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I.T.S.E. TURISMO IDONEITA’ ARTE E TERRITORIO - Arte Greca - Le Origini dell’arte - Storia dell’architettura - La Nascita dell’arte Italiana - Giotto - Il Tardo Gotico - Arte Fiamminga - Primo Rinascimento - La Diffusione del Rinascimento - Il Rinascimento Maturo - La Pittura Veneziana del Cinquecento - Il Manierismo - Vecellio - Tintoretto - Arte Barocca - Bernini - Il Patrimonio Culturale

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I.T.S.E. TURISMO

IDONEITA’

ARTE E TERRITORIO

- Arte Greca - Le Origini dell’arte - Storia dell’architettura - La Nascita dell’arte Italiana - Giotto - Il Tardo Gotico - Arte Fiamminga - Primo Rinascimento - La Diffusione del Rinascimento - Il Rinascimento Maturo - La Pittura Veneziana del Cinquecento - Il Manierismo - Vecellio - Tintoretto - Arte Barocca - Bernini - Il Patrimonio Culturale

ARTE GRECA

Periodizzazione dell’arte greca

Nell’ambito delle civiltà antiche, la civiltà greca ha fornito una accelerazione notevole a molti ambiti del pensiero e della cultura. Dalla filosofia al teatro, dalla poesia alla matematica, non c’è stato ambito della conoscenza che non sia stato esplorato dagli antichi greci. Da un contesto così vivace e produttivo, non rimane esclusa nessuna attività artistica. La scultura venne portata a livelli insuperabili; la pittura raggiunse obiettivi mai neppure tentati; l’architettura perfezionò talmente le sue forme, da rimanere eredità valida per molti secoli a venire.

Nella grande parabola dell’arte greca, si possono distinguere diversi periodi, che segnano l’evolversi delle conquiste tecniche ed artistiche di questa civiltà. In sintesi, possiamo suddividere l’arte greca in tre periodi fondamentali:

1. periodo di formazione 2. periodo di maturazione 3. periodo di diffusione.

1. Il periodo di formazione va dal 1100 al 650 circa a.C. In questa fase si assiste ad una produzione artistica ancora legata a schemi rudimentali, dove predomina una stilizzazione geometrica di fondo, memore ancora della produzione che in queste zone avvenne in età neolitica e del bronzo, e che va sotto il nome di arte cicladica. Una ulteriore partizione di questo periodo può essere sinteticamente fatta tra due periodi principali:

il periodo geometrico (XI-VIII sec. a.C.): in cui predomina uno stile astratto e decorativo, ottenuto con motivi geometrici. Anche la figura, sia umana che animale, venne resa con una geometrizzazione costruttiva, che tendeva a rendere le varie parti di un corpo a figure elementari quali il triangolo, il trapezio, il cono, il cilindro, la sfera, eccetera.

il periodo orientale (prima metà del VII sec. a.C.): in questo periodo, sotto l’influenza delle grandi culture orientali, si iniziò a produrre la grande statuaria e l’architettura monumentale dei templi.

2. Il periodo della maturazione, (dal 650 al 330 circa a.C.) vide l’arte greca raggiungere le alte vette di una espressione artistica piena e matura, e che resterà insuperata in tutto il mondo antico. In base all’evoluzione stilistica, questo periodo, di eccezionale fioritura, può essere suddiviso nei seguenti periodi:

il periodo arcaico (650-480 a.C.): è il periodo in cui iniziò a mostrarsi l’autonomia del gusto greco, nel momento in cui le influenze orientaleggianti erano pienamente superate.

il periodo severo (480-450 a.C.): fase di transizione dal periodo arcaico a quello classico, in cui emergono le grandi figure di scultori quali Mirone, ed inizia la grande statuaria in bronzo.

il periodo classico (450-400 a.C.): coincide con l’età di Pericle, con la realizzazione sull’acropoli di Atene del Partenone e con l’attività di grandi scultori quali Fidia e Policleto. È il momento di maggior equilibrio estetico dell’arte greca, ed è quello che è stato sempre considerato di maggior perfezione.

il periodo del secondo classicismo (400-323 a.C.): è il periodo che va dalla guerra del Peloponneso alla morte di Alessandro, e rappresenta una fase di maggior interesse problematico, in cui si assiste alla progressiva ricerca di un espressionismo maggiore, meno legato alla pura forma estetica.

3. il periodo della diffusione (323 - 31 a.C.): è la fase in cui l’arte greca non è più lo stile nazionale di alcune città greche e delle loro colonie, ma diviene uno stile internazionale, diffuso in tutta l’area del Mediterraneo ed oltre.

A questo periodo si dà, di solito, il nome di arte ellenistica. Esso va convenzionalmente dalla morte di Alessandro alla battaglia di Azio, quando i romani divennero i padroni assoluti di tutte le principali aree in produzione ellenistica.

Da questo momento, l’ellenismo di fatto non scompare, ma viene assorbito da quell’arte romana, che rappresenta la continuità perfetta con il mondo artistico dei greci.

Il «classico»

L’arte greca si lega indissolubilmente con il concetto di classico. Al termine classico, più che l’individuazione cronologica di un periodo storico preciso, va richiesto il contenuto estetico di una particolare visione dell’arte. Il classico, possiamo dire, si lega al concetto di perfezione assoluta. È classica un’arte non suscettibile di valutazioni contingenti o relative, quali fenomeni di gusto individuali e soggettivi, ma ispirata a valori universali ed eterni, che daranno sempre un sereno godimento estetico. Come giunse l’arte greca ad un simile risultato? L’arte greca, benché avesse l’eredità della cultura minoica-micenea come base di partenza, in realtà, iniziò il suo autonomo percorso agli inizi del 1000-1100 a.C., quando il Peloponneso fu invaso dai Dori. L’arrivo di queste nuove popolazioni, comportò lo spostamento degli achei e degli ioni verso est: verso le isole cicladiche e la costa turca. I dori, popolo di origine rurale esente da raffinatezze estetizzanti, portò inizialmente ad un apparente decadimento della produzione artistica, rispetto all’ultima produzione sub-micenea.

In realtà, in questa fase si affermò una nuova visione del manufatto artistico, in cui prevaleva la volontà di affidarsi alla matematica e alla geometria. Lo spirito matematico, pur quando si esaurì la fase detta «periodo geometrico», rimase una costante della visione artistica greca, anche nei periodi successivi, come poi vedremo.

Vi era, in questo atteggiamento, le premesse per lo sviluppo del razionalismo greco. In questa fase, la produzione artistica, ridotta a sperimentazioni geometriche, finì per produrre oggetti e rappresentazioni del tutto antinaturalistiche, in cui prevaleva una schematizzazione geometrica di tipo quasi astratto. L’inversione di tendenza avvenne nel cosiddetto «periodo orientale», quando l’arte greca venne a spostarsi sul piano del confronto con le arti orientali, arti in cui prevaleva la rappresentazione volumetrica e la produzione della grande statuaria. L’arte greca iniziò a convertirsi al naturalismo, ma senza perdere il suo essenziale spirito matematico. E così ottenne risultati superiori a qualsiasi altro stile antico.

Uno dei concetti guida del naturalismo greco è la proporzione. La proporzione è anche una formulazione matematica: essa stabilisce l’uguaglianza di due rapporti.

a : b = c : d

Gli artisti greci non si limitano ad osservare il corpo umano. Lo misurano, per individuare i rapporti numerici, che esistono tra una parte e l’altra, e tra le singole parti e il tutto. Arrivarono così a definire che, in un corpo perfetto ed armonico, la testa, ad esempio deve essere l’ottava parte dell’altezza. Cioè:

testa : altezza = 1 : 8

Dopo di che, la statua, indipendentemente dalla sua dimensione, risulterà proporzionata, se rispetta il medesimo rapporto. Ossia:

rapporti della rappresentazione = rapporti della realtà

L’arte greca classica non potrebbe essere più naturalistica. Ha una tale fiducia nel suo spirito di razionalizzazione, che annulla anche il problema della percezione: cerca di rappresentare la realtà, depurata da qualsiasi forma di soggettivismo sia percettivo sia interpretativo. Giunge così nella statuaria, a risultati che, sul piano della fedeltà anatomica, non ha eguali. Il concetto di proporzione fu alla base dell’istituzione del canone di Policleto, ma fu anche alla base degli ordini architettonici. Canone ed ordini divennero, quindi, strumenti normativi che fissavano le leggi e gli ambiti in cui poteva muoversi la creatività artistica. Essi contribuirono molto a definire l’omogeneità stilistica dell’arte greca, pur restando un astratto strumento matematico.

Ma il concetto di classico non si limita qui. Non si limita ad una razionalizzazione dei metodi e delle procedure artistiche, che, in fondo, avrebbero portato solo a conquiste tecniche, per una migliore rappresentazione mimetica. Il classico va oltre.

La realtà umana ha infinite forme: gli individui. Alcuni possono essere belli, altri meno. Copiando l’individuo, si avrebbe la rappresentazione di un uomo. L’artista greco, invece, vuole rappresentare l’uomo, ossia il limite perfetto a cui può giungere la forma umana. E a ciò, giunge per approssimazioni successive: sceglie le parti migliori, che riesce ad individuare nei singoli individui, e le assembla.

Perché i greci volevano rappresentare l’uomo? Sicuramente perché intesero sempre la conoscenza come conoscenza universale. Un simile atteggiamento li portò alla formulazione del mito, come racconto archetipo, in cui non importa la verità ma la verosimiglianza, dove ciò che conta non è il ricordo di un fatto particolare, ma l’espressione di un significato universale. La rappresentazione dell’uomo ideale, non è altro che una ricerca del mito. Ma, oltre che forma, il corpo umano è anche movimento. Può modificare il proprio aspetto in base alla posa, all’espressione del viso, ai gesti che compie. Ed anche qui, il classico è tale perché ricerca il momento di maggior armonia formale. Quell’istante, che prende il nome di momento pregnante, di grande concentrazione interiore, o di assenza di emozioni, che rendono eterno un singolo istante. Proporzione ed armonia: queste sono le due ricette principali dell’arte classica. E da allora, nel successivo sviluppo dell’arte occidentale, sono divenute le caratteristiche di qualsiasi «classico». Inutile dire che, per la grande fortuna di cui ha goduto, il «classico» è divenuto sinonimo di perfezione. È divenuto l’espressione di principi e valori senza tempo; di una bellezza, in sostanza, che fosse esente da mode passeggere.

Finalità dell’arte, artisti, democrazia

Se l’arte egizia ci appare statica ed immutabile, nella sua stereotipa ripetizione, l’arte greca ci appare, per contro, dinamica ed evolutiva. La concezione con cui si guarda al fenomeno dell’arte greca, è quello tipico della «parabola»: una fase crescente, una fase apicale, ed una fase discendente. L’arte egizia potrebbe, invece, con analogo paragone geometrico, essere paragonata ad una retta orizzontale. I motivi di questa differenza furono essenzialmente due.

Il primo motivo fu di ordine politico: l’arte egizia, abbiamo visto, risentiva della subordinazione ad un potere politico forte, e come tale, finì per adeguarsi alla generale visione di sudditanza e mancanza di libertà; per contro, l’arte greca ricevette benefico impulso dal clima di democrazia in cui fiorì. La Grecia, pur essendo una nazione, non divenne mai uno stato, e si organizzò secondo una visione municipalistica (le polis), che garantiva una più diretta partecipazione alla vita politica delle classi sia aristocratiche sia borghesi. L’idea che l’arte sia ricerca del nuovo, e quindi evoluzione qualitativa secondo una dinamica di sperimentazione, è diretta conseguenza della libertà espressiva dell’artista. Se all’artista viene riconosciuta la libertà, esso può variare la propria visione dell’arte, e, di conseguenza, può raggiungere obiettivi diversi, e migliori, rispetto agli artisti delle generazioni precedenti. Se il clima politico non è basato sul principio delle libertà individuali,

appare evidente che anche l’artista non gode di quel fervore di ricerca e perfezione individuale, che, da sempre, rappresenta una motivazione fondamentale per i progressi dell’arte. Pur senza considerarla una meccanica equazione, appare evidente che le libertà politiche creano un terreno fertile anche per l’arte, mentre la rigida coercizione dittatoriale, imprigionando la fantasia e la libertà creativa individuale, limitano le modificazioni dell’espressione artistica e l’evoluzione dello stile.

Il secondo motivo, che differenziò l’arte greca da quella egizia, fu di ordine culturale: gli egizi usavano l’arte figurativa, al pari della scrittura, per la comunicazione e la propaganda politica; i greci, invece, facevano arte per due diversi motivi: la bellezza e la conoscenza. La bellezza, per i greci, non era solo decorazione, bensì il piacere per le cose giuste e perfette. La bellezza, abbiamo visto, per i greci aveva sempre un fondamento matematico. La bellezza rappresentava, in sostanza, l’ordine dell’universo. E l’attività artistica, se intesa come rappresentazione del reale, è sempre un metodo per attingere la «conoscenza».

Se la democrazia fu la premessa per lo sviluppo dell’arte greca, l’ansia di conoscenza ne fu invece la spinta principale. Non a caso, nell’antica Grecia, oltre alla democrazia, nacque anche la filosofia. La filosofia, come attività conoscitiva basata sulla speculazione, fu il definitivo trionfo del linguaggio, inteso come strumento fondamentale del pensiero, e quindi della conoscenza. I greci, pur portando l’arte figurativa a livelli qualitativi mai prima raggiunti, di fatto la pose su un livello di importanza inferiore, decretandone la definitiva subordinazione alla parola. Questa apparente contraddizione, appare in tutta la sua evidenza se si passa a considerare l’atteggiamento che i greci ebbero nei confronti degli artisti. Questi non furono mai considerati dei veri intellettuali. Anzi, con una punta anche di disprezzo, furono sempre considerati né più né meno che degli artigiani. Ovvero, dei tecnici, tanto che, in greco, l’arte figurativa veniva denominata con la parola «techne».

Un’altra contraddizione, in fondo anche questa solo apparente, fu l’utilizzo successivo dell’arte greca. Fino ai nostri giorni, l’arte classica è sempre stata quella a cui hanno ricorso i regimi «forti», dagli antichi romani alle dittature del XX secolo. Il «classico», come arte di regime, sembra una contraddizione con uno stile che nacque proprio dalla democrazia. In realtà, proprio per gli alti risultati raggiunti, l’arte greca è rimasta, nelle concezioni successive, come un risultato, non più perfezionabile, ma solo da imitare ed applicare. In tal modo, imponendo una visione artistica basata sul metodo applicativo e non sulla fantasia creatrice, il regime «forte», che ricorreva al classico, aveva buon gioco sulla pericolosa ed incontrollabile anarchia che l’arte, lasciata libera, poteva fomentare.

Le arti figurative

La nostra conoscenza dell’arte greca è decisamente parziale, dato che molta produzione artistica è totalmente scomparsa e noi ne abbiamo una vaga conoscenza

solo attraverso le fonti. Del tutto ignota ci è ad esempio la pittura: le fonti storiche ci parlano di famosi pittori le cui opere erano oggetto di grande ammirazione al loro tempo. Noi purtroppo ignoriamo completamente lo stile e la qualità di questa produzione figurativa. È da considerare che la pittura, sia quella pratica su muro sia quella mobile pratica su supporti lignei, è molto più fragile rispetto ad altre opere d’arte: una statua può anche sopravvivere millenni sotto terra o in fondo al mare, ma non può certo conservarsi in analoga situazione un dipinto o un affresco.

Le uniche testimonianze pittoriche che ci sono giunte dall’antichità sono frutto sempre di casi eccezionali: o si tratta di dipinti che erano realizzati in tombe (come usavano fare gli etruschi) o sono il frutto di eventi straordinari, quali i casi di Pompei ed Ercolano, la cui particolare sorte, legata all’eruzione del Vesuvio, ci ha consegnato affreschi e mosaici che in condizioni normali sarebbero stati anch’essi distrutti. La nostra conoscenza della pittura greca è pertanto mediata proprio dal suo riflesso in coeve o posteriori manifestazioni artistiche. Infatti, sia l’arte etrusca sia l’arte romana ed ellenistica, sono strettamente legate all’evoluzione pittorica greca.

Altro discorso bisogna invece fare per ciò che riguarda la ceramica, di cui abbiamo una sufficiente quantità di opere per giudicarne il valore e la base estetica. Questa arte fu dagli antichi greci tenuta in altissima considerazione: la sua evoluzione è stata notevole, consegnandoci capolavori di assoluto valore. È però rischioso assumere la produzione ceramica a metro per giudicare la produzione pittorica degli antichi greci, come spesso viene proposto: enormi sono le differenze di tecniche e materiali per poter considerare surrogabili le due diverse espressioni artistiche.

Dalle notizie che le fonti ci hanno consegnato appare evidente che il percorso artistico della pittura greca è stato anch’esso orientato alla conquista del pieno naturalismo. Rispetto alla pittura antica, i greci abbandonano l’uso delle campiture uniformi per iniziare l’uso graduale di colori e tinte. Sperimentano, in pratica, per la prima volta nella pittura l’uso del chiaroscuro. Con questa tecnica, che consiste nel graduare un colore da un tono chiaro ad uno scuro in base all’angolazione che il corpo presenta rispetto alla fonte luminosa, si riesce a rendere sul piano bidimensionale dell’immagine la sensazione tridimensionale di un corpo o di oggetto reale.

Ad introdurre per primo nell’arte greca l’uso del chiaroscuro è stato un pittore attivo ad Atene intorno alla metà del V secolo a.C.: Polignoto di Thasos. A lui si deve la fondazione della scuola attica di pittura, ma anche altre conquiste stilistiche, oltre al chiaroscuro: elementi di paesaggio per la costruzione di uno sfondo spaziale alle figure e la definizione dei caratteri psicologici dei personaggi mediante lo studio di espressioni del volto e movimenti del corpo. Per definire compiutamente l’immagine naturalistica non basta l’illusione tridimensionale dei volumi, c’è bisogno anche di uno spazio figurativo tridimensionale. Come è noto, la tecnica che riduce ad immagine lo spazio è la prospettiva, ma tale tecnica è conquista del Rinascimento

italiano. Nell’antica Grecia non abbiamo elementi per ritenere che tale tecnica fosse già nota, però diversi elementi fanno ritenere che anche i pittori greci applicassero una sorta di prospettiva empirica, e non geometrica, basata non su un solo punto di vista ma su più punti di vista. Le ricerche in questo campo si devono sempre a pittori attici attivi nel V secolo, quali Agatarco, che applicò la pittura alla costruzione di fondali per il teatro inventando la scenografia, e Zeusi, celebre pittore autore soprattutto di quadri da cavalletto.

Nel IV secolo la pittura greca conobbe ulteriori sviluppi e altre notevoli personalità artistiche, anch’esse note solo dalle fonti, quali Pausia, Apelle o Filosseno. In questo secolo i pittori abbandonano gradualmente l’uso del disegno per eseguire una pittura costruita direttamente con il colore. Introducono in pratica quella tecnica che Plinio definisce «compendiaria», consistente in una veloce stesura di pennellate che costruiscono le immagini direttamente per contrasti di colori e di luci. È una tecnica probabilmente molto simile a quella che molti secoli dopo utilizzeranno pittori veneziani del Cinquecento quali Tiziano o Tintoretto.

Con Apelle, il più ammirato pittore dell’antica Grecia, si chiude anche cronologicamente il classicismo greco e inizia quel periodo definito «ellenismo», erede e testimone della notevole fioritura che nell’antica Grecia ebbe anche la pittura, espressione artistica che purtroppo non ci ha lasciato opere superstiti.

La ceramica

La produzione ceramica ha origini antichissime. I primi esempi noti risalgono all’età mesolitica (circa 10.000 anni fa), e da allora gli oggetti prodotti con la cottura di argilla hanno rivestito sempre un ruolo rilevante nella vita quotidiana degli uomini del passato. Anfore e vasi costituivano i recipienti per eccellenza per contenere e conservare cibi, acqua, bevande, liquidi vari, medicamenti, sementi eccetera. La loro destinazione fondamentalmente pratica non ha impedito che i vasi divenissero anche momento di esercitazione estetica, e, per questa loro potenzialità, sono rimasti come testimonianza di civiltà e arte al pari di altre espressioni artistiche quali statue, templi, dipinti, mosaici, e così via. La produzione ceramica dell’antica Grecia, al pari di altre arti figurative, ha raggiunto vertici di perfezione unici. Diverse sono state le fasi e gli stili, nonché le tecniche utilizzate, ma prima di analizzarli, vediamo le diverse tipologie di vasi. Le forme dei vasi erano diverse e prendevano nomi differenti. La loro diversità era dettata soprattutto dalla funzione che i vasi erano chiamati a svolgere.

Di seguito si riportano i nomi di alcuni dei principali vasi:

• Alabastron: vasetto di forma allungata e di piccole dimensioni, era usato per contenere profumi ed essenze.

• Anfora: vaso a due ante per contenere liquidi, variava di dimensioni passando da forme modeste (venti centimetri di altezza) fino a recipienti che arrivavano al metro e mezzo di altezza; ha in genere forma panciuta e collo stretto.

• Aryballos: piccolo vaso adatto a diversi usi. • Cratere: il principe dei vasi antichi. La sua caratteristica è di avere la bocca

larga di diametro superiore alla pancia. In tal modo era facilmente utilizzato per servire a tavola sia portate di cibo cotto sia vino e altri liquidi. In base alla posizione e alla forma dei manici (sempre pari a due) il cratere veniva detto a volute, a calice, a colonnette (o kelebe) o a campana.

• Hydria: Vaso utilizzato per attingere acqua alle fonti e per il successivo trasporto. Per tale motivo non era di dimensioni eccessive ed aveva tre manici, due sulla pancia e uno sul collo.

• Kalpis: piccolo vaso a forma di anfora, utilizzato anche come urna cineraria. • Kantharos: tazza con due alti manici, utilizzata soprattutto per bere. • Kylix: vaso a forma di coppa utilizzato per servire a tavola. • Lebete: vaso di forma allungata con coperchio utilizzato spesso solo a fini

decorativi. • Lekane: vaso a forma di piatto che poteva anche avere il coperchio. • Lekythos: piccolo vaso di forma allungata ad un manico per contenere

profumi e unguenti. • Oinochoe: Piccolo vaso con un manico alto, veniva usato per attingere vino o

acqua nei vasi di maggiori dimensioni quali i crateri. • Olpe: piccolo vaso a un manico e a bocca rotonda che veniva usato per

contenere oli profumati. • Pyxis: vaso con coperchio utilizzato soprattutto in campo medico per la

preparazione e la conservazione di unguenti e medicamenti. • Skyphos: piccolo vasetto simile ad un moderno bicchiere o boccale. • Stamnos: vaso con coperchio usato come giara per il vino.

La produzione ceramica, come si diceva precedentemente, rimane l’unica manifestazione figurativa dell’antica Grecia, visto che la produzione pittorica è totalmente scomparsa. Nei vasi abbiamo in genere la rappresentazione di quell’enorme patrimonio di storie mitologiche la cui produzione ed elaborazione costituisce uno dei tratti più peculiari della cultura della Grecia antica. Da un punto di vista stilistico la produzione ceramica segue gli sviluppi dell’arte coeva. Si passa da una visione schematica, comune a tutta l’arte del periodo geometrico, in cui prevale la decorazione con motivi astratti, ad una visione estetica più naturalistica, in cui la superficie del vaso diviene il supporto per rappresentazioni più naturalistiche e narrative.

Grandi centri di produzione furono soprattutto Corinto e Atene, dove si sviluppò rispettivamente la grande ceramica corinzia ed attica. A Corinto si sviluppa per la prima volta una ceramica che si distacca dal geometrico per introdurre una

figurazione a motivi fantastici simile a quella prodotta in oriente. Ad Atene, dopo una prima produzione definita "protoattica", in cui sono ancora evidenti le influenze dello stile geometrico, si passa, intorno la metà del VI secolo, ad una nuova ceramica definita "a figure nere". I vasi prodotti con terre a base di argilla, nel momento in cui vengono cotti, prendono una colorazione tendente al rosso brunito non saturo. Su questo colore, che deriva dalla materia stessa del vaso, le figure erano realizzate con grandi masse campite in vernice nera. All’interno di questa grande campitura i particolari della figura erano definiti tramite un sottile disegno realizzato con il bulino (nome che indica gli strumenti a punta metallica usati per incidere), che, graffiando la superficie verniciata di nero, faceva apparire il rosso della terracotta sottostante.

Un passaggio notevole nella ceramica attica avvenne intorno alla fine del VI secolo con l’invenzione della nuova tecnica definita "a figure rosse". In questo caso il vaso veniva interamente verniciato di nero mentre le figure erano interamente ricavate per graffito. In tal modo si invertiva il rapporto cromatico tra figura e fondo: non erano più le figure ad avere un colore nero su uno sfondo rosso, ma le figure erano composte da masse rosse su uno sfondo completamente nero. La differenza sostanziale è che nel primo caso i particolari delle figure erano realizzati solo con il bulino, mentre nel secondo caso si poteva far uso dei pennelli consentendo quindi al pittore del vaso una più ampia gamma di linee che potevano variare nello spessore e nell’intensità cromatica. In tal modo la pittura vascolare riusciva ad imitare meglio la realtà raffigurata, e nello stesso tempo riusciva a partecipare dello sviluppo tecnico che conosceva nello stesso periodo la grande pittura parietale.

È ovvio dedurre che i vasi così prodotti, sia "a figure nere" sia "a figure rosse", nascevano unicamente dall’abilità nel disegno dell’artista: tutto andava risolto sulla capacità di controllo della linea funzionale, sia per delineare le figure sia per armonizzarne i rapporti reciproci nello spazio figurativo. Il limite di questa tecnica era ovviamente di non consentire la rappresentazione cromatica. E proprio sulla scorta di questo problema, intorno alla metà del V secolo, iniziò la crisi della ceramica attica. La nuova ceramica che si affermò in periodo classico cercò di risolvere il problema introducendo il fondo bianco. In questo caso la preventiva verniciatura della superficie del vaso consentiva al pittore di introdurre la campitura con altri colori, quali il rosa, il giallo o l’azzurro. Certo, per i limiti tecnici dovuti al procedimento della cottura, la gamma cromatica non poteva essere molto ampia, ma di certo i vasi a fondo bianco raggiungono una qualità nella rappresentazione di livello ineguagliato. Il disegno rimase sempre la base fondamentale della costruzione delle figure, ma a ciò si unì la possibilità di campiture cromatiche che consentivano una nuova armonia realizzata con masse e non solo con superfici.

Da ricordare, infine, che la produzione di un vaso aveva due momenti ben distinti: quello della modellazione plastica del vaso, che in genere avveniva grazie all’uso del tornio rotante, e quello della decorazione e colorazione della sua superficie. Nel momento di maggiore evoluzione dell’arte ceramica si giunse anche alla

specializzazione attuativa di queste due fasi: in pratica a realizzare il vaso intervenivano due distinti artisti, quello che modella il vaso, che era chiamato ceramista, e quello che lo dipingeva, che era invece chiamato ceramografo.

Le arti plastiche

La produzione scultorea greca rappresenta, per noi moderni, la maggiore sintesi del loro spirito estetico. Produzione che anch’essa è andata in gran parte perduta, come è avvenuto per le opere pittoriche. Ma, pur non avendo più molti originali, le opere greche ci sono note grazie alle numerosissime copie di epoca romana. Da esse, pur con le dovute considerazioni che trattasi pur sempre di copie, è stato possibile ricostruire il percorso storico e l’evoluzione stilistica dell’arte plastica greca.

