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RECENSIONI C arlo Francovich, La Resistenza a Fi- renze, La Nuova Italia ed. (collana Quaderni del Ponte), Firenze, 1961, pp. 382 + 57 ill. f. t., L. 3000. A Firenze, le fila del movimento operaio erano già state sconnesse e di- sperse dalle violenze squadriste fin dal 1922. Nuclei comunisti, sia pur deci- mati e stroncati dal Tribunale speciale, rimasero tuttavia attivi per quasi tutto il corso del ventennio. Ma, accanto a quella comunista, un’altra opposizione antifascista rimase sempre viva. Degli intellettuali che ave- vano dato vita a quel gran crogiolo di esperienze ch’era stata la « Voce », con i circoli di cultura, i dibattiti e le altre riviste che l’avevano accompagnata, al- cuni, i più, avevano ben presto dimen- ticato le ribellioni di un tempo per in- dossare comode camicie nere. A chi aveva affrontato quelle esperienze cul- turali più per letteraria vanità che per sincero bisogno dell’animo, a chi era, più che d’altro, desideroso di retorica, non parve vero che la retorica, all’op- posizione sotto Giolitti, giungesse ora al potere, salisse le scale marmoree del- le Università, dei Ministeri, delle Ac- cademie. I letterati fiorentini furono in buona parte tra i protagonisti di que- ste conversioni in massa al regime, a volte illudendosi di poterne guidare i passi tenendolo per mano, sempre la- sciandosi da esso, più o meno consape- volmente, trascinare. Comunque, lo ac- compagnarono fino alla fine, quasi tutti. Ancora nel ’43-’44, come ricorda Fran- covich, proprio a Firenze si dette vita a una nuova rivista irrazionalista e na- zionalista (tra i maggiori redattori Ar- dengo Soffici, Arrigo Serpieri, Primo Conti, Giotto Dainelli e Giovanni Spa- dolini, quest'ultimo però poco più che un ragazzo): « Italia e Civiltà ». Ma, per buona fortuna di quella cit- tà, Firenze aveva anche un’altra, ben diversa tradizione intellettuale. C ’era stato Salvemini, a lungo: partito lui ne rimase il ricordo, rimasero gli amici e gli allievi ch’egli aveva lasciato, rimase soprattutto, in uomini come Calaman- drei, lo spirito di libertà e di giustizia che Salvemini aveva contribuito a dif- fondere. Da!l’« Italia libera » al « Non mollare », da « Giustizia e Libertà » al liberalsocialismo, giù giù fino al Partito d’Azione (qui più che altrove ricco di consensi) è tutta una serie quasi inin- terrotta, malgrado rischi e difficoltà d’o- gni genere, di atti d’opposizione al regime: propaganda antifascista, specie tra i giovani, complotti, diffusione di libri « proibiti », contatti vari con gli oppositori nelle altre città d’Italia. Di fronte alla attività dei militanti comunisti e degli intellettuali « salve- ininiani », di minore rilievo appare quel- la degli esponenti di altre formazioni politiche. Socialisti e popolari si limita- vano per lo più a tener desti in ri- strette cerehie i rispettivi ideali, rac- cogliendosi di tanto in tanto attorno a belle figure come quelle di Gaetano Pie- raccini o di Adone Zoli. Più rilevante semmai, in campo cattolico, l’attività di La Pira, che nella sua rivistina « Principi » e nelle sue conferenze al convento di San Marco faceva un gran parlare, seguendo il suo slancio evange- lico, di libertà (e sia pure chiamandola libertas...): al punto che i fascisti fio- rentini, accortisene, lo accusarono di essere un « massone » e di voler ele- vare « altarini giudaici » mimetizzati! Alla fine del ’42 un Comitato interpar- titi prese a riunirsi in casa Pieraccini e a pensare alla successione, che comin- ciava ad apparire prossima, al governo fascista. Questa era la situazione al 25 luglio, vale a dire nel momento dal quale Francovich intraprende la sua storia della Resistenza fiorentina. Veramente, come è stato giustamente osservato (Claudio Pavone, in « Movimento Ope- raio », XV, 1962, n. 4), il libro avrebbe potuto chiamarsi, meglio ancora che La Resistenza a Firenze, Firenze durante la Resistenza, tanta è la messe delle noti- zie che vi si trovano, interessanti non soltanto le lotte politiche tra fascisti e antifascisti, ma anche i diversi aspetti della vita cittadina per più di un anno, fino ai cibi che i fiorentini potevano permettersi o agli spettacoli che veniva- no loro ammanniti. Proprio questa lar- ghezza d’impostazione (assieme al pa- thos di chi fu tra gli attori del dramma, mal celato dietro le pieghe di un rac- conto sempre sereno, onesto, apparen- temente dimesso) costituisce uno dei

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R E C E N S I O N I

Carlo Francovich, La Resistenza a Fi­renze, La Nuova Italia ed. (collanaQuaderni del Ponte), Firenze, 1961,pp. 382 + 57 ill. f. t., L . 3000.

A Firenze, le fila del movimento operaio erano già state sconnesse e di­sperse dalle violenze squadriste fin dal 1922. Nuclei comunisti, sia pur deci­mati e stroncati dal Tribunale speciale, rimasero tuttavia attivi per quasi tutto il corso del ventennio.

Ma, accanto a quella comunista, un’altra opposizione antifascista rimase sempre viva. Degli intellettuali che ave­vano dato vita a quel gran crogiolo di esperienze ch’era stata la « Voce », con i circoli di cultura, i dibattiti e le altre riviste che l’avevano accompagnata, al­cuni, i più, avevano ben presto dimen­ticato le ribellioni di un tempo per in­dossare comode camicie nere. A chi aveva affrontato quelle esperienze cul­turali più per letteraria vanità che per sincero bisogno dell’animo, a chi era, più che d ’altro, desideroso di retorica, non parve vero che la retorica, all’op­posizione sotto Giolitti, giungesse ora al potere, salisse le scale marmoree del­le Università, dei Ministeri, delle Ac­cademie. I letterati fiorentini furono in buona parte tra i protagonisti di que­ste conversioni in massa al regime, a volte illudendosi di poterne guidare i passi tenendolo per mano, sempre la­sciandosi da esso, più o meno consape­volmente, trascinare. Comunque, lo ac­compagnarono fino alla fine, quasi tutti. Ancora nel ’43-’44, come ricorda Fran­covich, proprio a Firenze si dette vita a una nuova rivista irrazionalista e na­zionalista (tra i maggiori redattori Ar- dengo Soffici, Arrigo Serpieri, Primo Conti, Giotto Dainelli e Giovanni Spa­dolini, quest'ultimo però poco più che un ragazzo): « Italia e Civiltà ».

Ma, per buona fortuna di quella cit­tà, Firenze aveva anche un’altra, ben diversa tradizione intellettuale. C ’era stato Salvemini, a lungo: partito lui ne rimase il ricordo, rimasero gli amici e gli allievi ch’egli aveva lasciato, rimase soprattutto, in uomini come Calaman­drei, lo spirito di libertà e di giustizia che Salvemini aveva contribuito a dif­fondere. Da!l’ « Italia libera » al « Non

mollare », da « Giustizia e Libertà » al liberalsocialismo, giù giù fino al Partito d’Azione (qui più che altrove ricco di consensi) è tutta una serie quasi inin­terrotta, malgrado rischi e difficoltà d ’o- gni genere, di atti d ’opposizione al regime: propaganda antifascista, specietra i giovani, complotti, diffusione di libri « proibiti », contatti vari con gli oppositori nelle altre città d’ Italia.

Di fronte alla attività dei militanti comunisti e degli intellettuali « salve- ininiani », di minore rilievo appare quel­la degli esponenti di altre formazioni politiche. Socialisti e popolari si limita­vano per lo più a tener desti in ri­strette cerehie i rispettivi ideali, rac­cogliendosi di tanto in tanto attorno a belle figure come quelle di Gaetano Pie- raccini o di Adone Zoli. Più rilevante semmai, in campo cattolico, l’ attività di La Pira, che nella sua rivistina « Principi » e nelle sue conferenze al convento di San Marco faceva un gran parlare, seguendo il suo slancio evange­lico, di libertà (e sia pure chiamandola libertas...): al punto che i fascisti fio­rentini, accortisene, lo accusarono di essere un « massone » e di voler ele­vare « altarini giudaici » mimetizzati! Alla fine del ’42 un Comitato interpar- titi prese a riunirsi in casa Pieraccini e a pensare alla successione, che comin­ciava ad apparire prossima, al governo fascista.

Questa era la situazione al 25 luglio, vale a dire nel momento dal quale Francovich intraprende la sua storia della Resistenza fiorentina. Veramente, come è stato giustamente osservato (Claudio Pavone, in « Movimento Ope­raio », X V , 1962, n. 4), il libro avrebbe potuto chiamarsi, meglio ancora che La Resistenza a Firenze, Firenze durante la Resistenza, tanta è la messe delle noti­zie che vi si trovano, interessanti non soltanto le lotte politiche tra fascisti e antifascisti, ma anche i diversi aspetti della vita cittadina per più di un anno, fino ai cibi che i fiorentini potevano permettersi o agli spettacoli che veniva­no loro ammanniti. Proprio questa lar­ghezza d ’impostazione (assieme al pa­thos di chi fu tra gli attori del dramma, mal celato dietro le pieghe di un rac­conto sempre sereno, onesto, apparen­temente dimesso) costituisce uno dei

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pregi maggiori dell’opera. C ’è anche, a completare il libro (oltre a un’appendice di documenti e a un ricco indice bio­grafico), un corredo interessantissimo di fotografie, per lo più inedite, partico­larmente preziose nella gran scarsità di materiale illustrativo sul periodo della Resistenza.

