il motivo che l’ha determinato, il lavoratore ha diritto di percepire una somma denominata “trattamento di fine rapporto” (TFR) o “buonuscita”, avente la funzione, latamente previdenziale, di agevolare il lavoratore medesimo al superamento delle difficoltà economiche che possono insorgere per il venir meno della retribuzione. Capitolo XX La legislazione sociale L’articolo 32 Cost. statuisce: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. L’articolo 38 Cost. recita: “Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto che siano preveduti e assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria. Gli inabili ed i minorati hanno diritto all’educazione e all’avviamento professionale. Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato. L’assistenza privata è libera”. L’insieme delle leggi che danno attuazione a questi principi costituzionali costituiscono l’oggetto di quella disciplina giuridica chiamata legislazione sociale. Questa ha, quindi, per oggetto l’assistenza sanitaria, l’assistenza sociale, e la previdenza sociale. L’assistenza sanitaria è attualmente prestata a tutti i cittadini per tutti i livelli di assistenza dal Servizio Sanitario Nazionale (SSN). Esso si articola in organismi territoriali dipendenti dalle Regioni denominati “Aziende Sanitarie Locali” (ASL) ed “Aziende Sanitarie Provinciali” (ASP). Le ASL e le ASP sono vere e proprie aziende che, pur continuando a svolgere una funzione

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pubblica, sono organizzate secondo criteri privatistici: invero, godono di autonomia imprenditoriale, si caratterizzano per la responsabilità diretta della dirigenza, informano la propria attività a criteri di efficacia, efficienza, ed economicità, sono tenute al rispetto del vincolo di bilancio. Il servizio sanitario è offerto dalle ASL e dalle ASP nel rispetto del principio di uguaglianza della prestazione e del principio di semigratuità della prestazione. In forza del principio di uguaglianza della prestazione, la tutela sanitaria è offerta all’intera popolazione senza distinzione di condizioni individuali o sociali. In forza del principio di semigratuità della prestazione, la tutela sanitaria si realizza mediante alcune prestazioni totalmente a carico del SSN, mentre altre sono poste in tutto o in parte a carico del soggetto beneficiario a seconda della sua capacità contributiva. Analoghi criteri valgono per l’acquisto dei farmaci prescritti dal medico di base. L’assistenza sociale si prefigge finalità di solidarietà sociale e mira a sottrarre i bisognosi dallo stato di indigenza. Tale solidarietà consiste nel prestare assistenza ai grandi invalidi del lavoro, ai pensionati, ai lavoratori migranti, ai lavoratori occupati, e ai non lavoratori. La previdenza sociale ha come finalità la protezione dei lavoratori in caso di infortunio, invalidità, vecchiaia, e disoccupazione involontaria. Pertanto, mentre l’assistenza sociale fa fronte a situazioni di bisogno attuale, la previdenza sociale tutela il lavoratore dai bisogni futuri. L’assistenza sociale e la previdenza sociale sono gestite da istituti pubblici, quali per esempio l’Istituto Nazionale delle Assicurazioni contro gli Infortuni sul Lavoro (INAIL), l’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale (INPS), etc. Le prestazioni garantite dallo Stato ai lavoratori trovano copertura finanziaria, almeno in parte, in versamenti periodici, sotto forma di contributi, effettuati obbligatoriamente dal datore di lavoro e dallo stesso lavoratore. I contributi sono commisurati alle retribuzioni e sono suddivisi, come si è detto, fra il datore di lavoro ed il lavoratore. La quota maggiore è a carico del datore di lavoro, che ha anche l’obbligo di trattenere una quota dello stipendio del lavoratore e di procedere successivamente al versamento periodico a favore degli enti previdenziali. Una particolare tutela è prevista a favore del lavoratore nel caso di mancato pagamento dei contributi da parte dell’imprenditore. Le principali prestazioni previdenziali sono: la rendita a favore del lavoratore reso permanentemente inabile al lavoro, totalmente o parzialmente, a causa di infortunio sul lavoro o malattia professionale; l’indennità per la disoccupazione involontaria; la pensione di invalidità, per la riduzione della capacità lavorativa per