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TRASFORMAZIONE DEI PRODOTTI V ANNO AGRARIA AGROALIMENTARE E AGROINDUSTRIA - Enologia - Cantina - Aspetti Ambientali Agronomici delle Acque Reflue - Acque Reflue dei Caseifici - Trattamenti Industriali - Microbiologia Industriale - Stabilizzazione degli Alimenti tramite Trattamenti Termici - Sicurezza Alimentare e Tracciabilità - Normativa per il Controllo dell'Inquinamento - Tutela dell'Ambiente

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TRASFORMAZIONE DEI PRODOTTI

V ANNO

AGRARIA AGROALIMENTARE E AGROINDUSTRIA

- Enologia - Cantina - Aspetti Ambientali Agronomici delle Acque Reflue - Acque Reflue dei Caseifici - Trattamenti Industriali - Microbiologia Industriale - Stabilizzazione degli Alimenti tramite Trattamenti Termici - Sicurezza Alimentare e Tracciabilità - Normativa per il Controllo dell'Inquinamento - Tutela dell'Ambiente

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ENOLOGIA

L'enologia (dal greco "oinos" (vino) e "logos" (studio)) è la scienza che studia la trasformazione dell'uva in vino, l'uva atta alla sua produzione, (la microbiologia, la chimica e le caratteristiche sensoriali), ma anche il processo produttivo in sé, quindi le tecniche ad esso connesso (es. filtrazioni, pressatura, rimontaggi).

Generalità

Dovendo tracciare un arco temporale nel quale inquadrare gli oggetti di studio dell'enologia, per l'uva solitamente in enologia si fa riferimento al periodo che va dalla fase erbacea alla maturità tecnologica (ovvero il momento in cui mediante analisi si ritiene che il frutto abbia in sé le concentrazioni necessarie di sostanze utili all'obbiettivo enologico prefissato, es.vino spumante, vino di pronta beva, vino da invecchiamento, vino passito ecc., tale momento coincide con la vendemmia). Per quanto attiene il vino l'enologia se ne occupa dall'ammostatura (o vinificazione delle uve) sino all'imbottigliamento, ma anche oltre in quanto si occupa anche della conservazione del prodotto.

Le caratteristiche di un vino sono determinate essenzialmente da due fattori: il vitigno o i vitigni utilizzati per produrlo, ed il "terroir", vocabolo francese che non ha un corrispondente termine in italiano, e che indica l'insieme delle caratteristiche geologiche, fisiche e climatiche del territorio nel quale cresce la vite. Ogni vitigno possiede caratteristiche aromatiche tali da influenzare significativamente il vino che ne deriva.

Il termine "terroir" comprende il tipo di terreno (calcareo, gessoso, ecc.), il numero di giorni di sole, l'umidità, la temperatura, e le condizioni ambientali in genere; ogni vitigno si adatta più o meno bene ad un "terroir", per cui il prodotto finale sarà influenzato anche da questa scelta.

Perché il vino mantenga le proprie caratteristiche è importante che venga conservato in maniera adatta; in questo senso diventano fondamentali le caratteristiche che deve avere la cantina ideale.

La degustazione infine è l'insieme delle tecniche elaborate per poter gustare al meglio un vino e valutarne in maniera per quanto possibile oggettiva le caratteristiche organolettiche.

Viticoltura

La viticoltura è fondamentale nella produzione del vino; fino a pochi anni fa si riteneva che per ottenere un buon vino si dovesse curare maggiormente il lavoro in

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cantina; da pochi anni a questa parte si è constatato che per ottenere un prodotto qualitativamente elevato occorre dedicarsi con attenzione anche alle attività in vigna (pratiche agronomiche).

I filari di un vigneto

La vite è una pianta che ha un ciclo vegetativo annuale suddiviso in periodi, ognuno dei quali si chiama “fase fenologica”. La pianta della vite ha un ciclo biologico (vita) della durata di circa 40 anni; per i primi tre anni la pianta non è produttiva, il periodo migliore per la produzione va dal quinto al venticinquesimo anno. Non è comunque raro trovare vigne molto vecchie che forniscono ancora un ottimo prodotto. Le zone di coltivazione della vite si trovano quasi esclusivamente fra il 30º ed il 50º grado di latitudine nord e sud, e ad un'altitudine compresa tra il livello del mare ed i 1000 metri circa.

La vite è quindi una pianta che si adatta a climi molto differenti tra loro; tuttavia, all'aumentare della latitudine (e dell'altitudine) si preferisce la coltivazione delle uve a bacca bianca, meno resistenti ai freddi autunnali e quindi vendemmiabili a fine estate, mentre al diminuire della latitudine (e dell'altitudine) si preferisce coltivare uve a bacca rossa e vitigni che possono essere sottoposti alla cosiddetta “vendemmia tardiva”, destinati a produrre vini ad elevata gradazione alcolica.

I fattori fondamentali che permettono di ottenere delle ottime uve da vino, e quindi dei vini di qualità, sono il vitigno (varietà di vite utilizzata), il tipo di terreno (uno stesso vitigno fornisce prodotti più o meno buoni a seconda del tipo di terreno in cui è piantato), il “sesto d'impianto” o densità di distribuzione delle piante (con sesti d'impianto fitti si producono pochi grappoli di uva per pianta ma di migliore qualità), il tempo di esposizione alla luce (almeno 1600 ore/anno), il clima temperato, la zona in cui si trova la vigna (in Italia i pendii collinari sono solitamente le zone di produzione dei vini migliori).

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Fra le attività in vigna sono da considerarsi determinanti ai fini della qualità del prodotto finale le potature, ed il diradamento dei grappoli (come detto, minore è il numero di grappoli per pianta, maggiore sarà la qualità dell'uva).

Ultimi parametri, ma non meno importanti, per la produzione di un vino di qualità, sono la scelta del giusto periodo della raccolta dell'uva (vendemmia), il sistema di raccolta (quello manuale, più selettivo, è preferibile al meccanico), ed il sistema di conferimento, o trasporto, delle uve in cantina (per preservarne l'integrità).

Naturalmente tutti i fattori indicati contribuiscono a determinare il prezzo più o meno elevato del prodotto finale.

Vinificazione

Con il termine "vinificazione" si intende l'insieme delle operazioni necessarie per trasformare l'uva di determinati vitigni in vino; essa consiste sinteticamente nella pigiatura o spremitura dell'uva con conseguente formazione del mosto, nell'eventuale macerazione (fase in cui le vinacce rimangono a contatto, per un periodo di tempo più o meno lungo, con la polpa), nella trasformazione del mosto in vino (fermentazione alcolica, processo chimico in cui l'azione dei lieviti provoca la trasformazione dei glucidi in alcol e anidride carbonica), nella svinatura (separazione del vino dalle vinacce), nell'eventuale diminuzione dell'acidità Fermentazione malolattica, processo chimico in cui il verificarsi di determinate condizioni provoca la trasformazione dell'acido malico in acido lattico, consentendo così di ottenere un vino dal sapore meno acido e più armonico, e nel travaso del vino nei contenitori per l'eventuale affinamento e invecchiamento o direttamente per il consumo.

Esistono vari sistemi di vinificazione: le cosiddette vinificazioni in bianco, in rosato ed in rosso (che permettono di ottenere rispettivamente i vini bianchi, i vini rosati ed i vini rossi) e le vinificazioni che permettono di ottenere i vini spumanti (metodo classico, chiamato anche metodo champenoise, e metodo Charmat chiamato anche metodo Martinotti), i vini passiti, i vini liquorosi ed i vini aromatizzati.

Un tipo particolare di vinificazione, detto macerazione carbonica, è quella che permette di ottenere i vini novelli. Essa consiste in una macerazione in vasche chiuse ermeticamente di uva intera disposta su graticci o cassette forate, sotto saturazione di CO2 aggiunta. L'ambiente saturo di CO2 permette, tramite processi enzimatici, la trasformazione di acido malico in acido lattico prima ancora della fermentazione alcolica. L'acido lattico conferisce caratteristiche di morbidezza rispetto all'acido malico che conferisce sapori più aspri ed acerbi. La CO2 sotto pressione favorisce la transizione degli antociani dalla buccia alla polpa, colorando infine il mosto che ne risulterà (effetto di estrazione). Passato un periodo variabile di tempo (da 15 a 20 giorni circa) terminerà la macerazione con CO2 e sul fondo della vasca si sarà accumulato mosto percolato dagli acini di uva (circa un 5% in peso rispetto all'uva inserita). Il restante mosto (circa 70% in peso) verrà estratto con i convenzionali

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metodi di estrazione (pigiatura e pressatura). Il mosto di percolazione ed il mosto di estrazione meccanica verranno posti nello stesso recipiente (vasca o serbatoio) per procedere alla fermentazione alcolica. Tale macerazione permette di non arricchire il vino in tannini che conferiranno caratteristiche di astringenza ma di estrarre antociani, che daranno al vino un colore rosso rubino.

La produzione di vini novelli interessa una grossa fetta del mercato di vino in bottiglia anche se, alcuni tecnici e degustatori professionisti non sono favorevoli a questo tipo di prodotto in quanto, la macerazione carbonica, non conferisce caratteristiche di pregio ai vini prodotti.

Conservazione

Il luogo destinato alla conservazione del vino è la cantina. Con questo termine si identificano sia i locali dell'azienda produttrice in cui si effettua la vinificazione, la conservazione del vino appena prodotto ed il suo affinamento (élevage), sia il locale privato dove vengono conservate le bottiglie di vino.

La cantina ideale di un'azienda dovrebbe disporre di vari locali separati, ognuno adeguato al tipo di funzione alla quale è destinato:

• ricevimento delle uve

il locale dovrà essere dotato di una bilancia e di dimensioni adeguate alla quantità di uve conferite

• pigiatura

il locale dovrà essere dotato di un adeguato numero di contenitori per contenere l'uva che sarà pigiata, e delle relative macchine

• fermentazione

il locale (chiamato anche tinaia) dovrà essere dotato delle vasche o dei tini di fermentazione, dei macchinari ausiliari (pompe per il travaso del liquido, impianti di estrazione dell'anidride carbonica, termogeneratori), e soprattutto dovrà essere facilmente pulibile

• elaborazione e conservazione

il locale dovrà essere dotato di adeguati contenitori per il completamento della fermentazione del vino, e di caratteristiche tali da consentire l'eventuale fermentazione malolattica

• conservazione e l'invecchiamento

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il locale (o più propriamente la cantina) dovrà avere adeguate caratteristiche di temperatura, umidità, luminosità e ventilazione al fine di non causare danni al vino in affinamento o in giacenza

La cantina privata ideale deve avere caratteristiche analoghe alla cantina ideale di un'azienda; ovviamente sarà di dimensioni adeguate all'esigenza dell'utilizzatore (privato o commerciale).

Degustazione

La degustazione è il procedimento tecnico finalizzato a determinare in maniera per quanto possibile oggettiva le caratteristiche di un vino.

Affinché la degustazione possa fornire risultati oggettivi, è necessario stabilire delle regole generali valide per tutti coloro che eseguono una degustazione.

Esistono diverse metodologie di degustazione, elaborate dalle varie organizzazioni che si occupano di vino, ma tutte sostanzialmente prevedono tre distinte fasi di analisi sensoriale:

• analisi visiva • analisi olfattiva • analisi gustativa

Dopo aver completato le tre fasi dell'analisi sensoriale, si arriva ad una fase conclusiva, rivolta a descrivere le sensazioni generali derivate dall'insieme dei parametri considerati.

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CANTINA

Il termine cantina (che per gli antichi romani era detta apoteca e che Alessandro Manzoni nei Promessi Sposi chiamerà stanza terrena) identifica sia i locali delle aziende produttrici destinati alla vinificazione, conservazione ed affinamento dei vini ed in generale delle bevande alcoliche prodotti, sia il locale che un privato o il titolare di ristorante o di enoteca destina alla corretta conservazione delle bottiglie prima del consumo o della vendita.

Un'antica cantina per la maturazione del vino in botti

Questa voce tratta le caratteristiche ideali che deve avere una cantina privata affinché il vino possa essere conservato nella maniera corretta senza subire alterazioni o danneggiamenti.

Tali caratteristiche, tuttavia, possono essere considerate valide anche nel caso dei locali di un'azienda destinati alla conservazione ed all'affinamento, prima della sua commercializzazione, del vino prodotto.

Caratteristiche generali

Nonostante le caratteristiche della cantina ideale possano cambiare in base alle idee, alle aspettative di ciascuno, esistono dei principi oggettivi di base da rispettare.

Il vino infatti, essendo una sostanza delicata ed in continua evoluzione, va conservato in un luogo protetto ma anche aerato, scuro, umido, fresco, silenzioso, al riparo da vibrazioni, esente da fonti di cattivo odore.

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Nell'adibire un locale a cantina, occorre accertarsi che lo stesso abbia determinate caratteristiche climatiche e fisiche.

Umidità

Sulla base dell'esperienza acquisita nel tempo, si è constatato che il parametro umidità, in genere meno considerato, è invece quello da tenere di più sotto controllo.

Il valore di umidità relativa della cantina dovrebbe sempre essere compreso tra il 70 e l'80%, ancora meglio se superiore a 80.

Infatti nella bottiglia, che va conservata sempre in posizione orizzontale, da una parte del tappo c'è il vino, e quindi il valore di umidità è al 100%, dall'altra c'è l'ambiente, che dovrebbe avvicinarsi a questo valore affinché venga limitata la tendenza del vino ad uscire dalla bottiglia.

Infatti un'eccessiva secchezza del sughero dalla parte esterna della bottiglia rischierebbe di favorire l'uscita del contenuto verso l'esterno, facendolo quindi diminuire e provocandone l'ossidazione. Il tappo si deve idratare anche con l'aria esterna e non solo risucchiando il vino dall'interno.

Una lieve formazione di muffa dalla parte esterna del tappo, benché remota, è possibile, ma sicuramente meno dannosa della secchezza del tappo. Si ha esperienza di cantine umidissime, che riducono le etichette a brandelli in pochi anni, ma che al tempo stesso conservano i vini in modo esemplare.

Per poter mantenere un elevato valore di umidità nel locale è preferibile lasciare il fondo senza pavimentazione, ricoperto eventualmente da alcuni centimetri di ghiaia o argilla espansa, affinché la cantina si possa "nutrire" dell'umidità trasmessa dal sottosuolo.

La ghiaia potrà anche essere leggermente innaffiata di tanto in tanto, se l'umidità dovesse rivelarsi non sufficiente.

Se proprio non si può avere un fondo non pavimentato, si può cercare di ovviare disponendo in cantina una o più bacinelle contenenti acqua con un po' di polvere di calce sul fondo, onde evitare che l'acqua si trasformi in coltura batterica.

Per evitare il deterioramento dell'etichetta si può avvolgere la bottiglia con una pellicola di plastica per alimenti.

Temperatura

La temperatura deve mantenersi costante lungo il corso dell'anno, o almeno variare lentamente; i bruschi cambiamenti di temperatura sono estremamente dannosi per il

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vino, che si contrae e si dilata al variare della stessa. L'energia accumulata sotto forma di temperatura può provocare l'aggregazione e la precipitazione dei polifenoli (antociani) e tannini, che sono le sostanze coloranti del vino. Le dilatazioni e contrazioni inoltre premono e tirano sul tappo, aumentando il ricambio d'aria e di conseguenza l'ossidazione. Oltre ad evitare che vi siano eccessive variazioni di temperatura, occorre stabilire qual è la temperatura ottimale.

Se la temperatura è troppo elevata il vino evolve più in fretta, matura ed invecchia prima, o addirittura potrebbe leggermente rifermentare se vi fossero al suo interno lieviti ancora vivi ed un qualche residuo zuccherino.

Se la temperatura è troppo bassa potrebbero avere luogo precipitazioni dell'acido tartarico in sali di tartrato che in qualche modo impoverirebbero il vino.

Sulla base dell'esperienza acquisita si è rilevato che le temperature ottimali sono 10-12 °C per i vini bianchi e 12-14 °C per i vini rossi.

Dovendo effettuare una scelta, è bene ricordare che un'escursione più fredda è meglio di un'escursione più calda.

Affinché il locale possa avere le caratteristiche termiche desiderate è preferibile che lo stesso si trovi ad almeno quattro metri sotto il livello del suolo; se ciò non fosse possibile, si può cercare di ovviare all'inconveniente con una piccola finestra aperta sul lato nord, ed isolando il locale con pannelli isolanti di varia natura. Questi accorgimenti dovrebbero essere sufficienti nei paesi dal clima temperato, salvo alcune località del sud.

In alternativa si può prendere in considerazione l'installazione di un climatizzatore, tuttavia i costi, in genere ingiustificati rispetto al valore dei vini contenuti in una cantina "normale", potrebbero essere eccessivi.

Infine, se si conoscono i valori di temperatura nei vari punti del locale, è preferibile disporre i vini bianchi ed i vini spumanti nelle zone più fresche (solitamente in basso), e i vini rosati, i rossi leggeri ed i rossi importanti nelle zone meno fresche (solitamente in alto), in analogia alle diverse temperature consigliate per il consumo dei vini.

Luce

La cantina deve essere buia; infatti anche la luce è energia e, come per la temperatura, l'energia che il vino accumula può provocare l'aggregazione e la precipitazione dei polifenoli; di conseguenza un vino esposto alla luce invecchia più rapidamente.

In Francia si definisce goût de lumière, gusto di luce, il sapore che assumerebbero i vini ad essa esposti.

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Affinché il locale possa avere le caratteristiche di luminosità desiderate lo stesso deve essere dotato di poche aperture verso l'esterno; sarebbe inoltre preferibile che lo spessore delle pareti, in corrispondenza delle aperture, fosse elevato.

Odore

Il vino ha la proprietà di assorbire gli odori che lo circondano; è necessario quindi evitare nel locale la presenza di odori indesiderabili. Occorre perciò evitare l'uso della cantina come locale di stoccaggio di qualsiasi materiale di natura chimica, quali taniche di gasolio o benzina, barattoli di vernici, candeggine, detersivi, saponi, ma anche di materiali che possono ammuffire quali carta e cartoni.

Evitare altresì lo stoccaggio di generi alimentari, soprattutto quelli molto "odorosi", quali cipolla, aglio, tartufo, formaggi, salumi ecc.

Affinché nel locale non vi sia ristagno di odori, e per evitare la formazione eccessiva di muffe, l'aria deve essere lentamente ma continuamente rinnovata. Due piccole aperture, in basso ad est ed in alto a nord, senza bottiglie nelle vicinanze, assicureranno un corretto ricambio d'aria.

Vibrazioni

Evitare assolutamente di costruire cantine in zone ad alto inquinamento acustico, laddove passano nelle vicinanze autobus, metro, camion. Da evitare anche la vicinanza alle trombe degli ascensori o ad alcuni elettrodomestici, lavatrici in particolare.

Sistemazione

Supporti

Il metodo migliore per sistemare le bottiglie è utilizzare degli scaffali. La scelta potrà cadere su vari materiali, a seconda dei gusti: metallo, legno, terracotta, cemento, plastica. In un ambiente dove non si siano potute evitare completamente le vibrazioni, è preferibile il legno per le sue caratteristiche fonoassorbenti e pneumatiche.

Chi non ha molti vini può optare per un sistema di scaffalatura delle bottiglie "una ad una", chi ne ha molte o è solito acquistarne a dozzine di ciascuna potrà cercare di risparmiare spazio con sistemi ad alveoli più grandi, in grado di contenere ciascuno decine di bottiglie, tenendo conto che è opportuno evitare di creare sovrapposizioni di bottiglie per più di cinque piani.

In genere si consiglia di non riempire subito tutti gli scaffali disponibili ma di averne sempre un 20% libero per poter sistemare i nuovi acquisti o per poter gestire più facilmente una riorganizzazione della disposizione dei vini.

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Posizione delle bottiglie

Per tutti i vini, tranne alcune eccezioni, la posizione di conservazione è orizzontale, con l'etichetta sempre in alto o comunque in modo che sia facilmente leggibile.

In particolare, le bottiglie dei vini spumanti andranno poste in posizione perfettamente orizzontale ed in basso. Anche per le bottiglie di vino normale va bene la posizione orizzontale, ma si preferisce una posizione con il collo leggermente rialzato, facendo in modo che il tappo resti bagnato dal vino ma che il liquido non prema troppo contro lo stesso.