Come è noto l’opera del Francovich ha vinto recentemente il V Premio V e­nezia della Resistenza, per un’opera sto­rica su un argomento che riguardi il periodo 1922-45.

Dopo un breve accenno all’ antifasci­smo fiorentino durante il ventennio, il libro di Francovich prende le mosse ap­punto dai 45 giorni di Badoglio. Il 25 iuglio fu accolto in città da manifesta­zioni spontanee e calorose di esultanza, che si svolsero tuttavia in un’atmosfera sostanzialmente tranquilla e non dettero luogo a vendette. Il Comitato interpar- titi vide aumentato il proprio prestigio e allargò la propria attività, sindacati e gruppi studenteschi si riorganizzarono democraticamente. Ma la riconquistata tranquillità fu di breve durata. L ’8 set­tembre, anche qui, come in altre città, l’esercito si sciolse praticamente come neve al sole. C ’erano generali preoccu­pati piuttosto di conservare l ’ordine pubblico che di organizzare sia pure una parvenza di difesa, e che oppone­vano un rifiuto agli azionisti e ai comu­nisti che chiedevano armi per combat­tere contro i Tedeschi. Questi ultimi poterono così, l’ n settembre, occupare la città quasi senza alcuna resistenza. Poco dopo, la nascita del C T LN dava inizio alla lotta clandestina, mentre i fascisti avviavano la riorganizzazione re­pubblichina della città: si apriva così il periodo più triste e, insieme, più glo­rioso, della storia moderna di Firenze. Alla Repubblica di Salò aderirono squa­dristi della vigilia delusi dal successivo tralignare del fascismo dalle sue origini, giovani ingenui sinceramente illusi dal­le conclamate, tardive aspirazioni re­pubblichine a una palingenesi democra­tica, teppisti veri e propri. Nè manca­rono gli intellettuali, come s’è detto, proprio mentre si cercava di fare di Fi­renze il centro di quel poco ch’era ri­masto in vita della squallida cultura fa­scista. Gentile, Soffici, Giotto Dainelli, Guido Manacorda elevavano i loro ulti­mi sacrifici in quel tempio ormai cadente della cultura irreggimentata ch’era l’Ac­cademia d ’Italia. Sempre Gentile fu al

centro (e ne fu anche la tragica vittima) di un vano invito alla pacificazione al di sopra delle parti, rivolto ai cittadini « buoni e onesti » ma rifiutato con giu­sta intransigenza dal C LN .

Francovich si dilunga nel descrivere le varie forme di attività dei partiti an­tifascisti, dalla protezione degii ebrei e degli ex prigionieri alleati alla diffusio­ne della stampa clandestina, dagli atten­tati agli scontri armati.

In prima linea rimasero fino alla fine i comunisti dei GAP e gli azionisti: soltanto nel ’44 ormai inoltrato socia­listi e democristiani presero ad avere propri nuclei d'azione. Il clero, a parte alcune indecisioni del cardinale Dalla Costa e alcuni rari esempi particolar­mente vergognosi (come quello del mo­naco Epaminonda Troia, cappellano di Carità e compagno delle sue efferatezze), si schierò in genere dalla parte degli antifascisti collaborando con essi, a vol­te, con grande coraggio.

I comunisti si volgevano, essenzial­mente, a un’attività terroristica e inti­midatoria, spesso assai coraggiosa ed efficace, mentre gli azionisti preferivano operazioni più organizzate e di maggior valore anche strategico e cercavano di potenziare al massimo l’organizzazione militare del CLN (si distinsero, alla te­sta del Comitato di Liberazione Nazio­nale fiorentino, Tristano Codignola, En­zo Enriques Agnoletti, Ragghiami, Pie- raccini, Zoli, Traquandi, Medici Torna- quinci e altri). I rapporti tra i vari grup­pi antifascisti all’ interno del GLN, come documenta Francovich, non furono sem­pre idillici, soprattutto per le iniziative autonome dei comunisti, nonché per l’ eco, che anche qui si faceva sentire, di dissensi presenti sul piano nazionale. Francovich, che non è per niente succu­be della mitologia della Resistenza, non manca neppure di sottolineare come, con il progredire dell’ avanzata alleata, aumentasse di giorno in giorno il nu­mero dei doppiogiochisti, pronti a pro­clamarsi, a liberazione avvenuta, resi­stenti della prim'ora. Tra le iniziative più rilevanti della Resistenza fiorentina meritano di esser ricordati l’efficientis­sima organizzazione di Radio Cora, in contatto con gli Alleati, da parte di un gruppo di azionisti (che finirono poi tutti uccisi o arrestati), lo sciopero organiz­zato dai comunisti nel marzo ’44 e, in­fine, la battaglia per la liberazione di Fi­renze, che durò un mese intero, dal 3

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agosto al 2 settembre e che venne con­dotta dai partigiani fiorentini in collabo­razione con alcune bande scese in città dalle campagne circostanti.

In tutto il periodo dell’occupazione, al coraggio e alla risolutezza dei com­battenti clandestini fece riscontro la du­rezza della repressione da parte tedesca e fascista. Firenze conobbe gli orrori della « Villa Triste » di Carità, le cui torture ai prigionieri Francovich ricorda in pagine raccapriccianti pur nella loro lineare sobrietà. Nè meno impressionan­ti e commoventi sono altre descrizioni, per esempio quella dell’esecuzione di un gruppo di giovani renitenti alla leva. Anche Firenze, come tante altre città italiane, ebbe così i suoi eroi e i suoi martiri : figure nobilissime come quelle di Lanciotto Ballerini, Enrico Bocci, Anna Maria Enriques, Bruno Fanciullac- ci, Italo Piccagli. Fu il prezzo pagato non soltanto per la cacciata dei Tedeschi e per la riconquista della libertà, ma per dimostrare, anche di fronte agli Alleati, che gli Italiani non si identificavano con la dittatura che li aveva dominati per un ventennio. La liberazione non fu quindi per Firenze un dono degli Anglo- americani, ma una conquista ottenuta dalla popolazione a caro prezzo e, insie­me, la dimostrazione, data dai capi poli­tici della Resistenza, della loro capacità di assumere e tener saldamente in mano il governo della propria città.

E questo rimane, essenzialmente, il significato fondamentale della Resistenza fiorentina: per la prima volta (a parte il precedente, assai diverso, di Napoli) una città italiana insorse contro fascisti e nazisti guidata dal proprio C LN , e, sia pur approfittando della vittoriosa a- vanzata alleata, dimostrò di saper tro­vare in se stessa il coraggio e la dignità necessari per combattere in difesa di quegli ideali di libertà e di giustizia che una ventennale oppressione aveva ap- nannato ma non era riuscita a cancel­lare.

G ianni Sofri

Mario G iovana, La Resistenza in Pie­monte. Storia del C LN regionale,Feltrinelli, Milano, 1962.

Questo lavoro di Mario Giovana è lo stesso che ha bene meritato la borsa di studio, tributatagli nel 1957 dall’Isti­tuto per la Storia del movimento di Liberazione in Italia e che questa rasse­

gna ha già pubblicato in parte (e non nella maggior parte, come l’Autore de­sidera che noi precisiamo contro quanto è stato detto in una « scheda » di que­sta rivista).

Nonostante il ritardo della pubblica­zione, l ’interesse del saggio non perde di attualità, anche dopo la comparsa di opere monografiche pur pregevoli come quella del Pansa sull’Alessandrino o del Luraghi sul movimento operaio nello stesso periodo, poiché nessuna sintesi della resistenza piemontese è stata suc­cessivamente tentata dal punto di osser­vazione dell’organo regionale che l’ha diretta, nè le successive ricerche hanno fornito materiale che consentisse una revisione sostanziale dei giudizi qui e- spressi.

Il Piemonte ha rappresentato il tipi­co. esempio di una regione italiana in cui le tradizioni culturali e popolari del­l’antifascismo si sono fedelmente pro­iettate sul movimento di Resistenza, che esse hanno contribuito in larga misura a suscitare. E Giovana vede benissimo la figliazione dalle energie tradizionali e latenti, vero humus generatore di sforzi anticonformistici ed anche radicalmente eversivi, ma pur sempre volontariamen­te canalizzati nella armonica collabora­zione della lotta e della ricostruzione democratica. Sulla scena confluiscono in­tellettuali di formazione gobettiana e gramsciana, un movimento operaio il­luminato dalle esperienze di fabbrica del primo dopoguerra e, sulle traccie dell’« Ordine nuovo », ricco di fermenti e assetato di chiarificazioni intellettuali, una tradizione monarchica borghese e spesso anche contadina, che si integra al movimento popolare non già per sviarlo ma per affiancarlo efficacemente, condizionandolo con la sua presenza non esigua.

Tutti questi filoni, lungi dal cozzare nel crogiuolo della lotta e reciprocamen­te paralizzarsi, si sommano armonica- mente così da conferire al Piemonte, dove più accentuate e vivaci appari­rebbero le divergenze, le migliori oppor­tunità per collocarsi al primo posto della lotta partigiana al nazi-fascismo.

