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Grande Guerra e società italianaLe riflessioni di Gramsci
di Antonio Stragà
La constatazione che il lavoro di Gramsci nel carcere trova la propria motivazione teorica principale nella necessità di analizzare le cause della sconfitta del movimento operaio europeo alla fine della prima guerra mondiale, costituisce il punto di partenza e il riferimento costante della presente ricerca.
Le osservazioni gramsciane al proposito sono particolarmente incisive: nella crisi dello Stato liberale italiano, quando sembra trasparire la possibilità di un rivolgimento complessivo, le organizzazioni politiche e sindacali delle classi subalterne si dimostrano incapaci di gestire il processo da posizioni di forza. La subordinazione politica, manifestatasi drammaticamente negli anni che vanno dall’intervento italiano in guerra all’ascesa del fascismo, si spiega in gran parte con la superficialità e l’inconsistenza analitica dell’approccio teorico ai problemi emersi nel dopoguerra, con la colpevole incomprensione dello sconvolgimento prodottosi con la guerra mondiale in ogni rapporto politico e sociale: “La debolezza teorica, la nessuna stratificazione e continuità storica della tendenza di sinistra, sono state una delle cause della catastrofe”1. Nel tentativo di pensare le
cause della sconfitta e di dotare il movimento operaio di una teoria adeguata al livello di comprensione resosi necessario per agire politicamente, quando “dopo la rivoluzione russa è il fascismo che sfugge con la complessità della sua genesi alle leggi del materialismo storico”2, Gramsci affronta perciò la relazione che lega la situazione politica del dopoguerra alle fasi del conflitto mondiale.
L’esperienza di una grande sconfitta
Gramsci aveva affermato che la congiuntura politica fosse potenzialmente rivoluzionaria, soprattutto, ma non solo, in Italia, già nei primi anni venti sulle pagine dell’“Ordine Nuovo”, indicando come futura prospettiva la risoluzione di un’alternativa radicale tra le possibilità oggettivamente favorevoli al movimento operaio e l’incombente, temuta, svolta autoritaria3.
A fronte di un certo imbarazzo per l’inadeguatezza delle tradizionali categorie interpretative marxiste, gli interventi gramsciani indicano nell’affermazione del fascismo una manifestazione del generale decadimento delle
1 Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica dell’Istituto Gramsci, a cura di Valentino Gerratana, Torino, Einaudi, 1975, p. 323 (d’ora in avanti questa edizione è indicata con la sigla Q.).2 Leonardo Paggi, A. Gramsci e il moderno principe, Roma, Editori Riuniti, 1970, pp. 373.3 Cfr. Antonio Gramsci, Per un rinnovamento del Partito Socialista, “L’Ordine Nuovo”, 8 maggio 1920, raccolto in Idem, L ’Ordine Nuovo 1919-1920, p. 117, Torino, Einaudi, 1954.
Italia Contemporanea”, marzo 1985, fase.
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istituzioni parlamentari, la cui paralisi e vuoto d’autorità è intesa quale “espressione di questo corrompersi dei poteri statali”4: espressione e non fattore della “morte dello Stato liberale”, il fascismo trova posto solo all’interno della descrizione della crisi di egemonia della borghesia italiana e della sua classe dirigente, incapace di governare la trasformazione politica intervenuta nel dopoguerra. In questo senso la crescita, almeno numerica, delle organizzazioni del movimento operaio, da una parte, il virulento attacco reazionario e antiparlamentare di Mussolini, dall’altra, spiazzano definitivamente 1’“ingenuo” neutralismo giolittiano, saltandone le mediazioni istituzionali. E, del resto, l’uso della coercizione e della violenza, infiltratosi esso stesso nelle maglie dello Stato liberale, l’involuzione autoritaria degli stessi ordinamenti statali, sanciscono la “crisi della borghesia come progressiva riduzione della funzione di governo al solo momento della forza”5.
La particolare condizione del carcere costringe Gramsci a una ricerca “disinteressata”, slegata cioè dalle polemiche contingenti del dibattito politico contemporaneo, rigorosamente condotta, al di là degli esiti frammentari che solo talvolta si organizzano attorno a temi specifici, nell’intento di rendere conto del livello di complessità raggiunto dalla società moderna negli anni venti-trenta. La stratificata composizione dei Quaderni risponde allora al “problema dell’identità di teoria e pratica [che] si pone specialmente in certi momenti storici così detti di transizione, cioè di più rapido movimento trasformativo”6. Questi sembrano essere il
senso e la portata complessivi dell’intervento gramsciano: comprendere una situazione specifica e nuova con strumenti interpretativi nuovi e originali. Ben oltre le parole d’ordine sommarie, le brusche semplificazioni della dinamica politica in formule che non descrivono più i reali rapporti di forza nella società, è necessario, prendendo atto della sconfitta del dopoguerra, analizzarne le cause, comprendere il terreno nel quale era maturata, interpretare le carenze e gli errori “costitutivi” del corredo teorico comunista. Lo stesso Gramsci, che pure aveva tentato di afferrare la specificità del dopoguerra, le differenze dal modello bolscevico, come da quello secondointernazio- nalista, vedeva retrospettivamente la propria milizia politica contrassegnata, come è stato osservato, “dalla divaricazione tra l’analisi della situazione italiana, frutto di una elaborazione del tutto personale, e l’assenza di corrispettivi strumenti politici sia sul piano interno che su quello internazionale”7. Diventa perciò necessario specificare la caratteristica fondamentale della congiuntura politica europea: la morte dello Stato liberale.
“Nel periodo del dopoguerra, l’apparato egemonico si screpola e l’esercizio dell’egemonia diviene permanentemente difficile e aleatorio”: l’egemonia della classe dirigente non sembra in grado di padroneggiare la complessa e “aleatoria” vicenda della società contemporanea, che registra uno scarto radicale rispetto alla modellistica liberale, determinando l’irreversibilità della crisi dell’intero apparato statale, che si concretizza “praticamente nella sempre crescente difficoltà di formare i governi e nella sempre crescente in-
4 Antonio Gramsci, La forza dello Stato, in "Avanti”, 11 dicembre 1920, ora in Idem, Scritti 1915-1921, nuovi contributi a cura di Sergio Caprioglio, Milano, “I Quaderni del corpo”, 1968, p. 151.5 Così L. Paggi, Gramsci e il moderno principe, cit., p. 375. Cfr. gli articoli di Gramsci (La disfatta borghese, 19 novembre 1919, e Chiaroscuri, 8 settembre 1920) raccolti in Scritti 1915-1921, cit., pp. 118-19 e 134-36.6 Q-, PP- 1780, Cfr. pp. 1131, oltre al noto passo a p. 1233.1 L. Paggi, Gramsci e il moderno principe, cit., pp. 428.
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stabilità dei governi stessi”8. L’instabilità strutturale così prodottasi lascia il campo “aperto alle soluzioni di forza, all’attività di potenze oscure rappresentate dagli uomini provvidenziali o carismatici”, ed è strettamente legata alla “crisi di egemonia della classe dirigente che avviene o perché la classe dirigente ha fallito in qualche sua impresa politica per cui ha domandato o imposto con la forza il consenso delle grandi masse (come la guerra) o perché vaste masse (specialmente di contadini e di piccoli borghesi intellettuali) sono passate di colpo dalla passività politica a una certa attività e pongono rivendicazioni che nel loro complesso disorganico costituiscono una rivoluzione. Si parla di ‘crisi d’autorità’ e ciò appunto è la crisi di egemonia, o crisi dello Stato nel suo complesso”9. Il brano è veramente importante e in qualche modo riassuntivo della linea di ragionamento sviluppata da Gramsci: descrive innanzi tutto il fallimento della politica borghese in relazione al complesso problema della produzione e della gestione del “consenso delle grandi masse” nella congiuntura bellica. Introduce cioè la relazione forza-consenso che rappresenta, non a caso, un aspetto ricorrente delle analisi gramsciane: è il problema “della ‘filosofia dell’epoca’, del motivo centrale della vita degli stati nel periodo del dopoguerra. Come ricostruire l’apparato egemonico del gruppo dominante, apparato disgregatosi per le conseguenze della guerra in tutti gli stati del mondo?” (Q., p. 912). Inoltre la disorganicità delle rivendicazioni di “vaste masse” viene a costituire un importante fattore destabilizzante, incrinando il precario equilibrio dello Stato liberale: diventa impossibile governare senza l’uso del
la coercizione una situazione modificatasi in termini così radicali.
La guerra 1915-18, “modificando la struttura generale del processo precedente”, segna una vera e propria “frattura storica”: indicando nel fenomeno sindacale il riflesso del fatto che “una nuova forza sociale si è costituita, ha un peso non più trascurabile” , il testo gramsciano lega aspetti complementari e “processi di sviluppo di diversa importanza” (Q., p. 1824). Democrazia, parlamentarismo, liberalismo, organizzazione industriale disegnano, nelle reciproche relazioni problematiche, la dinamica complessa di un mutamento decisivo intervenuto nella struttura dello Stato a partire dall’immissione nella lotta politica di grandi masse. Ma all’irruzione di queste nella vita dello Stato, alla crescita delle organizzazioni politiche e sindacali delle classi subalterne, corrisponde un “movimento caotico e disordinato, senza direzione, cioè senza precisa volontà politica collettiva” (Q., p. 912): una crescita che già prelude alla sconfitta.
