Idronefrosi Fetale AREA PED 2010

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37 idronefrosi neonatali: nuove strategie gestionali Rino Agostiniani 1 , Rossella Galiano 2 , Luigi Cataldi 3 1 UO di Pediatria e Neonatologia, Dipartimento Materno Infantile, Pistoia 2 UO di Neonatologia, Ospedale Pugliese-Ciaccio, Catanzaro 3 Istituto di Clinica Pediatrica, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma n e o nato lo G i a p A n. 3 - Maggio/Giugno 2010 G G li esami ecografici eseguiti durante la gravidanza consentono, in larga misura, una diagnosi tempe- stiva delle dilatazioni delle vie urinarie fetali, che rappre- sentano la più frequente malformazione congenita evi- denziata in utero (1-5% di tutte le gravidanze). Malgrado la frequenza di tali diagnosi, notevoli differen- ze persistono nella definizione, nella gestione clinica, ne- gli algoritmi diagnostici e nel follow up dei neonati con idronefrosi congenita. La variabilità nella gestione di questa patologia riflette la difficoltà nel discriminare le semplici varianti fisiologi- che dell’anatomia fetale e neonatale, dalle situazioni che possono associarsi a deterioramento funzionale; tali incertezze possono condurre all’utilizzo di indagini strumentali non sempre appropriate, di costose consu- lenze specialistiche o estenuanti follow up su feti e neo- nati sani, scatenando ingiustificati e/o sproporzionati ti- mori nei genitori. Controversie e dubbi caratterizzano non solo i compor- tamenti pratici, ma anche l’ampia letteratura sull’argo- mento, che mette in risalto il contrasto tra gli entusia- smanti progressi delle procedure diagnostiche, sempre più precoci e dettagliate, e i deludenti risultati nella pre- venzione del danno renale e dei suoi esiti a lungo termi- ne (insufficienza renale cronica, ipertensione, compli- canze gravidiche). La migliore conoscenza della storia naturale delle uro- patie malformative ha comunque contribuito a sposta- re l’attenzione dai problemi idraulici del flusso urinario, con le relative tecniche di riparazione dell’ostruzione e/o del reflusso, ai problemi genetici e biomolecolari che oggi sembrano avere un ruolo determinante nel- l’instaurarsi e nel progredire del danno parenchimale. In attesa che più vasti studi prospettici chiariscano i pun- ti ancora controversi, ci sembra utile proporre una revi- sione aggiornata della letteratura e cercare di indivi- duare, per i neonati con dilatazioni delle vie urinarie, i percorsi diagnostici e gli interventi terapeutici che mini- mizzano il rischio di diagnosi tardive e al contempo evi- tano di sottoporre a indagini strumentali invasive e do- lorose o a faticosi percorsi di controlli clinici i bambini che non ne traggano beneficio. DIAGNOSI PRENATALE: CIÒ CHE IL PEDIATRA DEVE SAPERE L’ecografia endovaginale consente di visualizzare l’ap- parato urinario del feto fin dal primo trimestre di gravi- danza, ma un'adeguata valutazione anatomica si rea- lizza comunemente fra la 16a e la 20a settimana, con approccio transaddominale. L’esame dell’apparato urinario fetale comprende: la rilevazione del liquido amniotico (dopo la 16a setti- mana i reni del feto ne sono i principali produttori) e il calcolo dell’indice del liquido amniotico (AFI, Amniotic Fluid Index), che fa riferimento a parametri obiettivi e ri- producibili per la diagnosi di oligo e polidramnios; la visualizzazione della vescica fetale (che si svuota e si riempie, parzialmente o completamente, circa ogni 25 minuti) con la valutazione dello spessore delle pareti (nei feti di sesso maschile un’ipertrofia può essere asso- ciata a un ostacolo a livello uretrale); la visualizzazione e la valutazione di forma, posizione e dimensioni di entrambi i reni;

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idronefrosi neonatali: nuove strategie gestionaliRino Agostiniani1, Rossella Galiano2, Luigi Cataldi3

1UO di Pediatria e Neonatologia, Dipartimento Materno Infantile, Pistoia2UO di Neonatologia, Ospedale Pugliese-Ciaccio, Catanzaro3Istituto di Clinica Pediatrica, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma

n e o n a t o l o G i a

pA n. 3 - Maggio/Giugno 2010

GGli esami ecografici eseguiti durante la gravidanza

consentono, in larga misura, una diagnosi tempe-

stiva delle dilatazioni delle vie urinarie fetali, che rappre-

sentano la più frequente malformazione congenita evi-

denziata in utero (1-5% di tutte le gravidanze).

Malgrado la frequenza di tali diagnosi, notevoli differen-

ze persistono nella definizione, nella gestione clinica, ne-

gli algoritmi diagnostici e nel follow up dei neonati con

idronefrosi congenita.

