Gruppi ABO, Rh Ereditarietà, trasfusione tipizzazione morbo emolitico fetale.
Idronefrosi Fetale AREA PED 2010
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idronefrosi neonatali: nuove strategie gestionaliRino Agostiniani1, Rossella Galiano2, Luigi Cataldi3
1UO di Pediatria e Neonatologia, Dipartimento Materno Infantile, Pistoia2UO di Neonatologia, Ospedale Pugliese-Ciaccio, Catanzaro3Istituto di Clinica Pediatrica, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma
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pA n. 3 - Maggio/Giugno 2010
GGli esami ecografici eseguiti durante la gravidanza
consentono, in larga misura, una diagnosi tempe-
stiva delle dilatazioni delle vie urinarie fetali, che rappre-
sentano la più frequente malformazione congenita evi-
denziata in utero (1-5% di tutte le gravidanze).
Malgrado la frequenza di tali diagnosi, notevoli differen-
ze persistono nella definizione, nella gestione clinica, ne-
gli algoritmi diagnostici e nel follow up dei neonati con
idronefrosi congenita.
La variabilità nella gestione di questa patologia riflette
la difficoltà nel discriminare le semplici varianti fisiologi-
che dell’anatomia fetale e neonatale, dalle situazioni
che possono associarsi a deterioramento funzionale;
tali incertezze possono condurre all’utilizzo di indagini
strumentali non sempre appropriate, di costose consu-
lenze specialistiche o estenuanti follow up su feti e neo-
nati sani, scatenando ingiustificati e/o sproporzionati ti-
mori nei genitori.
Controversie e dubbi caratterizzano non solo i compor-
tamenti pratici, ma anche l’ampia letteratura sull’argo-
mento, che mette in risalto il contrasto tra gli entusia-
smanti progressi delle procedure diagnostiche, sempre
più precoci e dettagliate, e i deludenti risultati nella pre-
venzione del danno renale e dei suoi esiti a lungo termi-
ne (insufficienza renale cronica, ipertensione, compli-
canze gravidiche).
La migliore conoscenza della storia naturale delle uro-
patie malformative ha comunque contribuito a sposta-
re l’attenzione dai problemi idraulici del flusso urinario,
con le relative tecniche di riparazione dell’ostruzione
e/o del reflusso, ai problemi genetici e biomolecolari
che oggi sembrano avere un ruolo determinante nel-
l’instaurarsi e nel progredire del danno parenchimale.
In attesa che più vasti studi prospettici chiariscano i pun-
ti ancora controversi, ci sembra utile proporre una revi-
sione aggiornata della letteratura e cercare di indivi-
duare, per i neonati con dilatazioni delle vie urinarie, i
percorsi diagnostici e gli interventi terapeutici che mini-
mizzano il rischio di diagnosi tardive e al contempo evi-
tano di sottoporre a indagini strumentali invasive e do-
lorose o a faticosi percorsi di controlli clinici i bambini
che non ne traggano beneficio.
DIAGNOSI PRENATALE: CIÒ CHE IL PEDIATRA DEVE SAPERE
L’ecografia endovaginale consente di visualizzare l’ap-
parato urinario del feto fin dal primo trimestre di gravi-
danza, ma un'adeguata valutazione anatomica si rea-
lizza comunemente fra la 16a e la 20a settimana, con
approccio transaddominale.
L’esame dell’apparato urinario fetale comprende:
■ la rilevazione del liquido amniotico (dopo la 16a setti-
mana i reni del feto ne sono i principali produttori) e il
calcolo dell’indice del liquido amniotico (AFI, Amniotic
Fluid Index), che fa riferimento a parametri obiettivi e ri-
producibili per la diagnosi di oligo e polidramnios;
■ la visualizzazione della vescica fetale (che si svuota e
si riempie, parzialmente o completamente, circa ogni
25 minuti) con la valutazione dello spessore delle pareti
(nei feti di sesso maschile un’ipertrofia può essere asso-
ciata a un ostacolo a livello uretrale);
■ la visualizzazione e la valutazione di forma, posizione e
dimensioni di entrambi i reni;
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■ la valutazione dell’ecostruttura parenchimale renale;
■ la segnalazione di eventuali dilatazioni della via
escretrice (sistema pielocaliceale, ureteri, uretra).