infermità fisica o mentale, anche se non determinata da infortunio sul lavoro o da malattia professionale; la pensione di vecchiaia, riconosciuta a favore dei lavoratori che abbiano raggiunto la cosiddetta età pensionabile, fissata a sessantacinque anni sia per gli uomini che per le donne; la pensione di anzianità, riconosciuta ai lavoratori che possono vantare un periodo minimo di contribuzione non inferiore a trentacinque anni, a prescindere dall’aver raggiunto l’età stabilita ai fini della pensione di vecchiaia; la pensione sociale, a favore di coloro che abbiano superato i sessantacinque anni di età e si trovino in uno stato di bisogno o in disagiate condizioni economiche, a prescindere dal fatto che abbiano o meno svolto attività lavorativa. Nell’ipotesi di morte del lavoratore, la pensione viene attribuita agli eredi legittimi purché ricorrano determinate condizioni previste dalla legge. Trattasi della pensione di reversibilità. In generale, l’ammontare della pensione viene calcolato o con il metodo retributivo o con il metodo contributivo. Il primo si basa sull’ammontare dell’ultima retribuzione percepita, oppure sulla media delle retribuzioni percepite nell’ultimo periodo lavorativo. Il secondo, che verrà applicato a chi è entrato nel mondo del lavoro a far data dal 1993, si fonda sui contributi effettivamente versati dal lavoratore nel corso della sua vita lavorativa.

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Capitolo XXI Il sistema tributario italiano 1. Il sistema tributario italiano Il diritto tributario è quella disciplina giuridica che studia la raccolta dei tributi, i quali costituiscono la principale fonte di finanziamento della spesa pubblica sostenuta dallo Stato e dagli altri enti pubblici, quali le Regioni, le Città metropolitane, le Province, ed i Comuni. Per spesa pubblica si intende l’erogazione di denaro effettuata dallo Stato e dagli altri enti pubblici per il soddisfacimento di bisogni comuni avvertiti dalla collettività, quali l’istruzione, il mantenimento dell’ordine pubblico, l’amministrazione della giustizia, la salute pubblica, la difesa nazionale, etc. Il diritto tributario si fonda su alcuni principi fondamentali previsti dalla Carta costituzionale. L’articolo 23 Cost. sancisce il principio della riserva di legge, secondo cui nessuna prestazione può essere imposta se non in base alla legge. L’articolo 53 Cost. statuisce il principio di capacità contributiva, in forza del quale tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Inoltre, la norma costituzionale afferma che il sistema tributario è informato a criteri di progressività. L’articolo 75 Cost. esclude l’ammissibilità del referendum abrogativo per le leggi tributarie e di bilancio. L’articolo 81 Cost. asserisce che con la legge di approvazione del bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese, e che ogni altra legge che importi nuove e maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte. Infine, il combinato disposto degli articoli 5, 117 e 119 Cost. realizza il principio del federalismo fiscale, che riconosce alle Regioni, alle Città metropolitane, alle Province, ed ai Comuni, l’autonomia finanziaria di entrata, intesa come compartecipazione al gettito dei tributi erariali riferibili al loro territorio e facoltà di stabilire ed applicare tributi ed entrate propri, e di spesa. I tributi rappresentano dei prelievi coattivi esercitati dallo Stato e dagli altri enti pubblici, in forza del loro potere di imperio, sui contribuenti. I tributi si distinguono in imposte, tasse, e contributi. L’imposta è una somma di denaro che il contribuente deve pagare all’ente pubblico, senza ottenere una controprestazione immediata. La tassa è una somma che il soggetto paga all’ente pubblico in cambio della prestazione di un servizio, che il soggetto richiede all’ente pubblico stesso. Tale somma è inferiore al costo del servizio. La tassa, quindi, comporta a carico del contribuente un pagamento a favore dell’ente pubblico, ma prevede anche una controprestazione specifica da parte di quest’ultimo. Il contributo, detto anche tributo speciale, è una somma che un soggetto deve in ogni caso pagare all’ente pubblico, in quanto trae un particolare vantaggio dal servizio offerto dall’ente pubblico medesimo a favore dell’intera collettività. Il contributo, pertanto, costituisce