La variabilità nella gestione di questa patologia riflette

la difficoltà nel discriminare le semplici varianti fisiologi-

che dell’anatomia fetale e neonatale, dalle situazioni

che possono associarsi a deterioramento funzionale;

tali incertezze possono condurre all’utilizzo di indagini

strumentali non sempre appropriate, di costose consu-

lenze specialistiche o estenuanti follow up su feti e neo-

nati sani, scatenando ingiustificati e/o sproporzionati ti-

mori nei genitori.

Controversie e dubbi caratterizzano non solo i compor-

tamenti pratici, ma anche l’ampia letteratura sull’argo-

mento, che mette in risalto il contrasto tra gli entusia-

smanti progressi delle procedure diagnostiche, sempre

più precoci e dettagliate, e i deludenti risultati nella pre-

venzione del danno renale e dei suoi esiti a lungo termi-

ne (insufficienza renale cronica, ipertensione, compli-

canze gravidiche).

La migliore conoscenza della storia naturale delle uro-

patie malformative ha comunque contribuito a sposta-

re l’attenzione dai problemi idraulici del flusso urinario,

con le relative tecniche di riparazione dell’ostruzione

e/o del reflusso, ai problemi genetici e biomolecolari

che oggi sembrano avere un ruolo determinante nel-

l’instaurarsi e nel progredire del danno parenchimale.

In attesa che più vasti studi prospettici chiariscano i pun-

ti ancora controversi, ci sembra utile proporre una revi-

sione aggiornata della letteratura e cercare di indivi-

duare, per i neonati con dilatazioni delle vie urinarie, i

percorsi diagnostici e gli interventi terapeutici che mini-

mizzano il rischio di diagnosi tardive e al contempo evi-

tano di sottoporre a indagini strumentali invasive e do-

lorose o a faticosi percorsi di controlli clinici i bambini

che non ne traggano beneficio.

DIAGNOSI PRENATALE: CIÒ CHE IL PEDIATRA DEVE SAPERE

L’ecografia endovaginale consente di visualizzare l’ap-

parato urinario del feto fin dal primo trimestre di gravi-

danza, ma un'adeguata valutazione anatomica si rea-

lizza comunemente fra la 16a e la 20a settimana, con

approccio transaddominale.

L’esame dell’apparato urinario fetale comprende:

■ la rilevazione del liquido amniotico (dopo la 16a setti-

mana i reni del feto ne sono i principali produttori) e il

calcolo dell’indice del liquido amniotico (AFI, Amniotic

Fluid Index), che fa riferimento a parametri obiettivi e ri-

producibili per la diagnosi di oligo e polidramnios;

■ la visualizzazione della vescica fetale (che si svuota e

si riempie, parzialmente o completamente, circa ogni

25 minuti) con la valutazione dello spessore delle pareti

(nei feti di sesso maschile un’ipertrofia può essere asso-

ciata a un ostacolo a livello uretrale);

■ la visualizzazione e la valutazione di forma, posizione e

dimensioni di entrambi i reni;

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idronefrosi neonatali: nuove strategie gestionali

n. 3 - Maggio/Giugno 2010Ap

■ la valutazione dell’ecostruttura parenchimale renale;

■ la segnalazione di eventuali dilatazioni della via

escretrice (sistema pielocaliceale, ureteri, uretra).

Gli obiettivi della diagnosi prenatale sono due:

■ il riconoscimento di malformazioni gravi e bilaterali,

fortunatamente molto rare, che possono richiedere mo-

dificazioni nel controllo della gravidanza;

■ la segnalazione di patologie meno gravi o monolate-

rali, molto più frequenti, che richiedono una presa in ca-

rico solo dopo la nascita.

Per quanto riguarda le gravi malformazioni bilaterali associate a insufficienza renale fetale, si evidenziano

ecograficamente con oligoidramnios, anomalie sche-

letriche e segni di displasia polmonare.

Solo in questi casi possono trovare indicazione manovre

diagnostiche invasive, come per esempio lo studio del-

la biochimica dell’urina e/o del sangue fetale, nella

prospettiva di trattamenti chirurgici prenatali (shunt ve-

scico-amniotico, chirurgia fetale ex utero e chirurgia fe-

tale endoscopica).

Queste terapie “eroiche”, che nei primi anni Ottanta

avevano alimentato la speranza di prevenire il danno

renale associato alle gravi ostruzioni fetali delle vie uri-

narie, sono purtroppo gravate da un altissimo rischio di

complicanze (emorragie fetali, amniositi, perforazioni in-

testinali) a fronte di risultati deludenti sull’evoluzione del-

la funzione renale nel neonato e nel bambino, pertanto

nella pratica clinica rivestono attualmente un ruolo

marginale. Più spesso il vantaggio della diagnosi preco-

ce in queste drammatiche situazioni si limita alla possibi-

lità di prospettare l’interruzione della gravidanza o di

programmare la nascita in centri di eccellenza in nefro-

urologia perinatale, per una precoce presa in carico

del neonato critico.