Gli esordi, ovviamente, affondano le radici nelle culture preistoriche e protostoriche autoctone. In particolare, notevole precedente della plastica greca sono le statuette e gli idoli a forma di violino apparsi nei siti archeologici delle isole dell’arcipelago greco delle Cicladi: per essi si è adottato il termine di "arte cicladica". È un’arte che si sviluppa a partire dal III millennio a.C. con uno stile dalla forte stilizzazione geometrica. Questa stilizzazione permane nella produzione greca di fatto fino al VII secolo circa, quando la statuaria greca comincia per la prima volta a cimentarsi nella produzione monumentale e non più nella limitata produzione di idoletti di ridotte dimensioni. È il periodo in cui la cultura greca guarda ad oriente, ispirandosi a modelli egiziani e babilonesi. Ciò le permette di superare il suo orizzonte, fino a quel momento di limite provinciale, per avviarsi a quella radicale evoluzione che la porta ad essere il nuovo baricentro della produzione artistica del Mediterraneo.

Schematizzando le tappe evolutive, che saranno meglio dettagliate nelle schede dedicate agli autori e alle opere, la statuaria greca segue in sintesi il seguente percorso.

Nel periodo orientale (prima metà del VII sec. a.C.) ha inizio la produzione della grande statuaria e delle grandi realizzazioni destinate ai frontoni dei templi. In questo periodo sono evidenti le influenze dalle culture orientali e le statue greche non si distaccano da quei moduli figurativi. Nella figura eretta prevale ad esempio la posizione stante di evidente derivazione egiziana.

Nel periodo arcaico (650-480 a.C.) inizia l’autonomia del gusto greco. Di questo periodo sono soprattutto le statue dei kouroi e delle kore, fanciulli di ambo i sessi che rappresentano probabilmente portatori di offerte alle divinità. La produzione si orienta secondo tre stili fondamentali: il dorico, lo ionico e l’attico. Il primo, che si sviluppa nell’area occidentale della Grecia, si orienta ad una forma massiccia e di grande impatto volumetrico; lo stile ionico assunse invece caratteristiche più slanciate e raffinate; lo stile attico, che si sviluppò ovviamente ad Atene, rappresenta una sintesi di volumetrie doriche e raffinatezze estetiche ioniche.

Il periodo severo (480-450 a.C.) viene così definito per una caratteristica singolare: le statue smettono di sorridere. In pratica nelle statue realizzate fino al 480 a.C. nei volti delle statue gli scultori cercavano di evidenziare la forma plastica della bocca tirando in fuori le labbra e accentuando le fossette al loro punto di congiunzione. In questo modo le statue avevano inevitabilmente tutte un aspetto sorridente. Quando infine si decise di abbandonare questa tecnica del modellare le bocche, le statue smisero di sorridere. In realtà il periodo severo fu importante nell’evoluzione della statuaria greca non per questo particolare secondario, me perché in questa fase inizia quella grande ricerca che portò al periodo classico. È il periodo di Mirone che introduce nuove forme e tecniche di rappresentazione, quali la ricerca del movimento. È anche il periodo in cui gli artisti greci iniziano la produzione delle sculture in bronzo secondo la tecnica della fusione a cera persa.

Il periodo classico (450-400 a.C.), che coincide con l’età di Pericle, e con la realizzazione sull’acropoli di Atene del Partenone, viene considerata l’epoca aurea dell’arte greca. È il periodo in cui operano Policleto e Fidia, considerati i maggiori scultori della cultura greca. Con loro si raggiunse in pratica quell’equilibrio della rappresentazione che sembra il coronamento del sogno greco: ottenere il pieno controllo della rappresentazione plastica. Policleto fu inoltre l’inventore di importanti norme che saranno di fondamento per tutta la statuaria posteriore: la posizione a chiasmo (che sostituisce finalmente la rigida simmetria della posizione stante) e la regola del canone, utile per il proporzionamento della statue che raffigurano figure umane.

Nel periodo del secondo classicismo (400-323 a.C.), periodo che va dalla guerra del Peloponneso alla morte di Alessandro, si assiste ad una svolta significativa nella statuaria greca. È il periodo di grandi artisti quali Skopas, Prassitele e Lisippo. Ed è anche il periodo in cui un nuovo senso di decadenza sembra incrinare la eroica perfezione dei modelli classici. Si assiste in pratica ad una nuova ricerca in cui alla perfezione formale si coniuga la introspezione psicologica, elemento finora assente nella statuaria greca.

LE ORIGINI DELL'ARTE

È complicato tracciare un preciso quadro storico sulle origini dell'arte: essa risale, infatti, alle primitive figurazioni delle popolazioni che iniziarono a riporre nella rappresentazione simbolica una concettualità artistica probabilmente, all'inizio, con intenti didascalico-narrativi o, più verosimilmente, unicamente propiziatori.

Nel Paleolitico superiore si sviluppò l'usanza di ritrarre, tramite graffiti o dipinti, immagini legate alla vita quotidiana, prevalentemente scene di caccia ma anche momenti legati all'agricoltura ed alla religione. Il supporto era costituito dalle rocce degli interni delle grotte: grazie alla protezione dagli agenti atmosferici, molte di queste pitture (dette per l'appunto rupestri) sono giunte fino a noi. In caso di esecuzione di graffiti, si utilizzavano rudimentali strumenti (prevalentemente in pietra), mentre per le pitture si mescolavano terre utilizzando come leganti sangue, grasso ed altre sostanze, successivamente stese con l'ausilio delle mani, di bastoni o di peli di animali. L'arte preistorica, per la sua figurazione essenziale ed incisiva è stata fonte di ispirazione per molti artisti moderni, fra i quali Pablo Picasso.

L'arte delle prime civiltà

L'arte nella Mesopotamia

Le prime civiltà del mondo sorsero in una regione dell'Asia Minore chiamata Mesopotamia, un territorio compreso tra i fiumi Tigri ed Eufrate, corrispondente all'odierno Iraq. Circa 5000 anni fa, i primi agricoltori colonizzarono questa terra imparando a governare le piene dei fiumi e a sfruttare la fertilità del suolo. Lo sviluppo economico che ne seguì permise la formazione delle più antiche città della storia. Il popolo dei Sumeri fu il primo a insediarsi in Mesopotamia attorno al 4500 a.C.; è a loro che dobbiamo progressi tecnologici quali l'uso della ruota e l'invenzione della scrittura. Successivamente altre popolazioni si stabilirono in quest'area: nel 2000 a.C. gli Assiri, un popolo guerriero e molto combattivo e nel 1800 a.C. i Babilonesi, così chiamati dal nome della mitica città di Babilonia. Le città, anche se costruite in epoche diverse, avevano caratteristiche comuni: erano circondate da mura o fossati e possedevano all'interno un grande tempio, detto ziqqurat, realizzato con mattoni di argilla essiccati al sole. Sulla sommità di questi imponenti edifici si riteneva abitassero le divinità, a cui i sacerdoti e fedeli si rivolgevano con preghiere e offerte.

Busto di Nefertiti

L'arte in Egitto

Nell'antico Egitto l'arte era uno strumento al servizio della politica e della religione. Essa rifletteva l'immutabilità del potere del faraone, il suo essere divinità vivente che continua a esistere nell'immagine dipinta o scolpita anche dopo la morte. Nella statuaria gli dèi, il faraone, i dignitari di corte furono rappresentati sempre in pose stilizzate, con lineamenti idealizzati che non conoscono i segni della vecchiaia o della malattia. Nella postura in piedi, hanno le braccia lungo i fianchi e muovono un passo in avanti come se camminassero lentamente; se vengono ritratti seduti appoggiano le mani sulle ginocchia. Tutto era previsto dal rigido cerimoniale di corte e agli artisti non rimaneva che seguire delle precise regole di rappresentazione. L'unica eccezione riguardò il regno di Amenofi IV: questo faraone promosse la massima rivoluzione religiosa della storia d'Egitto e durante il suo regno agli artisti venne concessa una maggiore libertà interpretativa, come testimonia il bellissimo busto-ritratto della regina Nefertiti, sua moglie.

L'arte greca

La loggia delle Cariatidi

L'acropoli, orgoglio e vanto di Atene

Le prime póleis greche nacquero a partire dall'VIII secolo a.C. La rapida crescita della popolazione e la scarsità delle risorse spinsero i Greci a esportare questo modello di organizzazione anche nelle colonie, che fondarono un po' in tutto il Mediterraneo. Al centro della pólis, circondate da case e botteghe, si trovava l'agorà, la piazza del mercato e delle pubbliche assemblee; la parte più alta della città costituiva l'acropoli. La più celebre acropoli della Grecia è quella di Atene. L'acropoli era l'area sacra, dove sorgevano i templi in onore delle divinità e si celebravano le feste Panatenee, con solenni processioni religiose e manifestazioni sportive. Con il governo di Pericle, l'artefice della democrazia ateniese, e sotto la supervisione dello scultore Fidia, la rocca di Atene si trasformò in un frenetico cantiere dove affluivano gli ingegni e gli artisti migliori del tempo. Si costruirono il Partenone, tempio così chiamato da Athena Parthénos, la dea protettrice della città; i Propilei, cioè l'ingresso monumentale all'area sacra; il Tempio di Atena Nike, di piccole dimensioni ma di squisita eleganza; l'Eretteo, un tempio costituito da diversi ambienti tra qui la celebre Loggia delle Cariatidi, dove le colonne sono sostituite da eleganti figure femminili.

Il tempio

Per i Greci il tempio doveva esprimere un'idea di bellezza e armonia tra le parti, per questo alla sua costruzione partecipavano i più abili architetti del tempo. Presso il cantiere, le maestranze prima sbozzavano i blocchi facendo assumere loro la forma desiderata, poi servendosi di funi e carrucole, li collocavano nel punto stabilito dall'architetto. L'esterno del tempio veniva successivamente decorato da rilievi e da sculture, a volte dipinte con colori vivaci; i rilievi ornavano sia il frontone sia il fregio. Il tempio più ammirato dell'acropoli di Atene fu sicuramente il Partenone. Ciò

che rendeva questo edificio il caposaldo dell'arte greca era soprattutto la ricchezza delle sue decorazioni, superiori a qualsiasi edificio mai costruito. L'artista chiamato a dirigere questo immenso cantiere fu lo scultore Fidia, uno dei più grandi artisti di tutti i tempi.

Ordini architettonici e regole di armonia

Il tempio rappresentava per i Greci la costruzione più perfetta e armoniosa. Per raggiungere questa perfezione gli architetti si servivano di regole geometriche e matematiche con cui legare ogni dettaglio dell'edificio. Questi diversi modi di concepire la costruzione di un tempio sono stati chiamati «ordini». Gli ordini utilizzati dai Greci sono tre:

• Dorico (dal nome del popolo dei Dori) • Ionico (dal nome del popolo degli Ioni) • Corinzio (dal nome della città di Corinto)

L'ordine dorico

Si caratterizza per l'essenzialità e la solennità delle sue forme. La colonna dorica non ha una base, poggia direttamente sullo stilòbate (il pavimento del tempio), si restringe verso l'alto ed è solcata da scanalature tagliate a spigolo vivo. Il capitello ha una forma semplice che serve a sostenere i blocchi di pietra rettangolare che formano l'architrave. La decorazione del fregio è costituita da lastre scolpite dette mètope alternate da pannelli solcate da tre scanalature detti triglìfi.

L'ordine ionico

Si caratterizza per una maggiore eleganza e leggerezza rispetto a quello dorico. La colonna non poggia direttamente sullo stilòbate, ma ha una propria base (o plinto) costituita da rientranze e sporgenze. Le scalanature sono più numerose e meno profonde. Il capitello è decorato da òvoli (così chiamati per la forma che ricorda delle mezze uova) e da due eleganti volute che si piegano lateralmente.

L'ordine corinzio L'ordine corinzio fu impiegato soprattutto per l'interno dei templi. Il fusto della colonna corinzia (simile a quella ionica) è sollevato da una pedana di marmo posta sotto la base. Il capitello è la parte che caratterizza maggiormente l'ordine corinzio; le sue forme ricordano un cesto di vimini da cui fuoriescono delle foglie stilizzate di acànto.

La scultura dell'età arcaica e classica

Gli artisti della Grecia antica cercarono di produrre delle opere ideali, in grado di non sfigurare al cospetto delle divinità. Questo risultato fu raggiunto, specialmente nella scultura a tutto tondo, attraverso un lungo e ininterrotto processo di perfezionamento formale. Le prime testimonianze appartengono all'età arcaica, tra il VII e il VI secolo a.C.: si tratta di giovani nudi o di fanciulle vestite caratterizzati dalla fissità dell'espressione.

Durante l'età classica (V-IV secolo a.C.), uno studio più attento del movimento e dell'anatomia umana permise agli scultori di raggiungere traguardi di sorprendente bellezza e armonia. I Greci idealizzavano la bellezza fisica, a cui doveva sempre rispondere la bellezza interiore: l'una doveva essere lo specchio dell'altra. Le opere di Policleto, di Mirone e di Prassitele testimoniano lo straordinario livello raggiunto nella ricerca delle proporzioni. Bisogna tuttavia ricordare che nessuna di queste statue è da intendersi come il ritratto di persone realmente esistite: sono piuttosto la rappresentazione delle qualità fisiche e morali del genere umano e, proprio perché distaccate dalla realtà terrena, si collocano in una sfera di ideale perfezione.

L'arte ellenistica Durante questa stagione Greci e non Greci furono protagonisti di una storia e di una cultura universali capace di mettere in contatto tra loro mondi e tradizioni diverse. Con l'Ellenismo la Grecia non rappresentò più l'unico centro d'influenza del mondo antico: la Macedonia, le città di Pergamo in Asia Minore, di Antiochia in Medio Oriente e di Alessandria d'Egitto divennero centri politici, culturali e artistici altrettanto importanti. Questi cambiamenti portarono molte novità nelle arti. Nella costruzione degli edifici, gli architetti cercarono di esaltare la spettacolarità, la monumentalità e la scenografia. Le città ellenistiche, racchiuse da solide mura, divennero simili ad immensi teatri. Colossali sculture, poderosi colonnati e scalinate imponenti avevano lo scopo di intimorire i sudditi e di glorificare la potenza dei tiranni, che in epoca ellenistica avevano sostituito i regimi democratici. Gli artisti al loro servizio, abbandonati gli ideali astratti della bellezza, presero in considerazione aspetti prima trascurati. Le ricerche dei pittori e degli scultori mutarono e si diversificarono: essi rappresentarono con realismo espressioni di dolore, crudeltà e sofferenza fisica; si presero gioco dei difetti umani raffigurando persone afflitte dalla vecchiaia o dalla deformità; impararono a interpretare in modo più esplicito la seducente bellezza del corpo femminile.

L'arte etrusca L'arte etrusca si espresse ad alto livello nella lavorazione dei metalli, nella ceramica e nella pittura, raggiungendo risultati di rilievo; poiché la pittura greca è andata perduta, quella etrusca rappresenta la più importante testimonianza di epoca pre-romana. Gli Etruschi rivelarono la loro abilità soprattutto nella costruzione di edifici

civili e religiosi, adottando l'arco a volta semicircolare. A loro si deve la costruzione di città fortificate con possenti mura in pietra e dotate di porte, quali Perugia, Arezzo, Volterra. Purtroppo la deperibilità dei materiali e il fatto che le città etrusche siano state espugnate, riedificate nei secoli successivi e abitate fino ai nostri giorni, hanno causato la perdita pressoché totale delle realizzazioni di quella civiltà.

L'arte romana

L'evoluzione dell'arte romana avvenne gradualmente, sotto l'influenza della pittura greca ed etrusca. In genere si trattava di una pittura veloce, stesa con rapidi tocchi di colore, e tuttavia capace di sorprendenti effetti tridimensionali. Andata perduta quasi del tutto la pittura su tavola, si è salvato un consistente numero di affreschi, notevole soprattutto a Pompei e a Ercolano, destinati a ornare grandi edifici pubblici e lussuosi ambienti domestici. Si è anche conservato un notevole numero di mosaici, spesso utilizzati in alternativa alla pittura per decorare pareti e pavimenti. I maestri mosaicisti, impiegando tessere molto piccole, riuscivano infatti a produrre effetti cromatici simili alla pittura. I temi variano da motivi geometrici a soggetti tratti dalla natura a riproduzioni di giochi, battaglie o scene di caccia.

L'arte paleocristiana Nel III secolo, nonostante le persecuzioni, il Cristianesimo era già diventato la religione più diffusa. Gli esempi di arte paleocristiana risalenti a questo periodo sono piuttosto scarsi e di quantità modesta. Per le tombe i primi cristiani sceglievano dei cimiteri comunitari assai semplici, detti catacombe (gallerie sotterranee). Ma quando il cristianesimo diventò la religione ufficiale dell'impero, la chiesa, organizzata con una propria gerarchia, fece costruire appositi edifici per il culto, come la basilica e il battistero, in grado di accogliere l'intera comunità dei fedeli. Innalzati di solito dove era stato martirizzato o sepolto un santo (come la Basilica di San Pietro), questi edifici vennero spesso eretti con marmi recuperati dalle costruzioni romane in rovina. Lo scopo non era solo quello di risparmiare ma anche di sottolineare il carattere romano di queste costruzioni.

STORIA DELL’ARCHITETTURA

L’architettura paleocristiana

Gli eventi storici che dettero una svolta all’architettura, come alla cultura artistica in genere, avvennero agli inizi del IV sec. d.C. L’imperatore Costantino fu protagonista dei due fatti essenziali: nel 313, con l’editto di Milano, ufficializzando la religione cristiana, dette le premesse perché questa religione creasse una sua arte; e nel 330, spostando la capitale dell’impero da Roma a Bisanzio, dette impulso a quelle tendenze che da allora presero il nome di arte «bizantina».

L’ellenismo, e con ciò si definisce il movimento culturale che si diffuse in tutto il bacino del Mediterraneo ed oltre a seguito delle conquiste di Alessandro Magno, aveva diffuso l’arte greca. L’arte romana, debitrice in molte sue manifestazioni dall’ellenismo, nei primi due secoli della nostra era, aveva sintetizzato in sé l’eredità greca. Ma, con la nascita dell’arte bizantina, l’oriente ritrovò una sua strada che la portò ad esiti diversi rispetto all’occidente. In effetti, all’indomani di questi eventi, poco o nulla cambia: i percorsi artistici, per quanto paralleli, rimangono ancora omogenei. La gran differenziazione avvenne solo tra V e VI secolo, quando la caduta dell’impero romano d’occidente (476), a seguito delle calate dei barbari, creò in occidente una netta soluzione di continuità nelle esperienze artistiche.

La cultura artistica, sia in occidente sia in oriente, nei primi anni dopo l’età costantiniana, è impegnata a trovare una strada per la riconversione religiosa. In campo architettonico il problema si pone nel trovare una nuova tipologia d’edificio sacro. Il tempio classico non poteva certo andare bene. Vi era un problema d’immagine: il tempio era troppo legato ad una concezione religiosa politeistica che non faceva differenza tra un dio ed un altro. Se la religione cristiana avesse scelto come edificio religioso il tempio classico, poteva far credere che il loro era solo un nuovo dio. L’azzeramento delle credenze pagane, che il cristianesimo richiedeva, andava quindi affermato con decise soluzioni di discontinuità, da adottarsi anche nell’edilizia religiosa.

I primi luoghi di culto per i cristiani erano stati le «domus ecclesiae» o le catacombe: edifici non creati per specifiche esigenze di culto o liturgiche, ma che rappresentano un primo caso di riutilizzo funzionale – a volte succede che alcuni edifici nascono per uno scopo ma sono utilizzati per altre funzioni. Le catacombe, in particolare, si legavano al momento di maggior persecuzione del cristianesimo, che quindi trovava nei cimiteri sotterranei luoghi occulti per praticare le funzioni sacre.

Dal 313 in poi, la possibilità, di edificare propri edifici, fu sfruttata dai cristiani con

l’edificazione di chiese, che mutuavano dall’edilizia romana due tipologie: la basilica e il mausoleo. La basilica (tav.21), si è detto, era un edificio già inventato dai romani, ma non per scopi religiosi bensì civili: era in pratica una specie di tribunale. Aveva uno sviluppo longitudinale (in pratica aveva una forma rettangolare con una dimensione prevalente sull’altra), era diviso in più navate da file di colonne ed era coperto in genere con capriate lignee. Alle estremità dei lati corti si aprivano verso l’esterno due spazi semicircolari, dette absidi. La navata centrale, più larga, risultava anche più alta, rispetto alle laterali, così da permettere l’apertura di finestre nella parte superiore del muro, che illuminavano dall’alto lo spazio centrale. Questo edificio derivava, a sua volta, dalle «basiliké stoá» di origine greca: i portici cioè che circondavano le agorà, le piazze delle città greche. I romani, nel creare la tipologia della basilica, altro non fecero che finir di coprire lo spazio tra i portici con colonne che sostenevano dei tetti di legno.

La basilica dei cristiani non differiva in nulla da quelle costruite dai romani: com’era già avvenuto con le catacombe, si limitarono a cambiar la funzione ad un edificio nato per altri scopi. Se la scelta dei cristiani cadde sulla basilica, e non su un altro edificio, fu soprattutto per un motivo: a differenza del tempio classico, che era solo la casa del dio e cui i fedeli non potevano accedere, la chiesa cristiana era anche la casa del popolo di dio, in cui tutti i fedeli dovevano poter accedere. Ecco quindi il motivo di scegliere come proprio edificio religioso la basilica, perché tra gli edifici noti era quello che consentiva di raccogliere al proprio interno il maggior numero di fedeli.

Ma non tutte le chiese hanno le stesse esigenze liturgiche: alcune erano costruite solo per conservare il sepolcro di un santo, o per ricordare il luogo di un evento miracoloso o simbolico. In questo caso, avendo minor esigenza di raccogliere masse di fedeli, la chiesa si orientò verso la tipologia dei mausolei romani: costruzioni, per lo più rotonde, che servivano a sepolcro di un personaggio importante. Inizia così la differenziazione, negli edifici religiosi, tra quelli a pianta longitudinale e quelli a pianta centrale. I primi,

come nel caso delle basiliche, hanno una dimensione prevalente sull’altra; i secondi, come i mausolei, hanno forma geometrica più regolare, tendente ad avere dimensioni uguale su tutti i lati, quali il cerchio, il quadrato, l’esagono, l’ottagono, e così via. (tav.22)

Benché entrambe le tipologie sono state praticate in occidente e in oriente, si nota una certa preferenza, da parte dell’impero bizantino, per le tipologie a pianta centrale. Le chiese costruite in oriente, cercarono sempre di tendere alla pianta centrale, anche quando ebbero degli sviluppi più allungati. In questa preferenza si nota un diverso atteggiamento culturale: si rivestiva di maggior significati simbolico-allegorici l’edificio religioso, di quanto non avveniva in occidente, dove l’esigenza funzionale ebbe in genere il sopravvento. I cambiamenti formali delle chiese occidentali registrarono in maniera molto sensibile le variazioni delle liturgie. Le chiese bizantine o ortodosse (dall’anno mille la chiesa d’oriente si scisse da quella romana per seguire una diversa impostazione liturgica) rimangono invece più simili a se stesse, pur nel corso di numerosi secoli, per un atteggiamento sicuramente più tradizionalista ma anche più legato all’immutabilità come principio di identità.

L’architettura bizantina

L’architettura bizantina partì anch’essa dall’eredità culturale tardo-romana, ma la sua attenzione si fissò su due aspetti in particolare: la spazialità e la costruzione delle cupole.

La tarda antichità romana era stata sempre più sensibile alla resa spaziale interna della propria architettura. I bizantini trovarono invece una loro cifra personale dello spazio

grazie all’impiego dei mosaici.

I romani avevano preferito rivestire i loro edifici di marmo o con affreschi. Il marmo creava effetti decorativi cromatici molto suggestivi. Gli affreschi romani, a volte imitavano l’apparenza delle superfici marmoree, a volte invece aprivano idealmente lo spazio a visioni che andavano illusionisticamente di là dal limite delle pareti. Era, quest’ultimo caso, un tentativo di «allargare» la percezione dello spazio oltre il limite dei muri. I mosaici bizantini uniscono la bellezza delle superfici marmoree alle illusioni spaziali. Ma lo fanno senza «aprire», oltre i limiti dei muri, con visioni spaziali tridimensionali: annullano semplicemente i muri grazie al riverbero dei loro mosaici dorati, che creano un’illusione di continuità tra lo spazio interno e i suoi limiti murari. La tipologia di copertura preferita dai bizantini fu la cupola. Questa, già impiegata dai romani, aveva però un limite: richiedeva un muro continuo circolare per il suo sostegno. La grande innovazione dei bizantini fu il riuscire a costruire cupole circolari su piante quadrate. Ciò avveniva attraverso quattro triangoli sferici, detti «pennacchi» (tav. 23). Una volta trovata la soluzione di raccordare la pianta di una cupola, che rimane circolare, con una pianta quadrata, fu possibile creare edifici con più ambienti coperti con cupole. Infatti, la pianta quadrata può anche aprirsi sui quattro lati, attraverso la costruzione di archi, così che in pratica la cupola, attraverso i pennacchi, viene a scaricare il proprio peso solo sui quattro pilastri d’angolo. In tal modo, possono accostarsi più cupole, a formare ambienti comunicanti.

Il capolavoro dell’architettura bizantina, fu l’erezione della chiesa di Santa Sofia a Costantinopoli (tav. 24). L’immensa cupola che copre lo spazio centrale – la più grande cupola mai costruita con sistemi tradizionali –, fu realizzata al terzo tentativo, dopo che

le due realizzate precedentemente crollarono. Ciò dà il senso della grande sperimentazione necessaria per realizzare un’opera d’ingegneria che resterà insuperata nel mondo antico.

L’influenza dell’architettura bizantina si diffuse sia in oriente sia in occidente. Qui fu presente soprattutto nel periodo dell’alto medioevo, nei territori da loro direttamente dominati – Ravenna, in particolare, ma anche la Calabria e le Puglie – o che avevano con Costantinopoli intensi scambi culturali, quali Venezia. Nell’Europa orientale la sua influenza permase in tutti i territori di religione ortodossa, quali la Russia o le regioni balcaniche e danubiane, fino al crollo dell’impero bizantino (1453), e in qualche caso, anche dopo tale data. Nei territori medio-orientali ed africani, l’influenza dell’architettura bizantina scomparve quando questi territori furono conquistati, tra il VII e il IX secolo dall’Islam.

L’architettura bizantina a Ravenna

Le chiese che i bizantini costruirono a Ravenna, quando questa città fu capitale del loro Esarcato – VI-VIII secolo –, furono degli autentici capolavori, in un periodo peraltro povero di realizzazioni architettoniche. Utilizzarono entrambe le tipologie allora in uso: quella basilicale, per Sant’Apollinare in Classe o Sant’Apollinare Nuovo, e quella centrale, per il battistero degli Ortodossi ma soprattutto per il San Vitale (tav. 22). Quest’ultima chiesa – il maggior capolavoro bizantino dopo Santa Sofia di Costantinopoli –, con la sua pianta ottagonale coperta con una cupola, rimane uno dei modelli più apprezzati di questa architettura. Essa univa le principali tendenze artistiche

di questa cultura: la pianta centrale con copertura a cupola, e i rivestimenti musivi, che creavano suggestivi effetti di percezione spaziale.

