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I castelli del Molise

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I castelli del Molise

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Laboratorio Lettere/Informatica Anno Scolastico 2008/2009

Istituto Comprensivo di Trivento

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Con il procedere degli studi storici, fra XVII e XX secolo, si è progressivamente compreso come un cosi lungo arco di secoli racchiuda in sé situazioni e condizioni politiche, economiche e culturali molto diverse tra loro, che differiscono non solo per ragioni cronologiche, ma anche a seconda dei diversi contesti geografici. Si possono individuare almeno tre ripartizioni cronologiche ulteriori: L’ALTO MEDIOEVO, che comprende il periodo tra la fine dell’ Impero Romano e, grosso modo, il X secolo, ma per alcuni può essere esteso sino all’ XI secolo; Il MEDIOEVO CENTRALE che comprende i secoli da X/XI sino al XIII; Il BASSO MEDIOEVO, che comprende i secoli XIV e XV.

Il medioevo, come epoca storica a sé stante, e una creazione degli storici che, a partire dal Rinascimento, hanno guardato al lungo intervallo di tempo trascorso dalla fine dell’impero Romano d’occidente sino ai loro giorni, come un lungo intervallo durante il quale la “civiltà” si era dapprima oscurata, e quindi faticosamente ricostruita, attraverso un faticoso itinerario di fuoriuscita dall’ignoranza e dalla superstizione.

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Il castello di Gambatesa, ubicato ai margini del centro storico, domina la valle del Tappino verso la quale protende le sue torri angolari a base quadrangolare. Riferimenti storici relativi al castello mancano. Il primo intervento riguardò la realizzazione di un corpo di fabbrica che andò ad innestarsi sulla metà esterna del lato nord della torre, rispetto alla quale, divergeva lievemente verso est. Successivamente fu realizzata l’ala ad ovest che, sovrapponendosi a questo lato del torrione, conferì all’insieme la caratteristica forma planimetrica a “forcina”. Allo stesso periodo risalgono le due torri angolari. Dopo il 1484, quando il feudo era affidato ai signori della famiglia Di Capua, fu realizzato sul versante nord un corpo di fabbrica e il castello fu modificato nella divisione degli spazi interni e le facciate si arricchirono di nuove aperture con pregevoli incorniciature in pietra.

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Il castello di Gambatesa si caratterizza per un ricco ciclo di affreschi che si dispiega sulle pareti del primo piano e probabilmente, a giudicare dai frammenti decorativi superstiti, anche al piano superiore. L’iscrizione apposta su una delle porte del salone del castello riporta il nome dell’artista pittorico: “Donatus omnia elaboravit”. Si tratta di Donato di Cupertino operante nel 1550 sotto Vincenzo di Capua duca di Termoli.L’entrata del castello presenta un androne con coperture a tre volte, di cui una soltanto conserva l’affresco raffigurante nelle vele una serie di scene mitologiche, fra le quali in particolare si sottolinea il “ratto d’ Europa”, e lungo i costoloni, festoni di fiori e di frutti. Attraverso un breve passaggio con volte dipinte a motivi a stella, si accede al salone principale interamente affrescato sui quattro lati con scene mitologiche.

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Dopo la fine dell’Impero Romano d’Occidente (476), l’Italia Meridionale - come tutto il resto della Penisola – conosce prima l’occupazione dei Goti e poi l’annessione all’Impero Romano d’Oriente (Impero Bizantino), dopo una guerra lunga e sanguinosa (guerra greco/gotica 535–553). Questi eventi, sebbene portino a cambiamenti sostanziali nelle condizioni di vita delle popolazioni italiane, in direzione di un generale impoverimento e di una profonda disarticolazione del tessuto sociale, tuttavia non mutano una condizione di fondo, stabilita oltre 500 anni prima : l’unità politico-amministrativa della Penisola. Solo con l’arrivo dei Longobardi (a partire dal 568 ) si spezza questa situazione e la frammentazione politica sarà la condizione abituale dei territori italiani sino al XIX secolo. Nelle regioni meridionali si forma, fra 570 e 580, un nucleo longobardo indipendente, gravitante sulla città di Benevento, caposaldo strategico delle comunicazioni fra Adriatico e Tirreno.