Al contrario, in tutte le gravidanze di feti che presentano

patologie monolaterali o bilaterali senza segni indirettidi insufficienza renale fetale, la diagnosi prenatale im-

pone solo un attento esame morfologico di tutti gli altri

organi e apparati fetali, per escludere malformazioni as-

sociate (malformazioni multiple indicano un rischio più

alto di anomalie cromosomiche: di 30 volte per difetti

multipli, di 3 volte per difetti isolati) e l’avvio di un pro-

gramma di monitoraggio ecografico della dilatazione.

In nessun caso è giustificata l’indicazione al parto ope-

rativo, né, tanto meno, l’anticipazione della data del

parto; l’unica raccomandazione valida è quella relati-

va alla necessità di valutare il neonato dopo la nascita,

per intraprendere i percorsi diagnostico-terapeutici più

appropriati.

Fin dalla metà degli anni Ottanta, sono stati proposti di-

versi sistemi di classificazione delle dilatazioni delle vie

urinarie fetali, basati sulla misura del diametro antero-

posteriore (DAP) della pelvi renale, ma nella copiosa bi-

bliografia sull’argomento i valori di cut off per discrimi-

nare le pelvi patologiche dalle situazioni fisiologiche so-

no alquanto variabili, rendendo le numerose casistiche

esaminate difficilmente comparabili e i risultati raggiun-

ti contrastanti.

La pletora degli studi prospettici e la loro difformità di-

mostrano che l’ampiezza della pelvi renale, considera-

ta singolarmente, è un parametro insoddisfacente per

la valutazione della gravità della patologia: pelvi relati-

vamente ampie, a espressione “extrarenale”, possono

coesistere con un parenchima renale ben rappresenta-

to e differenziato, mentre pelvi di dimensioni più mode-

ste possono associarsi a dilatazioni marcate dei calici, a

riduzione dello spessore parenchimale, oppure a segni

di displasia che fanno sospettare la presenza di un dan-

no parenchimale renale congenito.

Ciò ha indotto già nel 1993 la Society for Fetal Urology

(SFU) a proporre una classificazione (figura 1) che non

fosse esclusivamente basata sull’ampiezza della pelvi,

ma valutasse contemporaneamente l’aspetto dei cali-

ci e del parenchima renale. Questa classificazione ha ri-

scosso un notevole successo non solo tra i ginecologi

che monitorizzano le dilatazioni fetali, ma anche tra i

neonatologi e i pediatri, che vi fanno riferimento per

confrontare i risultati delle ecografie eseguite dopo la

nascita con i reperti degli esami precedenti.

PRESA IN CARICO DEL NEONATO CON DIAGNOSI DI IDRONEFROSI

Purtroppo la diagnosi tempestiva e la corretta classifi-

cazione delle dilatazioni delle vie escretrici fetali non

comportano un'altrettanto precisa valutazione progno-

stica, né un definito follow up.

L’idronefrosi è, infatti, l’epifenomeno di un ampio spettro

di situazioni, con rilevanza clinica assai diversa: manife-

stazione di patologie importanti sia di tipo ostruttivo che

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refluente, oppure, più spesso, variante morfologica non

associata a ostacoli al deflusso dell'urina né ad altera-

zioni della funzionalità parenchimale, con tendenza al-

la risoluzione spontanea.

Dopo la nascita il neonato con diagnosi prenatale di di-

latazione delle vie urinarie deve essere sottoposto a un

accurato esame obiettivo, con particolare attenzione

nell’ispezione della regione genitale e del meato ure-

trale, nella palpazione dell’addome e nella valutazione

del getto minzionale.

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n e o n a t o l o G i a

pA n. 3 - Maggio/Giugno 2010

Figura 1 - Classificazione ecografica delle idronefrosi secondo leindicazioni della Society for Fetal Urology.a Grado 0: normaleb Grado 1: dilatazione della sola pelvi renalec Grado 2: dilatazione della pelvi e di pochi calicid Grado 3: dilatazione della pelvi e di tutti i calici, con parenchima

renale di spessore normaleeGrado 4. dilatazione della pelvi e di tutti i calici, con riduzione dispessore del parenchima.