I vini da consumarsi giovani, che possono anche essere provvisti di un tappo sintetico, vanno tenuti in posizione verticale, così come i vini liquorosi quali Marsala, Porto, Sherry, ed i liquori.

Soluzioni alternative

Per chiunque non abbia la possibilità di costruirsi una cantina con le caratteristiche sopra descritte, l'armadio climatizzato può rappresentare la soluzione ideale o almeno la più semplice. Si tratta sostanzialmente di un frigorifero, ma ne esistono modelli con un aspetto esterno da normale mobile a vetrina in noce, ciliegio, mogano ecc.

I criteri di scelta vertono principalmente su tre punti: capacità, vibrazioni, tipo di conservazione.

• Capacità

ne esistono di diverse taglie, che vanno in genere dalle 50 alle 400 bottiglie; è consigliabile scegliere in funzione della quantità delle bottiglie che si prevede di gestire (avendo cura di lasciare un 20% di riserva), e dello spazio a disposizione nell'abitazione.

è opportuno scegliere un armadio-climatizzato con basso livello di vibrazioni del motore, e con il miglior sistema pneumatico di isolamento dalle stesse.

• Tipo di conservazione

alcuni armadi frigo sono destinati alla conservazione del vino, altri al servizio (le temperature di conservazione e di servizio non sono quasi mai le stesse), altri ancora combinano le due esigenze avendo differenti scomparti.

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ASPETTI AMBIENTALI ED AGRONOMICI DELL’IMPIEGO DELLE ACQUE REFLUE

Considerazioni generali L’adozione di sistemi colturali e di allevamento sempre più intensivi, uniti a tecniche di trasformazione delle produzioni agrarie progressivamente più sofisticate ed industrializzate, ha portato, nel corso degli anni, ad un crescente sfruttamento delle risorse naturali e, nel contempo, al manifestarsi di alcuni problemi non trascurabili a livello di compatibilità ambientale dell’intero modello produttivo. Una valutazione delle eventuali conseguenze ambientali del comportamento umano, qualunque sia il settore di applicazione considerato, comporta la definizione e l’analisi delle singole componenti che ne caratterizzano il meccanismo di diffusione e cioè la sorgente, la via critica ed il bersaglio (Bacci et al., 1989). La sorgente va identificata nella fonte di emissione dell’impatto (puntiforme o diffusa), sia questo costituito da un agente inquinante piuttosto che da un disturbo arrecato all’armonia del paesaggio, e risulta definita dal tipo e dall’intensità che ne caratterizza l’azione. La via critica è costituita invece dall’insieme dei meccanismi di trasferimento o di diffusione che permettono all’inquinante di raggiungere il bersaglio; la sua criticità dipende, dunque, dalla capacità di effettuare il trasporto o di trasmettere il disturbo e/o dal verificarsi, durante il percorso, di eventuali processi di trasformazione (detossificazione, alterazioni chimiche, temporaneità delle conseguenze, ecc.) che di fatto possono determinare un’attenuazione degli effetti indesiderati. Il bersaglio, infine, è rappresentato dal comparto ambientale che costituisce il ricettore (ultimo od intermedio) dell’impatto stesso e che si dimostra vulnerabile al disturbo arrecato, subendo una degradazione più o meno sensibile del proprio stato ed una conseguente limitazione e/o scadimento delle potenzialità d’uso. Un’accurata definizione delle tre componenti appena descritte rappresenta dunque un presupposto indispensabile per impostare correttamente il problema dell’analisi di impatto ambientale; risulterebbe, infatti, poco significativo tentare di procedere attraverso un approccio generalista ed onnicomprensivo, in quanto la molteplicità delle variabili in gioco non permette, in genere, di giungere a nessuna conclusione di utilità pratica ai fini della gestione e della programmazione territoriale di un determinato comprensorio. L’analisi dei rischi ambientali derivanti dall’impiego delle acque reflue in agricoltura comporta, rispetto ad altri studi rivolti all’analisi di fonti di inquinamento puntiforme, considerevoli difficoltà di tipo analitico e metodologico. Innanzitutto risulta molto

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difficile, determinare con precisione la natura e spesso anche la consistenza delle acque prodotte, sia perché le fonti risultano largamente diffuse sul territorio, sia perché ogni singolo impianto in grado di produrre reflui può compiere, relativamente ai processi tecnologici coinvolti, scelte anche molto diverse riguardo all’impiego di macchinari, cicli di produzione, quantità e qualità dei materiali di partenza, ecc. Inoltre, in alcuni casi i fenomeni di interesse (come ad esempio l’arricchimento in nutrienti di un corpo idrico o l’incremento della salinità di un terreno) avrebbero semplicemente l’effetto di accentuare l’intensità di fenomeni naturali, costringendo a considerare la sola quota aggiuntiva imputabile all’impiego dei reflui. A ciò si devono poi aggiungere due ulteriori importanti considerazioni di ordine generale; per prima cosa, gli eventuali episodi di inquinamento ambientale legati al riuso di acque reflue, una volta definitone l’impiego in termini di dose, epoca e modalità di distribuzione, risultano sostanzialmente modulati dalle caratteristiche ambientali di uno specifico comprensorio (regime pluviometrico, caratteristiche pedologiche, altezza della falda sotterranea, ecc.), che spesso sfuggono ai tentativi di controllo e/o mitigazione da parte dell’uomo. In secondo luogo, nella maggior parte dei casi, la responsabilità dei processi di alterazione ambientale va ripartita fra una pluralità di soggetti, ciascuno dei quali contribuisce in maniera trascurabile a determinare la consistenza finale assunta dal fenomeno, rendendo arduo ogni tentativo di controllo e/o di regolamentazione. In ogni caso, i principali problemi di compatibilità ambientale ed agronomica connessi con l’utilizzo di reflui possono essere fondamentalmente ricondotti alla possibile dispersione ambientale di macro e micronutrienti, all’accumulo di metalli pesanti o di altri elementi estranei al metabolismo vegetale, alla contaminazione dovuta al veicolamento di batteri patogeni o comunque di microrganismi non facenti parte della microfauna e microflora “normale” di un terreno agrario e quindi, più in generale, a qualunque disturbo in grado di provocare un’alterazione ed un deterioramento delle funzionalità del comparto suolo traducibili direttamente o indirettamente in un decremento della sua fertilità. Lo sfruttamento delle sostanze utili ancora presenti nelle acque reflue, come i nutrienti ed il carico di sostanza organica, oltre all’apporto idrico, che in alcune circostanze può risultare tutt’altro che trascurabile, costituiscono infatti una ricchezza sfruttabile in senso agronomico. L’utilizzo in agricoltura degli effluenti agro-industriali e civili può consentire, dunque, un’effettiva valorizzazione di sotto- prodotti altrimenti smaltibili con difficoltà, contribuendo ad evitarne usi “selvaggi” che possono risultare estremamente pericolosi da un punto di vista ambientale. Sono al riguardo indispensabili, però, criteri chiari per ottenere dal loro reimpiego il maggior vantaggio agronomico ed il minor rischio possibile di alterazione dell’agroecosistema, lasciando come sempre agli agricoltori il compito di adattare alle specifiche condizioni della propria azienda quegli orientamenti tecnici validi in senso generale ed utili ad ispirarne il comportamento. L’impiego di acque reflue in quantità eccessive e secondo modalità scorrette (su terreni, in epoche e con tecniche

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non idonee) può causare, infatti, una serie di inconvenienti, quali la degradazione della struttura del terreno, l’aumento della salinità, la modifica della biocenosi tellurica, ecc., tali da ribaltare il giudizio positivo sull’adozione di tali pratiche. L’utilizzazione agronomica degli effluenti richiede quindi una adeguata conoscenza delle condizioni climatiche, pedologiche e colturali del territorio, oltre che, naturalmente, delle caratteristiche stesse del refluo. Fattori come la piovosità e la temperatura, la tessitura e la porosità del terreno, gli avvicendamenti e le tecniche di lavorazione adottate, costituiscono, infatti, elementi fondamentali per poter definire razionalmente le corrette modalità di utilizzazione degli effluenti e per poter segnalare le eventuali “controindicazioni” necessarie, in relazione alla particolare composizione del refluo. Anche in questo caso la convenienza nell’adottare un comportamento agronomico piuttosto che un altro deve essere attentamente valutata in relazione alla tipologia di refluo che si intende utilizzare (composizione, stagionalità di produzione, ecc.); la scelta tecnica adottata dovrà, in ogni caso, essere coerente con l’organizzazione del sistema aziendale. La tecnica colturale . In generale l’utilizzo irriguo o fertirriguo di acque reflue deve prevedere l’utilizzo di particolari accorgimenti agronomici che garantiscano la migliore utilizzazione possibile dei reflui da parte delle piante. I sistemi colturali che già fanno ricorso all’irrigazione, o per i quali se ne può prevedere l’adozione senza apportare eccessive modifiche alla struttura aziendale od all’organizzazione produttiva, sono da considerare potenzialmente più idonei alla somministrazione degli effluenti. E’ necessario, innanzitutto, effettuare una rotazione degli appezzamenti da trattare e disporre, pertanto, di una area minima su cui effettuare lo spandimento. Occorre poi regolarizzarne la superficie in modo da rendere più uniforme la distribuzione dei reflui, evitando l’insorgenza di ristagni localizzati. Il terreno deve essere ben drenato in modo da evitare problemi di asfissia radicale, soprattutto quando è necessario distribuire elevati volumi d’acqua (è il caso dei reflui salini) o quando i reflui risultano ricchi di solidi sospesi, che tendono ad intasare gli strati più superficiali del suolo. Massima attenzione deve essere, pertanto, posta alla manutenzione delle sistemazioni idraulico-agrarie, od alla loro realizzazione qualora non fossero già esistenti; nel caso in cui sia presente uno strato impermeabile lungo il profilo del terreno, si dovrebbe ricorrere al drenaggio artificiale che può assicurare un migliore sgrondo delle acque rispetto all’affossatura superficiale. A questo proposito può risultare importante anche il ruolo giocato dalle lavorazioni del terreno in relazione al tipo di attrezzo prescelto per la loro esecuzione, ma anche alla profondità ed all’epoca in cui si effettua l’intervento meccanico. In generale si

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può affermare che il ricorso alla discissura è da preferire all’aratura in considerazione dei rischi di formazione di uno strato impermeabile più o meno profondo (suola d’aratura) che la ripetizione di quest’ultima può formare nel suolo. È da evitare la somministrazione dei reflui nei giorni seguenti la semina in quanto, durante le fasi di germinazione, la sensibilità dei vegetali nei confronti degli effluenti è massima e possono verificarsi pericolosi fenomeni di fitotossicità diretta, piuttosto rari, invece, nelle fasi successive del ciclo fenologico della coltura. Anche la scelta dei concimi deve essere effettuata tenendo presente che i fertilizzanti sono costituiti da sali, per cui la loro distribuzione comporta, comunque, un aumento della concentrazione di tali elementi nel terreno. In alcuni casi può essere previsto l’utilizzo di correttivi per contrastare la salinità, da distribuire sull’appezzamento piuttosto che da disciogliere nell’acqua, a causa della limitata solubilità idrica e del rischio di occlusione degli irrigatori. Come correttivi possono essere utilizzati lo zolfo (zolfo in polvere) nel caso di terreni ricchi di calcare od il gesso (gesso agricolo) nel caso di terreni alcalini. In ogni caso nel calcolo della quantità di concimi da distribuire, si dovrà sempre considerare l’apporto, seppure minimo, di elementi nutritivi distribuiti con i reflui, tenendo presente, tuttavia, che i nutrienti si rendono spesso disponibili solo a partire dall’anno successivo alla loro somministrazione, a causa della lentezza nella mineralizzazione della frazione organica. Può, infine, rivelarsi utile un monitoraggio in continuo dei rischi di contaminazione ambientale attraverso il ricorso ad opportune piante-spia, ovvero a specie particolarmente sensibili alle sostanze di interesse. Anche per quanto riguarda il pericolo dell’ingresso di sostanze dannose all’interno della catena alimentare, possono essere individuate specie vegetali in grado di accumulare selettivamente le molecole “a rischio” e mettere, quindi, in evidenza i pericoli di contaminazione a carico del comparto biotico. La distribuzione dei reflui A prescindere dalle condizioni ambientali (difficilmente modificabili, almeno nel breve periodo) e delle caratteristiche del sistema colturale adottato (più facilmente mutabili da parte dell’agricoltore), sono le modalità di distribuzione del refluo (dose, epoca, tecnica di distribuzione e stoccaggio) a giocare però un ruolo determinante sulla efficacia e sulla correttezza dell’impiego degli effluenti in agricoltura. La dose di impiego La scelta della dose più opportuna da somministrare per ciascuna tipologia di refluo costituisce un passaggio cruciale nella stesura di un programma per la distribuzione degli effluenti sui campi coltivati. Dal punto di vista agronomico, quando si intenda somministrare alle colture acque reflue di varia origine è possibile scegliere fra tre distinte modalità di intervento.

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La prima consiste nella irrigazione intensiva (o ad alto carico), nella quale si distribuiscono carichi idraulici (volume di liquido apportato nell’unità di superficie e di tempo) ed organici (quantità di sostanza organica apportata nell’unità di superficie e di tempo) più elevati rispetto a quelli strettamente indispensabili alle colture, i cui fabbisogni idrici e nutrizionali passano, quindi, in secondo ordine, essendo questo tipo di somministrazione più assimilabile allo smaltimento che alla irrigazione e/o alla fertilizzazione delle piante. In questo caso non tutte le colture possono sopportare un tale trattamento (ad esempio dimostrano una buona “adattabilità” i prati stabili ed altre coltivazioni a basso reddito) ed è spesso inevitabile che queste pratiche provochino fenomeni negativi sulle piante e sul terreno per gli elevati carichi somministrati. La seconda tipologia di intervento è l’irrigazione estensiva (o a basso carico) che è finalizzata principalmente a soddisfare le esigenze delle colture che non devono subire riduzioni quanti-qualitative delle produzioni. E’ necessario, quindi, calcolare le dosi di impiego considerando gli effettivi fabbisogni trofici e idrici delle piante, ma valutando, allo stesso tempo, anche il rischio di apportare al terreno eccessive quantità di elementi minerali o composti organici indesiderati, prevedibilmente in grado di interferire con le normali funzionalità del suolo e/o con la fisiologia delle diverse colture. La terza tipologia di intervento prevede una ulteriore, e cospicua, riduzione della dose somministrata, che può rivelarsi necessaria a causa dell’elevato contenuto di uno o più elementi o composti nelle acque. Ovviamente gli elementi che devono essere presi in considerazione, per la determinazione del quantitativo da distribuire, sono da ricercarsi tra le caratteristiche chimiche dei reflui e del terreno, nel parametro più limitante, cioè in quello che si ritiene responsabile dell’effetto maggiormente dannoso. Dal punto di vista normativo, con l’emanazione del testo unico in materia ambientale (decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152) vengono, in generale, riconfermate, all’articolo 112, le disposizioni già previste, per quanto riguarda l’utilizzazione agronomica dei reflui, dall’articolo 38 del previgente decreto legislativo 152/99. La pratica della utilizzazione agronomica dei reflui provenienti da attività agricole ha, infatti, una disciplina separata e distinta dallo scarico e può essere realizzata solo nei casi e secondo le procedure descritte nel citato articolo 112 del D.lgs. 152/2006. Una diversa disciplina regola, invece, il riutilizzo delle acque reflue depurate, secondo quanto previsto dall’articolo 99 dello stesso decreto legislativo. L’ epoca di somministrazione La scelta dell’epoca più idonea per la somministrazione dei reflui è condizionata da fattori diversi ed in parte interagenti, quali la trafficabilità del terreno, la presenza ed il grado di sviluppo della coltura, il sistema di distribuzione adottato.

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Il periodo in cui la distribuzione risulta più facile è quello della preparazione del terreno prima della semina della coltura, che nella prassi agronomica, per le colture erbacee arative, si traduce nell’epoca primaverile, estivo-autunnale od invernale. Dal punto di vista dell’efficienza di utilizzazione dei nutrienti da parte delle colture sarebbe importante, invece, che il periodo di distribuzione dei reflui coincidesse con quello di massimo assorbimento da parte delle piante. In pratica, la distribuzione eseguita in prossimità dell’impianto, o ancora di più, della fase di massimo accrescimento delle colture permette di conseguire un’elevata efficienza di utilizzazione, mentre trattamenti eseguiti con molto anticipo comportano generalmente risultati peggiori.

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ACQUE REFLUE DEI CASEIFICI

La filiera produttiva L’industria lattiero-casearia è articolata nella produzione di latte pastorizzato e sterile, burro, crema, latti fermentati, condensati e concentrati e formaggi (freschi, stagionati, cotti, ecc.). Circa il 60% del latte prodotto in Italia viene destinato alla trasformazione in prodotti caseari. Questo comparto produttivo è chiaramente differenziato tra media e grande industria, da un lato, e caseifici cooperativi a dimensione artigianale e residue piccole unità annesse alle aziende agrarie dall’altro. La maggior parte delle medie e grandi industrie operano nel comparto del latte alimentare ed in quello della produzione dei formaggi freschi di largo consumo, mentre le imprese di piccole dimensioni e le aziende cooperative sono prevalentemente dedite alla produzione di formaggi duri o semiduri di tipici e di qualità (come parmigiano reggiano, grana, provolone; ENEA, 1999). Nel 2002, Emilia Romagna, Campania, Lombardia, Puglia e Veneto sono state le regioni italiane con il maggior numero di unità produttive. Nell’area meridionale il maggior numero di impianti è concentrato in Campania ed in Puglia; in queste due regioni, infatti, sono localizzati più del 65% degli impianti complessivamente presenti nel Mezzogiorno e sempre queste due regioni fanno registrare la prima e la seconda presenza, a livello nazionale, di caseifici e di centrali del latte, con 278 e 197 stabilimenti rispettivamente (dati ISTAT). Nella produzione italiana abbiano particolare rilievo i formaggi a pasta dura (e fra questi il parmigiano ed i vari tipi di grana) ed i formaggi freschi, che costituiscono, nel complesso, oltre il 75% dell’intera produzione casearia. Il processo tecnologico Le latterie sono gli stabilimenti in cui vengono svolte quasi esclusivamente operazioni finalizzate ad evitare alterazioni delle proprietà e della composizione del latte in modo che questo possa essere conservato il più possibile integro e stabile nel tempo. I processi che vengono adottati consistono essenzialmente nella pastorizzazione, sterilizzazione e confezionamento asettico del prodotto ottenuto. In questi stabilimenti, oltre al prodotto principale (latte per consumo diretto), si hanno quasi sempre altri prodotti, come burro e panna.

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Burrificazione Nei caseifici di modeste capacità lavorative viene applicato lo schema tradizionale che prevede una linea di lavorazione discontinua e lenta; in questi caseifici le attrezzature per la burrificazione sono rappresentate essenzialmente da una zangola in acciaio inossidabile e da una impastatrice/formatrice. Su grande scala, invece, il processo di burrificazione viene realizzato con impianti computerizzati attraverso un procedimento continuo, che ripropone le stesse operazioni della lavorazione discontinua, ma con risparmio di tempo e di manodopera e maggiori garanzie igieniche. Tra i processi in continuo il più diffuso, specialmente nei Paesi della UE è il processo Fritz. Altri metodi in uso sono il processo Alfa e il processo Senn, mentre il processo Golden-Flow è quello più diffuso negli USA. La differenza in termini di caratteristiche del prodotto finale riguarda la percentuale di grasso contenuta nel burro e quindi di quella persa nel latticello (nel processo Senn la perdita di grasso nel latticello è di appena lo 0,15-0,20%).

Figura 5.1 - Schema sintetico del processo di trasformazione del latte per la produzione di burro e formaggio.