Gli obiettivi della diagnosi prenatale sono due:
■ il riconoscimento di malformazioni gravi e bilaterali,
fortunatamente molto rare, che possono richiedere mo-
dificazioni nel controllo della gravidanza;
■ la segnalazione di patologie meno gravi o monolate-
rali, molto più frequenti, che richiedono una presa in ca-
rico solo dopo la nascita.
Per quanto riguarda le gravi malformazioni bilaterali associate a insufficienza renale fetale, si evidenziano
ecograficamente con oligoidramnios, anomalie sche-
letriche e segni di displasia polmonare.
Solo in questi casi possono trovare indicazione manovre
diagnostiche invasive, come per esempio lo studio del-
la biochimica dell’urina e/o del sangue fetale, nella
prospettiva di trattamenti chirurgici prenatali (shunt ve-
scico-amniotico, chirurgia fetale ex utero e chirurgia fe-
tale endoscopica).
Queste terapie “eroiche”, che nei primi anni Ottanta
avevano alimentato la speranza di prevenire il danno
renale associato alle gravi ostruzioni fetali delle vie uri-
narie, sono purtroppo gravate da un altissimo rischio di
complicanze (emorragie fetali, amniositi, perforazioni in-
testinali) a fronte di risultati deludenti sull’evoluzione del-
la funzione renale nel neonato e nel bambino, pertanto
nella pratica clinica rivestono attualmente un ruolo
marginale. Più spesso il vantaggio della diagnosi preco-
ce in queste drammatiche situazioni si limita alla possibi-
lità di prospettare l’interruzione della gravidanza o di
programmare la nascita in centri di eccellenza in nefro-
urologia perinatale, per una precoce presa in carico
del neonato critico.
Al contrario, in tutte le gravidanze di feti che presentano
patologie monolaterali o bilaterali senza segni indirettidi insufficienza renale fetale, la diagnosi prenatale im-
pone solo un attento esame morfologico di tutti gli altri
organi e apparati fetali, per escludere malformazioni as-
sociate (malformazioni multiple indicano un rischio più
alto di anomalie cromosomiche: di 30 volte per difetti
multipli, di 3 volte per difetti isolati) e l’avvio di un pro-
gramma di monitoraggio ecografico della dilatazione.
In nessun caso è giustificata l’indicazione al parto ope-
rativo, né, tanto meno, l’anticipazione della data del
parto; l’unica raccomandazione valida è quella relati-
va alla necessità di valutare il neonato dopo la nascita,
per intraprendere i percorsi diagnostico-terapeutici più
appropriati.
Fin dalla metà degli anni Ottanta, sono stati proposti di-
versi sistemi di classificazione delle dilatazioni delle vie
urinarie fetali, basati sulla misura del diametro antero-
posteriore (DAP) della pelvi renale, ma nella copiosa bi-
bliografia sull’argomento i valori di cut off per discrimi-
nare le pelvi patologiche dalle situazioni fisiologiche so-
no alquanto variabili, rendendo le numerose casistiche
esaminate difficilmente comparabili e i risultati raggiun-
ti contrastanti.
La pletora degli studi prospettici e la loro difformità di-
mostrano che l’ampiezza della pelvi renale, considera-
ta singolarmente, è un parametro insoddisfacente per
la valutazione della gravità della patologia: pelvi relati-
vamente ampie, a espressione “extrarenale”, possono
coesistere con un parenchima renale ben rappresenta-
to e differenziato, mentre pelvi di dimensioni più mode-
ste possono associarsi a dilatazioni marcate dei calici, a
riduzione dello spessore parenchimale, oppure a segni
di displasia che fanno sospettare la presenza di un dan-
no parenchimale renale congenito.
Ciò ha indotto già nel 1993 la Society for Fetal Urology
(SFU) a proporre una classificazione (figura 1) che non
fosse esclusivamente basata sull’ampiezza della pelvi,
ma valutasse contemporaneamente l’aspetto dei cali-
ci e del parenchima renale. Questa classificazione ha ri-
scosso un notevole successo non solo tra i ginecologi
che monitorizzano le dilatazioni fetali, ma anche tra i
neonatologi e i pediatri, che vi fanno riferimento per
confrontare i risultati delle ecografie eseguite dopo la
nascita con i reperti degli esami precedenti.