Fonte: Fernbach SK, Maizels M, Conway JJ. Ultrasound grading ofhydronephrosis: introduction to the system used by the Society forFetal Urology. Pediatr Radiol 1993;23:478-80.

a

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b

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idronefrosi neonatali: nuove strategie gestionali

n. 3 - Maggio/Giugno 2010Ap

È sempre opportuna una rivalutazione del reperto ecografico, anche nei casi in cui la dilatazione prenata-

le sia risultata di lieve o media entità; rimane invece og-

getto di controversia l’epoca neonatale più idonea per

questa prima ecografia. Alcuni autori ritengono che un

esame troppo precoce non consenta di determinare la

reale entità della dilatazione, a causa della restrizione

della diuresi conseguente alla condizione di fisiologica

disidratazione propria dei primi giorni di vita, mentre nul-

la può aggiungere alla diagnosi delle anomalie di nu-

mero, posizione, forma e volume dei reni, né delle alte-

razioni strutturali già evidenziate in epoca fetale.

Wiener et al. (2002) hanno paragonato i reperti di eco-

grafie eseguite entro le prime 48 ore di vita con quelli rile-

vati fra la 7a e la 10a giornata, trovando nel 44% dei casi

un aumento del grado di idronefrosi dal primo al secon-

do esame, ma in nessuno dei neonati la cui dilatazione

era stata inizialmente sottovalutata una progressione del-

la patologia nel tempo o la necessità di terapia chirurgi-

ca, e potendo quindi concludere che la differenza nel ti-

ming dell’esame non è clinicamente significativa.

L’obiettivo fondamentale della prima ecografia postna-

tale è quello di discriminare due differenti popolazioni:

■ i neonati “a rischio” di sintomi e/o deterioramento fun-

zionale, nei quali può essere opportuno avviare la profi-

lassi delle complicanze infettive e programmare un per-

corso diagnostico invasivo o un attento follow up;

■ i neonati “benigni”, con anomalie prive di significato

clinico, per i quali l'unico rischio è quello di essere sotto-

posti a indagini inappropriate.

Fanno parte della popolazione “a rischio” i neonati con

dilatazione bilaterale, quelli con dilatazione monolate-

rale di grado alto (superiore al grado 2 sec. SFU, o DAP

della pelvi >15 mm), quelli in cui la dilatazione della pel-

vi è associata a segni di displasia, a malformazioni di nu-

mero, forma, posizione e volume sia sul rene dilatato

che sul controlaterale, oppure a dilatazioni dell’uretere.

Sono, invece, inclusi nella popolazione “benigna” quei

neonati nei quali la dilatazione è monolaterale, di gra-

do lieve o medio, senza anomalie associate di numero,

forma, volume e posizione, né alterazioni dell’ecostruttu-

ra di entrambi i reni (figura 2).

Un altro argomento di dibattito è se una ecografia po-

stnatale negativa sia sufficiente a concludere il follow

up; molti autori ritengono che anche qualora l’ecogra-

fia eseguita entro le prime 48 ore di vita non rilevi reper-

ti patologici è opportuno ripeterla intorno al primo me-

se, perché il beneficio di fare rientrare nel follow up quei

pazienti nei quali la disidratazione abbia reso falsamen-

te negativo il primo esame supererebbe lo svantaggio

di un'osservazione “aggressiva”.

Anche in considerazione delle diverse opinioni è oppor-

tuno ribadire che un aspetto fondamentale della presa

in carico è rappresentato dalla condivisione delle scelte

con i genitori, allo scopo di definire insieme il percorso più

appropriato per il singolo bambino e la sua famiglia.

IL NEONATO A RISCHIOSe fosse un’urgenza? Eccezionalmente le dilatazioni delle vie urinarie costitui-

scono un’emergenza neonatale per le seguenti condi-

zioni: valvole dell’uretra posteriore (VUP) o ureterocele

con grave ostruzione al deflusso, idronefrosi bilaterali di

Figura 2 Indicazioni per la valutazione ecografica postnatale

PRIMO CONTROLLO ECOGRAFICO POST-NATALE

Popolazione “benigna”(pielectasia - idronefrosi semplice)

Dilatazioni monolaterali di grado lieve o medio,senza anomalie associate di numero, forma,

volume e posizione, né alterazioni dell’ecostruttura di entrambi i reni

Popolazione “a rischio”(idronefrosi complicata)

Dilatazione bilaterale o monolaterale di gradoelevato, aumento dello spessore della paretevescicale o ureterale, dilatazione consensuale

dell’uretere, segni di displasia, malformazioni associatedi numero, forma, posizione e volume

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grado alto, idronefrosi monolaterali in rene unico o con

displasia controlaterale, idronefrosi giganti che provo-

cano effetto massa, situazioni di insufficienza renale da

grave displasia bilaterale.

Tutte queste situazioni, facilmente evidenziate con l’e-

cografia renale eseguita poco dopo la nascita, merita-

no la valutazione e il monitoraggio della funzionalità re-

nale e il sollecito avvio delle indagini strumentali neces-

sarie alla definizione della diagnosi.