In un quadro di riferimento teorico e politico mutato dalla guerra e dalle sue ripercussioni sociali, il rapporto “moderno” tra masse e Stato si configura tutto nella crisi del liberalismo come del movimento operaio, cieco di fronte agli avvenimenti, incapace di individuare obiettivi concreti per la propria azione. L’uso della coercizione nella produzione di consenso nelle masse, che registra l’inquietudine di una classe dirigente impotente nel dare legittimità al proprio esercizio del potere, da una parte, l’incapacità di raccogliere in una direzione politica unitaria le rivendicazioni disorganiche, e perciò disperse, delle classi subalterne, dal-
8 Tutte le citazioni in Q., pp. 1638-39, che riprende la nota di p. 59.9 Q., pp. 1603. Vedi anche le pp. 1605-7 su cui attira l’attenzione Luisa Mangoni, Lo Stato unitario liberale, in Letteratura italiana, Torino, Einaudi, 1982, vol. I, pp. 518-19, ricordando opportunamente un articolo di Adriano Tilgher, Piccoli borghesi al bivio, in “Tempo”, 7 dicembre 1919, tra le possibili fonti delle affermazioni gramsciane.
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l’altra, caratterizzano la precaria configurazione politica italiana.
L’analisi di Gramsci non può non riconoscere gli errori strategici del movimento operaio nella temperie del dopoguerra: “le forze antagoniste sono risultate incapaci a organizzare a loro profitto questo disordine di fatto. Il problema era di ricostruire l’apparato egemonico di questi elementi prima passivi e apolitici, e questo non poteva avvenire senza la forza: ma questa forza non poteva essere quella ‘legale’” (Q., pp. 912-13). Insomma, al disgregarsi dell’egemonia liberale non corrisponde l’ascesa politica delle classi subalterne, disaggregate e prive di unità e perciò di consistenza. Ma la nota citata introduce un altro aspetto importante del problema: la forza, come elemento necessario per organizzare un apparato egemonico, diventa strumento di lotta politica, travalica le soglie della legalità liberale, non trova neutralizzazione nelle mediazioni istituzionali, nel Parlamento.
L’indeterminatezza negli obiettivi, l’inerzia politica e la mancanza di unità nella direzione contribuiscono certo a spostare i rapporti di forza a sfavore delle classi subalterne. Ma la sconfitta sarebbe, probabilmente, inspiegabile senza tener conto dell’aspetto decisivo, cioè dell’incomprensione nei confronti dei mutamenti specifici intervenuti nel dopoguerra: l’entrata nella lotta politica di grandi masse e i relativi problemi di gestione del consenso, l’impotenza, o l’oggettiva complicità, dei liberali, nell’af- fermarsi del movimento fascista, che sfrutta una sapiente “combinazione delle forze legali e illegali” .
La prima guerra mondiale, guerra di massa, di posizione, di logoramento, assume quindi un ruolo privilegiato nelle annotazioni di Gramsci: si imponeva il problema di cercare in essa la radice dei cambiamenti
che avevano modificato in termini così vistosi la situazione politica italiana.
Direzione politica e direzione militare
Costante è la prudenza di Gramsci nello stabilire paragoni tra “lotta politica e guerra militare”, superando la tentazione di mettere in evidenza nessi stringenti e puntuali, ma proprio per questo forzati e arbitrari, tra politica e guerra.
In una delle prime note dedicate al rapporto tra “arte militare e arte politica”10 viene valutato il pericolo insito in una trasposizione troppo ingenua e semplicistica di termini propri del linguaggio militare nell’analisi politica. La riduzione che ne deriva porta infatti “i dirigenti politici ad erronee impostazioni dei piani di lotta” : occorre invece scorgere eventuali relazioni significative “mantenendo implicito il criterio generale che i paragoni tra l’arte militare e la politica sono sempre da stabilire cum grano salis, cioè solo come stimoli al pensiero e come termini semplificativi ad absurdum” (Q., p. 120). Grave errore è insomma non tenere nel dovuto conto che “la lotta politica è enormemente più complessa”, conosce articolazioni problematiche difficilmente riconducibili alle questioni belliche, anche se Gramsci riconosce, nella nota successiva, che “ogni lotta politica ha sempre un sostrato militare” (Q., p. 123). In questo modo è già impostato, in prima approssimazione, il problema della qualità dell’incidenza della guerra nell’attività politica: da un lato la guerra può fornire categorie interpretative utili nell’“impostazione dei piani di lotta”, in quanto procurano all’analisi stimoli e “termini semplificativi”; dall’altra ogni lotta politica, al di là della possibile mediazione istituzionale, nel suo residuo intrinsecamente
10 Q., pp. 122. Le note citate appartengono al Primo Quaderno (1929-1930).
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conflittuale “ha sempre un sostrato militare” . Va inoltre osservato che il necessario presupposto del discorso gramsciano sulla guerra mondiale è da ricercare nella disamina delle fasi più significative del Risorgimento italiano: in essa trovano la loro prima esplicitazione importanti categorie analitiche, la cui valenza interpretativa si ripercuote nell’esame della guerra mondiale e dei nuovi processi sociali e politici, sviluppatisi con essa11.
Il mutamento più importante dal punto di vista “militare in senso stretto, tecnico”, intervenuto con il conflitto, consiste nel passaggio dalla guerra di manovra alla guerra di logoramento di vaste proporzioni e prolungata nel tempo. La svolta che in questo senso si determina ha conseguenze vistose che Gramsci non manca di sottolineare: la guerra di trincea, infatti, presupponendo un esercito nazionale di leva e non un esercito di professionisti mercenari12, presenta nuovi problemi perché “riguarda la mobilitazione di forze popolari” (Q., p. 102). Perciò la direzione militare deve assumere dimensioni più vaste e ad essa tradizionalmente sconosciute: la strategia, insomma, deve articolarsi, tenere conto del fatto che “quanto più un esercito è numeroso, cioè quanto più profonde masse della popolazione vi sono incorporate,
tanto più cresce l’importanza della direzione politica su quella meramente tecnico-militare” (Q., p. 110). La gestione delle operazioni militari in una guerra di massa deve sempre e comunque fare riferimento alla conduzione politica del paese, assecondandone le indicazioni e mantenendo la propria condizione subordinata; lo stesso “piano strategico deve essere l’espressione militare di una determinata politica” .
È evidente la parentela tra le osservazioni gramsciane e le analoghe, celebri, affermazioni contenute in più luoghi dell’opera maggiore di Karl von Clausewitz13, che Gramsci non lesse, ma ebbe modo di conoscere attraverso la mediazione crociana e i numerosi articoli e le recensioni che testimoniano, nei primi anni trenta, la ripresa di interesse per il grande teorico prussiano14.
La “risposta politica” della classe dirigente italiana
Durante e dopo il Risorgimento vasti settori di popolazione rimangono estranei alle vicende dello Stato nazionale italiano: il giudizio severo di Gramsci a questo proposito mostra nell’esclusione delle masse dal moto risorgimentale un potenziale fattore destabiliz-
11 Per esempio i concetti di rivoluzione passiva, derivato dal Cuoco, e di egemonia, ripreso da Gioberti e dal dibattito interno alla Terza Internazionale.12 Cfr. Q., p. 110. Sul dibattito relativo al problema dell’esercito italiano unitario cfr. Giorgio Rochat - Giorgio Massobrio, Breve storia dell’esercito italiano dal 1861 al 1943, Torino, Einaudi, 1978, e il saggio di Piero Del Negro, Esercito, stato e società nell’Ottocento e nel primo Novecento: il caso italiano, ora in Idem, Esercito, stato, società. Saggi dì storia militare, Bologna, Cappelli, 1979, pp. 49-70.13 Cfr. Karl von Clausewitz, Della guerra, traduzione italiana, a cura dello Stato Maggiore dell’Esercito, Roma, Ufficio Storico, 1942, e i passi di Gramsci in Q., p. 974, p. 1942, p. 1947 e p. 2052.14 Cfr. Benedetto Croce, Azione, successo, giudizio. Note in margine al “Vom Kriege” de! Clausewitz (1933), in Idem, Ultimi saggi, Bari, Laterza, 1935, pp. 266-79, e, in particolare, la recensione di Ernesto Brunetta, Clausewitz, in “L’Italia letteraria”, 4 febbraio 1934, al libro di Emilio Canevari, Clausewitz e la guerra odierna, Roma, Campiteli!, 1930. A introdurre il pensiero di Clausewitz in Italia era stata l’opera di Nicola Marselli, La guerra e la sua storia, Milano, Treves, 1875-77, come sottolinea Piero Pieri, Guerra e politica negli scrittori italiani, Milano, Monda- dori, 19752, pp. 209-25. Sulla presenza di Clausewitz nel dibattito interno al movimento operaio cfr. Clemente Ancona, L ’influenza del “Vom Kriege” di Clausewitz sul pensiero marxista da Marx a Lenin, in “Rivista storica del socialismo”, 1965, n. 25-26, pp. 129-54.
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zante e un significativo indice della miopia politica della borghesia italiana dell’Ottocento. Si spiega in prospettiva lo sconvolgimento prodottosi, dopo la guerra mondiale, con l’irruzione di “vaste masse” nella vita politica attiva: l’autoritarismo conservatore e antiparlamentare di Giolitti maschera, infatti, la fondamentale disomogeneità della classe dirigente italiana, incapace di articolare in termini diversi il proprio rapporto-scontro con le moderne organizzazioni politiche di massa in via di costituzione15.
Le concitate vicende del maggio 1915, l’offensiva concentrica contro il regime parlamentare, la pratica di manifestazioni di piazza per piegare la maggioranza neutralista con la violenza e l’intimidazione, la finale acquiescenza dei liberali giolittiani, se contribuiscono a far vedere nelle “radiose giornate” una pericolosa ripresa autoritaria e antidemocratica della politica della classe dirigente italiana16, sembrano anche preludere, almeno nelle modalità, a una sorta di prova generale che darà, di lì a pochi anni, frutti cospicui17.