PRESA IN CARICO DEL NEONATO CON DIAGNOSI DI IDRONEFROSI
Purtroppo la diagnosi tempestiva e la corretta classifi-
cazione delle dilatazioni delle vie escretrici fetali non
comportano un'altrettanto precisa valutazione progno-
stica, né un definito follow up.
L’idronefrosi è, infatti, l’epifenomeno di un ampio spettro
di situazioni, con rilevanza clinica assai diversa: manife-
stazione di patologie importanti sia di tipo ostruttivo che
refluente, oppure, più spesso, variante morfologica non
associata a ostacoli al deflusso dell'urina né ad altera-
zioni della funzionalità parenchimale, con tendenza al-
la risoluzione spontanea.
Dopo la nascita il neonato con diagnosi prenatale di di-
latazione delle vie urinarie deve essere sottoposto a un
accurato esame obiettivo, con particolare attenzione
nell’ispezione della regione genitale e del meato ure-
trale, nella palpazione dell’addome e nella valutazione
del getto minzionale.
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Figura 1 - Classificazione ecografica delle idronefrosi secondo leindicazioni della Society for Fetal Urology.a Grado 0: normaleb Grado 1: dilatazione della sola pelvi renalec Grado 2: dilatazione della pelvi e di pochi calicid Grado 3: dilatazione della pelvi e di tutti i calici, con parenchima
renale di spessore normaleeGrado 4. dilatazione della pelvi e di tutti i calici, con riduzione dispessore del parenchima.
Fonte: Fernbach SK, Maizels M, Conway JJ. Ultrasound grading ofhydronephrosis: introduction to the system used by the Society forFetal Urology. Pediatr Radiol 1993;23:478-80.
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È sempre opportuna una rivalutazione del reperto ecografico, anche nei casi in cui la dilatazione prenata-
le sia risultata di lieve o media entità; rimane invece og-
getto di controversia l’epoca neonatale più idonea per
questa prima ecografia. Alcuni autori ritengono che un
esame troppo precoce non consenta di determinare la
reale entità della dilatazione, a causa della restrizione
della diuresi conseguente alla condizione di fisiologica
disidratazione propria dei primi giorni di vita, mentre nul-
la può aggiungere alla diagnosi delle anomalie di nu-
mero, posizione, forma e volume dei reni, né delle alte-
razioni strutturali già evidenziate in epoca fetale.
Wiener et al. (2002) hanno paragonato i reperti di eco-
grafie eseguite entro le prime 48 ore di vita con quelli rile-
vati fra la 7a e la 10a giornata, trovando nel 44% dei casi
un aumento del grado di idronefrosi dal primo al secon-
do esame, ma in nessuno dei neonati la cui dilatazione
era stata inizialmente sottovalutata una progressione del-
la patologia nel tempo o la necessità di terapia chirurgi-
ca, e potendo quindi concludere che la differenza nel ti-
ming dell’esame non è clinicamente significativa.
L’obiettivo fondamentale della prima ecografia postna-
tale è quello di discriminare due differenti popolazioni:
■ i neonati “a rischio” di sintomi e/o deterioramento fun-
zionale, nei quali può essere opportuno avviare la profi-
lassi delle complicanze infettive e programmare un per-
corso diagnostico invasivo o un attento follow up;
■ i neonati “benigni”, con anomalie prive di significato
clinico, per i quali l'unico rischio è quello di essere sotto-
posti a indagini inappropriate.
Fanno parte della popolazione “a rischio” i neonati con
dilatazione bilaterale, quelli con dilatazione monolate-
rale di grado alto (superiore al grado 2 sec. SFU, o DAP
della pelvi >15 mm), quelli in cui la dilatazione della pel-
vi è associata a segni di displasia, a malformazioni di nu-
mero, forma, posizione e volume sia sul rene dilatato
che sul controlaterale, oppure a dilatazioni dell’uretere.
Sono, invece, inclusi nella popolazione “benigna” quei
neonati nei quali la dilatazione è monolaterale, di gra-
do lieve o medio, senza anomalie associate di numero,
forma, volume e posizione, né alterazioni dell’ecostruttu-
ra di entrambi i reni (figura 2).