In un siffatto ambiente le crisi anche più difficili non tendono a degenerare ma a risolversi. Gli esempi non manca­no. Le possibilità di un comando retto dal generale Operti vengono abbando­nate con la stessa facilità e chiarezza con cui erano state senza falsi pudori

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adottate; le formazioni Giustizia e L i­bertà di tendenza repubblicana e libe­ralsocialista e quelle finitime a dire­zione monarchica di Mauri e di Cosa, anziché indebolirsi in conflitti ideologici, coesistono in una operante collabora­zione sino a considerare da vicino l’op­portunità di una fusione, che poi non si realizza; le tendenze supernazionali ed europeistiche del partigianato cunee- se conducono ad una collaborazione di armi con il vicino maquis francese, an­che se il bilancio si chiuderà con un grosso attivo, mai ripagato, a favore della generosità piemontese. La valle d’Aosta, con il suo ambiguo separati­smo, apertamente e inopportunamente sollecitato da oltralpe, è il banco di prova di quanto le aberrazioni naziona­listiche dell’ ammirato vicino abbiano purtroppo ragione della fraternità demo­cratica e del vivere civile fra i popoli.

Giovana ha occhio sensibile per que­sta multiforme realtà sociale e politica e con acutezza approfondisce lo sfortu­nato tentativo Operti, analizza il com­portamento dei ceti popolari (anche sen­za indulgervi per non uscire dal tema, come forse avrebbe potuto sull’esperien­za di precedenti ricerche da lui fatte nelle valli cuneesi) e con serena oggetti­vità valuta la portata della crisi valdo­stana.

(Rileggendo questo suo studio accura­to, mi sono posto invece il quesito se non sia già venuto il momento, quasi a vent'anni dalle vicende, di trattare con senso ancor più critico e staccato il fenomeno della Resistenza. Se cioè non sia possibile rivedere taluni giudizi che ci accompagnano sin dai giorni della no­stra lontana esperienza che, con la pro­gressiva consacrazione storiografica, con­ducono inevitabilmente all’agiografia e alla fabbricazione di miti.

Parlando in particolare del CLN mi pare di poter dire che esso dovrebbe venire considerato più sotto il suo aspet­to funzionale di organismo creato appo­sitamente a suscitare e dirigere la Resi­stenza, che non come autonoma espres­sione di autogoverno popolare. La pira­mide dei CLN, per quanto venisse di­chiarata autonoma ad ogni livello, face­va ricadere dal superiore all’ inferiore le parole d'ordine forgiate dalle direzioni dei singoli partiti, che erano sì le sole forze organizzate vive e operanti, ma pur sempre irradiantesi da un centro e

non condizionate da maggioranze quali­ficate.

Esigenze di lotta non consentivano di fare altrimenti ed era giusto che le inter­pretazioni della nascitura democrazia fossero assunte d’autorità; ma il concet­to di massa partecipante alla direzione politica (e che non sempre pareva sen­tirsi rappresentata dagli esponenti degli organismi cosiddetti « di massa » che ta­luni partiti imponevano ai CLN) era da rimandarsi ad un periodo successivo, quando le strutture democratiche del paese le avessero consentito di darsi un reale contenuto. Le sorprese che in tan­te plaghe vennero dai primi risultati elettorali post-bellici, rispetto all’ idea che ognuno si era fatto a suo modo degli effettivi orientamenti popolari, confermano, mi sembra, questo giudizio.

E ugualmente si dica circa la valuta­zione più frequentemente ricorrente su­gli Alleati. E ’ vero che mai essi avreb­bero desiderato per i loro fini bellici « un esercito di popolo », quale prese forma nella Resistenza italiana con tutte le conseguenze politiche eversive che esso poteva comportare, ma è anche vero che una volta che gli Alleati si trovarono di fronte a tale realtà, essi la accettarono o la subirono senza pensare più a disfarsene, ma al più a controllar­la e condizionarla (il sostegno dato in Jugoslavia al più efficiente Tito a sfa­vore dello stesso Mihailovich insegni).

L ’affermare quindi, come fa Giovana, che sotto il messaggio Alexander del novembre 1944, per quanto psicologica­mente inopportuno e male intonato, stesse « il fine precipuo di sfasciare le formazioni » e cioè di scardinare la resi­stenza, mi appare nota eccessivamente pessimistica. Se così fosse stato davvero, perchè il Comando Supremo Alleato a- vrebbe nei primi giorni del dicembre decretato l’assegnazione di 160 milioni mensili alla Resistenza Italiana, di cui 60 al solo Piemonte?

Il condizionamento poteva essere sgradito ai resistenti, compromettere i loro obiettivi politici particolari e offen­dere le loro aspettative e le loro spe­ranze, ma è anche vero che ove esisteva il Comando Supremo del Mediterraneo che controllava insindacabilmente tutte le forze militari del proprio scacchiere, tra le quali giustamente la Resistenza Ita­liana voleva essere considerata, non era facilmente opinabile la precedenza di una azione insieme concordata e il rispetto,

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tra tante difficoltà organizzative, di quel- le nostre aspettative, che male si accor­davano con le pressanti ragioni militari, a parte l’incomprensione che esse pote­vano incontrare presso i governi dei paesi « liberatori ».

Lo studio dei rapporti con gli Alleati dovrebbe dunque essere quanto meno svolto parallelamente a quello della con­dotta alleata nel suo complesso, per va­lutare fino a qual punto il comporta­mento degli Alleati era dettato da im­prescindibili ragioni militari. Bisognereb­be per esempio appurare entro quali li­miti l’ insufficiente appoggio aereo al­leato a Domodossola sia da attribuire all’urgente necessità di sostenere Varsa­via assediata, male aiutata dai Russi, uti­lizzando le basi aeree dell’Italia liberata.

Sono queste ultime però delle consi­derazioni di ordine interpretativo gene­rale da non applicarsi in particolare al lavoro del Giovana e che nulla tolgono alla validità ed ai risultati delle sue ricerche; ricerche che auguriamo possa­no essere da lui felicemente proseguite nel campo della storia piemontese della Resistenza, di cui egli continua appas­sionatamente ad occuparsi ed in cui ha raggiunto una notevole competenza, me­ritevole di essere messa ulteriormente a frutto.

G. V accarino

Francesco Saverio N itti, Scritti politici, vol. I V : L'inquiétude du monde - La disgregazione dell’Europa, a cura di Guglielmo Negri, ed. Laterza, Ba­ri, 1962, pp. 627, L . 5.000.

L'edizione nazionale delle opere di Nitti, presso il Laterza di Bari, si ar­ricchisce di un nuovo volume, sesto in ordine di pubblicazione, tredicesimo nel piano generale di edizione (la quale ul­tima, va notato incidentalmente, ma non marginalmente, anzi con soddisfazione profonda, e direi con gioioso sbigotti­mento, procede con un’ efficienza, una serietà ed una regolarità del tutto con­fortanti, e del tutto insolite in inizia­tive del genere). Questo volume racco­glie due opere del Nitti, l ’una del 1933, riprodotta nel testo originale francese, L ’inquiétude du monde, l’altra di cinque anni più tardi. La disgregazione dell’Eu­ropa, presentata nella versione italiana postbellica approvata dall’autore.

Benché separate da un breve periodo di tempo, le due opere si differenziano nettamente nel loro motivo ispiratore e nei loro risultati critici. Mentre la pri­ma, infatti, è, per così dire, un consun­tivo, ha l ’occhio volto al passato, rap­presenta l’ultimo anello della lunga serie di scritti polemicamente dedicati dal Nitti all’ analisi delle conseguenze del trattato di Versailles, la seconda è robustamente connessa col presente, sta a significare una testimonianza politica militante e ad un tempo l ’atto di fede di un economi­sta legato al liberalismo conservatore pre­bellico contro lo statalismo e la pianifi­cazione in ogni loro aspetto.

La parola magica che un immagina­rio Robinson, tornato a percorrere i pae­si sconvolti dalla guerra, pronunzierebbe infatti nel 1933 non è altro che « retour au passé ». Poco informato ancora sulle caratteristiche del sistema hitleriano, di cui coglie però acutamente le implica­zioni nazionali e Je origini da uno stato di necessità, Nitti è stato viceversa pro­fondamente e vivacemente colpito, in senso negativo, dall’ esperienza roosevel- tiana. Ricordando a grandi linee, si può dire che gli Stati Uniti, sotto un profilo politico, economico ed addirittura senti­mentale, abbiano rappresentato per Nitti la più grossa ed amara delle delusioni. Benché personalmente detestasse Wilson, Nitti non aveva cessato di nutrire una fiducia quasi messianica, del tutto in­consueta in lui, nel disinteresse ideali­stico e nelle capacità sconfinate d ’inizia­tiva dello spirito nordamericano. Tutte le sue opere, dall’immediato dopoguerra fino al 1924, allorché l’amministrazione repubblicana di Harding e Coolidge aveva ricondotto a gran passi la politica e l'economia statunitensi sulla via del­l’ isolamento più chiuso e del più aspro protezionismo, ruotano intorno ad un appello calorosissimo all’ intervento ame­ricano in Europa. Orbene, un decennio più tardi, non soltanto questo non si era verificato, ma gli Stati Uniti aveva­no dato prova di un’ imprevidenza e di una leggerezza non meno catastrofiche per se stessi che per il resto del mondo. Già senza dubbio turbato per questo risultato che accresceva il suo scoramen­to ed il suo pessimismo, Nitti si avvide con indignazione e quasi con scandalo che l’opera di ricostruzione iniziata da Roosevelt segnava una consapevole e drastica rottura col passato, e ciò prin­cipalmente attraverso un sistematico in­

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tervento dello Stato ed una fortissima ispirazione sociale nella legislazione.