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Nel corso del VII secolo, anche queste ultime vengono erose dall’espansionismo longobardo, cosicché, intorno al 700, restano in mano bizantina solo Napoli e i dintorni, la Calabria centromeridionale e la punta meridionale della Puglia (il Salento). I longobardi beneventani, sottoposti a un duca, si avviano a diventare padroni dell’ intero Meridione ,quando, fra 770 e 780 ,un fatto nuovo scuote tutto il panorama politico europeo: i Franchi, sotto la guida di Carlo Magno, intraprendono una serie di campagne militari vittoriose che li portano, nel 774, anche ad invadere l’Italia e a impadronirsi del regno longobardo e della sua capitale, Pavia. Anche il ducato di Benevento è sottoposto alla pressione dei Franchi e ne deve riconoscere formalmente l’autorità, sebbene il Meridione non sia mai oggetto di una vera e propria conquista da parte di Carlo Magno.

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Il castello di Termoli fu edificato all’epoca di Federico II di Svevia, come un tempo dimostrava l’epigrafe che andò smarrita durante la demolizione di una delle torri dei contrafforti. Su di essa era scritto che Federico II aveva fatto costruire la fortezza nel 1247, sette anni dopo il saccheggio condotto dai Veneziani sulla costa molisana. Secondo alcuni studiosi la sua costruzione risalirebbe alle seconda metà del VI secolo d. C., nel momento in cui la città entrò a far parte del Ducato di Benevento, ma non si hanno di ciò prove archeologiche. Durante la dominazione normanna Termoli fu dotata di un porto che assunse una certa importanza strategica e che fu potenziato in epoca angioina. Il castello di Termoli, meglio definito “ Torre castellata”, si presenta oggi come un bastione fortificato proteso verso l’Adriatico, racchiuso da una cinta muraria con una apertura in corrispondenza dall’ accesso dalla terraferma, e difeso da una torre di vedetta del XIII secolo.

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La torre quadrata si innalza sullo spigolo nordovest dell’antica cinta muraria della città, terminante agli angoli con quattro piccole torri cilindriche di vedetta. In epoche posteriori il castello perse in parte il ruolo di opera essenzialmente militare; ciò avvenne quando, affermatosi il dominio spagnolo e ridotti notevolmente i pericoli interni ed esterni, cominciò per la costa adriatica un periodo di relativa calma e quindi di progressivo disuso per le opere belliche. Alle pareti vennero sovrapposte decorazioni, furono aperte finestre e allargate feritoie. Le famiglie feudatarie furono i Di Capua, i D ‘Angio, i Durazzo, i Gambatesa, i Pappacoda, i Pignatelli e i Cattaneo. Oggi è di proprietà comunale ed è sede di una stazione metereologica dell’ Aeronautica Militare.

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A partire dal IX secolo, in seguito alle invasioni, alle guerre e alle scorrerie di predoni che minacciavano l‘Occidente, l’Europa si riempì di nuove costruzioni fortificate, il cui primo scopo era la difesa. Gli storici hanno chiamato questo fenomeno “incastellamento”. In queste costruzioni trovavano rifugio, in caso di guerra, gli abitanti delle campagne e dei villaggi dei dintorni.I primi castelli erano costituiti da semplici palizzate di legno circondate da un fossato. Grosse torri stavano a una certa distanza tra loro lungo il perimetro esterno. Nel centro sorgeva invece un’alta costruzione, anche essa di legno: il maschio o mastio, posto nel punto più elevato. Esso ospitava gli ambienti più importanti del castello: la torre di guardia, l’abitazione del castellano, la prigione e la sala del tesoro. Non vi era accesso dal pianterreno: la porta si trovava a diversi metri di altezza dal suolo, per cui si poteva entrare soltanto attraverso un ponte volante o una scala portatile. In caso di allarme, era facile impedire l’ingresso ai nemici. Solo verso la fine del X secolo si cominciarono a costruire castelli in pietra e la tecnica edilizia si perfezionò nel corso del XII e XIII secolo. I castelli diventarono allora vere e proprie fortezze, vaste come città, sapientemente organizzate e ben difese.