Un altro argomento di dibattito è se una ecografia po-
stnatale negativa sia sufficiente a concludere il follow
up; molti autori ritengono che anche qualora l’ecogra-
fia eseguita entro le prime 48 ore di vita non rilevi reper-
ti patologici è opportuno ripeterla intorno al primo me-
se, perché il beneficio di fare rientrare nel follow up quei
pazienti nei quali la disidratazione abbia reso falsamen-
te negativo il primo esame supererebbe lo svantaggio
di un'osservazione “aggressiva”.
Anche in considerazione delle diverse opinioni è oppor-
tuno ribadire che un aspetto fondamentale della presa
in carico è rappresentato dalla condivisione delle scelte
con i genitori, allo scopo di definire insieme il percorso più
appropriato per il singolo bambino e la sua famiglia.
IL NEONATO A RISCHIOSe fosse un’urgenza? Eccezionalmente le dilatazioni delle vie urinarie costitui-
scono un’emergenza neonatale per le seguenti condi-
zioni: valvole dell’uretra posteriore (VUP) o ureterocele
con grave ostruzione al deflusso, idronefrosi bilaterali di
Figura 2 Indicazioni per la valutazione ecografica postnatale
PRIMO CONTROLLO ECOGRAFICO POST-NATALE
Popolazione “benigna”(pielectasia - idronefrosi semplice)
Dilatazioni monolaterali di grado lieve o medio,senza anomalie associate di numero, forma,
volume e posizione, né alterazioni dell’ecostruttura di entrambi i reni
Popolazione “a rischio”(idronefrosi complicata)
Dilatazione bilaterale o monolaterale di gradoelevato, aumento dello spessore della paretevescicale o ureterale, dilatazione consensuale
dell’uretere, segni di displasia, malformazioni associatedi numero, forma, posizione e volume
grado alto, idronefrosi monolaterali in rene unico o con
displasia controlaterale, idronefrosi giganti che provo-
cano effetto massa, situazioni di insufficienza renale da
grave displasia bilaterale.
Tutte queste situazioni, facilmente evidenziate con l’e-
cografia renale eseguita poco dopo la nascita, merita-
no la valutazione e il monitoraggio della funzionalità re-
nale e il sollecito avvio delle indagini strumentali neces-
sarie alla definizione della diagnosi.
Particolare attenzione deve essere posta nei pazienti
con sospetto di VUP, patologia esclusiva del sesso ma-
schile, che ha un’incidenza variabile da 1/8.000 a
1/25.000 nati vivi, rappresenta l’1% circa delle dilatazio-
ni segnalate in epoca prenatale, ed è tuttora, a dispet-
to della precocità della diagnosi, la patologia ostruttiva
che più comunemente provoca insufficienza renale
(nel 19-64% dei pazienti diagnosticati in epoca prena-
tale e nel 25-40% di quelli diagnosticati dopo la nascita).
Se avesse un RVU? Dopo la prima valutazione ecografica, i neonati che
abbiamo assegnato alla popolazione “a rischio”, nella
maggior parte degli algoritmi tradizionali sono sottopo-
sti ad antibiotico-profilassi e avviati a un percorso dia-
gnostico invasivo, che inizia con una cistouretrografia
minzionale, allo scopo di identificare quel 15-37% di loro
che, secondo i dati della letteratura, risulteranno porta-
tori di reflusso vescico-ureterale (RVU).
Il RVU, una delle più comuni uropatie malformative, rap-
presenta la sfida più ardua degli ultimi anni in nefrouro-
logia pediatrica, con rapida e continua evoluzione del-
le conoscenze. Si sono dimostrati inesatti i classici con-
cetti secondo i quali il RVU poteva indurre il danno re-
nale (nefropatia da reflusso) sia attraverso l’insulto mec-
canico (teoria del martello d’acqua), sia predisponen-
do il bambino alle infezioni, a loro volta responsabili del-
la cascata biochimica dell’infiammazione e quindi del
danno parenchimale e dell’ipertensione (teoria del Big
Bang).
Negli ultimi anni, grazie al monitoraggio ecografico del-
la gravidanza, è emersa una nuova popolazione di pa-
zienti con RVU: non più bambini, ma neonati; meno
femmine, più maschi; non più diagnosi tardive, successi-
ve a sintomi sfumati, ma diagnosi che precedono qua-
lunque evidenza clinica; non terapie inadeguate, ma
interventi appropriati e tempestivi.