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Con la formazione dei grani di burro, si procede, nella zangola stessa, ad allontanare il latticello, il cui titolo di grasso è normalmente inferiore allo 0,5%; segue la fase di lavaggio con acqua che permette l’allontanamento del sottoprodotto residuo. Questa operazione di lavaggio viene normalmente ripetuta 2-3 volte. Relativamente ai volumi di acqua utilizzati in questi stabilimenti, i dati riportati in letteratura mostrano una notevole variabilità, evidenziando l’esistenza di differenze tutt’altro che trascurabili. Tale eterogeneità dipende, in primo luogo, dai diversi tipi di impianto e quindi dal recupero più o meno spinto delle acque e delle soluzioni di lavaggio, e secondariamente dalla maggiore o minore disponibilità di acqua e dalle abitudini del personale. Il rapporto tra consumi idrici e latte lavorato nei diversi stabilimenti varia tra 4:1 e 2:1, con i valori più bassi in quelli più piccoli. Caseificazione Per quanto riguarda lo schema di produzione del formaggio, è noto come questo sia molto variabile a seconda del tipo di prodotto finito, ovvero delle sue peculiari caratteristiche organolettiche e merceologiche. Riguardo alla resa del latte in formaggio è altresì noto come questa sia correlata soprattutto alla quantità di azoto proteico e di caseina presente nel latte in ingresso. Le tecnologie adottate in diversi Paesi stranieri (USA, Inghilterra, ecc.) presentano, spesso, il vantaggio di aumentare la resa in formaggio, riducendo così le perdite, nel siero, di grasso e di proteine solubili. In Italia, tuttavia, questi sistemi di caseificazione non si sono particolarmente affermati, soprattutto a causa degli effetti di deterioramento delle caratteristiche organolettiche del prodotto che sembrano determinare. Prendendo in esame le categorie dei principali formaggi tipici italiani, si rileva che le rese in peso del processo (formaggio maturo/latte impiegato) equivalgono mediamente al 7-8% per il parmigiano reggiano e i formaggi grana, al 12-13% per i provoloni, al 5-6% per i formaggi tipo pecorino, al 10% per l’Asiago ed il gorgonzola ed all’8% per i formaggi a pasta filata. Gli effluenti liquidi che più frequentemente si producono nel corso del processo di burrificazione sono i seguenti: • acque di lavaggio dei recipienti in cui avviene lo stoccaggio e la pastorizzazione del latte e della crema; • acque di lavaggio dei recipienti in cui avviene l’impastamento del burro; • acque impiegate nei degasatori, nel raffreddamento delle celle e nel condizionamento dei magazzini;

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• acque impiegate a fine giornata lavorativa per la pulizia degli ambienti e delle parti esterne dei macchinari. Per quanto riguarda, invece, il processo di caseificazione si originano sostanzialmente i seguenti tipi di refluo: • acque di lavaggio dei recipienti in cui avviene la coagulazione del latte; • spurgo della cagliata, le cui caratteristiche quantitative e qualitative variano in rapporto al tipo di formaggio prodotto; • salamoie esauste dei locali di salatura; • acque impiegate nel raffreddamento delle celle e nel condizionamento dei magazzini; • acque impiegate a fine giornata lavorativa per la pulizia degli ambienti e delle parti esterne dei macchinari. Le caratteristiche dei reflui I materiali in uscita, che in aggiunta alla produzione principale si originano dall’industria della caseificazione, sono gli effluenti ed i sottoprodotti dei processi di lavorazione; fra questi ultimi i principali sono il siero, il latticello e la scotta. Le loro caratteristiche chimico-fisiche e microbiologiche sono estremamente variabili, in rapporto soprattutto alla tipologia di prodotto e alle dimensioni dell’industria. Siero Il siero è un liquido torbido giallo-verdastro, che resta nella caldaia dopo la separazione della cagliata e si distingue, in relazione all’origine del latte, in siero ovino, bufalino o vaccino. Esso contiene tutti gli elementi solubili del latte che non hanno partecipato direttamente alla coagulazione, principalmente lattosio, sieroproteine e sali solubili, unitamente al grasso in misura tanto maggiore quanto più pronunciata è stata la lavorazione della cagliata. La composizione del siero varia in funzione di diversi fattori, quali la specie allevata, l’alimentazione, la stagione di produzione del latte, la fase di lattazione, il tipo di formaggio nonché la tipologia di lavorazione adottata. Quest’ultima influisce sensibilmente sull’acidità del siero che, a seconda del processo produttivo, può risultare dolce (cioè a bassa acidità) con pH > 5,6, oppure acido con pH < 5,1; nel nostro Paese la stragrande maggioranza di siero prodotto è di tipo dolce, ma questo va spontaneamente incontro ad una rapida acidificazione per azione dei batteri lattici raggiungendo in ogni caso, nel giro di poche ore, valori pH inferiori a 4. Il peso specifico del siero è di circa 1,025-1,030 g/mL a 15°C.

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Effluenti Relativamente alla composizione degli effluenti, da quanto detto in precedenza risulta evidente che gli inquinanti contenuti negli scarichi delle industrie lattiero-casearie sono rappresentati dai residui del latte e dei suoi sottoprodotti e da eventuali sostanze impiegate nelle lavorazioni; a questi si dovranno aggiungere i prodotti utilizzati nel lavaggio e nella disinfezione degli ambienti e delle attrezzature e nei servizi complementari.

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TRATTAMENTI INDUSTRIALI

Industrie alimentari Le acque residue prodotte dalle varie industrie alimentari, benchè molto diverse da tipo a tipo di industria, e talvolta anche da uno stabilimento a un altro dello stesso tipo, presentano tuttavia alcune caratteristiche comuni, tali da consentire di classificarle sotto lo stesso titolo. Anzitutto, i liquami provenienti dalle industrie alimentari, e delle fermentazioni sono caratterizzati da un elevato contenuto di sostanze organiche biodegradabili e, di conseguenza, da un'alta domanda di ossigeno. Essi pertanto si prestano di solito agevolmente a un trattamento biologico, preferibilmente aerobio; tuttavia i rapporti tra il carbonio organico e le sostanze nutritizie non sempre sono quelli ideali per questo tipo di depurazione e pertanto accade talvolta di assistere ad inconvenienti abbastanza gravi, quali ad es. il bulking o voluminosità dei fanghi attivi e di humus, con relativi fenomeni di intasamento od addirittura di putrefazione. Per questo motivo è preferibile, se la situazione locale lo consente, eseguire una depurazione combinata, nello stesso impianto, degli scarichi industriali e dei liquami della fognatura municipale; in altri casi si possono aggiungere alle acque residue industriali opportuni correttivi, sotto forma di reagenti adeguatamente dosati, oppure sostituire o integrare il trattamento biologico con un processo chimico-fisico ponderatamente scelto secondo le circostanze. Un'altra caratteristica comune a molti scarichi delle industrie alimentari consiste nell'elevato tenore di sostanze solide sospese, che pone il problema della loro separazione e dello smaltimento dei fanghi così prodotti. Sono invece generalmente assenti sostanze tossiche e ciò favorisce indubbiamente l'accoglimento di questi effluenti nelle fognature municipali. Sovente, anche se non sempre, le industrie alimentari hanno un andamento stagionale, legato alle vicende dell'agricoltura o, almeno, delle punte di produzione che si verificano in determinati periodi dell'anno, con la conseguenza che gli impianti di depurazione devono essere progettati e dimensionati in modo da sopportare senza difficoltà sovraccarichi anche sensibili. Particolare cura, nel caso di trattamento combinato con liquami cloacali, deve essere posta nella compensazione degli scarichi industriali in bacini opportunamente dimensionati, e nel loro proporzionamento, allo scopo di evitare sovraccarichi che potrebbero porre fuori uso l'impianto municipale di depurazione.

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Industria lattiero-casearia L'industria lattiero-casearia è soggetta a legislazione relativa all'industria alimentare. Questo significa una cura particolare per le condizioni igienico-sanitarie. La pulizia è indispensabile sia per quanto riguarda gli impianti produttivi che per le superfici produttive. Poiché molti processi necessitano di elevate temperature spesso siamo in presenza di reflui molto caldi. L’effluente deve essere trattato con tecnologie appropriate prima di essere sversato in un impianto di depurazione civile. L'industria alimentare si distingue come un grosso consumatore di acqua. II latte in ingresso viene ripulito, scaldato, scremato dipendentemente dal prodotto richiesto. Un ciclo dì pulizia automatico provvede, solitamente, a mantenere batteriologicamente puri i macchinari, la strumentazione e le condotte. Guasti a questi sistemi possono causare fuoriuscite nei liquami di grassi o proteine, oppure acidi e basi. Per la pulizia automatica degli impianti si ricorre, di norma, al cosiddetto "sistema CIP” (cleaning in place), che utilizza potenti reagenti chimici quali: soda caustica, acido nitrico, candeggianti come l'ipoclorito di sodio o l'acqua ossigenata. I liquidi detergenti mantengono temperature di 80...85°C. Dopo la pulizia i reagenti vengono recuperati e rigenerati per l'utilizzo nel ciclo successivo. La maggior parte delle industrie lattiero-casearie pretratta autonomamente i propri reflui ricorrendo spesso alla cosiddetta "neutralizzazione". I liquami vengono raccolti in vasche nelle quali , tramite cicli di immissione di acidi e basi, giungono ad un valore di pH accettabile prima dello sversamento in fognatura. In queste vasche vengono pure immerse altre sostanze atte a ridurre l'inquinamento ambientale. Le industrie più grosse devono spesso attrezzarsi con un impianto di depurazione proprio per non sovraccaricare il depuratore civile. Produzione birra I reflui di birreria presentano caratteristiche tutte proprie, quali variazioni di portata, alte concentrazioni di sostanze come i carboidrati, valori di pH fluttuanti e influsso di reagenti di pulizia e disinfezione. Per un impianto ben gestito con basse perdite di prodotto e riciclo di sottoprodotti valgono i seguenti dati. consumo d'acqua specifico: 0,4...0,8 m3/hl birra venduta produzione liquami specifici: 0,25...0,6 m3/hl birra venduta richiesta specifica di BOD5: ca. 0,5 Kg B0D5/hl birra venduta = 8 abitanti equivalenti a 60 gr/hl"

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La produzione di reflui dipende dal processo produttivo. II fondo che precipita nel tino durante la cottura del mosto (ca. 120.000 mg B0D5/kg) contiene amidi e proteine. Con l'aggiunta di lievito di birra il mosto ricco di zuccheri si trasforma in birra. Questo avviene nel fermentatore. Lo stesso avviene nei serbatoi di stoccaggio dove i reflui con 130.000 mg B0D5/kg vanno in fognatura. Perdite di birra avvengono durante il pompaggio, la filtrazione e l'imbottigliamento. Poiché la birreria, come tutte le altre industrie alimentari, deve mantenere un elevato standard di igiene e pulizia, i serbatoi e le condotte vengono pulite con l'ausilio di soda e acido nitrico ed eventualmente disinfettati. Gran parte dei reflui sversati dalla birreria provengono dalla pulizia delle bottiglie e delle botti, eseguita con soda caustica ad elevata temperatura. Da ciò deriva il valore di pH fortemente alcalino (pH> 10) dei liquami. Gran parte delle birrerie adduce i liquami all'impianto di depurazione civile solo dopo averli pretrattati. Per poter rientrare nei valori limite prefissati, temperatura sotto i 35°C, valori di pH compresi tra 6,5 e 10, è necessario un trattamento acque all'interno dell'azienda produttrice. II sistema più semplice è stoccare i reflui di tre ore di produzione in serbatoi di compensazione chiusi. Se necessario si provvede alla neutralizzazione acida con l'ausilio di acido solforico, acido carbonico derivante dalla fermentazione, fumi di combustione. Talvolta si procede pure ad una depurazione biologica parziale in vasche aerate, qualora il fango di supero possa essere mandato al depuratore civile.

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Industria tessile La vastità dei processi tecnologici impiegati nell'industria tessile produce liquami con caratteristiche diversificate, ma che presentano una matrice comune: • scarsa presenza di microrganismi • bassa percentuale di molecole organiche azotate • presenza di metalli pesanti solo se sono usati coloranti specifici • elevata temperatura dei liquami, compresa tra 20°C e 30°C, talvolta anche maggiore! • liquami generalmente alcalini • la percentuale di fosfati dipende dal processo. Un importante criterio di valutazione dell'afflusso di liquami è il rapporto di bagno. II bagno è dato dal materiale più le sostanze immesse. Un rapporto di 1:1 non produce praticamente reflui poiché i reagenti chimici vengono immessi senza diluizione. Con un rapporto di 1:50 occorrono invece per 100Kg di merce, 5000 Kg di bagno (solitamente per colorazioni) che devono essere poi smaltiti in fognatura. Nei processi bagnati troviamo quattro operazioni basilari, che richiedono, ognuna reagenti chimici specifici.

Operazione Sostanze immesse/risultanti Rapporto di bagno

Lavaggio

- sostanze connesse alle fibre (es. grassi animali, particelle di sporco) -tensioattivi derivanti dai detergenti - materiali risultanti da trattamenti ossidativi o enzimatici

1:5 fino a 1:50

Trattamento cottura alcalina, candeggio

- soda caustica -ossidanti quali acqua ossigenata, ipoclorito di sodio, clorito di sodio -sostanze raramente riducenti (es. sodio ditionile)

1 :1 fino a 1 : 50

Colorazione - un grande numero di coloranti Lavaggio

- il lavaggio serve a rimuovere le sostanze citate nelle operazioni precedenti

Finissaggio: aggiunta di sostanze a secco o con poca acqua al substrato (per substrato si intende la merce a secco).

- es. tensioattivi o cere per favorire la lavorabilità meccanica

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Materiali contenuti nei reflui Quasi sempre i liquami devono essere trattati prima dello sversamento in fognatura. Talvolta basta una loro omogeneizzazione. Generalmente nei reflui da industrie tessili è carente la frazione organica, nutriente per la fauna batterica degli impianti biologici. Una miscelazione con impianti civili è quindi conveniente. I trattamenti sono semplificati se si prevedono vasche di raccolta per le sporadiche punte di portata. Per alcune sostanze sono necessari i soliti trattamenti specifici, quali precipitazione, flocculazione, filtrazione e assorbimento. Cartiere I reflui di cartiera contengono spesso particelle solide o sospese quali fibre e frammenti fibrosi, pezzi di legno e corteccia, fango, cenere e cariche. La richiesta d'acqua e quindi la produzione di liquami per la produzione di carta è enorme: per produrre una tonnellata di carta sono necessari circa 200 m3 di acqua. La filtrazione dei reflui riduce il consumo di acque primarie; vengono inoltre recuperati 0,5...5 Kg di sostanze solide per ogni m3 di acqua. II processo depurativo avviene in tre stadi: meccanico, chimico e biologico. II trattamento meccanico consiste nella sedimentazione, flottazione e filtrazione. II più comune è la sedimentazione. I materiali precipitati vengono così rimossi dai liquami. Per aumentare l'efficacia della sedimentazione sono utilizzati reagenti chimici quali, ad esempio, il solfato di alluminio o i polielettroliti. A seconda del flocculante utilizzato può avere importanza la misura del valore di pH. La velocità di depurazione del trattamento biologico viene fortemente influenzata da temperatura, valore di pH, presenza di nitriti ed ossigeno disciolto. I valori ottimali di temperatura vanno da 20°C a 30°C e il valore di pH da 6,5 a 8,5. La

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rimozione del BOD in vasche senza aerazione è molto modesta; si devono utilizzare grosse vasche con velocità di flusso molto basse. L'ossidazione con insufflazione migliora enormemente la situazione. La misura del valore di pH, dell'ossigeno disciolto e della portata rivestono grande importanza. Vasche a fanghi attivi vengono impiegate nel caso di grosse portate ad elevato contenuto di BOD. Limitare i tempi di detenzione significa abbassare i costi di costruzione. I valori di ossigeno e pH devono essere misurati e regolati. Lavorazione metalli Reflui da lavorazione metalli provengono dai seguenti settori produttivi:

- galvaniche - circuiti stampati - decapaggi - costruzione accumulatori

- anodizzazione - smaltatura - brunitura - officina meccanica

- zincatura a caldo - tornitura - temperatura - verniciatura

A seconda della lavorazione si utilizzano acidi, alcali e soluzioni saline. Le soluzioni saline possono contenere sostanze tossiche che devono essere rimosse: cadmio, mercurio, (produzione batterie), molecole ammoniacali, cloro, cromo, cianidi, (produzione circuiti stampati), fluoro, piombo, rame, nickel, nitriti, sulfidi, zinco, idrocarburi, cobalto (nella smaltatura). I cianidi sono probabilmente i più pericolosi veleni riscontrabili nei reflui. Per mezzo dell'ossidazione sono trasformati in innocui cianati. Gli ossidanti usati sono l'ipoclorito di sodio e il solfito di ferro bivalente. II cromo esavalente deve essere ridotto a trivalente, poiché solo questa molecola precipita come idrossido insolubile nel seguente stadio di neutralizzazione. Per la decontaminazione i processi di riduzione o ossidazione, neutralizzazione e precipitazione necessitano di misure e regolazioni continue dei valori di pH e Redox. E' importante l'impiego di elettrodi di pH e Redox protetti dall' avvelenamento (ponte elettrolitico, orbisint, sensopac, ecc.) e insensibile allo sporcamento. Accanto ai trattamenti tradizionali si propongono, oggigiorno, processi atti al riciclo dei reflui nella produzione. I processi applicati sono: micro e ultrafiltrazione, osmosi inversa e scambio ionico. Per essi è importante la misura di conducibilità. Galvaniche Un caso particolare della lavorazione dei metalli è rappresentato dall'industria galvanica, i cui reflui, accanto ad alcune sostanze organiche insolubili, possono contenere i seguenti agenti inquinanti.

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- cadmio - alluminio - composti ammoniacali - piombo - cloro - cianidi - ferro - fluoro - rame - nickel

- zinco - argento.

Distinguiamo in processi galvanici "alcalini" e "acidi". Un impianto galvanico si compone generalmente di numerose vasche nelle quali vengono immerse le parti metalliche da trattare. Vi sono due tipi di liquami: a) acque da bagni di lavaggio La concentrazione degli agenti inquinanti in soluzione è compresa tra 100 mg/I e 900 mg/I. b) soluzioni saline da bagni esausti I bagni vengono svuotati periodicamente. La concentrazione di agenti inquinanti è dell'ordine di gr/I. E' di primaria importanza separare i bagni alcalini da quelli acidi. In presenza di cianidi in campo acido i liquami possono sviluppare l'altamente tossico acido prussico. A seconda della solubilità i metalli vengono precipitati con latte di calce. I processi impiegati sono simili a quelli precedentemente descritti nella lavorazione metalli. Industria conciaria L'industria conciaria è una delle più antiche lavorazioni di materiale naturale. Essa è caratterizzata da un elevato consumo d'acqua.

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I reflui di conceria sono generalmente di colorazione grigio-verdastra, torbidi e spesso putridi. A causa delle diverse fasi di lavorazione il valore di pH passa da valori alcalini (pH 12) a valori acidi (pH 2-3). II contenuto di inquinanti organici è elevatissimo con presenza anche di solfuri e cromo. II trattamento dei reflui passa attraverso numerosi stadi: - grigliatura - omogeneizzazione (in vasche di stoccaggio circolari dotate di agitatori rotanti) - prechiarificazione con rimozione del cromo - precipitazione dei solfuri - sedimentazione finale - invio al trattamento biologico Per la precipitazione dei solfuri si impiegano solfato di ferro e acido solforico. Dopo il dosaggio il solfuro di ferro viene rimosso per mezzo di sostanze flocculanti quali, ad esempio, i polielettroliti. 8. Cave, miniere, cementifici II settore comprende l'industria estrattiva così come quella della lavorazione materiali per l'edilizia. Essa include prodotti quali: cemento, calce e gesso, ed anche materiali ceramici grossolani (laterizi, gres, refrattari) e fini (piastrelle e abrasivi). Le aziende medio-grandi trattano direttamente i loro reflui. Con poche eccezioni i liquami contengono sostanze facilmente sedimentabili come: ghiaia, sabbia, calce e dolomia. Per questo sono generalmente separati dai reflui civili e raccolti e trattati a parte. Spesso viene addotta ai sedimentatori, assieme ai reflui di produzione, anche la portata di pioggia derivante dal dilavamento di grandi aree operative o di coperture dove può essersi depositata polvere, sabbia o altre sostanze minerali. Spesso l'acqua depurata viene riciclata in produzione. Se nelle acque scaricate sono presenti degli idrocarburi, a causa, ad esempio, di officine meccaniche, sono da prevedersi appositi separatori. Generalmente i liquami dell'industria estrattiva non hanno bisogno di pretrattamenti, prima della sedimentazione. La forma e le dimensioni dei sedimentatori o dei bacini di sedimentazione, dipendono dal contenuto di sostanze solide e dal tempo di determinazione dei liquami. I sedimentatori vanno svuotati periodicamente mentre i bacini generalmente no. La sedimentabilità può essere migliorata con l'aggiunta di sostanze flocculanti. I fanghi derivanti dalla sedimentazione sono spesso disidratati al 40...50% per mezzo di nastropresse o di separatori a centrifuga. I fanghi disidratati possono essere, con poche eccezioni, smaltiti tranquillamente. Le eccezioni riguardano fanghi contenenti

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metalli pesanti insolubili e smalti proveniente dall'industria ceramica o cromo esavalente derivante dal fibrocemento. Chimica e petrolchimica I reflui dell'industria chimica e petrolchimica presentano caratteristiche fortemente variabili a seconda del processo e del sito produttivo. Si passa da acque praticamente pulite (di raffreddamento) fino a reflui fortemente tossici. Quella che segue è una lista parziale di processi produttivi caratterizzati da elevate portate di liquami. produzione soda produzione idrocarburi produzione farmaceutica produzione fibre chimiche produzione perborati produzione fertilizzanti produzione composti di bario raffinerie ossidi disperse I trattamenti depurativi dipendono fortemente dall'origine dei reflui e dai loro contenuti. Alcuni dei più usato processi di depurazione sono: setacciatura sedimentazione con o senza additivi chimici flottazione dopo flocculazione e precipitazione filtrazione scambio ionico ossidazione osmosi inversa assorbimento distillazione neutralizzazione detossificazione processi biologici: trattamento aerobico e anaerobico Nell' installazione di sensori di misura per portate, livelli ed analisi è da porre la massima attenzione alla resistenza alla corrosione da agenti contenuti nei liquami quali acidi o basi.