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La fortezza era circondata dal muro dotato di merli e torri di guardia. Al di fuori scorreva un fossato profondo. Porte a saracinesca e ponti levatoi permettevano l’accesso all’interno. In caso di attacco, dalle mura e dalle torri si potevano lanciare facilmente pietre e olio bollente sui nemici.All’interno del grande recinto lo spazio era di solito diviso in due cortili: uno, più piccolo, circondava il mastio; l’altro, più ampio, conteneva gli edifici, addossati gli uni agli altri: le case dei servi, le scuderie, i magazzini e la cappella. Un muro merlato separava i due cortili per rafforzare la difesa del mastio in caso di aggressione. All’esterno del muro perimetrale si trovava un sentiero, la “lizza”, dove, in caso di assedio, i soldati facevano la guardia giorno e notte.

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La dimora del castellano medievale aveva scale e corridoi stretti, piccole finestre senza vetri, pavimenti ricoperti di paglia o di stuoie, un mobilio essenziale. Essa si sviluppava in verticale: al primo piano si trovava la grande sala dove il signore dava udienza, amministrava la giustizia, riceveva gli ospiti e spesso accoglieva musicisti e menestrelli; al secondo erano collocate le stanze private del castellano e di sua moglie; al terzo e al quarto quelle dei figli e dei camerieri. Le condizioni igieniche non erano certo invidiabili: la mancanza di acqua corrente e di bagni era una cosa normale per il castellano come per il contadino. Il sistema di riscaldamento era invece affidato a grandi bracieri e a focolari collocati in ogni stanza. Solo col passare dei secoli il castello perse la sua originaria funzione difensiva e militare e divenne una dimora signorile, lussuosa e riccamente arredata, con parchi, giardini, cortili e saloni per le feste e i ricevimenti dei signori. Ma per tutto questo bisognerà attendere il XVI secolo.

La dimora del castellano

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Il castello di Carpinone, sorto intorno al X secolo a picco sul fiume Carpino, fu raso al suolo ad opera di Federico II di Svevia nel 1223. Successivamente, ricostruito nel XIV secolo per volere della famiglia D’EVOLI, nel 1400 fu ampliato ed arricchito dal condottiero Giacomo Caldora e dopo di lui dal figlio Antonio che prescelse il castello come sua abituale dimora. La battaglia di Sessano del 1442 per conto degli Angioini, segnò il declino dei Caldora e portò il re aragonese Alfonso I tra gli spalti del maniero. Il re mostrò di apprezzare molto il valore del capitano Antonio Caldora, nel cui castello fu ospite la sera stessa della battaglia e non volle privarlo dei suoi beni. La dimora baronale del 1500, come descrive il Perrella, spesso ospitava i convenuti ai vari tornei di caccia, organizzati nella valle e nei boschi circostanti ove si praticava anche la caccia con il falcone. Danneggiato dai terremoti del 1456 e del 1805, attualmente il castello si presenta con una pianta a pentagono irregolare, dominato da un frontale merlato tra le due torri cilindriche che si affacciano sull’abitato e che seguono l’andamento del suolo roccioso. Recentemente l’edificio è stato restaurato e modificato, soprattutto nella divisione degli spazi interni, dai privati che vi risiedono.

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Il castello era la residenza fortificata del signore. Viverci non era confortevole, almeno a giudicare con i criteri di oggi. Gli ambienti riscaldati erano pochi. L’ acqua proveniva da un pozzo situato nei sotterranei e i servizi igienici erano scomodi, quando non mancavano del tutto. Nelle stanze il mobilio era scarso. Oltre ai letti che erano larghi e imponenti - potevano ospitare diverse persone e a volte, per salirci era necessaria una scaletta -, c’erano panche, sgabelli e numerosi bauli in cui si riponevano abiti, stoffe, biancheria e vasellame. Un robusto forziere, ben protetto da serrature, custodiva il tesoro del signore: oggetti preziosi e monete d’argento. Le tavole per il pranzo non erano che lunghe assi appoggiate su cavalletti che, dopo l’uso, si accostavano alle pareti per guadagnare spazio. L’ambiente principale del castello era la sala, che nei castelli di pietra era riscaldata dal fuoco del camino e illuminata da torce, lucerne e candele. Grandi tappeti ornamentali, gli arazzi erano appesi alle pareti per isolarle dal freddo dell’esterno.