Malgrado ciò, gli studi retrospettivi sui registri dei pazien-
ti in dialisi e trapiantati dimostrano che il RVU associato
all’ipodisplasia resta, ancora oggi, il principale respon-
sabile dell’insufficienza renale cronica in età pediatrica
(25% dei casi) e non ci sono sostanziali differenze nella
progressione della malattia tra i pazienti diagnosticati
prima o dopo i sei mesi di vita. Nei neonati con RVU di
grado alto e displasia (quasi tutti di sesso maschile) gli in-
terventi chirurgici, che pure riparano con successo la
giunzione uretero-vescicale refluente, non consentono il
recupero del danno parenchimale associato, né arre-
stano l’evoluzione della nefropatia.
Anche il ruolo dell’antibiotico-profilassi, che, a dispetto
della mancanza di evidenze sull'efficacia nel prevenire
le infezioni delle vie urinarie, è stata per anni una pratica
comune nella gestione dei pazienti con RVU, è ora ri-
messa in discussione. Pennesi et al. (2008) hanno dimo-
strato con un trial randomizzato, multicentrico, in bambi-
ni con RVU dal grado 2 al grado 4, che l’antibiotico-pro-
filassi non è efficace sia nell'evitare episodi di infezioni
delle vie urinarie sia nel prevenire lo sviluppo di nuovi
scars renali.
D’altra parte, è ben documentato, in follow up a medio
e a lungo termine, che le forme di RVU senza danno pa-
renchimale congenito, trattate conservativamente,
hanno una buona prospettiva di guarigione spontanea
nei primi anni di vita, senza complicazioni infettive e sen-
za esiti sulla funzionalità renale.
La mole di nuovi, e in gran parte inaspettati, concetti ha
generato una copiosa produzione di letteratura sull’ar-
gomento, diverse proposte per la gestione diagnostica e
terapeutica, ma nessuna certezza. Degno di nota è il fat-
to che un'importante revisione della Cochrane Collabo-
ration (2007) su questo argomento, dopo aver confronta-
to le differenti strategie di gestione del RVU (nessuna te-
rapia, chirurgia open, trattamenti endoscopici da soli o
associati ad antibiotico-profilassi o antibiotico-profilassi
da sola), ha concluso che non è ancora chiaro se l’iden-
tificazione e il trattamento dei bambini con RVU abbiano
un significativo beneficio sul decorso della patologia.
La gestione postnatale dell’idronefrosi congenita –
quindi la scelta rispetto a chi e a quando sottoporre a
cistouretrografia minzionale – non può prescindere da
queste recenti acquisizioni e le strategie diagnostiche
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devono tendere a minimizzare il numero delle indagini
non necessarie e a privilegiare quelle meno invasive e
con il minor rischio radiologico, tenendo presente che
l’obiettivo è la prevenzione del danno parenchimale e
non l’individuazione del RVU.
Anche se non mancano in letteratura algoritmi che pre-
vedono ancora la cistouretrografia minzionale per tutti i
neonati con idronefrosi prenatale, altri autori propongo-
no un percorso diagnostico meno invasivo.
Nella figura 3 è riportata una proposta per la gestione
dei neonati con idronefrosi: le dilatazioni che alla prima
valutazione ecografica postnatale sono assegnate alla
categoria “popolazione a rischio” (idronefrosi bilaterale,
doppio distretto o ureterocele, idroureteronefrosi, au-
mento dello spessore della parete vescicale o uretera-
le, segni di displasia parenchimale, dubbi diagnostici)
sono differenziate da quelle assegnate alla categoria
“popolazione benigna” (la più numerosa); alle dilata-
zioni di quest'ultima può, in sicurezza, essere riservato un
atteggiamento di attesa vigile, con un'osservazione di
8-12 settimane prima di decidere se praticare la cistou-
retrografia minzionale.
Se avesse un’ostruzione?Malgrado la dilatazione segnalata in epoca prenatale
abbia più spesso un significato funzionale, nei neonati
con idronefrosi assegnati al gruppo “a rischio” nei quali
sia stato successivamente escluso un RVU o che pre-
sentino una tendenza all’aumento della dilatazione
nelle prime settimane di vita si pone il sospetto di una
patologia ostruttiva.