una categoria intermedia tra l’imposta e la tassa, in quanto condivide con l’imposta le caratteristiche dell’obbligatorietà e della coattività, e con la tassa la prerogativa della controprestazione a carico dell’ente pubblico. Il tributo più importante è senza dubbio l’imposta, poiché con il suo gettito lo Stato e gli altri enti pubblici erogano a favore della collettività i servizi finalizzati al soddisfacimento dei bisogni pubblici. Si definiscono elementi dell’imposta: i soggetti; il presupposto; l’oggetto o base imponibile; e l’aliquota. I soggetti si distinguono in soggetto attivo dell’imposta e soggetto passivo dell’imposta. Il soggetto

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attivo è il soggetto che esige l’imposta, cioè lo Stato o altro ente pubblico. Il soggetto passivo è il soggetto che subisce l’imposta, cioè il contribuente. Il presupposto dell’imposta è quel particolare fatto o atto giuridico da cui si fa derivare l’obbligo per il soggetto passivo di pagare l’imposta. L’oggetto o base imponibile dell’imposta è il valore, espresso in moneta, su cui l’imposta viene applicata. L’aliquota è il rapporto, espresso in percentuale, tra l’ammontare dell’imposta e la base imponibile. Le imposte vengono normalmente classificate secondo diversi criteri. Si distingue tra imposte dirette ed imposte indirette, imposte personali ed imposte reali, imposte ordinarie ed imposte straordinarie, imposte fisse, proporzionali, progressive, e progressive per scaglioni. Sono dirette le imposte che colpiscono le manifestazioni immediate, o dirette, della capacità contributiva, cioè il reddito ed il patrimonio. Sono indirette le imposte che colpiscono le manifestazioni mediate, o indirette, della capacità contributiva, quali il consumo, il trasferimento di beni e servizi, gli atti e i documenti a rilevanza giuridica, etc. Sono personali le imposte che colpiscono la ricchezza di un soggetto, tenendo conto della sua situazione economica generale. Sono reali le imposte che colpiscono la ricchezza di un soggetto, senza tener conto della situazione economica personale del contribuente. Sono ordinarie le imposte che hanno carattere permanente. Sono straordinarie le imposte che, invece, hanno carattere temporaneo. Sono fisse le imposte consistenti nel pagamento di una somma determinata, a prescindere dal valore della base imponibile. Sono proporzionali le imposte il cui ammontare aumenta in misura proporzionale alla base imponibile. Pertanto l’aliquota è costante. Sono progressive le imposte il cui ammontare aumenta in misura più che proporzionale rispetto alla base imponibile. Pertanto l’aliquota è crescente. Si parla di progressività per scaglioni quando la base imponibile viene suddivisa in scaglioni, a ciascuno dei quali si applica una diversa aliquota, che è maggiore ogni volta che lo scaglione di reddito diviene più elevato. L’imposta che il contribuente deve pagare è data dalla somma delle imposte calcolate su ogni singolo scaglione. Le principali imposte del sistema tributario italiano sono l’imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF), l’imposta sul reddito delle società (IRES), l’imposta regionale sulle attività produttive (IRAP), l’imposta sul valore aggiunto (IVA), e l’imposta di bollo. L’IRPEF è disciplinata dal testo unico delle imposte sui redditi (TUIR), approvato con decreto del Presidente della Repubblica del 22 dicembre 1986, n. 917, e notevolmente modificato dal decreto legislativo del 12 dicembre 2003, n. 344. L’imposta sul reddito delle persone fisiche è un’imposta diretta, personale, progressiva per scaglioni, che si applica sul reddito complessivo netto annuo delle persone fisiche. È, per gettito, la principale imposta diretta. I redditi che concorrono a formare la base imponibile sono classificati in sei categorie: redditi fondiari, redditi di capitale, redditi di lavoro dipendente, redditi di lavoro autonomo, redditi d’impresa, e redditi diversi. L’imposta viene determinata nel seguente modo: si elencano tutti i redditi che la persona fisica ha percepito durante l’anno precedente; si sommano tutti i redditi, e così si addiviene al reddito complessivo; dal reddito complessivo si sottraggono gli oneri deducibili, e così si ottiene il reddito complessivo imponibile, che costituisce la base imponibile dell’IRPEF; si divide il reddito complessivo imponibile in scaglioni; si applica su ogni scaglione l’aliquota corrispondente, e si calcola così l’imposta su ogni scaglione; si sommano le imposte corrispondenti ai singoli scaglioni;

