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Grande Guerra e società italiana Le riflessioni di Gramsci di Antonio Stragà La constatazione che il lavoro di Gramsci nel carcere trova la propria motivazione teorica principale nella necessità di analizzare le cau- se della sconfitta del movimento operaio eu- ropeo alla fine della prima guerra mondiale, costituisce il punto di partenza e il riferimen- to costante della presente ricerca. Le osservazioni gramsciane al proposito sono particolarmente incisive: nella crisi del- lo Stato liberale italiano, quando sembra tra- sparire la possibilità di un rivolgimento com- plessivo, le organizzazioni politiche e sinda- cali delle classi subalterne si dimostrano in- capaci di gestire il processo da posizioni di forza. La subordinazione politica, manife- statasi drammaticamente negli anni che van- no dall’intervento italiano in guerra all’asce- sa del fascismo, si spiega in gran parte con la superficialità e l’inconsistenza analitica del- l’approccio teorico ai problemi emersi nel dopoguerra, con la colpevole incomprensio- ne dello sconvolgimento prodottosi con la guerra mondiale in ogni rapporto politico e sociale: “La debolezza teorica, la nessuna stratificazione e continuità storica della ten- denza di sinistra, sono state una delle cause della catastrofe”1. Nel tentativo di pensare le cause della sconfitta e di dotare il movimento operaio di una teoria adeguata al livello di comprensione resosi necessario per agire po- liticamente, quando “dopo la rivoluzione russa è il fascismo che sfugge con la comples- sità della sua genesi alle leggi del materiali- smo storico”2, Gramsci affronta perciò la re- lazione che lega la situazione politica del do- poguerra alle fasi del conflitto mondiale. L’esperienza di una grande sconfitta Gramsci aveva affermato che la congiuntura politica fosse potenzialmente rivoluzionaria, soprattutto, ma non solo, in Italia, già nei primi anni venti sulle pagine dell’“Ordine Nuovo”, indicando come futura prospettiva la risoluzione di un’alternativa radicale tra le possibilità oggettivamente favorevoli al mo- vimento operaio e l’incombente, temuta, svolta autoritaria3. A fronte di un certo imbarazzo per l’inade- guatezza delle tradizionali categorie interpre- tative marxiste, gli interventi gramsciani indi- cano nell’affermazione del fascismo una ma- nifestazione del generale decadimento delle 1 Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica dell’Istituto Gramsci, a cura di Valentino Gerratana, Tori- no, Einaudi, 1975, p. 323 (d’ora in avanti questa edizione è indicata con la sigla Q.). 2 Leonardo Paggi, A. Gramsci e il moderno principe, Roma, Editori Riuniti, 1970, pp. 373. 3 Cfr. Antonio Gramsci, Per un rinnovamento del Partito Socialista, “L’Ordine Nuovo”, 8 maggio 1920, raccolto in Idem, L ’Ordine Nuovo 1919-1920, p. 117, Torino, Einaudi, 1954. Italia Contemporanea”, marzo 1985, fase.

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Grande Guerra e società italianaLe riflessioni di Gramsci

di Antonio Stragà

La constatazione che il lavoro di Gramsci nel carcere trova la propria motivazione teorica principale nella necessità di analizzare le cau­se della sconfitta del movimento operaio eu­ropeo alla fine della prima guerra mondiale, costituisce il punto di partenza e il riferimen­to costante della presente ricerca.

Le osservazioni gramsciane al proposito sono particolarmente incisive: nella crisi del­lo Stato liberale italiano, quando sembra tra­sparire la possibilità di un rivolgimento com­plessivo, le organizzazioni politiche e sinda­cali delle classi subalterne si dimostrano in­capaci di gestire il processo da posizioni di forza. La subordinazione politica, manife­statasi drammaticamente negli anni che van­no dall’intervento italiano in guerra all’asce­sa del fascismo, si spiega in gran parte con la superficialità e l’inconsistenza analitica del­l’approccio teorico ai problemi emersi nel dopoguerra, con la colpevole incomprensio­ne dello sconvolgimento prodottosi con la guerra mondiale in ogni rapporto politico e sociale: “La debolezza teorica, la nessuna stratificazione e continuità storica della ten­denza di sinistra, sono state una delle cause della catastrofe”1. Nel tentativo di pensare le

cause della sconfitta e di dotare il movimento operaio di una teoria adeguata al livello di comprensione resosi necessario per agire po­liticamente, quando “dopo la rivoluzione russa è il fascismo che sfugge con la comples­sità della sua genesi alle leggi del materiali­smo storico”2, Gramsci affronta perciò la re­lazione che lega la situazione politica del do­poguerra alle fasi del conflitto mondiale.

L’esperienza di una grande sconfitta

Gramsci aveva affermato che la congiuntura politica fosse potenzialmente rivoluzionaria, soprattutto, ma non solo, in Italia, già nei primi anni venti sulle pagine dell’“Ordine Nuovo”, indicando come futura prospettiva la risoluzione di un’alternativa radicale tra le possibilità oggettivamente favorevoli al mo­vimento operaio e l’incombente, temuta, svolta autoritaria3.

A fronte di un certo imbarazzo per l’inade­guatezza delle tradizionali categorie interpre­tative marxiste, gli interventi gramsciani indi­cano nell’affermazione del fascismo una ma­nifestazione del generale decadimento delle

1 Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica dell’Istituto Gramsci, a cura di Valentino Gerratana, Tori­no, Einaudi, 1975, p. 323 (d’ora in avanti questa edizione è indicata con la sigla Q.).2 Leonardo Paggi, A. Gramsci e il moderno principe, Roma, Editori Riuniti, 1970, pp. 373.3 Cfr. Antonio Gramsci, Per un rinnovamento del Partito Socialista, “L’Ordine Nuovo”, 8 maggio 1920, raccolto in Idem, L ’Ordine Nuovo 1919-1920, p. 117, Torino, Einaudi, 1954.

Italia Contemporanea”, marzo 1985, fase.

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istituzioni parlamentari, la cui paralisi e vuoto d’autorità è intesa quale “espressione di questo corrompersi dei poteri statali”4: espressione e non fattore della “morte del­lo Stato liberale”, il fascismo trova posto solo all’interno della descrizione della cri­si di egemonia della borghesia italiana e della sua classe dirigente, incapace di go­vernare la trasformazione politica interve­nuta nel dopoguerra. In questo senso la crescita, almeno numerica, delle organizza­zioni del movimento operaio, da una par­te, il virulento attacco reazionario e anti­parlamentare di Mussolini, dall’altra, spiazzano definitivamente 1’“ingenuo” neu­tralismo giolittiano, saltandone le media­zioni istituzionali. E, del resto, l’uso della coercizione e della violenza, infiltratosi es­so stesso nelle maglie dello Stato liberale, l’involuzione autoritaria degli stessi ordina­menti statali, sanciscono la “crisi della borghesia come progressiva riduzione della funzione di governo al solo momento della forza”5.

La particolare condizione del carcere co­stringe Gramsci a una ricerca “disinteressa­ta”, slegata cioè dalle polemiche contingenti del dibattito politico contemporaneo, rigo­rosamente condotta, al di là degli esiti fram­mentari che solo talvolta si organizzano at­torno a temi specifici, nell’intento di rendere conto del livello di complessità raggiunto dalla società moderna negli anni venti-tren­ta. La stratificata composizione dei Quader­ni risponde allora al “problema dell’identità di teoria e pratica [che] si pone specialmente in certi momenti storici così detti di tran­sizione, cioè di più rapido movimento trasformativo”6. Questi sembrano essere il

senso e la portata complessivi dell’interven­to gramsciano: comprendere una situazione specifica e nuova con strumenti interpreta­tivi nuovi e originali. Ben oltre le parole d’ordine sommarie, le brusche semplifica­zioni della dinamica politica in formule che non descrivono più i reali rapporti di forza nella società, è necessario, prendendo atto della sconfitta del dopoguerra, analiz­zarne le cause, comprendere il terreno nel quale era maturata, interpretare le carenze e gli errori “costitutivi” del corredo teorico comunista. Lo stesso Gramsci, che pure aveva tentato di afferrare la specificità del dopoguerra, le differenze dal modello bol­scevico, come da quello secondointernazio- nalista, vedeva retrospettivamente la pro­pria milizia politica contrassegnata, come è stato osservato, “dalla divaricazione tra l’analisi della situazione italiana, frutto di una elaborazione del tutto personale, e l’assenza di corrispettivi strumenti politici sia sul piano interno che su quello interna­zionale”7. Diventa perciò necessario speci­ficare la caratteristica fondamentale della congiuntura politica europea: la morte del­lo Stato liberale.

“Nel periodo del dopoguerra, l’apparato egemonico si screpola e l’esercizio dell’ege­monia diviene permanentemente difficile e aleatorio”: l’egemonia della classe dirigente non sembra in grado di padroneggiare la complessa e “aleatoria” vicenda della società contemporanea, che registra uno scarto radi­cale rispetto alla modellistica liberale, deter­minando l’irreversibilità della crisi dell’inte­ro apparato statale, che si concretizza “prati­camente nella sempre crescente difficoltà di formare i governi e nella sempre crescente in-

4 Antonio Gramsci, La forza dello Stato, in "Avanti”, 11 dicembre 1920, ora in Idem, Scritti 1915-1921, nuovi con­tributi a cura di Sergio Caprioglio, Milano, “I Quaderni del corpo”, 1968, p. 151.5 Così L. Paggi, Gramsci e il moderno principe, cit., p. 375. Cfr. gli articoli di Gramsci (La disfatta borghese, 19 no­vembre 1919, e Chiaroscuri, 8 settembre 1920) raccolti in Scritti 1915-1921, cit., pp. 118-19 e 134-36.6 Q-, PP- 1780, Cfr. pp. 1131, oltre al noto passo a p. 1233.1 L. Paggi, Gramsci e il moderno principe, cit., pp. 428.