Nell’agitato clima politico dell’autunno 1914, del resto, lo stesso Gramsci, nel primo importante articolo sul “Grido del popolo” , aveva manifestato la propria motivata propensione a un’eventuale entrata in guerra dell’Italia, maturata, al di là dell’atteggiamento antigiolittiano diffuso nel composito fronte interventista, nell’intento di evitare la subordinazione e l’immobilismo a cui costringeva l’intransigente pacifismo socialista. In altri termini, intendere l’intervento nel conflitto mondiale come una possibilità con
creta, rifiutando il “mito negativo della guerra”, significava per Gramsci tentare di comprendere “quei destini che per la funzione storica della borghesia culminano nella guerra” , spingendo “la classe detentrice del potere [...] a portare fino all’assoluto le premesse da cui trae la sua ragione di esistere”18.
In questa direzione va letto, a mio giudizio, un importante spunto contenuto in una nota del Quaderno 15 (1933). Nel tentativo di datare l’inizio della serie di “avvenimenti che assumono il nome di crisi”, Gramsci osserva come “per alcuni (e forse non a torto) la guerra stessa è una manifestazione della crisi, anzi la prima manifestazione; appunto fu la risposta politica e organizzativa dei responsabili” (Q. , pp. 1755-56). Al di là della formula dubitativa e impersonale, l’osservazione è decisiva: la guerra mondiale, rappresentando la “risposta politica e organizzativa” delle classi dirigenti, è la prima “manifestazione della crisi” del regime liberale. L’entità drammatica della risposta politica è indice dell’entità della crisi: in questo senso, infatti, la guerra di Libia, la legge istitutiva del suffragio universale maschile, il patto Gentiioni e le elezioni del 1913, che sanciscono il definitivo ingresso della masse nell’agone politico, scandiscono il progressivo venir meno della capacità aggregante dell’affaticato compromesso giolittiano. Più in generale i nuovi rapporti di forza mutano il confronto tra Stato liberale e partiti di massa, insinuando vistose crepe nella struttura politica italiana. Come nota Gramsci, “l’allargamento del suffragio nel 1913 aveva già suscitato i primi accenni di quel fenomeno che avrà la massi-
15 Cfr. Q., p. 117. Per un giudizio in questa direzione su Giolitti cfr. le pp. 997-98. Per la critica teorica dello Stato liberale, “veilleur de nuit”, cfr. pp. 763-64, p. 801, pp. 603-4, pp. 455 sgg., pp. 1989 e sgg.16 Cfr. al proposito Giuliano Procacci, Appunti in tema di crisi dello Stato liberale e dì origini del fascismo, in « Studi storici », -1965, n. 2, pp. 221-37.17 Cfr. Nicola Tranfaglia, Dalla neutralità italiana alle origini del fascismo: tendenze attuali della storiografia, ora in Idem, Dallo stato liberale al regime fascista, Milano, Feltrinelli, 1973, pp. 53 e sgg.18 A. Gramsci, Neutralità attiva e operante, 31 ottobre 1914, ora in Cronache torinesi 1913-1917, a cura di-Sergio Caprioglio, Torino, Einaudi, 1980, p. 10 e sgg.
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ma espressione nel 19-20-21 in conseguenza dell’esperienza politico-organizzativa acquistata dalle masse contadine in guerra” (Q., pp. 2040-41). In questo senso gli avvenimenti del giugno 1914, la “settimana rossa”, venivano a rappresentare il culmine delle capacità di mobilitazione del movimento operaio, ma insieme la dimostrazione del distacco tra base e dirigenti del partito, come affermava Papi- ni in un articolo che Gramsci, ancora nel 1930, giudicava “interessantissimo”19.
L’indicazione gramsciana a proposito della guerra mondiale va allora estesa alla campagna per l’intervento, che viene essa stessa a costituire la risposta politica della classe dirigente alla crescita delle organizzazioni politiche del movimento operaio. Nel clima di “tambureggiante e sistematica opera di persuasione e di organizzazione”20 della primavera del 1915, infatti, la guerra diventa il farmaco in grado di saldare la frattura sempre più evidente nella società italiana tra classe dirigente e formazioni subalterne. L’esercito rappresenta il modello di un organismo capace di assorbire e pacificare i conflitti sociali nella inflessibile uniformità del codice militare. La vera e propria continuità che, forzosamente, si instaura tra società civile e organismo militare nelle affermazioni di tanti intellettuali, impegnati nella campagna per l’intervento, indica concretamente i modi
della ricomposizione, della pace sociale attraverso la rigida organizzazione della gerarchia militare21. In questo senso particolare il Regolamento di disciplina militare, mostrando a ognuno il proprio posto secondo ricostituiti schemi di classe, rappresenta il modello a cui guardare: la ridistribuzione dei ruoli colà sancita rimette, infatti, contadini e operai al proprio posto subalterno, esaltando la piccola borghesia che fornisce, in questo modo riscattandosi, i quadri ufficiali dell’esercito22.
La rigida regola che presiede alla netta distinzione tra chi deve comandare e chi deve ubbidire caratterizza la prima guerra mondiale almeno fino all’autunno del 1917: come nota Gramsci, “non la passione manteneva le masse militari in trincea, ma o il terrore dei tribunali militari o un senso del dovere freddamente ragionato e riflessivo” (Q., p. 1309). Considerando “la sostanziale passività popolare e in particolare la mancanza di una motivazione precisa e cosciente nella grande maggioranza dei soldati”, osserva Giorgio Rochat, “la scelta della repressione come strumento per l’ottenimento del consenso era senza alternativa”: anzi, è necessario non sottovalutare 1’“efficienza della borghesia italiana [...] nel mantenimento dell’ordine in un paese sottoposto a una brutale compressione dei consumi e del-
19 Q., p. 401: si tratta dell’articolo di Giovanni Papini, I fa tti di giugno, in “Lacerba”, 15 giugno 1914, pp. 177-84, in cui si osserva la mancanza di un “piano politico”, di un “progetto preciso » nelle file dei “sovversivi”: critiche largamente condivise dallo stesso Gramsci.20 Alberto Asor Rosa, La cultura, in Storia d ’Italia. Dall’Unità ad oggi, Torino, Einaudi, 1975, vol. IV, t. 2, p. 1315.21 Cfr. Mario Isnenghi, Il mito delia grande guerra da Marinetti e Malaparte, Bari, Laterza, 1970, p. 71 e sgg. Sul codice militare italiano cfr. Alberto Monticone, Il regime penale nell’esercito italiano durante la prima guerra mondiale, in Enzo Forcella, Alberto Monticone, Plotone d ’esecuzione. I processi della prima guerra mondiale, Bari, Laterza, 1968, pp. 411-533; sulla struttura dell’esercito si veda Piero Del Negro, La leva militare in Italia dall’unità alla grande guerra, in Idem, Esercito, stato, cit., p. 237 e sgg.22 Sull’esercito come « modello di coesione culturale e di organizzazione gerarchica dei rapporti tra classi », cfr. Silvio Lanaro, Il Plutarco italiano: l ’istruzione del « popolo » dopo l ’Unità, in “Storia d’Italia. Annali”, 4, Torino, Einaudi, 19812, p. 566. La letteratura sull’esercito mostrava, del resto, con chiarezza, anche se con intenti diversi, le forme concrete del nesso società civile/istituzione militare: cfr. P. Del Negro, De Amicis versus Tarchetti. Letteratura e militari al tramonto del Risorgimento, ora in Idem, Esercito, Stato, cit., pp. 125-66.
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le libertà e nello sviluppo di un esercito di dimensioni superiori a qualsiasi previsione”23.
L’ordine gerarchico e la dura disciplina repressiva dell’esercito sono, insomma, aspetti vistosi della risposta dei responsabili al “turbamento radicale” dell’equilibrio gio- littiano, nella necessità di evitare a ogni costo “una catastrofe sociale” (Q. , p. 1141). L’“origine della guerra” va, pertanto, cercata nel tentativo, da parte della classe dirigente italiana, di ricomporre il perturbato equilibrio dei rapporti di forza aH’interno della società. Il logorante conflitto mondiale impone, infatti, il rafforzamento dell’egemonia politica nelle condizioni eccezionali dello stato di guerra: “la guerra di posizione domanda enormi sacrifici a masse sterminate di popolazione; perciò è necessaria una concentrazione inaudita dell’egemonia e quindi una forma di governo più ‘intervenzionista’, che più apertamente prenda l’offensiva contro gli oppositori e organizzi permanente- mente l’impossibilità di disgregazione interna: controlli di ogni genere, politici, amministrativi, ecc., rafforzamento delle ‘posizioni’ egemoniche del gruppo dominante” (Q.,p. 802).
La guerra mondiale coinvolge nel prolungato sacrificio della trincea “masse sterminate di popolazione” e perciò rende necessaria la “concentrazione” dell’egemonia politica in modo da disattivare le potenziali spinte destabilizzatrici presenti in un conflitto di lunga durata, che l’obiettivo politico palese non giustifica. Non solo: lo stato di guerra, infatti, sospende la legalità liberale, reprime sul nascere ogni manifestazione di conflittualità politica, rafforzando le “posizioni egemoniche del gruppo dominante” e impedendo ogni possibilità di “disgregazione interna” . La guerra richiede allora una “forma di governo più ‘intervenzionista’” rispetto alla conclamata neutralità liberale, in grado
di gestire senza cedimenti la situazione eccezionale, effettuando “controlli di ogni genere” sulla popolazione, al fronte come nel paese, prendendo apertamente “l’offensiva contro gli oppositori” , soffocando ogni forma di dissenso.