La polemica ideologica contro il new deal diventa cosi l’ aspetto più significa- tivo dell’opera pubblicistica di Nitti negli anni trenta, e ciò alla stessa guisa, in un certo senso, della polemica contro l’imperialismo francese durante il decen­nio precedente. In entrambe queste cam­pagne, invero, dotte, serrate, appassio­nate, la preoccupazione di Nitti risponde eminentemente a postulati liberali ed in­dividualistici. Qui non si tratta infatti di confutare l’autorevolezza e l’attendi­bilità delle ipotesi economiche e soprat­tutto delle anticipazioni rivoluzionarie di Marx; nè di stigmatizzare le degenera­zioni burocratiche e personalistiche del bolscevismo, e la sua refrattarietà alla mentalità occidentale (ma quanta incom­prensione per gli aspetti spirituali e so­lidaristici della nuova società sovietica!); nè di discernere l’ artificiosa impalcatura mistica, razzista e guerrafondaia del na­zismo dall'obiettivo stato di disgrega­zione economica che aveva liquidato la repubblica di Weimar; nè di documen­tare la povertà ed il velleitarismo dei disegni cosidetti imperiali e di rinnova­mento corporativo del fascismo. In tutte queste polemiche, che egli svolge con competenza e fervore eccezionali, Nitti è animato innanzi tutto da un sentimen­to politico, da una passione liberale, da un’educazione ottocentesca al gioco dei partiti ed al peso dell’opinione pubblica, che gli fanno valutare con l’ostilità più risentita non solo le degenerazioni plebi­scitarie ma un po’ tutti gli aspetti più pesanti e schiaccianti dei moderni mo­vimenti di massa.

Nella polemica anti-americana, vice­versa, l’animo di Nitti, quantunque egli rilutti a confessarlo, è ispirato da una preoccupazione squisitamente economica, e schiettamente conservatrice. Lo stesso fenomeno si era verificato ai danni della Francia, allorché Nitti (ma da questo giudizio rinvenne, a mente fredda e con l’esperienza hitleriana) si era sentito di poter giudicare che una vittoria tedesca non avrebbe potuto arrecare all’Europa conseguenze gran che diverse e peggiori di quelle del militarismo francese. Gio­cava in quegli anni essenzialmente in Nitti il rimpianto del concerto e dell’e­quilibrio europei. Per resuscitare questo sistema, del cui anacronismo egli non si avvedeva, Nitti non esitava non solo a sviluppare una circostanziata descrizione

dell'insostenibilità della situazione tede­sca, ma anche, senza troppe preoccupa­zioni ideologiche, ad auspicare un inse­rimento più attivo ed operoso della po­litica sovietica in Europa.

Quindici anni dopo, la situazione è profondamente mutata. Di una qualsiasi preponderanza in Europa non pare che si possa parlare senza lo scatenamento di un immane conflitto. La Russia è da tempo isolata in un raccoglimento più

meno forzato e Nitti non può che in­tuire la grandiosità delle sue trasforma­zioni interne in mezzo alla ben. più vi­stosa ridda di processi e di stragi le cui notizie dilagano in occidente. Il nemico da combattere è perciò per Nitti essen­zialmente quello che si è annidato nel seno stesso della democrazia industriale, il sistema sociale, economico e civile che, nel pieno rigoglio della sua fase impe­rialistica, aveva suscitato i giovanili- en­tusiasmi del Nitti. Il pericolo è lo sta­talismo, il piano, la programmazione. De Man e Cripps sono trascinati sul banco degli accusati accanto a Roosevelt. Si tratta di uno sforzo dottrinario ed in­tellettuale veramente ammirevole da par­te di Nitti (La disgregazione dell’Europa è forse l’opera sua più documentata e penetrante dell’ entre deux guerres), uno sforzo che non manca di drammatica pa­teticità nel richiamo alla libertà, alla di­gnità umana, da parte di un uomo a cui la preparazione soprattutto libresca e la mentalità eminentemente conservatrice impedivano di comprendere che proprio in nome della libertà conculcata dei cit­tadini e dell’offesa dignità dei lavoratori potevano affermarsi e trionfare quei gran­di movimenti di rivendicazione sociale in cui egli vedeva la catastrofe e che la storia avrebbe giudicato, se non altro, come il più illuminato tentativo riformi­stico nel seno della società borghese tra­dizionale.

Raffaele Colapietra

Manfred M erkes, Die deutsche Politik gegeniiber dein spanischen Bürger- krieg 1936-1939, Ludwig Ròhrscheid Verlag, Bonn, 1961, pp. 194.

La sostanza della guerra di Spagna come primo scontro armato tra fascismo e antifascismo sul piano internazionale e come preludio della seconda guerra mon­diale è un fatto ormai così scontato, che non varrebbe neppure la pena di sottoli­

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nearla una volta ancora se essa non fosse destinata a rimanere del tutto in ombra in un libro come questo del Merkes, che ripete ]e caratteristiche deteriori della storiografia diplomatica tradizionale. Si tratta cioè di una cronaca degli eventi nei limiti in cui è possibile ricucirla sulla base dei documenti diplomatici, con il minimo sforzo interpretativo e analitico da parte dell’A .; la diligenza scolastica non salva perciò neppure questo lavoro da quell’ambiguo obiettivismo così fre­quente ormai negli studi di storia con­temporanea che ci giungono dalla Ger­mania occidentale. In effetti, è veramente difficile riuscire a capire come ci si possa accostare oggi a un argomento così im­portante quale è l ’intervento delle po­tenze dell’Asse nella guerra di Spagna senza prendere mai posizione, in omag­gio a una concezione storiografica degna più di un compilatore di cataloghi o di calendari che di uno storico, a qualsiasi tendenza egli possa appartenere. Ma tant’è, questa è Ja caratteristica generale del libro del Merkes, che qui si segnala tuttavia per l ’interesse dell’argomento che affronta.

Infatti, sull'intervento fascista in Spa­gna non esistono ancora studi specifici approfonditi; non sono disponibili ancora neppure i documenti diplomatici italiani relativi alla guerra di Spagna.

In certa misura il Merkes ha cercato di colmare la lacuna degli studi per la parte tedesca attingendo, oltre che alle raccolte di documenti già pubblicate, agli atti originali dell’archivio del Ministero degli esteri tedesco. Ma da questo tipo di fonti l ’A . è rimasto completamente condizionato; si ha anzi l’impressione che egli abbia intrapreso la ricerca prin­cipalmente allo scopo di assolvere il Mi­nistero degli esteri tedesco da ogni corre­sponsabilità nella vicenda spagnola, por­tando in primo piano un conflitto di orientamento tra il Ministero degli esteri e il vertice delle gerarchie naziste che sfortunatamente non trova alcun riscon­tro nè nei documenti nè nello sviluppo degli avvenimenti. L ’A . afferma bensì ripetutamente che il Ministero degli este­ri era contrario ad appoggiare Franco o avversò più volte determinate decisioni politiche (così alle pp. 19, 2 1 , 22, 47, 68, 71), ma non si preoccupa minimamente di fornire la prova del comportamento « correttamente neutrale » che attribuisce almeno agli inizi alla diplomazia nazista

o quanto meno a von Neurath in base ad elementi assolutamente sconosciuti;

E ’ questa forse la prima conseguenza del metodo di ricerca fatto proprio dal- l ’A ., il quale si serve dei documenti ufficiali senza sufficiente avvertenza cri­tica, prendendoli in pratica alla lettera senza sottoporli al vaglio di un’analisi interpretativa di più vasto respiro. Po­trebbe sembrare un abbaglio alquanto strano in uno studioso, ma esso in realtà è perfettamente spiegabile alla luce della assoluta mancanza di una visione gene­rale che inquadri il conflitto di Spagna nel duello tra il fascismo e l’ antifascismo al livello internazionale, sul quale una nuova bellissima testimonianza ci viene dalla recente riscoperta del Diario del giornalista sovietico Koltsov. Si potreb­bero citare diversi casi ad esemplifica­zione del singolare modo di interpretare la storia cui si ispira il Merkes. Valga in proposito un solo esempio: poco dopo la rivolta franchista arrivano in Germania emissari dei ribelli per provvedere all’ ac­quisto di armi; il fatto che essi non do­vessero entrare in contatto ufficiale con le autorità tedesche non dimostra affatto, come ritiene l’A ., che la Germania si te­nesse « neutrale » di fronte al conflitto (p. 19), bensì che il governo tedesco aveva le sue buone ragioni per non sco­prirsi prematuramente dando l’impressio­ne di essere aperto fautore della causa franchista.

11 Merkes ha bensì intravisto alcuni dei problemi politici strettamente legati all’intervento delle potenze dell’Asse -— principalmente l’obiettivo di Hitler di impedire comunque la saldatura della so­lidarietà tra il fronte popolare in Spagna e il fronte popolare in Francia e di rove­sciare lo schieramento antitedesco isolan­do e accerchiando ]a Francia dalla testa di ponte spagnola — ma si direbbe che tutto ciò rimanga ai margini del suo studio. Più accurata è la ricostruzione dei rapporti diretti tedesco-spagnoli, a cominciare dalle vicende dei cosiddetti « volontari » e della legione Condor; ma anche qui sarebbe stata desiderabile una minore reticenza a proposito dell’ auten­tica truffa inscenata dal governo nazista intorno alla questione dei « volontari » : è curioso fra l ’altro che il Merkes non menzioni neppure la legge del 18 feb­braio 1937 con la quale il governo tede­sco, recitando la commedia degli ingan­ni, proibiva ai cittadini tedeschi di parte­cipare alla guerra di Spagna, mentre con­

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temporaneamente allestiva uomini e mez- zi per l’intervento organizzato! Sono al­tresì ricostruite le fasi del riconoscimento diplomatico di Franco da parte nazista (che ebbe luogo il 18 novembre 1936 a quattro mesi dall’inizio dell’ intervento armato), le vicende della rappresentanza diplomatica tedesca negli anni della guer­ra civile e infine la politica tedesca nel Comitato per il non intervento, del quale risulta confermata la tattica dilatoria, che mentre bloccò gli aiuti a favore della Spagna repubblicana non impedì invece l’ intervento dell’Asse a favore dei nazio­nalisti, senza il quale Franco non avreb­be potuto vincere la partita.