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il risultato di questa somma è l’imposta lorda; dall’imposta lorda si sottraggono le detrazioni per ottenere l’imposta netta; l’imposta netta costituisce il debito che la persona fisica deve all’erario. L’IRES è anch’essa disciplinata dal testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica del 22 dicembre 1986, n. 917, e notevolmente modificato dal decreto legislativo del 12 dicembre 2003, n. 344. L’IRES è entrata in vigore dal 1° gennaio 2004 ed ha sostituito l’imposta sul reddito delle persone giuridiche (IRPEG). L’imposta sul reddito delle società è un’imposta diretta, personale, proporzionale, che si applica sul reddito complessivo netto annuo di società ed enti pubblici e privati esercenti o meno esclusivamente o principalmente attività commerciali. L’aliquota è unica e pari al trentatré per cento del reddito complessivo. L’IRAP è disciplinata dal decreto legislativo del 15 dicembre 1997, n. 446. L’imposta regionale sulle attività produttive è un’imposta reale, proporzionale, che si applica sul valore della produzione netta delle imprese, delle società, degli enti pubblici e privati, e degli esercenti arti e professioni. La base imponibile dell’IRAP è il valore della produzione netta, derivante dall’attività che il contribuente esercita nel territorio della Regione. Il valore della produzione netta è uguale alla differenza tra il valore della produzione lorda ed i costi di produzione. L’aliquota è unica e pari al quattro virgola venticinque per cento della base imponibile. L’IVA è disciplinata dal decreto del Presidente della Repubblica del 26 ottobre 1972, n. 633, rubricato “istituzione e disciplina dell’imposta sul valore aggiunto”, attuativo delle direttive comunitarie 67/227/CEE e 67/228/CEE. L’IVA è, pertanto, l’imposta comune ai ventisette Paesi membri costituenti la Comunità europea. L’imposta sul valore aggiunto è un’imposta indiretta, sulle vendite, proporzionale con aliquote differenziate. Rappresenta, per gettito, la principale imposta indiretta. L’IVA colpisce le cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate nel territorio dello Stato nell’esercizio di imprese o nell’esercizio di arti e professioni, le importazioni da chiunque effettuate, e gli acquisti intracomunitari. Sono soggetti passivi dell’IVA gli imprenditori, gli esercenti arti e professioni, gli importatori, e gli acquirenti intracomunitari. L’IVA è caratterizzata dall’istituto dell’obbligo della rivalsa e dall’istituto del diritto di detrazione. In forza dell’istituto dell’obbligo di rivalsa, l’imposta applicata sulla singola operazione imponibile da parte del cedente del bene o da parte del prestatore del servizio deve obbligatoriamente essere addebitata al destinatario dell’operazione medesima. In forza dell’istituto del diritto di detrazione, si consente agli esercenti attività d’impresa o arti e professioni di recuperare l’imposta subita sugli acquisti da quella applicata sulle vendite. Dal principio del diritto di detrazione deriva la possibilità per i soggetti passivi del costituirsi di vere e proprie posizioni creditorie verso lo Stato, nel caso in cui le imposte subite sugli acquisti eccedano quelle applicate sulle vendite: l’IVA è l’unica imposta da cui può derivare nei confronti dell’erario, anziché un debito, un credito. Il logico corollario dei due principi succitati è rappresentato dalla neutralità dell’IVA nei confronti dei soggetti passivi e dall’onere del tributo sopportato totalmente ed esclusivamente dal consumatore finale, il quale viene inciso dall’imposta. Attualmente le aliquote vigenti sono del quattro per cento, del dieci per cento, e del venti per cento, a seconda dei beni ceduti e dei servizi prestati. L’imposta di bollo è disciplinata dal decreto del Presidente della Repubblica del 26 ottobre 1972, n. 642. L’imposta di bollo è un’imposta indiretta, che colpisce tutti gli atti giuridici aventi forma scritta e ogni altro atto scritto suscettibile di essere giuridicamente utilizzato con funzione documentale, quale per esempio la cambiale e gli assegni circolari.