La ristrutturazione autoritaria
In una lunga nota del Quaderno 13, che merita una citazione per esteso, Gramsci sintetizza efficacemente la serie di caratteristiche nuove che comportano le guerre “tra gli Stati più avanzati industrialmente e civilmente”: “la verità è che non si può scegliere la forma di guerra che si vuole, a meno di non avere subito una superiorità schiacciante sul nemico, ed è noto quante perdite abbia costato l’ostinazione degli Stati maggiori nel non voler riconoscere che la guerra di posizione era ‘imposta’ dai rapporti generali delle forze in contrasto. La guerra di posizione non è infatti solo costituita dalle trincee vere e proprie, ma da tutto il sistema organizzativo e industriale del territorio che è alle spalle dell’esercito schierato, ed è imposta specialmente dal tiro rapido dei cannoni delle mitragliatrici dei moschetti, dalla concentrazione delle armi in un determinato punto, oltre che dall’abbondanza del rifornimento che permette di sostituire rapidamente il materiale perduto dopo uno sfondamento e un arretramento. Un altro elemento è la grande massa di uomini che partecipano allo schieramento, di valore molto diseguale e che appunto possono operare solo come massa” (Q., pp. 1614-15). In questo passo Gramsci coglie lucidamente gli aspetti centrali della guerra mondiale: per l’equilibrio generale dei rapporti di forza tra gli Stati coinvolti, la guerra diventa un’immane “battaglia di materiale” , in cui la supremazia deriva dalla capacità di produrre,
23 Giorgio Rochat, L ’Italia nella prima guerra mondiale, Milano, Feltrinelli, 1976, pp. 100-101.
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trasportare al fronte e consumare nuovi armamenti. Decisivo è perciò “tutto il sistema organizzativo e industriale che è alle spalle dell’esercito schierato” nella sua facoltà di garantire “l’abbondanza del rifornimento”. Anche per questo gli eserciti acquistano dimensioni di massa tali da mobilitare, in pratica, l’intera nazione e da richiedere notevoli sforzi per inquadrare nei reparti la “grande massa d’uomini” : “solo come massa” , infatti vengono presi in considerazione i fanti della prima guerra mondiale, “con un’impressionante sottovalutazione delle loro esigenze morali e materiali”24.
Gli esiti complessivamente modesti, raggiunti sul fronte dell’Isonzo e del Carso con un elevato numero di perdite, non sono sufficienti a giustificare la tattica dell’offensiva a ogni costo perseguita dai comandi militari italiani, ove non si tenga conto del carattere imperialista che alcuni settori dell’economia italiana diedero al conflitto25; nella situazione economica italiana, caratterizzata dall’assenza di sbocchi coloniali e di zone di influenza, dall’esiguità del mercato interno, dalla mancanza di capitali e dall’incremento della disoccupazione, la guerra è il “fatto nuovo”, “necessario per sbloccare uno sviluppo che minaccia di arrestarsi”, ”è il risultato di una situazione di squilibrio, di trasformazione”26.
All’entrata in guerra, comunque, la discussione sulla strategia militare da seguire aveva visto lo scontro, che Gramsci registra,
tra la direzione politica del conservatore Sa- landra e il comando militare del filonazionalista Cadorna: “i conflitti tra militari e governanti non sono conflitti tra tecnici e politici, ma tra politici e politici, sono i conflitti tra ‘due direzioni politiche’ che entrano in concorrenza all’inizio di ogni guerra”27. Anche in riferimento a questa situazione Gramsci sottolinea l’importanza che assumono i contrasti all’interno degli Stati maggiori sui “piani strategici di una guerra futura” , consapevole che “le vecchie strutture militari rappresentavano una determinata politica conservativa-reazionaria di vecchio stile, difficile da vincere e da eliminare” (Q., p. 1916). Ma, al di là delle profonde lacerazioni, destinate a tornare alla luce nel dopoguerra, all’interno del blocco “prussiano” che con l’intervento andò sostituendo il blocco giolittiano, la direzione di Cadorna appare la più logica conseguenza dei fattori che avevano portato all’entrata in guerra, insomma 1’“espressione militare di una determinata politica generale” (Q. , p. 1 IO)28. Infatti, se le intenzioni aggressive del capitalismo imperialista italiano erano destinate ad essere frustrate a Versailles, non così fu per quella che è stata definita “la risposta conclusiva che il ceto liberale diede al problema tradizionale della sua scarsa egemonia”29: la guerra lunga e logorante, combattuta da masse inconsapevoli e passive, e sottoposte a rigida disciplina militare repressiva, sembra essere cioè del tutto funzionale al tentativo di bloccare
24 Ivi, p. 110. Sulle dimensioni dell’esercito e sulla strategia della leva militare durante il conflitto mondiale cfr. P. Del Negro, La leva militare, cit., pp. 236-47.25 Sul “maturare di robuste tendenze antiliberali e imperialiste all’interno del capitalismo italiano”, cfr. Valerio Castronovo, La storia economica, in Storia d ’Italia, cit., vol. IV, t. 1, pp. 201 e sgg.26 Ernesto Galli della Loggia, Problemi di sviluppo industriale e nuovi equilibri politici alla vigilia delta prima guerra mondiale: la fondazione della Banca Italiana di Sconto, in “Rivista storica italiana”, 1970, n. 4, p. 873. Sullo sviluppo dell’industria bellica durante il conflitto mondiale cfr. Luciano Segreto, Armi e munizioni. Lo sforzo bellico tra speculazione e progresso tecnico, in “Italia contemporanea”, giugno 1982, n. 146-147, pp. 35-66.27 Q., p. 278. Sui contrasti tra Stato maggiore e ministero della Guerra cfr. G. Rochat, G. Massobrio, Breve storia, cit., p. 155.'8 La fortunata espressione « blocco prussiano » è di G. Procacci, Appunti in tema, cit., p. 229.29 Giampiero Carocci, Storia d ’Italia dall’Unità ad oggi, Milano, Feltrinelli, 19773, p. 214.
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d’autorità la spinta, divenuta incontrollabile, delle organizzazioni politiche di massa. Se consideriamo la concreta vicinanza tra il regime di guerra al fronte e quello imposto in fabbrica, possiamo giungere alla conclusione che il conflitto servì, in effetti, a disciplinare il movimento operaio limitandone le capacità rivendicative e aggreganti30. Il sentimento antioperaio, attivato al fronte da una campagna propagandistica mistificante, fu usato strumentalmente per approfondire le divisioni tra le masse popolari, indebolendone le organizzazioni politiche e sindacali, accanto alla repressione poliziesca, allo sfruttamento intenso nelle fabbriche e alla riduzione delle possibilità d’azione politica nel partito come nelle amministrazioni locali. A questo proposito Gramsci dimostra come la montatura patriottica, lasciando “formarsi l’opinione che gli esonerati fossero dei veri ‘imboscati’, non elementi indispensabili per l’attività bellica anche se non combattenti”, facesse della necessità di “rimanere in officina” un “elemento di agitazione demagogica” (Q., pp. 617-18). I riferimenti alla riduzione della funzione dei tecnici a compiti di “pura sorveglianza disciplinare”, alla denigratoria e sostanzialmente falsa campagna contro gli operai “imboscati”, alla repressione dei “reparti d’assalto” , al silenzio su di essa imposto dalla censura, stanno a indicare che Gramsci aveva compreso come la “direzione politico-militare della guerra 1914-1918” avesse, tra i propri obiettivi principali, quello di battere il nemico interno, di fermarne a ogni costo l’avanzata con tutti gli strumenti che lo stato
di guerra metteva a disposizione. In questa direzione agisce anche la “pressione coercitiva” , esercitata dalla vita di trincea “per la necessità di guerra”: la “grande ipocrisia sociale totalitaria” , imposta d’autorità, copre “una pressione su tutta l’area sociale” . “Una ideologia puritana che dà l’esterna forma di persuasione e di consenso all’in- trinseca coercizione brutale” sembra inserirsi nel disegno strategico, messo in pratica con la guerra, di comprimere ed estenuare le forze delle masse inquadrate nell’esercito italiano. Il nesso tra “animalità e industrialismo” nel dopoguerra si configura, infatti, come crisi “resa più forte dal contrasto tra questo contraccolpo della guerra e la necessità del nuovo metodo di lavoro che si va imponendo (taylorismo, razionalizzazione)” (Q., pp. 138-39). Gramsci può allora vedere nell’“enorme diffusione nel dopoguerra” della psicoanalisi 1’“espressione dell’aumen- tata coercizione morale esercitata dall’apparato statale e sociale sui singoli individui e delle crisi morbose che tale coercizione determina” (Q. , p. 2140).
La svolta di Caporetto
Caporetto è “il nodo cruciale della guerra italiana, in cui vengono evidenziate tutte le contraddizioni e precipitano decisioni di lungo periodo”31: lo sfondamento del fronte italiano, il ripiegamento disordinato, la necessità di riorganizzare i soldati sbandati in reparti combattenti, mutano profondamente la conduzione delle operazioni militari. Al ri-
30 Sull’estensione progressiva della zona di guerra a quasi tutta l’Italia settentrionale cfr. A. Monticone, Il regime penale, cit., p. 457 nota 2. Cfr. Giovanna Procacci, Repressione e dissenso nella prima guerra mondiale, in “Studi storici”, 1981, pp. 119-50, e, sulla situazione e composizione della classe operaia durante la guerra, Alessandro Ca- marda, Santo Peli, L ’altro esercito, Milano, Feltrinelli, 1980.31 G. Rochat, L'Italia nella prima guerra, cit., p. 110. Si vedano i tre articoli di Gramsci su Caporetto, interamente censurati, ora pubblicati in Antonio Gramsci, La città futura 1917-1918, a cura di S. Caprioglio, Torino, Einaudi, 1982, pp. 418-23.