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stabilità dei governi stessi”8. L’instabilità strutturale così prodottasi lascia il campo “aperto alle soluzioni di forza, all’attività di potenze oscure rappresentate dagli uomi­ni provvidenziali o carismatici”, ed è stret­tamente legata alla “crisi di egemonia della classe dirigente che avviene o perché la classe dirigente ha fallito in qualche sua impresa politica per cui ha domandato o imposto con la forza il consenso delle gran­di masse (come la guerra) o perché vaste masse (specialmente di contadini e di picco­li borghesi intellettuali) sono passate di col­po dalla passività politica a una certa atti­vità e pongono rivendicazioni che nel loro complesso disorganico costituiscono una ri­voluzione. Si parla di ‘crisi d’autorità’ e ciò appunto è la crisi di egemonia, o crisi dello Stato nel suo complesso”9. Il brano è vera­mente importante e in qualche modo rias­suntivo della linea di ragionamento svilup­pata da Gramsci: descrive innanzi tutto il fallimento della politica borghese in relazio­ne al complesso problema della produzione e della gestione del “consenso delle grandi masse” nella congiuntura bellica. Introduce cioè la relazione forza-consenso che rappre­senta, non a caso, un aspetto ricorrente del­le analisi gramsciane: è il problema “della ‘filosofia dell’epoca’, del motivo centrale della vita degli stati nel periodo del dopo­guerra. Come ricostruire l’apparato egemo­nico del gruppo dominante, apparato di­sgregatosi per le conseguenze della guerra in tutti gli stati del mondo?” (Q., p. 912). Inoltre la disorganicità delle rivendicazioni di “vaste masse” viene a costituire un im­portante fattore destabilizzante, incrinando il precario equilibrio dello Stato liberale: di­venta impossibile governare senza l’uso del­

la coercizione una situazione modificatasi in termini così radicali.

La guerra 1915-18, “modificando la struttura generale del processo precedente”, segna una vera e propria “frattura storica”: indicando nel fenomeno sindacale il riflesso del fatto che “una nuova forza sociale si è costituita, ha un peso non più trascurabi­le” , il testo gramsciano lega aspetti comple­mentari e “processi di sviluppo di diversa importanza” (Q., p. 1824). Democrazia, parlamentarismo, liberalismo, organizzazio­ne industriale disegnano, nelle reciproche relazioni problematiche, la dinamica com­plessa di un mutamento decisivo intervenu­to nella struttura dello Stato a partire dal­l’immissione nella lotta politica di grandi masse. Ma all’irruzione di queste nella vita dello Stato, alla crescita delle organizzazio­ni politiche e sindacali delle classi subalter­ne, corrisponde un “movimento caotico e disordinato, senza direzione, cioè senza precisa volontà politica collettiva” (Q., p. 912): una crescita che già prelude alla sconfitta.

In un quadro di riferimento teorico e po­litico mutato dalla guerra e dalle sue riper­cussioni sociali, il rapporto “moderno” tra masse e Stato si configura tutto nella crisi del liberalismo come del movimento ope­raio, cieco di fronte agli avvenimenti, inca­pace di individuare obiettivi concreti per la propria azione. L’uso della coercizione nel­la produzione di consenso nelle masse, che registra l’inquietudine di una classe dirigen­te impotente nel dare legittimità al proprio esercizio del potere, da una parte, l’incapa­cità di raccogliere in una direzione politica unitaria le rivendicazioni disorganiche, e perciò disperse, delle classi subalterne, dal-

8 Tutte le citazioni in Q., pp. 1638-39, che riprende la nota di p. 59.9 Q., pp. 1603. Vedi anche le pp. 1605-7 su cui attira l’attenzione Luisa Mangoni, Lo Stato unitario liberale, in Letteratura italiana, Torino, Einaudi, 1982, vol. I, pp. 518-19, ricordando opportunamente un articolo di Adria­no Tilgher, Piccoli borghesi al bivio, in “Tempo”, 7 dicembre 1919, tra le possibili fonti delle affermazioni gramsciane.

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l’altra, caratterizzano la precaria configura­zione politica italiana.

L’analisi di Gramsci non può non ricono­scere gli errori strategici del movimento ope­raio nella temperie del dopoguerra: “le forze antagoniste sono risultate incapaci a orga­nizzare a loro profitto questo disordine di fatto. Il problema era di ricostruire l’appa­rato egemonico di questi elementi prima passivi e apolitici, e questo non poteva avve­nire senza la forza: ma questa forza non po­teva essere quella ‘legale’” (Q., pp. 912-13). Insomma, al disgregarsi dell’egemonia libe­rale non corrisponde l’ascesa politica delle classi subalterne, disaggregate e prive di uni­tà e perciò di consistenza. Ma la nota citata introduce un altro aspetto importante del problema: la forza, come elemento necessa­rio per organizzare un apparato egemonico, diventa strumento di lotta politica, travalica le soglie della legalità liberale, non trova neutralizzazione nelle mediazioni istituzio­nali, nel Parlamento.

L’indeterminatezza negli obiettivi, l’iner­zia politica e la mancanza di unità nella di­rezione contribuiscono certo a spostare i rapporti di forza a sfavore delle classi su­balterne. Ma la sconfitta sarebbe, probabil­mente, inspiegabile senza tener conto dell’a­spetto decisivo, cioè dell’incomprensione nei confronti dei mutamenti specifici inter­venuti nel dopoguerra: l’entrata nella lotta politica di grandi masse e i relativi problemi di gestione del consenso, l’impotenza, o l’oggettiva complicità, dei liberali, nell’af- fermarsi del movimento fascista, che sfrutta una sapiente “combinazione delle forze le­gali e illegali” .

La prima guerra mondiale, guerra di massa, di posizione, di logoramento, assu­me quindi un ruolo privilegiato nelle anno­tazioni di Gramsci: si imponeva il problema di cercare in essa la radice dei cambiamenti

che avevano modificato in termini così vi­stosi la situazione politica italiana.

Direzione politica e direzione militare

Costante è la prudenza di Gramsci nello sta­bilire paragoni tra “lotta politica e guerra militare”, superando la tentazione di mette­re in evidenza nessi stringenti e puntuali, ma proprio per questo forzati e arbitrari, tra politica e guerra.

In una delle prime note dedicate al rap­porto tra “arte militare e arte politica”10 viene valutato il pericolo insito in una tra­sposizione troppo ingenua e semplicistica di termini propri del linguaggio militare nell’a­nalisi politica. La riduzione che ne deriva porta infatti “i dirigenti politici ad erronee impostazioni dei piani di lotta” : occorre in­vece scorgere eventuali relazioni significati­ve “mantenendo implicito il criterio genera­le che i paragoni tra l’arte militare e la poli­tica sono sempre da stabilire cum grano sa­lis, cioè solo come stimoli al pensiero e co­me termini semplificativi ad absurdum” (Q., p. 120). Grave errore è insomma non tenere nel dovuto conto che “la lotta politi­ca è enormemente più complessa”, conosce articolazioni problematiche difficilmente ri­conducibili alle questioni belliche, anche se Gramsci riconosce, nella nota successiva, che “ogni lotta politica ha sempre un so­strato militare” (Q., p. 123). In questo mo­do è già impostato, in prima approssimazio­ne, il problema della qualità dell’incidenza della guerra nell’attività politica: da un lato la guerra può fornire categorie interpretative utili nell’“impostazione dei piani di lotta”, in quanto procurano all’analisi stimoli e “termini semplificativi”; dall’altra ogni lotta politica, al di là della possibile mediazione istituzionale, nel suo residuo intrinsecamente

10 Q., pp. 122. Le note citate appartengono al Primo Quaderno (1929-1930).

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conflittuale “ha sempre un sostrato milita­re” . Va inoltre osservato che il necessario presupposto del discorso gramsciano sulla guerra mondiale è da ricercare nella disami­na delle fasi più significative del Risorgimen­to italiano: in essa trovano la loro prima esplicitazione importanti categorie analiti­che, la cui valenza interpretativa si ripercuo­te nell’esame della guerra mondiale e dei nuovi processi sociali e politici, sviluppatisi con essa11.

Il mutamento più importante dal punto di vista “militare in senso stretto, tecnico”, in­tervenuto con il conflitto, consiste nel pas­saggio dalla guerra di manovra alla guerra di logoramento di vaste proporzioni e prolun­gata nel tempo. La svolta che in questo senso si determina ha conseguenze vistose che Gramsci non manca di sottolineare: la guerra di trincea, infatti, presupponendo un eserci­to nazionale di leva e non un esercito di pro­fessionisti mercenari12, presenta nuovi pro­blemi perché “riguarda la mobilitazione di forze popolari” (Q., p. 102). Perciò la dire­zione militare deve assumere dimensioni più vaste e ad essa tradizionalmente sconosciute: la strategia, insomma, deve articolarsi, tene­re conto del fatto che “quanto più un eserci­to è numeroso, cioè quanto più profonde masse della popolazione vi sono incorporate,

tanto più cresce l’importanza della direzione politica su quella meramente tecnico-milita­re” (Q., p. 110). La gestione delle operazioni militari in una guerra di massa deve sempre e comunque fare riferimento alla conduzione politica del paese, assecondandone le indica­zioni e mantenendo la propria condizione su­bordinata; lo stesso “piano strategico deve essere l’espressione militare di una determi­nata politica” .

È evidente la parentela tra le osservazioni gramsciane e le analoghe, celebri, afferma­zioni contenute in più luoghi dell’opera mag­giore di Karl von Clausewitz13, che Gramsci non lesse, ma ebbe modo di conoscere attra­verso la mediazione crociana e i numerosi ar­ticoli e le recensioni che testimoniano, nei primi anni trenta, la ripresa di interesse per il grande teorico prussiano14.