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L’imposta di bollo può essere fissa o proporzionale. È proporzionale per le cambiali, soggette all’imposta con l’aliquota del dodici per mille sul valore della cambiale, e per gli assegni circolari, soggetti all’imposta del sei per mille. Si distingue tra attività di accertamento dell’imposta e attività di riscossione dell’imposta. L’accertamento dell’imposta è il complesso delle attività tecniche mediante le quali l’amministrazione finanziaria determina il soggetto passivo, la base imponibile, l’ammontare dell’imposta, e notifica quest’ultima al contribuente. La riscossione dell’imposta è, invece, l’insieme delle attività mediante le quali l’amministrazione finanziaria entra in possesso delle imposte dovute dal contribuente. Infine, si osserva la distinzione tra evasione fiscale ed elusione fiscale. L’evasione è un fatto illecito consistente o nel sottrarsi ad un determinato onere tributario mediante violazione delle leggi che attengono al pagamento del tributo, al suo accertamento o alla sua riscossione, oppure nel provocare l’applicazione di agevolazioni tributarie al di fuori dei casi previsti dalla legge. A seconda della sua gravità, l’evasione è considerata reato o illecito civile ed è punita quindi, rispettivamente, o con le sanzioni che il diritto penale prevede per i delitti e le contravvenzioni oppure con le sanzioni che, nell’ambito tributario, si applicano all’illecito civile: la pena pecuniaria, la soprattassa, la chiusura di un esercizio commerciale. Dall’evasione fiscale bisogna distinguere l’elusione fiscale, consistente invece nel comportamento del contribuente teso ad evitare la debenza senza violare la legge e senza, di conseguenza, incorrere in alcuna sanzione da parte delle autorità. 2. La fattura, la ricevuta fiscale e lo scontrino fiscale Si premette che la rivalsa dell’IVA viene operata mediante l’addebito dell’imposta in fattura. L’articolo 21 del decreto del Presidente della Repubblica del 26 ottobre 1972, n. 633, afferma che per ciascuna operazione imponibile ai fini IVA il soggetto che effettua la cessione del bene o la prestazione del servizio è obbligato ad emettere fattura, anche sotto forma di nota, conto, parcella e simili. La fattura, datata e numerata in ordine progressivo per anno solare, deve contenere: se l’operazione è effettuata fra imprese, società o enti, la ditta, la denominazione o la ragione sociale, e la residenza o il domicilio dei soggetti intervenienti, e relativamente al cedente o prestatore il numero di partita IVA, altrimenti, in luogo di ditta, denominazione o ragione sociale, il nome ed il cognome; la natura, la qualità e la quantità dei beni e dei servizi formanti oggetto dell’operazione; i corrispettivi e gli altri dati necessari per la determinazione della base imponibile; l’aliquota e l’ammontare dell’imposta. La fattura deve essere emessa al momento dell’effettuazione dell’operazione. La si ritiene emessa all’atto della sua consegna o spedizione all’altra parte ovvero all’atto della sua trasmissione per via elettronica. La fattura in formato cartaceo deve essere compilata in duplice esemplare, di cui uno è consegnato o spedito all’altra parte. Le spese di emissione della fattura e dei conseguenti adempimenti e formalità non possono formare oggetto di addebito a qualsiasi titolo. L’emissione della fattura non è obbligatoria, se non è richiesta dal cliente al momento di effettuazione dell’operazione, per le cessioni di beni effettuate da commercianti al minuto autorizzati in locali aperti al pubblico, in spacci interni, mediante apparecchi di distribuzione automatica, per corrispondenza, a domicilio o in forma ambulante, per le prestazioni alberghiere e le somministrazioni di alimenti e bevande effettuate dai pubblici esercizi, nelle mense aziendali o mediante apparecchi di distribuzione automatica, per le prestazioni di trasporto di persone nonché di veicoli e bagagli al seguito, per le prestazioni di servizi rese nell’esercizio di imprese in locali aperti al pubblico, in forma ambulante o nell’abitazione dei clienti, per le prestazioni di custodia ed amministrazione di titoli e per gli altri servizi resi da aziende o istituti di credito e da società finanziarie o fiduciarie, etc.. L’articolo 8 della legge 10 maggio 1976, n. 249, istitutivo della ricevuta fiscale, statuisce che per