L’architettura bizantina è quasi del tutto priva di decorazioni plastiche, preferendo rivestire le superfici di mosaici. La poca decorazione di elementi lapidei venne per lo più realizzata non a basso rilievo ma con lavoro di traforo e sottosquadro. Tra gli elementi che furono così trattati vi furono i capitelli ed i pulvini. Il pulvino è un’invenzione bizantina, che ebbe poi applicazione in tutto il periodo medievale. Era l’elemento lapideo che permetteva di raccordare spessori di muri notevoli a colonne di più piccolo diametro. In pratica divenne quasi un secondo capitello con forma e decorazione più libera rispetto all’altro capitello che, secondo la tradizione classica, costituiva un tutt’uno con la sottostante colonna.

L’architettura altomedievale

La tradizione occidentale, che, dopo la scissione dell’impero romano, mantenne caratteri originali rispetto all’arte bizantina, esaurì la sua vitalità a seguito della calata dei barbari. Le invasioni di queste popolazioni, oltre a dissolvere l’impero romano d’occidente, resero precarie le condizioni di vita, al punto che la produzione artistica scomparve quasi del tutto. La cesura più netta avvenne a metà del VI secolo, quando una serie di epidemie, carestie, guerre, saccheggi ed altro, ridussero sensibilmente la popolazione europea, creando una soluzione di continuità nella trasmissione del «saper fare» artistico ed architettonico. I sopravvissuti a questo periodo di calamità, morti i loro padri che ancora conservavano alcune conoscenze tecniche in materia di architettura, si trovarono a rivivere un grado zero della civiltà. Bisognava reinventarsi tutto, partendo dal nulla.

I barbari non portarono con sé una propria tradizione costruttiva, ma, nei vari regni che formarono, contribuirono al formarsi di tecniche locali. La loro produzione rimase però di scarsa entità, muovendosi tra due coordinate: edifici molto semplici e dall’aspetto spoglio, oppure rielaborazione di modelli tardo-antichi e bizantini, quando dovevano realizzare edifici dal maggior significato simbolico o politico. La loro tuttavia rimase una produzione molto limitata, giacché l’alto medioevo si caratterizzò per la tendenza a vivere non in ambiti urbani – le città – ma in ambiti rurali. L’economia decadde a livelli molto primitivi, l’agricoltura veniva pratica in forme di auto-sussistenza, le funzioni politico-amministrative, che erano esercitate nelle città, scomparvero del tutto.

L’alto medioevo si caratterizzò, infatti, per un’istituzione molto particolare, il feudalesimo, che sostituì il diritto romano con il suo corpus legislativo e le funzioni di magistrature connesse. Scomparvero i tribunali e le cariche amministrative in genere, restando, a base del contratto sociale, non la legge ma il patto feudale, che veniva a coinvolgere le persone fisiche in rapporti di dipendenza personali molto stretti.

Così le città persero molto delle loro funzioni, e finirono per languire in uno stato di

semi abbandono. I signori feudali preferivano vivere in castelli che sorgevano al di fuori delle città; le popolazioni urbane finirono anch’esse per spostarsi nei dintorni dei castelli, o in villaggi rurali – le «curtes» – che si basavano su un principio di auto sussistenza agricola ed artigianale. Gli unici centri di vita religiosa che rimasero in ambito urbano furono i vescovati, mentre anche la vita monastica si orientò in ambiti extra urbani: infatti, i maggiori monasteri dell’epoca sorsero in posizione rurale. Da rilevare che questi monasteri rimasero gli unici centri di vita culturale, grazie ai loro «scriptoria», che hanno tramandato la cultura letteraria e filosofica dell’antichità classica.

Appare evidente che le città si ritrovarono sovradimensionate per le esigenze dell’epoca, perciò si provvide per lo più a riutilizzare gli edifici già esistenti, piuttosto che costruirne di nuovi. Ed anche quando si andò alla costruzione di nuovi edifici, questi riutilizzarono molti dei materiali di spoglio che provenivano da altri edifici in rovina. Un edificio alto medievale, se ha delle colonne, queste provengono sicuramente da qualche edificio romano.

Infatti la tecnica costruttiva del tempo si basava non più sulla lavorazione della pietra e del marmo, ma solo sull’impiego del mattone e del legno. In questa fase inizia l’elaborazione di quelle tecniche costruttive, che dopo l’anno mille, dettero luogo alla fioritura dell’architettura romanica. Non a caso questo periodo viene spesso definito, specie in riferimento alla vicenda architettonica, «pre-romanico».

Le poche costruzioni note di questo periodo sono in genere chiese dalla modesta dimensione, che proseguono la tipologia basilicale delle prime chiese paleocristiane (tav. 25).

Le campate, però, non sono in genere separate da colonne, ma da pilastri di mattoni. Esse sono sormontate da archi, e al di sopra sorreggono rudimentali capriate lignee. Un discorso a parte bisogna invece fare per i pochi edifici di carattere regale, quali le cappelle palatine, che sorsero in questi secoli. Per il maggior carattere aulico che esse dovevano avere, furono progettate sul modello degli edifici classici, che però vennero ad essere interpretati secondo una visione bizantina. (tav.26)

Così la cappella Palatina di Aquisgrana, voluta da Carlo Magno, imitava in maniera molto chiara il San Vitale di Ravenna, mentre la chiesa di S. Sofia di Benevento, voluta dal duca longobardo Arechi II, presentava un’originale sintesi di visioni spaziali tardo romane e bizantine, con tecniche costruttive del primo medioevo occidentale. In ogni caso il modello rimase Bisanzio, che con la sua architettura conservava una tradizione che in occidente si era quasi spenta.

Il romanico

La ripresa dell’economia, in uno con il rinnovato sviluppo delle città, avvenne dopo l’anno mille. Il rifiorire dei commerci, il nuovo impulso che ebbe l’agricoltura, insieme ad una rinnovata coscienza civica, che fece proprio dell’appartenenza ad una città il fondamento della propria identità e cultura, crearono un clima adatto alla ripresa dell’attività costruttiva.

Nuove città e villaggi sorsero, secondo una visione urbanistica agli antipodi di quella classica: non più schemi geometrici regolari, fatti di strade che si incontravano ad angolo retto, ma un intrigo di vie e viuzze, su cui si aprivano case secondo una morfologia quanto mai varia. Il tutto formava un insieme molto pittoresco, specie quando i paesi – ed era la maggior parte dei casi – sorgevano su cime di colline, in cui quindi la varietà planimetrica si univa al movimento altimetrico. Rispetto alle città fondate dai romani, che sorgevano per lo più in posizioni pianeggianti e nei fondi valle, per meglio controllare le vie che percorrevano l’impero, le città che sorsero nel medioevo sono quasi sempre situate in posizioni dominanti sul territorio circostante. La difficoltà di accedere a questi nuovi borghi era motivo di difesa, in un periodo in cui la sicurezza delle città era garantita solo dalla propria milizia civica.

L’edificio più simbolico di questa rinnovata attività costruttiva fu la cattedrale. Su questo edificio, in cui si riconosceva la popolazione di una città o di un villaggio, si concentrò l’attenzione della cultura architettonica del tempo, elaborando quello stile detto «romanico», che, dopo l’età classica, sarà il primo stile internazionale adottato da tutti gli stati europei allora esistenti. Pur avendo varianti regionali che rendevano distinguibile il romanico lombardo da quello pisano, o il romanico provenzale da quello renano o da quello catalano, lo stile tuttavia ebbe alcune costanti che sono rintracciabili in tutte le aree geografiche che applicarono questa nuova architettura. I limiti cronologici in cui il romanico si sviluppò vanno intesi secondo le aree geografiche, tuttavia, in senso generale può considerarsi come termine iniziale la fine del X secolo, e come termine finale la metà del XIII secolo. Esso cadde in disuso quando lo stile gotico, che pure era una evoluzione del romanico, rinnovò ampiamente il bagaglio

tecnico e formale dell’architettura.

Il termine romanico è stato interpretato in diversi modi: può essere un riferimento all’area geografica in cui si diffuse, e che coincideva con quella in cui si parlavano le lingue romanze; o può riferirsi ad una ripresa delle concezioni architettoniche già conosciute dai romani. In particolare, dall’architettura romana, quella romanica fa propria la tecnica della costruzione delle volte a crociera. Quando le volte sostituirono i tetti in capriate lignee, l’architettura iniziò il nuovo corso stilistico che noi definiamo romanico.

I motivi per sostituire le capriate erano molteplici: le strutture di legno richiedevano continua manutenzione, ma soprattutto erano facilmente infiammabili. Gli incendi che si sviluppavano nelle chiese erano difficilmente domabili, con il risultato che era necessario rifare i tetti alle chiese con una frequenza notevole. Il tentativo di dare alle chiese una copertura più stabile e duratura, portò a sostituire il legno con i mattoni in laterizio o le pietre. Ecco quindi la scelta di coprire le chiese con volte in muratura.

Inizialmente, ancora in fase di preromanico, le prime sperimentazioni di coprire le chiese con delle volte, avvenne utilizzando le volte a botte. Ma la volta a botte era difficilmente adattabile a chiese a più navate, essa, infatti, necessita di un muro continuo e notevolmente pesante sui due lati perimetrali. La soluzione idonea era ricorrere alla volta a crociera, che, scaricando il suo peso su quattro pilastri d’angolo, permetteva di scomporre lo spazio della chiesa in campate tra loro comunicanti, poiché non interrotte da muri (tav. 28).

L’arco utilizzato dall’architettura romanica, al pari di quanto avevano già fatto i

romani, era a tutto sesto: aveva in pratica il profilo di un perfetto semicerchio. In questo caso, come già detto, una volta a crociera, che si compone di archi a tutto sesto, deve avere la base quadrata: la distanza, cioè, tra i quattro pilastri deve essere uguale su ogni lato.

E così il quadrato della crociera divenne il modulo costruttivo della cattedrale romanica. Fissata la dimensione, poniamo, di un quadrato che costituisce una porzione della navata laterale, le altre crociere che appartengono alla stessa navata devono avere la stessa dimensione, giacché hanno con il primo quadrato un lato in comune. La navata centrale, per avere una dimensione maggiore delle navate laterali, dovrà comporsi necessariamente di quadrati multipli – in genere doppi – di quelli che costituiscono le navate laterali: in tal modo essa scarica il proprio peso su un pilastro ogni due. E quindi, anche le altre campate laterali, per avere lati in comune con le altre navate, dovranno necessariamente comporsi dello stesso modulo quadrato.

Ma, ciò che unifica lo stile romanico, oltre questa modularità costruttiva, è la pesantezza strutturale che la contraddistingue. Le volte, rispetto alle capriate lignee, sono più pesanti, ed inoltre scaricano forze inclinate, non verticali: pertanto necessitano di murature molto spesse e pesanti, adatte a contrastare le notevoli spinte ribaltanti delle pesanti volte. Queste murature dovevano essere così pesanti e resistenti, che in loro era problematico aprire delle finestre. Rispetto alle basiliche paleocristiane o bizantine, in cui la luce pioveva dall’alto dai finestroni che si aprivano in sommità alla navata centrale, le cattedrali romaniche diventarono degli edifici molto bui.

All’esterno queste chiese avevano un aspetto così solido e massiccio da sembrare quasi delle fortezze, all’interno si componevano di spazi silenziosi ed oscuri. Molta della suggestione religiosa che una cattedrale romanica trasmette, si deve proprio a queste sue caratteristiche. Sul piano tipologico, la cattedrale romanica portò delle innovazioni rispetto alla basilica paleocristiana, soprattutto nella parte terminale della chiesa. Il corpo delle navate rimase pressoché intatto, mentre fu maggiormente articolata la zona absidale. Quest’area della chiesa, detta anche coro o presbiterio, poiché destinata ai religiosi, si arricchì di più cappelle che si aprivano a raggiera verso l’esterno. A volte sotto il presbiterio sorgeva la cripta, ambiente semi-sotterraneo, riservato alla conservazione di sepolcri o di reliquie.

Maggior sviluppo ebbe anche il transetto, braccio trasversale rispetto alla navata, che contribuì a dare alle chiese la forma di una croce latina. Con il termine «croce latina» si distingueva la croce che aveva un braccio più lungo degli altri – che nella chiesa corrispondeva alla navata –, rispetto alla «croce greca» che aveva i quattro bracci tutti uguali, definendo una pianta non longitudinale ma centrale. Questo tipo di croce fu definito «greca» perché era preferita ed utilizzata dall’architettura bizantina.

Soprattutto nelle zone del centro e nord dell’Europa, le cattedrali romaniche si

arricchirono anche di torri e campanili, che sorgevano sulla facciata anteriore (westwerk). Tale soluzione rimase poco praticata in Italia, dove la torre campanaria fu concepita come edificio a se stante. (tav. 29)

Il romanico in Italia

In Italia il romanico ebbe più varianti regionali: tra queste, la prima si sviluppò nell’area padana e si configurò come uno stile abbastanza omogeneo. Esempi del romanico padano sono la chiesa di S. Ambrogio a Milano (tav. 28), la chiesa di S. Michele a Pavia (tav. 30), la cattedrale di Parma e la cattedrale di Modena (tav. 31). Questa chiese si contraddistinguono per la chiarezza compositiva delle piante, per l’impiego di mattoni o pietre a faccia vista, per la facciata a capanna tripartita.

Di qui il romanico si diffuse in tutta l’area centro settentrionale, restandone esclusa Venezia, che per i suoi contatti con l’oriente, rimase legata ad una concezione architettonica ancora bizantina. Tant’è che dopo l’anno mille, quando si andò alla costruzione della basilica di San Marco, si adottò una soluzione tipicamente bizantina: una chiesa a croce greca, coperta con cupole raccordate a pilastri mediante pennacchi.

Controversa è anche l’adesione al romanico dell’architettura toscana di quei secoli. In Toscana tre città si distinsero per una ricerca stilistica che le portò ad esiti diversi ed originali: Firenze, Siena e Pisa (tav. 32). Le architetture che qui si produssero, assimilarono dal romanico solo alcuni elementi, a volte solo decorativi: la loro concezione sembra legarsi con un filo autonomo, e non mediato da tecniche costruttive nordiche, all’architettura tardo-romana. Uno degli aspetti più significativi di questa singolarità è che in queste città si usò ancora la decorazione marmorea, sia interna che esterna, delle murature. Ma, è soprattutto la concezione dell’edificio ad essere diversa. L’architettura romanica funzionava secondo un principio additivo: si aggiungevano parti secondo le esigenze funzionali, creando un insieme poco controllato, ma che era omogeneizzato dall’impiego di analoghi materiali e tecniche costruttive. Restavano assenti valutazioni legate alla proporzione estetica degli edifici e alla simmetria.

L’area toscana, ma soprattutto Firenze sembra invece non dimenticare questi concetti già sperimentati dall’architettura classica, così che, seppure aderisce in parte al romanico o al gotico, lo fa secondo una concezione originale: in pratica, già dopo l’anno mille divenne il laboratorio di incubazione di quell’architettura rinascimentale, che, nel XVI secolo, chiuse definitivamente l’architettura medievale. Nell’Italia meridionale la stagione del romanico coincise con la dominazione normanna. Questa popolazione aveva fornito contributi notevoli, non solo alla nascita del romanico ma anche alla sua evoluzione nel gotico. Nell’Italia meridionale trovarono un ambiente culturale già segnato dalla presenza bizantina ed araba – quest’ultima soprattutto in Sicilia (tav. 33). Il romanico che qui sorse, infatti, ebbe commistioni originali ed interessanti con elementi spuri presi da queste altre concezioni architettoniche.

Diverso è invece il caso della Puglia (tav. 34). Qui il romanico trovò terreno fertile per mostrare un’architettura dallo stile più omogeneo, con una caratteristica certamente originale: la risoluzione plastica degli elementi decorativi. La ripresa dell’architettura, dopo l’anno mille, si era accompagnata ad una ripresa dell’attività scultorea, la cui produzione si era intimamente legata a quella delle cattedrali. I canoni formali, pur nelle varianti stilistiche, di questa scultura sono omogenei per l’intera Europa: le figurazioni iconografiche sono sempre a bassorilievo, mentre a tutto tondo sono solo le parti architettoniche, quali cibori, pulpiti, ceri pasquali, cattedre, eccetera.

Il carattere delle figurazioni iconografiche, su temi religiosi, aveva aspetti severi e seriosi. La scultura pugliese romanica elaborò invece un suo repertorio originale di figure, che raccontavano di strani animali, esotici o fantastici, in perenne lotta con uomini, che sembrano sempre soccombere a questa natura fantastica e terribile. Ma ciò che rende interessanti queste sculture è la tendenza al tutto tondo, più esplicita che altrove, e la capacità di controllare dinamismo e movimento delle figure scolpite. In seguito la Puglia conobbe i cantieri artistici federiciani, nelle realizzazioni che Federico II di Svevia realizzò all’inizio del XIII secolo, ed è lecito supporre che qui si elaborò la nuova cultura artistica che portò al rinnovamento plastico del XIV e XV secolo.

Il periodo in cui si sviluppò il romanico fu anche quello dei grandi pellegrinaggi e delle crociate. Per motivi di fede, viandanti e cavalieri percorrevano le grandi strade d’Europa: la Puglia non fu esente da questo fenomeno, lungo l’Appia Traiana, che la univa a Roma vide passare sia i pellegrini, che andavano a visitare la grotta di San Michele Arcangelo sul Gargano, sia i crociati che si imbarcavano dalle sue coste per

raggiungere la Terra Santa.

Il gotico

I normanni furono grandi costruttori di cattedrali, a loro si deve una tecnica costruttiva, che permise al romanico di evolversi nello stile gotico: le volte costolonate. La costruzione di una volta a crociera richiede una impalcatura lignea che riproduca per interno l’intradosso – ossia la superficie inferiore – della volta. Solo quando la volta sarà completata, potrà essere disarmata della struttura di sostegno. Ciò comportava un notevole impiego di legname, da montarsi con grande sapienza di incastri, così da riprodurre con esattezza la superficie su cui dovevano appoggiarsi i conci in pietra o in mattoni. La scoperta dei normanni fu che una volta a crociera si compone non solo dei quattro archi perimetrali, ma anche di due archi in diagonale, che avevano in comune il concio in chiave. Questi due archi possono realizzarsi, quindi, indipendentemente da tutta la volta. Ecco che così, la volta a crociera può scomporsi in due fasi costruttive: prima la realizzazione dei quattro archi laterali e dei due diagonali; quindi il riempimento dei quattro triangoli sferici - detti unghie – che erano compresi tra gli archi realizzati. In tal modo la costruzione della volta poteva realizzarsi in fasi successive – ogni unghia poteva poi essere costruita indipendentemente dalle altre – con impalcature meno impegnative e più economiche (tav. 35).

La costolonatura degli archi, che costituivano le volte a crociera, portò a due risultati fondamentali: uno estetico, sul quale l’architettura gotica fondò molta della sua immagine; ed uno statico. Quest’ultimo fu forse il più notevole. In pratica fece capire

che le strutture possono essere scomposte secondo linee di forze.

L’architettura romanica si basava sul principio statico di masse voluminose che erano contrastate e sorrette da altre masse dalla notevole gravità. I normanni indicarono invece una nuova via: nelle masse e nei volumi i carichi e le forze si possono concentrare solo in alcune linee e punti, così da convogliare su di loro la resistenza strutturale dell’edificio. In pratica cominciarono a distinguere, in una struttura architettonica, le parti portanti – quelle che devono sorreggere i pesi propri e di altre membrature – da quelle portate – che sono in genere solo di riempimento e di chiusura degli spazi.

Ma la svolta decisiva per l’evoluzione dal romanico al gotico fu l’utilizzo dell’arco a sesto acuto. Rispetto all’arco a tutto sesto, l’arco acuto ha una geometria variabile: in esso l’altezza non è in funzione della larghezza, ma può assumere rapporti diversi. Nell’arco a tutto sesto l’altezza dell’arco è sempre pari alla metà della sua larghezza, in un arco a sesto acuto l’altezza dell’arco è sempre superiore alla metà della sua larghezza, ma di una quantità che può essere variabile (tav. 36).

L’arco a sesto acuto permise agli architetti medievali di esplicitare meglio la loro nuova concezione costruttiva, che si basava su un telaio strutturale concentrato in punti e linee di forze. Un arco, come dicevamo, scarica il proprio peso con forze inclinate. Queste forze tendono a ribaltare verso l’esterno i sostegni, che per resistere alla spinta devono avere un peso notevole. L’arco a sesto acuto, per via della sua particolare geometria, pur a parità di peso, rispetto ad un arco a tutto sesto scarica una forza meno inclinata

rispetto alla verticale. Trasmette ai sostegni una spinta orizzontale minore. Cioè, l’effetto di ribaltamento verso l’esterno è inferiore, e pertanto i sostegni possono essere più snelli e leggeri.

Ciò, quindi, portò a due risultati notevoli per la realizzazione delle cattedrali. Le strutture potevano essere più alte e slanciate, favorendo la tendenza a realizzare costruzioni sempre più alte, e nel contempo, potendo concentrare la parte resistente dell’edificio in pilastri snelli, liberarono ampie superfici, che non vennero occupate da murature ma da vetrate. La cattedrale gotica, rispetto a quella romanica, ridivenne un ambiente luminoso, e di una luminosità molto suggestiva, giacché le vetrate erano sempre istoriate, con vetri dai colori vivaci.

Ma quando le cattedrali divennero troppo alte, l’instabilità dei sostegni degli archi si ripresentò nuovamente. Una spinta laterale di un arco può anche essere molto contenuta, ma se ciò sollecita un pilastro eccessivamente alto e snello, questa spinta è sufficiente a creare instabilità sul sottostante pilastro. La soluzione però, nella nuova logica strutturale, non poteva essere quella di ricorrere alla maggior gravità dei sostegni, aumentandone spessore e peso, ma di contrapporre alle forze destabilizzanti altre linee di forze resistenti. Ecco che così nacquero all’esterno delle cattedrali gli archi rampanti (tav. 37), che, come puntelli, partivano da terra, per andare a sostenere gli archi, impostati ad altezze sempre più vertiginose.

Sul piano compositivo, poi, gli archi a sesto acuto permisero agli architetti di svincolarsi dal modulo quadrato, che aveva condizionato le cattedrali romaniche.

Infatti, con gli archi a sesto acuto la condizione statica di realizzare archi della stessa altezza può ottenersi anche con archi dalla larghezza variabile: in un arco acuto, l’altezza dell’arco non è strettamente correlata alla sua larghezza. Una volta a crociera con archi acuti può essere rettangolare, con una libertà di conformazione più ampia (tav. 37).

Ritornando quindi alle costolonature, queste, nell’architettura gotica, trovarono un impiego totale, correndo senza soluzione di continuità su tutte le parti dell’edificio – volte e pilastri – rendendo visibile quell’intrigo di linee forze che costituivano lo scheletro portante dell’edificio, e sfruttando tale immagine a fini decorativi: in pratica la bellezza di queste cattedrali veniva manifestata nella mirabile concezione strutturale, mostrando con orgoglio l’intelligenza ingegneristica che ne aveva contraddistinto la realizzazione.

Il gotico in Italia

I germi della nuova architettura gotica sono visibili in alcune costruzioni normanne già al fine del XII secolo, ma l’edificio che per primo applicò il nuovo stile fu la cattedrale di Saint Denis, nell’Île de France costruita a partire dal 1130. Da questa data lo stile gotico si diffuse prima in Francia e poi in tutta Europa, soppiantando progressivamente lo stile romanico.

Il gotico divenne, progressivamente, lo stile dell’Europa nordica, trovando numerose applicazioni, non solo nell’architettura religiosa ma anche civile, della Francia, dell’Inghilterra, della Germania.

Il carattere più tipico del gusto gotico, fu l’accentuazione del linearismo, che si estese anche alle arti figurative. E in questo linearismo prevalse una tendenza alla verticalità e alla linea spezzata. Entrambe le caratteristiche erano racchiuse nell’arco a sesto acuto. Ma non fu l’unico arco utilizzato in questo periodo: molta fortuna ebbe anche l’arco polilobato, utilizzato in architettura soprattutto per l’apertura di bucature – finestre, balconi, portici, ecc. –, o nella costruzione di elementi scultorei decorativi – altari, baldacchini, pulpiti, ecc. (tav. 39). Altro arco dal gusto tardo gotico, fu l’arco «tudor», che ebbe fortuna soprattutto in Inghilterra.

In Italia, il gotico trovò applicazioni molto limitate, dove l’arco acuto fu utilizzato non con le sue consequenzialità di logica strutturale, ma più come elemento di decorazione alla moda. Ne nacque un’architettura ibrida, più attenta agli effetti di decorazione plastica e pittorica che non alle invenzioni strutturali.

Le città che più si convertirono al gotico furono Siena e Venezia (tav. 40). La prima perché ebbe, nel corso del XIV secolo notevoli scambi diplomatici e culturali con la Francia, da cui importò un gusto artistico complessivamente gotico; la seconda, perché in questo periodo andò intensificando i suoi scambi culturali soprattutto con il mondo tedesco.

Un

fenomeno di diffusione del gotico fu anche lo sviluppo degli ordini monastici, che si ebbe nel basso medio evo. Precedentemente, da Cluny, in Francia, già l’ordine cluniacense aveva diffuso la concezione architettonica romanica. Successivamente l’ordine cistercense, che ebbe un rapido sviluppo prima in Francia e poi in Europa a partire dal 1100, adottò uno stile gotico semplice ed essenziale. Gli unici esempi che ci rimangono in Italia di queste chiese gotico-cistercense sono le abbazie di Fossanova e Casamari nel Lazio. Ma un altro ordine monastico, l’ordine francescano, divenne in Italia mezzo di diffusione di uno stile gotico alquanto originale. Il gotico francescano, infatti, adottò nuovamente la copertura a capriate lignee, invece delle volte a crociera costolonate. Esempio di questa architettura è la chiesa di Santa Croce a Firenze (tav. 41).

Nell’Italia meridionale, l’introduzione dell’architettura gotica coincise con un’altra conquista, quella degli angioini, avvenuta nel 1266, quando Carlo d’Angiò sconfisse Manfredi di Svevia. Gli angioini introdussero nel regno di Napoli l’uso dell’arco acuto, ma qui fu impiegato con un materiale diverso, il tufo, che consentiva di realizzare strutture più leggere. E molte chiese gotiche dell’Italia meridionale trovarono, nell’uso degli archi ogivali in tufo e nelle coperture con capriate lignee, una cifra stilistica originale rispetto al gotico d’oltralpe.

Lo sviluppo dell’architettura gotica in Europa, portò a costruzioni sempre più ardite e complesse nel loro meccanismo strutturale. Le costolonature, che ne rendevano evidenti le linee forza, si moltiplicarono a tal punto, che il gotico del tardo XIV e del XV secolo prese il nome, in campo architettonico, di gotico fiorito. Tale stile trovò applicazioni notevoli soprattutto in Inghilterra, Francia e Germania.