La “risposta politica” della classe dirigente italiana

Durante e dopo il Risorgimento vasti settori di popolazione rimangono estranei alle vi­cende dello Stato nazionale italiano: il giudi­zio severo di Gramsci a questo proposito mo­stra nell’esclusione delle masse dal moto ri­sorgimentale un potenziale fattore destabiliz-

11 Per esempio i concetti di rivoluzione passiva, derivato dal Cuoco, e di egemonia, ripreso da Gioberti e dal dibatti­to interno alla Terza Internazionale.12 Cfr. Q., p. 110. Sul dibattito relativo al problema dell’esercito italiano unitario cfr. Giorgio Rochat - Giorgio Massobrio, Breve storia dell’esercito italiano dal 1861 al 1943, Torino, Einaudi, 1978, e il saggio di Piero Del Negro, Esercito, stato e società nell’Ottocento e nel primo Novecento: il caso italiano, ora in Idem, Esercito, stato, società. Saggi dì storia militare, Bologna, Cappelli, 1979, pp. 49-70.13 Cfr. Karl von Clausewitz, Della guerra, traduzione italiana, a cura dello Stato Maggiore dell’Esercito, Roma, Uf­ficio Storico, 1942, e i passi di Gramsci in Q., p. 974, p. 1942, p. 1947 e p. 2052.14 Cfr. Benedetto Croce, Azione, successo, giudizio. Note in margine al “Vom Kriege” de! Clausewitz (1933), in Idem, Ultimi saggi, Bari, Laterza, 1935, pp. 266-79, e, in particolare, la recensione di Ernesto Brunetta, Clausewitz, in “L’Italia letteraria”, 4 febbraio 1934, al libro di Emilio Canevari, Clausewitz e la guerra odierna, Roma, Campi­teli!, 1930. A introdurre il pensiero di Clausewitz in Italia era stata l’opera di Nicola Marselli, La guerra e la sua sto­ria, Milano, Treves, 1875-77, come sottolinea Piero Pieri, Guerra e politica negli scrittori italiani, Milano, Monda- dori, 19752, pp. 209-25. Sulla presenza di Clausewitz nel dibattito interno al movimento operaio cfr. Clemente Anco­na, L ’influenza del “Vom Kriege” di Clausewitz sul pensiero marxista da Marx a Lenin, in “Rivista storica del socia­lismo”, 1965, n. 25-26, pp. 129-54.

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zante e un significativo indice della miopia politica della borghesia italiana dell’Ot­tocento. Si spiega in prospettiva lo sconvol­gimento prodottosi, dopo la guerra mondia­le, con l’irruzione di “vaste masse” nella vi­ta politica attiva: l’autoritarismo conserva­tore e antiparlamentare di Giolitti masche­ra, infatti, la fondamentale disomogenei­tà della classe dirigente italiana, incapace di articolare in termini diversi il proprio rapporto-scontro con le moderne organizza­zioni politiche di massa in via di costitu­zione15.

Le concitate vicende del maggio 1915, l’of­fensiva concentrica contro il regime parla­mentare, la pratica di manifestazioni di piaz­za per piegare la maggioranza neutralista con la violenza e l’intimidazione, la finale ac­quiescenza dei liberali giolittiani, se contri­buiscono a far vedere nelle “radiose giorna­te” una pericolosa ripresa autoritaria e anti­democratica della politica della classe diri­gente italiana16, sembrano anche preludere, almeno nelle modalità, a una sorta di prova generale che darà, di lì a pochi anni, frutti cospicui17.

Nell’agitato clima politico dell’autunno 1914, del resto, lo stesso Gramsci, nel primo importante articolo sul “Grido del popolo” , aveva manifestato la propria motivata pro­pensione a un’eventuale entrata in guerra dell’Italia, maturata, al di là dell’atteggia­mento antigiolittiano diffuso nel composito fronte interventista, nell’intento di evitare la subordinazione e l’immobilismo a cui co­stringeva l’intransigente pacifismo socialista. In altri termini, intendere l’intervento nel conflitto mondiale come una possibilità con­

creta, rifiutando il “mito negativo della guer­ra”, significava per Gramsci tentare di com­prendere “quei destini che per la funzione storica della borghesia culminano nella guer­ra” , spingendo “la classe detentrice del pote­re [...] a portare fino all’assoluto le premesse da cui trae la sua ragione di esistere”18.

In questa direzione va letto, a mio giudi­zio, un importante spunto contenuto in una nota del Quaderno 15 (1933). Nel tentativo di datare l’inizio della serie di “avvenimenti che assumono il nome di crisi”, Gramsci osserva come “per alcuni (e forse non a tor­to) la guerra stessa è una manifestazione della crisi, anzi la prima manifestazione; appunto fu la risposta politica e organizza­tiva dei responsabili” (Q. , pp. 1755-56). Al di là della formula dubitativa e impersona­le, l’osservazione è decisiva: la guerra mon­diale, rappresentando la “risposta politica e organizzativa” delle classi dirigenti, è la prima “manifestazione della crisi” del regi­me liberale. L’entità drammatica della ri­sposta politica è indice dell’entità della cri­si: in questo senso, infatti, la guerra di Li­bia, la legge istitutiva del suffragio univer­sale maschile, il patto Gentiioni e le elezio­ni del 1913, che sanciscono il definitivo in­gresso della masse nell’agone politico, scan­discono il progressivo venir meno della ca­pacità aggregante dell’affaticato compro­messo giolittiano. Più in generale i nuovi rapporti di forza mutano il confronto tra Stato liberale e partiti di massa, insinuando vistose crepe nella struttura politica italiana. Come nota Gramsci, “l’allargamento del suffragio nel 1913 aveva già suscitato i primi accenni di quel fenomeno che avrà la massi-

15 Cfr. Q., p. 117. Per un giudizio in questa direzione su Giolitti cfr. le pp. 997-98. Per la critica teorica dello Stato liberale, “veilleur de nuit”, cfr. pp. 763-64, p. 801, pp. 603-4, pp. 455 sgg., pp. 1989 e sgg.16 Cfr. al proposito Giuliano Procacci, Appunti in tema di crisi dello Stato liberale e dì origini del fascismo, in « Studi storici », -1965, n. 2, pp. 221-37.17 Cfr. Nicola Tranfaglia, Dalla neutralità italiana alle origini del fascismo: tendenze attuali della storiografia, ora in Idem, Dallo stato liberale al regime fascista, Milano, Feltrinelli, 1973, pp. 53 e sgg.18 A. Gramsci, Neutralità attiva e operante, 31 ottobre 1914, ora in Cronache torinesi 1913-1917, a cura di-Sergio Caprioglio, Torino, Einaudi, 1980, p. 10 e sgg.

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ma espressione nel 19-20-21 in conseguenza dell’esperienza politico-organizzativa acqui­stata dalle masse contadine in guerra” (Q., pp. 2040-41). In questo senso gli avvenimenti del giugno 1914, la “settimana rossa”, veni­vano a rappresentare il culmine delle capacità di mobilitazione del movimento operaio, ma insieme la dimostrazione del distacco tra base e dirigenti del partito, come affermava Papi- ni in un articolo che Gramsci, ancora nel 1930, giudicava “interessantissimo”19.

L’indicazione gramsciana a proposito del­la guerra mondiale va allora estesa alla cam­pagna per l’intervento, che viene essa stessa a costituire la risposta politica della classe diri­gente alla crescita delle organizzazioni politi­che del movimento operaio. Nel clima di “tambureggiante e sistematica opera di per­suasione e di organizzazione”20 della prima­vera del 1915, infatti, la guerra diventa il far­maco in grado di saldare la frattura sempre più evidente nella società italiana tra classe dirigente e formazioni subalterne. L’esercito rappresenta il modello di un organismo ca­pace di assorbire e pacificare i conflitti socia­li nella inflessibile uniformità del codice mili­tare. La vera e propria continuità che, forzo­samente, si instaura tra società civile e or­ganismo militare nelle affermazioni di tan­ti intellettuali, impegnati nella campagna per l’intervento, indica concretamente i modi

della ricomposizione, della pace sociale at­traverso la rigida organizzazione della gerar­chia militare21. In questo senso particolare il Regolamento di disciplina militare, mo­strando a ognuno il proprio posto secondo ricostituiti schemi di classe, rappresenta il modello a cui guardare: la ridistribuzione dei ruoli colà sancita rimette, infatti, conta­dini e operai al proprio posto subalterno, esaltando la piccola borghesia che fornisce, in questo modo riscattandosi, i quadri uffi­ciali dell’esercito22.

La rigida regola che presiede alla netta di­stinzione tra chi deve comandare e chi deve ubbidire caratterizza la prima guerra mon­diale almeno fino all’autunno del 1917: co­me nota Gramsci, “non la passione mante­neva le masse militari in trincea, ma o il ter­rore dei tribunali militari o un senso del do­vere freddamente ragionato e riflessivo” (Q., p. 1309). Considerando “la sostanziale passività popolare e in particolare la man­canza di una motivazione precisa e cosciente nella grande maggioranza dei soldati”, os­serva Giorgio Rochat, “la scelta della re­pressione come strumento per l’ottenimento del consenso era senza alternativa”: anzi, è necessario non sottovalutare 1’“efficienza della borghesia italiana [...] nel manteni­mento dell’ordine in un paese sottoposto a una brutale compressione dei consumi e del-

19 Q., p. 401: si tratta dell’articolo di Giovanni Papini, I fa tti di giugno, in “Lacerba”, 15 giugno 1914, pp. 177-84, in cui si osserva la mancanza di un “piano politico”, di un “progetto preciso » nelle file dei “sovversivi”: critiche largamente condivise dallo stesso Gramsci.20 Alberto Asor Rosa, La cultura, in Storia d ’Italia. Dall’Unità ad oggi, Torino, Einaudi, 1975, vol. IV, t. 2, p. 1315.21 Cfr. Mario Isnenghi, Il mito delia grande guerra da Marinetti e Malaparte, Bari, Laterza, 1970, p. 71 e sgg. Sul codice militare italiano cfr. Alberto Monticone, Il regime penale nell’esercito italiano durante la prima guer­ra mondiale, in Enzo Forcella, Alberto Monticone, Plotone d ’esecuzione. I processi della prima guerra mondia­le, Bari, Laterza, 1968, pp. 411-533; sulla struttura dell’esercito si veda Piero Del Negro, La leva militare in Ita­lia dall’unità alla grande guerra, in Idem, Esercito, stato, cit., p. 237 e sgg.22 Sull’esercito come « modello di coesione culturale e di organizzazione gerarchica dei rapporti tra classi », cfr. Silvio Lanaro, Il Plutarco italiano: l ’istruzione del « popolo » dopo l ’Unità, in “Storia d’Italia. Annali”, 4, Torino, Einaudi, 19812, p. 566. La letteratura sull’esercito mostrava, del resto, con chiarezza, anche se con intenti diversi, le forme concrete del nesso società civile/istituzione militare: cfr. P. Del Negro, De Amicis versus Tarchetti. Letteratura e militari al tramonto del Risorgimento, ora in Idem, Esercito, Stato, cit., pp. 125-66.

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le libertà e nello sviluppo di un esercito di di­mensioni superiori a qualsiasi previsione”23.