Particolare attenzione deve essere posta nei pazienti

con sospetto di VUP, patologia esclusiva del sesso ma-

schile, che ha un’incidenza variabile da 1/8.000 a

1/25.000 nati vivi, rappresenta l’1% circa delle dilatazio-

ni segnalate in epoca prenatale, ed è tuttora, a dispet-

to della precocità della diagnosi, la patologia ostruttiva

che più comunemente provoca insufficienza renale

(nel 19-64% dei pazienti diagnosticati in epoca prena-

tale e nel 25-40% di quelli diagnosticati dopo la nascita).

Se avesse un RVU? Dopo la prima valutazione ecografica, i neonati che

abbiamo assegnato alla popolazione “a rischio”, nella

maggior parte degli algoritmi tradizionali sono sottopo-

sti ad antibiotico-profilassi e avviati a un percorso dia-

gnostico invasivo, che inizia con una cistouretrografia

minzionale, allo scopo di identificare quel 15-37% di loro

che, secondo i dati della letteratura, risulteranno porta-

tori di reflusso vescico-ureterale (RVU).

Il RVU, una delle più comuni uropatie malformative, rap-

presenta la sfida più ardua degli ultimi anni in nefrouro-

logia pediatrica, con rapida e continua evoluzione del-

le conoscenze. Si sono dimostrati inesatti i classici con-

cetti secondo i quali il RVU poteva indurre il danno re-

nale (nefropatia da reflusso) sia attraverso l’insulto mec-

canico (teoria del martello d’acqua), sia predisponen-

do il bambino alle infezioni, a loro volta responsabili del-

la cascata biochimica dell’infiammazione e quindi del

danno parenchimale e dell’ipertensione (teoria del Big

Bang).

Negli ultimi anni, grazie al monitoraggio ecografico del-

la gravidanza, è emersa una nuova popolazione di pa-

zienti con RVU: non più bambini, ma neonati; meno

femmine, più maschi; non più diagnosi tardive, successi-

ve a sintomi sfumati, ma diagnosi che precedono qua-

lunque evidenza clinica; non terapie inadeguate, ma

interventi appropriati e tempestivi.

Malgrado ciò, gli studi retrospettivi sui registri dei pazien-

ti in dialisi e trapiantati dimostrano che il RVU associato

all’ipodisplasia resta, ancora oggi, il principale respon-

sabile dell’insufficienza renale cronica in età pediatrica

(25% dei casi) e non ci sono sostanziali differenze nella

progressione della malattia tra i pazienti diagnosticati

prima o dopo i sei mesi di vita. Nei neonati con RVU di

grado alto e displasia (quasi tutti di sesso maschile) gli in-

terventi chirurgici, che pure riparano con successo la

giunzione uretero-vescicale refluente, non consentono il

recupero del danno parenchimale associato, né arre-

stano l’evoluzione della nefropatia.

Anche il ruolo dell’antibiotico-profilassi, che, a dispetto

della mancanza di evidenze sull'efficacia nel prevenire

le infezioni delle vie urinarie, è stata per anni una pratica

comune nella gestione dei pazienti con RVU, è ora ri-

messa in discussione. Pennesi et al. (2008) hanno dimo-

strato con un trial randomizzato, multicentrico, in bambi-

ni con RVU dal grado 2 al grado 4, che l’antibiotico-pro-

filassi non è efficace sia nell'evitare episodi di infezioni

delle vie urinarie sia nel prevenire lo sviluppo di nuovi

scars renali.

D’altra parte, è ben documentato, in follow up a medio

e a lungo termine, che le forme di RVU senza danno pa-

renchimale congenito, trattate conservativamente,

hanno una buona prospettiva di guarigione spontanea

nei primi anni di vita, senza complicazioni infettive e sen-

za esiti sulla funzionalità renale.

La mole di nuovi, e in gran parte inaspettati, concetti ha

generato una copiosa produzione di letteratura sull’ar-

gomento, diverse proposte per la gestione diagnostica e

terapeutica, ma nessuna certezza. Degno di nota è il fat-

to che un'importante revisione della Cochrane Collabo-

ration (2007) su questo argomento, dopo aver confronta-

to le differenti strategie di gestione del RVU (nessuna te-

rapia, chirurgia open, trattamenti endoscopici da soli o

associati ad antibiotico-profilassi o antibiotico-profilassi

da sola), ha concluso che non è ancora chiaro se l’iden-

tificazione e il trattamento dei bambini con RVU abbiano

un significativo beneficio sul decorso della patologia.

La gestione postnatale dell’idronefrosi congenita –

quindi la scelta rispetto a chi e a quando sottoporre a

cistouretrografia minzionale – non può prescindere da

queste recenti acquisizioni e le strategie diagnostiche

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n e o n a t o l o G i a

pA n. 3 - Maggio/Giugno 2010

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devono tendere a minimizzare il numero delle indagini

non necessarie e a privilegiare quelle meno invasive e

con il minor rischio radiologico, tenendo presente che

l’obiettivo è la prevenzione del danno parenchimale e

non l’individuazione del RVU.