LA NASCITA DELL’ARTE ITALIANA

Mentre la rinascita dell’architettura avviene a partire dall’anno mille, bisogna aspettare ancora qualche secolo prima che un analogo fenomeno interessi le arti figurative. Durante il periodo romanico anche la pittura e la scultura conoscono una più intensa produzione, e ciò soprattutto per la decorazione delle cattedrali, ma non conoscono un reale rinnovamento stilistico. Le immagini appaiono bloccate in forme stereotipe, realizzate con povertà di mezzi espressivi. Le sculture, sempre a bassorilievo, hanno figure rigide e geometrizzate. Sia in pittura che in scultura è del tutto sconosciuto il problema della visione in profondità: le figure che animano una scena sono poste su un unico piano di rappresentazione, con evidenti effetti di sproporzione e di irrazionalità spaziale.

Di fatto, in questo periodo, il maggiore centro di irradiazione artistica rimane sempre Bisanzio, e da lì il gusto dell’icone dorate pervade ancora l’Europa occidentale. L’avvio di un’arte figurativa di reale ispirazione europea inizia proprio quando si avverte la necessità di superare gli stilemi figurativi bizantini. Ciò avviene a partire dal XIII secolo in poi, in due aree geografiche precise: l’Italia centrale e la Francia.

In Italia il problema di superare l’arte bizantina viene impostato sul ritorno al naturalismo e alla razionalità terrena della visione, in opposizione al misticismo antinaturalistico bizantino. In Francia, il superamento avviene sul piano della significazione: non più un’arte di ispirazione religiosa che rimandasse ad un ordine teocratico delle cose, ma un’arte laica che esprimesse i nuovi ideali cavallereschi dell’Europa cortese. Sul piano stilistico le differenze tra arte italiana e arte francese, o gotica, sono notevolissime. La prima imbocca decisamente la strada della tridimensionalità, per giungere a quella rappresentazione del reale che sia in armonia con i reali fenomeni della visione umana. La seconda si mantiene invece sul piano di una concezione antinaturalistica dell’arte, dove alla razionalità della rappresentazione viene preferito l’effetto decorativo delle linee curve e dei colori vivaci. Tuttavia l’arte figurativa sia gotica che italiana mostrano, nel corso del XIII e XIV secolo, una identica destinazione: entrambe sono realizzate come decorazione o arredo degli edifici architettonici, in particolare edifici religiosi: chiese, cattedrali, monasteri, pievi, ecc. E questa particolare subalternità delle arti figurative all’architettura determinò una precisa differenziazione tipologica tra arte italiana e arte gotica. L’edificio gotico ha uno scheletro strutturale di tipo lineare che riesce a liberare ampie superfici da destinare a vetrate. In tali edifici, ridottisi le superfici murarie, l’affresco divenne impraticabile: nacquero così le vetrate istoriate. Le immagini furono realizzate in vetri dai colori vivaci connessi tra loro da sottile piombature, e collocate nei vani delle finestre. In Italia questa rigida concezione strutturale del gotico non ebbe mai ampia diffusione, così che l’architettura praticata in quei secoli

offrì sempre ai pittori ampie superfici murarie su cui era possibile intervenire con la classica tecnica della pittura ad affresco.

In un primo momento fu l’arte gotica a egemonizzare il panorama artistico europeo, e ciò fino alla metà del XV secolo. In seguito, con lo sviluppo del rinascimento, fu invece l’arte italiana ad imporre la propria visione artistica all’intero mondo occidentale. Ma l’arte italiana non iniziò con il Rinascimento, bensì soprattutto nella parte centrale della nostra penisola, prese l’avvio già alla metà del XIII secolo. In questa lunga fase di sperimentazione ed elaborazione, durata circa due secoli, si definisce una vera e propria arte «nazionale» italiana, così come stava avvenendo nel campo linguistico con la nascita della lingua italiana. Ed è proprio la concordanza di questo percorso culturale, più che politico (visto che l’Italia troverà la sua unità statale solo diversi secoli dopo), a far sì che questa stagione artistica deve essere definita come epoca della nascita dell’«arte italiana», e con come gotico italiano, così come nei vecchi manuali di storia dell’arte si usava fare. In questo caso il termine «gotico» veniva genericamente usato come aggettivo per indicare tutto ciò che è avvenuto tra XIII e XIV secolo. Ma questa posizione appare ormai del tutto desueta, in quanto con il termine «gotico» si vuole indicare più una tendenza stilistica che non un generico contenitore temporale.

Tema fondamentale per ritrovare una autonoma vocazione artistica, che rendesse l’arte italiana diversa sia da quella gotica sia da quella bizantina, fu lo studio dell’arte antica. Le passate grandezze dell’arte romana mostravano sempre più non solo la superiorità dell’arte classica rispetto a quella medievale, ma indicavano chiaramente la differenza tra l’arte occidentale e quella bizantina. In particolare la prima ha tre fondamenti che all’arte bizantina sono sconosciuti: il naturalismo, il senso della bellezza terrena, il gusto per la narrazione. Ed è proprio partendo da questi tre parametri che l’arte italiana iniziò il suo percorso di affrancamento rispetto all’arte bizantina. Diverso è anche il percorso stilistico rispetto all’arte gotica. Quest’ultima trovava nell’intreccio lineare e sinuoso, nonché nelle accese cromie, il suo senso estetico, privo però di componenti naturalistiche e tridimensionali. L’arte gotica era tesa alla ricerca di una raffinata eleganza che sapesse di fiabesco e affabulatorio, ma restava priva di costruzione razionale sia della figura sia dello spazio. L’arte italiana ha invece tutt’altro intento: essa cerca la verità ottica più razionale. La costruzione dell’immagine non vuole creare mondi fiabeschi, ma riprodurre il più esattamente possibile il nostro mondo terreno, secondo le leggi fisiche, ottiche e tattili, che lo governano.

La nuova scultura italiana

La nuova arte italiana, come vedremo, si formò soprattutto in area toscana e umbra. Ma i prodromi di questa nuova visione artistica ebbero origine su un’area più vasta che coinvolgeva soprattutto l’Italia meridionale. Qui, infatti, durante la dominazione di Federico II, si avviarono molti cantieri artistici, nei quali la sperimentazione di un

linguaggio più naturalistico ispirato ai capolavori dell’arte classica avvenne con maggior intensità e consapevolezza. La scomparsa di Federico II nel 1250, provocò forse una diaspora di artisti che dal meridione si spostarono nell’Italia centrale in cerca di nuovi committenti. Tra questi ci fu probabilmente il maggior protagonista della scultura intorno alla metà del Duecento: Nicola Pisano, il quale a dispetto del nome, forse attribuitogli in seguito, era di documentate origini pugliesi.

La sua presenza a Pisa, a partire dal 1250, permise la nascita di una nuova tendenza scultorea che fornì una componente fondamentale alla nuova arte italiana che si formava in quegli anni. Egli è il capostipite di una tradizione scultorea che vede, nel corso del Duecento e del Trecento notevoli protagonisti, quali il figlio Giovanni Pisano, Arnolfo di Cambio, Tino di Caimano, Andrea Pisano, ecc. anche se gli esiti scultorei di questi successori sono alquanto diversi dal linguaggio plastico di Nicola.

Soprattutto per la scultura, il percorso di rinnovamento è segnato dallo studio dell’arte classica. In particolare, dallo studio degli antichi bassorilievi romani (sarcofagi, archi trionfali, are votive, colonne istoriate, ecc.), trassero indicazioni per il recupero dei volumi e dello spazio. In sostanza le figure prendono una forma più volumetrica, più piena e tornita, e queste stesse figure si pongono su una successione di piani, che riescono a scandire e misurare lo spazio in profondità. In sostanza, così come avveniva in pittura, vi era da conquistare la terza dimensione virtuale, quella che riesce a sfondare visivamente il piano di rappresentazione per darci l’illusione visiva di vedere in profondità.

Il senso di salda volumetria delle figure, proprie del linguaggio di Nicola Pisano, subì in seguito una più decisa contaminazione con lo stile gotico, avvertibile nell’opera del figlio Giovanni e degli altri scultori che da lui presero esempio nel corso del Trecento. Del resto l’arte gotica, soprattutto in Francia e Germania, conosceva una evoluzione nel campo scultoreo di grande forza espressiva. Caratteri peculiari delle sculture gotiche erano un certo espressionismo «patetico» (che trasmettevano, cioè, pathos in maniera molto accentuata) ed una forma compositiva che accentuava l’inarcamento laterale delle figure, o un loro tendenziale avvitamento sull’asse verticale, così da trasmettere una sensazione di movimento che attenuava la rigidità statuaria delle figure. Queste suggestioni della scultura gotica produssero una decisa influenza anche sulla scultura italiana del Trecento, che si presentò quindi come una originale sintesi tra saldezza monumentale tipica del classicismo romano ed espressionismo della figura di matrice nordica.

Il rinnovamento del linguaggio pittorico

Il linguaggio pittorico, agli inizi del Duecento, si presenta in Italia ancora condizionato dall’arte bizantina e dai suoi immutabili parametri stilistici. Immagini ancora di diafana costruzione, cariche di colore oro usato sia per i fondali sia per le caratteristiche lumeggiature lineari. Il primo tentativo di distaccarsi da questa

tradizione, o comunque di andare oltre, fu di inserire fondali vedutistici al posto dei fondi dorati privi di profondità. Ma le figure rimasero senza peso e si disponevano con assoluta libertà su fondali con i quali non avevano alcun rapporto visivo plausibile. Tuttavia il problema era stato posto: si trattava di trovare la giusta soluzione.

In sintesi il problema era abbastanza semplice: come dare apparenza di tridimensionalità a ciò che ha solo due dimensioni. L’immagine costruita su un piano, sia esso un foglio o un muro, ha sempre e solo due dimensioni reali. Una terza dimensione, che sfonda il piano in profondità dandoci l’illusione di vedere oltre il limite fisico del piano, può essere creata solo con la sapienza tecnica di chi costruisce l’immagine. Questa sapienza si basa su due tecniche fondamentali: i corpi prendono aspetto tridimensionale con il chiaroscuro, lo spazio ci appare tridimensionale se è costruito con la prospettiva. La scoperta della prospettiva avviene solo agli inizi del Quattrocento, e la sua comparsa segna in maniera inequivocabile l’inizio di quella nuova stagione artistica che chiamiamo Rinascimento. Il chiaroscuro, invece, viene compreso ed applicato già in questa fase, alla metà del Duecento, ed è il parametro stilistico che immediatamente distingue l’arte italiana dall’arte bizantina e dall’arte gotica.

Ma ovviamente sarebbe estremamente riduttivo ridurre tutto al semplice chiaroscuro. La pittura italiana è un laboratorio di grande sperimentazione nei quali sono da conquistare molti traguardi. Ne citiamo alcuni che sono tra i principali. La figura umana viene finalmente svincolata dalla posizione frontale, che finora ha dominato incontrastata in campo pittorico, e viene rappresentata di lato, di profilo, finanche di scorcio. Inoltre la figura umana acquista finalmente un peso, poggiando i piedi su un piano orizzontale di plausibile costruzione. Il fatto stesso che i pittori riescono a costruire dei piani visivi orizzontali, anche se in maniera spesso imperfetta, è una grande conquista tecnica.

La conquista dello spazio, in assenza di una prospettiva lineare con precise regole geometriche, viene surrogata da una costruzione per scansione di piani, che spesso riesce a creare una sensazione di profondità abbastanza plausibile. Notevole è anche il senso di umanizzazione delle figure, che mostrano spesso una espressività facciale assolutamente inedita nell’arte medievale. Divengono persone con una psicologia reale che fa emergere sui loro visi emozioni e sentimenti decisamente umani. Scompaiono quindi definitivamente le espressioni ieratiche sempre presenti in tutta l’arte medievale e bizantina.

Decisamente inedito è anche il senso narrativo dell’immagine. Le storie rappresentate hanno sempre precise coordinate storico-temporali, anche quando confondono le epoche e riportano le storie sacre al tempo presente, ma ciò che più conta è l’originale tecnica della sequenza narrativa. Le composizioni pittoriche, sia quando sono su parete sia quando sono su tavola, non sono mai costituite da un’immagine unica, ma

sempre da una pluralità di immagini, che, come fotogrammi di un film, svolgono una narrazione secondo una progressione temporale ben scandita. È così forte questo senso della narrazione che in alcuni casi, soprattutto trecenteschi, ci troviamo di fronte alla soluzione decisamente originale, come poi vedremo, delle immagini «sincroniche»: in unica scena si moltiplicano più volte gli stessi personaggi creando una progressione narrativa che contrasta in maniera stridente con l’unicità spazio-temporale dell’immagine singola.

Il problema di chi siano stati i maggiori protagonisti di questo rinnovamento pittorico è ancora aperto. La scomparsa di molte opere, nonché di molte fonti documentarie, ha creato degli equivoci che ancora oggi sono di difficile valutazione. Il problema è di chiarire che peso e che ruolo hanno avuto da un lato la scuola fiorentina, con Giotto e Cimabue, e dall’altro la scuola romana con Pietro Cavallini, Jacopo Torriti e Filippo Rusuti. Questi cinque artisti hanno tutti lavorato nel cantiere di Assisi, alla fine del Duecento, alla decorazione del complesso monumentale della chiesa superiore di San Francesco, ma quali siano stati ruoli e rapporti reciproci ci è ignoto. La tradizione storiografica vuole che il maggior protagonista, nonché il maggiore innovatore, di questa realizzazione pittorica fu Giotto di Bondone. Ma si tratta di una tradizione di parte che risale al Vasari e alle sue «Vite» composte nel 1550. Giorgio Vasari con la sua opera storiografica voleva dimostrare che la grande arte italiana era nata soprattutto grazie ad artisti fiorentini, con un filo unico che partiva da Giotto e attraverso Masaccio, Brunelleschi, Donatello, Botticelli, Leonardo arrivava fino a Michelangelo Buonarroti, il massimo genio artistico allora vivente. In questo suo disegno storiografico «a tesi», egli finiva quindi per sopravvalutare il peso di Giotto rispetto ai suoi contemporanei.

Tuttavia le opere attribuite a Giotto nel cantiere di Assisi appaiono alquanto premature rispetto alle opere successive da egli realizzate, mentre appaiono più in linea con lo stile di Pietro Cavallini. Tuttavia di questo artista romano è scomparsa la quasi totalità delle opere, ad eccezione di alcuni frammenti di affreschi in Santa Maria in Trastevere, così che la definizione della sua evoluzione stilistica ci è ignota. Tuttavia il confronto stilistico tra i migliori affreschi di Assisi e le poche opere pervenutici di Pietro Cavallini, dimostrano quasi senza ombra di dubbio che fu l’artista romano a progettare e dirigere gli affreschi della basilica superiore di San Francesco ad Assisi.

A questo punto, senza menomare la capitale importanza avuta da Giotto nella definizione e diffusione del nuovo linguaggio pittorico, bisogna forse ammettere che questo nuovo linguaggio aveva avuto la sua prima apparizione già in ambiente romano negli ultimi decenni del Duecento.

Il gotico senese

L’ambiente fiorentino, e quello toscano in genere, si mostrò comunque il più fertile per la nuova arte che sorgeva in quegli anni, e in ciò non bisogna dimenticare l’importante apporto che venne anche dalla città di Siena. Gli artisti che qui operarono, Duccio da Boninsegna, Simone Martini, i fratelli Lorenzetti, insieme a molti altri, contribuirono in maniera determinante a definire la nuova pittura italiana.

A Siena si affermò, al contrario di Firenze, una visione artistica che la avvicinava maggiormente alla Francia e allo stile gotico. In pratica qui domina una pittura legata più agli effetti di superficie, su accordi di linee e colori, che non di masse volumetriche inserite in uno spazio realmente dimensionale. Il percorso dell’arte senese parte, alla fine del Duecento, con la comparsa della grande personalità di Duccio da Boninsegna, che si muove in linguaggio pittorico in bilico tra arte bizantina e nuova arte gotica. In una città quanto mai ricca di artisti ed artigiani, ben presto emergono altre figure di forte personalità. Tra questi il primo è di certo Simone Martini, l’artista che, agli inizi del Trecento, si afferma come la più forte alternativa allo stile giottesco. In Simone Martini i mezzi espressivi gotici (la linea sinuosa e ritmica e la preziosa gamma cromatica) raggiungono il massimo delle possibilità, creando uno stile esente da necessità spaziali, ma molto ricco di eleganze e raffinatezze.

Ma dall’ambiente senese ben presto emergono, soprattutto intorno al quarto decennio del Trecento due personalità di grande valore artistico, i fratelli Pietro e Ambrogio Lorenzetti, che possono essere considerati i veri eredi del rinnovamento pittorico iniziato da Giotto. La loro pittura riesce a coniugare l’eleganza tipica del gotico senese con una costruzione volumetrica e spaziale che in quegli anni era decisamente all’avanguardia nel panorama artistico italiano. La loro scomparsa durante la grande epidemia di Peste Nera che sconvolse l’intera Europa a partire dal 1348 è sintomatica di una svolta storica che ha avuto grandi riflessi anche nell’arte. La loro scomparsa privò l’Italia di due grandi protagonisti della nuova pittura che sorgeva in Italia, ma segnò anche il tramonto di Siena sulla scena artistica italiana, in quanto la città toscana, dopo la decimazione subita da questa epidemia, non ritornò più agli splendori e alle vette artistiche che aveva raggiunto nella prima metà del Trecento.

Con la scomparsa dei Lorenzetti, scomparve, ma solo momentaneamente, anche la tradizione più propriamente italiana, inaugurata da Cimabue, Cavallini e proseguita da Giotto e dai suoi seguaci. Nella seconda metà del Trecento furono gli artisti gotici ad imporre nuovamente la loro visione artistica, basata sulle linee curve e leziose, realizzata con colori puri stesi a campiture uniformi, dove prevaleva la evocazione fantastica di un mondo fatato e magico che tanto successo riscuoteva nell’ambito di quelle corti europee che vivevano l’autunno del medioevo.

GIOTTO

Giotto di Bondone nasce a Colle di Vespignano, vicino Firenze, nel 1267 circa e muore a Firenze nel 1337. Nei suoi settant’anni di vita Giotto è stato uno dei maggiori protagonisti della scena pittorica italiana, divenendo di fatto il punto di riferimento per la grande evoluzione artistica toscana che ha portato alla nascita del Rinascimento.

Incerti sono i suoi inizi, e la cronologia delle sue prime opere appare ancora frutto di discussione e di revisione, soprattutto in riferimento al rapporto con l’arte di Pietro Cavallini. Questi due pittori sono entrambi attivi ad Assisi, alla fine del Duecento, e molto dubbia appare ancora la paternità degli affreschi che costituiscono soprattutto il grande ciclo di 28 affreschi dedicati alla vita di San Francesco nella Basilica Superiore.

Dopo il periodo assisiate, Giotto fu a Roma, intorno al 1300 per partecipare ai lavori di rinnovamento artistico promosso da papa Bonifacio VIII per il Giubileo di quell’anno. Subito dopo si colloca la sua maggiore realizzazione, e quella a noi giunta in migliori condizioni di conservazione: gli affreschi per la cappella degli Scrovegni di Padova, realizzati tra il 1303 e il 1305.

In seguito Giotto ritorna ad Assisi, realizzando diversi affreschi nella basilica inferiore, per le due cappelle di San Nicola e della Maddalena. Nei decenni successivi, l’attività di Giotto si intensificò ulteriormente. Diverse sono le realizzazioni su tavola quali il «polittico Stefaneschi» o la «pala di Ognissanti». Dopo il 1317 si collocano altri cicli di affreschi realizzati per due cappelle, Peruzzi e bardi, nella chiesa di Santa Croce a Firenze.

Nel 1334 Giotto venne nominato architetto della cattedrale di Firenze, incarico che espletò progettando il campanile che porta oggi il suo nome. Alla morte di Giotto la costruzione del campanile era giunta alla prima cornice; fu in seguito continuata da Andrea Pisano, lo scultore che Giotto aveva chiamato a decorare il campanile con un ciclo di formelle esagonali, e terminata da Francesco Talenti e Neri di Fioravante nel 1357.

L’attività di Giotto si estese in varie località italiane da Assisi a Roma, da Padova a Rimini, dove prima del 1313 eseguì il solenne Crocifisso del Tempio Malatestiano, quindi a Verona, a Napoli, dove lavorò per i sovrani angioini e a Milano, dove fu chiamato negli ultimi anni della sua vita dai Visconti. Questo suo successo testimonia l’importanza capitale che egli ebbe nel diffondere una nuova visione artistica, destinata a divenire la lingua pittorica nazionale dell’intera Italia. La portata rivoluzionaria della sua opera fu testimoniata qualche decennio dopo dal pittore

Cennino Cennini, che nel suo «Libro dell’arte», scrisse che Giotto «rimutò l’arte del dipingere dal greco al latino». Con una sintetica formula divenuta celeberrima, il Cennini colse l’essenza dell’opera di Giotto: l’affrancarsi dalla pittura bizantina per riscoprire le radici naturalistiche dell’arte classica occidentale, vera fonte di ispirazione per il rinnovamento artistico di questi anni.

Il suo stile ebbe diversi seguaci ed imitatori, ma ben pochi furono in realtà gli allievi che seppero seguirlo sulla strada da lui aperta. In effetti, nella seconda metà del Trecento il suo stile cadde quasi in oblio, per lasciar posto a suggestioni tardo gotiche di provenienza nordica. Ma la sua lezione non fu certo dimenticata, e rimase quale punto di riferimento, con un salto di un paio di generazioni, per quegli artisti fiorentini che all’aprirsi del nuovo secolo seppero dar vita alla grande stagione del Rinascimento italiano.

Giotto, Madonna d’Ognissanti, 1310 ca., Galleria degli Uffizi, Firenze

In questa tavola realizzata da Giotto intorno al 1310, vediamo l’interpretazione di un grande tema della tradizione, e confrontando questa tavola a quelle di analogo soggetto di Cimabue o di Duccio, appare subito evidente la grande novità della pittura giottesca. La Madonna è priva di qualsiasi ieraticità e ci appare del tutto "umanizzata". Il suo aspetto, il suo volto, la sua espressione, sono di una dolcezza tipicamente umana, senza alcuna astrazione di maniera. Ma ciò che appare di grande innovazione è soprattutto la costruzione del corpo della Madonna. Esso acquista una

tridimensionalità volumetrica così evidente che sembra quasi una costruzione architettonica. Il mantello azzurro scuro che la ricopre non annulla i valori spaziali: lì dove si apre il busto della Madonna appare visivamente pieno e plausibile. Questo mantello scende dalla testa creando una linea verticale netta, ma poi si modella adagiandosi sulle gambe della Madonna: basta a Giotto una leggera scoloritura del colore del mantello per farci vedere pienamente il volume disegnato dalle due ginocchia della Madonna. Su questo piano orizzontale si pone la figura del Bambino che quindi trova un suo plausibile spazio di collocazione.

Il trono marmoreo che accoglie la figura della Madonna ha una costruzione prospettiva molto articolata e corretta: da notare soprattutto il virtuosismo di controllare i due lati trasversali del trono con una struttura traforata che fa chiaramente vedere gli spazi posteriori nei quali appaiono di scorcio le figure di due santi. Le due schiere di santi ed angeli collocati ai lati del trono sono tutti collocati su un piano di appoggio unico e per guardare la Madonna sono correttamente rappresentati di profilo. In realtà, nella concezione medievale e soprattutto bizantina, la rappresentazione di profilo era stata totalmente abolita. Nella pittura di Giotto queste limitazioni scompaiono del tutto, ed egli riesce a controllare la spazialità dell’immagine anche nel corretto rapporto di direzioni di sguardi tra le figure che compaiono nella scena.

In ossequio alla tradizione, anche Giotto alla fine utilizza il fondo dorato e una sproporzione "gerarchica" tra la figura della Madonna e le altre figure. Tuttavia si comprende chiaramente che queste sono appunto concessioni che egli fa alla tradizione, senza nulla togliere alla sua grande capacità di controllare visivamente tutti i corretti rapporti spaziali e visivi tra le figure.

IL TARDO GOTICO

Differenza tra arte italiana e arte gotica

Nel corso di un secolo, dalla metà del ’200 alla metà del ’300, si era definita in Italia una nuova concezione artistica che, era nata soprattutto in opposizione allo stile bizantino. Rispetto a questo stile, l’arte praticata dagli artisti italiani ricerca il naturalismo e la razionalità: le forme e le immagini devono somigliare il più possibile alla realtà. Devono in pratica creare l’illusione di far vedere la realtà stessa. Per far ciò, il problema, soprattutto per i pittori, è di creare sul piano bidimensionale l’illusione visiva della tridimensionalità. Come ci è oggi ben chiaro, le tecniche per ottenere ciò sono soprattutto due: il chiaroscuro, per definire la tridimensionalità dei volumi, e la prospettiva, per costruire lo spazio. In questa fase il chiaroscuro è una realtà già conquistata, la prospettiva ancora no. Ma le ricerche per giungere alla definizione di un metodo "matematico" per definire lo spazio erano state, in effetti, avviate. In pratica artisti quali Giotto o i fratelli Lorenzetti, avevano già gettato le basi, seppure in maniera empirica, per comprendere il funzionamento della rappresentazione dello spazio.

Mentre l’arte italiana era lanciata su questo percorso, un’altra visione artistica, quella gotica, si stava nel frattempo diffondendo in Europa. Anch’essa nasce come un’alternativa all’arte bizantina, ma rispetto all’arte che si stava formando in Italia, aveva ben altri fondamenti. L’arte gotica non cerca il naturalismo, ma la decorazione. Non vuole essere a tutti i costi razionale, ma preferisce le atmosfere fiabesche. Potremmo dire che mentre l’arte italiana vuole "rappresentare" la realtà, nel modo più corretto possibile, l’arte gotica preferisce "raccontare" storie.

Da un punto di vista stilistico, le differenze tra arte italiana e arte gotica sono essenzialmente le seguenti.

· Nell’arte gotica non vi è il chiaroscuro, se non limitatamente ai volti, mentre per le vesti si preferisce una ricca e arabescata decorazione: in questo modo l’obiettivo del naturalismo viene completamente sacrificato per un effetto decorativo più ricco e prezioso.

· Nell’arte gotica non vi è preoccupazione per la corretta rappresentazione spaziale, e le immagini vengono essenzialmente organizzate solo sul piano di rappresentazione, e non in una plausibile spazialità tridimensionale.

· Nell’arte gotica, inoltre, troviamo una predilezione evidente per l’uso della linea: quest’arte sembra pratica più da disegnatori che da pittori veri e propri. Le immagini

sono sempre costruite in punta di pennello, con intrecci e tratteggi lineari di alto valore decorativo.

· Da aggiungere, infine, la predilezione per la linea curva, che è uno dei tratti stilistici sicuramente più universali dell’arte gotica. Curve intrecciate, spirali, avvitamenti, sono tratti stilistici che ritroviamo nella morfologia più varia del gotico, dalla pittura alla miniatura, dall’architettura alla scultura, e così via.

Dunque, ricapitolando, da un punto di vista storico, nel corso del XIV secolo, l’arte bizantina tende quasi a scomparire nell’Europa occidentale, resistendo solo in alcune situazioni periferiche. Le novità artistiche che si diffondono sono soprattutto due: l’arte italiana e l’arte gotica. La prima, in questa fase, è in effetti presente quasi solo nell’Italia centrale e, parzialmente, nell’area padana. L’arte gotica ha invece una diffusione sicuramente più continentale. E questo predominio territoriale diviene supremazia soprattutto nel corso della seconda metà del Trecento: in questo periodo, in effetti, l’arte italiana viene quasi eclissata dal dilagare del gusto artistico gotico.