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Se sono presenti pure idrocarburi e oli si devono controllare anche le guarnizioni e gli o-ring delle armature e delle parti in movimento. Ogni paese disciplina lo

sversamento di reflui in acque pubbliche secondo proprie prescrizioni che includono, a seconda della tipologia produttiva: metalli pesanti, COD, ittiotossicità, temperatura, pH, cloro attivo, Redox, indice di fenolo, idrocarburi da campione omogeneo non sedimentabile, azoto da nitrati ed una lunga serie di altri parametri.

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MICROBIOLOGIA INDUSTRIALE

L’uso biotecnologico dei microrganismi ha radici antichissime, in particolare per le cosiddette biotecnologie classiche che sfruttano i microrganismi per la trasformazione spontanea delle materie prime alimentari. Fanno parte di questo vasto e ormai antico insieme di utilizzi la fermentazione di succhi zuccherini ottenuti da frutta, la produzione di aceto, di diversi tipi di latte fermentato e di formaggi.

L’identificazione degli agenti responsabili di tali processi è all’origine delle moderne biotecnologie, sistemi di trasformazione pilotati e controllati che hanno avuto un vorticoso sviluppo nel corso degli ultimi due secoli. Uno degli esempi più significativi in questo senso è costituito dalla messa a punto del processo di produzione della birra: solo nel 1883, Emil Christian Hansen presso la Carlsberg in Danimarca, ha allestito il processo di birrificazione impiegando per la prima volta una coltura pura di un ceppo di lievito, segnando una decisa evoluzione per una produzione dalle radici molto antiche, risalenti già ai Sumeri.

Poco prima di Hansen, nel 1846, era già stato messo a punto, in Austria, il processo di produzione di lievito da impiegare specificatamente nella panificazione. Tuttavia, sono le ricerche di Louis Pasteur sulla fermentazione lattica e alcolica a essere considerate come pietra miliare per la nascita della microbiologia industriale. Con i suoi studi Pasteur dimostrò che la produzione di vino, birra e altri processi fermentativi sono di origine microbica e non processi chimici. Tuttavia, solo alla fine del XIX sec. si è passati da processi condotti in sistemi non isolati (vale a dire non sterili), a processi realizzati in condizioni controllate (in sterilità). In seguito, tra il 1900 e il 1940, sono stati messi a punto processi che hanno consentito di ottenere numerosi prodotti su larga scala, quali i solventi acetone e butanolo e gli acidi organici (in particolare l’acido citrico).

A partire dagli anni della Seconda guerra mondiale, le biotecnologie sono state protagoniste dello sviluppo dei processi di produzione industriale di penicillina e altri antibiotici, mentre dagli anni Ottanta del Novecento l’interesse commerciale dei processi fermentativi si è spostato verso piccoli volumi di prodotti ad alto valore aggiunto, in particolare alcune molecole ad attività biologica da impiegare per la prevenzione o la cura di diverse patologie. Inoltre, grazie a tecniche genetiche è stato possibile modificare microrganismi allo scopo di ottenere molecole normalmente prodotte dalle cellule animali, quali l’insulina, l’ormone della crescita, l’interferone e così via. Le applicazioni di tali tecnologie hanno avuto un impatto importante sull’industria fermentativa, rappresentando un deciso cambiamento qualitativo, poiché non sarebbe stato possibile raggiungere questi risultati con le tecniche tradizionali.

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I prodotti della microbiologia industriale

L’applicazione tecnologica deliberata e controllata di agenti biologici semplici, quali i microrganismi o loro componenti, consente di ottenere beni e servizi, grazie all’integrazione di discipline tecnologiche e scientifiche.

L’ampia eterogeneità del metabolismo microbico rende potenzialmente possibile ottenere un’ampia gamma di prodotti. Sfruttando il metabolismo anaerobico è, per esempio possibile ottenere prodotti accumulati spontaneamente dalle cellule microbiche, quali gli acidi lattico, propionico e butirrico. Diverso significato hanno invece i prodotti del metabolismo aerobico, che occupano una posizione importante nel mercato dei prodotti ottenibili da microrganismi. A questa classe appartengono prodotti molto diversi tra loro, ottenibili sia dal metabolismo microbico primario, sia dal metabolismo secondario biosintetico.

I prodotti del metabolismo primario, essenziali per la vita e la riproduzione della cellula, possono essere suddivisi in diverse classi in funzione delle loro caratteristiche. Tra questi prodotti sono comprese le stesse cellule e i loro costituenti, nonché gli intermedi metabolici, che possono essere prodotti in eccesso rispetto alle esigenze fisiologiche e accumulati all’interno o all’esterno della cellula. I prodotti ottenibili dal metabolismo secondario, che non sono invece essenziali per lo sviluppo e la riproduzione cellulare, sono generalmente accumulati all’esterno della cellula e non sempre hanno un chiaro significato metabolico o una funzione a livello cellulare.

Biomasse microbiche

La classe di prodotti più facilmente ottenibile è costituita dalle biomasse cellulari, risultato di reazioni degradative-energetiche (catabolismo) e assimilative-biosintetiche (anabolismo), ottenute in funzione del loro contenuto o della loro attività. Le biomasse microbiche vengono utilizzate integralmente per l’alimentazione animale o come integratori dietetici per l’uomo, per il loro contenuto in proteine, vitamine e sali minerali, e sono ottenute grazie all’impiego, come substrati di sottoprodotti del settore agro-industriale o di surplus agricoli. Le biomasse microbiche possono costituire una valida alternativa alle fonti proteiche convenzionali, in quanto caratterizzate da un contenuto proteico sulla sostanza secca del 50÷80% nei batteri, 45÷60% nei lieviti, 30÷55% nelle muffe e 45÷60% nelle alghe.

Esempi di biomasse ottenibili con processi microbiologici e impiegabili per l’alimentazione animale sono rappresentati da Candida utilis (lievito) da substrati zuccherini, Methylococcus capsulatus (batterio) da gas naturale, Paecilomyces variotii (muffa) da liscivio solfitico, residuo della lavorazione del legname. Tra le biomasse microbiche utilizzate per l’alimentazione umana troviamo Saccharomyces cerevisiae, impiegabile come integratore in virtù del suo contenuto di sali minerali e

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vitamine del gruppo B, i funghi a carpoforo e la biomassa ottenibile dal processo QuornTM.

La messa a punto del processo per la produzione di funghi a carpoforo (comunemente conosciuti come funghi), a partire dalla fine del XVII sec. in Francia, ha consentito di ottenere prodotti quali Agaricus bisporus, compresa la varietà hortensis (commercialmente conosciuti come champignon), Pleurotus ostreatus (orecchietta), Lentinula edodes (conosciuto come shiitake), Volvariella volvacea (fungo cinese). Per altri generi simbionti quali le specie di Boletus (che comprende anche il porcino) e di Tuber (funghi ipogei, meglio conosciuti come tartufi), approfondite ricerche hanno permesso di individuare i rapporti intercorrenti tra fungo e piante, consentendo di riprodurre i processi naturali grazie a protocolli di infezione delle radici di specifiche piante con le spore fungine. Tali piante, in seguito messe a dimora, dovrebbero favorire lo sviluppo di funghi quali porcini e tartufi.

Nel processo QuornTM è stata messa a punto la produzione di una biomassa fungina per alimentazione umana da un ceppo di Fusarium venenatum, impiegabile come fonte di proteine in alternativa alla carne. Privi di colesterolo, i prodotti a base di questa micoproteina sono commercializzati in alcuni Paesi, proposti in forme che ricordano l’aspetto della carne, grazie al fatto che la struttura microfilamentosa allineata ne simula le fibre.

Per estrazione da biomasse microbiche possono essere inoltre ottenuti metaboliti diversi, quali lisati cellulari (per es., proteico-vitaminici), enzimi, lipidi, acidi nucleici e loro derivati, impiegabili nei settori alimentare e farmaceutico.

Le biomasse microbiche possono essere anche prodotte e impiegate in forma vitale per la loro attività svolta in ambienti complessi, quali quelli del settore alimentare, o in biotrasformazioni su substrati specifici. Una delle principali applicazioni è costituita dalla produzione di Saccharomyces cerevisiae, lievito impiegato nella panificazione per la sua peculiare capacità fermentativa. Occorre inoltre ricordare le colture starter impiegate in numerose produzioni alimentari, quali il settore caseario e l’enologico, nonché le biomasse applicate in agricoltura (colture azotofissatrici e insetticide).

Metaboliti primari

A questa classe appartengono i prodotti finali o intermedi del metabolismo energetico, che vengono prevalentemente riversati all’esterno della cellula, nel mezzo colturale, dal quale avviene l’estrazione e la purificazione. Questi prodotti possono derivare dal metabolismo anaerobico, come prodotti finali, per esempio acido lattico da Lactobacillus, acido propionico da Propionibacterium e acido butirrico da Clostridium. Per il ruolo che ricoprono a livello metabolico, questi prodotti sono accumulati spontaneamente, anche in concentrazioni significative: il Lactobacillus

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delbrüeckii, ssp. bulgaricus, per esempio, può produrre acido L-lattico con una concentrazione di 130÷140 g di acido per litro di coltura.

Altri acidi organici, per esempio l’acido citrico, sono invece ottenibili dal metabolismo aerobico, direttamente come intermedi del ciclo degli acidi tricarbossilici TCA (o ciclo di Krebs). Altri ancora, come l’acido itaconico, sono sintetizzati a partire da intermedi quali il cis-aconitato. Gli intermedi del ciclo del TCA non sono tuttavia spontaneamente accumulati dalla cellula. Occorre pertanto intervenire a livello dei sistemi di controllo, in particolare sulla sintesi e sull’attività di enzimi specifici, che vanno incontro a meccanismi di inibizione/repressione da feedback operata dal prodotto. Nell’ambito degli intermedi del TCA è importante la produzione di acido citrico (120÷150 g di acido citrico per litro di coltura) ottenibile dalla muffa Aspergillus niger, impiegando substrati carboidratici, e dal lievito Yarrowia lipolytica, impiegando n-alcani. A questa classe di prodotti appartiene anche l’etanolo, metabolita ottenibile per fermentazione di substrati zuccherini (in prevalenza residui agro-industriali o surplus agricoli), impiegando in prevalenza il lievito Saccaharomyces cerevisiae. In questo caso, il processo fermentativo costituisce una via alternativa a quella chimica; l’etanolo è infatti ottenibile anche per ossidazione dell’etilene. Per questo prodotto, il vantaggio della via fermentativa rispetto a quella chimica, è dovuto al costo della materia prima di partenza, che incide in misura significativa sui costi totali di processo.

Anche gli amminoacidi appartengono alla classe di metaboliti primari ottenibili da microrganismi, con procedure sviluppate in alternativa all’isolamento da proteine. Molte specie appartenenti ai corinebatteri sono in grado di produrre amminoacidi, in particolare ceppi mutanti appartenenti ai generi Corynebacterium e Flavobacterium. La via microbiologica è oggi potenzialmente sfruttabile per la produzione della maggior parte degli amminoacidi, anche se non per tutti è stato messo a punto il processo produttivo su larga scala. Tra quelli prodotti industrialmente da microrganismi, spiccano l’acido glutammico e la lisina, le cui produzioni sono localizzate soprattutto nell’Est asiatico (Giappone, Corea e Taiwan).

L’acido glutammico è ottenuto impiegando ceppi batterici quali Corynebacterium glutamicum e Flavobacterium flavum, per azione di una specifica deidrogenasi che agisce sull’acido α-chetoglutarico, intermedio del ciclo dei TCA. Da questi stessi ceppi batterici può essere ottenuta la lisina, prodotta in alternativa da Enterobacter aerogenes, per trasformazione del precursore acido diamminopimelico, ottenibile a sua volta da Escherichia coli.

Enzimi

In diversi settori industriali gli enzimi rappresentano una valida alternativa alla catalisi chimica. L’amilasi è stato il primo enzima prodotto industrialmente, negli Stati Uniti. Anche per gli enzimi, l’eterogeneità del metabolismo microbico e l’ampia variabilità tra i diversi generi e specie sono alla base della potenzialità di sviluppo dei

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processi per l’ottenimento di enzimi con specifiche attività catalitiche. In particolare, le principali applicazioni industriali delle attività enzimatiche sono nel settore dei detergenti, in quello lattiero-caseario e nell’idrolisi dell’amido.

Il principale ruolo commerciale tra gli enzimi è detenuto dalla produzione di idrolasi, in particolare amilasi e proteasi. Le amilasi di origine microbica attualmente disponibili sono in prevalenza di origine batterica (da ceppi di diverse specie del genere Bacillus quali B. subtilis, B. amyloliquefaciens, B. stearothermophilus, B. licheniformis) e fungina (da molti generi tra i quali Aspergillus, Penicillium, Mucor e Rhizopus). In funzione del tipo di attività svolta dalle amilasi sull’amido, si possono ottenere prodotti diversi quali destrine, maltosio e glucosio. La produzione di sciroppi di glucosio a partire dall’amido costituisce la principale applicazione delle amilasi.

Anche le proteasi, che detengono circa il 60% del mercato degli enzimi, sono prodotte a partire da ceppi batterici e fungini. Le principali proteasi microbiche appartengono alle classi alcaline e acide, con le prime ottenute da molte specie batteriche del genere Bacillus (B. licheniformis, B. lentus, B. alcalophilus, B. megaterium ecc.) e utilizzate principalmente nel settore dei detergenti. Alla classe delle proteasi acide appartiene invece la rennina, endoproteasi ottenibile da ceppi fungini di Cryphonectria parasitica, Rhizomucor miehei e Rhizomucor pusillus, impiegata nel settore caseario per la produzione di formaggi, in sostituzione del caglio animale, tradizionalmente ottenuto dallo stomaco (abomaso) di vitelli o ovicaprini lattanti.

Tra le altre idrolasi extracellulari ottenibili a livello industriale da microrganismi vanno inoltre ricordate le lipasi, le emicellulasi e le cellulasi.

Le disaccaridasi ottenibili da ceppi di lievito sono classificate come enzimi ‘di parete’, in quanto sono localizzate a livello del periplasma, struttura cellulare compresa tra parete e membrana. Appartengono a questo gruppo di enzimi la lattasi (β-galattosidasi) ottenibile da specie del genere Kluyveromyces per l’idrolisi del lattosio, e l’invertasi (β-fruttofuranosidasi) da Saccharomyces cerevisiae per l’idrolisi del saccarosio. Entrambe queste disaccaridasi, che trovano largo impiego nel settore alimentare, possono essere ottenute alternativamente in forma extracellulare da ceppi di Aspergillus.

Anche gli enzimi non idrolitici, responsabili di attività molto eterogenee, sono ottenuti su larga scala da microrganismi. Gli esempi più significativi sono rappresentati dalla glucosio ossidasi, ottenibile da ceppi di Aspergillus niger e Penicillium, utilizzata nel settore diagnostico, e la glucosio e xilosio isomerasi, da Bacillus coagulans e Streptomyces, per la produzione di fruttosio a partire da glucosio.

Un settore emergente è quello relativo alla produzione di enzimi coinvolti nella sintesi di molecole ad alto valore aggiunto nei settori chimico, alimentare e

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farmaceutico. Un esempio significativo è costituito dalle attività enzimatiche responsabili della sintesi di specifici enantiomeri o la risoluzione di miscele racemiche.

Metaboliti secondari

I metaboliti secondari, definiti anche prodotti di biosintesi, derivanti da meccanismi di sintesi microbica, sono prodotti molto eterogenei dal punto di vista della struttura chimica e delle funzioni a livello cellulare. La sintesi di tali prodotti avviene generalmente a partire da metaboliti primari o loro intermedi, attraverso vie metaboliche in alcuni casi molto complesse. A tale classe appartengono prodotti ad attività biologica quali antimicrobici, immunomodulanti, antitumorali, inibitori di specifiche attività enzimatiche e promotori della crescita.

Numerosi processi sono stati sviluppati su larga scala, e un esempio significativo è rappresentato dagli antibiotici ottenibili da ceppi batterici e fungini. Tra questi occorre ricordare la penicillina, il primo antibiotico disponibile: scoperta da Alexander Fleming nel 1928, solo intorno agli anni Quaranta del secolo scorso è stata utilizzata per la prima volta contro le infezioni batteriche, mentre la sua produzione su larga scala si è sviluppata negli Stati Uniti a partire dal 1943.

Dalla scoperta di questo primo antibiotico ad oggi sono state caratterizzate circa 4000 molecole, ma solo per una piccola parte (non più di 50) sono stati sviluppati processi e applicazioni su larga scala. Le ragioni che hanno limitato lo sviluppo della produzione di gran parte delle molecole caratterizzate a livello di ricerca sono generalmente legate all’attività esplicata in rapporto agli effetti secondari (in particolare quelli legati ai meccanismi di tossicità), nonché ai costi di produzione. La ricerca riguardante le molecole ad attività biologica è tutt’ora in corso ed è finalizzata all’individuazione di nuovi prodotti o alla modificazione di quelli esistenti, così da ottenere antibiotici con minore tossicità e uno spettro di attività più ampio, tenendo in considerazione anche l’aumento dei ceppi microbici resistenti.

La tossicità di tale classe di metaboliti è correlata al meccanismo d’azione: tanto più il meccanismo è specifico per le cellule microbiche (per es., attività esplicata a livello della parete cellulare), tanto più bassi saranno gli effetti di tossicità sull’uomo. Quando invece il meccanismo d’azione è basato sull’interferenza in processi comuni ai microrganismi e all’uomo (per es., sintesi proteica, replicazione degli acidi nucleici, alterazione della membrana plasmatica ecc.), gli effetti tossici possono essere anche importanti.

Gli antibiotici β-lattamici, in particolare penicilline e cefalosporine, ottenibili da muffe, sono tra gli antibiotici più conosciuti. Relativamente alla classe delle penicilline, prodotte da ceppi di Penicillium chrysogenum, e delle cefalosporine, ottenibili da Acremonium chrysogenum, particolare importanza hanno assunto i derivati di semisintesi, in relazione all’ampio spettro di attività. Tali derivati sono

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attualmente ottenuti per modificazione, tramite un processo chimico-enzimatico, delle penicilline e cefalosporine naturali, ottenute in precedenza da microrganismi: da qui nasce il termine semisintesi.

Dopo le penicilline e le cefalosporine, le tetracicline sono tra gli antibiotici più usati. Il primo antibiotico di questa classe a essere isolato è stata la clorotetraciclina ottenuta nel 1945 da Streptomyces aureofaciens. Allo stesso genere appartengono le diverse specie batteriche produttrici di questa tipologia di antibiotico.