Anche se non mancano in letteratura algoritmi che pre-

vedono ancora la cistouretrografia minzionale per tutti i

neonati con idronefrosi prenatale, altri autori propongo-

no un percorso diagnostico meno invasivo.

Nella figura 3 è riportata una proposta per la gestione

dei neonati con idronefrosi: le dilatazioni che alla prima

valutazione ecografica postnatale sono assegnate alla

categoria “popolazione a rischio” (idronefrosi bilaterale,

doppio distretto o ureterocele, idroureteronefrosi, au-

mento dello spessore della parete vescicale o uretera-

le, segni di displasia parenchimale, dubbi diagnostici)

sono differenziate da quelle assegnate alla categoria

“popolazione benigna” (la più numerosa); alle dilata-

zioni di quest'ultima può, in sicurezza, essere riservato un

atteggiamento di attesa vigile, con un'osservazione di

8-12 settimane prima di decidere se praticare la cistou-

retrografia minzionale.

Se avesse un’ostruzione?Malgrado la dilatazione segnalata in epoca prenatale

abbia più spesso un significato funzionale, nei neonati

con idronefrosi assegnati al gruppo “a rischio” nei quali

sia stato successivamente escluso un RVU o che pre-

sentino una tendenza all’aumento della dilatazione

nelle prime settimane di vita si pone il sospetto di una

patologia ostruttiva.

L'espressione “uropatia ostruttiva” rappresenta un'indi-

cazione generica, che comprende tutte le patologie

determinate da un ostacolo (intrinseco o estrinseco,

anatomico o funzionale) al deflusso dell'urina; alcune di

queste, come la prune belly syndrome, la valvola dell’u-

retra posteriore e i tumori, hanno evidenze cliniche e/o

ecografiche che ne consentono la diagnosi già nelle

prime tappe dell’iter diagnostico proposto; altre, come

la stenosi del giunto pielo-ureterale o il megauretere

ostruttivo, devono invece essere differenziate dalle dila-

tazioni senza ostruzione.

Diversamente da quanto accade nel RVU, nelle uropa-

tie ostruttive il reperto ecografico riveste un ruolo fonda-

mentale non solo rispetto alla diagnosi e al follow up,

ma anche rispetto al grading, alla formulazione della

prognosi e all’orientamento terapeutico, perché la ne-

cessità di trattamento chirurgico è direttamente pro-

porzionale al grado dell’idronefrosi.

In un classico lavoro, Ransley et al. (1990) presentarono

l’evoluzione clinica in una serie di neonati con idrone-

frosi congenita osservando che tutti i pazienti con DAP

42

idronefrosi neonatali: nuove strategie gestionali

n. 3 - Maggio/Giugno 2010Ap

Figura 3 Proposta per la gestione postnatale dei neonati con segnalazione di dilatazione delle vie urinarie

ECOGRAFIA POST-NATALE

Pielectasia (idronefrosi <grado 2 sec. SFU)

Follow upecografico

Idronefrosi complicata(bilaterale, segni di displasia,

doppio distretto,megauretere, aumentatospessore vescicale, ecc.)

Idronefrosi semplice

Follow upecografico

Sorveglianza IVU

Idronefrosimigliorata o risolta

Idronefrosi persistenteo peggiorata

CUM

CUM

Se RVU––>

DMSA

No RVU––>

Scintigrafiadinamica

Legenda:IVU: infezioni delle vie urinarieCUM: cistouretrografia minzionaleRVU: reflusso vescico-uretraleDMSA: acido dimercaptosuccinico (scintigrafia 99mTc-DMSA)

Page 7: Idronefrosi Fetale AREA PED 2010

della pelvi >50 mm necessitarono di trattamento chirur-

gico, quelli con DAP >30 mm furono sottoposti a inter-

vento nel 58% dei casi, mentre nessuno dei neonati con

DAP <12 mm ebbe necessità di terapia.

Per ottimizzare il contributo dell’ecografia alla diagnosi

differenziale dilatazione/ostruzione sono stati proposti

specifici parametri e varianti metodologiche: la misura

del rapporto tra la superficie del bacinetto e quella del

parenchima, il monitoraggio della lunghezza del rene

sano controlaterale (la cui crescita, se superiore all’at-

tesa, rivela un’ipertrofia vicaria, e quindi, indirettamente,

un danno funzionale del rene ostruito), l’ecografia diu-

retica (in caso di ostruzione l’esecuzione dell’esame do-

po somministrazione di furosemide evidenzia un’accen-

tuazione della dilatazione) .