Ma in realtà è solo un fatto momentaneo: a partire dagli inizi del XV secolo, la nascita di quel vasto fenomeno artistico che chiamiamo Rinascimento, e che altro non è se non il frutto più maturo di quell’arte italiana nata a cavallo tra XIII e XIV secolo, porta l’arte europea tutta sotto l’egemonia della visione artistica italiana.

La peste nera

Le cause della momentanea crisi dell’arte italiana, dopo la metà del Trecento, sono state ricercate in più ipotesi. Una delle più attendibili è quella di ritenere che fu soprattutto la Peste Nera, che si diffuse a partire dal 1348, a mettere in crisi lo sviluppo artistico italiano. Questa famosa e terribile epidemia fu portata in Europa da una nave bizantina che approdò a Messina. Da qui il contagio, in brevissimo tempo, si diffuse in tutto il continente, e la Toscana, in particolare, fu un’area che risentì molto della diffusione del morbo. La popolazione fu letteralmente decimata: si calcola che la città di Firenze, che agli inizi del Trecento doveva avere non meno di centomila abitanti, alla fine del secolo era abitata da meno di ventimila persone. Questo improvviso calo demografico fu ovviamente causa di una crisi più generale del settore economico e produttivo: ovvio che anche l’arte, in questo contesto, conobbe momenti di crisi. Non è inoltre da escludere che molti dei protagonisti della scena artistica toscana furono anch’essi colpiti dal contagio: dei due fratelli Lorenzetti, ad esempio, si perde ogni notizia proprio a partire dal 1348.

Nella situazione che si venne a creare, le ricerche sul naturalismo avviate dagli artisti italiani nella prima metà del Trecento conobbero una sostanziale stasi. Solo pochi ed isolati artisti sembrano seguire ancora le orme di Giotto, e ciò avvenne soprattutto dove gli esempi della sua arte sono presenti e visibili, in particolare a Firenze e Padova. Nella città toscana seguono lo stile giottesco Maso di Banco, Taddeo Gaddi,

Bernardo Daddi e il Giottino. Nella città veneta, risente dello stile di Giotto, il pittore Giusto dei Menabuoi.

Il gotico internazionale in Italia

Intanto la diffusione del gotico sembra non conoscere confini. In questo periodo che va dalla metà del Trecento alla metà del Quattrocento, spesso si usano terminologie diverse per indicare l’ultima fase stilistica del gotico. "Tardo gotico", "gotico internazionale" o "gotico fiorito" sono i tre termini più utilizzati per indicare questo periodo. Il primo termine è di facile comprensione. Anche il secondo si comprende facilmente dalla circostanza che il gotico, in questo secolo, è davvero uno stile che egemonizza tutta la scena europea. Con il termine "gotico fiorito", usato spesso in architettura, si vuole denotare in particolare la tendenza a moltiplicare le nervature che definivano le membrature architettoniche che sorreggevano una volta, fino a creare un arabesco che ha solo valenze decorative e non certo strutturali.

Diverse sono le personalità artistiche attive in questo periodo in Italia, la cui definizione stilistica è a volte non semplice, perché molti rimangono sul confine tra uno stile che non è né pienamente gotico né pienamente italiano o rinascimentale. Premesso quindi che in Italia, anche il gotico internazionale, rimane uno stile diverso dal resto dell’Europa, anche gli artisti del periodo partecipano di quel clima che porta poi alla nascita del rinascimento. In particolare anche in essi si ritrova, spesso, il gusto per l’osservazione del reale e la conseguente ricerca del naturalismo: anche se ciò si applica più ai dettagli e ai particolari, che non alla visione complessiva d’insieme. Anche in questi artisti, poi, si ritrova il confronto con la cultura classica, che rimane una costante di tutta l’arte italiana dal Duecento in poi. Ne è un esempio famoso proprio Pisanello, artista decisamente tardo gotico, il quale inventa il ritratto all’italiana partendo proprio dal gusto numismatico molto diffuso al tempo: sono proprio le monete e le medaglie romane a consegnarci gli esempi più famosi di ritratto nettamente di profilo.

Caso a parte sono poi alcuni scultori, in particolare Jacopo della Quercia e Lorenzo Ghiberti, la cui collocazione nell’area del tardo gotico appare molto problematica: le loro opere hanno caratteristiche così "classiche" che, forse, sarebbe più giusto definirli dei proto-rinascimentali. Ciò, quindi, a specificare che il periodo è soprattutto di transizione, e come spesso succede in questi casi, la notevole eterogeneità stilistica non consente di poter semplificare eccessivamente l’arte del tempo in un’unica formula valida per tutti.

Questa ambiguità stilistica, con compresenza di elementi spuri sia tardo gotici sia rinascimentali, si ritrova del resto in moltissimi artisti del Quattrocento italiano, anche in quelli che la tradizione definisce come del tutto rinascimentali, quali Paolo Uccello, Filippo Lippi, Cosmé Tura, Carlo Crivelli o Sandro Botticelli. Proprio quest’ultimo artista, rinascimentale sicuramente per l’impianto complessivo della sua

opera, ci dimostra come, alla fine del Quattrocento, sopravvivono ancora elementi di tradizione tardo gotica quali il gusto calligrafico per il dettaglio risolto con elementi lineari.

L’arte tardo gotica è un’arte che si diffonde soprattutto nelle corti europee: è l’età dei castelli, che non hanno più solo funzioni militari sul territorio, ma assumono sempre più l’aspetto di grandi e lussuose residenze nobiliari. In queste corti l’arte ha un pubblico essenzialmente laico: è costituito dai nobili, cavalieri e dame, protagonisti e fruitori di quel mondo cavalleresco, e dell’amor cortese, che si ritrova nella letteratura e nell’arte del tempo. In effetti, dopo la scomparsa dell’impero romano e dell’arte classica, è questo il primo vero periodo artistico "laico" dell’arte europea, laico non tanto per i contenuti, ma soprattutto per il pubblico al quale si rivolge. L’arte esce fuori dalle chiese e compare negli spazi privati dei nobili e della emergente borghesia cittadina. Ed anche le tipologie degli oggetti d’arte tende a cambiare: non più solo affreschi o statue, la cui funzione rimane essenzialmente legata a quella degli spazi pubblici, ma l’arte tende a manifestarsi soprattutto nei gioielli, negli arazzi, nei libri miniati, in quegli oggetti, cioè, che costituiscono i patrimoni privati, non pubblici.

Il tardo gotico in Italia trova, come centri più vitali, quelli collocati in area settentrionale, soprattutto nel periodo della seconda metà del Trecento. In quest’area si trovano le città che hanno, in questo momento, la maggiore floridezza economica e culturale, quali Bologna, sede della più antica università italiani, Venezia, con la sua repubblica che si estende su buona parte dell’Adriatico e del Mediterraneo orientale, o le grandi corti quali Milano con i Visconti o Verona con i Della Scala. Il resto dell’Italia, nella seconda metà del Trecento, non vive invece una situazione favorevole all’arte. In Toscana gli effetti della peste nera hanno prodotto una crisi che perdurerà per buona parte del periodo. Roma vive un periodo di abbandono, per effetto del trasferimento della sede papale ad Avignone. Il papa farà ritorno a Roma nel 1377, in una città che richiese una profonda opera di rinnovamento urbano, i cui segni si cominciano a manifestare in campo artistico solo nella prima metà del XV secolo. A Napoli e nell’Italia meridionale la situazione di grande incertezza politica, dovuta alla travagliata fine della dinastia angioina, pure produsse effetti negativi sul piano dell’arte, che iniziò anche qui a rinascere solo intorno alla metà del XV secolo con l’affermarsi della dinastia aragonese.

La scomparsa del tardo gotico in Italia ha avuto date molto differenziate. Avvenne prima in Toscana, perché qui si affermò, prima che altrove, la nuova arte rinascimentale. E la maggior distanza da Firenze, il baricentro dal quale si irradia la nuova arte, determina anche la maggiore durata dell’arte tardo gotica. In sostanza, in molte aree italiane, soprattutto quelle più periferiche, l’arte tardo gotica a volte sopravvive anche fino alla fine del XV secolo, per essere infine sostituita dall’arte rinascimentale che, nel corso del XVI secolo diverrà lo stile artistico dell’intera Europa.

ARTE FIAMMINGA

Premessa

L’arte europea, agli inizi del XV secolo, parla in maniera univoca un unico linguaggio artistico: quello dell’arte tardo gotica. Ma fermenti di novità sono chiaramente all’orizzonte, e si concentrano soprattutto in due aree geografiche precise: la Toscana e le Fiandre. In Toscana, come è noto, si sviluppò quell’arte che noi oggi definiamo «rinascimentale» e la cui analisi affronteremo nei prossimi capitoli. Nelle Fiandre (termine con cui, spesso, genericamente indichiamo una vasta area geografica che comprende buona parte dell’attuale Belgio e Olanda) si sviluppò negli stessi anni un’arte, che oggi chiamiamo «fiamminga», destinata anch’essa a conoscere un’ampia fortuna e ad influenzare profondamente il resto dell’arte europea successiva.

In sintesi, come si era verificato un secolo prima, abbiamo un’arte di tradizione, che egemonizza il panorama artistico, e due nuove proposte che si sviluppano tra l’Italia e i paesi transalpini. Agli inizi del Trecento a monopolizzare la scena era stata l’arte bizantina, con la sua quasi millenaria tradizione che aveva attraversato tutto il medioevo, mentre due nuovi stili sorgevano a ringiovanire la visione estetica: l’arte italiana (quella di Giotto, dei Pisano, di Cavallini, dei Lorenzetti e così via), e quella gotica.

Agli inizi del Quattrocento la situazione è quasi analoga, solo che questa volta l’arte che monopolizza la scena è quella gotica, mentre le nuove proposte stilistiche vengono dall’arte fiamminga e da quella rinascimentale. Nel corso del Quattrocento sarà sempre più l’arte italiana rinascimentale a diffondersi in Europa e, alla fine del secolo, sarà proprio il Rinascimento ad imporsi come nuovo linguaggio artistico europeo.

Le differenze tra arte rinascimentale e fiamminga sono molte, come poi vedremo, ma è da evidenziarne una immediatamente: mentre l’arte rinascimentale rivoluzionò un po’ tutte le arti (architettura, pittura, scultura e le arti una volta definite minori) le novità dell’arte fiamminga riguardarono esclusivamente la pittura. Un’altra differenza sostanziale è che l’arte rinascimentale ebbe una portata molto più rivoluzionaria, in quanto impostò una nuova visione artistica autenticamente moderna, e per questo ebbe alla fine ragione di altri stili artistici, mentre l’arte fiamminga in fondo va vista soprattutto come un’evoluzione dell’arte tardo gotica, evoluzione tesa a conquistare un maggior naturalismo, ma che sostanzialmente non

metteva in crisi un’arte che era ancora espressione di un mondo basato su principi e valori propri del medioevo europeo.

Molteplici sono stati i protagonisti dell’arte fiamminga. Tra di essi il più noto è sicuramente Jan Van Eyck, e che dalla tradizione storiografica era indicato come l’inventore di questo nuovo movimento artistico. Oggi le nostre conoscenze ci permettono di affermare che, in realtà, a far nascere il nuovo stile contribuì in maniera determinante un altro artista, la cui personalità appare non sempre ben definita: Robert Campin. Questo è il nome che attualmente viene riconosciuto all’artista più noto con il nome convenzionale di Maestro di Flémalle. Oltre questi due artisti, l’arte fiamminga conobbe straordinari interpreti per tutto il XV secolo: Petrus Christus, Roger Van der Weyden, Hans Memling, Giusto di Gand e Hugo Van der Goes, solo per citare i più noti. Da segnalare che questi ultimi due pittori, e Roger Van der Weyden, furono attivi anche in Italia, producendo influenze notevoli sullo stesso sviluppo dell’arte rinascimentale. Ma le influenze non furono a senso unico. Anzi, il contatto con l’arte italiana determinò una svolta radicale nell’arte fiamminga nel passaggio dal XV al XVI secolo, restandone segnata da un gusto classico di chiara impronta italianizzante. Ne restarono immuni solo due artisti tra i più originali, dell’intera scuola fiamminga: Hieronymus Bosch (attivo tra fine Quattrocento e primi anni del Cinquecento) e Pieter Brueghel (attivo alla metà del Cinquecento). La loro visione fantastica e inquietante, a volte grottesca a volte popolaresca, parlavano una lingua pittorica assolutamente originale che, recuperando filoni più popolareschi della tradizione nordica e tedesca, giunse a risultati completamenti diversi rispetto alla tradizione stessa inaugurata dalla tradizione fiamminga dei primi decenni del XV secolo.

La pittura ad olio

Secondo la tradizione, i pittori fiamminghi, e in particolare Jan Van Eyck, furono gli inventori della pittura ad olio. In realtà la tecnica di utilizzare oli essenziali quali veicolanti era già nota nell’antichità, ed era limitatamente utilizzata anche nel medioevo. Quale sia stata, in questo campo, la reale novità introdotta dai pittori fiamminghi è uno dei problemi ancora aperti della storia artistica di quegli anni. Possiamo però ritenere che la vera rivoluzione che essi apportarono non fu tanto nella composizione dei colori, quanto nella tecnica di stesura: con i pittori fiamminghi si elevò a sommo grado la tecnica della velatura.

Quando si stende un colore su una superficie, in realtà non si fa altro che porre una pellicola su un piano che, generalmente, in partenza è bianco. Questa pellicola, alla fine, copre la superficie bianca, dandole il colore che l’artista intende rappresentare. La differenza tra le tecniche pittoriche è che alcune, già alla prima pennellata, danno una pellicola interamente coprente, altre danno invece una pellicola semi-trasparente. In questo secondo caso, la pennellata viene chiamata appunto «velatura». Con le velature il pittore ha delle possibilità in più: può trovare molti più gradi di sfumature

e può ottenere una maggiore gamma cromatica. Ciò perché sovrapponendo più velature può gradualmente giungere al tono che preferisce, mentre sovrapponendo velature di colore diverso può ottenere infinite gamme di colori intermedi. Per esempio, se stendo una velatura di rosso, in partenza ho sulla tela solo un rosa pallido: man mano che aggiungo altre velature ottengo gradualmente la tonalità di rosso che mi serve in quella zona del quadro, senza alcun rischio di imprecisione, ottenendo il tono che preferisco. Inoltre, se sovrappongo ad alcune velature di rosso, altre velature di giallo, posso man mano ottenere sulla tela una tonalità arancio che, magari, partendo direttamente dai pigmenti non sarei riuscito ad ottenere. Si comprende che, con la tecnica delle velature, un pittore può ottenere una quantità di colori e di toni infiniti, ampliando le sue potenzialità di rappresentare in maniera esatta il reale aspetto delle cose. L’unico «inconveniente», se così possiamo definirlo, è che una pittura condotta per velature è molto lenta e laboriosa. Per completare un quadro, soprattutto se di grandi dimensioni, occorrono a volte anni. Per fare una buona velatura la pittura ad olio è fondamentale. Non solo: i colori ad olio risultano generalmente più brillanti e luminosi dei colori a tempera, dando alla superficie finale del quadro un aspetto più intenso e vivace.

PRIMO RINASCIMENTO

Premessa

L’arte italiana aveva iniziato a percorrere una strada autonoma, sia rispetto all’arte medievale sia rispetto a quella gotica, già alla metà del XIII secolo. È in questa fase che va individuato il reale punto di svolta che porta alla nascita di quella che la moderna storiografia definisce, appunto, «arte italiana». Ma i primi periodi furono soprattutto di incubazione e di sperimentazione: solo all’inizio del XV secolo l’arte italiana pervenne ad una condizione di vera maturazione proponendo una visione artistica pienamente innovativa, e che segnò l’inizio della modernità.

Da questo momento, l’arte che nasce a Firenze e si irradia prima in Italia e poi in tutta Europa, non la definiamo più «italiana», ma «rinascimentale», utilizzando un termine usato per la prima volta da uno storico tedesco, Jacob Burckhardt, nell’Ottocento. Con questo termine si vuole sottolineare come, da questo momento, l’arte torna ad una visione estetica molto simile a quella dell’età classica. In pratica, nel Quattrocento l’arte non nasce ma «rinasce», in quanto essa ci ripropone modelli simili a quelli già realizzati dagli antichi greci e dagli antichi romani.

Se i fiorentini e gli italiani ebbero la coscienza di vivere in un mondo nuovo, è difficile dirlo. Per loro, probabilmente il mondo si evolveva lentamente verso stadi di maggiore civiltà, ma senza radicali fratture. Per noi, invece, analizzando la cultura di quei secoli, si ha la sensazione di una precisa cesura: ad un certo punto finisce il medioevo ed inizia un’era nuova. Questa nuova era non fu certo un fatto meramente ed esclusivamente artistico, ma nacque da una condizione mentale molto più vasta e profonda: l’idea che l’uomo fosse al centro del mondo (di questo mondo) e fosse dotato, non solo di libero arbitrio, ma anche di una intelligenza che gli permetteva di capire e decifrare il mondo che lo circondava. In pratica l’uomo andava affrancandosi da quella visione mistica medievale, per cui l’unica conoscenza possibile era quella trasmessaci dalla parola di Dio. D’ora in poi il problema della conoscenza, per l’uomo, diviene sempre più un problema nuovo: quello di affinare i propri mezzi di osservazione e le proprie capacità di analisi e di deduzione.

In questo anche l’arte ebbe un ruolo non secondario, soprattutto agli albori del Rinascimento, perché l’arte, in quanto rappresentazione, è sempre conoscenza. Ecco che allora, anche attraverso l’arte, l’uomo rinascimentale affina i propri mezzi di conoscenza: razionalizzare l’immagine significava capire meglio come funziona il mondo, e la nostra relazione percettiva con esso. Da un punto di vista più immediato, l’arte rinascimentale fu segnata da una scoperta molto precisa: la prospettiva. È questo il reale punto di discriminazione: se nell’immagine c’è una prospettiva corretta, l’opera è rinascimentale; se non c’è siamo in presenza di un’opera non

rinascimentale. Ma, benché la prospettiva ebbe un ruolo storicamente fondamentale, non fu probabilmente l’elemento determinante per far nascere il rinascimento. L’elemento decisivo fu il disegno.

Per quanto possa sembrare strano, è solo da questo momento in poi che gli artisti imparano realmente a disegnare: imparano cioè a utilizzare il disegno soprattutto per rappresentare le proprie idee. Trasformarono il disegno nell’arma più potente che si potesse immaginare: uno strumento che consentiva di creare di tutto: immagini, oggetti, spazi. Da questo momento il disegno diviene lo strumento progettuale per eccellenza. E ovviamente determinò una evoluzione nel campo dell’arte che non sempre viene compresa e valutata come si deve. Ma il disegno era, ora, non più una semplice tecnica di rappresentazione: era uno strumento di pensiero. Era uno strumento che consentiva di materializzare le proprie idee e, ovviamente, consentiva di pensare meglio.

Sintetizzare la grande rivoluzione prodotta dal Rinascimento in arte non è semplice. Uno dei punti essenziali è, come abbiamo detto, il disegno. Altro punto determinante, da un punto di vista stilistico, fu la nascita della prospettiva. Ma il Rinascimento fu anche una riscoperta dell’antichità classica e, da un punto di vista sociale, una profonda evoluzione della figura stessa dell’artista. Partendo da questi punti cercheremo di spiegare i caratteri fondamentali del Rinascimento, avvertendo che ogni semplificazione è utile per far comprendere le cose, ma, in ultima istanza, non pretende la completezza.

Il disegno come strumento progettuale

Il disegno viene in genere pensato come un’attività che rappresenta la realtà. Ciò è senz’altro vero, ma non è l’unica potenzialità che il disegno possiede. Se una persona sa disegnare, riesce anche a materializzare, riesce a dare un’immagine, a ciò che ha in testa. In questo senso il disegno è uno strumento progettuale.

Cosa sono gli strumenti progettuali è un tema molto particolare, ma in sintesi possiamo definirli come segue: quando io devo realizzare qualcosa, ancora non so quale sarà il risultato che andrò ad ottenere. Solo dopo aver realizzato effettivamente l’opera potrò giudicare se è valida o meno. Ma ciò non è sempre razionale. Pensiamo ad una casa: se per vedere se mi piace o meno devo prima costruirla, corro un grosso rischio, perché se poi non mi piace devo demolire il tutto e ricominciare daccapo. Allora, devo necessariamente ricorrere a un diverso approccio: prima di cominciare a realizzare qualcosa, devo essere sicuro del risultato che vado ad ottenere. Restiamo nel caso dell’architettura. Gli antichi greci avevano realizzato un loro particolare sistema progettuale: gli ordini architettonici. Con gli ordini loro avevano fissato un insieme di regole per proporzionare gli elementi che componevano l’edificio. Rispettando quelle regole si era sicuri di giungere ad un risultato valido sia da un punto di vista estetico che statico. Questo strumento progettuale possiamo definirlo

«di dimensionamento». Il disegno è invece uno strumento progettuale che possiamo definire «di visualizzazione»: esso mi consente di visualizzare, cioè di vedere, il risultato finale, prima di realizzare l’opera. Oggi abbiamo altri strumenti progettuali, molto più potenti, quali il computer, la tridimensionalità virtuale, e così via, ma si tratta pur sempre di strumenti «di visualizzazione». Mi permettono, cioè, di vedere l’opera che dovrò realizzare come se già esistesse.

Quando, agli inizi del Rinascimento, gli artisti iniziano man mano a prendere coscienza di cosa significhi saper disegnare, assistiamo ad una improvvisa e straordinaria evoluzione di questo strumento. Nel giro di un secolo, se guardiamo ai disegni di Leonardo, ci rendiamo conto di come il disegno è ormai lo strumento principe dell’artista: grazie ad esso, l’artista rinascimentale può progettare opere d’arte, di architettura, opere militari, di ingegneria civile, di idraulica, di meccanica, e di infinite altre cose. Grazie al disegno, si può progettare praticamente di tutto. Ed è da ciò che deriva il grande eclettismo degli artisti rinascimentali: mai come in questo periodo la stessa personalità si occupa di campi diversissimi, e con risultati sempre straordinari.

Ma la scoperta del disegno quale strumento progettuale, portò ad una conseguenza inedita: fu possibile, per l’artista, scindere il momento dell’ideazione da quello dell’esecuzione. All’artista poteva anche bastare fare il disegno dell’opera che intendeva realizzare: la realizzazione poteva anche affidarla ad altri i quali, grazie ai disegni avuti, divenivano dei semplici esecutori materiali di quanto ideato dall’artista. La scissione dell’ideazione dall’esecuzione fu gravida di conseguenze nuove soprattutto nell’architettura, la quale da questo momento in poi, non ha più riunito i due momenti. Ma fu una situazione nuova anche per le altre arti figurative: anche nella scultura e nella pittura il maestro, spesso, si limitava a disegnare (progettare) l’opera: l’esecuzione materiale era poi affidata agli aiuti e ai collaboratori. Ma, soprattutto in pittura, la scissione tra ideazione ed esecuzione non fu una regola assoluta: in tempi successivi, soprattutto nel corso del XIX secolo, i due momenti divennero nuovamente inscindibili.

La prospettiva

L’arte medievale aveva semplificato la raffigurazione sia pittorica che scultorea, annullando tutti gli effetti di spazialità. Le figure, in pose e immagini sempre molto schematiche, venivano collocate, nel quadro o nei bassorilievi, sempre su un unico piano verticale. Ciò portava ad una rappresentazione del tutto antinaturalistica, in quanto le immagini artistiche non assomigliavano in nulla alle immagini che i nostri occhi colgono della realtà circostante.

Il naturalismo, in pittura, può essere definito come la riproduzione che più si avvicina a quella sensoriale del nostro occhio. Vi sono delle leggi ottiche molto precise, che regolano la nostra vista. L’occhio raccoglie i raggi visivi dallo spazio, li fa

convergere in un punto, e quindi li proietta su un piano ideale posto all’interno dell’occhio. In pratica, traduce la realtà, tridimensionale, in immagini, bidimensionali. Il pittore, in pratica, opera allo stesso modo: percepisce una realtà tridimensionale, e la traduce in rappresentazioni bidimensionali. Se la rappresentazione segue le stesse leggi ottiche dell’occhio umano, abbiamo una pittura naturalistica; diversamente si va nel simbolico o nell’astratto.

La conclusione di questa ricerca, portava a comprendere il funzionamento della visione oculare, e a tradurlo in un sistema logico, da applicarsi per la costruzione della rappresentazione. Tale sistema logico è ciò che si definisce «prospettiva».

Tra le varie regole, alla base della prospettiva, se ne possono citare almeno due:

1. le rette che, nello spazio tridimensionale sono parallele, nelle rappresentazioni piane tendono a convergere in un punto, detto punto di fuga, e che è unico per tutte le rette parallele alla medesima direzione;

2. l’altezza degli oggetti tende a ridursi progressivamente, man mano che questi si allontanano dal punto di osservazione.

Applicando queste regole si possono ottenere immagini del tutto simili a quelle che i nostri occhi trasmettono al cervello. In tal modo, il quadro viene ad essere una sorta di illusione spaziale, dove le figure sembrano non collocarsi su una superficie piana, ma in uno spazio virtuale, che si apre a partire dal piano di rappresentazione. Dopo la scoperta del chiaroscuro, che sfruttava la luce per definire attraverso la differenza di tonalità la tridimensionalità dei volumi, la scoperta della prospettiva consentiva di rappresentare la tridimensionalità dello spazio, attraverso l’uso della geometria proiettiva. Da questo momento in poi, la tecnica pittorica del rinascimento italiano, andò ad affermarsi come la più avanzata e perfetta, conquistando un ruolo di egemonia in campo europeo, ed occidentale in genere, fino alla metà dell’Ottocento.

Le prime applicazioni della prospettiva avvennero a Firenze, nel terzo decennio del XV secolo, ad opera di Masaccio nel campo della pittura e di Donatello nel campo della scultura. Ma il vero inventore della prospettiva fu Filippo Brunelleschi. Che Brunelleschi fosse un architetto non è affatto casuale. In realtà tra architettura e prospettiva esiste un rapporto molto intimo: la prospettiva è un sistema che funziona bene solo se dobbiamo rappresentare degli spazi che seguono precise regole geometriche. Lo spazio naturale non ha forme geometriche regolari: in natura non troveremo mai linee rette, linee parallele, angoli retti, quadrati, cerchi e altri enti geometrici simili. Questi sono elementi geometrici che troviamo solo nell’architettura: solo lo spazio artificiale, quello costruito cioè dall’uomo, ha una geometria di base fatta di linee rette, di angoli retti, di parallele e perpendicolari e così via. Ecco perché la prospettiva è una tecnica che si può usare solo per rappresentare spazi architettonici.

Nel Quattrocento assistiamo, infatti, ad un connubio molto stretto tra pittura e architettura. Nei loro quadri, i pittori rinascimentali, per materializzare la profondità spaziale utilizzando la prospettiva, usano sempre l’architettura. Un quadro rinascimentale del Quattrocento è sempre una straordinaria rappresentazione di spazi architettonici. Ma ovviamente la prospettiva condizionò molto anche la stessa architettura. La rappresentazione prospettica condizionò gli architetti, portandoli a progettare edifici dalle forme sempre più regolari, che si davano alla percezione come la materializzazione stessa di quella chiarezza geometrica che la prospettiva proponeva come nuovo canone di bellezza.