L'espressione “uropatia ostruttiva” rappresenta un'indi-
cazione generica, che comprende tutte le patologie
determinate da un ostacolo (intrinseco o estrinseco,
anatomico o funzionale) al deflusso dell'urina; alcune di
queste, come la prune belly syndrome, la valvola dell’u-
retra posteriore e i tumori, hanno evidenze cliniche e/o
ecografiche che ne consentono la diagnosi già nelle
prime tappe dell’iter diagnostico proposto; altre, come
la stenosi del giunto pielo-ureterale o il megauretere
ostruttivo, devono invece essere differenziate dalle dila-
tazioni senza ostruzione.
Diversamente da quanto accade nel RVU, nelle uropa-
tie ostruttive il reperto ecografico riveste un ruolo fonda-
mentale non solo rispetto alla diagnosi e al follow up,
ma anche rispetto al grading, alla formulazione della
prognosi e all’orientamento terapeutico, perché la ne-
cessità di trattamento chirurgico è direttamente pro-
porzionale al grado dell’idronefrosi.
In un classico lavoro, Ransley et al. (1990) presentarono
l’evoluzione clinica in una serie di neonati con idrone-
frosi congenita osservando che tutti i pazienti con DAP
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Figura 3 Proposta per la gestione postnatale dei neonati con segnalazione di dilatazione delle vie urinarie
ECOGRAFIA POST-NATALE
Pielectasia (idronefrosi <grado 2 sec. SFU)
Follow upecografico
Idronefrosi complicata(bilaterale, segni di displasia,
doppio distretto,megauretere, aumentatospessore vescicale, ecc.)
Idronefrosi semplice
Follow upecografico
Sorveglianza IVU
Idronefrosimigliorata o risolta
Idronefrosi persistenteo peggiorata
CUM
CUM
Se RVU––>
DMSA
No RVU––>
Scintigrafiadinamica
Legenda:IVU: infezioni delle vie urinarieCUM: cistouretrografia minzionaleRVU: reflusso vescico-uretraleDMSA: acido dimercaptosuccinico (scintigrafia 99mTc-DMSA)
della pelvi >50 mm necessitarono di trattamento chirur-
gico, quelli con DAP >30 mm furono sottoposti a inter-
vento nel 58% dei casi, mentre nessuno dei neonati con
DAP <12 mm ebbe necessità di terapia.
Per ottimizzare il contributo dell’ecografia alla diagnosi
differenziale dilatazione/ostruzione sono stati proposti
specifici parametri e varianti metodologiche: la misura
del rapporto tra la superficie del bacinetto e quella del
parenchima, il monitoraggio della lunghezza del rene
sano controlaterale (la cui crescita, se superiore all’at-
tesa, rivela un’ipertrofia vicaria, e quindi, indirettamente,
un danno funzionale del rene ostruito), l’ecografia diu-
retica (in caso di ostruzione l’esecuzione dell’esame do-
po somministrazione di furosemide evidenzia un’accen-
tuazione della dilatazione) .
Tra le varie tecniche proposte, quella che ha riscosso
maggiori consensi è l’applicazione del Doppler per la
misurazione dell’indice di resistenza (IR): un valore >0,70
è considerato significativo di un aumento delle resisten-
ze arteriose renali, quindi di ostruzione. Malgrado questi
virtuosismi ecografici allunghino di molto il tempo ne-
cessario all’esecuzione dell’esame e ne accentuino la
dipendenza dall’operatore, non consentono di supera-
re i limiti dell’ecografia nella valutazione della funziona-
lità renale e della velocità del washout; pertanto, i re-
perti ecografici sospetti di patologia ostruttiva devono
essere integrati con la valutazione scintigrafica.
Nei neonati la scintigrafia dinamica può essere effet-
tuata solo dopo la 8a-12a settimana di vita, quando la
funzione renale è matura; il tracciante raccomandato
è il 99mTc-MAG3 (mercaptoacetiltriglicina), che, essen-
do eliminato quasi esclusivamente per secrezione tubu-
lare, consente la misurazione del flusso plasmatico rena-
le e della capacità di estrazione tubulare renale, com-
parativamente nei due reni, oltre che l’eventuale ese-
cuzione del test alla furosemide, per il calcolo della ve-
locità di escrezione.