Proprio per questa fondamentale con­siderazione è inaccettabile, oltre tutto, la conclusione del Merkes secondo cui la politica di non intervento non ebbe in­fluenza decisiva sulle sorti del conflitto « in quanto i sostenitori delle due parti spagnole ebbero abbondanti occasioni per aggirarla » (p. 168) : affermazione, questa, che capovolge il pur reticente riconosci­mento dell'ostruzionismo italo - tedesco nel Comitato del non intervento (p. 125) e che comunque non risponde ad una va­lutazione realistica del peso degli aiuti che ricevettero le due parti in lotta. E d ’altra parte non afferma lo stesso M. che l’ aiuto italo-tedesco fu per Franco decisivo, sia militarmente che politica- mente, anche se non per questo egli si trasformò in passivo strumento dell’A s­se (p. 170)?

La parte relativamente più nuova della ricerca del Merkes è senza dubbio quella dedicata ai rapporti economici ispano-tedeschi, che consentono di fare ulteriore luce sui moventi dell’intervento dell’Asse e specificamente di quello te­desco, al quale non furono probabilmente estranee preoccupazioni concorrenziali nei confronti dello stesso fascismo ita­liano. La storia delle società HlSMA (con sede a Siviglia) e Rowak (con sede a Berlino), investite del monopolio rispet­tivamente delle importazioni del Reich dalla Spagna e delle esportazioni tede­sche in Spagna, è estremamente elo­quente nel definire l’ importanza che la economia spagnola (soprattutto il rifor­nimento di materie prime) aveva per il riarmo tedesco e nel sottolineare quin­di uno dei principali motivi d ’ interesse politico dell'intervento tedesco. In de­finitiva, proprio alle concessioni eco­nomiche accordate dalla Spagna fu su­bordinata la garanzia e la continuità

dell’aiuto tecnico e militare tedesco: « La H isma ricevette da Franco, che all’inizio del 1937 aveva posto a disposizione del governo l’intera produ­zione mineraria del territorio nazionale e i proventi in divise da essa derivanti, la garanzia scritta che le sarebbe stato concesso lo sfruttamento del 60 per cento del territorio del Rio-Tinto » (p. 84). Le concessioni economiche in cambio del­l’aiuto militare del Reich, meno ingente quantitativamente di quello italiano ma più importante qualitativamente per l’ad­destramento delle forze nazionaliste, cul­minarono nella creazione di cinque so­cietà con partecipazione di capitali tede­schi superiore al 40 per cento, laddove le leggi spagnole prevedevano in origine una quota di partecipazioni straniere ai diritti minerari non superiore al 25 per cento, e di una società interamente tede­sca per lo sfruttamento minerario. del Marocco spagnolo (si v. soprattutto alle pp. 13 1 e 149). In tal modo la Germania mirava a garantirsi anche contro i peri­coli della concorrenza inglese nell’ econo­mia spagnola.

Omettendo di insistere su altri detta­gli, preferiamo soffermarci su alcune delle conclusioni che l’A . trae al termine del suo studio, in quanto esse confermano singolarmente le osservazioni già in pre­cedenza anticipate sullo spirito con il qua­le è stata condotta la ricerca.

1) Anzitutto non ci sembra accettabile la proposta di assumere come termine de­cisivo dell’ intervento tedesco la data del riconoscimento diplomatico piuttosto che quella del 25 luglio 1936, giorno in cui fu­rono effettuati i primi trasporti aerei per conto di Franco (p. 169). Perchè mai? D ’accordo che il riconoscimento diploma­tico rese irrevocabile la politica di solida­rietà con Franco, ma oggi possiamo af­fermare con sufficiente tranquillità che il riconoscimento diplomatico non fu che un secondo momento dell’intervento te­desco, la cui prima fase fu di carattere militare perchè di natura militare erano i problemi che doveva risolvere Franco per consolidare la testa di ponte nella penisola iberica.

2) Si può convenire con il M. che per la Germania i vantaggi economici e poli­tici dell’intervento furono di gran lunga più rilevanti di quelli militari, anche se non bisogna trascurare l'importanza del­l’ impresa ai fini dell’addestramento mili­tare e del collaudo di alcuni reparti

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scelti della Wehrmacht. Ma è veramente grottesco scrivere che « i documenti di­mostrano che il governo tedesco non fece alcun tentativo di ingerirsi nella situa­zione interna spagnola o di imporre agli spagnoli il nazionalsocialismo » (p. 171). Come se a smentire tutto ciò non ba­stasse il fatto che l'intervento dell’Asse sia stato decisivo per imporre al popolo spgnolo la dittatura franchista e per precludergli quindi una diversa alterna­tiva di regime! Certo, c’è da supporre che il M. non abbia trovato scritte que­ste cose negli atti del Ministero degli esteri tedesco, ma chiunque si applichi a studiare la storia con un minimo di intelligenza e di sensibilità politica do­vrebbe essere in grado di evitare di scri­vere banalità del genere, a meno che non sia indotto a farlo da altre meno disinteressate ragioni.

3) 11 terzo e ultimo punto che ci inte­ressa sottolineare è l’affermazione che « come l’occupazione della Renania nep­pure l ’intervento nella guerra civile spa­gnola incontrò il plauso del Ministero degli esteri e della Wehrmacht » (p. 176). Sulla tendenziosità di questa affermazione non è certo il caso di insistere: la rife­riamo tuttavia perchè è estremamente sintomatica dello spirito mistificatorio del libro.

Enzo Collotti

Charles F. D elzell, Mussolini’ s Ene­mies : the Italian Anti-Fascist Resi­stance, Princeton University Press,Princeton, New ersey, 1961, pp.XIX - 620, dollari 12,50.

Questa prima analisi completa dell'an­tifascismo è opera di uno storico ameri­cano, Charles F. Delzell, il quale, dopo essere stato in Italia durante la guerra con l’esercito del suo paese, vi ritornò in seguito in veste di studioso, tra l'altro frequentando l’Istituto per gli Studi Sto­rici di Napoli. 11 risultato di quelle inda­gini, proseguite poi in America e con­dotte su una grande quantità di mate­riale, è appunto questo impegnativo vo­lume in cui il Delzell, convinto del pro­fondo legame tra la Resistenza e l’opera iniziata oltre vent’anni prima dagli op­positori del fascismo, ha voluto abbrac­ciare per Ja prima volta in un unico sguardo l’attività degli antifascisti ita­liani dall’avvento del regime alla sua dissoluzione ed alla Liberazione.

Un’opera d’ insieme come è questa

non si propone evidentemente di risol­vere i molti problemi non ancora chiariti

neppure di svolgere analisi particola­reggiate su questo o quell’episodio. Il Delzell infatti, utilizzando un gran nu­mero di opere storiche e documentarie, cerca di offrire al lettore una sintesi effi­cace, il più possibile informata, che met­ta a disposizione del pubblico i risultati comunemente accettati dalla storiografia. Egli indica così dapprima le principali forze che animarono l’opposizione al fascismo all’ interno ed all’estero durante gli anni del regime, mostrandone il ca­rattere, spiegandone gli atteggiamenti, illustrandone i legami e le differenze: e analizza quindi in modo più particola­reggiato come quelle forze siano conflui­te nella Resistenza, chiarendo il diverso carattere dei vari gruppi e partiti che la animarono, nel più vasto quadro della situazione militare ed internazionale del tempo.

Pur distinguendo assai opportuna­mente tra i vari gruppi antifascisti du­rante il regime, il Delzell dimostra di considerare l ’attività delle opposizioni in modo sostanzialmente unitario, come ri­sulta ad esempio dalla sua valutazione dell’opera dei fuorusciti, dato che al giu­dizio limitativo di Croce egli contrappone la posizione assunta dal Garosci, ricono­scendo con lui l’ impossibilità di operare una netta distinzione tra antifascismo all’estero ed antifascismo all’ interno, v i­sto anche il confluire di entrambi, a par­tire dal 1943, nella Resistenza (pp. 44-45). Il Delzell riesce così a collegare l’attività degli antifascisti rimasti in Italia a quella dei fuorusciti, di cui mette in risalto l’opera così importante, seppur lenta e difficile, volta a far conoscere il vero carattere del regime agli stranieri, spesso ammiratori del modo con cui il fascismo aveva saputo riportare l’ordine in Italia; mentre anche all’interno la loro attività contribuì, nota il Delzell, quanto meno a creare un particolare clima i cui risul­tati non mancarono di farsi sentire nel ’42 - ’43 (p. 45).

La necessità di riassumere un numero notevolissimo di episodi, ricordando i no­mi ed i fatti più significativi, ha proba­bilmente costretto il Delzell a dare a questa prima parte del suo studio — l'esame dell’opera degli antifascisti dal 1924 al 1943 — un carattere alquanto sommario riscontrabile particolarmente nel primo capitolo, dedicato alle vicende delle opposizioni dall’avvento di Musso­

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lini alle leggi speciali del ’26, ma pre­sente anche nelle pagine successive, tendenti a fissare in modo forse un po’ troppo schematico le caratteri­stiche e le attività dei vari gruppi, senza riuscire ad animare del tutto quel quadro che pure è delineato con sicurezza. Una critica, questa, che non infirma la sostanziale validità dell’opera, soprattutto qualora si tenga presente il carattere del libro, definito dall'autore stesso una ” cronistoria ” (p. XII), utile cioè come punto di parten­za per indagini ulteriori, ovvero per fornire una prima informazione su un periodo così complesso.