Il ritorno all’antico

Il Rinascimento, già nel suo stesso nome, contiene l’implicito tema del recupero del passato. Nel campo più vasto della cultura umanistica del tempo, recupero dell’antico significò studiare tutti quegli autori classici che erano stati un po’ trascurati nel medioevo; significò un recupero anche di quei temi filosofici che vanno sotto il nome di neoplatonismo.

Il neoplatonismo era nato nel III secolo grazie ad un filosofo di nome Plotino. Questo neoplatonismo ritornò di gran moda nell’ambiente fiorentino del Quattrocento, grazie a pensatori quali Marsilio Ficino, Pico della Mirandola, Lorenzo Valla. Senza entrare nel merito di questioni squisitamente filosofiche, il neoplatonismo fornì importanti spunti teorici di pensiero ad un tema che, con l’arte rinascimentale, divenne improvvisamente impellente: il recupero della bellezza. Arte e bellezza sembrano, per molti, quasi sinonimi. In realtà non è affatto vero. Che l’arte avesse per fine la bellezza è stato vero solo in alcuni periodi della storia. È stato vero per l’arte greca, ma non lo è stato, invece, per l’arte medievale.

Nel medioevo, una visione dell’arte, basata fondamentalmente sulla religione, escludeva del tutto la bellezza. L’arte aveva un fine essenzialmente didattico: insegnare le storie della religione cristiana. La bellezza non era importante, anzi, veniva spesso considerata apertamente pericolosa. Perché la bellezza è qualcosa che parla ai sensi, e come tale può indurre più al peccato che non ai buoni precetti.

Nel Rinascimento assistiamo invece ad un recupero intenso del concetto di bellezza. Il perché è ben comprensibile: la bellezza era l’espressione stessa della perfezione, di quella perfezione che diviene il metro per giudicare la capacità dell’uomo di creare un mondo nuovo. In questo il Rinascimento è molto simile al mondo greco: in entrambi i casi la bellezza è sinonimo di perfezione e si basa su leggi matematiche. La bellezza è l’armonia dei rapporti perfetti, che solo i numeri sanno svelare.

Il neoplatonismo fu importante per le riflessioni sulla bellezza. Secondo questa filosofia, ciò che è bello è anche buono, e ciò che è buono è anche bello. In pratica non c’era conflitto tra sfera etica ed estetica. Come si sa, questo è un punto molto

controverso, che ha avuto alterne posizioni nel corso della storia del pensiero occidentale. Tuttavia, grazie a questo modo di risolvere un conflitto che nel medioevo aveva estraniato il bello dall’arte, anche il neoplatonismo contribuì a riportare, nel corso del Quattrocento, il tema della bellezza ad una nuova attualità.

In questo, quindi, il Rinascimento recupera l’antico. Recupera il senso del bello, l’armonia delle proporzioni, il gusto per la perfezione formale. In ultima analisi, come l’arte classica, anche l’arte rinascimentale vuole ottenere il naturalismo più perfetto: vuole una rappresentazione della realtà che, nella sua perfezione, sia conoscenza esatta di ciò che viene rappresentato. Per questo, anche l’arte contribuì a creare il nuovo uomo del Rinascimento: un uomo che indaga con ogni strumento il mondo che lo circonda per meglio conoscerlo. In un primo momento, il recupero dell’antico si materializzò in architettura, prima che nelle arti figurative. Il Rinascimento fu anche rifiuto dell’architettura gotica, e delle sue irregolari geometrie. Questo rifiuto portò gli architetti del tempo a recuperare, in alternativa, tutte quelle forme e regole che avevano caratterizzato la grande architettura romana: gli ordini architettonici, gli archi a tutto sesto, la regolarità delle forme geometriche, e così via. In seguito, il ritorno all’antico si manifestò sempre più nelle arti figurative, anche grazie ad una nuova attenzione posta ai temi mitologici che, con il Rinascimento, tornarono nuovamente ad essere rappresentati.

Ma il Rinascimento fu soprattutto, come già detto, non un semplice recupero di elementi decorativi: fu il recupero di un atteggiamento verso l’arte che prediligeva la bellezza e il naturalismo.

Il nuovo ruolo dell’artista

Per tutto il Medioevo, l’artista era stato sempre considerato quale un artigiano, persona, cioè, la cui abilità era soprattutto manuale. Secondo una distinzione, che risale sicuramente a tempi molto antichi, le arti erano divise in «liberali» e «meccaniche»: le prime erano quelle che si affidavano soprattutto al pensiero e alla parola, le secondo implicavano invece una manipolazione della materia. Mentre quindi le prime erano arti puramente intellettuali, le seconde comportavano il possesso di una tecnica e una precisa abilità manuale. In sostanza, con termini più attuali, potremmo definire i primi degli intellettuali, i secondi degli operai. Ovviamente, da un punto di vista sociale, i primi erano tenuti in maggior considerazione rispetto ai secondi.

Le arti figurative erano annoverate tra quelle meccaniche: i pittori e gli scultori potevano anche essere degli analfabeti (e spesso lo erano) tanto a loro non era chiesta alcuna attività di pensiero. Essi dovevano solo possedere l’abilità tecnica per saper eseguire quello che il committente gli chiedeva. Ed infatti, la paternità dell’opera d’arte, nel Medioevo, veniva considerata più del committente che non dell’artista che l’aveva realizzata. Questa situazione andò evolvendosi nel tempo, quando il fare arte

divenne una tecnica sempre più evoluta, al punto che la capacità dell’artista non poteva essere vista come quella di un semplice operaio che possiede solo abilità manuali. Già nel Trecento, con Giotto, ad esempio, assistiamo ad una crescita straordinaria della considerazione sociale di cui gode ora l’artista. Ma è soprattutto con l’affermarsi del Rinascimento che l’evoluzione della figura dell’artista compie il grande salto: da questo momento in poi, anche l’artista rivendicherà per se il ruolo di intellettuale.

Il mondo dell’arte ha avuto una infinità di interpreti e di rappresentanti, i quali si sono collocati nella società nei punti più disparati, da quelli più umili a quelli più significativi. Una cosa rimane però certa, che dal Rinascimento in poi l’artista inizia a godere di una considerazione nuova.

Nel corso del Rinascimento, anche il luogo dell’artista cambia: non è più quello della bottega, ma quello della corte. Molti artisti lavorano direttamente alle dipendenze dei signori che governano i piccoli stati, in cui la penisola si divide in questo secolo. Alla figura del principe-mecenate, fa da corollario quella dell’artista cortigiano. E nella corte di un principe l’artista viene a contatto con tutti i maggiori rappresentati dell’intellettualità del tempo: poeti, scrittori, filosofi, matematici, e così via. Entra quindi a far parte, a pieno diritto, nel novero degli intellettuali del tempo.

Nel campo dell’architettura, poi, il salto è stato radicale. Prima la figura dell’architetto neppure esisteva, ma a dirigere e coordinare i lavori di un cantiere medievale era quella figura che potremmo definire di «capomastro»: un muratore, cioè, che aveva più esperienza degli altri. Nel Rinascimento l’architetto assume tutt’altra veste: egli è ormai un professionista, nel senso moderno del termine, che conduce la sua attività attraverso lo studio teorico e la elaborazione progettuale. Grazie ai nuovi strumenti progettuali offerti dal disegno, egli conduce la sua attività prevalentemente a tavolino. Non è infrequente, infatti, che importanti realizzazioni architettoniche siano state concluse da altri, anche dopo la morte dell’ideatore, perché i progetti definivano compiutamente l’opera da realizzare. Il Rinascimento, peraltro, rimane l’unico periodo della storia italiana, in cui assistiamo a questo eclettismo notevole, per cui lo stesso artista fa contemporaneamente l’architetto e il pittore o lo scultore. È una parabola che va da Giotto a Bernini: dopo i ruoli saranno sempre più distinti, e la professione di architetto raramente si sommerà a quella di artista.

Gli albori del Rinascimento

Come è noto, la storiografia pone generalmente la fine del Medioevo e l’inizio dell’età moderna al 1492, anno della scoperta dell’America. Si tratta ovviamente di una convenzione che, per i normali problemi di classificazione, appare abbastanza congrua. Per l’arte, invece, il 1492 è una data troppo tarda: nel campo artistico l’era nuova inizia nei primi anni del XV secolo, quasi un secolo prima. Anche qui le scelte sono tutto sommato convenzionali. La tendenza è di porre l’inizio del Rinascimento

al 1401, anno in cui a Firenze si svolse il concorso per la seconda porta di bronzo del Battistero, anche se le prime manifestazioni del nuovo stile appaiono solo nel terzo decennio del XV secolo.

Luogo di nascita dell’arte rinascimentale è Firenze; protagonisti furono tre tra i più grandi artisti di tutti i tempi: Brunelleschi, Donatello e Masaccio. La situazione di Firenze, alla fine del Trecento, era di una città ricca che stava lentamente riprendendosi dalla crisi portata a metà del secolo dalle epidemie di peste. La ricchezza di Firenze derivava soprattutto dalle famiglie che, nel corso del Trecento (Medici, Strozzi, Pitti, e molte altre), si erano date all’attività bancaria. Ciò permise alla città di poter investire in opere d’arte, in maniera molto più estesa rispetto ad altre città italiane. In questo contesto emersero tre artisti singolari, la cui grande genialità fu all’origine della nuova visione artistica rinascimentale. Tuttavia il loro percorso non fu facile, e solo lentamente riuscirono a conquistare gli spazi necessari a far manifestare la loro arte. Ma furono comunque passi importantissimi, che divennero in breve i primi germi di un nuovo percorso che sarà seguito prima dagli artisti italiani e poi da quelli europei. Dei tre, probabilmente il più geniale fu proprio Filippo Brunelleschi: a lui si devono le innovazioni più importanti dell’arte di questi primi decenni del Quattrocento: l’invenzione della prospettiva, nonché l’invenzione dell’architettura rinascimentale. La scoperta delle leggi della prospettiva, se da un lato condizionò tutta l’architettura a venire, dall’altro divenne uno straordinario strumento di rappresentazione per dare alle immagine una maggiore sensazione di naturalismo. A capire le potenzialità della scoperta furono due artisti, di qualche decennio più giovane di lui: Masaccio e Donatello. Le loro opere tra secondo e terzo decennio del Quattrocento ci forniscono i primi esempi di una nuova sensibilità artistica, che nel corso degli anni a venire sarebbe divenuta comune a tutta l’arte italiana.

Ma il nuovo percorso non ebbe immediato successo. Nella prima metà del Quattrocento, ciò che più impressionava erano le leggi della prospettiva, non tanto le regole di razionalità che ne erano alla base. Dopo l’insegnamento dei tre maestri Brunelleschi, Masaccio e Donatello, gli altri artisti preferirono seguire ancora un percorso di mediazione. Su uno stile, che rimase ancora di formazione tardo gotica, inserirono la novità della prospettiva, spesso solo come nuovo elemento stilistico alla moda. Ciò avvenne in artisti particolari quali Paolo Uccello, il Beato Angelico o Filippo Lippi. Solo dopo la metà del Quattrocento il nuovo stile rinascimentale trovò interpreti più attenti alle novità di fondo di questo stile.

LA DIFFUSIONE DEL RINASCIMENTO

La fase di transizione

Il Rinascimento non ebbe una diffusione immediata nel panorama artistico italiano, ma ci vollero diversi decenni prima di divenire uno stile universalmente accettato. Firenze fece da baricentro, e da qui la nuova visione artistica andò man mano diffondendosi nel resto della penisola, prima verso le aree del centro e del nord, poi progressivamente anche verso il sud della penisola. Come spesso succede per situazioni analoghe, le novità ebbero bisogno a volte di compromessi, per essere assorbite, e man mano condivise da tutti. Questo ruolo fu svolto da una serie di pittori, i quali iniziarono progressivamente ad introdurre nella loro pittura alcune delle novità elaborate dai primi artisti rinascimentali, ma senza perdere una certa connotazione stilistica ancora tardo gotica.

Questa mediazione è evidente in molti artisti soprattutto fiorentini che operarono intorno alla metà del secolo, quali il Beato Angelico, Filippo Lippi, Domenico Veneziano, Paolo Uccello, Andrea del Castagno. In essi l’accettazione dello stile rinascimentale avviene soprattutto per l’introduzione della prospettiva nei loro dipinti: una prospettiva, spesso, neppure compresa appieno nelle sue leggi, ma che viene utilizzata anche con una certa libertà di interpretazione. Ma, accanto alla prospettiva, ritroviamo ancora tutta una serie di elementi tardo gotici: le tessiture lineari, l’amore per il dettaglio minuzioso, la predilezione per le curve, e così via.

Ovviamente ogni artista, soprattutto tra quelli citati, elaborò un suo stile molto personale e diverso dagli altri, ma in tutti rimase costante ancora una posizione un po’ a cavallo tra i due stili. Del resto il problema della convivenza stilistica tra rinascimento e gotico si può ritenere che si protrasse per tutto il XV secolo. In molti artisti della seconda metà del secolo, e che la tradizione ci ha sempre indicato come rinascimentali, è possibile ancora ritrovare elementi stilistici tardo gotici. Il caso sicuramente più appariscente è quello di Sandro Botticelli, artista sicuramente rinascimentale, ma nel quale ogni tanto affiorano ancora reminescenze tardo gotiche.

Gli artisti di corte

Nel corso del Quattrocento la figura dell’artista assunse sempre più quella dell’intellettuale. Ma, mentre gli altri intellettuali del tempo potevano trovare nelle università il luogo per esercitare la loro ricerca di conoscenza, lo stesso non avveniva per gli artisti. In questo periodo si sviluppò un rapporto nuovo tra artisti e committenti: quello del “mecenatismo”. Un rapporto che veniva, in questo secolo, mediato dalle “corti”, ossia da quel insieme di personalità che affiancavano il “principe rinascimentale” nel governo della cosa pubblica.

L’Italia, in quegli anni, era divisa in tanti piccoli stati, più o meno autonomi, nelle quali il governo e la cultura ruotavano intorno ad una famiglia o, comunque, intorno ad un gruppo oligarchico. Avveniva a Firenze con i Medici, a Urbino con i Montefeltro, a Mantova con i Gonzaga, a Ferrara con gli Este, a Milano con i Visconti e poi con gli Sforza, e così via. Anche Roma, dopo il ritorno del papa dal periodo avignonese conclusosi nel 1377, prese sempre più l’aspetto di una corte principesca, ed anche il papa ebbe spesso un rapporto diretto di mecenatismo con gli artisti. Nel sud, invece, fu la conquista del regno delle due Sicilie da parte di Alfonso d’Aragona, nel 1442, ad inaugurare una nuova stagione artistica soprattutto a Napoli. La nuova situazione determinò un’evoluzione precisa della figura dell’artista. Non più l’artigiano che viveva soprattutto nella sua bottega o nei cantieri, ma ora l’artista diviene anch’egli un personaggio di corte, a contatto con letterati, matematici, condottieri, politici e così via.

Questa evoluzione, da un lato diede nuovi impulsi e significati all’opera dell’artista, dall’altro accelerò la sua ascesa sociale: ora l’artista diviene un personaggio ricercato e acclamato. Da questo momento inizia inoltre quell’individualismo che, da ora in poi, caratterizzerà la storia dell’arte: l’artista non è più un personaggio anonimo, ma affermerà sempre più la sua individuale personalità, anche attraverso una ricerca stilistica autonoma. La nuova situazione che si crea in Italia, nella seconda metà del Quattrocento, è molto dinamica. Gli artisti viaggiano per la penisola ed anche oltre, facendo da veicolo della nuova concezione artistica che andava maturando. Piero della Francesca, dopo il suo esordio a Firenze collaborando con Domenico Veneziano, non operò più nella città fiorentina, ma in altri centri, soprattutto Urbino, ma anche Ferrara, Arezzo, Roma e Perugia. Antonello da Messina, dopo il suo apprendistato svolto a Napoli, si portò nelle Fiandre, e quindi a Venezia, portando notevoli impulsi al rinnovamento artistico della città lagunare, prima di far ritorno in Sicilia. Molti artisti vennero chiamati ad operare a Roma. La città eterna, dopo il periodo dell’esilio avignonese del papato (1305-1377), necessitava di notevoli opere di rinnovamento urbano ed edilizio.

La stessa residenza papale, che era in San Giovanni in Laterano, era semidistrutta da incendi e incuria. Il papa fu costretto a trasferire la sua residenza nel borgo di San Pietro che, da questo momento, divenne il centro politico e religioso della città e della cristianità intera. Furono necessari nuovi ed intensi lavori di rinnovamento urbano e la stessa basilica costantiniana di San Pietro venne sacrificata, nei primi anni del XVI secolo, per far posto all’attuale basilica.

Molti furono gli artisti, oltre gli architetti, coinvolti. Il Beato Angelico fu chiamato una prima volta, nel 1446, da papa Eugenio IV per affrescare una cappella in Vaticano, e una seconda volta da papa Niccolò V, nel 1448, per affrescare la Cappella Niccolina. Quando, alcuni anni dopo, papa Sisto IV realizzò la nuova Cappella Sistina (1481), furono sempre artisti fiorentini ed umbri a intervenire per la decorazione pittorica: Pietro Perugino, Sandro Botticelli, il Pinturicchio, Cosimo

Rosselli, Domenico Ghirlandaio, Luca Signorelli. Il ruolo di Roma, quale centro artistico, crebbe sempre più, per divenire nel corso del Cinquecento la capitale incontrastata dell’arte italiana. Ruolo che le fu in qualche modo conteso da Venezia, dove, tra fine Quattrocento e inizi Cinquecento si sviluppò una scuola pittorica di straordinaria importanza. Ma nel corso del Quattrocento fu sempre Firenze la città nella quale si svilupparono le maggiori personalità artistiche, anche grazie al mecenatismo di Lorenzo de’ Medici (non a caso chiamato Lorenzo il Magnifico), alla cui corte si incontrarono e si formarono le maggiori personalità artistiche del Rinascimento italiano.

IL RINASCIMENTO MATURO

Nella concezione tradizionale della storia dell’arte, i periodi artistici seguono un percorso che potremmo definire "a parabola". Vi è una prima fase di crescita e di progressi successivi, una seconda di piena maturazione, infine una terza discendente o di decadenza. Una idea del genere può essere applicata a qualsiasi fenomeno artistico: vi è sempre una fase di ricerca, una di raggiungimento degli obiettivi, una di stanca ripetizione di modelli non più innovativi. In realtà una simile concezione della storia dell’arte è stata superata già da qualche secolo, in quanto, se applichiamo tale schema alle epoche storiche, finiamo per applicare un modello di gusto (personale e non obiettivo) per giudicare fenomeni artistici che sono diversi tra loro perché comunque espressione di momenti storici diversi.

Tuttavia, nell’analisi del fenomeno "arte rinascimentale" con fatica ci si distacca da questa concezione della "parabola", e il modello che appare più attendibile è il seguente:

fase di crescita: dal 1420 al 1490 fase di maturazione: dal 1490 al 1520 fase di decadenza: dal 1520 al 1580

Nella prima fase vediamo i progressi successi di artisti che sono stati dei grandi sperimentatori dello stile e della forma, dei rivoluzionari che hanno dovuto creare quasi dal nulla un nuovo linguaggio artistico: Brunelleschi, Masaccio, Donatello, Piero della Francesca, Mantegna, ecc.

Nella seconda fase si assiste al raggiungimento della "perfezione", cioè al pieno controllo del nuovo linguaggio artistico creato nel corso del Quattrocento. Di questa fase i protagonisti assoluti sono tre artisti, da sempre considerati tra i più grandi di tutti i tempi: Leonardo, Michelangelo e Raffaello.

Nella terza fase, nota con il nome di Manierismo, troviamo invece molti artisti che non vanno oltre la perfezione di questi tre grandi maestri, ma ne ripetono le formule stilistiche senza ulteriori innovazioni.

Questa concezione evolutiva dell’arte nasce proprio in quegli anni grazie al primo disegno storiografico dell’arte italiana, realizzato da Giorgio Vasari. Nel 1550 pubblicò la prima edizione delle "Vite dei più grandi pittori, scultori, architetti italiani". Questo libro, che rimane un punto fondamentale per la conoscenza dell’arte rinascimentale, ha una impostazione ideologica ben precisa: dimostrare che l’arte italiana ha seguito un percorso di continua evoluzione, fino a giungere alla perfezione, rappresentata in quegli anni da Michelangelo Buonarroti. In pratica Michelangelo è l’apice di una evoluzione che sembra a sua volta insuperabile.

I tre protagonisti

Il periodo del rinascimento maturo è segnato dalla presenza di tre grandi artisti, quali appunto Leonardo, Michelangelo e Raffaello. Si tratta di tre personalità molto diverse tra loro: un piccolo confronto tra loro può essere utile per capire anche le diverse anime del rinascimento italiano di quegli anni.

Leonardo da Vinci è il modello dell’artista eclettico per antonomasia, colui che riesce ad eccellere in qualsiasi campo, soprattutto perché è dotato di una razionalità eccezionale. Nel campo artistico in fondo ha prodotto molto poco, in quanto la sua inesauribile curiosità lo portava ad affrontare i problemi con appiglio più da scienziato che da artista. In lui l’ansia di conoscere era superiore anche al fare, tanto che rimane più corposa la sua produzione scritta che non quella propriamente artistica.

Michelangelo invece è artista completamente diverso: in lui non si avverte quella fredda razionalità di Leonardo, ma una dimensione interiore più drammatica e sofferta. Michelangelo, nelle sue opere, manifesta un senso tragico dell’esistenza, segnato da una sofferenza e una solitudine che forse sola l’attività creativa riusciva a lenire. Michelangelo è il prototipo dell’artista tormentato, prototipo che ebbe, poi, molto seguito nei secoli successivi.

Raffaello è diverso da entrambi e rappresenta, potremmo dire, il glamour del rinascimento. Tra i tre è stato quello che ha avuto la vita più breve ma la produzione di gran lunga più vasta, segno di uno straordinario e felice rapporto con la sua arte. Raffaello è solare, luminoso, non conosce tormenti, e la sua arte è la ricerca suprema della bellezza e dell’armonia. Raffaello riusciva a far bene qualsiasi cosa, dimostrando sempre un talento impareggiabile.

Un ultimo dato va assolutamente rilevato. L’attività di questi tre artisti così geniali ha profondamente modificato la percezione successiva della creatività artistica: questa non è stata più vista come il prodotto di una professionalità legata ad abilità più o meno manuali, ma come il risultato di una genialità assolutamente individuale. D’ora in poi si afferma sempre più la concezione dell’artista-genio, ossia di un individuo diverso dagli altri perché dotato di qualcosa di unico e irripetibile.

La crisi della prospettiva

La grande svolta stilistica che aveva segnato l’inizio del Rinascimento era stata la scoperta della prospettiva e il suo utilizzo soprattutto in pittura. Tuttavia la necessità di introdurre molte architetture dipinte nei quadri, necessarie a costruire la prospettiva lineare, alla fine divenne un limite che doveva essere superato. La prospettiva rimase una tecnica imprescindibile, la cui conoscenza era comunque fondamentale per la corretta costruzione di una immagine naturalistica, tuttavia era necessario

comprendere meglio le leggi della percezione, per dare una corretta rappresentazione spaziale anche in assenza di architetture.

Uno dei maggiori sperimentatori in questo campo fu Leonardo da Vinci. I suoi studi sui meccanismi della visione umana, gli permisero di definire alcune tecniche che si rivelarono di grande importanza nella pittura successiva. Leonardo, nei suoi trattati, fu il primo a parlare di due prospettive: una lineare e una aerea. Con la seconda intendeva un meccanismo della percezione allora ancora ignota: quello della messa a fuoco. In pratica se si guarda nitidamente le figure in primo piano, l’occhio non può contemporaneamente mettere a fuoco anche le figure sullo sfondo. Se quindi si sfocano le immagini in lontananza, si crea un effetto di tridimensionalità che non fa ricorso alle linee geometriche dell’architettura. Da qui nacque la tecnica nota come sfumato di Leonardo.

Un nuovo sistema prospettico fu intuito sempre da Leonardo, ma trovò la sua maggiore applicazione nella pittura tonale veneta del Cinquecento. Questo sistema consiste nel differenziare bene le aree luminose e in ombra di una scena. L’occhio quando guarda una scena comprende che su uno stesso piano non possono esserci contemporaneamente toni chiari e toni scuri, ma questi vanno collocati su differenti piani di profondità. Pertanto, calibrando bene i toni dei colori, la scena prende più piani di profondità per l’alternarsi di aree in luce e aree in ombra.

Una nuova e inedita possibilità di creare il senso della tridimensionalità venne insegnato da Michelangelo. Le sue rappresentazioni anatomiche sono così articolate e ben realizzate che l’occhio intuisce senza alcuna difficoltà lo spazio in cui il corpo si colloca e si muove. In pratica l’occhio è portato a riconoscere senza alcuna difficoltà l’immagine umana. Quindi basta la posizione delle figure, i loro gesti, i loro rapporti reciproci, persino i loro sguardi, a far comprendere all’occhio di chi guarda la tridimensionalità spaziale in cui le figure si collocano.

La nuova capitale dell’arte

Leonardo, Michelangelo e Raffaello sono tre artisti di formazione fiorentina, ma la loro arte si svolse solo in minima parte nella città toscana. Leonardo ha svolto i suoi maggiori lavori a Milano, mentre Michelangelo e Raffaello hanno lavorato soprattutto a Roma. Nello stesso periodo un’altra città produsse una notevole civiltà artistica: Venezia. Ma la diffusione del rinascimento ormai non conosce confini. È un fenomeno che si espande per tutta l’Europa, dimostrando la grande importanza raggiunta dal genio artistico italiano.

In Italia è soprattutto Roma, in questo momento, la capitale indiscussa della penisola italiana, non solo da un punto di vista artistico. Il ritorno del papa a Roma, nel 1377, dopo il periodo avignonese, dà nuovo slancio allo sviluppo della città eterna. Il papato ha un ruolo sempre più determinante nello scenario politico europeo e Roma è

crocevia di interessi internazionali che le danno un carattere assolutamente cosmopolita.

Il rinnovamento urbano della sede papale diviene la principale occasione di lavoro per molti architetti ed artisti: non è un caso, quindi, che le maggiori personalità del tempo si incontrino a Roma, facendone il laboratorio del rinascimento maturo. Questo ruolo di capitale dell’arte, Roma lo ha ininterrottamente conservato almeno per tre secoli: anche il barocco e il neoclassicismo sono nati nella città eterna.

Fino al 1305, prima che il papa si trasferisse ad Avignone, la sede papale non era il Vaticano ma il Laterano. Quando nel 1377 il papa ritornò a Roma, i palazzi lateranensi non erano più in grado di ospitare la corte papale. La scelta cadde sul Vaticano che, già in epoca altomedievale, era quasi una piccola cittadella fortificata che poteva ospitare il papa in caso di pericolo. Dagli inizi del Quattrocento iniziò il rinnovamento del Vaticano, che divenne il maggiore cantiere artistico italiano per oltre due secoli, luogo di formazione di un nuovo linguaggio artistico nonché luogo di incontro tra i maggiori maestri italiani del tempo. Un caso pressoché unico, paragonabile solo al Cantiere di Assisi, dove tra Duecento e Trecento nacque la pittura italiana.