Siccome la clearance del mezzo di contrasto dipende
da molti fattori non correlati all’ostruzione, come lo sta-
to di idratazione, la posizione supina o prona, le dimen-
sioni della pelvi, la funzionalità renale globale e lo stato
di replezione vescicale, sono state proposte, largamen-
te adottate e recentemente aggiornate, linee guida
standardizzate per l’esecuzione dell’esame “well-tem-
pered renogram”.
Integrando i risultati della scintigrafia dinamica con i da-
ti morfologici forniti dall’ecografia si possono conoscere
molti dettagli sull’idronefrosi: le dimensioni del bacinetto
renale, il coinvolgimento dei calici, lo spessore del pa-
renchima, la funzionalità renale differenziale, l’anda-
mento delle curve nefrografiche, la velocità del wa-
shout e la risposta allo stimolo diuretico.
Ma tutte queste informazioni sono sufficienti a diagnosti-
care un’ostruzione e, in definitiva, a porre indicazione al-
la terapia chirurgica?
L’unica, inequivocabile, non controversa, definizione
considera l’ostruzione “un ostacolo al flusso urinario che,
se non trattato, causa un progressivo deterioramento
funzionale”. Questa, come spiegano Gordon e Dhillon
(1991), è una valutazione retrospettiva, che può essere
formulata solo dopo un’osservazione periodica delle
conseguenze dell’ostacolato deflusso urinario; dunque,
tutti i risultati acquisiti inizialmente, con le valutazioni
ecografiche e scintigrafiche, non sono sufficienti a di-
stinguere le patologie “ostruttive” da quelle che non al-
tereranno nel tempo la funzionalità parenchimale.
D’altra parte, i follow up a medio e lungo termine con-
dotti nei neonati asintomatici con idronefrosi congenita
dimostrano che in questa popolazione l’evoluzione cli-
nica è diversa che nelle età successive, per i seguenti
aspetti:
- anche le idronefrosi “gravi”, con funzionalità renale sta-
bile o in miglioramento, tendono a risolversi spontanea-
mente in un’alta percentuale di casi (dal 65% all’87%);
- reni con pattern scintigrafico di ostruzione hanno, in
buona parte dei casi, una funzionalità conservata, che
non tende a deteriorarsi nel tempo, oppure può miglio-
rare, se inizialmente compromessa, sia che il paziente
venga trattato chirurgicamente, sia che venga sotto-
posto a un regime “watch and wait”;
- la correzione chirurgica, anche quando migliora il dre-
naggio, non consente il recupero funzionale.
In assenza di conoscenze esaurienti sulla storia naturale
dell’idronefrosi congenita e di marcatori o di strumenti
diagnostici capaci di discriminare le patologie ostrutti-
ve che danneggiano la funzionalità renale da quelle in
cui l’ostacolo non è destinato a interferire con la funzio-
ne, resta ancora controverso quale sia la strategia ge-
stionale corretta.
L’approccio considerato meno invasivo e ragionevol-
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mente sicuro è inizialmente conservativo, ma associato
a uno stretto monitoraggio, che assicuri la possibilità di
ricorrere alla terapia chirurgica solo in caso di riduzione
della funzionalità nel rene ostruito, risparmiando quegli
interventi terapeutici che non possono prevenire, limita-
re o recuperare il danno renale.
IL NEONATO “BENIGNO”Se non avesse nulla? La maggior parte delle dilatazioni segnalate in utero è
di entità lieve o media (2-7% di tutte le gravidanze), mo-
nolaterale, non si associa ad anomalie di forma, posizio-
ne ed ecostruttura del rene. Inoltre, non è descritta nei
trattati di patologia medica o di anatomia patologica,
e ha conquistato l’attenzione dei pediatri solo dopo la
diffusione dell’ecografia ostetrica, diventando ben pre-
sto uno degli argomenti più controversi della diagnosti-
ca prenatale.
