Grande Guerra e crisi del regime liberale. - dispi.unisi.it · consideriamo che l’Austia Ungheria...

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Grande Guerra e crisi del regime liberale. Non possiamo soffermarci sull'Italia e la Grande Guerra, sebbene il tema sia di grande interesse. Dobbiamo però necessariamente mettere in chiaro alcuni punti. Innanzitutto che la Prima guerra mondiale a livello europeo costituisce un vero e proprio trauma, un evento che non aveva avuto precedenti e che muta definitivamente il volto dell'Europa. A livello di relazioni internazionali e di rapporti tra gli stati essa è il punto di arrivo di un percorso che parte dal 1870, quando ha avvio la politica di potenza, quando nasce l'Impero tedesco e la Francia è ferita nel principio di nazionalità. É in questa fase che prende avvio una politica estera basata non sul principio di nazionalità ma sulla rivendicazione nazionalistica, il che è molto differente: ricordiamo il principio altruistico della nazionalità, alla maniera mazziniana e manciniana (Pasquale Stanislao Mancini), che presuppone il fatto che tutte le nazionalità siano libere, sovrane, indipendenti, mentre il nazionalismo presuppone invece la prevaricazione di una nazione sull'altra, cioè il principio della forza allo stato puro, la forza senza il diritto. Brevemente, possiamo accennare al fatto che l'Italia arriva al conflitto sulla base del Patto di Londra, firmato dal nostro ambasciatore a Londra Imperiali di Francavilla nell'aprile del 1915, con il quale l'Italia si pone a fianco delle potenze dell'Intesa: Gran Bretagna e Francia. Questo riaggiustamentodella nostra politica estera dopo la stipulazione della Triplice Alleanza del 1882 parte da lontano, bisogna partire cioè dalla linea tracciata da Visconti Venosta nel 1896 con il famoso colpo di timonepost-crispino, quando inizia un avvicinamento a Francia e Inghilterra. È in questa fase che comincia il riallineamento internazionale dellItalia e ciò per dire che il Patto di Londra del 1915 con il quale si decideva lentrata in guerra dellItalia a fianco delle potenze dellIntesa non viene dal nulla: già nel 1899 uno scambio di lettere V. Venosta-Barrere assicurava lItalia che laccordo anglo-francese del 1899 non avrebbe leso gli interessi italiani nel mediterraneo, intesa che veniva consolidata nel 1902 con gli accordi Prinetti-Barrere di reciproca neutralità in caso di aggressione. È una fase in cui lItalia non rompe la sua alleanza con gli imperi centrali, ma attenua di molto la sua posizione anti-francese.

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Grande Guerra e crisi del regime liberale.

Non possiamo soffermarci sull'Italia e la Grande Guerra, sebbene il tema sia di

grande interesse. Dobbiamo però necessariamente mettere in chiaro alcuni punti.

Innanzitutto che la Prima guerra mondiale a livello europeo costituisce un vero e

proprio trauma, un evento che non aveva avuto precedenti e che muta definitivamente

il volto dell'Europa. A livello di relazioni internazionali e di rapporti tra gli stati essa è

il punto di arrivo di un percorso che parte dal 1870, quando ha avvio la politica di

potenza, quando nasce l'Impero tedesco e la Francia è ferita nel principio di

nazionalità. É in questa fase che prende avvio una politica estera basata non sul

principio di nazionalità ma sulla rivendicazione nazionalistica, il che è molto

differente: ricordiamo il principio altruistico della nazionalità, alla maniera

mazziniana e manciniana (Pasquale Stanislao Mancini), che presuppone il fatto che

tutte le nazionalità siano libere, sovrane, indipendenti, mentre il nazionalismo

presuppone invece la prevaricazione di una nazione sull'altra, cioè il principio della

forza allo stato puro, la forza senza il diritto. Brevemente, possiamo accennare al

fatto che l'Italia arriva al conflitto sulla base del Patto di Londra, firmato dal nostro

ambasciatore a Londra Imperiali di Francavilla nell'aprile del 1915, con il quale

l'Italia si pone a fianco delle potenze dell'Intesa: Gran Bretagna e Francia. Questo

“riaggiustamento” della nostra politica estera dopo la stipulazione della Triplice

Alleanza del 1882 parte da lontano, bisogna partire cioè dalla linea tracciata da

Visconti Venosta nel 1896 con il famoso “colpo di timone” post-crispino, quando

inizia un avvicinamento a Francia e Inghilterra. È in questa fase che comincia il

riallineamento internazionale dell’Italia e ciò per dire che il Patto di Londra del 1915

con il quale si decideva l’entrata in guerra dell’Italia a fianco delle potenze dell’Intesa

non viene dal nulla: già nel 1899 uno scambio di lettere V. Venosta-Barrere

assicurava l’Italia che l’accordo anglo-francese del 1899 non avrebbe leso gli

interessi italiani nel mediterraneo, intesa che veniva consolidata nel 1902 con gli

accordi Prinetti-Barrere di reciproca neutralità in caso di aggressione. È una fase in

cui l’Italia non rompe la sua alleanza con gli imperi centrali, ma attenua di molto la

sua posizione anti-francese.