L’ordine gerarchico e la dura disciplina repressiva dell’esercito sono, insomma, aspetti vistosi della risposta dei responsabili al “turbamento radicale” dell’equilibrio gio- littiano, nella necessità di evitare a ogni co­sto “una catastrofe sociale” (Q. , p. 1141). L’“origine della guerra” va, pertanto, cerca­ta nel tentativo, da parte della classe dirigen­te italiana, di ricomporre il perturbato equi­librio dei rapporti di forza aH’interno della società. Il logorante conflitto mondiale im­pone, infatti, il rafforzamento dell’egemo­nia politica nelle condizioni eccezionali dello stato di guerra: “la guerra di posizione do­manda enormi sacrifici a masse sterminate di popolazione; perciò è necessaria una con­centrazione inaudita dell’egemonia e quindi una forma di governo più ‘intervenzionista’, che più apertamente prenda l’offensiva con­tro gli oppositori e organizzi permanente- mente l’impossibilità di disgregazione inter­na: controlli di ogni genere, politici, ammi­nistrativi, ecc., rafforzamento delle ‘posizio­ni’ egemoniche del gruppo dominante” (Q.,p. 802).

La guerra mondiale coinvolge nel prolun­gato sacrificio della trincea “masse stermina­te di popolazione” e perciò rende necessaria la “concentrazione” dell’egemonia politica in modo da disattivare le potenziali spinte destabilizzatrici presenti in un conflitto di lunga durata, che l’obiettivo politico palese non giustifica. Non solo: lo stato di guerra, infatti, sospende la legalità liberale, reprime sul nascere ogni manifestazione di conflit­tualità politica, rafforzando le “posizioni egemoniche del gruppo dominante” e impe­dendo ogni possibilità di “disgregazione in­terna” . La guerra richiede allora una “forma di governo più ‘intervenzionista’” rispetto alla conclamata neutralità liberale, in grado

di gestire senza cedimenti la situazione ecce­zionale, effettuando “controlli di ogni gene­re” sulla popolazione, al fronte come nel paese, prendendo apertamente “l’offensiva contro gli oppositori” , soffocando ogni for­ma di dissenso.

La ristrutturazione autoritaria

In una lunga nota del Quaderno 13, che me­rita una citazione per esteso, Gramsci sinte­tizza efficacemente la serie di caratteristiche nuove che comportano le guerre “tra gli Stati più avanzati industrialmente e civilmente”: “la verità è che non si può scegliere la forma di guerra che si vuole, a meno di non avere subito una superiorità schiacciante sul nemi­co, ed è noto quante perdite abbia costato l’ostinazione degli Stati maggiori nel non vo­ler riconoscere che la guerra di posizione era ‘imposta’ dai rapporti generali delle forze in contrasto. La guerra di posizione non è in­fatti solo costituita dalle trincee vere e pro­prie, ma da tutto il sistema organizzativo e industriale del territorio che è alle spalle del­l’esercito schierato, ed è imposta specialmen­te dal tiro rapido dei cannoni delle mitraglia­trici dei moschetti, dalla concentrazione delle armi in un determinato punto, oltre che dal­l’abbondanza del rifornimento che permette di sostituire rapidamente il materiale perduto dopo uno sfondamento e un arretramento. Un altro elemento è la grande massa di uomi­ni che partecipano allo schieramento, di va­lore molto diseguale e che appunto possono operare solo come massa” (Q., pp. 1614-15). In questo passo Gramsci coglie lucidamente gli aspetti centrali della guerra mondiale: per l’equilibrio generale dei rapporti di forza tra gli Stati coinvolti, la guerra diventa un’im­mane “battaglia di materiale” , in cui la su­premazia deriva dalla capacità di produrre,

23 Giorgio Rochat, L ’Italia nella prima guerra mondiale, Milano, Feltrinelli, 1976, pp. 100-101.

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trasportare al fronte e consumare nuovi ar­mamenti. Decisivo è perciò “tutto il sistema organizzativo e industriale che è alle spalle dell’esercito schierato” nella sua facoltà di garantire “l’abbondanza del rifornimento”. Anche per questo gli eserciti acquistano di­mensioni di massa tali da mobilitare, in pra­tica, l’intera nazione e da richiedere notevoli sforzi per inquadrare nei reparti la “grande massa d’uomini” : “solo come massa” , infat­ti vengono presi in considerazione i fanti del­la prima guerra mondiale, “con un’impres­sionante sottovalutazione delle loro esigenze morali e materiali”24.

Gli esiti complessivamente modesti, rag­giunti sul fronte dell’Isonzo e del Carso con un elevato numero di perdite, non sono suf­ficienti a giustificare la tattica dell’offensiva a ogni costo perseguita dai comandi militari italiani, ove non si tenga conto del carattere imperialista che alcuni settori dell’economia italiana diedero al conflitto25; nella situazio­ne economica italiana, caratterizzata dall’as­senza di sbocchi coloniali e di zone di in­fluenza, dall’esiguità del mercato interno, dalla mancanza di capitali e dall’incremento della disoccupazione, la guerra è il “fatto nuovo”, “necessario per sbloccare uno svi­luppo che minaccia di arrestarsi”, ”è il risul­tato di una situazione di squilibrio, di tra­sformazione”26.

All’entrata in guerra, comunque, la di­scussione sulla strategia militare da seguire aveva visto lo scontro, che Gramsci registra,

tra la direzione politica del conservatore Sa- landra e il comando militare del filonaziona­lista Cadorna: “i conflitti tra militari e go­vernanti non sono conflitti tra tecnici e poli­tici, ma tra politici e politici, sono i conflitti tra ‘due direzioni politiche’ che entrano in concorrenza all’inizio di ogni guerra”27. An­che in riferimento a questa situazione Gram­sci sottolinea l’importanza che assumono i contrasti all’interno degli Stati maggiori sui “piani strategici di una guerra futura” , con­sapevole che “le vecchie strutture militari rappresentavano una determinata politica conservativa-reazionaria di vecchio stile, dif­ficile da vincere e da eliminare” (Q., p. 1916). Ma, al di là delle profonde lacerazio­ni, destinate a tornare alla luce nel dopoguer­ra, all’interno del blocco “prussiano” che con l’intervento andò sostituendo il blocco giolittiano, la direzione di Cadorna appare la più logica conseguenza dei fattori che aveva­no portato all’entrata in guerra, insomma 1’“espressione militare di una determinata politica generale” (Q. , p. 1 IO)28. Infatti, se le intenzioni aggressive del capitalismo impe­rialista italiano erano destinate ad essere fru­strate a Versailles, non così fu per quella che è stata definita “la risposta conclusiva che il ceto liberale diede al problema tradizionale della sua scarsa egemonia”29: la guerra lunga e logorante, combattuta da masse inconsa­pevoli e passive, e sottoposte a rigida disci­plina militare repressiva, sembra essere cioè del tutto funzionale al tentativo di bloccare

24 Ivi, p. 110. Sulle dimensioni dell’esercito e sulla strategia della leva militare durante il conflitto mondiale cfr. P. Del Negro, La leva militare, cit., pp. 236-47.25 Sul “maturare di robuste tendenze antiliberali e imperialiste all’interno del capitalismo italiano”, cfr. Valerio Ca­stronovo, La storia economica, in Storia d ’Italia, cit., vol. IV, t. 1, pp. 201 e sgg.26 Ernesto Galli della Loggia, Problemi di sviluppo industriale e nuovi equilibri politici alla vigilia delta prima guerra mondiale: la fondazione della Banca Italiana di Sconto, in “Rivista storica italiana”, 1970, n. 4, p. 873. Sullo svilup­po dell’industria bellica durante il conflitto mondiale cfr. Luciano Segreto, Armi e munizioni. Lo sforzo bellico tra speculazione e progresso tecnico, in “Italia contemporanea”, giugno 1982, n. 146-147, pp. 35-66.27 Q., p. 278. Sui contrasti tra Stato maggiore e ministero della Guerra cfr. G. Rochat, G. Massobrio, Breve storia, cit., p. 155.'8 La fortunata espressione « blocco prussiano » è di G. Procacci, Appunti in tema, cit., p. 229.29 Giampiero Carocci, Storia d ’Italia dall’Unità ad oggi, Milano, Feltrinelli, 19773, p. 214.

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d’autorità la spinta, divenuta incontrollabi­le, delle organizzazioni politiche di massa. Se consideriamo la concreta vicinanza tra il regime di guerra al fronte e quello imposto in fabbrica, possiamo giungere alla conclu­sione che il conflitto servì, in effetti, a disci­plinare il movimento operaio limitandone le capacità rivendicative e aggreganti30. Il sen­timento antioperaio, attivato al fronte da una campagna propagandistica mistificante, fu usato strumentalmente per approfondire le divisioni tra le masse popolari, indebolen­done le organizzazioni politiche e sindacali, accanto alla repressione poliziesca, allo sfruttamento intenso nelle fabbriche e alla riduzione delle possibilità d’azione politica nel partito come nelle amministrazioni loca­li. A questo proposito Gramsci dimostra co­me la montatura patriottica, lasciando “for­marsi l’opinione che gli esonerati fossero dei veri ‘imboscati’, non elementi indispen­sabili per l’attività bellica anche se non combattenti”, facesse della necessità di “ri­manere in officina” un “elemento di agita­zione demagogica” (Q., pp. 617-18). I rife­rimenti alla riduzione della funzione dei tec­nici a compiti di “pura sorveglianza discipli­nare”, alla denigratoria e sostanzialmente falsa campagna contro gli operai “imbosca­ti”, alla repressione dei “reparti d’assalto” , al silenzio su di essa imposto dalla censura, stanno a indicare che Gramsci aveva com­preso come la “direzione politico-militare della guerra 1914-1918” avesse, tra i propri obiettivi principali, quello di battere il ne­mico interno, di fermarne a ogni costo l’a­vanzata con tutti gli strumenti che lo stato

di guerra metteva a disposizione. In questa direzione agisce anche la “pressione coerci­tiva” , esercitata dalla vita di trincea “per la necessità di guerra”: la “grande ipocrisia sociale totalitaria” , imposta d’autorità, co­pre “una pressione su tutta l’area sociale” . “Una ideologia puritana che dà l’esterna forma di persuasione e di consenso all’in- trinseca coercizione brutale” sembra inserir­si nel disegno strategico, messo in pratica con la guerra, di comprimere ed estenuare le forze delle masse inquadrate nell’esercito italiano. Il nesso tra “animalità e industria­lismo” nel dopoguerra si configura, infatti, come crisi “resa più forte dal contrasto tra questo contraccolpo della guerra e la neces­sità del nuovo metodo di lavoro che si va imponendo (taylorismo, razionalizzazione)” (Q., pp. 138-39). Gramsci può allora vedere nell’“enorme diffusione nel dopoguerra” della psicoanalisi 1’“espressione dell’aumen- tata coercizione morale esercitata dall’appa­rato statale e sociale sui singoli individui e delle crisi morbose che tale coercizione de­termina” (Q. , p. 2140).