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corso massiccio ad esecuzioni sul posto, unico rimedio immediato concepito dai comandi militari per far fronte alla disfatta, subentrò l’imponente campagna propagandistica organizzatasi intorno all’attività degli “Uffici P .”, istituiti nel 1918 dal nuovo Stato maggiore dell’esercito. Le maggiori attenzioni rivolte al morale dei soldati, che comunque continuarono a subire la dura disciplina militare, si concretizzarono nella diffusione di giornali di trincea, prima di Caporetto quasi inesistenti, in cui trovava libera e mai contraddetta espressione la campagna paternalistica e demagogica, intrisa di populismo e di richiami a luoghi comuni talvolta triviali, degli intellettuali mobilitati in massa per l’occasione, “nel quadro dello sforzo nazionale per la resistenza e la ripresa”32. La solidarietà sociale e nazionale, enfatizzata dalla stampa propagandistica, servì in qualche modo, più che a convincere i soldati della necessità della resistenza, soprattutto ad affermare tra intellettuali, ufficiali e ceti medi la coscienza della “ricomposizione unitaria della borghesia al di là delle precedenti divisioni di partito e di ceto”33, e a reintegrare nell’immagine della nazione in guerra le forze cattoliche. La copertura ideologica che gli intellettuali garantirono al nuovo immane sforzo richiesto alla massa dei soldati, stanchi, demoralizzati e senza alcuna precisa motivazione a combattere, diede “l’esterna forma di persuasione e di consenso all’intrinseca coercizione brutale” . L’efficace formula di Gramsci può spiegare il significato della propaganda al fronte dopo Caporetto, se teniamo conto che precede di poche righe le osservazioni sulla pressione psicologica subita dai soldati in trincea.
L’analisi dell’“atteggiamento del Croce durante la guerra mondiale” , indispensabile per comprendere “la sua attività posteriore di filosofo e di leader della cultura europea” (Q., p. 1207)34, chiarisce il problema:10 scarto, che Gramsci individua, tra la posizione di Croce e quella degli altri intellettuali ci permette di trarre importanti indicazioni sul coinvolgimento di questi nella campagna per l’intervento prima, nella propaganda di trincea poi. Osserva infatti Gramsci: “il Croce reagisce contro l’impostazione popolare (con la conseguente propaganda) della guerra come guerra di civiltà e quindi a carattere religioso”, perché ciò comporta una sorta di prostituzione ideologica, mentre gli intellettuali non devono abbassarsi al “livello delle masse” , ma “essere governanti e non governati, costruttori di ideologie per governare gli altri e non ciarlatani” (Q., p. 1212)35. Inoltre Croce non critica “l’impostazione ‘religiosa’ della guerra in quanto ciò è necessario politica- mente perché le grandi masse popolari mobilitate siano disposte a sacrificarsi in trincea e a morire: è questo un problema di tecnica politica che spetta di risolvere ai tecnici della politica”. La preoccupazione, che “nasce con la guerra mondiale” (Q., p. 1356), dimostrata da Croce nel definire limiti e differenze di esplicazione tra ideologia e filosofia, sta a indicare come, durante11 conflitto, concreta e praticabile fosse la possibilità che la filosofia si tramutasse in ideologia, cioè in “strumento pratico per governare” (Q., p. 1212). In questo senso molto efficace ed incisiva appare l’osservazione gramsciana che “durante la guerra
32 Mario Isnenghi, Giornali di trincea 1915-1918, Torino, Einaudi, 1977, p. 6.33 Ivi, p. 55 (cfr. anche p. 242). Perdeva consistenza con la guerra di difesa il disegno imperialista del “blocco prussiano”.34 Sulla posizione crociana durante il conflitto cfr., Benedetto Croce, Pagine sulla guerra, Bari, Laterza, 1928L35 A motivare il neutralismo crociano è soprattutto “la pretesa degli interventisti ad una iniziativa politica in qualche modo dal basso” (M. Isnenghi, Il mito della grande guerra, cit., p. 106). Cfr. Q., pp. 779-80.
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ideologia e filosofia entrarono in frenetico connubio” (Q. , p. 1356).
La riorganizzazione del consenso, indispensabile per ottenere dai fanti “il massimo rendimento militare”, passa quindi attraverso la mobilitazione indiscriminata di intellettuali e ufficiali, “imbonitori del popolo in trincea” , con la funzione di fornire il cemento ideologico attorno al quale ricomporre l’unità nazionale, turbata dagli scioperi dell’estate del 1917, dalla caduta del governo Boselli e dalla sconfitta di Caporetto36. La consapevolezza del ruolo centrale delle ideologie nella produzione del consenso e nel mantenimento dell’egemonia politica, attraverso il controllo dell’opinione pubblica, permette a Gramsci un atteggiamento del tutto disincantato nei confronti della propaganda di guerra: le ideologie politiche sono “costruzioni pratiche [...] di direzione politica” da “svelare nella loro natura di strumenti di dominio” (Q., p. 1319)37.
Le note sugli intellettuali “ ‘commessi’ del gruppo dominante per l’esercizio delle funzioni subalterne deH’egemonia sociale e del governo politico” vanno viste anche in riferimento, più o meno diretto, ai problemi di gestione della guerra sorti dopo Caporetto: infatti gli intellettuali “funzionari” agiscono organizzando il “consenso ‘spontaneo’”, quando questo deriva dal “prestigio” della classe dirigente, ma anche, e qui il riferimento alla guerra mondiale si fa più palpabile, l’“apparato di coercizione statale che assicura ‘legalmente’ la disciplina di quei gruppi che non ‘consentono’ né attivamente né passivamente” , soprattutto nei “momenti di crisi nel comando e nella di
rezione in cui il consenso spontaneo vien meno”.
L’estensione del concetto di intellettuale, risultato dell’impostazione del problema, porta Gramsci a un paragone con l’esercito: “l’organismo militare, anche in questo caso, offre un modello di queste complesse graduazioni [tra intellettuali]: ufficiali subalterni, ufficiali superiori, Stato maggiore; e non bisogna dimenticare i graduati di truppa, la cui importanza reale è superiore a quanto di solito si pensi. È interessante notare che tutte queste parti si sentono solidali e anzi che gli strati inferiori manifestano un più appariscente spirito di corpo” (Q., pp. 1519-20).
La propaganda di guerra si inserisce, in definitiva, nel consapevole disegno di ricomposizione autoritaria della società italiana, facendo leva sui ceti medi intellettuali per riaffermare la solidarietà sociale all’insegna del mantenimento della sudditanza di classe.
Per quanto riguarda le accuse di “sciopero militare” e di “criminale” disfattismo rivolte contro le masse combattenti all’indomani della rotta di Caporetto, Gramsci interviene con due note del Quaderno 6 in cui viene fatto il punto sulla polemica ancora in corso nei primi anni trenta38. All’“insufficienza storica e morale” di una interpretazione della sconfitta che vede come unica responsabile “la massa militare esecutiva e strumentale” , è subentrato, denuncia Gramsci nella prima nota, il “nuovo luogo comune” dell’“infortunio militare” che limita la portata politica della vicenda al solo aspetto “tecnico” , sia esso imputabile all’incapacità dello Stato maggiore di Cadorna o all’inadeguato “ap-
36 Cfr., sulle difficoltà del governo Boselli e sugli “avvenimenti del 1917” a Torino, Q., pp. 108-9, pj\. 987-89, p. 1814.37 Sul realismo di Gramsci a questo proposito vedi Q., p. 59: “ognuno può essere il giudice migliore della scelta delle armi ideologiche che sono più appropriate ai fini che vuole raggiungere e la demagogia può essere ritenuta arma eccellente”.38 Gramsci stende le note avendo presente le recensioni ai libri di Gioacchino Volpe, Ottobre 1917. Dall’Isonzo a! Piave, Roma, Libreria d’Italia, 1930, e di Antonio Baldini, Diaz, Firenze, Bàrbera, 1929.
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porto bellico degli ufficiali di complemento, cioè della piccola borghesia intellettuale” . Per Gramsci, invece, “la responsabilità storica deve essere cercata nei rapporti generali di classe in cui soldati, ufficiali di complemento e Stati maggiori occupano una posizione determinata, quindi nella struttura nazionale, di cui sola responsabile è la classe dirigente appunto perché dirigente” (Q., pp. 736- 37)39. Nella seconda nota, più articolata e analitica, Gramsci dichiara in apertura che “in questa polemica sul significato di Capo- retto bisognerebbe fissare alcuni punti chiari e precisi” . Dopo aver ricordato che “ogni fatto militare è anche un fatto politico e sociale”, Gramsci solleva da ogni responsabilità politica le masse militari, il popolo e i “partiti che ne erano l’espressione politica”, accusando invece la classe dirigente italiana dell’“incapacità a prevedere che determinati fatti avrebbero portato allo sciopero militare e quindi a provvedere a tempo, con misure adeguate (sacrifici di classe) a impedire una tale possibile emergenza” (Q. , pp. 740-42)40. Lo stesso Cadorna non può essere considerato il responsabile perché, “in ultima analisi, ha espresso la mentalità e la comprensione politica” del governo e della classe dirigente in generale, il cui errore di fondo deriva dalla convinzione che “la massa militare debba fare la guerra e sopportarne tutti i sacrifici [...], senza tener conto del carattere sociale della massa militare e senza venire incontro alle esigenze di questo carattere” (Q., p.