Nei primi anni del 900 si realizzano tra l'altro le condizioni perchè l'Inghilterra esca

dal suo isolamento (movimentismo navale tedesco, appoggio tedesco ai boeri di

Kruger nella guerra anglo-boera del 1902) e in qualche modo faccia sentire la sua

presenza nel continente, avvicinandosi quindi a Russia e Francia. L’entente cordiale

del 1904 – con la quale la Gran Bretagna riconosceva alla Francia diritti preminenti

sul Marocco costituisce una di queste tappe di avvicinamento, mentre da parte sua la

Francia riconosceva l’occupazione inglese dell’Egitto. La Francia già nell'immediato

post 1870 aveva iniziato una lenta ripresa, ma non aveva mai perso il suo status di

grande potenza.

E’ una fase in cui l’azione italiana senz’altro irrita la Germania, la quale però rimane

passiva e d’altronde la Triplice Alleanza non sembra funzionare perfettamente, se

consideriamo che l’Austia Ungheria aveva proceduto nel 1908 all’annessione della

Bosnia Erzegovina, un atto unilaterale che aveva modificato lo status quo della

regione balcanica stabilito con il congresso di Berlino del 1878. Le conseguenze di

questo fatto non furono irrilevanti, se si considera la reazione della Serbia, che

andava qualificandosi come la nazione leader degli interessi delle popolazioni slave

balcaniche e dietro la Serbia c’era la Russia che invece andava sviluppando un

interesse crescente per quell’area. Al momento del gesto austro-ungarico, l’Italia si

era appellata ad una clausola della Triplice che prevedeva dei compensi in suo favore,

ma il problema dell'Italia era quello delle terre irredente, la soluzione del quale

consigliava di guardare dalla parte opposta a quella dell'impero Austro-Ungarico: con

l’accordo di Racconigi tra Tittoni e Isvolsky del 1909 Italia e Russia arrivavano ad

un’intesa nel contrastare nuove azioni unilaterali dell’Austria-Ungheria nei Balcani e

nel reciproco favore in ordine alle aspirazioni russe sugli Stretti ed a quelle italiane in

Libia, che nel 1912 verrà conquistata con la guerra italo-turca.

Da un punto di vista geo-diplomatico quindi l’area balcanica comincia a configurarsi

come l’epicentro di quello che succederà a breve ed è intuitivo che la guerra italo-

turca non fa altro che rinfocolare le tensioni, perché alimenta le aspirazioni di tutti

quegli stati che vogliono sottrarre all’impero ottomano nuovi territori: di qui le guerre

balcaniche che si aprirono nell’ottobre 1912, in cui l’impero ottomano è sfidato a viso

aperto, e vittoriosamente, da una Lega balcanica composta da Serbia, Bulgaria,

Montenegro e Grecia per la spartizione della Macedonia. Da notare come in generale

in questa fase l’Austria preme affinchè venisse ridimensionata la Serbia ed in questo

senso riesce ad impedirgli uno sbocco al mare grazie anche all’aiuto dell’Italia,

promuovendo la nascita di uno stato autonomo avverso agli slavi meridionali e cioè

l’Albania, una politica antiserba che ebbe come principale effetto quello di aumentare

l’irrendentismo serbo, che poi fu, ricordiamo, la scintilla che fece scoppiare il

conflitto.

Quando dunque l'Italia firma il Patto di Londra guarda ad un solo obiettivo e cioè al

completamento dell'unità territoriale, a ciò che era rimasto incompiuto con il

Risorgimento, alle terre irredente, al predominio nell'Adriatico, all'equilibrio nel

Mediterrano ed anche ad un incremento dei propri possedimenti coloniali.

Da un punto di vista diplomatico e ovviamente per grandi linee sono queste le

premesse del conflitto. Non meno decisivi sui destini dell'Europa furono gli esiti della

pace, che fu stabilita a Versailles nel 1919, ma con una serie di trattati per materie e

aree geografiche. Basta leggersi i giudizi coevi per capire come la pace apparve

subito estremamente difettosa. Un attento osservatore come Nitti, che era successo in

qualità di Presidente del consiglio a Orlando (e Tittoni a Sonnino), nel 1921 in un

saggio intitolato “L'Europa senza pace” giudicava il trattato come un regresso, come

“la negazione di quelli che erano i principi acquisiti dal diritto pubblico”. La guerra

aveva rotto i legami di solidarietà economica e tutti i paesi d'Europa avevano una sola

preoccupazione: difendersi contro la concorrenza della Germania. Per poter pagare le

indennità, la Germania era costretta a produrre ai più bassi costi possibili; per poter

produrre doveva realizzare il massimo dei progressi tecnici, ma esportare a bassi costi

significava danneggiare o distruggere il commercio dei paesi neutrali e anche dei

paesi vincitori. Su questo punto anche Keynes era stato molto chiaro (Le conseguenze

economiche della pace), criticando in particolare la Francia, unicamente interessata,

secondo l'economista, a “riportare l'orologio indietro e a disfare quello che dal 1870

la Germania aveva fatto”, la “politica di un vecchio”, secondo Keynes, con

riferimento a Clemenceau, di uno statista che pensa al passato e non al futuro. E non

a caso Nitti, a proposito dell'Europa di Versailles scriveva di una decadenza e di un

abbrutimento tale da ricordare la caduta dell'Impero romano e soprattutto, scriveva