Anche la definizione di queste condizioni è motivo di
confusione. Gli autori italiani continuano a chiamarle
spesso “pielectasie”, nonostante tale termine sia poco
usato nelle classificazioni internazionali; la Society for Fe-
tal Urology (SFU) le considera idronefrosi di grado 1
(quelle in cui la dilatazione della pelvi non è associata
alla dilatazione dei calici), ma buona parte della lette-
ratura è affezionata al valore in millimetri del DAP della
pelvi e i vari autori considerano cut-off variabili (7 mm,
10 mm o 15 mm). Ovviamente, quanto più basso si con-
sidera il valore-soglia tanto più numerosi saranno i neo-
nati considerati “malati” e tanto maggiore la sensibilità
e minore la specificità dell’ecografia nel riconoscere
forme patologiche (in particolare RVU di basso grado).
I portatori di queste dilatazioni lievi o medie fanno parte
di quella vasta popolazione che abbiamo definito “be-
nigna”. Sono bambini sani, ma continuano ad affollare
gli ambulatori di ecografia e di urologia pediatrica, per-
ché sospettati di potere, forse, in futuro, sviluppare una
patologia; e nel frattempo sono sottoposti a un este-
nuante monitoraggio clinico e strumentale, con ripetu-
te indagini diagnostiche, nonché all’ansia dei genitori
per l’incertezza del loro futuro.
Si è ipotizzato che queste dilatazioni potessero essere la
manifestazione di un'ostruzione delle vie urinarie che,
non rimossa, avrebbe potuto danneggiare la funziona-
lità del rene, ma gli studi prospettici hanno dimostrato
che la necessità di terapia chirurgica è direttamente
proporzionale all’entità della dilatazione pielica e che i
pazienti con dilatazioni modeste (DAP <15mm) presen-
tano spesso una tendenza alla riduzione spontanea
della dilatazione e, comunque, non mostrano alcun
danno funzionale.
Si è anche ipotizzato che i neonati portatori di pielecta-
sie avessero una predisposizione alle infezioni delle vie
urinarie, ma malgrado l’esorbitante numero di campio-
ni di urine raccolte, di contenitori sprecati e di tutto il
tempo trascorso ad attendere le minzioni spontanee,
nessuno ha mai dimostrato tale tendenza. Al contrario, i
lavori su questo argomento concludono che la preva-
lenza di infezioni delle vie urinarie nei bambini con dila-
tazioni lievi e medie è sovrapponibile a quella riscontra-
ta nei controlli.
Si è infine sospettato che le lievi e medie dilatazioni fos-
sero causate dal RVU, e questo sospetto ha implicato
l’avvio di molte profilassi antibiotiche e di indagini inva-
sive come la cistouretrografia minzionale, a notevole im-
patto radiobiologico. Già nel 1994 Marra et al. rilevaro-
no che il RVU è presente spesso (nel 33% dei casi) nel re-
ne controlaterale a uno con pielectasia e recentemen-
te Berrocal et al. (2007) hanno confermato questa os-
servazione, riportando un’incidenza di RVU nel 25,7%
dei reni con dilatazione lieve o media e nel 26,3 % dei
reni controlaterali senza dilatazione.
Tuttavia, questa popolazione di bambini ha dimostrato
di essere al di sopra di tutti i nostri sospetti: non hanno al-
terazioni della funzione renale, non sono portatori di pa-
tologie ostruttive, non hanno un’aumentata incidenza
di RVU, né una predisposizione alle infezioni delle vie uri-
narie. Sono proprio questi i bambini, però, che hanno
pagato alla nostra ignoranza sulla storia naturale di
questa condizione il tributo maggiore, in termini di dolo-
re (per le manovre strumentali invasive alle quali sono
stati sottoposti), di effetti collaterali dei farmaci (per i lun-
ghi periodi di antibiotico-profilassi), di danno radiobiolo-
gico (per le indagini radiologiche impiegate) e, infine, in
termini di ansie parentali.
Sono loro quelli che Dhillon definisce “vittime degli ultra-
suoni” e di tutta quella medicina “immagino-centrica”,
in cui l’euforia di disporre di potenti strumenti diagnosti-
ci ha esaltato la sensazione (illusoria) di poter mettere in
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idronefrosi neonatali: nuove strategie gestionali
n. 3 - Maggio/Giugno 2010Ap
atto, sempre e comunque, efficaci strategie di preven-
zione secondaria, aprendo invece la strada agli ecces-
si della medicina “basata sull’invadenza”.
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