989)41. Pur riconoscendo l’effettiva incapacità degli uomini politici italiani nella gestione della guerra fino alla disfatta di Caporetto, Gramsci coglie l’aspetto principale del problema: il “significato di Caporetto” non va cercato solo nei demeriti personali e nella tattica militare troppo rigida, ma nella “struttura nazionale”, nei “rapporti generali di classe” mantenuti, anzi riaffermati con forza, nell’esercito.
Arditismo e volontarismo
Nel quadro delle misure militari prese dai comandi italiani dopo la ritirata di Caporetto, notevole importanza rivestono l’ampliamento e lo sviluppo dei reparti d’assalto, già impiegati da Cadorna, i cosiddetti àrditi, con l’intento manifesto di creare un corpo dal morale alto, combattivo e politicamente allineato agli orientamenti dei comandi42. Gli Arditi dettero un modesto contributo militare alle operazioni belliche, mentre più vistosa, e quindi utile, fu la loro funzione sul piano politico e propagandistico. Il duplice compito dei reparti d’assalto è sottolineato da Gramsci, indicando la necessità di “distinguere tra funzione tecnica di arma speciale legata alla moderna guerra di posizione e funzione politico-militare” (Q., pp. 120 e sgg.). Le truppe speciali esauriscono il proprio compito “politico-militare” nel costituire l’“elemento ‘strutturale’ del morale della
39 Cfr. in questa direzione gli articoli, in parte censurati, raccolti in La città futura, cit., pp. 718-19 e pp. 818-19.40 Cfr. p. 110. Come afferma Paggi, “l’origine dell’interesse di Gramsci per la natura sociale e il significato politico dell’organizzazione militare deve certamente essere ricondotto ai giorni di Caporetto” (L. Paggi, Gramsci e il moderno principe, cit., p. 73).41 Cfr. p. 260 e p. 957. Gramsci si serve dell’articolo di Spectator [M. Missiroli], Luigi Cadorna, in “Nuova Antologia”, 1° marzo 1929, pp. 43-65. L’interpretazione di Caporetto come sconfitta politica e non militare fu usata strumentalmente in funzione antisocialista (cfr. Paolo Alatri, La prima guerra mondiale nella storiografia italiana dell’ultimo venticinquennio, in “Belfagor”, 1972, n. 5, p. 588).42 Cfr. G. Rochat, L ’Italia nella prima guerra, cit., p. 117; gli arditi furono in sostanza uno “strumento per il controllo della situazione”. Sull’arditismo del dopoguerra si vedano i passi censurati dell’articolo di A. Gramsci, La sfida, 19 aprile 1919, in Idem, Il nostro Marx 1918-1919, a cura di Sergio Caprioglio, Torino Einaudi, 1984, pp. 605-6.
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massa dei soldati” (Q., p. 675). Infatti l’arditismo va considerato non “come un segno della combattività generale della massa militare, ma viceversa, come un segno della sua passività e della sua relativa demoralizzazione” . Dal terreno della guerra la disamina si sposta su quello delle “lotte attuali” all’interno della compagine politica nazionale: “una organizzazione statale indebolita è come un esercito infiacchito: entrano in campo gli arditi, cioè le organizzazioni armate private, che hanno due compiti: usare l’illegalità, mentre lo Stato sembra rimanere nella legalità, come mezzo di riorganizzare lo Stato stesso” (Q., p. 121). La traduzione dei termini propri del linguaggio militare nel linguaggio della politica è qui delle più convincenti: trasparenti paiono i richiami alla situazione politica e sociale italiana dell’immediato dopoguerra.
L’“organizzazione statale indebolita” perde la propria qualificante capacità di mediare i conflitti politici all’interno dell’apparato istituzionale; “entrano in campo” le “organizzazioni armate private” che usando mezzi illegali agiscono per “riorganizzare lo Stato stesso”. L’affermarsi del fascismo, delle “organizzazioni d’assalto permanenti e specializzate”, è possibile in Italia “mentre lo Stato sembra rimanere nella legalità” , celandosi dietro il neutralismo liberale che finirà per portarlo al crollo definitivo. L’analisi gramsciana smaschera anche l’interessata neutralità dello Stato di fronte alla guerra civile scatenata dai fascisti per sconfiggere le organizzazioni politiche e sindacali del movimento operaio italiano. Infatti la neutralità è già una forma di intervento e illudersi che lo Stato rimanga sempre inerte “è una cosa sciocca”. Inoltre, osserva ancora Gramsci riferendosi alla tattica politica dei quadri dirigenti del socia
lismo italiano e del giovane partito comunista, è stato commesso un errore grossolano nel “credere che alla attività privata illegale si possa contrapporre un’altra attività simile, cioè combattere l’arditismo con l’arditismo” (Q., p. 121).
In una nota del Quaderno 14 Gramsci ritorna sull’argomento degli arditi nell’ambito del problema teorico del rapporto tra “volontarismo” e “partecipazione della collettività organica” : in essa mostra come siano battaglie politiche perse in partenza quelle combattute da velleitarie avanguardie che non abbiano alle spalle un “esercito di rincalzo”, che siano soltanto espressione di “eroismo retorico” e non di un’avanzata politica di “organismi complessi e regolari”43. L’analisi del fenomeno dell’arditismo, durante la guerra e poi nel periodo che vede tramontare lo Stato liberale, porta Gramsci a sviluppare in due direzioni la propria traduzione politica: da una parte la descrizione dell’affermar- si del fascismo e della colpevole, perché legale, neutralità dello Stato; dall’altra la critica alle “pseudo-aristocrazie”, le avanguardie delle classi subalterne. Le degenerazioni, anche in buona fede, di “arditi*1 che non siano “funzioni specializzate” di “blocchi sociali omogenei e compatti” consigliano di evitare strategie politiche spregiudicate e anacronistiche, che non tengano conto che la lotta politica ha assunto i caratteri della guerra di posizione.
L’elemento militare in politica
Se è vero che nei Quaderni “manca una denuncia esplicita e articolata dello sfruttamento fascista dei miti bellici”44, è comunque lecito ipotizzare che il timore della censura carceraria abbia agito, in forme peraltro diffi
43 Q-, PP- 1675-76, che riprende le schematiche indicazioni di p. 1092.44 G. Rochat, L ’Italia nella prima guerra mondiale, cit., p. 40.
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cilmente determinabili, impedendo ogni critica dissacrante della grande guerra.
Va inoltre ricordato che, al di là delle oggettive difficoltà del carcere, il peso del “mito della grande guerra” si fece sentire capillarmente nella cultura e nella società italiane, portando alla sua sostanziale accettazione nelle stesse file dell’antifascismo, che raramente, e a fatica, riuscì a porre i termini della questione con sufficiente spregiudicatezza. È perciò impossibile trovare nei Quaderni un’interpretazione organica e compiuta della guerra mondiale; rispetto alla superficialità e allo schematismo dimostrati nel periodo de “L’Ordine Nuovo”45 46, però, la guerra diventa ora un considerevole centro di interesse, proprio perché in essa si producono mutamenti importanti nella dinamica politica e sociale italiana.
Diventa allora necessario, nell’ambito di questa ricerca, considerare la “cultura militare” di Gramsci, nel tentativo di saggiare la consistenza e la specificità dell’analisi del- 1’“elemento militare in politica”. L’esercito si presenta, innanzi tutto, nella riflessione del carcere, come un problema politico da definire in relazione all’analisi, talvolta solo abbozzata, dell’importanza del “ceto militare” nella società contemporanea: “l’influenza dell’elemento militare nella vita statale non significa solo influenza e peso dell’ele- mento tecnico militare, ma influenza e peso dello strato sociale da cui l’elemento tecnico militare (specialmente gli ufficiali subalterni) trae specialmente origine” (Q., p. 1608). Si tratta di un’indagine centrale nell’economia complessiva del disegno politico tracciato nei Quaderni: determinare le caratteristiche sociali del ceto militare è strettamente funzionale alle osservazioni sulla “struttura dei partiti politici nei periodi di crisi organica” .
Richiamandosi esplicitamente alle considerazioni svolte nelle “note sulle situazioni e i rapporti di forza” e, in particolare, sul “rapporto delle forze militari, immediatamente decisivo volta per volta” (Q., pp. 1585 sgg.), Gramsci ricorre al “concetto che nella scienza militare è chiamato della ‘congiuntura strategica’, ossia, con più precisione, del grado di preparazione strategica del teatro della lotta”, nell’intento di “ridurre a zero i così detti ‘fattori imponderabili’” . A questo proposito, “tra gli elementi della preparazione di una favorevole congiuntura strategica sono da porre appunto quelli considerati nelle osservazioni su 1’esistenza e l’organizzazione di un ceto militare accanto all’organismo tecnico dell’esercito nazionale” (Q., p. 1610). “Nell’Europa moderna questo strato si può identificare nella borghesia rurale media e piccola” , tra le cui fila è tradizionalmente reclutata la burocrazia civile e militare (Q. , pp. 1605-6). Riconosciutasi omogenea e protagonista nella guerra mondiale, esplicitata la propria, caratteristica, attitudine al comando “politico”, non “economico”, di piccoli nuclei subordinati, nel dopoguerra la piccola borghesia è per Gramsci elemento di forte destabilizzazione: sfuggiti alla sfera di influenza del partito socialista che “se li rese nemici gratis”, “i piccoli intellettuali e i piccoli borghesi” si organizzano intorno alla figura del capo carismatico (Q., p. 322)40. Nella nota citata Gramsci critica duramente l’atteggiamento ipocrita e demagogico del Psi di fronte alla guerra, l’assenza di controllo e di organizzazione nell’immediato dopoguerra: il riferimento a Gatto Roissard, episodico collaboratore de “L’Ordine Nuovo”, esperto militare dell’“Avanti!” e consulente della direzione del partito per i problemi militari47, è meno
45 Ivi, pp. 12-13 e p. 21 nota 12.46 Cfr. p. 234, in cui il richiamo a Weber agisce attraverso il filtro di R. Michels.47 Cfr. G. Rochat, Antimilitarismo ed esercito rosso nella stampa socialista e comunista del primo dopoguerra (1919-1925), in “Il movimento di liberazione in Italia”, 1964, n. 76, p. 14 e sgg.