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determinate categorie di contribuenti dell’imposta sul valore aggiunto può essere stabilito l’obbligo di rilasciare apposita ricevuta fiscale per ogni operazione per la quale non è obbligatoria l’emissione di fattura. Sicché è obbligatorio il rilascio della ricevuta fiscale: per le somministrazioni di pasti e bevande e per le prestazioni alberghiere; per le cessioni effettuate dai commercianti al minuto di frigoriferi, congelatori e surgelatori, condizionatori d’aria autonomi, lavabiancheria, lavastoviglie, televisori, mobili per arredamento, anche imbottiti, di legno, etc., e per le cessioni effettuate dai medesimi commercianti di pietre preziose, perle naturali e coltivate, lavori in platino, pelli da pellicceria conciate o preparate, etc.; per le operazioni effettuate da esercenti attività di lavorazione, riparazione e manutenzione di autoveicoli e motoveicoli e loro parti, e per le operazioni effettuate da parrucchieri per signora; per le prestazioni di servizio effettuate, anche a domicilio, da esercenti laboratori di barbiere e parrucchiere da uomo e di estetista, laboratori di falegname in genere, laboratori di arte grafica e copisteria, laboratori di riparazione di impianti idraulici ed elettrici, laboratori di legatoria libri, laboratori di maglieria, laboratori di riparazione di apparecchi radiotelevisivi, fotocinematografici ed elettrodomestici in genere, imprese di pulizia, etc.; per le attività di noleggio di beni mobili. La ricevuta fiscale, contenente una numerazione progressiva prestampata per anno solare, anche con l’adozione di prefissi alfabetici di serie, deve essere datata e rilasciata per ciascuna operazione e contenere le seguenti indicazioni: la ditta, la denominazione o la ragione sociale, ovvero il nome e cognome se persona fisica, il domicilio fiscale ed il numero di partita IVA dell’emittente, nonché l’ubicazione dell’esercizio in cui viene esercitata l’attività e sono conservate le ricevute; la natura, la qualità e la quantità dei beni e servizi che sono oggetto dell’operazione; l’ammontare dei corrispettivi dovuti comprensivi dell’imposta sul valore aggiunto. Inoltre la ricevuta fiscale deve essere emessa in duplice esemplare, utilizzando stampati sostanzialmente conformi al modello di ricevuta fiscale unificata voluto dal legislatore, all’atto del pagamento del corrispettivo e copia della stessa deve essere consegnata contestualmente al cliente. Le ricevute fiscali vanno conservate fino al trentuno dicembre del quinto anno successivo a quello di emissione. La legge del 26 gennaio 1983, n. 18, istitutiva dello scontrino fiscale, sancisce l’obbligo di rilasciare il suddetto documento, mediante l’uso esclusivo di speciali registratori di cassa, o di terminali elettronici, o di idonee bilance elettroniche munite di stampante, in occasione delle cessioni di beni effettuate in locali aperti al pubblico o in spacci interni per le quali non è obbligatoria l’emissione della fattura, ed in occasione della somministrazione in pubblici esercizi di alimenti e bevande non soggette all’obbligo del rilascio della ricevuta fiscale. Lo scontrino fiscale deve contenere, ciascuna con un proprio capoverso, le seguenti