La svolta di Caporetto

Caporetto è “il nodo cruciale della guerra italiana, in cui vengono evidenziate tutte le contraddizioni e precipitano decisioni di lun­go periodo”31: lo sfondamento del fronte ita­liano, il ripiegamento disordinato, la necessi­tà di riorganizzare i soldati sbandati in repar­ti combattenti, mutano profondamente la conduzione delle operazioni militari. Al ri-

30 Sull’estensione progressiva della zona di guerra a quasi tutta l’Italia settentrionale cfr. A. Monticone, Il regime penale, cit., p. 457 nota 2. Cfr. Giovanna Procacci, Repressione e dissenso nella prima guerra mondiale, in “Studi storici”, 1981, pp. 119-50, e, sulla situazione e composizione della classe operaia durante la guerra, Alessandro Ca- marda, Santo Peli, L ’altro esercito, Milano, Feltrinelli, 1980.31 G. Rochat, L'Italia nella prima guerra, cit., p. 110. Si vedano i tre articoli di Gramsci su Caporetto, interamente censurati, ora pubblicati in Antonio Gramsci, La città futura 1917-1918, a cura di S. Caprioglio, Torino, Einaudi, 1982, pp. 418-23.

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corso massiccio ad esecuzioni sul posto, uni­co rimedio immediato concepito dai coman­di militari per far fronte alla disfatta, suben­trò l’imponente campagna propagandistica organizzatasi intorno all’attività degli “Uffi­ci P .”, istituiti nel 1918 dal nuovo Stato mag­giore dell’esercito. Le maggiori attenzioni ri­volte al morale dei soldati, che comunque continuarono a subire la dura disciplina mili­tare, si concretizzarono nella diffusione di giornali di trincea, prima di Caporetto quasi inesistenti, in cui trovava libera e mai con­traddetta espressione la campagna paternali­stica e demagogica, intrisa di populismo e di richiami a luoghi comuni talvolta triviali, de­gli intellettuali mobilitati in massa per l’occa­sione, “nel quadro dello sforzo nazionale per la resistenza e la ripresa”32. La solidarietà so­ciale e nazionale, enfatizzata dalla stampa propagandistica, servì in qualche modo, più che a convincere i soldati della necessità della resistenza, soprattutto ad affermare tra intel­lettuali, ufficiali e ceti medi la coscienza della “ricomposizione unitaria della borghesia al di là delle precedenti divisioni di partito e di ceto”33, e a reintegrare nell’immagine della nazione in guerra le forze cattoliche. La co­pertura ideologica che gli intellettuali garanti­rono al nuovo immane sforzo richiesto alla massa dei soldati, stanchi, demoralizzati e senza alcuna precisa motivazione a combatte­re, diede “l’esterna forma di persuasione e di consenso all’intrinseca coercizione brutale” . L’efficace formula di Gramsci può spiegare il significato della propaganda al fronte dopo Caporetto, se teniamo conto che precede di poche righe le osservazioni sulla pressione psicologica subita dai soldati in trincea.

L’analisi dell’“atteggiamento del Croce durante la guerra mondiale” , indispensabile per comprendere “la sua attività posteriore di filosofo e di leader della cultura euro­pea” (Q., p. 1207)34, chiarisce il problema:10 scarto, che Gramsci individua, tra la po­sizione di Croce e quella degli altri intellet­tuali ci permette di trarre importanti indica­zioni sul coinvolgimento di questi nella campagna per l’intervento prima, nella pro­paganda di trincea poi. Osserva infatti Gramsci: “il Croce reagisce contro l’impo­stazione popolare (con la conseguente pro­paganda) della guerra come guerra di civiltà e quindi a carattere religioso”, perché ciò comporta una sorta di prostituzione ideolo­gica, mentre gli intellettuali non devono ab­bassarsi al “livello delle masse” , ma “essere governanti e non governati, costruttori di ideologie per governare gli altri e non ciar­latani” (Q., p. 1212)35. Inoltre Croce non critica “l’impostazione ‘religiosa’ della guerra in quanto ciò è necessario politica- mente perché le grandi masse popolari mo­bilitate siano disposte a sacrificarsi in trin­cea e a morire: è questo un problema di tec­nica politica che spetta di risolvere ai tecnici della politica”. La preoccupazione, che “nasce con la guerra mondiale” (Q., p. 1356), dimostrata da Croce nel definire li­miti e differenze di esplicazione tra ideolo­gia e filosofia, sta a indicare come, durante11 conflitto, concreta e praticabile fosse la possibilità che la filosofia si tramutasse in ideologia, cioè in “strumento pratico per governare” (Q., p. 1212). In questo senso molto efficace ed incisiva appare l’osserva­zione gramsciana che “durante la guerra

32 Mario Isnenghi, Giornali di trincea 1915-1918, Torino, Einaudi, 1977, p. 6.33 Ivi, p. 55 (cfr. anche p. 242). Perdeva consistenza con la guerra di difesa il disegno imperialista del “blocco prussiano”.34 Sulla posizione crociana durante il conflitto cfr., Benedetto Croce, Pagine sulla guerra, Bari, Laterza, 1928L35 A motivare il neutralismo crociano è soprattutto “la pretesa degli interventisti ad una iniziativa politica in qual­che modo dal basso” (M. Isnenghi, Il mito della grande guerra, cit., p. 106). Cfr. Q., pp. 779-80.

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ideologia e filosofia entrarono in frenetico connubio” (Q. , p. 1356).

La riorganizzazione del consenso, indi­spensabile per ottenere dai fanti “il massimo rendimento militare”, passa quindi attraver­so la mobilitazione indiscriminata di intellet­tuali e ufficiali, “imbonitori del popolo in trincea” , con la funzione di fornire il cemen­to ideologico attorno al quale ricomporre l’unità nazionale, turbata dagli scioperi del­l’estate del 1917, dalla caduta del governo Boselli e dalla sconfitta di Caporetto36. La consapevolezza del ruolo centrale delle ideo­logie nella produzione del consenso e nel mantenimento dell’egemonia politica, attra­verso il controllo dell’opinione pubblica, permette a Gramsci un atteggiamento del tutto disincantato nei confronti della propa­ganda di guerra: le ideologie politiche sono “costruzioni pratiche [...] di direzione politi­ca” da “svelare nella loro natura di strumenti di dominio” (Q., p. 1319)37.

Le note sugli intellettuali “ ‘commessi’ del gruppo dominante per l’esercizio delle fun­zioni subalterne deH’egemonia sociale e del governo politico” vanno viste anche in rife­rimento, più o meno diretto, ai problemi di gestione della guerra sorti dopo Caporetto: infatti gli intellettuali “funzionari” agisco­no organizzando il “consenso ‘sponta­neo’”, quando questo deriva dal “presti­gio” della classe dirigente, ma anche, e qui il riferimento alla guerra mondiale si fa più palpabile, l’“apparato di coercizione statale che assicura ‘legalmente’ la disciplina di quei gruppi che non ‘consentono’ né attiva­mente né passivamente” , soprattutto nei “momenti di crisi nel comando e nella di­

rezione in cui il consenso spontaneo vien meno”.

L’estensione del concetto di intellettuale, risultato dell’impostazione del problema, porta Gramsci a un paragone con l’esercito: “l’organismo militare, anche in questo caso, offre un modello di queste complesse gra­duazioni [tra intellettuali]: ufficiali subalter­ni, ufficiali superiori, Stato maggiore; e non bisogna dimenticare i graduati di truppa, la cui importanza reale è superiore a quanto di solito si pensi. È interessante notare che tutte queste parti si sentono solidali e anzi che gli strati inferiori manifestano un più appari­scente spirito di corpo” (Q., pp. 1519-20).

La propaganda di guerra si inserisce, in definitiva, nel consapevole disegno di ri­composizione autoritaria della società ita­liana, facendo leva sui ceti medi intellettua­li per riaffermare la solidarietà sociale al­l’insegna del mantenimento della sudditan­za di classe.

Per quanto riguarda le accuse di “sciopero militare” e di “criminale” disfattismo rivolte contro le masse combattenti all’indomani della rotta di Caporetto, Gramsci interviene con due note del Quaderno 6 in cui viene fat­to il punto sulla polemica ancora in corso nei primi anni trenta38. All’“insufficienza stori­ca e morale” di una interpretazione della sconfitta che vede come unica responsabile “la massa militare esecutiva e strumentale” , è subentrato, denuncia Gramsci nella prima nota, il “nuovo luogo comune” dell’“infor­tunio militare” che limita la portata politica della vicenda al solo aspetto “tecnico” , sia esso imputabile all’incapacità dello Stato maggiore di Cadorna o all’inadeguato “ap-

36 Cfr., sulle difficoltà del governo Boselli e sugli “avvenimenti del 1917” a Torino, Q., pp. 108-9, pj\. 987-89, p. 1814.37 Sul realismo di Gramsci a questo proposito vedi Q., p. 59: “ognuno può essere il giudice migliore della scelta delle armi ideologiche che sono più appropriate ai fini che vuole raggiungere e la demagogia può essere ritenuta arma ec­cellente”.38 Gramsci stende le note avendo presente le recensioni ai libri di Gioacchino Volpe, Ottobre 1917. Dall’Isonzo a! Piave, Roma, Libreria d’Italia, 1930, e di Antonio Baldini, Diaz, Firenze, Bàrbera, 1929.