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Per la sua posizione di transito nel percorso che conduceva verso l’entroterra del Sannio, Venafro ha sempre rappresentato un anello di collegamento dal punto di vista difensivo dell’alta Valle del Volturno. Posto a nord-est dell’area di inurbamento di età romana, il castello assunse le forme tipiche di una fortificazione-recinto intorno al X secolo. In questo periodo Venafro era uno dei gastaldati del ducato di Benevento e quindi il centro in cui agiva uno dei rappresentanti territoriali del duca. Col trascorrere dei secoli fasi di intervento si alternarono a momenti di stasi, come accade durante l’occupazione sveva, periodo in cui Venafro fu privata dell’uso delle fortificazioni subendo una totale distruzione del sito.

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Attualmente esso si presenta articolato intorno ad un cortile rettangolare, da cui un tempo si accedeva agli ambienti di servizio come magazzini, cisterne, forni, cucine e mediante una scalinata ai piani superiori. Sono evidenti delle torri cilindriche e delle cortine sul lato sud. Di particolare importanza e` all’interno la ricca e pregiata decorazione ad affresco. Essa si snoda su tutto il piano nobile e il tema centrale e´ costituito da una teoria di cavalli a grandezza naturale realizzati per volere di Enrico Pandone che con la sua famiglia abitò il castello nel corso della prima metà del XVI secolo. L´episodio figurativo del castello Pandone rimane isolato; non ci è giunta notizia di altri cicli cinquecenteschi di soggetto religioso, nè di imprese decorative nei palazzi abitati. Attualmente la Soprintendenza sta completando i lavori di restauro dell’intera struttura, anche se alcune sale sono aperte al pubblico per la visita.

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La storia dei cavalli di Venafro

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Enrico Pandone possedeva una scuderia con circa trecento cavalli di varie razze che vendeva o regalava a personaggi insigni dell’Italia meridionale del tempo. Da questa sua passione nasce un ciclo decorativo unico nel suo genere, che vede le stanze del piano nobile del castello trasformarsi in una sorta di album fotografico, con una sfilata di immagini di cavalli, scelti tra i favoriti del conte Enrico.Artisti ignoti giungono tra il 1521 e il 1527, per dipingere stanza dopo stanza, a grandezza naturale, gli esemplari più belli della scuderia, con una tecnica che rappresenta quasi un unicum nella storia dell’arte: su un veloce disegno preparatorio le sagome dei cavalli sono modellate in basso rilievo e poi dipinte ad affresco. Ognuna è caratterizzata dalla propria sella e da eleganti finimenti, contrassegnati dal marchio a fuoco di Enrico - un rombo inscritto in quadrato e sormontato da una croce con al centro la lettera H – e accompagnata da un morso dipinto con dovizia di particolari. Ciascun cavallo è individuato da precise annotazioni circa la razza, l’età e il nome. Tra tutti i cavalli spicca l’imponente esemplare nominato San Giorgio, fatto pervenire da Enrico nell’ottobre del 1552 all’imperatore Carlo V.