Molti altri antibiotici utilizzati in medicina sono di origine microbiologica. Tra gli antibatterici si possono citare la streptomicina, da Streptomyces griseus; la bacitracina, da Bacillus subtilis; la polimixina, da Paenibacillus polymyxa; la neomicina, da Streptomyces fradiae. La vancomicina, ottenibile da Amycoplanes orientalis, all’inizio è stata impiegata limitatamente alle infezioni da batteri gram-positivi, ma più recentemente ha conosciuto un crescente interesse, per la sua attività nei confronti di ceppi resistenti ad altri antibiotici. I principali antifungini sono ottenibili da ceppi di Streptomyces quali la nistatina da S. noursei e l’amfotericina B da S. nodosus.

Tra gli altri metaboliti secondari ad attività biologica, inibitori di specifiche attività enzimatiche, particolare interesse presentano le statine, molecole ad attività anticolesterolemica ottenibili da ceppi fungini di Aspergillus terreus e specie del genere Monascus, quali M. ruber e M. anka.

In tempi più recenti, altre classi di prodotti quali antitumorali, antivirali, immunosoppressivi sono risultati disponibili in relazione a nuove strategie di ricerca, associate a crescenti esigenze terapeutiche. Tra queste un ruolo importante ha la ciclosporina A ottenuta dal ceppo fungino Tolypocladium inflatum, la cui attività immunosoppressiva è stata evidenziata negli anni Settanta del XX sec., e ha trovato largo impiego nelle terapie antirigetto che seguono i trapianti di organi.

Prodotti complessi

Una classe particolare è costituita dai prodotti della microbiologia industriale cosiddetti complessi, poiché è impossibile isolare il prodotto, costituito dal substrato trasformato e, nella maggior parte dei casi, dai microrganismi responsabili della modificazione. Tali prodotti, ottenuti in processi sviluppati a partire da tecnologie tradizionali, appartengono in larga misura al settore alimentare quali il lattiero-caseario, quello delle bevande alcoliche e dei vegetali fermentati.

I batteri lattici trovano numerose applicazioni industriali per la produzione di diversi tipi di latte fermentato e formaggi. Lo yogurt è il principale latte fermentato termofilo ottenuto per l’azione sinergica, sul substrato (il latte), di Streptococcus thermophilus e Lactobacillus delbrueckii ssp. bulgaricus. Lo yogurt è caratterizzato non solo dalla trasformazione del lattosio in acido lattico, ma anche dalla presenza di una serie di

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metaboliti dovuti alla fermentazione batterica, che conferiscono al prodotto caratteristiche organolettiche univoche. Prodotti tradizionali basati sull’impiego di batteri lattici per la produzione di prodotti analoghi allo yogurt sono diffusi in tutto il mondo, ottenuti dall’uomo sin da tempi remoti, mediante l’uso di tecnologie tradizionali finalizzate alla trasformazione del latte, prodotto deperibile, in un alimento maggiormente conservabile.

L’uso dei batteri lattici mesofili nella trasformazione dei vegetali, appartenenti ai generi Leuconostoc, Lactobacillus e Pediococcus, è antico ed è alla base di tecnologie per l’ottenimento di prodotti quali, per esempio, crauti, olive, cetrioli e foraggi insilati. In tali prodotti, il contributo del metabolismo microbico produce modificazioni significative del substrato, impedendo l’instaurarsi di fenomeni putrefattivi e rendendo il prodotto conservabile. Un esempio storico è costituito dai crauti, ottenuti per fermentazione del cavolo operata da batteri lattici, con produzione di un alimento ricco in vitamine (e particolarmente la vitamina C), dunque molto utile in passato per la prevenzione dello scorbuto.

Anche la produzione di bevande alcoliche ha radi-ci antichissime, documentata in tutte le aree geografiche. La fermentazione è stata da sempre condotta, impiegando tecnologie tradizionali, a partire da succhi zuccherini da frutti, miele o amido di cereali pretrattati. In alcuni casi i prodotti sono utilizzati in tem-pi brevi dalla loro produzione (per es., birra), ma più frequentemente dopo un periodo relativamente lungo di conservazione, in cui il prodotto subisce significative modificazioni delle caratteristiche organolettiche, come il vino. I microrganismi coinvolti nella produzione di bevande alcoliche sono sostanzialmente ceppi di lievito, in coltura pura selezionata (birra) o mista di origine naturale (vino). Il genere più rappresentato è Saccharomyces, responsabile della fermentazione alcolica, processo basato sulla trasformazione di zuccheri semplici in etanolo e anidride carbonica.

La birra è ottenuta per fermentazione, a partire prevalentemente da orzo e in misura minore da altri cereali, preceduta da maltizzazione, procedura in cui si ha la trasformazione dell’amido in zuccheri fermentabili. Tale passaggio è indispensabile in quanto i ceppi di Saccharomyces non sono in grado di utilizzare direttamente l’amido. I ceppi coinvolti in tale processo appartengono al genere Saccharomyces, in particolare alle specie S. cerevisiae (fermentazione alta, 15÷23 °C) e S. pastorianus (fermentazione bassa, 8÷15 °C). Le caratteristiche organolettiche di questo prodotto sono dovute non solo al metabolismo microbico, ma anche alla presenza del luppolo, infiorescenza addizionata nel corso del processo con la finalità di fornire alla birra la nota amaricante.

Va inoltre ricordata, per i settori enologico e caseario, la produzione di biomasse selezionate in funzione di specifiche attività o caratteristiche, impiegabili come colture starter per la gestione di processi su larga scala, in condizioni controllate e standardizzate.

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Biotrasformazioni

Nei prodotti ottenuti per biotrasformazione viene sfruttata la capacità dei microrganismi di operare reazioni in definite molecole, in posizione specifica e in modalità stereoselettiva. Le applicazioni più avanzate di tale approccio hanno portato in alcuni casi allo sviluppo di processi che prevedono l’impiego di microrganismi immobilizzati. I prodotti ottenibili per biotrasformazione sono eterogenei, dall’acido gluconico (ottenuto per ossidazione diretta e selettiva del glucosio, per azione dell’enzi-ma glucosio ossidasi, in posizione C1, a opera di ceppi fungini di Aspergillus niger, o batterici di Gluconobactersuboxydans) a prodotti ad alto valore aggiunto, quali steroidi e alcuni antibiotici per uso terapeutico. Gli steroidi sono impiegati per trattamenti quali allergie, infiammazioni, contraccettivi orali, e sono prodotti in prevalenza con ceppi di muffe appartenenti ai generi Rhizopus, Curvularia, Fusarium e Aspergillus.

DNA ricombinante

Più recenti sono i processi che sfruttano le tecnologie di ingegneria genetica basate sul DNA ricombinante. Alcuni di questi prodotti sono ottenuti da ceppi microbici in cui è stato inserito materiale genetico proveniente da cellule animali. È il caso relativo alla produzione di molecole quali l’insulina, l’interferone e l’ormone della crescita (somatotropina o GH, Growth hormone), ottenibili da diversi ceppi modificati e appartenenti alla specie Escherichia coli.

Tra gli esempi applicati si possono citare i ceppi modificati di Saccharomyces cerevisiae utilizzati per la produzione di vaccino per l’epatite B e insulina, la chimosina (enzima utilizzabile nel settore lattiero-caseario ottenuta da Kluyveromyces marxianus var. lactis) e la vitamina riboflavina da Bacillus subtilis.

L’ottenimento tramite tecniche genetiche di tali metaboliti, in alcuni casi alternativo all’estrazione da organi o cadaveri, ha reso disponibili prodotti con caratteristiche chimico-strutturali costanti e definite e in quantità adeguate alle richieste di mercato. Tale approccio ha inoltre posto i soggetti, trattati con molecole ottenute con le tecnologie del DNA ricombinante, al riparo dai rischi di contaminazione da agenti virali o prioni, potenzialmente presenti nei derivati ottenuti per estrazione da organi, come si è verificato in passato per l’ormone della crescita.

I substrati utilizzati nei processi microbiologici

A livello industriale l’economicità dei processi microbiologici è condizionata dall’impiego di substrati adeguati. I costi legati al terreno di coltura possono infatti raggiungere il 50÷70% del costo totale del processo, come nel caso della produzione delle biomasse microbiche usate per i mangimi. I terreni colturali utilizzati in laboratorio sono generalmente costituiti da ingredienti con composizione nota e in forma pura, mentre quelli di uso industriale sono formulati impiegando materie prime

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grezze, frequentemente residui del settore agro-industriale o surplus agricoli, eventualmente pretrattati (per es., idrolizzati, chiarificati ecc.).

La formulazione di un terreno colturale deve comprendere una fonte di carbonio ed energia, una fonte di azoto, oltre a eventuali sali minerali e vitamine o, più in generale, fattori di crescita, nelle giuste proporzioni non solo per le esigenze di sviluppo del microrganismo, ma anche per la biosintesi dei metaboliti desiderati.

Il melasso residuo dell’estrazione del saccarosio dalla canna da zucchero o dalla barbabietola costituisce un esempio di fonte di carbonio tradizionalmente impiegata in numerosi processi industriali (per es., produzione di lievito da pane, etanolo, acido glutammico ecc.). Tale materia prima grezza si presenta come sciroppo viscoso, di colore bruno, contenente circa il 50÷60% di zuccheri (prevalentemente saccarosio) sulla sostanza secca, a seconda della fonte vegetale e del processo estrattivo utilizzato. In molti processi il melasso è stato tuttavia sostituito dall’impiego di sciroppi di glucosio ottenuti per idrolisi enzimatica dell’amido proveniente da fonti diverse (mais, patata ecc.). Altri esempi di fonti di carbonio in forma grezza sono costituiti dal siero di latte (contenente lattosio, sottoprodotto del settore caseario), orzo maltizzato, amido e maltodestrine, cellulosa e liscivio solfitico (residuo del processo di produzione della cellulosa da legname). Tra le fonti non carboidratiche si possono ricordare gli idrocarburi gassosi, gli alcoli, gli alcani e gli oli.

Le più semplici fonti di azoto utilizzate a livello industriale sono i sali di ammonio (per es., cloruri e solfati), impiegabili solo con i microrganismi in grado di utilizzare fonti inorganiche. Tra le materie prime grezze, di tipo organico, trovano largo impiego il corn steep (acqua di macerazione residua del pretrattamento nel processo di produzione dell’amido da mais) e le farine di semi di oleaginose (residui dell’estrazione di olio da mais, soia, arachide ecc.).

I peptoni di origine sia vegetale sia animale, nonché l’estratto di lievito e gli idrolizzati di caseina, in teoria fonti di azoto, vengono utilizzati industrialmente solo in quantità moderata, come fonti di vitamine o fattori di crescita a causa dei costi relativamente elevati. Occorre inoltre ricordare che l’acqua rappresenta un ingrediente fondamentale, poiché la sua composizione minerale può influenzare il processo industriale. Un esempio rilevante è costituito dalla produzione della birra, in cui dalle caratteristiche dell’acqua dipendono in larga misura le caratteristiche finali del prodotto. In altri casi, dalla presenza/assenza di specifici ioni può dipendere l’attivazione/inibizione di enzimi che esplicano un ruolo chiave nelle vie metaboliche che portano all’accumulo dei metaboliti desiderati.

Aspetti tecnologici

I processi della microbiologia industriale avvengono soprattutto all’interno di fermentatori (o bioreattori), il cui sviluppo tecnologico ha consentito significativi progressi nell’ambito della microbiologia applicata. Il bioreattore è un reattore

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(generalmente verticale) che nasce e si evolve a partire dagli analoghi impianti utilizzati in chimica, la cui applicazione industriale è precedente rispetto alla microbiologia.

Le caratteristiche tecnologiche dell’impianto, e in particolare del bioreattore, dipendono dal metabolismo del microrganismo coinvolto, che a seconda della fisiologia può richiedere condizioni aerobiche o anaerobiche. Le dimensioni del bioreattore, operante nella maggior parte dei processi in condizioni di sterilità, variano in funzione del processo, e vanno da qualche decina di m3 (per es., produzione di alcuni biofarmaci) fino a 1000 m3 (per es., produzione di etanolo). Nella parte alta del bioreattore (testata) sono posizionate diverse entrate e uscite, controllate da elettrovalvole. Le entrate sono necessarie per l’inoculo della coltura ed eventuali addizioni (nutriliti, correttori di pH, agenti antischiuma ecc.) nel corso del processo. Le uscite sono impiegate per l’aria esausta ed eventuali prelievi di coltura effettuati nel tempo per monitorare il processo (fig. 6).

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I bioreattori sono inoltre dotati di dispositivi (elettrodi) per il controllo delle diverse variabili di processo quali temperatura, pH, formazione di schiuma, concentrazione di nutriliti, metaboliti e cellule. Solo alcune di queste variabili quali temperatura, pH, flusso e pressione d’aria sono sempre misurate e/o regolate, mentre altre lo sono in relazione al tipo di processo. I dispositivi per la misura e la regolazione delle variabili, che interessano un processo microbiologico, un tempo semplici accessori meccanici, sono stati sostituiti da complessi sistemi elettronici, generalmente gestiti via computer.

La temperatura all’interno del bioreattore è mantenuta a livelli ottimali in relazione alle esigenze del microrganismo, mediante dispositivi interni o esterni. Il sistema a serpentino interno, tecnologia tradizionale messa a punto con lo sviluppo tecnologico dei primi bioreattori, presenta problemi tecnici, non solo in termini di efficienza, ma anche relativamente alla normale manutenzione o in seguito a cattivo funzionamento (o foratura) del circuito, in quanto la posizione all’interno del reattore ne rende difficile l’ispezione e l’eventuale riparazione. Tra i sistemi esterni, il cosiddetto a camicia, è formato da un’intercapedine che avvolge il bioreattore, in cui circola acqua a un’adeguata temperatura. Pur superando le limitazioni dei dispositivi interni, questo sistema presenta l’inconveniente di una limitata superficie specifica (superficie di scambio di calore in rapporto al volume del bioreattore e quindi della coltura), che ne condiziona l’efficienza nel caso dei bioreattori di grosse dimensioni e nel caso di processi fortemente esotermici.

Le limitazioni dovute ai sistemi più tradizionali di controllo e regolazione della temperatura sono state superate grazie all’impiego di scambiatori di calore esterni. Lo scambiatore a piastre, oltre a presentare i vantaggi di un dispositivo esterno (facilità di ispezione e manutenzione), presenta un’alta efficienza nei riflessi dello scambio di calore. Questi impianti sono tecnologicamente analoghi a quelli utilizzati in altri settori industriali, come per esempio, la produzione di latte sterilizzato (UHT).

Un sistema fermentativo, tranne alcune eccezioni (per es., i processi di produzione di bevande alcoliche), è generalmente mantenuto in agitazione per rendere omogeneo l’ambiente, evitando la formazione di gradienti relativi non solo alla temperatura, ma anche alla biomassa cellulare, ai nutriliti e ai gas. I dispositivi di agitazione hanno diverso design in funzione delle caratteristiche del processo, in particolare della macromorfologia cellulare. Il dispositivo di agitazione è costituito dal motore e da un albero motore a cui sono ancorate le giranti. Tra gli agitatori veloci, caratterizzati da un rapporto diametro agitatore/diametro reattore compreso nell’intervallo 0,2÷0,4 e impiegabili con microrganismi unicellulari (per es., lieviti e la maggior parte dei batteri), i più diffusi sono quelli a elica marina, a palette e a turbina (la turbina Rushton è la più diffusa). Tra gli agitatori lenti, caratterizzati da un rapporto diametro agitatore/diametro reattore compreso tra 0,8 e 1 e impiegabili con microrganismi miceliari (per es., muffe e alcuni batteri), i più diffusi sono quelli a gabbia, ad ancora e a vite senza fine.

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Nei processi aerobici l’agitazione esplica un ruolo di primaria importanza in rapporto alla dispersione uniforme della fase gassosa (aria), in tutta la coltura, condizione fondamentale per il costante apporto di ossigeno alle cellule microbiche. Dall’accoppiata aerazione-agitazione può dipendere l’andamento del processo: in particolare, i livelli di ossigeno disciolto devono essere attentamente monitorati, al fine di evitare che si instauri una concentrazione di ossigeno che può condizionare la velocità delle reazioni metaboliche e conseguentemente l’intero processo. A tal fine l’aria atmosferica è immessa nel bioreattore utilizzando quella parte dell’impianto identificata come ‘linea dell’aria’. L’ossigeno necessario per il metabolismo cellulare è rifornito alla coltura come aria, che è prelevata dall’atmosfera e compressa, in quanto la sovrappressione costituisce la forza motrice in base alla quale l’aria viene non solo convogliata all’interno del bioreattore, previa sterilizzazione per filtrazione, ma risulta anche in grado di vincere la pressione idrostatica dovuta alla coltura. Occorre, infatti, che le bolle di aria, distribuite alla base del bioreattore, attraverso un sistema di distribuzione (sparger), siano in grado di risalire all’interno della coltura, fino alla superficie, cedendo nel cammino l’ossigeno e recuperando l’anidride carbonica risultante dal metabolismo cellulare.

Relativamente all’evoluzione tecnologica dei bioreattori, occorre ricordare che la maggior parte dei nuovi prodotti, in particolare le molecole ad attività biologica (biofarmaci), sono generalmente ottenuti in processi aerobici. È per tale ragione che si è assistito prevalentemente allo sviluppo di bioreattori per colture aerobiche, con nuove caratteristiche. In tale contesto, sono stati messi a punto reattori privi di agitazione meccanica (reattori non convenzionali) che, a fronte di una maggiore efficienza di processo, relativamente al trasferimento di massa e calore, presentano un minor assorbimento energetico, rispetto al tradizionale bioreattore convenzionale ad agitazione meccanica. Tuttavia, a oggi, il bioreattore tradizionale, conosciuto come Stirred tank reactor (STR), è ancora molto diffuso.

Tra i reattori non convenzionali di nuova concezione vengono annoverati i reattori a circolazione, così definiti poiché la brodocoltura e la fase gassosa ricircolano nel bioreattore con moti paralleli, come diretta conseguenza della risalita dell’aria (bioreattore air lift). Tali bioreattori sono caratterizzati da un efficiente effetto di agitazione e un basso tempo di mescolamento e non presentano parti interne rotanti, quale il sistema di agitazione meccanico, che può presentare problemi di tenuta.

Va inoltre considerato che la progettazione e la messa a punto di un bioreattore di produzione (risultato della sinergia tra ingegneri, microbiologi e biochimici, senza prescindere dagli aspetti economici) prevede solitamente una prima verifica sperimentale del processo su scala pilota, effettuata modulando opportunamente i parametri significativi e modificando le condizioni in base ai risultati ottenuti.