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porto bellico degli ufficiali di complemento, cioè della piccola borghesia intellettuale” . Per Gramsci, invece, “la responsabilità stori­ca deve essere cercata nei rapporti generali di classe in cui soldati, ufficiali di complemento e Stati maggiori occupano una posizione de­terminata, quindi nella struttura nazionale, di cui sola responsabile è la classe dirigente appunto perché dirigente” (Q., pp. 736- 37)39. Nella seconda nota, più articolata e analitica, Gramsci dichiara in apertura che “in questa polemica sul significato di Capo- retto bisognerebbe fissare alcuni punti chiari e precisi” . Dopo aver ricordato che “ogni fatto militare è anche un fatto politico e so­ciale”, Gramsci solleva da ogni responsabili­tà politica le masse militari, il popolo e i “partiti che ne erano l’espressione politica”, accusando invece la classe dirigente italiana dell’“incapacità a prevedere che determinati fatti avrebbero portato allo sciopero militare e quindi a provvedere a tempo, con misure adeguate (sacrifici di classe) a impedire una tale possibile emergenza” (Q. , pp. 740-42)40. Lo stesso Cadorna non può essere considera­to il responsabile perché, “in ultima analisi, ha espresso la mentalità e la comprensione politica” del governo e della classe dirigente in generale, il cui errore di fondo deriva dalla convinzione che “la massa militare debba fa­re la guerra e sopportarne tutti i sacrifici [...], senza tener conto del carattere sociale della massa militare e senza venire incontro alle esigenze di questo carattere” (Q., p.

989)41. Pur riconoscendo l’effettiva incapaci­tà degli uomini politici italiani nella gestione della guerra fino alla disfatta di Caporetto, Gramsci coglie l’aspetto principale del pro­blema: il “significato di Caporetto” non va cercato solo nei demeriti personali e nella tat­tica militare troppo rigida, ma nella “struttu­ra nazionale”, nei “rapporti generali di clas­se” mantenuti, anzi riaffermati con forza, nell’esercito.

Arditismo e volontarismo

Nel quadro delle misure militari prese dai co­mandi italiani dopo la ritirata di Caporetto, notevole importanza rivestono l’ampliamen­to e lo sviluppo dei reparti d’assalto, già im­piegati da Cadorna, i cosiddetti àrditi, con l’intento manifesto di creare un corpo dal morale alto, combattivo e politicamente alli­neato agli orientamenti dei comandi42. Gli Arditi dettero un modesto contributo milita­re alle operazioni belliche, mentre più visto­sa, e quindi utile, fu la loro funzione sul pia­no politico e propagandistico. Il duplice compito dei reparti d’assalto è sottolineato da Gramsci, indicando la necessità di “di­stinguere tra funzione tecnica di arma specia­le legata alla moderna guerra di posizione e funzione politico-militare” (Q., pp. 120 e sgg.). Le truppe speciali esauriscono il pro­prio compito “politico-militare” nel costitui­re l’“elemento ‘strutturale’ del morale della

39 Cfr. in questa direzione gli articoli, in parte censurati, raccolti in La città futura, cit., pp. 718-19 e pp. 818-19.40 Cfr. p. 110. Come afferma Paggi, “l’origine dell’interesse di Gramsci per la natura sociale e il significato politico dell’organizzazione militare deve certamente essere ricondotto ai giorni di Caporetto” (L. Paggi, Gramsci e il moder­no principe, cit., p. 73).41 Cfr. p. 260 e p. 957. Gramsci si serve dell’articolo di Spectator [M. Missiroli], Luigi Cadorna, in “Nuova Antolo­gia”, 1° marzo 1929, pp. 43-65. L’interpretazione di Caporetto come sconfitta politica e non militare fu usata stru­mentalmente in funzione antisocialista (cfr. Paolo Alatri, La prima guerra mondiale nella storiografia italiana del­l’ultimo venticinquennio, in “Belfagor”, 1972, n. 5, p. 588).42 Cfr. G. Rochat, L ’Italia nella prima guerra, cit., p. 117; gli arditi furono in sostanza uno “strumento per il con­trollo della situazione”. Sull’arditismo del dopoguerra si vedano i passi censurati dell’articolo di A. Gramsci, La sfi­da, 19 aprile 1919, in Idem, Il nostro Marx 1918-1919, a cura di Sergio Caprioglio, Torino Einaudi, 1984, pp. 605-6.

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massa dei soldati” (Q., p. 675). Infatti l’ardi­tismo va considerato non “come un segno della combattività generale della massa mili­tare, ma viceversa, come un segno della sua passività e della sua relativa demoralizzazio­ne” . Dal terreno della guerra la disamina si sposta su quello delle “lotte attuali” all’inter­no della compagine politica nazionale: “una organizzazione statale indebolita è come un esercito infiacchito: entrano in campo gli ar­diti, cioè le organizzazioni armate private, che hanno due compiti: usare l’illegalità, mentre lo Stato sembra rimanere nella legali­tà, come mezzo di riorganizzare lo Stato stes­so” (Q., p. 121). La traduzione dei termini propri del linguaggio militare nel linguaggio della politica è qui delle più convincenti: tra­sparenti paiono i richiami alla situazione po­litica e sociale italiana dell’immediato dopo­guerra.

L’“organizzazione statale indebolita” perde la propria qualificante capacità di mediare i conflitti politici all’interno del­l’apparato istituzionale; “entrano in cam­po” le “organizzazioni armate private” che usando mezzi illegali agiscono per “riorga­nizzare lo Stato stesso”. L’affermarsi del fascismo, delle “organizzazioni d’assalto permanenti e specializzate”, è possibile in Italia “mentre lo Stato sembra rimanere nella legalità” , celandosi dietro il neutrali­smo liberale che finirà per portarlo al crollo definitivo. L’analisi gramsciana smaschera anche l’interessata neutralità dello Stato di fronte alla guerra civile scatenata dai fasci­sti per sconfiggere le organizzazioni politi­che e sindacali del movimento operaio ita­liano. Infatti la neutralità è già una forma di intervento e illudersi che lo Stato riman­ga sempre inerte “è una cosa sciocca”. Inol­tre, osserva ancora Gramsci riferendosi alla tattica politica dei quadri dirigenti del socia­

lismo italiano e del giovane partito comuni­sta, è stato commesso un errore grossolano nel “credere che alla attività privata illegale si possa contrapporre un’altra attività simi­le, cioè combattere l’arditismo con l’arditi­smo” (Q., p. 121).

In una nota del Quaderno 14 Gramsci ri­torna sull’argomento degli arditi nell’ambito del problema teorico del rapporto tra “vo­lontarismo” e “partecipazione della colletti­vità organica” : in essa mostra come siano battaglie politiche perse in partenza quelle combattute da velleitarie avanguardie che non abbiano alle spalle un “esercito di rincal­zo”, che siano soltanto espressione di “eroi­smo retorico” e non di un’avanzata politica di “organismi complessi e regolari”43. L’ana­lisi del fenomeno dell’arditismo, durante la guerra e poi nel periodo che vede tramontare lo Stato liberale, porta Gramsci a sviluppare in due direzioni la propria traduzione politi­ca: da una parte la descrizione dell’affermar- si del fascismo e della colpevole, perché lega­le, neutralità dello Stato; dall’altra la critica alle “pseudo-aristocrazie”, le avanguardie delle classi subalterne. Le degenerazioni, an­che in buona fede, di “arditi*1 che non siano “funzioni specializzate” di “blocchi sociali omogenei e compatti” consigliano di evitare strategie politiche spregiudicate e anacroni­stiche, che non tengano conto che la lotta po­litica ha assunto i caratteri della guerra di po­sizione.

L’elemento militare in politica

Se è vero che nei Quaderni “manca una de­nuncia esplicita e articolata dello sfruttamen­to fascista dei miti bellici”44, è comunque le­cito ipotizzare che il timore della censura car­ceraria abbia agito, in forme peraltro diffi­

43 Q-, PP- 1675-76, che riprende le schematiche indicazioni di p. 1092.44 G. Rochat, L ’Italia nella prima guerra mondiale, cit., p. 40.

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cilmente determinabili, impedendo ogni cri­tica dissacrante della grande guerra.

Va inoltre ricordato che, al di là delle og­gettive difficoltà del carcere, il peso del “mi­to della grande guerra” si fece sentire capil­larmente nella cultura e nella società italiane, portando alla sua sostanziale accettazione nelle stesse file dell’antifascismo, che rara­mente, e a fatica, riuscì a porre i termini del­la questione con sufficiente spregiudicatezza. È perciò impossibile trovare nei Quaderni un’interpretazione organica e compiuta della guerra mondiale; rispetto alla superficialità e allo schematismo dimostrati nel periodo de “L’Ordine Nuovo”45 46, però, la guerra diventa ora un considerevole centro di interesse, pro­prio perché in essa si producono mutamenti importanti nella dinamica politica e sociale italiana.

Diventa allora necessario, nell’ambito di questa ricerca, considerare la “cultura mili­tare” di Gramsci, nel tentativo di saggiare la consistenza e la specificità dell’analisi del- 1’“elemento militare in politica”. L’esercito si presenta, innanzi tutto, nella riflessione del carcere, come un problema politico da definire in relazione all’analisi, talvolta solo abbozzata, dell’importanza del “ceto milita­re” nella società contemporanea: “l’influen­za dell’elemento militare nella vita statale non significa solo influenza e peso dell’ele- mento tecnico militare, ma influenza e peso dello strato sociale da cui l’elemento tecnico militare (specialmente gli ufficiali subalterni) trae specialmente origine” (Q., p. 1608). Si tratta di un’indagine centrale nell’economia complessiva del disegno politico tracciato nei Quaderni: determinare le caratteristiche so­ciali del ceto militare è strettamente funzio­nale alle osservazioni sulla “struttura dei partiti politici nei periodi di crisi organica” .