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La carriera del cavaliere cominciava nell’infanzia. Ancora bambino il figlio di una nobile famiglia veniva inviato al castello di un potente signore dove svolgeva funzioni di paggio(faceva piccoli servizi al signore e alle dame, li accompagnava durante le uscite …).Raggiunta l’adolescenza, diveniva scudiero e passava al servizio di un cavaliere che scortava nelle battute di caccia e in guerra , portandogli le armi sul campo di battaglia. Quando era ritenuto maturo, di solito fra i 15 e i 18 anni, veniva nominato cavaliere, nel corso di una solenne cerimonia. Il giovane vi si preparava trascorrendo in preghiera la notte della vigilia. Il giorno seguente, alla presenza di parenti e amici, un cavaliere più anziano o lo stesso signore gli consegnava le armi che il vescovo aveva in precedenza benedette: la spada ( a cui di solito dava un nome proprio, come a una persona), l’elmo, la maglia di anelli di ferro, la lancia lunga, lo scudo e gli speroni. Infine il signore lo colpiva con il piatto della spada sulla spalla o sulla guancia ed egli sotto il colpo non doveva vacillare per dar prova di resistenza e di coraggio. Il giovane cavaliere si poneva al servizio di un signore oppure cominciava la sua nuova vita come cavaliere errante, spostandosi di luogo in luogo in cerca di avventura, di gloria e di ricchezza. Le occasioni migliori nel farsi conoscere e apprezzare erano i tornei, i combattimenti-spettacolo, organizzati in occasione di feste,e, naturalmente, gli scontri in battaglia. Tutto vestito di ferro, ben saldo sulle staffe che gli garantivano buon equilibrio, brandendo la lunga lancia, il cavaliere costituiva, insieme con il cavallo, un terribile strumento d’urto. L’armatura che lo ricopriva da capo a piedi rendeva però difficile riconoscerlo e ciò in battaglia poteva essere molto pericoloso.

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Perciò, dal secolo XII, i cavalieri fecero dipingere o applicare sugli elmi e sugli scudi simboli e fondi di colore che permettevano di distinguerli e che venivano trasmessi di padre in figlio. Nacquero così i primi stemmi, cioè immagini a forma di scudo che contenevano i colori della famiglia, accompagnati da una breve frase significativa (il motto). Le imprese cavalleresche furono celebrate in numerose canzoni di gesta , poemi epici in cui i cavalieri appaiono sempre come campioni di coraggio, lealtà, devozione religiosa, generosità verso il nemico. La realtà fu spesso diversa. Per lungo tempo, almeno per tutto il X e per gran parte dell’ XI secolo, i cavalieri non si comportarono molto diversamente dai briganti e usarono la loro forza per terrorizzare, opprimere, rapinare e aggredire la popolazione indifesa. Per vincere o almeno limitare la violenza dilagante, la Chiesa cercò di diffondere ideali nuovi e propose ai cavalieri il compito di mantenere la pace fra il popolo cristiano e di proteggere i deboli, i poveri, gli indifesi. Istituì inoltre le cosiddette paci di Dio e tregue di Dio, proibendo ogni tipo di combattimento contro persone disarmate (ad esempio, i chierici), in certi luoghi (ospizi, mercati) e in certi periodi dell’anno.

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Nei Regesti Angioini del1320 viene citata una località chiamata “ROCCA PIPEROCII”, da identificare senza dubbio con l’attuale centro fortificato. La rocca sorge al centro del paese e l’impianto perimetrale ha una forma irregolare condizionata dall’andamento naturale dello sperone di roccia sul quale si sviluppa. La torre cilindrica costituisce l’elemento più appariscente del complesso difensivo. Questa prima fase si fa risalire agli inizi del XVI secolo, mentre a qualche decennio successivo risale l’incamiciamento turrito con la braga merlata, che ha la semplice funzione di antemurale della torre cilindrica detta “Maschio”. Una torre angolare su base scarpata è situata sullo spigolo meridionale della struttura e serviva da protezione laterale ad una porta secondaria. Dal piano di calpestio non era possibile accedere direttamente al Maschio, non essendo esistente alcuna apertura. Il collegamento avveniva con una scala retrattile esterna, che si univa ad un ingresso situato al livello del primo piano della torre. Un tempo la rocca, per la sua posizione geografica a confine del Lazio e della Campania, rappresentava il perno della difesa e del controllo del territorio molisano. Il castello di Roccapipirozzi, è di proprietà del comune, che ha elaborato una proposta per il consolidamento della cinta muraria e la sistemazione dell’area circostante con percorsi pedonali e giardini.