Anche nella seconda parte del vo­lume, dedicata allo studio delle vicende tra il 1943 ed il 1945, in cui pure l’esame di fatti ed episodi è svolto con notevole minuzia, prevale questo mede­simo tono espositivo sicché il Delzell preferisce talvolta sorvolare su problemi che forse avrebbero meritato una inda­gine più attenta, limitandosi a pochi cenni e rimandando per una più appro­fondita analisi a ricerche italiane e stra­niere più specializzate.

Malgrado questi limiti, bisogna però riconoscere al Delzell il merito di aver saputo esporre la sua materia con note­vole chiarezza, particolarmente in questa seconda parte del libro, cui ha indubbia­mente giovato Ja volontà dell’autore di allargare il suo esame alla considerazione più generale delle vicende italiane, insi­stendo in modo speciale sulla complessa questione dei rapporti tra gli Alleati e la Resistenza.

Appunto l’esame dell'atteggiamento alleato nei confronti del movimento di liberazione, condotto sulla base delle ope­re storiche e documentarie di lingua in­glese, è tra le parti più riuscite del volu­me, non tanto come contributo nuovo ed originale per una più completa chia­rificazione della questione, quanto come utile compendio dei più attendibili ri­sultati sinora raggiunti, per indicare, al di là delle polemiche contingenti, spesso comprensibili, ma tuttavia troppo par­ziali, le cause effettive che determinarono l’atteggiamento degli Alleati nei confronti non soltanto del movimento partigiano, ma della più complessa situazione italiana.

L ’esame delle posizioni assunte dai governi alleati serve al Delzell per met­tere in risalto le differenze tra gli atteg­giamenti inglesi, più decisamente conser­vatori ed ostili a qualsiasi mutamento

nell’ordinamento italiano, e quelli meno rigidi degli americani, ricordando a que­sto proposito come Roosevelt fosse por­tato a sostenere tesi più favorevoli nei nostri confronti anche dalla preoccupa­zione di assicurarsi i voti degli italo-ame- ricani nelle imminenti elezioni (p. 396).

Muovendo da alcune osservazioni di Parri, il Delzell riconosce giustamente l ’estrema varietà della politica alleata verso la Resistenza (p. 451), mostrando l’ ispirazione conservatrice, specie ingle­se, che l’animava, ad esempio coll’ap­poggio prestato alla monarchia (pp. 322- 323), impedendo la formazione del corpo di volontari del generale Pavone (p. 310), ostacolando poi il primo governo Bonomi, appoggiato invece dagli americani (pp. 391-392), spalleggiando in seguito Bono­mi, contro la proposta, sostenuta dai socialisti e dai rappresentanti del Par­tito d ’Azione, di un ministero presieduto da Sforza, aspramente osteggiato da Churchill (p. 461).

Siffatte preoccupazioni, nota il Del- zeli, si manifestarono nell’ atteggiamento diffidente e spesso negativo assunto nei confronti della resistenza partigiana, data la volontà iniziale alleata di limitarne l’attività a compiti marginali di spionag­gio e sabotaggio, escludendone dapprima la costituzione in armata, e rivendicando poi l’assoluto controllo della iniziativa militare, anche quando i rapporti tra gli Alleati e la Resistenza si erano fatti più stretti e quando era ormai avvenuta la unificazione di tutti i combattenti.

D ’altro canto, la mancanza di una chiara valutazione della situazione ita­liana, i cui termini sfuggivano alla maggior parte degli inglesi e degli ame­ricani, se rendeva impossibile l'attuazio­ne di una politica unitaria nei confronti della Resistenza, faceva sì che quei rapporti fossero spesso determinati dalle idee politiche degli ufficiali alleati incari­cati dei collegamenti, magari disposti a favorire i gruppi più vicini alle loro posi­zioni, ovvero a sostenere gli interessi delle formazioni che essi conoscevano meglio, senza una visione più generale dei problemi (p. 365).

In ogni caso a tale mancanza di com­prensione del significato e del carattere della Resistenza, nonché alle preoccupa­zioni conservatrici ed anticomuniste, che l'insurrezione greca dell’E LA S dell'au­tunno del ’44 rese più forti, specie tra gli inglesi, ed alla incapacità di in­serire il movimento partigiano italiano

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in un più vasto disegno delle operazioni militari in Italia, il D. aggiunge le obiet­tive difficoltà, d ’ordine militare e stra­tegico, che pure devono essere tenute presenti e che spesso, di fatto, determi­narono l’azione alleata in Italia, più an­cora delle indubbie preoccupazioni di conservazione politica.

Ad un’analisi così attenta dei rapporti tra gli Alleati ed il movimento di libe­razione italiano fa riscontro una analoga cura nella esposizione delle principali vi­cende della Resistenza, ricordando nomi ed episodi di maggior rilievo, precisando, nei limiti del possibile, il carattere delle varie formazioni, indicando le forze po­litiche, in modo particolare PCI e P d’A che le dirigevano, collegando le iniziative del primo, quali l’appoggio dato al go­verno Badoglio (p. 338) e l ’adesione al secondo ministero Bonomi (p. 461), alla situazione internazionale ed alle esigenze sovietiche.

Per quel che riguarda una valutazione più propriamente politica della Resisten­za, il Delzell, dopo averne riconosciuto gli indubbi successi militari, ammessi anche dagli Alleati, e dopo aver ricor­dato quanto l’opera della Resistenza fosse servita da un lato a ridare dignità alla nazione e dall’altro ad ottenere dagli Alleati un trattamento più favorevole di quello che ci si poteva aspettare nel settembre del ’43 (p. 551), mostra come a tali risultati non abbia corrisposto quel rinnovamento completo della vita pubbli­ca italiana auspicato dalle sinistre, visto il prevalere delle forze moderate, demo- cristiane e liberali, che consentì ai grup­pi già compromessi col fascismo di conser' vare le loro posizioni di privilegio econo­mico e politico (p. 555), determinando la successiva involuzione della vita po­litica italiana.

Enrico D ecleva

A. J. P. T aylor, Le origini della secondaguerra mondiale, Laterza, Bari, 1961,pp. 418, L . 2.500.

L ’affermazione più brillante del T ., e in fondo la vera giustificazione di questo volume, si trova nelle parole che lo con­cludono: « Nel 1941 (Hitler) attaccò la Russia sovietica e dichiarò guerra agli Stati Uniti, due potenze mondiali che chiedevano solo d ’essere lasciate in pace. In tal modo cominciò una vera guerra mondiale, nella cui ombra noi ancora viviamo. La guerra che scoppiò nel 1939

è diventata invece materia di curiosità storica ».

La scoperta essenziale del T ., insom­ma, è di aver distinto, in quel complesso di fenomeni abitualmente indicato col nome di seconda guerra mondiale, due filoni, dei quali uno, storicamente ricco di conseguenze, consiste nell’ entrata in gioco dell’Unione Sovietica e degli Stati Uniti, mentre l’altro si riduce ad una serie di mosse e contromosse diplomati­che, tutto sommato abbastanza ridicole, aventi come protagoniste la Francia e la Gran Bretagna, come scena l’Europa (in un senso piuttosto ristretto) e come posta il mantenimento o l’annullamento del « sistema di Versailles ». Avvertiamo su­bito che del primo filone (cioè quello importante) il T . non parla: solo nel­l’ultima pagina apprendiamo che Hitler fece la guerra anche all’Unione Sovietica e agli Stati Uniti, e, incidentalmente, lo storico ci comunica che non fu una cosa trascurabile. La sua attenzione, invece, è tutta concentrata sul secondo filone, quello che è materia di « curiosità » sto­rica. L ’originalità del lavoro, a sua volta, consiste nell’ aver inserito il fenomeno Hitler non nel primo, ma nel secondo filone: lungi dall’esser stato un demonio accarezzante un folle sogno di domina­zione mondiale, il dittatore del Terzo Reich non sarebbe stato che un piccolo Bismarck, con obbiettivi limitati e, solo, una certa abilità nel gioco rischioso di condurre tutte le trattative sempre sul limite della guerra, finché l’ostinazione (il T . dice apertamente la malaccortezza) di uno dei suoi avversari (nella fattispecie i polacchi) lo costrinse a « vedere » (nel senso che si dà a questo termine nel gioco del poker). In sostanza, la supe­riorità di Hitler sui suoi avversari (au­striaci, cechi e polacchi, in primo piano, ma, dietro ad essi, inglesi e francesi) sarebbe consistita nel dichiararsi sempre disposto ad andare fino in fondo, cioè alla guerra, mentre i suoi avversari sape­vano di doversi fermare prima. Chi ha visto il film Gioventù bruciata (Rebel without a cause) ricorderà probabilmente il « gioco del coniglio » : due giovani sa­livano su due vecchie macchine e le lan­ciavano a tutta velocità verso un preci­pizio: chi abbandonava la macchina per primo aveva perso. Hitler avrebbe fatto qualcosa di simile: solo che i polacchi, per orgoglio, per insipienza politica, per errore di calcolo, preferirono gettarsi nel precipizio, e Hitler, che non poteva but-