Richiamandosi esplicitamente alle conside­razioni svolte nelle “note sulle situazioni e i rapporti di forza” e, in particolare, sul “rap­porto delle forze militari, immediatamente decisivo volta per volta” (Q., pp. 1585 sgg.), Gramsci ricorre al “concetto che nella scien­za militare è chiamato della ‘congiuntura strategica’, ossia, con più precisione, del grado di preparazione strategica del teatro della lotta”, nell’intento di “ridurre a zero i così detti ‘fattori imponderabili’” . A questo proposito, “tra gli elementi della preparazio­ne di una favorevole congiuntura strategica sono da porre appunto quelli considerati nelle osservazioni su 1’esistenza e l’organiz­zazione di un ceto militare accanto all’orga­nismo tecnico dell’esercito nazionale” (Q., p. 1610). “Nell’Europa moderna questo strato si può identificare nella borghesia ru­rale media e piccola” , tra le cui fila è tradi­zionalmente reclutata la burocrazia civile e militare (Q. , pp. 1605-6). Riconosciutasi omogenea e protagonista nella guerra mon­diale, esplicitata la propria, caratteristica, attitudine al comando “politico”, non “eco­nomico”, di piccoli nuclei subordinati, nel dopoguerra la piccola borghesia è per Gram­sci elemento di forte destabilizzazione: sfug­giti alla sfera di influenza del partito sociali­sta che “se li rese nemici gratis”, “i piccoli intellettuali e i piccoli borghesi” si organiz­zano intorno alla figura del capo carisma­tico (Q., p. 322)40. Nella nota citata Gramsci critica duramente l’atteggiamento ipocrita e demagogico del Psi di fronte alla guerra, l’assenza di controllo e di organizzazio­ne nell’immediato dopoguerra: il riferimen­to a Gatto Roissard, episodico collaboratore de “L’Ordine Nuovo”, esperto militare dell’“Avanti!” e consulente della direzione del partito per i problemi militari47, è meno

45 Ivi, pp. 12-13 e p. 21 nota 12.46 Cfr. p. 234, in cui il richiamo a Weber agisce attraverso il filtro di R. Michels.47 Cfr. G. Rochat, Antimilitarismo ed esercito rosso nella stampa socialista e comunista del primo dopoguerra (1919-1925), in “Il movimento di liberazione in Italia”, 1964, n. 76, p. 14 e sgg.

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occasionale di quanto non sembri in appa­renza. Infatti, alla fine della guerra, nella stampa socialista e comunista viene dedicata scarsa attenzione al problema dell’esercito, ritenuto marginale, mentre abbondano con­fuse lamentele e luoghi comuni superficiali, nella totale assenza di una politica militare coerente in grado di coinvolgere anche i qua­dri ufficiali. L’antimilitarismo rivoluziona­rio della sinistra del Psi e de “L’Ordine Nuo­vo” si segnala, nel migliore dei casi, nel for­nire un consistente aggancio teorico, che non trova, però, sbocco pratico in una concreta linea d’azione48.

Nell’immediato dopoguerra, comunque, Gramsci individua il nesso tra esercito e so­cietà: l’organizzazione militare riflette la composizione sociale, anzi, “la corrispon­denza tra la stratificazione di classe nella so­cietà e le gerarchie dei comandi dell’organiz­zazione militare” attenua, come è stato os­servato, “la contrapposizione tra società e Stato propria di tutta la letteratura marxi­sta”49. La novità dell’impostazione teorica sembra quindi dipendere in buona misura dall’attenzione nei confronti della funzione sociale dell’esercito, istituzione statale che interviene attivamente nella società, liqui­dando di fatto la separazione tra Stato e so­cietà civile.

Nel passo precedentemente preso in esame Gramsci si richiamava a un libro di Gaetano Mosca50, in cui poteva trovare la messa a fuoco dello stretto legame, venutosi ad in­staurare con il servizio militare obbligatorio,

tra esercito e società civile: il coinvolgimento di tutte le classi sociali comporta la diretta corrispondenza tra l’organismo militare (nel­le parole di Mosca la parte dell’organizzazio­ne sociale modificatasi in termini più radicali dall’Unità in poi), e società divisa in classi. Inoltre, sottolineando la duplice funzione dell’esercito, “il migliore è più saldo appog­gio, l’unico forse sicuro, di cui disponga il governo italiano e tutta quella parte del pae­se che vuole l’ordine, la pace all’interno e l’indipendenza all’esterno”, Mosca indicava nella neutralità e nell’apoliticità i requisiti in grado di garantirne in questo senso l’effi­cacia51.

Altrove Gramsci dimostra di essere consa­pevole che esercito e scuola sono “problemi vitali di uno Stato in piena efficienza” e di come “lo Stato moderno riesca a svolgere la sua missione pedagogica, integrante dell’atti­vità sua generale” soprattutto nelle campa­gne52. L’esercito provvede a rappresentare l’unità della nazione mantenendo ^ ‘omoge­neità tra ufficiali e soldati in un terreno di apparente neutralità e superiorità sulle fazio­ni” (Q., p. 1605), preservate dalla diffusa de­composizione politica da associazioni “pri­vate” che agiscono “lungo i ‘confini’ di gruppo sociale”: il “carattere militare” della piccola borghesia, infatti, “viene ora consa­pevolmente educato e predisposto organica- mente” con la creazione e il mantenimento di “associazioni varie di militari in congedo e di ex-combattenti dei vari corpi ed armi, spe­cialmente di ufficiali” (Q., pp. 1607-8)53.

48 Cfr. ivi, p. 37 e sgg.49 L. Paggi, Gramsci e il moderno principe, cit., pp. 378-79.50 Q., p. 1607. Si tratta del libro di Gaetano Mosca, Teorica dei governi e governo parlamentare (1884), ora in Idem, Scritti politici, a cura di G. Sola, Torino, UTET, 1982, voi. I; sull’ordinamento militare italiano cfr. p. 455 e sgg.51 Ivi, pp. 468-69. Sugli “effetti politici del servizio militare obbligatoriamente esteso a tutti i cittadini» insiste Mosca anche negli Elementi di scienza politica (19232), in Idem, Scritti politici, cit., vol. II, p. 1059. Cfr. Q ., p. 1605: la neu­tralità dell’esercito è in realtà sostegno alla “parte più retriva”.52 Rispettivamente in Antonio Gramsci, Socialismo e fascismo. L ’Ordine Nuovo 1921-1922, Torino, Einaudi, 1966, p. 447, e in II nostro Marx, cit., p. 85.53 In prima stesura i brani sulla neutralità dell’esercito e sull’educazione del ceto militare sono consecutivi. Cfr. Q.,

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Guerra futura e nazione armata

Degno della massima attenzione è ritenuto da Gramsci il dibattito relativo alla struttura organizzativa dell’esercito e alle notevoli in­novazioni strategiche e tattiche implicite nel­lo sviluppo tecnologico degli armamenti, uno sviluppo che comportava un mutamento nella determinazione delle caratteristiche del­la “guerra futura”.

Nell’estate del 1931 si era svolta sulle pagi­ne della “Nuova Antologia” un’ampia di­scussione su questo argomento, inaugurata da un articolo di F. Grazioli e proseguito con l’intervento di Emilio De Bono, che in parti­colare sottolineava l’importanza di curare i quadri in congedo dell’esercito54. Alla pro­posta di Grazioli di organizzare, in vista di una guerra necessariamente rapida, un eser­cito numericamente limitato, composto da un’élite di combattenti, rispondeva un’ano­nima “elevata personalità militare”: anche se l’esercito professionale sarebbe lo sviluppo logico del volontarismo fascista, l’esperienza logorante della guerra mondiale consiglia la formazione di un esercito di massa, difensi­vo, tecnicamente preparato; inoltre, ed è questo l’argomento decisivo, il prestigio in­ternazionale è assicurato soltanto da un eser­cito che rappresenti “la Nazione stessa in armi”55.

Gramsci, a conoscenza del dibattito, sot­

tolinea l’importanza della “discussione sulla guerra futura” e sulla funzione “delle picco­le armate professionali in confronto ai grandi eserciti di leva” (Q., p. 1916)56. Inol­tre, considerando l’autonomia raggiunta dallo “sviluppo della tecnica militare” ri­spetto alla potenza economica di uno Stato, descrive il progresso della tecnologia bellica come “la più formidabile incognita dell’at­tuale situazione politico-militare” (Q., pp. 1622-23)57.

In altri luoghi dei Quaderni Gramsci sem­bra ripercorrere stancamente il tema della “nazione armata”, ricorrente nella letteratu­ra socialista, derivato dalla tradizione demo­cratica risorgimentale. Commentando un ar­ticolato del “Corriere della Sera”58, Gramsci ricorda le “aspirazioni del Risorgimento per rispetto all’Esercito”, inteso come “un istitu­to che doveva inserire le forze popolari nella vita nazionale e statale, in quanto l’Esercito rappresentava la nazione in armi, la forza materiale su cui poggiava il costituzionali­smo e la rappresentanza parlamentare, la forza che doveva impedire i colpi di Stato e le avventure reazionarie: il soldato doveva di­ventare il soldato-cittadino” e l’obbligo mili­tare l’esercizio della “libertà popolare arma­ta” . “Utopie, evidentemente” : non sapendo il Partito d’Azione farsi carico dell’“educa­zione ‘costituzionale’ del popolo”, l’esercito rimase apolitico e professionale, impedendo

p. 1613 sui “volontari dell’ordine”, e, sulle associazioni di ex combattenti, pp. 240-41, p. 509, pp. 986-87 ” , Si veda al proposito Giuseppe Giarrizzo, Il Mezzogiorno di Gramsci, in Politica e storia in Gramsci, Roma, Editori Riuniti, 1977, vol. I.54 Cfr. Emilio De Bono, Della guerra e della pace, in “Nuova Antologia”, 16 agosto 1931, p. 413, e F. Grazioli, Della guerra e della pace, in “Nuova Antologia”, 1° luglio 1931.55 Si tratta dell’articolo anonimo in “Nuova Antologia”, 16 agosto 1931, p. 425.56 Cfr. pp. 1918-19: Gramsci aveva a disposizione l’articolo di Orlando Freri, L ’agguerrimento delle nuove genera­zioni, in “Gerarchia”, agosto 1933, pp. 670-81; e la recensione di E. Michel a Rocco Moretta, Come sarà la guerra di domani, Milano, Agnelli, 1932, in “Italia letteraria”, 10 settembre 1933.57 Gramsci conosceva di Giulio Douthet, Probabili aspetti della guerra futura, Palermo, Sandron, 1928, e di Piero Pieri, Rassegna di storia militare, in “Nuova rivista storica”, settembre-dicembre 1931, pp. 532-48 (cfr. Q., p. 1631).58 È l’articolo di Aldo Valori, L ’esercito di una volta, in “Corriere della Sera”, del 17 novembre 1931, sul libro di Emilio De Bono, Nell’esercito nostro prima della guerra, Milano, Mondadori, 1931.

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la partecipazione popolare alla vita statale (Q-, PP- 818-19)59.