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STABILIZZAZIONE DEGLI ALIMENTI TRAMITE

TRATTAMENTI TERMICI

Il problema della conservazione degli alimenti è di enorme importanza per ragioni economiche, geografiche, politiche, climatiche, per l’incremento demografico e per il continuo aumento dell’urbanizzazione. Alcuni alimenti si mantengono inalterati per molti anni o indefinitamente. I cereali, in particolare, se sono protetti dai parassiti si alterano difficilmente, e per contrasto, la conservazione degli alimenti carnei è estremamente difficile poiché le proteine di cui sono ricchi rappresentano un ottimo substrato per molti microrganismi; particolarmente attivi sulle carni sono i germi putrefattivi che generalmente rendono tali alimenti inadatti al consumo. I problemi igienici inerenti alla lavorazione delle sostanze alimentari si riferiscono sia al rispetto delle norme di carattere generale (pulizia degli ambienti e delle persone), sia alla necessità di impedire che i microrganismi o parassiti dannosi per l’uomo invadano gli alimenti per i quali hanno particolare affinità. Conservare gli alimenti significa impedire o contrastare il naturale processo di decomposizione in cui va soggetto tutto ciò che proviene dal regno vegetale e animale, processo dell’irrancidimento dei grassi e dall’azione di microrganismi che si nutrono delle sostanze organiche componenti ogni prodotto vegetale e animale. Conservare significa anche eliminare questi microrganismi o inibirne la loro azione. La cottura è una pratica antichissima attuata per migliorare il gusto dei cibi, per sterilizzarli, per uccidere eventuali parassiti, per rendere i cibi talora più digeribili e per distruggere alcune sostanze tossiche eventualmente presenti. La sterilizzazione degli alimenti è un processo termico utilizzato soprattutto dall’industria alimentare, con una serie infinita di combinazioni tempo/temperatura in funzione dei singoli specifici problemi da risolvere, per conferire a prodotti in confezioni ermetiche conservabilità, stabilità e sicurezza dal punto di vista microbiologico. Il processo comporta l’eliminazione o l’inattivazione dei microrganismi e degli enzimi presenti, in grado di produrre modificazioni indesiderate. Col termine sterilizzazione si comprendono soprattutto quei trattamenti a temperature elevate (superiori ai 100 °C), in apparecchi sotto pressione detti autoclavi, applicati ai prodotti a più alto grado di pericolosità per la concomitanza di quattro circostanze: o Conservazione a temperatura ambiente; o Confezionamento in scatole, vasi o buste sottovuoto (anaerobiosi); o Bassa acidità (pH >4,5);

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o Valori elevati di attività dell’acqua (Aw > 0,94); Queste quattro condizioni, peraltro molto frequenti nelle conserve alimentari, sono quelle che consentono lo sviluppo di uno dei più temuti microrganismi, il Clostridium botulinum, capace di generare durante la riproduzione una neurotossina particolarmente tossica, spesso mortale; perciò le basi scientifiche della sterilizzazione fanno riferimento in prima istanza alla reazione al calore di tale batterio, o meglio delle sue spore, che costituiscono la forma assunta dalla cellula vegetativa per difendersi dalle condizioni avverse e proprio per questo particolarmente termoresistenti. I processi che sono impiegati tentano di norma di cogliere due obiettivi, la sicurezza microbiologica e la salvaguardia delle caratteristiche sensoriali e nutrizionali degli alimenti. Il raggiungimento di questi scopi è possibile applicando in modo rigoroso i principi scientifici che regolano l’inattivazione dei microrganismi, il procedere delle reazioni chimiche e i meccanismi di scambio termico. L’effetto del calore sui microrganismi si manifesta mediante la denaturazione delle proteine che distrugge l’attività enzimatica e il metabolismo controllato dagli enzimi nei microrganismi. Si definisce termoresistenza la capacità di sopravivenza dei microrganismi all’azione del calore. Un’unità microbica (cellula vegetativa, spora) si definisce inattivata quando non è più in grado di moltiplicarsi in ambienti idonei. Le spore batteriche sono le unità microbiche più resistenti alle condizioni ambientali e in generale al calore, alla pressione, ai campi elettrici ecc. La termoresistenza microbica è influenzata da: Ø Specie, ceppi, spore e cellule vegetative; Ø Età delle cellule, temperatura di crescita, substrato di crescita; Ø pH, Aw, tipo di alimento, Sali e altri composti organici e inorganici presenti; Lo Staphylococcus aureus è poco resistente, mentre l’Escherichia coli e le Salmonelle lo sono di più, le spore del Clostridium botulinum tipo E sono meno resistenti del tipo A. La resistenza termica della salmonella aumenta con l’abbassarsi del valore Aw, impiegando saccarosio per modificarla. Abbassando il ph, la termoresistenza generalmente diminuisce. I grassi in generale esercitano un effetto protettivo. Per calcolare l’effetto sterilizzante o letale da impartire a un alimento è necessario quindi individuare il microrganismo di riferimento. Nel caso del batterio patogeno più termoresistente e cioè il Clostridium botulinum si dovrebbe applicare un trattamento termico minimo di sicurezza pari a dodici riduzioni decimali, che con una concentrazione iniziale di (N1) di 103 spore/contenitore porterebbe a un valore finale (N2) di 10-9 spore/contenitore, ovvero la sopravvivenza di una spora su un miliardo

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di contenitori. La probabilità di sopravvivenza è necessaria per valutare la stabilizzazione microbiologica di un prodotto sterilizzato. Essa è espressa in termini di sterilità “commerciale”, ovvero l’assenza di microrganismi capaci di accrescersi nel prodotto specifico. Se nel prodotto può accrescersi un microrganismo patogeno, l’effetto sterilizzante del trattamento termico si considera adeguato se comporta 12-15 riduzioni decimali della popolazione microbica iniziale. Step per la definizione di un programma di sterilizzazione: 1. individuazione dei microrganismi da distruggere; 2. termoresistenza; 3. livelli di sopravvivenza accettabili; 4. microrganismo determinante; 5. effetto sterilizzante sufficiente; 6. curva di penetrazione del calore; 7. parametri di processo (tempo e temperatura); 8. controlli microbiologici, sensoriali, nutrizionali, valutazione della shelf life, valutazioni economiche; 9. fattori di sicurezza; 10. programma di sterilizzazione definitivo; Il confezionamento asettico Il confezionamento asettico è un procedimento che consiste nel riempimento di un contenitore sterile con un prodotto sterile, a temperatura ambiente, in un ambiente sterile. I trattamenti termici rapidi denominati HTST (High Temperature Short Time), consentono di impartire l’effetto sterilizzante voluto con il minimo danno termico alle caratteristiche nutrizionali e sensoriali degli alimenti. La sterilizzazione dei contenitori, infine, può essere eseguita con mezzi incompatibili con i prodotti alimentari (disinfettanti, raggi gamma, raggi U.V.). Per i prodotti costituiti da più fasi eterogenee, è possibile sterilizzare a parte i singoli componenti impiegando per ciascuno gli impianti e i trattamenti più adeguati, garantendo per tutti l’effetto sterilizzante necessario al conseguimento della sterilità commerciale. Questa possibilità rappresenta un notevole vantaggio dal punto di vista sensoriale quando non sono desiderati la mescolanza dei diversi componenti e il seguente trasferimento

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degli aromi. Sul mercato è reperibile una vasta gamma d’impianti industriali per la sterilizzazione termica di confezioni contenenti prodotti alimentari. In generale è fatta una distinzione tra impianti a bassa e alta temperatura. Si parla di pastorizzazione quando si opera con apparecchiature che lavorano a una temperatura variante attorno a 60÷85 °C per periodi di almeno 15’, dipende dalla natura dell’alimento, con acqua o vapore a pressione atmosferica. Questo trattamento deve il suo nome a Pasteur che, intorno al 1860, osservò come sottoponendo il vino alla temperatura di 60 °C per alcuni minuti, questo potesse essere conservato a lungo. La pastorizzazione distrugge la microflora dei liquidi organici anche oltre il 99%, controlla forme vegetative di lieviti, muffe, enzimi ma poiché non si raggiungono temperature sufficienti a devitalizzare i microrganismi termofili, né tantomeno le spore, l’alimento pastorizzato deve comunque essere conservato in condizioni atte a limitare lo sviluppo di questi microrganismi. Prodotti stabili nel tempo per frutti e alimenti acidificati, per gli altri conservazione di breve periodo in condizioni di refrigerazione. I prodotti conservano in pratica inalterate le proprietà fisiche chimiche e il gusto dei prodotti per un periodo differente in rapporto agli stessi. Sono impianti che normalmente sono impiegati per la stabilizzazione di prodotti con pH inferiore a 4,50 (succhi di frutta, sott’oli, sottaceti, derivati del pomodoro, vino, birra). La durata del trattamento dipende dalla natura dell’alimento: Pastorizzazione bassa: 60-65 °C 30’ utilizzata per vino, birra e latte per caseificazione; pastorizzazione alta 75-80 °C 2-3’; Pastorizzazione rapida 75-85 °C 15-20” utilizzata per il latte; Effetto delle elevate temperature sugli alimenti: - dal punto di vista nutrizionale, la sterilizzazione è meno vantaggiosa della pastorizzazione, poiché l’alta temperatura inattiva le vitamine e fa denaturare le proteine, idrolisi di carboidrati e lipidi; - colore i trattamenti termici portano a: Carni→ variazioni da ossimioglobina a meta mioglobina, reazione di Maillard (serie complesse di fenomeni che avviene a seguito dell’interazione con la cottura di zuccheri e proteine); I composti che si formano sono bruni e dal caratteristico odore di crosta di pane appena sfornato. Questa reazione può essere desiderata in certi alimenti “pane e prodotti da forno” ma in altri no. frutta e ortaggi clorofilla→feoftina carotenoidi→epossidi antocianine→pigmenti bruni (possibilità di usare coloranti). Flavour e aroma: carni in scatola: variazioni complesse (deaminazione e decarbossilazione)

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frutta e ortaggi: degradazione, ricombinazione e volatilizzazione di aldeidi, chetoni, zuccheri, ecc. latte: denaturazione proteine del siero con formazione di H2S; Consistenza e viscosità: Nelle carni le variazioni delle caratteristiche strutturali sono causate dalla coagulazione delle proteine e dalla perdita di capacità legante dell’acqua. (aggiunta di polifosfati) Nella frutta e ortaggi la perdita di consistenza è dovuta all’idrolisi delle pectine; (aggiunta di sali calcio).

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SICUREZZA ALIMENTARE E TRACCIABILITA' Norme e regolamenti

Negli ultimi anni stiamo assistendo, all’entrata nella Comunità Europea di nuovi paesi con sistemi economici concorrenti ed all’avanzamento dei mercati asiatici caratterizzati da produzioni a buon mercato; fattori che hanno determinato la necessità, per il nostro paese, di rivolgere maggiore attenzione a tutto ciò che determina e condiziona la competitività del sistema produttivo. In tale contesto nasce la necessità di dare sempre più risalto alle produzioni del “Made in Italy”, attraverso: la tutela del prodotto agroalimentare, che va “dal campo alla tavola” e la politica delle filiere ed il controllo igienico-sanitario a garanzia della sicurezza alimentare. La realizzazione di un Mercato Comune Europeo e l’attuazione del processo di liberalizzazione degli scambi commerciali intracomunitari, ha reso necessaria la definizione di principi e regole comuni capaci di regolare e garantire in modo univoco la qualità delle merci. Il Parlamento ed il Consiglio dell’Unione Europea, alla luce dell’analisi fatta dalla Commissione con la presentazione del “Libro Verde” sullo stato della sicurezza alimentare nell’Unione Europea e degli impegni assunti nel Libro Bianco del 12/01/2000, hanno prodotto una revisione della legislazione comunitaria relativa alla produzione, commercializzazione e controllo degli alimenti. Il primo atto normativo che ha ridisegnato l’intero quadro giuridico comunitario è stato il “Regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio n. 178/2002/CE” che stabilisce i principi e i requisiti generali della legislazione alimentare, istituisce l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (European Food Safety Authority - EFSA) e fissa procedure nel campo della sicurezza alimentare. L’applicazione delle recenti normative cogenti nel settore della sicurezza alimentare, Regg. 852, 853 e 854/2004 (“pacchetto igiene”) ha contribuito a delineare una nuova visione della sicurezza alimentare portando ad un approfondimento e ad una precisazione delle tematiche e delle modalità di applicazione del sistema di autocontrollo, secondo il metodo H.A.C.C.P. - Hazard Analysis and Critical Control Point - (D. Lgs. n. 193/07). I regolamenti prevedono un controllo lungo tutta la filiera produttiva e distributiva degli alimenti, allo scopo di garantirne la salubrità e le caratteristiche organolettiche e nutrizionali, a tutela del consumatore e del mercato. Garantire la sicurezza alimentare, considerando anche la produzione primaria significa applicare le norme in tutta la filiera agroalimentare e cioè ai diversi sistemi produttivi organizzativi e distributivi ed alla loro correlazione ed integrazione. Le parole “tracciabilità” e “rintracciabilità” sono di grandissima attualità sulla scena agroalimentare; e consentono di rispondere alle crescenti richieste di sicurezza alimentare da parte del consumatore e di individuare le responsabilità lungo la filiera. Sono strumenti per la competitività e la razionalizzazione dei sistemi produttivi e dei

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mezzi per la valorizzazione delle produzioni agroalimentari di qualità. Le norme che regolano la tracciabilità di filiera, vengono distinte in norme cogenti e volontarie. Per le imprese la tracciabilità è in primo luogo un efficace strumento di controllo della “qualità” nell’ambito della politica aziendale. Un sistema di tracciabilità supporta, infatti, efficacemente le aziende nei Sistemi di Gestione adottati volontariamente: ambientale UNI EN ISO 14001 ed EMAS, qualità di processo (UNI EN ISO 9001) e, inoltre, semplifica l’applicazione obbligatoria del metodo HACCP per la sicurezza alimentare. La tracciabilità può essere, in secondo luogo, un potente strumento di marketing, perché consente di valorizzare l’immagine dell’azienda e l’identità legata al territorio su cui essa opera. Utilizzando il “marchio di garanzia” (chi ottiene la certificazione di rintracciabilità può indicarlo sull’etichetta dei prodotti), le aziende possono ottenere un vantaggio competitivosulmercatoglobale.Elementidanontrascurare,pergarantirela qualità dei prodotti e della filiera a cui afferiscono, risultano, quindi essere, l’etichettatura ed in diretta corrispondenza il confezionamento e l’imballaggio.

Il mercato unico e il quadro normativo nella filiera agroalimentare La realizzazione di un mercato comune europeo e l’attuazione del processo di liberalizzazione degli scambi commerciali intracomunitari, ha reso necessaria la definizione di principi e regole comuni capaci di regolare e garantire in modo univoco la qualità delle merci. Per superare gli ostacoli dovuti all’eterogeneità delle singole legislazioni nazionali e all’esistenza in taluni settori legati alla tradizione locale, la Comunità Europea ha deciso, negli anni ‘80 di adottare: 1. il principio del mutuo riconoscimento delle attività di certificazione e prova svolte nei diversi paesi; 2. un nuovo approccio nella politica di regolamentazione tecnica, decidendo di armonizzare progressivamente, mediante regole tecniche cogenti (sia di carattere generale sia specifiche per particolari comparti) solo i requisiti essenziali di qualità che i prodotti dovevano possedere per poter essere immessi sul mercato e circolarvi liberamente. La regolamentazione tecnica obbligatoria di origine comunitaria si limitava, pertanto, a garantire a tutti i cittadini europei, fiducia nei prodotti e servizi provenienti da un paese membro da ottenersi attraverso regole minime in materia di: - sicurezza e protezione della salute del consumatore; - trasparenza e correttezza nei flussi di informazioni circa la natura, le modalità di produzione e di trasformazione e le caratteristiche dei prodotti finali; - difesa dell’ambiente; - sistema dei controlli.

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Per quanto concerne il settore agroalimentare, lo scenario attuale risulta così caratterizzato da una serie di requisiti cogenti destinati a garantire la sicurezza delle produzioni alimentari rispetto ai possibili fattori di rischio per i consumatori ed a regolamentare gli scambi commerciali mediante l’utilizzo di parametri merceologici e di un corollario di disposizioni volontarie più strettamente connesse agli aspetti gestionali e commerciali. Il Parlamento ed il Consiglio dell’Unione Europea, alla luce dell’analisi fatta dalla Commissione con la presentazione del “Libro Verde” sullo stato della sicurezza alimentare nell’Unione Europea e degli impegni assunti nel Libro Bianco del 12/01/2000, hanno prodotto una revisione della legislazione comunitaria relativa alla produzione, commercializzazione e controllo degli alimenti, finalizzata al raggiungimento dei seguenti obbiettivi: - aumento del grado di sicurezza degli alimenti dalla produzione alla distribuzione; - identificazione e definizione delle responsabilità dei soggetti coinvolti nella sicurezza alimentare (produttori, Stati Membri, Commissione e consumatori); - semplificazione e armonizzazione della legislazione già in vigore. Il primo atto normativo che ha ridisegnato l’intero quadro giuridico comunitario è stato il “Regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio n. 178/2002/CE” che stabilisce i principi e i requisiti generali della legislazione alimentare, istituisce l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (European Food Safety Authority - EFSA) e fissa procedure nel campo della sicurezza alimentare. La recente legislazione comunitaria individua e separa le responsabilità di tutti i soggetti coinvolti nella sicurezza alimentare esaltando, da un lato, il concetto di “filiera” e di compartecipazione di tutti i soggetti interessati all’importazione, produzione e commercializzazione di un alimento fino al consumatore, dall’altro, quello dell’Autorità Sanitaria deputata al controllo ufficiale che deve verificare il rispetto da parte degli operatori degli obblighi loro imposti dalla legislazione alimentare, attraverso procedure di controllo, audit e ispezione. Lo stesso Regolamento 178/2002/CE si preoccupa di far sì che il consumatore sia correttamente informato sulle caratteristiche dei prodotti alimentari e che le Autorità di controllo abbiano la possibilità di ottenere le informazioni necessarie, in caso di eventuale rischio sanitario, al fine di permettere l’attuazione delle procedure di ritiro ed eventualmente il richiamo del prodotto alimentare, ove non fossero state già poste in essere dallo stesso operatore, per quanto di competenza. Uno degli strumenti attraverso il quale il legislatore comunitario ha inteso rendere possibile il raggiungimento degli obiettivi definiti nel Libro Bianco è la Rintracciabilità definita all’art. 3 punto 15 del Regolamento 178/2002 come “la possibilità di ricostruire e seguire il percorso di un alimento, di un mangime, di un animale destinato alla produzione alimentare o di una sostanza destinata o atta a

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entrare a far parte di un alimento o di un mangime attraverso tutte le fasi della produzione, della trasformazione e della distribuzione” e per la quale, con gli artt. da 17 a 20, sono stabiliti obblighi e modalità generali di attuazione. Nel Regolamento, inoltre, si sottolinea come sia auspicabile che le imprese che elaborano le proprie produzioni aggregando, confezionando, ecc. materie prime, ingredienti e additivi di varie origini, adottino sistemi che consentano di mantenere definita la provenienza e il destino di ciascuno di essi, o dei lotti (Rintracciabilità interna). Nel caso in cui, infatti, si dovesse riscontrare un rischio per il consumatore o per gli animali e l’operatore del settore alimentare o dei mangimi non fosse in grado di rintracciare o indicare quale sia stato l’ingrediente, la materia prima o il prodotto, che ha determinato il rischio sanitario, si renderebbe necessario allargare l’adozione di ritiro/richiamo a tutti i prodotti potenzialmente a rischio, con conseguente maggiore dispendio di risorse economiche sia private che pubbliche e possibilità di oneri aggiuntivi a carico degli operatori a causa dei controlli supplementari necessari. Peraltro, l’adozione di un sistema di rintracciabilità interna consente di collegare le materie prime con i prodotti e, conseguentemente, in caso di ritiro, di contenere il quantitativo del prodotto ritirato. D’altra parte, in virtù della legislazione vigente, tutti gli operatori del settore alimentare sono già da tempo tenuti alla predisposizione ed attuazione di un piano o procedure di autocontrollo basato sui principi dell’HACCP - Hazard Analysis and Critical Control Points - (identificazione dei pericoli, analisi dei rischi e individuazione dei punti critici di controllo), nonché all’attivazione delle procedure di ritiro dal mercato dei prodotti che possono presentare rischio per il consumatore. Alle prescrizioni relative alla rintracciabilità degli alimenti sancite dal Regola- mento 178/2002, si sono aggiunte quelle rese obbligatorie, dal 27 ottobre del 2006, dall’art. 17 del Reg. (CE) 1935/2004 che prescrive l’obbligo della rintracciabilità dei materiali e degli oggetti a contatto con gli alimenti in tutte le fasi per facilitare il controllo, il ritiro dei prodotti difettosi, le informazioni ai consumatori e l’attribuzione della responsabilità. Le disposizioni concernenti l’obbligo della rintracciabilità costituiscono a tutti gli effetti per il settore alimentare e mangimistico un’integrazione delle procedure aziendali di gestione del rischio sanitario, unitamente alle procedure che devono essere messe in atto al fine di permettere il ritiro del prodotto, nel caso in cui si sia evidenziato un rischio. Per altro verso garantiscono alle autorità di controllo una solida base di informazioni per il rintraccio dei prodotti e l’individuazione delle responsabilità. Le problematiche relative alla sicurezza alimentare rappresentano un punto centrale nella tutela della salute pubblica. La globalizzazione dei mercati e la notevole complessità dei processi produttivi impongono la regolamentazione di tutti gli aspetti sia dell’organizzazione degli interscambi, sia delle metodologie di produzione. L’Unione Europea ha di recente enunciato nel documento per l’istituzione dell’Autorità Europea in materia di Alimentazione, i principi comuni che sono alla base della legislazione alimentare e ha definito la terminologia della stessa,

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evidenziando le modalità di applicazione e gli obiettivi della normativa in materia di alimenti. L’U.E. ritiene infatti che la legislazione alimentare debba assicurare: 1. un elevato livello di protezione della salute; 2. il corretto funzionamento del mercato dei prodotti alimentari; 3. un accordo circa la definizione di alimento; 4. un’elevata qualità ed un controllo scientifico indipendente alla base dell’analisi del rischio in materia di alimenti; 5. il rispetto dei diritti del consumatore e la garanzia dell’accesso ad informazioni accurate; 6. la rintracciabilità dei prodotti alimentari; 7. la piena responsabilità degli operatori di mercato riguardo alla sicurezza dei prodotti alimentari; 8. il rispetto degli accordi internazionali in materia di commercio; 9. lo sviluppo trasparente della legislazione alimentare e il libero accesso all’informazione a questo proposito. I recenti sviluppi della normativa alimentare richiedono che il controllo sulla sicurezza degli alimenti sia articolato su livelli diversi: un livello esterno, rappresentato dalle Autorità di controllo e uno interno rappresentato dal titolare dell’industria alimentare o dal suo delegato. La sicurezza alimentare La qualità e la sicurezza degli alimenti dipendono dagli sforzi di tutte le persone coinvolte nella complessa catena della produzione agroalimentare, della lavora- zione, del trasporto, della preparazione, della conservazione e del consumo. In base alla definizione sintetica dell’Unione Europea (UE) e dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), la sicurezza alimentare è una responsabilità condivisa dal campo alla tavola. Per mantenere la qualità e la sicurezza degli alimenti lungo l’intera filiera agroalimentare sono necessari, da un lato, procedure operative per garantire la salubrità dei cibi e, dall’altro, sistemi di monitoraggio per garantire che le operazioni vengano effettuate correttamente. La strada da percorrere a tale scopo si snoda attraverso varie tappe: l’applicazione del quadro giuridico del settore alimentare che riflette la politica “dai campi alla tavola” andando a coprire l’intera filiera alimentare; l’attribuzione al mondo della produzione della responsabilità primaria di una produzione sicura; l’esecuzione di appropriati controlli ufficiali; la capacità di attuare rapide ed efficaci misure di salvaguardia di fronte ad emergenze sanitarie che si manifestino in qualsiasi punto della filiera.