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occasionale di quanto non sembri in apparenza. Infatti, alla fine della guerra, nella stampa socialista e comunista viene dedicata scarsa attenzione al problema dell’esercito, ritenuto marginale, mentre abbondano confuse lamentele e luoghi comuni superficiali, nella totale assenza di una politica militare coerente in grado di coinvolgere anche i quadri ufficiali. L’antimilitarismo rivoluzionario della sinistra del Psi e de “L’Ordine Nuovo” si segnala, nel migliore dei casi, nel fornire un consistente aggancio teorico, che non trova, però, sbocco pratico in una concreta linea d’azione48.
Nell’immediato dopoguerra, comunque, Gramsci individua il nesso tra esercito e società: l’organizzazione militare riflette la composizione sociale, anzi, “la corrispondenza tra la stratificazione di classe nella società e le gerarchie dei comandi dell’organizzazione militare” attenua, come è stato osservato, “la contrapposizione tra società e Stato propria di tutta la letteratura marxista”49. La novità dell’impostazione teorica sembra quindi dipendere in buona misura dall’attenzione nei confronti della funzione sociale dell’esercito, istituzione statale che interviene attivamente nella società, liquidando di fatto la separazione tra Stato e società civile.
Nel passo precedentemente preso in esame Gramsci si richiamava a un libro di Gaetano Mosca50, in cui poteva trovare la messa a fuoco dello stretto legame, venutosi ad instaurare con il servizio militare obbligatorio,
tra esercito e società civile: il coinvolgimento di tutte le classi sociali comporta la diretta corrispondenza tra l’organismo militare (nelle parole di Mosca la parte dell’organizzazione sociale modificatasi in termini più radicali dall’Unità in poi), e società divisa in classi. Inoltre, sottolineando la duplice funzione dell’esercito, “il migliore è più saldo appoggio, l’unico forse sicuro, di cui disponga il governo italiano e tutta quella parte del paese che vuole l’ordine, la pace all’interno e l’indipendenza all’esterno”, Mosca indicava nella neutralità e nell’apoliticità i requisiti in grado di garantirne in questo senso l’efficacia51.
Altrove Gramsci dimostra di essere consapevole che esercito e scuola sono “problemi vitali di uno Stato in piena efficienza” e di come “lo Stato moderno riesca a svolgere la sua missione pedagogica, integrante dell’attività sua generale” soprattutto nelle campagne52. L’esercito provvede a rappresentare l’unità della nazione mantenendo ^ ‘omogeneità tra ufficiali e soldati in un terreno di apparente neutralità e superiorità sulle fazioni” (Q., p. 1605), preservate dalla diffusa decomposizione politica da associazioni “private” che agiscono “lungo i ‘confini’ di gruppo sociale”: il “carattere militare” della piccola borghesia, infatti, “viene ora consapevolmente educato e predisposto organica- mente” con la creazione e il mantenimento di “associazioni varie di militari in congedo e di ex-combattenti dei vari corpi ed armi, specialmente di ufficiali” (Q., pp. 1607-8)53.
48 Cfr. ivi, p. 37 e sgg.49 L. Paggi, Gramsci e il moderno principe, cit., pp. 378-79.50 Q., p. 1607. Si tratta del libro di Gaetano Mosca, Teorica dei governi e governo parlamentare (1884), ora in Idem, Scritti politici, a cura di G. Sola, Torino, UTET, 1982, voi. I; sull’ordinamento militare italiano cfr. p. 455 e sgg.51 Ivi, pp. 468-69. Sugli “effetti politici del servizio militare obbligatoriamente esteso a tutti i cittadini» insiste Mosca anche negli Elementi di scienza politica (19232), in Idem, Scritti politici, cit., vol. II, p. 1059. Cfr. Q ., p. 1605: la neutralità dell’esercito è in realtà sostegno alla “parte più retriva”.52 Rispettivamente in Antonio Gramsci, Socialismo e fascismo. L ’Ordine Nuovo 1921-1922, Torino, Einaudi, 1966, p. 447, e in II nostro Marx, cit., p. 85.53 In prima stesura i brani sulla neutralità dell’esercito e sull’educazione del ceto militare sono consecutivi. Cfr. Q.,
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Guerra futura e nazione armata
Degno della massima attenzione è ritenuto da Gramsci il dibattito relativo alla struttura organizzativa dell’esercito e alle notevoli innovazioni strategiche e tattiche implicite nello sviluppo tecnologico degli armamenti, uno sviluppo che comportava un mutamento nella determinazione delle caratteristiche della “guerra futura”.
Nell’estate del 1931 si era svolta sulle pagine della “Nuova Antologia” un’ampia discussione su questo argomento, inaugurata da un articolo di F. Grazioli e proseguito con l’intervento di Emilio De Bono, che in particolare sottolineava l’importanza di curare i quadri in congedo dell’esercito54. Alla proposta di Grazioli di organizzare, in vista di una guerra necessariamente rapida, un esercito numericamente limitato, composto da un’élite di combattenti, rispondeva un’anonima “elevata personalità militare”: anche se l’esercito professionale sarebbe lo sviluppo logico del volontarismo fascista, l’esperienza logorante della guerra mondiale consiglia la formazione di un esercito di massa, difensivo, tecnicamente preparato; inoltre, ed è questo l’argomento decisivo, il prestigio internazionale è assicurato soltanto da un esercito che rappresenti “la Nazione stessa in armi”55.
Gramsci, a conoscenza del dibattito, sot
tolinea l’importanza della “discussione sulla guerra futura” e sulla funzione “delle piccole armate professionali in confronto ai grandi eserciti di leva” (Q., p. 1916)56. Inoltre, considerando l’autonomia raggiunta dallo “sviluppo della tecnica militare” rispetto alla potenza economica di uno Stato, descrive il progresso della tecnologia bellica come “la più formidabile incognita dell’attuale situazione politico-militare” (Q., pp. 1622-23)57.
In altri luoghi dei Quaderni Gramsci sembra ripercorrere stancamente il tema della “nazione armata”, ricorrente nella letteratura socialista, derivato dalla tradizione democratica risorgimentale. Commentando un articolato del “Corriere della Sera”58, Gramsci ricorda le “aspirazioni del Risorgimento per rispetto all’Esercito”, inteso come “un istituto che doveva inserire le forze popolari nella vita nazionale e statale, in quanto l’Esercito rappresentava la nazione in armi, la forza materiale su cui poggiava il costituzionalismo e la rappresentanza parlamentare, la forza che doveva impedire i colpi di Stato e le avventure reazionarie: il soldato doveva diventare il soldato-cittadino” e l’obbligo militare l’esercizio della “libertà popolare armata” . “Utopie, evidentemente” : non sapendo il Partito d’Azione farsi carico dell’“educazione ‘costituzionale’ del popolo”, l’esercito rimase apolitico e professionale, impedendo
p. 1613 sui “volontari dell’ordine”, e, sulle associazioni di ex combattenti, pp. 240-41, p. 509, pp. 986-87 ” , Si veda al proposito Giuseppe Giarrizzo, Il Mezzogiorno di Gramsci, in Politica e storia in Gramsci, Roma, Editori Riuniti, 1977, vol. I.54 Cfr. Emilio De Bono, Della guerra e della pace, in “Nuova Antologia”, 16 agosto 1931, p. 413, e F. Grazioli, Della guerra e della pace, in “Nuova Antologia”, 1° luglio 1931.55 Si tratta dell’articolo anonimo in “Nuova Antologia”, 16 agosto 1931, p. 425.56 Cfr. pp. 1918-19: Gramsci aveva a disposizione l’articolo di Orlando Freri, L ’agguerrimento delle nuove generazioni, in “Gerarchia”, agosto 1933, pp. 670-81; e la recensione di E. Michel a Rocco Moretta, Come sarà la guerra di domani, Milano, Agnelli, 1932, in “Italia letteraria”, 10 settembre 1933.57 Gramsci conosceva di Giulio Douthet, Probabili aspetti della guerra futura, Palermo, Sandron, 1928, e di Piero Pieri, Rassegna di storia militare, in “Nuova rivista storica”, settembre-dicembre 1931, pp. 532-48 (cfr. Q., p. 1631).58 È l’articolo di Aldo Valori, L ’esercito di una volta, in “Corriere della Sera”, del 17 novembre 1931, sul libro di Emilio De Bono, Nell’esercito nostro prima della guerra, Milano, Mondadori, 1931.
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la partecipazione popolare alla vita statale (Q-, PP- 818-19)59.
Già nel Primo Quaderno, nella fondamentale nota in cui è svolto il tema dell’egemonia come “direzione politica di classe prima e dopo l’andata al governo”, Gramsci descrive il nesso tra politica democratica ed esercito nazionale a coscrizione obbligatoria in Pisa- cane: nel quadro della necessità del coinvolgimento popolare nel moto risorgimentale va visto il progetto di una milizia nazionale contadina, diretta, secondo l’indicazione di Machiavelli, dalla borghesia cittadina (Q., p. 44). L’interesse per Pisacane, la cui figura costituisce nei Quaderni “una pietra di paragone della consistenza ideologica e politica del partito democratico”60, non è episodico: nell’estate del 1918 la redazione del “Grido del popolo” si era impegnata nella discussione attenta delle opere di Pisacane, nel tentativo di esplicitare il significato politico della disfatta di Caporetto e, insieme, della costituzione dell’Armata rossa61. La ricerca su Pisacane si colloca all’interno della tradizione politico-militare socialista che nell’“abolizione dell’esercito permanente coll’istituzione in sua vece della nazione armata” vedeva “la condizione sine qua non di ogni immediata riforma”62. Se ne trova un’eco nelle osservazioni gramsciane dei Quaderni sulla solidarietà, consapevolezza, coscienza di classe ac
quisite dalle masse durante il conflitto mondiale.