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tarsi dalla macchina prima di loro, do­vette seguirveli. Hitler sarebbe dunque stato un bluffista? Attenzione, questo il T . non lo dice : Hitler era sicuro di vincere sempre a questo gioco perchè, a differenza degli altri, non escludeva la guerra dall’ambito delle possibilità. Però non è vero che volesse provocarla; anzi, per ]ui, il vertice dell’arte sarebbe consi­stito nell’ottenere sempre ciò che deside­rava senza dovervi ricorrere. Il proble­ma, ovviamente, è di sapere che cosa Hitler desiderasse, poiché, se fosse vera la tesi che egli si sarebbe arrestato solo dopo che l’ intero mondo fosse stato in­corporato nel Terzo Reich, cadrebbe ogni ipotesi particolare sulle cause della guerra: è evidente, infatti, che egliavrebbe prima o poi trovato qualcuno disposto a resistergli; questo non avrebbe escluso a priori la possibilità che Hitler vincesse anche la competizione finale, ma avrebbe comunque escluso quella che la vincesse senza colpo ferire, come sarebbe stato nelle sue intenzioni. Bisogna dire che il T . supera brillantemente anche questa seconda obiezione, escludendo che Hitler non avesse un termine, raggiunto il quale si sarebbe fermato: secondo lui, Hitler non avrebbe avuto altro obbiettivo che la distruzione del « sistema di V er­sailles»: quando fosse riuscito ad otte­nere la « revisione » completa di tutte le clausole che avevano fatto della Germa­nia una nazione « umiliata e offesa », si sarebbe probabilmente fermato. Ora, Danzica e il corridoio polacco erano pra­ticamente le sole cose che ancora nel ’ 39 restassero da « revisionare » : perciò non è vero che ogni soluzione tipo Mo­naco non facesse che rimandare di sei mesi un problema intrinsecamente inso­lubile, e cioè quello dell’insaziabile appe­tito germanico: al contrario, è probabile che Hitler, se avesse avuto soddisfazione anche su Danzica, sarebbe poi rimasto tranquillo per un bel po’ . T ., dunque, non giunge a dire che la guerra scoppiò per caso (formula nella quale è stata polemicamente riassunta la sua tesi, in seguito alla controversia scoppiata in In­ghilterra fra lui e altri insigni storici, primo fra tutti il Trevor-Roper), ma, più precisamente, che, per un disgrazia­to complesso di circostanze, essa scoppiò proprio quando potevano esserci ragione­voli probabilità di scongiurarla definiti­vamente. La prova del nove di questa affermazione sarebbe data dalla relativa impreparazione dell'esercito germanico: l’ esercito germanico era preparato in e-

stensione, non in profondità, ossia era pronto ad essere brillantemente impie­gato per dei blitz, ma non a sostenere una guerra mondiale, necessariamente lunga. Effettivamente, si può dire che i tedeschi, nella seconda guerra mondiale, passarono di vittoria in vittoria dovun­que poterono attuare la strategia del blitz, e alla fine furono sconfitti proprio perchè la guerra diventò una guerra di logoramento. Ma la guerra diventò una guerra di logoramento anche perchè H i­tler vi coinvolse gli Stati Uniti e l’Unio­ne Sovietica, « due potenze mondiali che chiedevano solo di essere lasciate in pace », dice il Taylor. Ma anche due potenze mondiali che si erano escluse dal « sistema di Versailles » : perchè,allora, Hitler le attaccò? Questo il T . non lo dice, e, secondo noi, questo è il difetto principale della sua opera: per­chè, se Hitler, alla fin fine, se la prese anche con due paesi che non facevano parte del sistema di Versailles, questo, ci sembra, avvalora l’ ipotesi che gli scopi del piccolo Bismark andassero forse un po’ al di là della semplice revisione di Versailles.

11 fatto di aver messo in luce i lati negativi dell’opera del Taylor non ci esime, anzi, ci obbliga a sottolinearne anche quelli positivi. Taylor non è pro­priamente un fautore de\V appeasement. L ’unica volta che ne dà un giudizio espli­cito (pp. 403-404), egli dice: « S i discu­terà a lungo se sarebbe stato possibile evitare questa nuova guerra usando maggior fermezza o maggior spirito di conciliazione; e non si troverà mai ri­sposta a queste congetture. Forse sia l’uno che l’altro atteggiamento avrebbe portato allo scopo, se fosse stato seguito con costanza; ma il miscuglio dell’uno e dell’ altro, cui si attenne il governo bri­tannico, era il più adatto a fallire ». Tuttavia, se si considera il punto di par­tenza, e cioè la sostanziale iniquità di Versailles, è implicito nella sua tesi il giudizio che la posizione morale della Gran Bretagna e della Francia non era tale da consentir loro una guerra per impedire VAnschluss o per difendere la Cecoslovacchia, come, a maggior ragio­ne, non avrebbe consentito neppure una guerra per Danzica. Il sistema di Versailles si fondava, ufficialmente, sul principio delle nazionalità e su quello di autodeterminazione dei popoli: in tutti i casus belli citati questi principi gioca­vano a favore della Germania. Certo, si può dire che non furono gli abitanti di

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Praga a chiedere l ’intervento tedesco, ma è anche vero che non si può com­battere per l’indipendenza di un popolo quando esso, per primo, si rifiuta di combattere. 1 polacchi, almeno, presero le armi contro Hitler: disgraziatamente, Danzica era senza ombra di dubbio una città tedesca, non polacca.

L ’affermazione più giusta che si trovi nel T . è che coloro che volevano la guerra contro Hitler la volevano in odio alla politica interna di Hitler, e non alla sua politica estera: erano le SS, erano i campi di concentramento, erano la Ge­stapo, e J.e torture, e il razzismo, e il genocidio, e l’ annientamento della perso­na umana ciò che muoveva contro Hitler la sinistra europea, e non le sue beghe di frontiera coi governi mezzo fascisti d ’Austria e di Cecoslovacchia, o con quel­lo polacco, che lo era del tutto. Si era contro Hitler per ciò che egli era, non per ciò che poteva o non poteva fare in un determinato momento.

La seconda osservazione, che non bi­sogna dimenticare, è che Hitler basò le sue fortune sull’isolamento dei beneficia­ri dell’ordine di Versailles. La Francia e la Gran Bretagna avevano prevalso nella prima guerra mondiale non solo per le loro capacità di resistenza, ma anche per l ’appoggio determinante di altri paesi: esse non erano quindi intrinsecamente superiori — nè come numero nè come mezzi —- alla Germania. La loro forza stava nell’ isolamento diplomatico della Germania, mentre esse avevano potuto mobilitare dietro a sè il resto del mon­do. Nei vent’anni tra la prima e la se­conda guerra mondiale Francia e Gran Bretagna si comportarono in modo da capovolgere la situazione. E ’ vero che gli Stati Uniti si erano auto-esclusi dal gio­co, è vero che l'Italia era passata dal­l ’altra parte per motivi che in parte esu­lavano dalle possibilità di manovra dei suoi ex-alleati, ma restava un paese, sul piano strategico certo più importante del- l'Italia e, anche in quel momento, non tanto inferiore agli Stati U niti: questo paese era l’Unione Sovietica. E ’ merito del T . l’aver fatto ampia luce sull’osti­nazione con la quale la Gran Bretagna e la Francia, ma più ancora la prima che la seconda, respinsero in quel periodo tutte le avances del governo di Mosca, anche se egli esclude che tale comportamento sia stato dettato da cieco anticomunismo. In tal modo la Francia e la Gran Breta­gna si attribuirono una parte da cane da

guardia dell’ordine europeo che non era­no assolutamente all’altezza di svolgere.

Infine, merito non piccolo del T . è l’ aver individuato nel fallimento dell’or­dine di Versailles la fine dell’Europa del­le potenze. La Germania avrebbe liqui­dato qualsiasi altra potenza europea: a sua volta, però, essa fu liquidata da po­tenze in certo modo extraeuropee: la se­conda guerra mondiale mostrò con tutta evidenza che l’Europa aveva cessato di essere il centro del mondo per diventare soltanto il campo di battaglia di potenze che lottavano per una posta di cui l’Eu­ropa era solo una parte. Ma la prima guerra mondiale non aveva forse già ri­velato la stessa verità? Anche allora, in fondo, i vincitori erano stati tali solo dopo l’ intervento decisivo degli Stati Uniti. In definitiva, non si può non convenire con la conclusione del T . che la causa prima défia seconda guerra mondiale (o meglio, per dirla col suo linguaggio, della guerra che scoppiò il i° settembre 1939 fra Ger­mania, Francia e Gran Bretagna) risiede nel fatto che la classe politica delle po­tenze interessate non aveva saputo com­prendere la lezione della prima. L ’era delle nazionalità era giunta al suo apo­geo teorico quando già la nazione era diventata un concetto privo di significato pratico; ancora immatura per una poli­tica veramente «mondiale», l’Europa era già troppo debole per permettersi il lus­so di una guerra esclusivamente europea.

A ldo G iobbio

il processone, a cura di Domenico Zu-càro, Editori Riuniti, Roma, 1961,pp. 274, L . 1000.

Continuando nel suo lodevole lavoro di ricerca storica, Domenico Zucàro offre ora all’ attenzione del pubblico italiano la cronistoria del processo intentato dal T ri­bunale Speciale contro Gramsci ed altri ventuno dirigenti comunisti.

Il libro è praticamente diviso in due parti. La prima parte consiste nella intro­duzione redatta dallo Zucàro e nella qua­le è tracciato un quadro generale dell’ a­zione repressiva svolta dal governo fasci­sta contro il Partito Comunista fino al novembre 1926. La seconda parte racco­glie il maggior numero dei documenti inerenti al processo, intercalati da note opportune che facilitano la comprensione della complessa vicenda giudiziaria. Una breve conclusione, infine, pone in luce la

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direttiva politica che animò i comunisti italiani durante il processo e dopo la sua sentenza finale.