Tra le varie tecniche proposte, quella che ha riscosso

maggiori consensi è l’applicazione del Doppler per la

misurazione dell’indice di resistenza (IR): un valore >0,70

è considerato significativo di un aumento delle resisten-

ze arteriose renali, quindi di ostruzione. Malgrado questi

virtuosismi ecografici allunghino di molto il tempo ne-

cessario all’esecuzione dell’esame e ne accentuino la

dipendenza dall’operatore, non consentono di supera-

re i limiti dell’ecografia nella valutazione della funziona-

lità renale e della velocità del washout; pertanto, i re-

perti ecografici sospetti di patologia ostruttiva devono

essere integrati con la valutazione scintigrafica.

Nei neonati la scintigrafia dinamica può essere effet-

tuata solo dopo la 8a-12a settimana di vita, quando la

funzione renale è matura; il tracciante raccomandato

è il 99mTc-MAG3 (mercaptoacetiltriglicina), che, essen-

do eliminato quasi esclusivamente per secrezione tubu-

lare, consente la misurazione del flusso plasmatico rena-

le e della capacità di estrazione tubulare renale, com-

parativamente nei due reni, oltre che l’eventuale ese-

cuzione del test alla furosemide, per il calcolo della ve-

locità di escrezione.

Siccome la clearance del mezzo di contrasto dipende

da molti fattori non correlati all’ostruzione, come lo sta-

to di idratazione, la posizione supina o prona, le dimen-

sioni della pelvi, la funzionalità renale globale e lo stato

di replezione vescicale, sono state proposte, largamen-

te adottate e recentemente aggiornate, linee guida

standardizzate per l’esecuzione dell’esame “well-tem-

pered renogram”.

Integrando i risultati della scintigrafia dinamica con i da-

ti morfologici forniti dall’ecografia si possono conoscere

molti dettagli sull’idronefrosi: le dimensioni del bacinetto

renale, il coinvolgimento dei calici, lo spessore del pa-

renchima, la funzionalità renale differenziale, l’anda-

mento delle curve nefrografiche, la velocità del wa-

shout e la risposta allo stimolo diuretico.

Ma tutte queste informazioni sono sufficienti a diagnosti-

care un’ostruzione e, in definitiva, a porre indicazione al-

la terapia chirurgica?

L’unica, inequivocabile, non controversa, definizione

considera l’ostruzione “un ostacolo al flusso urinario che,

se non trattato, causa un progressivo deterioramento

funzionale”. Questa, come spiegano Gordon e Dhillon

(1991), è una valutazione retrospettiva, che può essere

formulata solo dopo un’osservazione periodica delle

conseguenze dell’ostacolato deflusso urinario; dunque,

tutti i risultati acquisiti inizialmente, con le valutazioni

ecografiche e scintigrafiche, non sono sufficienti a di-

stinguere le patologie “ostruttive” da quelle che non al-

tereranno nel tempo la funzionalità parenchimale.

D’altra parte, i follow up a medio e lungo termine con-

dotti nei neonati asintomatici con idronefrosi congenita

dimostrano che in questa popolazione l’evoluzione cli-

nica è diversa che nelle età successive, per i seguenti

aspetti:

- anche le idronefrosi “gravi”, con funzionalità renale sta-

bile o in miglioramento, tendono a risolversi spontanea-

mente in un’alta percentuale di casi (dal 65% all’87%);

- reni con pattern scintigrafico di ostruzione hanno, in

buona parte dei casi, una funzionalità conservata, che

non tende a deteriorarsi nel tempo, oppure può miglio-

rare, se inizialmente compromessa, sia che il paziente

venga trattato chirurgicamente, sia che venga sotto-

posto a un regime “watch and wait”;

- la correzione chirurgica, anche quando migliora il dre-

naggio, non consente il recupero funzionale.

In assenza di conoscenze esaurienti sulla storia naturale

dell’idronefrosi congenita e di marcatori o di strumenti

diagnostici capaci di discriminare le patologie ostrutti-

ve che danneggiano la funzionalità renale da quelle in

cui l’ostacolo non è destinato a interferire con la funzio-

ne, resta ancora controverso quale sia la strategia ge-

stionale corretta.

L’approccio considerato meno invasivo e ragionevol-

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n e o n a t o l o G i a

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mente sicuro è inizialmente conservativo, ma associato

a uno stretto monitoraggio, che assicuri la possibilità di

ricorrere alla terapia chirurgica solo in caso di riduzione

della funzionalità nel rene ostruito, risparmiando quegli

interventi terapeutici che non possono prevenire, limita-

re o recuperare il danno renale.