Ma Roma è una capitale i cui interessi travalicano i suoi confini statali. Luogo di incontro tra le maggiori diplomazie europee, a Roma sorgono sfarzosi palazzi di famiglie nobili italiane e straniere, che alimentano una committenza artistica di altissimo livello. E, sempre a Roma, si comincia a manifestare un primo mercato dell’arte, conseguenza di un fenomeno nuovo rispetto ai tempi precedenti: il collezionismo di opere di artisti ancora viventi.

LA PITTURA VENEZIANA DEL CINQUECENTO

Venezia e l’arte rinascimentale

Nel corso del Cinquecento l’arte rinascimentale conosce una diffusione a livello europeo che di fatto monopolizza l’intera scena artistica. Firenze non è più l’unico centro artistico italiano all’avanguardia, ma ad essa si affiancano, in maniera sempre più intensa, altre città, prime tra tutte Roma e Venezia. Ma se la città eterna prende l’eredità più diretta dell’arte nata a Firenze, Venezia, nel corso del XVI secolo, percorrerà una strada stilistica del tutto originale.

L’incontro tra Venezia e l’arte rinascimentale avviene un po’ più tardi rispetto ad altre località italiane. Per buona parte del Quattrocento a Venezia si respira ancora aria di stile bizantino, mentre le sole novità sono l’introduzione di alcuni elementi gotici filtrati soprattutto attraverso i contatti con l’area tedesca. Nella seconda metà del Quattrocento il rinascimento inizia a comparire grazie alla presenza a Venezia di Antonello da Messina e grazie ai contatti tra la famiglia Bellini e Andrea Mantegna. Quest’ultimo aveva sposato la figlia del pittore Jacopo Bellini, nonché sorella di Gentile e Giovanni, anche loro pittori come il padre. Fu soprattutto Giovanni Bellini a sintetizzare gli elementi appresi da Mantegna e da Antonella da Messina in uno stile del tutto nuovo, in cui non erano esenti alcune reminescenze tardo gotiche. Questo nuovo stile, che dà luogo ad un rinascimento che possiamo definire veneziano, consisteva in un uso del tutto nuovo del colore, che diede vita a quella pittura definita tonale. Questa nuova tendenza trovò nuovi interpreti e sperimentatori in due straordinari artisti: Giorgione e Tiziano. Il primo ebbe vita breve, anche se la sua opera rimane un punto fermo dell’esperienza pittorica veneziana agli inizi del Cinquecento. Fu invece Tiziano il grande protagonista della stagione rinascimentale veneziana, grazie ad una vita lunga ed intensa che lo portò ad operare anche fuori Venezia. La pittura di Tiziano rimase un grande esempio per le generazioni successive di pittori, esercitando un’influenza non meno vasta di Raffaello o di Michelangelo. La sua grande personalità riuscì quasi a monopolizzare la pittura a Venezia, determinando la diaspora di altri artisti, quali Lorenzo Lotto o Sebastiano del Piombo i quali ebbero però l’indiscutibile merito di diffondere la nuova visione artistica veneziana al di fuori della laguna veneta. Bisogna infatti attendere la metà del secolo per veder comparire a Venezia altri grandi pittori non meno dotati di Tiziano, in particolare Jacopo Robusti, detto il Tintoretto, e Paolo Caliari, detto il Veronese. La loro esperienza pittorica, di matrice già pre-barocca, conclude con uno spettacolare canto del cigno il rinascimento veneziano, prima che il nuovo clima controriformista imponga nell’arte pittorica una visione più cupa e meno festosa.

Un diverso concetto di bellezza

La caratteristica stilistica più importante della pittura veneziana fu il tonalismo, di cui parleremo nel prossimo paragrafo. Ma le differenze tra il rinascimento fiorentino e quello veneziano ha radici più profonde che investe l’estetica stessa dell’arte. Il bello può avere due finalità principali: produrre un piacere intellettuale o produrre un piacere fisico, sensoriale.

L’arte fiorentina nasce come ricerca di una bellezza che è soprattutto perfezione ideale, quindi di natura più intellettuale che sensoriale. Il clima che si respira a Venezia, soprattutto nel Cinquecento è ben diverso: la bellezza ha una sua natura e finalità legata più ai sensi che all’intelletto.

Del resto bisogna considerare la differente cronologia e temperie culturale che divide i due ambienti artistici. Firenze, nel Quattrocento, è imbevuta di cultura neoplatonica che, oltre a dare una preminenza all’idea sul sensibile, fu importante per sdoganare la bellezza come valore positivo, superando l’idea medievale che il bello fosse pericoloso perché manifestazione del peccato e della lussuria. Venezia, invece, nel corso del Cinquecento è una città ricca, dove non manca il benessere, il lusso e anche una notevole tolleranza nei confronti dei piaceri della vita. È ovvio che il bello viene visto non come qualcosa di ideale, ma come una manifestazione positiva dell’essere perché capace di suscitare gioia, piacere, ecc.

Questa diversa concezione estetica è anche la premessa perché a Firenze si diede più importanza al disegno nella pratica pittorica, mentre a Venezia si diede più importanza al colore. Il disegno è il modo come il nostro cervello razionalizza le forme che percepisce; il disegno è la trascrizione del nostro pensiero del reale. Attraverso un disegno perfetto si percepisce un pensiero perfetto della realtà. Il colore è invece l’emozione degli occhi, rappresenta la parte della visione che i nostri sensi immediatamente percepiscono e che producono la diretta risposta emotiva. Il colore fa sì che l’immagine che vediamo in un quadro ci trasmetta anche sensazioni tattili, quasi che l’immagine è qualcosa di reale e non solo la rappresentazione di una finta realtà.

La pittura tonale

Le novità dell’arte veneziana si sostanziano tutte nella pittura, dando luogo a quella tecnica chiamata tonale. In sintesi il tono di un colore può essere definito come la quantità di luce che esso riflette. Se un oggetto viene investito da una grande quantità di luce, esso rifletterà molta luce e il suo colore ci apparirà di tono chiaro, o insaturo. Se invece è illuminato da una fonte luminosa più debole, il suo colore diventerà di tono scuro, o saturo. L’occhio è naturalmente predisposto a interpretare i toni di colore come intensità luminosa presente nella scena che guarda. E l’occhio in genere interpreta in questo modo: su uno stesso piano non possono esserci

contemporaneamente toni chiari e toni scuri, ma questi vanno collocati su differenti piani di profondità.

Usando questa tecnica si può creare un inedito effetto di tridimensionalità nei quadri, senza ricorrere alla prospettiva tradizionale. Quest’ultima, come già detto, aveva bisogno delle architetture per poter pienamente manifestarsi nella scena pittorica, costringendo la pittura ad una sudditanza nei confronti dell’architettura dipinta che, prima o poi, doveva finire. Il tonalismo veneto è una nuova possibilità, insieme al movimento dei corpi o allo sfumato leonardesco, di suggerire la profondità spaziale nell’immagine pittorica, senza far ricorso alla prospettiva lineare.

Ma il tonalismo dei pittori veneti ha anche altre valenze stilistiche: riesce a dare un carattere all’atmosfera dei quadri facendone un ulteriore elemento di suggestione. I cieli non sono più degli sfondi neutri, ma danno sensazioni atmosferiche di grande suggestione, come nel caso della Tempesta di Giorgione, dove uno degli elementi di maggior fascino del quadro è proprio la sensazione atmosferica che si coglie nel cielo e nell’aria che circola nella scena.

Il tonalismo veneto, inoltre, portò ad una prima teoria dei contrasti tonali tra i colori complementari. In pratica, accostando opportunamente i colori tra loro, si ottiene una vivacità cromatica più intensa dei colori stessi. Se si accosta un verde ad un rosso, i due colori sembreranno più brillanti, esaltandosi a vicenda. Viceversa, se si accosta un verde ad un viola i colori visivamente si stemperano uno nell’altro dando una sensazione di opacità. Queste tecniche furono direttamente sperimentate nei quadri, prima ancora che essere teorizzate, e furono alla base del notevole fascino esercitato dalla pittura veneta: una pittura fatta di luce e di colore, ma soprattutto di intensità visiva.

IL MANIERISMO

Definizione

Nella seconda metà del Cinquecento, il Rinascimento vide una generale diffusione in tutta Europa. La scoperta della prospettiva, unita alle altre scoperte sulla luce e sul colore, aveva fornito un vocabolario completo di soluzioni formali, che per la sua validità tecnica ebbe il senso di una conquista universale, non legata a fattori di gusto o di stile.

Intanto, alla metà del Cinquecento, in Italia il Rinascimento, ormai maturo, conobbe una stagione intensa, caratterizzata da tantissimi ottimi artisti, ma mancante delle personalità geniali della prima metà del secolo, quali Leonardo, Michelangelo o Raffaello. Ciò ha portato a considerare questo periodo, in rapporto al precedente, come un periodo di decadenza.

Per questo motivo, all’arte della metà del Cinquecento è stato dato il nome di «manierismo», dove con il termine «maniera» (“fare arte alla maniera di”) si usava intendere ciò che oggi chiamiamo «stile». In pratica si utilizzava lo stile dei grandi maestri della generazione precedente, senza cercare nuove soluzioni formali. Da qui, poi, il termine «manierismo» ha acquisito una universalità astorica, indicando sempre quel momento della produzione artistica, riscontrabile in tutti i periodi storici, in cui si procedeva senza ulteriori sperimentazioni, ma applicando i principi artistici già di provata efficacia e successo. In seguito, dall’Ottocento in poi, il termine «manierismo» è stato generalmente sostituito da quello di «accademismo», indicando in sostanza il medesimo atteggiamento.

Il giudizio sostanzialmente negativo dato a questo periodo, è stato in seguito riveduto, ed oggi l’arte di questa epoca viene valutata non in rapporto ai periodi precedenti, ma come fenomeno culturale a se stante.

In realtà l’arte di questo periodo è stata molto eterogenea e appare quasi improprio dare una stessa etichetta ad artisti molto diversi tra loro, sia per stile sia per poetica. Unica cosa sembra accomunare gli artisti di questo periodo ed è l’idea che l’arte è decorazione e spettacolo, non ricerca di verità o strumento di comunicazione di valori etici o morali. L’immagine sembra prevalere sulla realtà delle cose, portando gli artisti a cercare più la suggestione che non la verità nella rappresentazione. Questo atteggiamento è stato, in genere, interpretato in chiave di inquietudine e di tensione anticlassica. In molti casi è, invece, semplicemente esplicazione di un virtuosismo dato dalla generale maggiore padronanza tecnica delle nuove generazioni di artisti.

Le diverse anime del manierismo

Le prime manifestazioni di un nuovo stile, che possiamo definire manieristico, si hanno ancora a Firenze, grazie soprattutto a due originali artisti: Rosso Fiorentino e il Pontormo. Entrambi allievi di Andrea del Sarto, hanno una conoscenza diretta della pittura e dello stile dei grandi maestri quali Leonardo e Michelangelo, dal quale si cominciano ad allontanare già nel secondo decennio del Cinquecento. Simile allo stile dei due fiorentini è quello di un altro originale artista toscano: il senese Domenico Beccafumi.

Un altro grande filone della pittura manierista è stato quello dei collaboratori di Raffaello: Perin del Vaga, Giulio Romano, Polidoro da Caravaggio. Tra la morte di Raffaello, nel 1520, e il sacco di Roma, nel 1527, questi artisti contribuirono a creare il manierismo nel città eterna. Dopo il 1527, Giulio Romano si trasferì a Mantova, presso la corte dei Gonzaga, diffondendo il suo stile nell’Italia settentrionale che, in questo periodo, vive una straordinaria fioritura artistica.

I contatti tra gli artisti si intensificano, e gli artisti stessi si muovono più di frequente per operare in città diverse. È il caso di Giorgio Vasari, noto soprattutto per la stesura delle “Vite”, ma che fu anche pittore molto attivo, di Lorenzo Lotto e di Sebastiano del Piombo, entrambi provenienti da Venezia e che contribuirono a diffondere l’arte veneta nel resto dell’Italia.

Uno dei più singolari artisti del manierismo, fu Francesco Mazzola, detto il Parmigianino. Nella sua pittura si ritrova una cifra stilistica molto originale ma che incarna uno degli aspetti propri del manierismo: una sensualità raffinata e un po’ decadente.

Legati al manierismo, di cui forniscono una componente ulteriore, sono anche i pittori veneziani posteriori a Tiziano, quali il Tintoretto e Paolo Veronese. In loro si manifesta l’estetismo festoso di composizioni grandiose e complesse, in cui gli effetti speciali di luci, ombre e prospettive, sorprendono per la spettacolarità dell’insieme.

La diffusione del manierismo non è solo italiana: in un periodo in cui gli artisti italiani operano in tutta Europa, dalla Russia alla Spagna, anche il manierismo si espande in altri luoghi europei. Il caso più importante fu quello della decorazione del Castello di Fontainebleau, dove Francesco I di Francia raccolse alcuni dei maggiori artisti italiani, quali Rosso Fiorentino, il Primaticcio, Niccolò dell’Abate, Benvenuto Cellini. Qui nacque uno stile che, con il nome di “Scuola di Fontainebleau”, si diffuse in tutta la Francia ed anche oltre, conservando una sua vitalità fino agli inizi del Seicento.

TIZIANO VECELLIO

Tiziano Vecellio, (Pieve di Cadore 1488/1490 - Venezia 1576) è stato sicuramente il maggior pittore veneziano del Cinquecento producendo, in quasi settant’anni di attività, una tale quantità di opere che non ha paragoni in altri maestri del rinascimento italiano. La sua parabola è stata unica e straordinaria. Partendo dalla ricerca tonale di Giovanni Bellini e Giorgione, attraversa tutti i registri espressivi, per giungere nella tarda maturità ad una pittura così libera da ogni preoccupazione stilistica che è forse quanto di più moderno abbia prodotto l’intera arte del Cinquecento. È stato un percorso di semplificazione che solo i grandi maestri hanno saputo compiere: partendo da una stesura formalmente impeccabile, sono giunti ad un segno scarno e semplificato, ma così carico di valenze emozionali e poetiche, capace solo a chi ormai possiede il segreto di smuovere l’animo umano con un semplice gesto della mano che posa una pennellata sulla tela.

La sua attività iniziò dalla collaborazione con Giorgione, nella realizzazione degli affreschi del Fondaco dei Tedeschi. Siamo al 1508 e il giovane Tiziano, appena ventenne, eredita la lezione giorgionesca, diventandone l’indiscusso erede artistico alla sua morte, avvenuta due anni dopo. Tra le sue prime opere va probabilmente annoverata il Concerto campestre, che la critica, soprattutto anglosassone, ha sempre attribuito a Giorgione. Di certo appare evidente che il quadro ha un soggetto giorgionesco, anche se l’esecuzione, data la prematura scomparsa del maestro, possa attribuirsi alla mano di Tiziano.

Da questo momento in poi, e fino alla sua morte, l’elenco delle opere, e dei capolavori, realizzati da Tiziano si allunga a dismisura. Molte sono le opere di soggetto allegorico, sulla scia del Concerto campestre, quali l’Amor sacro e Amor profano, Le tre età della vita, La venere di Urbino; tantissime le opere di soggetto religioso, tra cui spicca l’Assunzione realizzata per la chiesa dei Frari a Venezia, autentico punto di riferimento per tutta la pittura devozionale per diversi secoli a seguire.

Ma uno dei settori nel quale Tiziano fu più spesso chiamato a cimentarsi fu quello dei ritratti. Tra i suoi committenti ci furono i più importanti personaggi del tempo, quale papa Paolo III, al secolo Alessandro Farnese, o l’imperatore Carlo V, ai quali dedicò più ritratti. Ad essi si affiancano tanti altri personaggi famosissimi, quali Francesco I di Francia, Isabella d’Este, Eleonora Gonzaga, Pietro Aretino, Francesco Maria della Rovere, Alfonso d’Avalos, ma anche tanti altri personaggi di cui ignoriamo l’identità.

Viaggiò molto tra Roma e la corte imperiale ad Augusta, nonché nel resto dell’Italia centro-settentrionale, ma la sua attività si svolse prevalentemente a Venezia, anche se le sue opere sono oggi conservate in tutti i maggiori musei del mondo.

Tiziano Vecellio, Le tre età della vita, 1512, Edimburgo, National Gallery of Scotland

Il quadro “Le tre età della vita” è un soggetto molto utilizzato in arte quale metafora della parabola della vita umana: una fase di crescita, una seconda di maturità ed una terza di decadenza. In questo caso le tre età della vita sono raffigurate dal gruppo di puttini sulla destra, dai due giovani sulla sinistra e dalla donna anziana sullo sfondo, che ha in mano due teschi. L’atmosfera bucolica e la sensazione di silenzio sospeso che l’immagine trasmette, rendono quest’opera una riflessione, quieta e priva di tragicità, sul senso della vita.

TINTORETTO

Iacopo Robusti, detto il Tintoretto, (Venezia 1518-1594), dopo Tiziano è stato sicuramente il pittore veneziano più importante del Cinquecento. La sua attività artistica, tutta svolta nella città lagunare, ha riempito Venezia di straordinari capolavori, la cui caratteristica maggiore è stata di essere altamente scenografici e spettacolari, anche grazie alle dimensione sempre monumentale delle sue opere. Queste enormi tele andarono a decorare alcuni dei principali e più rappresentativi edifici di Venezia, quali il Palazzo Ducale, la scuola e la chiesa di San Rocco, la chiesa di San Giorgio Maggiore.

Mentre Tiziano rendeva la sua pittura sempre più rarefatta e intimistica, Tintoretto si muoveva invece sulla ricerca degli effetti molto più spettacolari, combinando insieme architetture in prospettive decentrate, scorci molto arditi, affollamento di figure, tensione drammatica nei gesti, nonché effetti di luce e di ombre molto suggestivi. Si può dire che Tintoretto conosceva tutti i trucchi del mestiere per rendere le sue immagini accattivanti. Il senso scenografico delle sue opere preannuncia già ampiamente lo stile barocco che di lì a qualche decennio si diffonderà nell’intera Europa.

Tintoretto, Ultima cena, 1594, Venezia, Chiesa di San Giorgio Maggiore

Di tante Ultime Cene prodotte nel corso della storia dell’arte, questa colpisce per l’ambientazione particolare e per i suggestivi effetti di luce. In questa, che è una delle ultime opere realizzate dall’artista, Tintoretto sperimenta una prospettiva molto ardita dello spazio interno in cui è collocata la scena. Invece di rappresentare il tavolo in posizione frontale, lo colloca di lato in posizione di scorcio. In tal modo apre lo sguardo dello spettatore sul resto della stanza, in cui vediamo servi e locandieri affaccendati in attività varie, come doveva di solito avvenire in una taverna veneziana di quegli anni. L’attualizzazione temporale finisce per coinvolgere lo spettatore in una scena che gli risulta sicuramente più familiare, e quindi più coinvolgente.

L’ambiente è dominato dall’oscurità, che viene parzialmente rischiarata dalla luce che proviene dalla lampada posta in alto a sinistra. Questa luce, così direzionata, crea effetti molto realistici, dando alla maggior parte delle figure una illuminazione in controluce. Solo Gesù è più chiaramente rischiarato dalla luce dell’aureola che ha intorno al capo. Ma ciò che risulta ancora più suggestivo è il fumo che proviene dalla lampada e che dà forma ad una serie di angeli che osservano la scena dall’alto. Questa insolita soluzione crea una sensazione inedita, quella cioè di una stanza chiusa ma animata da presenze invisibili, presenze che si nascondono nella penombra e nel fumo che si spande nell’ambiente.

ARTE BAROCCA

Definizione del termine «barocco»

Il termine «barocco» ha una genesi incerta: secondo alcuni autori esso deriva dal termine francese «baroque» (in spagnolo «barrueco» e in portoghese «barrôco») che nel Seicento indicava una perla di forma irregolare. In arte con la parola «barocco» si indica uno stile artistico che storicamente coincide con l’arte prodotta dagli inizi del Seicento alla metà del Settecento. Il termine in realtà verrà utilizzato solo dopo la fine di questo periodo, dagli scrittori di età neoclassica, con chiaro intento dispregiativo, per evidenziare i caratteri di irregolarità di questo stile.

In realtà il termine barocco, oltre ad individuare uno stile attuato in un periodo storico preciso, sembra contenere in sé una precisa categoria estetica universale che supera l’applicazione stilistica attuata nel Seicento e Settecento. Esso indica tutto ciò che è fuori misura, eccentrico, eccessivo, fantasioso, bizzarro, ampolloso, magniloquente, ma soprattutto che tende a privilegiare l’aspetto esteriore ai contenuti interiori.

Inteso in questo senso, il barocco è quasi una categoria universale dello spirito umano, e non a caso il termine viene spesso usato anche al di fuori del contesto storico al quale si riferisce. Ricorrendo ad una teorizzazione dello storico austriaco Riegl, ogni periodo storico, o fase culturale, si svolge secondo una parabola suddivisa da tre fasi principali: una iniziale di sperimentazione, una intermedia che potremmo definire classica, una finale di decadenza. Se applichiamo questo schema all’arte italiana tra Quattrocento e Seicento, abbiamo che la prima fase corrisponde al momento iniziale del Rinascimento, quando innovatori e sperimentatori da Brunelleschi a Botticelli arrivano a definire i canoni di una nuova sensibilità estetica nonché di un nuovo stile. La seconda fase corrisponde all’attività dei grandi maestri a cavallo di Quattrocento e Cinquecento quali Leonardo, Raffaello e Michelangelo. Con essi il nuovo stile raggiunge la maturità e la perfezione: si raggiunge in pratica la fase «classica» dello stile rinascimentale, cioè di una perfezione assoluta che non sarà più messa in discussione da mode o oscillazioni di gusto. Infine la terza fase, quella di decadenza, coincide con il Manierismo ma soprattutto con il Barocco. «Barocco», quindi, diviene per antonomasia qualsiasi fase di decadenza di uno stile artistico il quale, dopo aver raggiunto la maturità, si deforma in applicazioni virtuosistiche ma fatue e stucchevoli e non di rado ripetitive.

Il giudizio critico nei confronti del barocco ha subito molte oscillazioni. Una rivalutazione in senso positivo è stata tentata solo alla fine dell’Ottocento dallo storico austriaco Wolfflin, ma in realtà un certo giudizio di negatività non è mai

venuto meno nei confronti di questo stile, soprattutto perché la nostra cultura occidentale moderna, figlia dell’Illuminismo, nasce proprio dal rifiuto del barocco, ossia della cultura seicentesca in genere.

Un punto vale però la pena rimarcare, prima di continuare il discorso. Le caratteristiche stilistiche che noi attribuiamo al barocco in realtà si ritrovano essenzialmente solo nell’architettura e nelle arti applicate di quel periodo. Le arti figurative del Seicento e Settecento hanno dinamiche ed esiti stilistici che raggrupparle genericamente nella definizione di «barocco» appare improprio. Così come è avvenuto per il romanico e il gotico, e come avverrà in seguito per il liberty e il post-modern, il termine, nato per definire uno stile architettonico, è stato utilizzato in maniera impropria, dal punto di vista stilistico, per individuare tutta l’arte del periodo al quale ci si riferisce. Così come non possiamo definire gotica la pittura di Giotto, solo perché ha operato tra XIII e XIV secolo, così non possiamo definire barocca la pittura di Caravaggio o di Rembrandt, solo perché la loro attività si è svolta nel XVII secolo.

Decorazione ed illusione

Uno dei parametri che meglio definiscono la posizione estetica del barocco è dato dal concetto di «immagine», quale apparenza illusoria di qualcosa che nella realtà può anche essere diverso. In pratica è proprio nell’età barocca che si apre una separazione tra l’essere e l’apparire dove il secondo termine prende una sua indipendenza dal primo al punto che non sempre, o quasi mai, ciò che si vede è ciò che è.

Ciò che viene a modificarsi è il rapporto fondamentale tra rappresentazione e conoscenza. Durante l’età umanistica, la conoscenza attraverso i sensi aveva un valore positivo: cercando di capire ciò che si osservava si acquisiva una nuova comprensione del reale. Era un notevole progresso rispetto ad una conoscenza che in età medievale era ammessa solo come interpretazione simbolica delle sacre scritture. E in età umanistica artista e scienziato (anche se per quell’età è improprio usare questo secondo termine) potevano ancora essere la stessa persona. Nel Seicento ciò non è più possibile. La nascita delle scienze sperimentali e i progressi delle discipline matematiche hanno portato la conoscenza in ambiti diversi da quelli esperibili attraverso i sensi. Anzi, la conoscenza attraverso i sensi viene messa decisamente in crisi, se pensiamo a quanto questi possono essere fallaci come nel caso della sfericità della terra o del suo movimento rotatorio e di rivoluzione intorno al sole. In pratica non sono più i sensi, ma l’intelletto, la chiave di volta per accedere alla conoscenza del vero.

In questa inaspettata ma inevitabile evoluzione, l’arte finisce per restare confinata al rango di attività che controlla solo le apparenze, senza doversi più preoccupare del vero: diviene un’attività finalizzata unicamente al decoro. Ciò finisce per essere in linea anche con l’aspettativa del tempo, dove il problema del decoro, inteso come

rappresentazione di sé nel contesto della società, diviene punto nodale della vita sociale del tempo. Ovvero, mai come in questo tempo, apparire assume un valore di fondamentale importanza e universalmente accettato.

Ma perché apparire ed essere non possono, o non riescono, a coincidere nel XVII secolo? Uno dei motivi è sicuramente rintracciabile nella evoluzione del rapporto chiesa-società a seguito della Controriforma e della imposizione di una ortodossia religiosa attraverso l’uso dei tribunali dell’Inquisizione. È sicuramente vero che nel XVII secolo vengono gettate le basi del moderno pensiero scientifico, ma è altrettanto vero che i conflitti con il pensiero religioso furono altamente drammatici, come nel caso di Galileo Galilei. Il Seicento non fu certo un secolo in cui era facile vivere, e «salvare le apparenze» poteva risultare molto vitale per la propria sopravvivenza, anche a costo della verità.

Ma di certo un altro motivo di questa aumentata importanza dell’apparire va rintracciato nell’aumento della ricchezza che investì l’Europa dopo lo sfruttamento delle colonie da parte delle nazioni più attive nelle conquiste militari, come la Spagna o l’Inghilterra o più attrezzate nei commerci marittimi e internazionali come i Paesi Bassi e il Portogallo. L’aumento di benessere ebbe come conseguenza un divario maggiore tra classi ricche (aristocratici, ecclesiastici, borghesi, militari e mercanti) e classi povere (contadini, artigiani e proletari in genere), e siccome l’arte rimase ad ovvio ed esclusivo servizio dei primi, non poteva che esaltare la loro condizione di decoro quale segno di potere ed importanza.

Se si entra in una siffatta mentalità è ovvio che la possibilità di controllare l’immagine, fino al limite dell’illusione, è un’attività molto apprezzata, ma di dubbie qualità etiche. Da qui uno dei capisaldi dell’arte barocca e della sua critica posteriore: non si è mai certi se ciò che si vede è vero o è solo un’illusione creata ad arte.