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Regolamento CE n. 852/2004 Le disposizioni del Regolamento n. 852/2004/CE “Regolamento del Parlamento Europeo sull’igiene dei prodotti alimentari” si rivolgono a tutti gli operatori del settore alimentare, dettando norme di igiene generale previste ai fini della sicurezza alimentare e sono propedeutiche alle norme specifiche in materia di igiene degli alimenti di origine animale di cui ai Regolamenti n. 853/2004/CE e n. 854/2004/CE. Il Regolamento n. 852/2004/CE si applica a “tutte le fasi della produzione, del- l’allevamento o della coltivazione dei prodotti primari, compresi il raccolto, la mungitura e la produzione zootecnica precedente la macellazione e comprese la caccia, la pesca e la raccolta di prodotti selvatici” (art. 3, punto 17). Nei prodotti della produzione primaria sono compresi i prodotti della terra, dell’allevamento, della caccia e della pesca (Regolamento n. 178/2002/CE art. 2, comma 2, lettera b). Rientrano nel presente regolamento le operazioni associate come le attività di trasporto, di magazzinaggio e di manipolazione di prodotti primari sul luogo di produzione, a condizione che questi non subiscano alterazioni sostanziali della loro natura originaria. Esso si applica, inoltre, al trasporto degli animali vivi e, nel caso di prodotti di origine vegetale, di prodotti della pesca e della caccia, al trasporto dal luogo di produzione ad uno stabilimento. Inoltre, essendo necessario definire, anche sulla base delle indicazioni fornite dalla Commissione Europea nel documento guida relativo al Regolamento n. 852/2004/CE, l’ambito di applicazione del Regolamento nel contesto della produzione primaria, tanto per i prodotti vegetali che per quelli di origine animale si fa presente che nella produzione primaria rientrano: a. la produzione, coltivazione di prodotti vegetali come semi, frutti, vegetali ed erbe, comprese le operazioni di trasporto, stoccaggio e manipolazione che, tuttavia, non alteri sostanzialmente la loro natura, dal punto di raccolta all’azienda agricola e da qui allo stabilimento per le successive operazioni; b. la produzione e allevamento degli animali produttori di alimenti in azienda e qualsiasi attività connessa a questa, compreso il trasporto degli animali produttori di carne ai mercati, alle aziende di macellazione ed in ogni caso di trasporto degli animali; c. la produzione e da allevamento di lumache in azienda e di loro eventuale trasporto allo stabilimento di trasformazione o al mercato; d. la produzione di latte crudo e del suo stoccaggio nell’allevamento di produzione; (lo stoccaggio del latte crudo nei centri di raccolta diversi dall’allevamento, dove il latte viene immagazzinato prima di essere inviato allo stabilimento di trattamento, non è da considerarsi una produzione primaria);

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e. la produzione e la raccolta delle uova nello stabilimento di produzione escluso il confezionamento; f. la pesca, manipolazione dei prodotti della pesca, senza che sia alterata la loro natura sulle navi, escluse le navi frigorifero e le navi officina ed il trasferimento dal luogo di produzione al primo stabilimento di destinazione; g. la produzione, allevamento e raccolta dei prodotti di acqua coltura e del loro trasporto agli stabilimenti di trasformazione; h. la produzione, l’allevamento e la raccolta di molluschi bivalvi vivi e del loro trasporto ad un centro di spedizione o di depurazione; i. le attività relative alla produzione dei prodotti derivanti dall’apicoltura, compreso l’allevamento delle api, la raccolta del miele ed il confezionamento e/o imballaggio nel contesto dell’azienda di apicoltura (tutte le operazioni che avvengono al di fuori dell’azienda, compreso il confezionamento e/o imballaggio del miele, non rientrano nella produzione primaria); j. la raccolta di funghi, bacche, lumache, ecc., selvatici ed il loro trasporto allo stabilimento di trasformazione. Il Regolamento CE n. 852/2004 non si applica alla: a. alla produzione primaria per uso domestico privato; b. alla preparazione, alla manipolazione e alla conservazione domestica di alimenti destinati al consumo domestico privato; c. alla fornitura diretta di piccoli quantitativi di prodotti primari dal produttore al consumatore finale o a dettaglianti locali che forniscono direttamente il consumatore finale. d. ai centri di raccolta e alle concerie che rientrano nella definizione di impresa del settore alimentare solo perché trattano materie prime per la produzione di gelatina o di collagene. La fornitura diretta di piccoli quantitativi di prodotti primari è la cessione occasionale e su richiesta del consumatore finale o dell’esercente in un esercizio al commercio al dettaglio, di prodotti primari ottenuti nell’azienda stessa, a condizione che tale attività sia marginale rispetto all’attività principale. Si sottolinea come l’esclusione dal campo di applicazione del Regolamento e, quindi, dagli obblighi che esso comporta, anche per il produttore primario che commercializza piccole quantità direttamente, non esime l’operatore dall’applicazione, durante la sua attività, delle regole base

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dell’igiene e delle buone pratiche agricole al fine di ottenere un prodotto sicuro. Il dettagliante che acquista prodotti da un produttore escluso dal campo di applicazione del Regolamento CE n. 852/2004 ha l’obbligo della rintracciabilità e si assume la responsabilità diretta sui prodotti che acquista e ha quindi l’obbligo di mettere in atto le procedure di rintracciabilità in caso di allerta. Tutte le attività di produzione, trasformazione, trasporto, magazzinaggio, somministrazione e vendita sono soggette a procedura di registrazione, qualora non sia previsto il riconoscimento ai sensi del Regolamento 853/2004. Ogni operatore del settore alimentare deve quindi notificare all’autorità competente, al fine della sua registrazione, ogni stabilimento posto sotto il suo controllo, laddove per stabilimento si intende “ogni unità di un’impresa alimentare” a sua volta definita come “ogni soggetto pubblico o privato, con o senza fini di lucro, che svolge una qualsiasi delle attività connesse ad una delle fasi di produzione, trasformazione e distribuzione degli alimenti” (art. 3 del Reg. 178/2002). Tracciabilità e rintracciabilità: due termini a confronto Le parole “tracciabilità” e “rintracciabilità” sono di grandissima attualità sulla scena agroalimentare; e consentono di rispondere alle crescenti richieste di sicurezza alimentare da parte del consumatore e di individuare le responsabilità lungo la filiera. Sono strumenti per la competitività e la razionalizzazione dei sistemi produttivi e dei mezzi per la valorizzazione delle produzioni agroalimentari di qualità. I termini “tracciabilità” e “rintracciabilità”, spesso utilizzati come sinonimi, hanno significati differenti e sono due processi speculari. La tracciabilità definita tracking è il processo attraverso il quale si può seguire il prodotto da monte a valle della filiera (“from the farm to the fork”) registrando informazioni (ovvero “tracce”) in ogni fase della sua lavorazione. La rintracciabilità definita tracing è il processo inverso, cioè quello che riprende e collega tutte le informazioni precedentemente archiviate in modo tale da poter risalire alla storia globale del prodotto e alle relative responsabilità nelle diverse fasi di lavorazione. La tracciabilità di filiera può essere definita come: - la capacità di ricostruire la storia e di seguire l’utilizzo di un prodotto mediante identificazioni documentate relativamente ai flussi materiali ed agli operatori di filiera (Norma ISO 22000) - l’identificazione delle aziende che hanno contribuito alla formazione di un dato prodotto alimentare, basata sul monitoraggio dei flussi materiali dal produttore della materia prima al consumatore finale. In base alle definizioni sopra citate, il controllo

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della filiera diventa credibile solo se tracciabile, in pratica documentabile ed esteso a tutta la filiera produttiva, quindi l’elemento indispensabile della filiera e l’insieme delle aziende che contribuiscono alla realizzazione del prodotto. La tracciabilità deve essere riferita ad ogni singola porzione di prodotto, e deve consentire di risalire ad ogni azienda che ha avuto un ruolo nella formazione di tale porzione. Ai fini della tracciabilità, non è fondamentale individuare l’origine geografica o il luogo di trasformazione e/o confezionamento del prodotto, ma il nome delle aziende che hanno partecipato alla produzione che ne sono direttamente responsabili. Le norme che regolano in maniera chiara la tracciabilità di filiera, vengono distinte in norme di rintracciabilità cogente (obbligatoria) e rintracciabilità volontaria. I benefici derivanti dall’applicazione delle norme cogenti per la rintracciabilità di filiera sono: - protezione della sicurezza alimentare attraverso il ritiro dei prodotti in caso di emergenza; - protezione della salute pubblica tramite il ritiro delle produzioni alimentari dalla vendita; - prevenzione delle frodi; - controllo delle malattie trasmissibili dagli animali; - controllo della salute degli animali; - adeguamento alla legislazione per le imprese; - capacità di adottare azioni rapide per ritirare dal commercio prodotti pericolosi e salvaguardare l’immagine aziendale; - riduzione dei costi per un eventuale ritiro di prodotti dal commercio; mentre quelli derivanti dall’applicazione delle norme volontarie sono: - aumento delle garanzie sulla identificazione di determinati ingredienti pre- senti nei vari prodotti alimentari; - presenza sul mercato di una vasta scelta di alimenti prodotti in zone e con modalità diverse; - disponibilità immediata delle informazioni riguardanti la filiera e semplificazione dei controlli;

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- possibilità di differenziarsi sul mercato; - possibilità di garantire la veridicità delle informazioni; - diminuzione dei costi dell’organizzazione interna della filiera; - riduzione delle informazioni da registrare poiché presenti nel sistema informativo di filiera; - agevolazione sulla scelta dei fornitori e il monitoraggio dei clienti. La tracciabilità di filiera è un processo non governabile da un singolo soggetto, ma basato sulle relazioni tra gli operatori; per questo motivo necessita il coinvolgimento di ogni soggetto che ha contribuito alla formazione del prodotto ed è di più complessa e difficile realizzazione. Attraverso tali procedure si riconquista la fiducia del consumatore, poiché i prodotti non hanno misteri; nel processo che ha portato alla loro formazione non ci sono passaggi sconosciuti o non identificabili e la sua storia è trasparente e documentata. Il produttore attesta con una formale ammissione le sue responsabilità. La relazione tra produttore e consumatore non è più generica ed anonima, ma personale ed esplicita e ciò costituisce il più essenziale ingrediente della fiducia. La fiducia del consumatore nel sistema agroalimentare è diminuita, benché la qualità e la sicurezza dei prodotti siano sostanzialmente migliorate. La crisi di fiducia è attribuibile alla progressiva perdita di contatto fra i consumatori e il sistema di produzione dei cibi. In questo modo si facilitano i controlli e gli interventi dell’autorità sanitaria nelle emergenze. Il controllo dei prodotti alimentari è causato dalla complessità delle filiere che li producono. Tre comparti, poco coordinati e in conflitto fra loro, costituiscono il sistema alimentare: il comparto della produzione primaria, quello dell’industria di trasformazione e quello della commercializzazione. Tra questi comparti ne operano altri, di intermediazione commerciale, nei quali ogni flusso si confonde e si moltiplica. La tracciabilità di filiera consente due operazioni molto utili per neutralizzare il rischio: 1) l’isolamentoelamessainquarantenadellafilierasospetta,annullandocosì gli effetti del rischio; 2) la ricerca e l’intervento sulle cause del rischio, evitando che esso si ripeta. La gestione dei flussi materiali consente di conoscere in ogni momento cosa si sta facendo, di individuare con maggiore rapidità e sicurezza le cause di non conformità, di gestire nel tempo operazioni e materiali in vista del miglioramento e della

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standardizzazione della qualità, della riduzione dei costi, della razionalizzazione dei flussi e della logistica di processo. I benefici derivanti dall’adozione di un sistema di rintracciabilità sono molteplici e riguardano sia i consumatori e sia le imprese. Nell’ambito della tracciabilità di filiera la tracciabilità interna viene svolta lungo tutto il processo o la trasformazione da ciascun partner sui suoi prodotti. Ha luogo indipendentemente dai partner commerciali e si concretizza in una serie di procedure interne specifiche di ciascuna azienda, che consentono di risalire alla provenienza dei materiali, al loro utilizzo e alla destinazione dei prodotti. La tracciabilità volontaria è quel sistema che permette alle aziende di garantire ulteriormente il proprio prodotto al consumatore, dandogli un valore aggiunto che aumenta la sua “qualità e affidabilità”. “Qualità” perché ogni azienda specifica come il proprio prodotto è stato realizzato e lo garantisce al consumatore. “Affidabilità” perché l’azienda si espone sul mercato, soprattutto nei confronti dei consumatori, ad ogni eventuale errore commesso durante la produzione che si andrebbe a ripercuotere sull’azienda stessa. La tracciabilità deve essere riferita ad ogni singola porzione di prodotto, e deve consentire di risalire ad ogni azienda che ha avuto un ruolo nella formazione di tale porzione o prodotto. Sono molteplici i benefici che possono derivare dall’adozione di un sistema di tracciabilità, in particolare i vantaggi che ne derivano ai consumatori. Questi ultimi sono così in grado di decidere se comprare un determinato prodotto o meno. Infatti sull’etichetta verrà evidenziato il produttore, a caratteri cubitali, così da rimanere impresso nella mente del consumatore stesso. La tracciabilità in sé è uno strumento di controllo e prevenzione, che mira a determinare eventuali colpe di cattiva gestione nella produzione e trasformazione delle derrate alimentari. Il prodotto tracciato offre al consumatore, nel momento in cui è chiaramente riconoscibile (tramite un logo o un marchio), una garanzia di trasparenza sull’origine e la storia dei prodotti. Essa permette di individuare formalmente le responsabilità di tutti i soggetti che contribuiscono all’ottenimento del prodotto alimentare e di conoscere la provenienza di tutte le materie prime che entrano nel processo produttivo, i metodi di produzione, i processi di lavorazione, le modalità di trasporto adottate. La trasparenza del processo produttivo consente di rafforzare la garanzia della qualità del prodotto sia dal punto di vista della sicurezza e dell’igiene sia dal punto di vista della tipicità del prodotto. Nell’ambito della politica aziendale per il produttore la tracciabilità è in primo luogo un efficace strumento di controllo della qualità. Un sistema di tracciabilità supporta efficacemente le aziende in tutte le certificazioni - ambientale (UNI EN ISO 14001,

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Emas), di prodotto (UNI CEI EN 45011), di processo (UNI EN ISO 9001) - e semplifica l’applicazione del metodo HACCP per la sicurezza alimentare. La tracciabilità può essere, in secondo luogo, un potente strumento di marketing, perché consente di valorizzare l’immagine dell’azienda e l’identità legata al territorio su cui essa opera. Utilizzando il “marchio di garanzia” (chi ottiene la certificazione di rintracciabilità può indicarlo sull’etichetta dei prodotti), le aziende possono contare su un vantaggio competitivo sul mercato globale. Aumentando il valore percepito del prodotto, il produttore può spuntare un “premium price” sul mercato o acquisire nuovi clienti attenti alle tematiche della qualità alimentare. La trasparenza permette inoltre alle aziende di accrescere il proprio potenziale commerciale nei confronti di importatori e distributori. Ecco perchè già molte aziende si impegnano per ottenere la certificazione di rintracciabilità volontaria, seguendo la norma UNI EN ISO 22005:2008 (rintracciabilità di filiera) o (rintracciabilità aziendale) e anticipano di fatto la normativa europea.