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Il patrimonio del signore doveva rimanere per quanto possibile indiviso. Perciò le figlie erano escluse dall’eredità e ricevevano solo una dote in caso di matrimonio. Fra i maschi se ne privilegiava soltanto uno - di solito il primogenito - che si sposava e aveva figli; gli altri i cadetti, spesso rimanevano celibi o entravano in convento. I figli maschi erano inviati, ancora bambini, presso un signore più potente del loro padre, perché imparassero le regole della cortesia, cioè le buone maniere in uso presso le corti, e diventassero esperti nell’arte militare. Da grandi avrebbero preso il posto del padre oppure sarebbero diventati abati, vescovi o cavalieri. Le femmine, se erano poste in convento per risparmiare sulla dote, venivano maritate giovanissime con qualcuno scelto dal padre per rinforzare le alleanze familiari:per il fidanzamento era sufficiente che gli sposi avessero compiuto 7 anni, ma si combinavano matrimoni anche fra più piccoli. Una volta maritate, il loro compito era di mettere al mondo numerosi figli, perché le famiglie più nobili volevano garantirsi degli eredi:se la sposa era sterile il marito poteva ripudiarla.

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Uno dei castelli più belli del Molise, sia per quanto riguarda la struttura architettonica che per lo stato di conservazione e la posizione. Durante la dominazione normanna e sveva, Monteroduni fu feudo della casa comitale del Molise, che la teneva come una delle maggiori piazzeforti della contea. Il castello si presenta oggi con la sua imponente struttura, le robuste torri cilindriche e le cortine murarie, merlate, in conci di pietra calcarea. La costruzione di un primo nucleo fortificato, si fa risalire all’epoca longobarda, di certo la fortezza già esisteva nel XII secolo. Nella prima metà del XVI secolo, all’epoca dei D’Afflitto, finì con il perdere l’originario aspetto militare per trasfomarsi parzialmente in struttura residenziale, subendo diversi interventi di abbellimento. Il castello fu sede di esattoria delle imposte di pedaggio, come dimostra una lapide del 1570, che elenca i dazi da pagare per uscire dallo stato napoletano. La struttura planimetrica presenta una forma trapezoidale e l’ingresso principale si apre su un giardino. Nella sala di rappresentanza è ancora presente la pavimentazione in cotto originale con lo stemma della famiglia Pignatelli della Leonessa, ultimi feudatari del castello. Nella sala si trova un grandioso camino marmoreo e un soffitto ligneo dipinto a tempera con motivi cavallereschi.

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Al castello le donne conducevano una vita ritirata. Passavano il tempo chiacchierando, cantando, narrandosi novelle, ma soprattutto lavorando: filavano, tessevano, confezionavano abiti, lavoravano a maglia.

Tutta la biancheria, i tessuti che abbellivano la sala, la camera, la cappella, gli arazzi alle pareti – che a volte erano veri capolavori – erano opera delle loro mani. Purtroppo la stoffa è un materiale deperibile e di tanto lavoro femminile la massima parte è andata distrutta. Sulle donne del castello esercitava la sua autorità la sposa del signore, la castellana.

Ella doveva provvedere al buon andamento della vita nel castello, dirigere il lavoro dei servi e delle serve, controllare che le provviste fossero sufficienti e i magazzini ben forniti. Se il marito era assente, la castellana doveva sostituirlo nell’amministrazione delle terre e se egli cadeva prigioniero doveva occuparsi di raccogliere il denaro necessario per il riscatto.

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L’epoca dell’edificazione del castello di Trivento, non è nota. Trivento dopo il periodo sannitico, fu elevato dai romani a “Municipium”. Dopo la caduta dell’Impero romano non si hanno notizie di distruzioni ragione per cui è da ritenersi che nel tempo vi sia stata una continuità abitativa del luogo, e che già nell’alto medioevo vi dovette essere edificato il castello a difesa della popolazione dalle invasioni barbariche e saracene. Il castello era circondato sul lato ovest da una profonda vallata naturale, inattaccabile, mentre negli altri lati vi erano impiantate torri merlate, bastioni, ponte levatoio, da molti secoli non più esistenti. Nell’interno una serie di trabocchetti, saracinesche e cunicoli sotterranei segreti, immettenti all’aperto nella profonda vallata occidentale in uscite ben dissimulate nel caso di forzata ritirata. Insomma un sistema difensivo complesso e poderoso. Le prime notizie storiche risalgono quindi all’alto medioevo, epoca in cui Trivento apparteneva al ducato longobardo prima, al principato poi, di Benevento.