Ma Gramsci non poteva non essere consapevole della duplice linea di sviluppo che prendeva origine dal concetto di nazione armata delineato dai democratici risorgimentali. Infatti, se da un lato esso era filtrato nel corredo socialista dei primi anni del secolo, venendone a costituire un punto nodale, benché declassato a parola d’ordine fortemente usurata, dall’altro era stata esplicita, già negli ultimi decenni dell’Ottocento, 1’“espropriazione dello slogan militare dei democratici”63 da parte di chi progettava l’integrazione tra esercito e società civile attraverso la militarizzazione delle masse. Tra di essi il più autorevole era stato, forse, Nicola Marselli che esaltava l’esercito “numeroso, istruito, disciplinato, nazionale, ed economico” , evidenziandone la capacità di rappresentare ’“la vera nazione armata e organizzata”64. Nel dibattito sulla questione militare avevano giocato un ruolo centrale le vittorie dell’esercito prussiano che, realizzando nel modo più efficace la compenetrazione tra organismo militare e società civile, dimostrava sul campo la superiorità del modello proposto. In un contesto fortemente polemico vanno collocate anche le tempestive traduzioni delle opere di Moltke e di Colmar von der Goltz65 che Gramsci conosceva:
59 II riferimento diretto è al volume di Giulio Cesare Abba, Uomini e sodati. Letture per l ’esercito e pel popolo, Bologna, Zanichelli, 1890, letto nel carcere e confrontato con Edmondo de Amicis, La vita militare. Bozzetti, Firenze, Le Monnier, 1869, in Q., pp. 1189-90.60 L. Paggi, Gramsci e il moderno principe, cit., p. 74.61 Paggi mostra come l’interesse per il Risorgimento italiano nasca dalla necessità di comprendere gli avvenimenti russi per l’interpretazione dei quali “la letteratura socialista preesistente è assolutamente inadeguata” (Ivi, p. 72).62 Si tratta dell’articolo, intitolato II nostro compito (1894), ora raccolto in Critica sociale, a cura di M. Spinella, A. Caracciolo, E. Amaduzzi, G. Petronio, Milano, Feltrinelli, 1959, vol. I, p. 65. Sull’atteggiamento dei socialisti durante la guerra libica cfr. Maurizio Degl’Innocenti, Il socialismo italiano e la guerra di Libia, Roma, Editori Riuniti, 1976.63 P. Del Negro, La leva militare, cit., p. 256.64 Nicola Marselli, Gli avvenimenti de! 1870-71. Studio politico e militare, Torino, Loescher, 1871, p. 55. Sottolineano l’importanza del libro di Marselli Giovanni Gentile, Le origini della filosofia contemporanea in Italia, Messina, Principato, 1921, vol. II, pp. 85-121, e Spectator [M. Missiroli], Luigi Cadorna, cit., p. 48.65 Hellmuth von Moltke, Storia della guerra franco-germanica del 1870-71, tr. it., Milano, Treves, 1891, e Colmar von der Goltz, La nazione armata. Libro sull’organizzazione degli eserciti e la condotta della guerra ai tempi nostri, tr. it., Roma, Voghera, 1894.
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la nota, già ricordata, in cui è contestata “la concezione del Croce, della politica-passione”, in nome della famosa formula di Clausewitz che la guerra è “la continuazione, in altre forme, di una determinata politica”, prosegue, infatti, con un richiamo preciso alle osservazioni di Moltke sul rapporto tra piano militare generale ed azione concreta che deve adattarsi alle mosse dell’avversario (Q., p. 1568). L’opera del generale Colmar von der Goltz, inoltre, era conosciuta da Gramsci per averla trovata citata e commentata da Mosca a proposito del rapporto tra esercito professionale ed esercito di massa66. La torsione in senso “prussiano” del concetto di nazione armata, pertanto, era ben nota a Gramsci che, certo, impostava la questione dell’esercito partendo da Pisacane, ma accoglieva ne “L’Ordine nuovo” gli articoli di Cesare Seassaro che non nascondeva ‘’un’illimitata ammirazione per la Germania prussiana” e la sua disciplinata organizzazione militare, tanto da associare “la disciplina militare e l’etica comunista”67.
In effetti già nell’immediato dopoguerra socialisti e comunisti non facevano più riferimento alla nazione armata, che, divenuta espressione priva di contenuto concreto, era sfruttata da più parti con significati di volta in volta diversi, ma tutti riconducibili al “mito combattentistico che parte sempre dall’esaltazione della guerra e della vittoria”68. La guerra mondiale diventa allora lo spartiacque che consuma definitivamente nel logoramento della trincea l’utopia democratico-socialista della nazione in armi, proprio quando la mobilitazione massiccia lasciava intra
vedere la possibilità di una vasta azione politica all’interno dell’esercito.
Le considerazioni sulla distanza tra piano politico-militare e sua concreta attuazione sono svolte anche in un discorso parlamentare del ministro della Guerra, generale Gazze- ra, letto e ampiamente citato da Gramsci nella nota a più riprese da noi analizzata e dal titolo Noterelle su alcuni aspetti della struttura dei partiti politici nei periodi di crisi organica69. La guerra mondiale ha mostrato il “distacco profondo tra la preparazione di pace e la realtà della guerra”, gli stessi regolamenti possono essere modificati “per poterli adeguare alla realtà” . Più importante ci sembra però l’affermazione di Gazzera sullo “spirito di coesione” dell’esercito, “frutto spontaneo del sistema seguito”, “esteso a tutto il popolo italiano”. Infatti “il regime di disciplina del nostro Esercito per virtù del Fascismo appare oggi una norma direttiva che ha valore per tutta la Nazione”.
Chiaro è il riferimento alla militarizzazione fascista della società italiana, ottenuta attraverso l’educazione autoritaria all’obbedienza passiva e l’imposizione del mito del fascismo come erede dell’arditismo. Operando in questa direzione, la Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, voluta da Mussolini già nel dicembre del 1922, nell’intento di inquadrare la forza armata del partito e di “normalizzare il fenomeno squadrista”70, rappresenta l’esempio vistoso di una istituzione “privata” che diviene istituzione dello Stato, assumendo la funzione di controllo dell’ordine pubblico prima affidata all’esercito71. Perciò, se lo Stato mostra di
66 Cfr. G. Mosca, Elementi di scienza politica, cit., pp. 825-26.67 G. Rochat, Antimilitarismo ed esercito, cit., p. 12.68 G. Rochat, L ’esercito italiano da Vittorio Veneto a Mussolini (1919-1925), Bari, Laterza, 1967, p. 199.69 Cfr. Q., pp. 1610-11. Si tratta del discorso parlamentare, apparso sul “Corriere della Sera”, del 20 maggio 1932.70 Alberto Aquarone, L'organizzazione dello Stato totalitario, Torino, Einaudi, 1965, p. 17.71 Sui rapporti tra milizia ed esercito cfr. G. Rochat, L ’esercito italiano, cit., pp. 426-48, e Alberto Aquarone, La milizia volontaria nello Stato fascista, in “La Cultura”, maggio 1964, n. 3, pp. 259-71 e n. 4, luglio 1964, pp. 360-74. Cfr. Q., p. 1919.
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intervenire attivamente nella società anche con l’organismo militare, nello stesso tempo all’interno della società agiscono istituzioni private che la riorganizzano politicamente, fino a diventare strumento dell’azione statale.
L’interesse politico per la funzione sociale dell’esercito e per la centralità della guerra mondiale nello sviluppo complessivo della situazione politica italiana spinge Gramsci ben oltre il superficiale pacifismo e l’antimilitarismo generico, che caratterizzavano l’atteggiamento di socialisti e comunisti. Superato il vincolo teorico della separazione (Q., pp. 1589-90), il rapporto Stato-società civile si riarticola attorno ad alcuni nodi caratteristici e tra questi il nesso che stringe politica e guerra nella società contemporanea.
Non si tratta allora di leggere le metafore “belliche” dei Quaderni soltanto nel loro significato “esemplificativo” , immediatamente traducibile in termini politici, poiché se ne perderebbe la portata analitica e la ca
pacità di articolare la riflessione gramsciana. Dopo aver impostato la ricerca sul “ceto militare” , infatti, Gramsci sviluppa il confronto “tra i concetti di guerra manovrata e guerra di posizione” nell’arte militare e i concetti relativi nell’arte politica (Q., pp. 1613-16), criticando “gli strateghi del cador- nismo politico” che non studiano “con ‘profondità’ quali sono gli elementi della società civile che corrispondono ai sistemi di difesa nella guerra di posizione” e che pertanto ne sottovalutano catastroficamente la tenuta.
La ricerca sull’“elemento militare in politica”, che tenta di spiegare la funzione sociale dell’esercito e la funzione politica del “ceto militare”, si colloca aH’interno della disamina del nesso politica-guerra che coinvolge il nuovo assetto sociale prodottosi con il conflitto mondiale, in questo modo contribuendo alla ridefinizione della strategia politica complessiva nelle società industrialmente avanzate.
Antonio Stragà