Già nel Primo Quaderno, nella fondamen­tale nota in cui è svolto il tema dell’egemonia come “direzione politica di classe prima e dopo l’andata al governo”, Gramsci descrive il nesso tra politica democratica ed esercito nazionale a coscrizione obbligatoria in Pisa- cane: nel quadro della necessità del coinvol­gimento popolare nel moto risorgimentale va visto il progetto di una milizia nazionale con­tadina, diretta, secondo l’indicazione di Ma­chiavelli, dalla borghesia cittadina (Q., p. 44). L’interesse per Pisacane, la cui figura costituisce nei Quaderni “una pietra di para­gone della consistenza ideologica e politica del partito democratico”60, non è episodico: nell’estate del 1918 la redazione del “Grido del popolo” si era impegnata nella discussio­ne attenta delle opere di Pisacane, nel tenta­tivo di esplicitare il significato politico della disfatta di Caporetto e, insieme, della costi­tuzione dell’Armata rossa61. La ricerca su Pi­sacane si colloca all’interno della tradizione politico-militare socialista che nell’“abolizio­ne dell’esercito permanente coll’istituzione in sua vece della nazione armata” vedeva “la condizione sine qua non di ogni immediata riforma”62. Se ne trova un’eco nelle osserva­zioni gramsciane dei Quaderni sulla solida­rietà, consapevolezza, coscienza di classe ac­

quisite dalle masse durante il conflitto mon­diale.

Ma Gramsci non poteva non essere consa­pevole della duplice linea di sviluppo che prendeva origine dal concetto di nazione ar­mata delineato dai democratici risorgimen­tali. Infatti, se da un lato esso era filtrato nel corredo socialista dei primi anni del se­colo, venendone a costituire un punto noda­le, benché declassato a parola d’ordine for­temente usurata, dall’altro era stata esplici­ta, già negli ultimi decenni dell’Ottocento, 1’“espropriazione dello slogan militare dei democratici”63 da parte di chi progettava l’integrazione tra esercito e società civile at­traverso la militarizzazione delle masse. Tra di essi il più autorevole era stato, forse, Ni­cola Marselli che esaltava l’esercito “nume­roso, istruito, disciplinato, nazionale, ed economico” , evidenziandone la capacità di rappresentare ’“la vera nazione armata e organizzata”64. Nel dibattito sulla questione militare avevano giocato un ruolo centrale le vittorie dell’esercito prussiano che, realiz­zando nel modo più efficace la compenetra­zione tra organismo militare e società civile, dimostrava sul campo la superiorità del mo­dello proposto. In un contesto fortemente polemico vanno collocate anche le tempesti­ve traduzioni delle opere di Moltke e di Col­mar von der Goltz65 che Gramsci conosceva:

59 II riferimento diretto è al volume di Giulio Cesare Abba, Uomini e sodati. Letture per l ’esercito e pel popolo, Bologna, Zanichelli, 1890, letto nel carcere e confrontato con Edmondo de Amicis, La vita militare. Bozzetti, Fi­renze, Le Monnier, 1869, in Q., pp. 1189-90.60 L. Paggi, Gramsci e il moderno principe, cit., p. 74.61 Paggi mostra come l’interesse per il Risorgimento italiano nasca dalla necessità di comprendere gli avvenimenti russi per l’interpretazione dei quali “la letteratura socialista preesistente è assolutamente inadeguata” (Ivi, p. 72).62 Si tratta dell’articolo, intitolato II nostro compito (1894), ora raccolto in Critica sociale, a cura di M. Spinella, A. Ca­racciolo, E. Amaduzzi, G. Petronio, Milano, Feltrinelli, 1959, vol. I, p. 65. Sull’atteggiamento dei socialisti durante la guerra libica cfr. Maurizio Degl’Innocenti, Il socialismo italiano e la guerra di Libia, Roma, Editori Riuniti, 1976.63 P. Del Negro, La leva militare, cit., p. 256.64 Nicola Marselli, Gli avvenimenti de! 1870-71. Studio politico e militare, Torino, Loescher, 1871, p. 55. Sottoli­neano l’importanza del libro di Marselli Giovanni Gentile, Le origini della filosofia contemporanea in Italia, Messi­na, Principato, 1921, vol. II, pp. 85-121, e Spectator [M. Missiroli], Luigi Cadorna, cit., p. 48.65 Hellmuth von Moltke, Storia della guerra franco-germanica del 1870-71, tr. it., Milano, Treves, 1891, e Colmar von der Goltz, La nazione armata. Libro sull’organizzazione degli eserciti e la condotta della guerra ai tempi nostri, tr. it., Roma, Voghera, 1894.

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la nota, già ricordata, in cui è contestata “la concezione del Croce, della politica-passio­ne”, in nome della famosa formula di Clau­sewitz che la guerra è “la continuazione, in altre forme, di una determinata politica”, prosegue, infatti, con un richiamo preciso al­le osservazioni di Moltke sul rapporto tra piano militare generale ed azione concreta che deve adattarsi alle mosse dell’avversario (Q., p. 1568). L’opera del generale Colmar von der Goltz, inoltre, era conosciuta da Gramsci per averla trovata citata e commen­tata da Mosca a proposito del rapporto tra esercito professionale ed esercito di massa66. La torsione in senso “prussiano” del concet­to di nazione armata, pertanto, era ben nota a Gramsci che, certo, impostava la questione dell’esercito partendo da Pisacane, ma acco­glieva ne “L’Ordine nuovo” gli articoli di Cesare Seassaro che non nascondeva ‘’un’il­limitata ammirazione per la Germania prus­siana” e la sua disciplinata organizzazione militare, tanto da associare “la disciplina mi­litare e l’etica comunista”67.

In effetti già nell’immediato dopoguerra socialisti e comunisti non facevano più riferi­mento alla nazione armata, che, divenuta espressione priva di contenuto concreto, era sfruttata da più parti con significati di volta in volta diversi, ma tutti riconducibili al “mi­to combattentistico che parte sempre dall’e­saltazione della guerra e della vittoria”68. La guerra mondiale diventa allora lo spartiac­que che consuma definitivamente nel logora­mento della trincea l’utopia democratico-so­cialista della nazione in armi, proprio quan­do la mobilitazione massiccia lasciava intra­

vedere la possibilità di una vasta azione poli­tica all’interno dell’esercito.

Le considerazioni sulla distanza tra piano politico-militare e sua concreta attuazione sono svolte anche in un discorso parlamenta­re del ministro della Guerra, generale Gazze- ra, letto e ampiamente citato da Gramsci nel­la nota a più riprese da noi analizzata e dal ti­tolo Noterelle su alcuni aspetti della struttura dei partiti politici nei periodi di crisi organi­ca69. La guerra mondiale ha mostrato il “di­stacco profondo tra la preparazione di pace e la realtà della guerra”, gli stessi regolamenti possono essere modificati “per poterli ade­guare alla realtà” . Più importante ci sembra però l’affermazione di Gazzera sullo “spirito di coesione” dell’esercito, “frutto spontaneo del sistema seguito”, “esteso a tutto il popo­lo italiano”. Infatti “il regime di disciplina del nostro Esercito per virtù del Fascismo ap­pare oggi una norma direttiva che ha valore per tutta la Nazione”.

Chiaro è il riferimento alla militarizzazio­ne fascista della società italiana, ottenuta attraverso l’educazione autoritaria all’obbe­dienza passiva e l’imposizione del mito del fascismo come erede dell’arditismo. Ope­rando in questa direzione, la Milizia volon­taria per la sicurezza nazionale, voluta da Mussolini già nel dicembre del 1922, nell’in­tento di inquadrare la forza armata del par­tito e di “normalizzare il fenomeno squadri­sta”70, rappresenta l’esempio vistoso di una istituzione “privata” che diviene istituzione dello Stato, assumendo la funzione di con­trollo dell’ordine pubblico prima affidata all’esercito71. Perciò, se lo Stato mostra di

66 Cfr. G. Mosca, Elementi di scienza politica, cit., pp. 825-26.67 G. Rochat, Antimilitarismo ed esercito, cit., p. 12.68 G. Rochat, L ’esercito italiano da Vittorio Veneto a Mussolini (1919-1925), Bari, Laterza, 1967, p. 199.69 Cfr. Q., pp. 1610-11. Si tratta del discorso parlamentare, apparso sul “Corriere della Sera”, del 20 maggio 1932.70 Alberto Aquarone, L'organizzazione dello Stato totalitario, Torino, Einaudi, 1965, p. 17.71 Sui rapporti tra milizia ed esercito cfr. G. Rochat, L ’esercito italiano, cit., pp. 426-48, e Alberto Aquarone, La milizia volontaria nello Stato fascista, in “La Cultura”, maggio 1964, n. 3, pp. 259-71 e n. 4, luglio 1964, pp. 360-74. Cfr. Q., p. 1919.

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intervenire attivamente nella società anche con l’organismo militare, nello stesso tempo all’interno della società agiscono istituzioni private che la riorganizzano politicamente, fino a diventare strumento dell’azione sta­tale.

L’interesse politico per la funzione sociale dell’esercito e per la centralità della guerra mondiale nello sviluppo complessivo della situazione politica italiana spinge Gramsci ben oltre il superficiale pacifismo e l’antimi­litarismo generico, che caratterizzavano l’atteggiamento di socialisti e comunisti. Su­perato il vincolo teorico della separazione (Q., pp. 1589-90), il rapporto Stato-società civile si riarticola attorno ad alcuni nodi ca­ratteristici e tra questi il nesso che stringe politica e guerra nella società contempo­ranea.

Non si tratta allora di leggere le metafo­re “belliche” dei Quaderni soltanto nel loro significato “esemplificativo” , immediata­mente traducibile in termini politici, poiché se ne perderebbe la portata analitica e la ca­

pacità di articolare la riflessione gramsciana. Dopo aver impostato la ricerca sul “ceto mi­litare” , infatti, Gramsci sviluppa il confron­to “tra i concetti di guerra manovrata e guerra di posizione” nell’arte militare e i concetti relativi nell’arte politica (Q., pp. 1613-16), criticando “gli strateghi del cador- nismo politico” che non studiano “con ‘profondità’ quali sono gli elementi della società civile che corrispondono ai sistemi di difesa nella guerra di posizione” e che pertanto ne sottovalutano catastroficamente la tenuta.

La ricerca sull’“elemento militare in politi­ca”, che tenta di spiegare la funzione sociale dell’esercito e la funzione politica del “ceto militare”, si colloca aH’interno della disa­mina del nesso politica-guerra che coinvolge il nuovo assetto sociale prodottosi con il conflitto mondiale, in questo modo contri­buendo alla ridefinizione della strategia poli­tica complessiva nelle società industrialmen­te avanzate.

Antonio Stragà