Diremo subito che la parte più inte­ressante del libro è data proprio dalla raccolta dei documenti processuali, attra­verso la lettura dei quali è possibile avere un quadro molto chiaro non solo dell’episodio particolare, cioè il processo al gruppo dirigente comunista, ma anche della situazione politica del momento e della eroica battaglia politica condotta daH’estrema sinistra in quel periodo.

Quello che colpisce maggiormente è la tenacia e la coerenza con cui il fasci­smo cercò con tutti i mezzi che gli erano consentiti di colpire, attraverso i comu­nisti, la resistenza antifascista dei lavora­tori italiani. Lo Zucàro fa giustamente notare che scopo di Mussolini era di avere il ” suo ” Tribunale e quindi la possibilità di mandare in galera i comu­nisti come e quando avesse voluto. Per la verità, le sentenze del nuovo organi­smo giuridico non colpirono tanto gli altri partiti quanto il Partito Comunista. Non si può certo dimenticare tale realtà, generalmente nota, quando si leggono i documenti del ” processone ” . C ’è sem­pre da parte delle Autorità inquirenti, la cura di sottolineare che l’attività dei co­munisti si dirige non solo contro il fa­scismo ma anche contro i partiti e le isti­tuzioni della borghesia, quasi a ricordare che non sono questi partiti e queste isti­tuzioni che il fascismo intende combat­tere. Nella lettera che il giudice militare Enrico Macis inviò il 12 marzo 1927 a tutte le questure del Regno sono richie­ste informazioni particolareggiate sulla diffusione, da parte dei comunisti, di « ... manifesti, opuscoli, giornali, stampa­ti alla macchia e incitanti a combattere con le armi i partiti borghesi ed in spe­cie il PN F, all’odio di olasse, alla disob­bedienza alle leggi... » (p. 103). Ritro­viamo ancora questo elemento nel man­dato di cattura emesso il 20 maggio 1927 contro i dirigenti comunisti, che sono im­putati di aver svolto « . . . propaganda violenta fra le masse... per indurle a combattere con le armi le classi borghesi e il PN F... » (p. 120).

Al contrario, tutte le informazioni in­viate dalle varie Questure al giudice Ma­cis smentiscono il rinvenimento di depo­siti di armi organizzati dai comunisti. Il Questore di Milano afferma che « quan­tunque non risulti in modo certo che le organizzazioni comuniste in questa circo­

scrizione fossero fornite di armi, per notizie confidenziali, si vuole però che il Partito Comunista ne abbia depositi clandestini » (pag. 149). E il Questore di Torino: «N on è invece risultato, alla stregua dei dati emergenti dagli atti, che sia stata fatta dal PCI opera di spionaggio militare o politico... Non è parimenti sta­to accertato che il PCI abbia qui costitui­to depositi clandestini di armi o muni­zioni » (pp. 152-153). E il Questore di Trieste: «Non consta che in questa pro­vincia il PCI avesse istituito un ufficio di spionaggio militare o politico... Non risulta che detto Partito abbia costituito depositi clandestini di armi e munizioni nella provincia » (pp. 163-166). Dello stesso tenore sono le lettere degli altri Questori.

Analogamente, per altre domande fatte dal Macis le risposte delle Questure sono negative. Eppure questi capi d ’ac­cusa compaiono nel rinvio a giudizio e nella sentenza finale. Il fatto è che, come fece giustamente osservare Terra­cini al Presidente Saporiti, il processo contro i dirigenti comunisti fu unica­mente un processo politico e che pertan­to la colpa di Gramsci e dei suoi com­pagni fu soltanto quella di essere comu­nisti. E ’ facile comprendere quindi come le figure degli imputati balzino vive al confronto di quelle dei loro accusatori. 11 Questore di Trieste, parlando di due noti dirigenti comunisti triestini, Elio Negri e Bortolo Petronio, non può fare a meno di ammettere che sono di rego­lare condotta morale e che non hanno mai avuto precedenti penali (pp. 166- 167). Gramsci, nel suo memoriale, scrive invece come egli, nel carcere milanese, passeggiasse « ... in un cortiletto dove stavano insieme detenuti per reati politi­ci e detenuti imputati di reati comuni, questi ultimi tutti membri del partito fascista » (p. 141).

Il memoriale di Gramsci è pieno di af­fermazioni vivaci e colorite che danno immediatamente l’ idea esatta dei tranelli che gli furono tesi per ottenere prove che la polizia non aveva. La sua prosa è acuta e non priva di ironia, ma a diffe­renza di Terracini, che critica l’operato dell’Autorità inquirente sotto il profilo giuridico, la difesa di Gramsci si svolge sopratutto sul piano politico. Possiamo dire anzi che i memoriali e gli esposti dei singoli imputati si completano reci­procamente, così che dalla loro lettura emerge il quadro delle illegalità commes­

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se dai fascisti pur di poter eliminare la opposizione del PCI. E ' degno di nota il fatto che i detenuti, malgrado i maltrat­tamenti e le privazioni, avessero conser­vato non solo la fede nelle loro idee, ma anche la prontezza nel cogliere le con­traddizioni e i punti deboli dell'accusa loro rivolta. Nel corso del processo, quando gli vengono fatte delle domande a proposito degli scioperi di Modena del 1913 ai quali aveva preso parte, il depu­tato Ferrari risponde: « In verità, Signor Presidente, per i fatti ricordati mi ebbi allora le più alte lodi del direttore del- 1’ "A van ti!” , attuale capo del governo». E l’ avvocato Riboldi, altro deputato, os­servò ironicamente: « Ho difeso più di trecento comunisti che sono stati rite­nuti innocenti e assolti dalla magistratu­ra. Non comprendo perchè oggi debba essere condannato io, solo per averli di­fesi » (p. 184).

Il libro dello Zucàro ha quindi il merito di far conoscere una parte della lotta antifascista che è poco nota. Tutta­via avremmo gradito maggiori notizie sulla battaglia parlamentare dei deputati comunisti durante il periodo dell’ Aven- tino, nella prima parte, e delle note più numerose che permettessero di afferrare subito le contraddizioni di cui abbiamo parlato, nella seconda parte.

C 'è infine una realtà che caratterizza i documenti processuali anche se non ap­pare esplicitamente. Si tratta non solo della ignoranza dei fascisti — e in propo­sito vale la pena di ricordare l’episodio dei poliziotti che cercavano le ” cellule ” nelle valigie di Germanetto, non sapendo bene essi stessi cosa fossero queste be­nedette ” cellule " 1 — ma anche della completa mancanza in loro di una ideolo­gia degna di tale nome. Non avendo quindi una vera teoria il fascismo ebbe solo la pratica del manganello e della violenza e questo spiega il carattere pu­ramente strumentale e privo di ogni giu­stificazione giuridica e costituzionale che hanno i documenti riportati nel libro dello Zucàro. Tale considerazione è di grande importanza, anche se non appare a un esame immediato, perchè, sotto questo punto di vista, il ” processone " rappresentò non soltanto un duro colpo al PCI e quindi alle forze antifasciste, ma anche una prova di debolezza del regime.

In realtà, è solo sulla base di questa premessa critica che è possibile compren­dere come la generazione nata sotto il fa­

scismo finì col diventare largamente anti­fascista. Il ” processone ” è la consacra­zione del fascismo quale movimento pri­vo di ideali e di ideologia. Da questo elemento partiranno i giovani fascisti per la loro critica al regime, anche se, ovvia­mente, ignoreranno l'azione e l’opera di Gramsci e dei suoi compagni. La ricerca di nuovi valori ideali, di una maggiore libertà di critica nella cultura, nella poli­tica e nella vita pubblica, la lotta contro la vuota demagogia, contro la corruzione, contro le illegalità, saranno i punti di partenza della loro rivolta morale. Ci sembra utile, per una maggiore com­prensione dell’argomento, riportare i passi più salienti di due articoli pubbli­cati nel 1941 dal periodico del GUF bo­lognese:

n Eppure, se noi interroghiamo la no­stra coscienza, dobbiamo confessare che talvolta abbiamo taciuto, impediti da for­ze superiori, abbiamo dovuto rinunciare a pubblicare accuse suffragate da precisi fatti. Rinunce dolorose, soprattutto per un giovane che si vede tagliato fuori da qualche eminenza grigia. Abbiamo potuto constatare che oltre un dato limite non si andava, che vi era una vera ” masso­neria dell’ interesse ” pronta a stroncare qualsiasi tentativo di evasione da una de­terminata sfera » (” Il coraggio della ve­rità ” su Architrave, Anno II, n. 9).

« Negli anni successivi al 1930 fu pro­spettata ai giovani la possibilità di trat­tare molto liberamente tutti i problemi. I primi Convegni e i primi Littoriali furo­no caratterizzati da entusiasmo e da posi­tiva critica, da continua ricerca di intui­zioni e di valori. Si formò naturalmente una minoranza che fece propri quei pro­blemi. Apertamente, sinceramente cre­dette. Visse pure una specie di adatta­mento, perchè convinta che molte sfasa­ture e squilibri non sarebbero durati a lungo e anche perchè il buon senso diceva che un palazzo non si costruisce in un giorno. Ma poi lentamente si insi­nuò il sospetto che di essa e dei giovani ci si volesse servire » (’ ’ Servire e ser­virsi ” su Architrave, Anno II, n. 11).

Su tale strada questi giovani non tar­deranno ad incontrarsi con i vecchi com­battenti antifascisti e con i comunisti condannati dal Tribunale Speciale, e la loro conquista alla lotta contro la so­stanza del regime sarà allora immediata. Ed è questo un elemento storico di pri­maria importanza che non è assoluta- mente possibile dimenticare.

G iorgio Caputo