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Nel successivo periodo normanno, intorno al 1130, il castello, fu assediato ed espugnato dai soldati di Ruggiero. Salirono i normanni all’assalto, e dopo non poco sangue, il castello cadde in loro potere. Dopo la sconfitta di Manfredi nella battaglia di Benevento (1266) e la conquista militare del regno di Napoli da parte di Carlo I° D’Angiò, la contea di Trivento fu concessa dal vincitore come premio per l’aiuto ricevuto, ad Ansaldo di Lavanderia della cui persona tacciono cronisti e storici. Verosimilmente morì senza eredi ed il feudo tornò al demanio. Dopo il 1347 il contado passò alla famiglia Pipino, di stirpe francese, venuta anch’essa al seguito di Carlo I° D’Angiò.Dopo un lungo avvicendamento al potere, la contea di Trivento con diploma del 1465 del D’Aragona re Alfonso, fu data in feudo a Calzerano Requesenz di famiglia patrizia catalana.Per secoli la contea di Trivento fu in mano ai nobili della famiglia D’Afflitto fino all’ultimo erede.Nicola in vita ancora nel 1807 alienò il palazzo comitale, ormai da tempo non più castello, a favore dei signori Colaneri, i cui eredi sono gli attuali proprietari.

Carlo I° D’Angiò

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Il castello Manforte, ha una pianta quadrata, domina dall’alto di una collina la città di Campobasso. Alcuni storici lo ritengono edificato durante la dominazione longobarda e fortificato durante quella normanna dai conti del Molise, altri lo considerano del 1458, fatto costruire da Cola Monforte, feudatario di Campobasso. Il castello oggi ha una pianta rettangolare, basi di torri sui tre spigoli e il maschio quadrato. Inoltre presenta poche finestre quadrate e un ingresso con ponte levatoio sul lato meridionale. Oggi nell’ala opposta al ponte levatoio c’è il sacrario dei caduti in guerra. Attualmente proprietario del castello è il Comune di Campobasso.

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In età feudale le donne erano sottomesse per tutta la vita ad un uomo: il padre, il marito, il fratello..…

Sappiamo però di figlie femmine che, in mancanza di fratelli, ereditarono feudi, prestarono giuramenti di vassallaggio e seppero difendere con le armi il castello assediato dai nemici.

Altre, entrate in convento e divenute badesse, amministrarono con energia vasti territori e godettero di un potere simile a quello dei signori feudali.

Le monache potevano ricevere una buona istruzione: alcune opere letterarie ancora oggi apprezzate per la loro originalità furono scritte fra il X e il XII secolo da donne vissute in convento.

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Soprattutto tra il XII e il XV secolo, si diffusero i tornei, detti anche “giostre” o “caroselli”, spettacoli militari costituiti da duelli tra cavalieri: duelli singoli o a squadre. Non sappiamo esattamente quando e perché nacquero. Probabilmente derivarono da un’usanza di età longobarda, quella del “giudizio di Dio”, secondo la quale per risolvere una questione, si stabiliva che i due contendenti si affrontassero, poiché si credeva che Dio avrebbe donato la vittoria a chi aveva ragione. Verso il 1000, i tornei servirono forse come addestramento in vista di scontri militari cruenti. Verso il 1150, essi divennero veri e propri spettacoli. Si affermarono dei veri professionisti del combattimento che divennero popolari e contesi dal pubblico. Talvolta gli scontri degeneravano e divennero causa di morte, per questo verso il 1300 la Chiesa e i sovrani cercarono di vietarli ma essi continuarono sino alla metà del XVI secolo.

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