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Normativa per il controllo dell’inquinamento

La gestione dei rifiuti: i rifiuti speciali Il Decreto Legislativo n. 152 del 3 aprile 2006 ha stabilito che tutti i rifiuti sono classificati, secondo l’origine, in rifiuti urbani e rifiuti speciali e, secondo le caratteristiche di pericolosità, in rifiuti pericolosi e rifiuti non pericolosi. I rifiuti urbani sono i rifiuti domestici, anche ingombranti, provenienti da locali e luoghi adibiti ad uso di civile abitazione, i rifiuti non pericolosi provenienti da locali e luoghi adibiti ad usi diversi, i rifiuti provenienti dallo spazzamento delle strade, i rifiuti di qualunque natura o provenienza, giacenti sulle strade ed aree pubbliche o sulle strade ed aree private comunque soggette ad uso pubblico o sulle spiagge marittime e lacuali e sulle rive dei corsi d’acqua, i rifiuti vegetali provenienti da aree verdi, quali giardini, parchi e aree cimiteriali e i rifiuti provenienti da esumazioni ed estumulazioni. I rifiuti speciali sono i rifiuti da attività agricole e agro-industriali, i rifiuti derivanti dalle attività di demolizione, costruzione, nonché i rifiuti pericolosi che derivano dalle attività di scavo, i rifiuti da lavorazioni industriali, artigianali e da attività commerciali; i rifiuti da attività di servizio; i rifiuti derivanti dalla attività di recupero e smaltimento di rifiuti, i fanghi prodotti dalla potabilizzazione e da altri trattamenti delle acque e dalla depurazione delle acque reflue e da abbattimento di fumi; i rifiuti derivanti da attività sanitarie; i macchinari e le apparecchiature deteriorati ed obsoleti; i veicoli a motore, rimorchi e simili fuori uso e loro parti; il combustibile derivato da rifiuti e i rifiuti derivati dalle attività di selezione meccanica dei rifiuti solidi urbani. I rifiuti pericolosi vanno obbligatoriamente affidati ad uno smaltitore autorizzato che li avvierà al recupero o allo smaltimento controllato. I rifiuti possono essere conservati in azienda al massimo per un anno, prima di essere avviati allo smaltimento. Tra i rifiuti speciali e pericolosi che compaiono con maggiore frequenza nelle aziende agricole sono: i biocidi e i prodotti fitosanitari, i fanghi derivanti dalla lavorazione, gli oli esausti e i contenitori dei fitofarmaci. Quelli non pericolosi sono i teli per le serre, per la pacciamatura, gli pneumatici usati ecc. Le aziende agricole devono stoccare le varie tipologie di rifiuto devono essere stoccate separatamente le une dalle altre. Nel caso di rifiuti pericolosi è necessario avere le seguenti precauzioni: - i contenitori di fitofarmaci devono essere stoccati in sacchi o locali chiusi al riparo

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dagli agenti atmosferici e non accessibili ad animali e bambini; - gli oli usati devono essere stoccati in appositi contenitori al riparo da contaminazioni di altri liquidi; - le batterie devono essere stoccate in locali provvisti di copertura e con fondi impermeabilizzati. Inoltre l’agricoltore deve redigere un registro di carico e scarico di rifiuti pericolosi. Quando si produce il rifiuto è necessario riportare sul registro la data, la quantità, la tipologia e la classe di pericolosità dello stesso. La stessa operazione deve essere effettuata quando si provvede allo smaltimento del rifiuto. Le annotazioni vanno riportate entro una settimana dalla produzione o smaltimento del rifiuto. I registri di carico e scarico rifiuti non devono più es- sere vidimati dall’Agenzia delle Entrate. Sono esentate dalla tenuta del registro le aziende agricole con un volume d’affari inferiore a 8 mila Euro. Le imprese agricole che trasportano i propri rifiuti non pericolosi nonché le imprese che trasportano i propri rifiuti pericolosi in quantità non superiore ai 30 kg (o 30 Litri) devono iscriversi all’Albo Nazionale dei Gestori Ambientali. Il formulario di identificazione è il documento che accompagna il rifiuto dal luogo di produzione al luogo di smaltimento. Il formulario deve essere redatto in quattro copie: - la prima copia resta al produttore; - la seconda copia al trasportatore; - le ultime due sono trattenute dal destinatario che dovrà trasmetterne una al produttore del rifiuto che viene così sollevato da ogni responsabilità. Le aziende agricole devono compilare il formulario di identificazione quando trasportano rifiuti non pericolosi in quantità superiore ai 30 kg (o 30 litri), e quando trasportano rifiuti pericolosi in qualsivoglia quantità. Le copie del formulario devono essere conservate per cinque anni. Non necessitano del formulario gli utilizzatori dei fanghi in agricoltura (disciplinati dal decreto legislativo n. 99 del 27 gennaio 1992). Ogni anno tutti coloro che hanno compilato il registro sono tenuti alla presentazione alla Camera di Commercio del Modello Unico di Dichiarazione ambientale (MUD) che riassume annualmente la produzione e lo smaltimento dei rifiuti dell’azienda agricola. I prodotti derivanti dall’attività delle imprese che non costituiscono l’attività principale ma dispongono di un loro mercato (segatura, lolla di riso, ecc.) possono essere ceduti senza alcuna autorizzazione. L’utilizzo del sottoprodotto non deve causare danni all’ambiente ed alla salute.

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LA TUTELA DELL'AMBIENTE

Introduzione

 La tutela dell'ambiente ha lo scopo di prevenire la contaminazione dell'aria, dell'acqua e del terreno dovuta a inquinamento, radiazioni o altri residui industriali e agricoli; di preservare l'integrità dei processi naturali minacciata dagli effetti dell'industrializzazione, dell'agricoltura, dello sviluppo commerciale e di altre attività dell'uomo; di proteggere le specie vegetali e animali e le località di interesse paesaggistico; di conservare altre risorse naturali. Le questioni di maggiore attualità riguardano: varie forme di inquinamento dell'aria e dell'acqua; l'emissione di sostanze chimiche tossiche a seguito di incidenti industriali e di inadeguate procedure di trattamento ed eliminazione dei rifiuti; le minacce delle radiazioni nucleari; la desertificazione e la distruzione delle foreste; l'estinzione sempre più rapida di specie vegetali e animali; la conservazione di aree di interesse paesaggistico; la disponibilità di risorse energetiche adeguate per il prossimo secolo; i potenziali rischi connessi a nuove tecnologie quali le biotecnologie (v. Brown, 1987). Nei paesi sviluppati, e in maniera crescente anche nei paesi in via di sviluppo, la tutela dell'ambiente viene ormai considerata come una responsabilità dei governi. La maggior parte dei paesi sviluppati ha destinato a tale scopo una notevole quantità di strumenti giuridici e organizzativi. Le scelte relative all'ambiente costituiscono questioni politiche importanti, soprattutto in Europa occidentale, negli Stati Uniti e in Canada; la tutela dell'ambiente è al centro di una disciplina scientifica relativamente nuova, l'ecologia, ed è stata oggetto di grande attenzione da parte di numerose altre discipline, fra cui la biologia, la chimica, l'ingegneria, l'economia, il diritto e le scienze politiche. Problemi di tutela dell'ambiente hanno inoltre influenzato l'etica, la teologia e la storia della cultura, ed esiste ormai una vasta letteratura sull'argomento.

Lo sfruttamento generalizzato delle risorse naturali, dettato dalla vorticosa intensificazione delle attività umane e dal progressivo aumento di nuclei urbani e stabilimenti industriali, insieme all’utilizzo sempre più indiscriminato di agenti chimici e inquinanti, hanno innescato da più di un secolo un grave processo di degradazione ambientale.

Soprattutto dagli anni ’90 in poi la comunità internazionale sembra essersi resa conto della necessità sempre più urgente di avviare una strategia globale per raggiungere un vero modello di sviluppo sostenibile. È quanto emerso dalla conferenza ONU del 1992 di Rio de Janeiro incentrata sull’ambiente e lo sviluppo, durante la quale si è affermato proprio che per intraprendere un processo di sviluppo sostenibile è necessario modificare i modelli di produzione e di consumo, adottando nuove misure

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legislative in materia ambientale ed eseguire sistematicamente la procedura della valutazione di impatto ambientale (VIA).

In realtà già venti anni prima, ossia durante la Conferenza di Stoccolma del 1972, le Nazioni Unite avevano affrontato in modo organico il tema della tutela ambientale e dell’utilizzo sostenibile delle risorse naturali decidendo di istituire il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP – United Nations Environment Programme), che avrebbe avuto sede a Nairobi e al quale veniva affidato un mandato che, grazie anche alle numerose convenzioni firmate negli anni successivi, può oggi essere riassunto in cinque azioni principali:

- mantenere sotto controllo la situazione ambientale globale

- promuovere l’azione e la cooperazione internazionale

- fornire indicazioni e informazioni preventive basate su solide valutazioni scientifiche

- facilitare lo sviluppo e l’implementazione di normative standard e della coerenza tra le diverse convenzioni internazionali sull’ambiente

- rafforzare i supporti tecnologici e le capacità dei Paesi in base ai loro bisogni e alle loro priorità

La strategia adottata dall’UNEP per il periodo 2010-2013 ha individuato sei aree prioritarie sulle quali intervenire focalizzando i propri sforzi:

- cambiamenti climatici

- disastri e conflitti

- gestione dell’ecosistema

- governance ambientale

- sostanze dannose e rifiuti pericolosi

- sostenibilità della produzione e del consumo delle risorse

Osservando le priorità tematiche indicate dall’UNEP si può comprendere come oggi più che mai la tutela ambientale non limiti la sua funzione alla salvaguardia delle risorse del pianeta (compito peraltro fondamentale) ma si sia trasformata in un vero e proprio strumento per combattere la povertà. Le conseguenze dei cambiamenti climatici, infatti, hanno da tempo cominciato a far sentire i propri effetti sul pianeta colpendo innanzitutto le popolazioni del Sud del mondo, provviste di minori risorse per affrontare le conseguenze del surriscaldamento del pianeta come la siccità o le

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inondazioni, e più dipendenti dall’agricoltura, attività che maggiormente risente dei cambiamenti del clima. Non è un caso, dunque, che il Settimo degli Otto Obiettivi di Sviluppo del Millennio, da raggiungere entro il 2015, sia dedicato proprio ad “assicurare la sostenibilità ambientale”. Ciò significa soprattutto che il dualismo tra salvaguardia ambientale e lotta alla povertà è stato ormai definitivamente superato e che anzi i due obiettivi sono intimamente correlati.

La salvaguardia della biodiversità

Un’efficace azione di tutela dell’ambiente deve innanzitutto individuare e contrastare i maggiori pericoli che lo minacciano. I più gravi sono certamente, come sottolineato, gli effetti derivanti dai cambiamenti climatici (non a caso l’UNEP e l’Organizzazione Mondiale di Meteorologia hanno istituito nel 1988 l’IPCC, ossia un gruppo di lavoro intergovernativo formato da esperti con il compito di valutare costantemente tutte le informazioni scientifiche, tecniche e socioeconomiche sui cambiamenti climatici), l’inquinamento dell’aria, delle acque e del suolo, l’eccessivo consumo e la frammentazione del territorio, che mettono fortemente a rischio la sopravvivenza di molte specie.

Il 21 maggio, durante la Giornata Mondiale della Biodiversità, il WWF Italia ha tracciato il quadro dell’attuale situazione vissuta dal nostro Paese il quale, pur costituendo una delle aree europee più ricche di biodiversità, non si è ancora dotato di una Legge specifica né di una Strategia nazionale per la biodiversità, come invece stabilito dalla Convezione internazionale del 2002, e come già fatto da tutti gli altri grandi Paesi europei (ai quali, oltre all’Italia, non si sono aggiunti solo Grecia, Malta, Cipro e Lussemburgo). Questa carenza spiega, almeno in parte, i mancati progressi fatti registrare in difesa della nostra fauna e della nostra flora nel raggiungimento del “2010 biodiversity target”, ossia l’obiettivo di arrestare l’estinzione di qualunque specie che i governi di tutto il mondo si sono prefissati di conseguire appunto entro il 2010.

Proprio per salvaguardare l’ambiente dai numerosi rischi che lo attanagliano Legambiente aveva presentato, alla vigilia delle elezioni politiche del 2008, un “Patto per l’ambiente” che prevedeva una serie di impegni per arrestare i cambiamenti climatici, ridurre il problema dei rifiuti, bloccare il consumo del suolo ecc. Purtroppo a un anno di distanza molti di questi impegni non sono stati realizzati, anzi diversi annunci governativi in materia di energia non lasciano sperare per il meglio, basti pensare alla volontà di utilizzare energia nucleare e potenziare le centrali di carbone.

La politica di tutela dell’Unione Europea

Nell’Unione Europea è attualmente in vigore il Sesto Programma di azione per l’ambiente intitolato “Ambiente 2010: il nostro futuro, la nostra scelta” che copre il periodo 2002 – 2012. La strategia ambientale europea si basa su cinque livelli:

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- miglioramento dell’applicazione della legislazione vigente

- integrazione delle tematiche ambientali nelle altre politiche

- collaborazione con il mercato

- coinvolgimento dei cittadini per modificarne il comportamento

- attenzione all’ambiente nelle decisioni in materia di assetto e gestione territoriale

Soprattutto gli ultimi due assi prioritari appaiono particolarmente significativi, in quanto mirano sia a migliorare il comportamento ecologico dei cittadini europei (offrendo loro anche l’accesso al numero maggiore possibile di informazioni sull’ambiente) che ad attribuire maggior importanza all’ambiente nella gestione del territorio attraverso un miglioramento dell’applicazione della direttiva sulla VIA, la promozione degli scambi di esperienze sulla pianificazione sostenibile, una gestione sostenibile del turismo ecc.

Il sesto programma d’azione prevede poi sette aree tematiche particolari:

- inquinamento atmosferico

in questo campo l’Unione Europea si pone l’obiettivo, tra gli altri, di proteggere gli ecosistemi dal degrado causato dalla deposizione di azoto e dalle piogge acide

- ambiente marino

in questo ambito la strategia prevede una doppia funzione: proteggere e risanare i mari europei e assicurare la correttezza di tutte le attività economiche connesse all’ambiente marino

- uso sostenibile delle risorse

lo scopo dell’UE è quello di migliorare il rendimento delle risorse in tutti i settori consumatori, ridurne l’impatto sull’ambiente e sostituire le risorse troppo inquinanti con soluzioni alternative

- prevenzione e riciclaggio dei rifiuti

la strategia in questo caso è volta alla riduzione degli impatti ambientali negativi generati dai rifiuti durante tutto il loro percorso di esistenza, adottando innanzitutto la semplificazione della legge attualmente in vigore e considerando i rifiuti stessi non solo come fonte di inquinamento ma come una potenziale risorsa da sfruttare

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- uso sostenibile dei pesticidi

il piano si pone lo scopo di ridurre i rischi legati ai pesticidi, aumentare i controlli, ridurre i livelli di sostanze nocive, incoraggiare la conversione verso un’agricoltura che non utilizzi i pesticidi, istituire un sistema di sorveglianza dei progressi compiuti

- protezione del suolo

l’obiettivo primario è la promozione dell’agricoltura biologica, il rimboschimento, la protezione dei terrazzamenti, l’uso di compost certificato

- ambiente urbano

la strategia prevede, tra le varie misure, la pubblicazione di orientamenti relativi sia all’integrazione delle tematiche ambientali nelle politiche urbane, che ai piani di trasporto urbano sostenibile.

Uno degli strumenti legislativi più importanti e innovativi in ambito di tutela ambientale europea è la Direttiva 2004/35/CE, introdotta nell’aprile del 2004 proprio con l’obiettivo di instaurare un regime comunitario di responsabilità ambientale basato sul principio “chi inquina paga”. Vengono infatti stabilite le azioni di prevenzione e di riparazione a carico dell’operatore che, o con determinate attività professionali considerate pericolose o potenzialmente pericolose, o con attività non pericolose ma caratterizzate da errori o negligenze, danneggi o metta a rischio l’ambiente, le acque, il terreno.

La legislazione italiana

Le norme in materia ambientale sono disciplinate, in Italia, dal D.Lgs. 152/2006, conosciuto anche come Testo Unico Ambientale (TUA), e dal d.l. n. 208 del 30 dicembre 2008 “Misure straordinarie in materia di risorse idriche e di protezione dell’ambiente”, che non cambia la sostanza del precedente ma si pone l’obiettivo di superare la frammentarietà della normativa antecedente nel settore delle risorse idriche e di predisporre misure non rinviabili per assicurare l’operatività di alcuni organismi deputati alla tutela ambientale come l’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale).

Il Testo Unico, che al suo interno contiene tutte le norme regolamentari come i limiti di emissione, gli standard per le bonifiche, i limiti di scarico ecc, regolamenta sei aree:

1. disposizioni comuni, finalità, campo di applicazione

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2. valutazione impatto ambientale, valutazione ambientale strategica, autorizzazione unica

3. difesa del suolo e tutela e gestione delle acque 4. rifiuti e bonifiche 5. tutela dell’aria 6. danno ambientale

Uno degli aspetti principali del TUA è rappresentato dal ruolo centrale che viene conferito al Ministero dell’Ambiente e della Tutela del territorio e del mare, soprattutto in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale (come recepimento della Direttiva 2004/35/CE). Spetta infatti al dicastero esigere dai soggetti responsabili di minaccia di danno ambientale l’adozione di misure preventive, mentre in caso di danno avvenuto, sarà sempre compito del ministero imporre ai soggetti stessi l’adozione di misure di ripristino e il risarcimento del danno ambientale.

La valutazione di impatto ambientale e la valutazione ambientale strategica

In termini legislativi uno dei più importanti strumenti utilizzati ai fini della tutela ambientale è la valutazione di impatto ambientale ossia, come stabilito dalla Convenzione di Expoo entrata in vigore nel 1997 (che a sua volta si rifaceva a quanto stabilito dal Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente e dalla Dichiarazione ministeriale di uno sviluppo durevole nel 1990 in Norvegia), “una procedura nazionale finalizzata a valutare il probabile impatto sull’ambiente di un’attività prevista”, considerando con il termine impatto ogni “effetto ambientale sulla salute e la sicurezza, sulla flora, sulla fauna, sul suolo, nell’aria, nell’acqua, sul clima, sul paesaggio e sui monumenti storici, anche nell’interazione tra essi”.

A livello comunitario la necessità di un’azione preventiva di tutela dell’ambiente trovò una prima manifestazione già nella seconda metà degli anni Settanta all’interno del programma di azione delle Comunità europee in materia ambientale, mentre con i successivi programmi (Direttiva n. 85/337/CE del 27 giugno 1985) si compivano due importanti progressi: veniva infatti disciplinata la procedura per la valutazione di impatto ambientale per determinati progetti pubblici e privati e si esplicitava la concezione che avrebbe guidato le strategie europee anche negli anni successivi, cioè che un’efficace politica ecologica deve tendere a evitare fin dall’inizio ogni tipo di inquinamento o altre perturbazioni, anziché contrastarne successivamente gli effetti negativi. La procedura approvata è composta da quattro fasi:

- La redazione di uno studio preliminare sul presunto impatto ambientale

- La consultazione delle varie amministrazioni interessate

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- L’informazione della popolazione (che è certamente uno degli aspetti più importanti perché permette la partecipazione di tutti i soggetti interessati)

- L’autorizzazione alla realizzazione dell’opera

In Italia la procedura di VIA indica, tra l’altro, quali sono le opere che devono essere sottoposte a valutazione di impatto ambientale dividendole in tre distinte categorie:

- Progetti che devono essere sempre sottoposti a VIA (ad esempio raffinerie, centrali termiche, acciaierie, impianti chimici o per la produzione idroelettrica, ma anche grandi infrastrutture come porti marittimi, autostrade, aeroporti)

- Progetti che devono essere sottoposti a VIA solo se ricadono all’interno di aree naturali protette (impianti di industrie alimentari o tessili, progetti agricoli di notevoli dimensioni, alberghi, campeggi o villaggi turistici con una superficie superiore a determinati standard..)

- Progetti di competenza statale finalizzati allo sviluppo e al collaudo di nuovi metodi o di nuovi prodotti e che nono sono utilizzati per più di due anni

Ancor prima della valutazione ambientale di un determinato intervento, però, appare di fondamentale importanza una valutazione di più ampio respiro relativa alla pianificazione e alla programmazione territoriale: è questo il compito della VAS – valutazione ambientale strategica, introdotto nella legislazione europea nel 2001 (Direttiva 2001/42/CE). L’obiettivo della VAS, come esplicitato anche nella Direttiva comunitaria, è dunque quello di garantire un elevato livello di protezione dell’ambiente al fine di promuovere lo sviluppo sostenibile, analizzando preventivamente tutti gli effetti che potranno ricadere sull’ambiente a causa dell’attuazione di determinati strumenti di programmazione e pianificazione per settori come quello agricolo, industriale, dei trasporti, della pesca, della gestione dei rifiuti ecc.

In Italia l’autorità sulle procedure di valutazione di impatto ambientale e di valutazione ambientale strategica di competenza dello Stato è stata conferita al Ministero dell’Ambiente e della Tutela del territorio e del mare che a sua volta è chiamato a conferire le funzioni istruttorie a una Commissione Tecnica di verifica dell’impatto ambientale – VIA e VAS. Per i progetti di carattere regionale, invece, la competenza spetta agli enti locali e ai loro organismi preposti alla salvaguardia ambientale.

Per quanto riguarda la VIA, la Commissione ha il compito di esaminare l’esattezza e la completezza della documentazione presentata, verificare che i dati prodotti sui rifiuti e le emissioni inquinanti rientrino all’intero delle prescrizioni indicate dalla normativa di settore, individuare e descrivere l’impatto complessivo del progetto sull’ambiente. Terminata la fase istruttoria la Commissione deve esprimere un

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provvedimento, ampiamente motivato, che deve essere pubblicato sia sulla Gazzetta Ufficiale (della Repubblica se si tratta di una competenza statale o Regionale se la competenza è a livello di ente locale) che sul sito web dell’autorità competente, in modo che le informazioni in merito al progetto esaminato e la valutazione di impatto ambientale effettuata siano fruibili da tutti i cittadini. La stessa regola vale per i risultati delle attività di monitoraggio dell’opera (previste dal provvedimento di VIA al fine di garantire un immediato intervento qualora dovessero sopraggiungere impatti negativi non previsti).

Per ciò che concerne la VAS il ministero dell’ambiente deve lavorare in accordo con il dicastero per i beni e le attività culturali e produrre un Rapporto ambientale con il compito di esplicitare una stima attendibile di tutti gli effetti sull’ambiente degli interventi previsti dal piano. Prima di essere approvato tale rapporto deve inoltre essere sottoposto alla consultazione di tutte le autorità ambientali preposte e delle collettività interessate.