indicazioni: la ditta, la denominazione o la ragione sociale ovvero il cognome e nome; il numero di partita IVA dell’emittente e l’ubicazione dell’esercizio; i dati contabili; la data, l’ora di emissione ed il numero progressivo; il logotipo fiscale ed il numero di matricola dell’apparecchio misuratore fiscale. Dal combinato disposto delle tre richiamate norme si evince la palese volontà del legislatore tributario di contrastare la tendenza all’evasione dell’IVA tra i soggetti passivi del tributo mediante la fattura, la tendenza all’evasione da parte dei prestatori di servizi mediante la ricevuta fiscale, e la tendenza all’evasione da parte dei dettaglianti ed artigiani mediante lo scontrino fiscale. Non sono soggette all’obbligo di certificazione né a mezzo ricevuta fiscale né a mezzo scontrino fiscale le seguenti operazioni: le cessioni di tabacchi e di altri beni commercializzati esclusivamente dall’amministrazione autonoma dei monopoli di Stato; le cessioni di beni iscritti in pubblici registri, di carburanti e lubrificanti per autotrazione; le cessioni di giornali quotidiani, di periodici, di supporti integrativi, di libri, etc.; le prestazioni di servizi rese da notai per i protesti di cambiali e assegni bancari, etc.; le prestazioni di custodia ed amministrazione di titoli ed altri servizi resi da aziende o istituti di credito, da società finanziarie o fiduciarie e dalle società di intermediazione mobiliare; le prestazioni inerenti e connesse al trasporto pubblico collettivo e di veicoli e di bagagli

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al seguito effettuate dal soggetto esercente l’attività di trasporto; le cessioni da parte di venditori ambulanti di palloncini, piccola oggettistica per bambini, gelati, dolciumi, caldarroste, olive, sementi e affini, non muniti di attrezzature motorizzate, e comunque da parte di soggetti che esercitano, senza attrezzature, il commercio di beni di modico valore, con esclusione di quelli operanti nei mercati rionali; le prestazioni rese dalle agenzie di viaggio e turismo concernenti la prenotazione di servizi in nome e per conto del cliente; le prestazioni di parcheggio di veicoli in aree coperte o scoperte, quando la determinazione o il pagamento del corrispettivo viene effettuato mediante apparecchiature funzionanti a monete, gettoni, tessere, biglietti o mediante schede magnetiche elettriche o strumenti similari, indipendentemente dall’eventuale presenza di personale addetto; etc.. Il rilascio dello scontrino o della ricevuta non è obbligatorio nell’ipotesi in cui per la stessa operazione sia emessa la fattura. Ai fini della deducibilità delle spese sostenute per gli acquisti di beni e di servizi agli effetti dell’applicazione delle imposte sui redditi, può essere utilizzato lo scontrino fiscale, a condizione che questo contenga la specificazione degli elementi attinenti la natura, la qualità e la quantità dell’operazione e l’indicazione del numero di codice fiscale dell’acquirente o committente, ovvero la ricevuta fiscale integrata a cura del soggetto emittente con i dati identificativi del cliente. L’articolo 33 della legge del 24 novembre 2003, n. 326, ha abrogato la sanzione amministrativa che veniva comminata al destinatario dello scontrino fiscale e della ricevuta fiscale che, a richiesta degli organi accertatori, nel luogo della prestazione o nelle sue adiacenze, non esibiva il documento o lo esibiva con indicazione di un corrispettivo inferiore a quello reale. Dal 1° gennaio 2005, venuti meno gli effetti dell’adesione al concordato preventivo, è obbligatorio rilasciare scontrini e ricevute fiscali indipendentemente dalla richiesta del cliente. Da ultimo si osserva che la fattura, la ricevuta fiscale, e lo scontrino fiscale hanno valore di prova presuntiva di avvenuto pagamento.