Lo stile barocco

Definire lo stile barocco non è molto difficile. Uno dei primi parametri è sicuramente l’uso privilegiato che si fece della linea curva. Nulla procede per linee rette ma tutto deve prendere andamenti sinuosi: persino le gambe di una sedia o di un tavolo devono essere curvi, anche se ciò non sempre può essere razionale. Le curve che un artista barocco usa non sono mai semplici, quali un cerchio, ma sono sempre più complesse. Si va dalle ellissi alle spirali, con una preferenza per tutte le curve a costruzione policentrica. Tanto meglio se poi i motivi si ottengono da intrecci di più andamenti curvi.

Un altro parametro stilistico del barocco è sicuramente la complessità. Nulla deve essere semplice, ma deve apparire come il frutto di un virtuosismo spinto agli estremi del possibile. In pratica l’effetto che un’opera barocca deve suscitare è sempre la

meraviglia. Dinanzi ad essa si doveva restare a bocca aperta, chiedendosi come fosse possibile realizzare una cosa del genere..

Un altro parametro del barocco può essere considerato l’horror vacui. Con tale termine si indica quell’atteggiamento di non lasciare alcun vuoto nella realizzazione di un’opera. In un quadro, ad esempio, ogni centimetro della superficie veniva sfruttato per inserire quante più figure possibili. In una superficie architettonica non vi era neppure un angoletto piccolo e nascosto che non veniva stuccato con qualche cornice dorata o con qualche inserto di finto marmo. Ciò produce la sensazione che un’opera barocca abbia una «densità» eccessiva: una pietanza con troppi ingredienti.

Altro elemento tipico del barocco è ovviamente l’effetto illusionistico. Ciò è intimamente legato all’atteggiamento di considerare l’arte soprattutto come decorazione. Per cui i finti marmi o le dorature erano utilizzate in sovrabbondanza, per creare l’illusione di preziosità non reali ma solo apparenti. Ma l’effetto illusionistico è utilizzato anche in pittura e in scultura. Nel primo caso la grande padronanza tecnica della prospettiva consentiva di creare effetti illusionistici di grande spettacolarità, come avveniva spesso nelle grandi decorazioni ad affresco. In scultura la padronanza tecnica al limite del virtuosismo più esasperato, consentiva di imitare nel duro marmo aspetti di materiali più morbidi con effetti illusionistici straordinari.

Un ultimo parametro dello stile barocco è infine l’effetto scenografico. Le opere barocche, in particolare quelle architettoniche e monumentali in genere, costituiscono sempre dei complessi molto estesi che segnano con la loro presenza tutto lo spazio disponibile. In tal modo il barocco è la quinta teatrale per eccellenza che faceva da cornice alla vita del tempo, anch’essa regolata da aspetti e cerimoniali improntati a grande decoro.

L’architettura barocca

Nel corso del Seicento l’architettura svolgerà sempre più un ruolo trainante per definire i nuovi parametri stilistici del barocco. In realtà, come abbiamo già detto sopra, il barocco è uno stile che trova la sua maggior definizione proprio in ambito architettonico, al punto che appare congruo parlare di architettura barocca, meno congruo parlare di uno pittura o di una scultura barocche.

Anche in architettura il parametro stilistico fondamentale fu il decorativismo eccessivo e ridondante, intendendo con il termine «decorazione» un qualcosa che è aggiunto per abbellire. Questo abbellimento era quindi un qualcosa di applicato, di sovrapposto, che non nasceva dalla sostanza delle cose. Per cui si venne a creare anche in architettura uno iato tra essenza ed apparenza.

Negli edifici barocchi, la struttura e l’aspetto dell’edificio erano considerati come momenti separati. Il primo, la struttura, seguiva logiche sue proprie, il secondo,

l’aspetto, veniva affidato alle decorazioni aggiunte con marmi e stucchi. Queste decorazioni erano quasi una pelle dell’edificio, che poteva anche essere tolta, senza che la costruzione perdeva la sua staticità o la sua funzionalità, ma che sicuramente perdeva la sua bellezza.

Quindi, la differenza tra rinascimento e barocco, in architettura, si basava su questa diversa concezione dell’edificio. L’architetto rinascimentale cercava la bellezza nella giusta proporzionalità delle parti dell’edificio, che quindi risultava gradevole all’occhio per il senso di armonia che suscitava. E abbiamo visto che, per far ciò, l’architetto rinascimentale, usava, come strumento progettuale, gli ordini architettonici, affidando ad essi anche la decorazione dell’edificio. L’architetto barocco, invece, non cercava un senso di pacato e sereno godimento estetico, ma cercava di stupire, di suscitare una reazione forte di meraviglia. E per far ciò ricorreva alla decorazione eccessiva e fantasiosa, che creasse così un effetto di ricchezza e preziosità.

Tutto questo decorativismo finì per creare, in realtà, un effetto scenografico. Le facciate degli edifici divenivano le quinte di uno spazio scenico, che erano le vie e le piazze cittadine. Il barocco ebbe, infatti, una diversa concezione degli spazi urbani e dell’urbanistica. Anche qui furono bandite le regolari geometrie preferite dagli architetti rinascimentali, che disegnavano città dalle forme perfette. Ma soprattutto cambiò l’atteggiamento della tecnica di intervento urbano.

L’edificio rinascimentale aveva un principio di regolarità geometrica che doveva imporsi sugli spazi circostanti, che dovevano loro adattarsi all’edificio, e non viceversa. In realtà, quanto fosse pretestuosa e difficilmente perseguibile una simile ottica, apparve alla fine evidente. E gli architetti barocchi, piuttosto che modificare gli spazi urbani in funzione dell’edificio che andavano a progettare, preferirono adattare quest’ultimo al contesto, inserendolo senza forzature eccessive. Le città, in cui si trovarono ad operare sia gli architetti rinascimentali sia barocchi, si erano in larga parte formate e modificate nel medioevo, secondo visioni quindi tutt’altro che geometriche. Le città, tranne parti ben limitate, avevano per lo più forme irregolari. L’architetto barocco, senza nessuna pretesa di regolarizzare l’irregolare, sfruttò anzi tale complessità morfologica per ottenere spazi urbani più mossi e ricchi di scorci suggestivi.

Alla fine, l’architetto barocco, dato che aveva concettualmente separato la struttura dalla decorazione, finì per modificare l’aspetto delle città, se non la struttura, molto di più di quanto avessero fatto gli architetti precedenti. Infatti in questo periodo, si provvide ad un sostanziale «rinnovo» urbano, che interessò facciate di palazzi, o interni di chiese, che assunsero un aspetto decisamente barocco.

La nuova architettura, abbiamo detto, instaurava un rapporto nuovo tra edifici e spazi urbani. Gli ambiti cittadini erano considerati alla stregua di spazi teatrali, e i prospetti degli edifici fungevano da quinte scenografiche. Ma gli spazi urbani non si compongono solo di edifici. In essi vi sono fontane, scalinate, monumenti ed altro, che arricchiscono questi spazi di altre presenze significative. Ed il barocco dedicò notevole attenzione a questi elementi di «arredo urbano». A Roma, notevoli esempi sono la Fontana di Trevi e la scalinata di Trinità dei Monti, per citare solo due tra gli esempi più noti.

Un dato stilistico fondamentale del barocco fu la linea curva. In questo periodo, infatti, nulla era concepito e realizzato secondo linee rette, ma sempre secondo linee sinuose. Il rinascimento aveva idealmente adottato come propria cifra stilistica il cerchio, che appariva la figura geometrica più perfetta ed armoniosa. Altre linee curve erano considerate irrazionali o bizzarre. Il barocco, invece, preferiva curvature più complesse, quali ellissi, parabole, iperboli, spirali e così via. E queste curve non erano mai esibite in modo esplicito, ma erano ulteriormente complicate da intersezioni o sovrapposizioni, così che risultassero quasi indecifrabili.

La concezione della curva ci permette di distinguere due momenti nella vicenda del barocco: una prima fase, in cui si cercava di movimentare secondo linee curve anche la struttura e la spazialità degli edifici; una seconda fase, in cui gli edifici divennero più regolari, e adottarono linee curve solo nella decorazione.

La prima fase è senz’altro quella più interessante ed innovativa. Essa prese avvio a Roma, agli inizi del Seicento, grazie ad alcuni architetti di notevole livello artistico: Francesco Borromini, Gian Lorenzo Bernini e Pietro da Cortona.

Benché i loro edifici furono il frutto di una evoluzione continua, che trovava le premesse nell’ultima architettura rinascimentale romana, tuttavia furono concepiti con una idea rivoluzionaria: quella di rendere curve le piante degli edifici. Soprattutto il Borromini, in alcune chiese come S. Carlo alle Quattro Fontane o Sant’Ivo alla Sapienza, ruppe decisamente con le tipologie fino allora adottate, inventandosi delle chiese, ad aula unica, dalla morfologia e dalla spazialità assolutamente originali. Il Bernini, nel disegnare il colonnato di San Pietro, adottò un’ellissi, e raccordò il colonnato alla facciata con due linee non parallele ma convergenti: una chiara dimostrazione del nuovo gusto barocco. Pietro da Cortona, nella chiesa di S. Maria della Pace, curvò a tal punto gli elementi del prospetto, da creare un inedito rapporto tra edificio e spazio urbano. La curvatura dei prospetti divenne uno dei motivi più felici dell’architettura barocca a Roma, trovando applicazioni notevoli per tutto il Seicento e il Settecento.

Come era già successo precedentemente, con altri ordini religiosi o monastici, il barocco divenne lo stile architettonico dei gesuiti, che esportarono questo stile anche nelle loro missioni estere. Ma divenne anche lo stile della controriforma cattolica. Il Concilio di Trento affrontò, oltre a varie questioni dottrinarie, anche aspetti della liturgia, che ebbero notevoli riflessi sull’architettura religiosa. Nel riadattare le chiese a queste nuove liturgie post-tridentine, molti edifici di costruzione medievale furono «rinnovati», mediante abbellimenti con stucchi, marmi e decorazioni varie, che fecero assumere a queste l’aspetto di chiese barocche.

In campo europeo l’architettura barocca ebbe notevole diffusione, soprattutto nei paesi latini. Il Portogallo e la Spagna ebbero un’adesione immediata a questo stile, esportandolo anche nelle loro colonie dell’America Latina. Dal Messico all’Argentina, dalla Bolivia al Cile, il barocco divenne lo stile dei nuovi conquistatori. L’Europa centro-settentrionale si convertì al barocco soprattutto alla fine del XVII secolo, e dalla Francia all’Austria, trovò applicazioni quanto mai fantasiose e ricche. Divenne lo stile del Re Sole, e degli Asburgo, oltre che dei Borbone, creando quel mondo di eleganza e di sfarzosità nelle corti europee del XVIII secolo.

Le arti figurative

Lo stile barocco è stato uno stile prettamente architettonico, e in un certo qual senso anche le arti figurative sono più barocche quanto più sono in rapporto con l’architettura o con l’urbanistica. È quanto avviene soprattutto con le arti applicate (arredamenti e complementi di arredo in primis) che con l’architettura hanno un rapporto più diretto. Ma anche pittura e scultura, quando collaborano a creare uno spazio illusionistico e scenografico, acquistano il loro carattere più barocco. In effetti è soprattutto nei grandi affreschi che si ritrova la pittura barocca, mentre la scultura barocca è in particolare quella dei grandi monumenti urbani.

Nel corso del Seicento e del Settecento la costruzione di chiese e palazzi nobiliari aumenta vistosamente rispetto al passato. E fu soprattutto per questi contesti che avvenne la maggior produzione pittorica, sia ad affresco sia su tela. In particolare lì dove la pittura barocca assume caratteri più originali è nella decorazione delle volte. Il motivo è presto detto: sotto le volte si poteva creare effetti illusionistici di maggiore spettacolarità. Il prototipo di queste volte è quella realizzata nel 1639 da Pietro da Cortona per il salone di Palazzo Barberini a Roma, ma la più nota di queste composizioni è la volta nella Chiesa di Sant’Ignazio realizzata da Andrea Pozzo nel 1694.

Il modello è quello del Soffitto degli Sposi del Mantegna, cioè del «trompe-l’oil», ma portato a livelli di complessità molto più arditi e spettacolari. Possiamo considerare che due sono i modelli per decorare una volta. Quello assunto da Michelangelo per la volta della Sistina, o da Annibale Carracci per la Galleria di Palazzo Farnese, è di

realizzare le immagini come quadri tradizionali solo che vengono disposti non in verticale ma in orizzontale con la superficie in giù. Il modello assunto invece dai pittori barocchi è di concepire le immagini come viste dal basso verso l’alto, così da creare l’effetto illusionistico che il soffitto non c’è, e al suo posto vi è lo spazio virtuale creato dall’affresco. In questo secondo modello vengono molto accentuati gli effetti di scorcio e la costruzione prospettica dello spazio.

Uno dei motivi che più distingue i pittori rinascimentali da quelli barocchi è proprio l’uso della prospettiva. Nei primi la prospettiva era una tecnica che rendeva chiaro e razionale lo spazio rappresentato, nei secondi invece la prospettiva è usata per ingannare l’occhio e far vedere spazi che non esistono, in maniera illusionistica. Inutile dire che per usarla in questo secondo modo, bisognava conoscere la prospettiva in maniera perfetta ed essere dei virtuosisti nel suo uso. E tuttavia tutta questa «arte», o tecnica, era usata non per la verità ma per rendere apparentemente vero il falso. Questo è uno dei motivi di fondo che più ci danno l’idea della distanza che passa tra estetica rinascimentale e estetica barocca.

La pittura del Seicento, tuttavia non è solo quella barocca. In particolare nel corso del secolo possiamo distinguere altre due correnti fondamentali, oltre quella barocca: il realismo, di derivazione caravaggesca, e il classicismo, di derivazione carraccesca. Nella prima corrente rientrano, in particolare, le maggiori esperienze europee del XVII secolo: quelle che si sviluppano in Olanda e in Spagna e nel regno di Napoli. Grandi interpreti di questa tendenza furono Rembrandt, Vermeer, Velazquez, solo per citare i maggiori. Nella corrente del classicismo ritroviamo innanzitutto i pittori bolognesi diretti allievi dei Carracci quali il Guido Reni e il Domenichino, ma anche pittori francesi, ma attivi a Roma, quali Nicolas Poussin o Claude Lorrain. In sintesi l’arte del Seicento, molto più variegata di quel che sembra, si divide nella ricerca del vero (realismo), dell’idea (classicismo) o dell’artificio (barocco).

La scultura, non meno della pittura, si divide in queste tre correnti fondamentali. Ma di certo la scultura di stile barocco, proprio per la sua maggior capacità di legarsi agli spazi architettonici e urbanistici, risulta quella che più segna l’immagine del secolo. Grandi monumenti, effetti teatrali e scenografici, virtuosismo e decoratività sono gli ingredienti che nascono soprattutto dal genio di Gian Lorenzo Bernini, che si può senz’altro considerare l’esponente più importante della scultura barocca.

Pietro da Cortona, Trionfo della Divina Provvidenza, 1633-39, Salone di Palazzo Barberini, Roma

Pietro Berrettini, detto da Cortona (1596-1669), nella sua attività di pittore ed architetto è stato uno dei grandi protagonisti dell’arte barocca a Roma. Tra le sue opere pittoriche più notevoli vi è l’affresco che egli realizzò nel salone di Palazzo Barberini. In questo affresco l’artista giunge ad un risultato di tale complessità scenografica, da proporsi quale la più matura e consapevole opera pittorica barocca realizzata a Roma. Su una base di finte membrature architettoniche, inserisce una quantità notevole di figure ed immagini senza rispettare in alcun modo le cornici da lui stesso fissate. Ne scaturisce un risultato che ha dell’incredibile. Lo spettatore non riesce in alcun modo a cogliere l’intera immagine con un solo colpo d’occhio: mentre mette a fuoco un particolare, ha la sensazione che tutto il resto gli crolli addosso. E così si finisce per passare da un punto all’altro con una sensazione di stordimento per l’eccessiva complessità dell’immagine. Anche in questo caso l’arte barocca raggiunge pienamente il suo scopo, che è quello di sbalordire grazie ad un illusionismo ottico che non ci fa più distinguere la realtà dalla finzione.

Andrea Pozzo, Il trionfo di Sant’Ignazio, 1691-94, Chiesa di Sant’Ignazio, Roma

L’illusionismo ottico della volta Barberini di Pietro da Cortona, è sicuramente un modello di riferimento per questa altra celebre volta, realizzata da Andrea Pozzo (1642-1709), gesuita ma attivo come pittore. Nella chiesa romana dedicata a Sant’Ignazio realizzò la sua opera forse più celebre, con un affresco che inscena un trompe-l’oil di altissima fattura. Molto esperto nella tecnica prospettica, alla quale dedicò anche un trattato divenuto celebre per tutto il Settecento, utilizza le sue conoscenze per creare una finta prospettiva di colonne ed archi, così da dare l’illusione di uno spazio virtuale molto più profondo di quello reale. In questo spazio inserisce una notevole quantità di figure, posti ad altezze diverse, ma tutte viste coerentemente di scorcio dal basso verso l’alto. Ne deriva uno spettacolare affresco che colpisce lo spettatore sia per la grande abilità mostrata dal suo ideatore sia per la sensazione illusoria che è certamente di grande spettacolarità.

GIAN LORENZO BERNINI

Figlio di uno scultore tardo manierista di nome Pietro, Gian Lorenzo Bernini (1598-1680) si dedicò precocemente alla scultura, divenendo ben presto uno dei principali protagonisti della vita artistica romana. A Roma, infatti, si svolse tutta la sua vita artistica, quasi sempre al servizio della corte papale. È lui senz’altro l’artista che più contribuì a diffondere in ambiente romano lo stile barocco, stile che divenne la matrice di ogni trasformazione urbana della città eterna per tutto il XVII e XVIII secolo.

Appena ventenne realizzò quattro importanti gruppi scultorei per il cardinale Scipione Borghese: «Enea e Anchise», il «Ratto di Proserpina», «David» e «Apollo e Dafne». Nel 1623, a soli venticinque anni, venne chiamato alla corte pontificia da Urbano VIII, appena eletto papa, che l’anno successivo gli commissionò il baldacchino bronzeo per la basilica di San Pietro. Inizia così la sua attività in San Pietro che si concluse con una delle sue opere più mirabili in campo architettonico: la realizzazione del colonnato ellittico che definisce la piazza antistante la basilica.

La grande abilità tecnica, insieme ad una fervida fantasia, consentì al Bernini di avere una attività produttiva molto vasta, con numerosissime realizzazioni sia in campo architettonico sia in campo scultoreo. Sempre presente fu in lui la ricerca dell’effetto scenografico, avendo cura di fondere scultura e architettura in un’unica spazialità, nella quale anche la luce veniva sapientemente controllata.

Tra le sue più note realizzazioni scultoree vi sono numerosi e penetranti ritratti che egli realizzò per Scipione Borghese, Costanza Buonarelli, Francesco Barberini, re Luigi XIV, papa Paolo V, solo per citarne alcuni. Autore anche di numerosi monumenti funebri, tra i maggiori vanno ricordati quelli di Alessandro VII e Urbano VIII in San Pietro. Di straordinario effetto scenografico sono anche le statue che egli realizzò per alcune cappelle quali quelle dedicate all’estasi di Santa Teresa o alla beata Ludovica Albertoni. Numerose anche le sculture monumentali per spazi urbani, quali la fontana dei Quattro Fiumi a piazza Navona o la fontana del Tritone a piazza Barberini.

In campo architettonico le sue maggiori imprese sono legate, oltre che al colonnato di San Pietro, al Palazzo di Montecitorio e alla Chiesa di Sant’Andrea al Quirinale a Roma, nonché al palazzo del Louvre a Parigi che anch’egli in parte progettò, in occasione del suo soggiorno francese nel 1665.

Bernini, insieme agli architetti Francesco Borromini e Pietro da Cortona (quest’ultimo anche pittore), contribuì a definire la nuova sensibilità barocca in ambiente romano, dando un contributo notevole alla nuova immagine urbana di

Roma, che proprio dal virtuosismo barocco riceve l’aspetto che ancora oggi contrassegna maggiormente il suo centro storico. Ma fu senz’altro il Bernini l’artista per eccellenza che segnò la vita culturale romana, non solo in campo architettonico, per tutto il XVII secolo.

Gian Lorenzo Bernini, Estasi di Santa Teresa, 1647-52, Cappella Cornaro in Santa Maria della

Vittoria, Roma

Nella Cappella Cornaro Bernini realizza una delle sue più straordinarie operazioni artistiche, allestendo un monumento che ha una valenza scenografica ed illusionistica straordinaria. Tema della cappella era l’«estasi di Santa Teresa». La santa spagnola era famosa per le sue particolari esperienze spirituali che attraverso l’estasi

raggiungeva l’unione mistica con Cristo. Bernini non ha difficoltà a rappresentare la santa in un atteggiamento di rapimento dei sensi, che dovevano accompagnarsi all’esperienza dell’estasi. Sospende la figura della santa su un masso a forma di nuvola la cui base, arretrata e più scura, risulta a prima vista invisibile, così che il marmo della nuvola sembra davvero sia sospeso in aria. Ma ciò che dà il maggior effetto scenografico è la luce. Bernini, dietro il gruppo scultoreo, crea una piccola abside emiciclica, che fuoriesce dal perimetro della chiesa. In questo modo riesce ad aprire una finestra in sommità della piccola abside, che rimane invisibile a chi osserva la cappella. Da questa invisibile finestra entra dall’alto un fascio di luce che illumina direttamente il gruppo scultoreo. Per accentuare il valore simbolico della luce, inserisce una serie di raggi dorati, che esaltano la luce che entra dalla finestra nascosta. L’effetto dovette apparire straordinario. Rispetto alla penombra della cappella, l’illuminazione più chiara, ottenuta da una fonte invisibile, crea una sensazione di illusionismo scenografico assolutamente inedito. Una cappella che è quasi un palcoscenico teatrale. E tale fu l’intenzione consapevole di Bernini, che ai lati della cappella inserisce due piccoli palchetti finti dove sono le sculture dei committenti dell’opera, affacciati come a teatro ad ammirare l’estasi della santa. In pratica in questa straordinaria opera, tra le più barocche che si possano immaginare, Bernini riesce con un’invenzione che crea sicuramente meraviglia e stupore, a fondere scultura, luce, architettura e pittura, per creare un’immagine dalla forte spettacolarità.

IL PATRIMONIO CULTURALE

Definire cosa sia il patrimonio culturale non è cosa semplice, ancora oggi non esiste un'unica ed inequivocabile definizione riconosciuta universalmente, piuttosto si tratta di un concetto. Genericamente si può dire che sia l’insieme di beni, materiali ed immateriali, nonché naturali, che per particolare rilievo storico, culturale, artistico e paesaggistico, sono di interesse pubblico e costituiscono la ricchezza di un luogo e della relativa popolazione. Dunque si intende per patrimonio culturale tutto ciò che possa testimoniare la cultura, ovvero l’insieme dei costumi, delle credenze, degli atteggiamenti, dei valori, degli ideali, delle abitudini, di un popolo o società del mondo. Con il sostantivo "patrimonio" si allude inoltre al valore economico attribuito ai beni che lo compongono, proprio in ragione della loro artisticità e storicità. Una definizione puntuale ci è data dall’UNESCO “United Nations Educational Scientific and Cultural Organization” (Organizzazione delle Nazioni Unite per l'Educazione, la Scienza e la Cultura ) ed in particolare dalla Convenzione del 1972 relativa alla tutela del patrimonio culturale e naturale mondiale secondo cui per patrimonio culturale si intende: « I monumenti: opere architettoniche, plastiche o pittoriche monumentali, elementi o strutture di carattere archeologico, iscrizioni, grotte e gruppi di elementi di valore universale eccezionale dall’aspetto storico, artistico o scientifico, gli agglomerati: gruppi di costruzioni isolate o riunite che, per la loro architettura, unità o integrazione nel paesaggio hanno valore universale eccezionale dall’aspetto storico, artistico o scientifico, i siti: opere dell’uomo o opere coniugate dell’uomo e della natura, come anche le zone, compresi i siti archeologici, di valore universale eccezionale dall’aspetto storico ed estetico, etnologico o antropologico». Mentre patrimonio naturale viene considerato: « I monumenti naturali costituiti da formazioni fisiche e biologiche o da gruppi di tali formazioni di valore universale eccezionale dall’aspetto estetico o scientifico, le formazioni geologiche e fisiografiche e le zone strettamente delimitate costituenti l’habitat di specie animali e vegetali minacciate, di valore universale eccezionale dall’aspetto scientifico o conservativo, i siti naturali o le zone naturali strettamente delimitate di valore universale eccezionale dall’aspetto scientifico, conservativo o estetico naturale». Nel 2003 il concetto di bene culturale viene ulteriormente ampliato, attraverso la

compilazione della Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale, che viene definito come: «… le prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il know-how che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale … si manifesta tra l’altro nei seguenti settori: tradizioni ed espressioni orali, ivi compreso il linguaggio, in quanto veicolo del patrimonio culturale immateriale; le arti dello spettacolo; le consuetudini sociali, gli eventi rituali e festivi; le cognizioni e le prassi relative alla natura e all’universo; l’artigianato tradizionale». Costruzione sociale del Patrimonio Culturale Sono state analizzate tempistiche e modalità della costruzione sociale del patrimonio culturale, ovvero come e quando le diverse società umane hanno sviluppato consapevolezza e autocoscienza del proprio patrimonio culturale. Sin dalle epoche più remote l’uomo ha avuto la capacità di produrre oggetti per così dire “realizzati ad arte” che quindi avevano oltre che una funzione pratica una dimensione simbolica, di fatti già i Greci ed i Romani avevano coscienza del valore estetico, culturale e rappresentativo posseduti da determinati manufatti. Sicuramente però, il passo più importante verso una coscienza collettiva del patrimonio culturale è segnato dalla nascita dei Musei, ovvero quelle istituzioni create appositamente con lo scopo di salvaguardare e conservare tutto ciò che di culturalmente rilevante l’essere umano ha prodotto. Come abbiamo detto esisteva già dagli albori della storia dell’uomo un interesse per le “cose d’arte”, ma fino al XV sec. non si ebbero mai dei veri e propri musei, più che altro si trattava di preziose raccolte che avevano il carattere di collezioni private. La svolta che determinò la creazione di queste istituzioni venne proprio dall’Italia dove nel 1471 nacque il primo nucleo dei Musei Capitolini, costituito dalle donazioni che Papa Sisto IV fece “al popolo romano” e che rappresenta il primo museo della storia. Un altro contributo fondamentale venne alcuni secoli dopo dalla Francia, dove verso la fine del XVIII sec., per opera di Napoleone Bonaparte, il museo du Louvre divenne il primo museo Nazionale, rappresentante la forma più avanzata ed evoluta del fenomeno, che da quel momento in poi progredì verso un reale utilizzo pubblico ed un fine prevalentemente divulgativo del bene culturale. Ad oggi la definizione di Museo data dall’ICOM (Internetional Council Of Museum) è di «un istituzione permanente, senza scopo di lucro, al servizio della società e del suo sviluppo, aperta al pubblico, che compie ricerche sulle testimonianze materiali dell’uomo e del suo ambiente, le acquisisce, le conserva, le comunica e soprattutto le espone a fini di studio, di educazione e di diletto».