IL NEONATO “BENIGNO”Se non avesse nulla? La maggior parte delle dilatazioni segnalate in utero è

di entità lieve o media (2-7% di tutte le gravidanze), mo-

nolaterale, non si associa ad anomalie di forma, posizio-

ne ed ecostruttura del rene. Inoltre, non è descritta nei

trattati di patologia medica o di anatomia patologica,

e ha conquistato l’attenzione dei pediatri solo dopo la

diffusione dell’ecografia ostetrica, diventando ben pre-

sto uno degli argomenti più controversi della diagnosti-

ca prenatale.

Anche la definizione di queste condizioni è motivo di

confusione. Gli autori italiani continuano a chiamarle

spesso “pielectasie”, nonostante tale termine sia poco

usato nelle classificazioni internazionali; la Society for Fe-

tal Urology (SFU) le considera idronefrosi di grado 1

(quelle in cui la dilatazione della pelvi non è associata

alla dilatazione dei calici), ma buona parte della lette-

ratura è affezionata al valore in millimetri del DAP della

pelvi e i vari autori considerano cut-off variabili (7 mm,

10 mm o 15 mm). Ovviamente, quanto più basso si con-

sidera il valore-soglia tanto più numerosi saranno i neo-

nati considerati “malati” e tanto maggiore la sensibilità

e minore la specificità dell’ecografia nel riconoscere

forme patologiche (in particolare RVU di basso grado).

I portatori di queste dilatazioni lievi o medie fanno parte

di quella vasta popolazione che abbiamo definito “be-

nigna”. Sono bambini sani, ma continuano ad affollare

gli ambulatori di ecografia e di urologia pediatrica, per-

ché sospettati di potere, forse, in futuro, sviluppare una

patologia; e nel frattempo sono sottoposti a un este-

nuante monitoraggio clinico e strumentale, con ripetu-

te indagini diagnostiche, nonché all’ansia dei genitori

per l’incertezza del loro futuro.

Si è ipotizzato che queste dilatazioni potessero essere la

manifestazione di un'ostruzione delle vie urinarie che,

non rimossa, avrebbe potuto danneggiare la funziona-

lità del rene, ma gli studi prospettici hanno dimostrato

che la necessità di terapia chirurgica è direttamente

proporzionale all’entità della dilatazione pielica e che i

pazienti con dilatazioni modeste (DAP <15mm) presen-

tano spesso una tendenza alla riduzione spontanea

della dilatazione e, comunque, non mostrano alcun

danno funzionale.

Si è anche ipotizzato che i neonati portatori di pielecta-

sie avessero una predisposizione alle infezioni delle vie

urinarie, ma malgrado l’esorbitante numero di campio-

ni di urine raccolte, di contenitori sprecati e di tutto il

tempo trascorso ad attendere le minzioni spontanee,

nessuno ha mai dimostrato tale tendenza. Al contrario, i

lavori su questo argomento concludono che la preva-

lenza di infezioni delle vie urinarie nei bambini con dila-

tazioni lievi e medie è sovrapponibile a quella riscontra-

ta nei controlli.

Si è infine sospettato che le lievi e medie dilatazioni fos-

sero causate dal RVU, e questo sospetto ha implicato

l’avvio di molte profilassi antibiotiche e di indagini inva-

sive come la cistouretrografia minzionale, a notevole im-

patto radiobiologico. Già nel 1994 Marra et al. rilevaro-

no che il RVU è presente spesso (nel 33% dei casi) nel re-

ne controlaterale a uno con pielectasia e recentemen-

te Berrocal et al. (2007) hanno confermato questa os-

servazione, riportando un’incidenza di RVU nel 25,7%

dei reni con dilatazione lieve o media e nel 26,3 % dei

reni controlaterali senza dilatazione.

Tuttavia, questa popolazione di bambini ha dimostrato

di essere al di sopra di tutti i nostri sospetti: non hanno al-

terazioni della funzione renale, non sono portatori di pa-

tologie ostruttive, non hanno un’aumentata incidenza

di RVU, né una predisposizione alle infezioni delle vie uri-

narie. Sono proprio questi i bambini, però, che hanno

pagato alla nostra ignoranza sulla storia naturale di

questa condizione il tributo maggiore, in termini di dolo-

re (per le manovre strumentali invasive alle quali sono

stati sottoposti), di effetti collaterali dei farmaci (per i lun-

ghi periodi di antibiotico-profilassi), di danno radiobiolo-

gico (per le indagini radiologiche impiegate) e, infine, in

termini di ansie parentali.

Sono loro quelli che Dhillon definisce “vittime degli ultra-

suoni” e di tutta quella medicina “immagino-centrica”,

in cui l’euforia di disporre di potenti strumenti diagnosti-

ci ha esaltato la sensazione (illusoria) di poter mettere in

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idronefrosi neonatali: nuove strategie gestionali

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atto, sempre e comunque, efficaci strategie di preven-

zione secondaria, aprendo invece la strada agli ecces-

si della medicina “basata sull’invadenza”.

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