Nitti, la Grande Guerra aveva avuto questo di caratteristico: non era stata soltanto la

più grande guerra, ma nelle sue conseguenze minacciava di essere una delle peggiori

guerre, perchè il sistema dei trattati aveva diviso l'Europa in due parti: i popoli vinti

sotto il controllo militare ed economico dei vincitori avrebbero dovuto produrre non

solo in rapporto ai loro bisogni, ma per indennizzare chi ha vinto e i popoli vincitori

fino alla liquidazione delle indennità avrebbero dovuto esercitare sui popoli vinti un

controllo militare, ciò che, considerando che un'altra parte d'Europa, e cioè la Russia,

era in fermento rivoluzionario, in sostanza creava uno stato di guerra permanente. Ed

infatti era veramente stupefacente il valore profetico del saggio di Nitti, scritto nel

1921: “L'Europa continentale si prepara a una serie di nuove e più violente guerre di

popoli, che minacciano di far naufragare la civiltà, se non si trova modo di sostituire

agli attuali trattati, basati sul principio che occorre continuare la guerra, un sistema di

accordi che metta vincitori e vinti su un piano di libertà e di uguaglianza”. Il

problema era anche morale: l'Europa abbassava ogni giorno il suo livello morale, per

una politica seguita nei confronti dei vinti che non aveva esempio nella storia

moderna.

Anche l'Italia, vittoriosa in guerra, uscì sconfitta dalla pace, non realizzando a pieno

l'obiettivo sui suoi territori orientali. Ma al di là di questo, vorrei qui parlare delle

conseguenze della guerra sul sistema politico italiano, che furono profonde, così

come d'altronde lo furono a livello europeo. Su questo si è scritto molto, molto si è

scritto sulla funzione palingenetica della Guerra europea: la storiografia italiana è più

o meno concorde nel sostenere che né il crollo dell'Italia liberale, né l'avvento del

fascismo è concepibile a prescindere dai mutamenti provocati dalla Grande Guerra.

Indubbiamente la guerra ha modificato il contesto nel quale i partiti politici si sono

trovati ad operare, ha sconvolto i compiti dei partiti e ne ha rinnovato i modelli. Ma

quali sono questi cambiamenti?

Innanzitutto la modificazione della nozione di massa. In realtà, di dimensione di

massa della politica si può parlare a partire dagli anni Novanta dell'Ottocento, ma ora

diciamo che i concetti di mobilitazione o di propaganda assumono un nuovo

significato. C'è una nuova consapevolezza nei confronti dell'azione collettiva, della

violenza, del pericolo, dell'obbedienza. Un altro binomio sul quale riflettere è quello

di “guerra e rivoluzione”, nel senso che la guerra ha senz'altro contribuito ad

alimentare le passioni rivoluzionarie.

Le modificazioni della guerra sui sistemi politici sono dunque profonde e questo

indipendentemente dallo status di nazione vinta o di nazione vittoriosa, come i casi di

Francia e Italia dimostrano: pensiamo per esempio alle vicende rivoluzionarie del

biennio rosso in Italia o a quelle dei socialisti e sindacalisti francesi più o meno nello

stesso periodo.

Ci sono poi conseguenze profonde sulla tipologia dei partiti: pensiamo alla diffusione

del modello di partito rivoluzionario di Lenin, che in realtà non nasce nel 1917,

perchè è pensato nel 1902. Ma è vero però che il partito bolscevico diventa lo

strumento di una rivoluzione vittoriosa ed il pilastro sui cui poggia uno stato nuovo.

Ciò ha un impatto profondo in campo socialista: i partiti socialisti europei

d'anteguerra avevano parlato di rivoluzione ma non avevano fatto la rivoluzione, ora

devono confrontarsi con un modello vincente, che li costringe ad infiniti ripensamenti

della propria linea, del proprio programma e che produce importanti lacerazioni. In

generale, il modello comunista spinge buona parte del mondo socialista europeo a

conformarsi al modello leninista, basta guardare le adesioni alla III Internazionale,

che è del 1919, o quanto meno ad avvicinarsi a quel modello. E non è da dimenticare

il fatto che il “partito di tipo nuovo” ebbe notevoli conseguenze anche sui partiti

avversari, si pensi agli sforzi organizzativi e di inquadramento delle forze liberali.

Per quanto riguarda il sistema, abbiamo visto come la maggioranza giolittiana tiene

nel 1912-13, ma diciamo che questa data costituisce un punto di non ritorno, l'inizio

di una crisi. Quali i fattori: innanzitutto il variegato mondo liberale in qualche modo

deve corrompersi, e ricorrere al sostegno prima dei socialisti e poi dei cattolici

(critica di Einaudi: non aver dato una risposta liberale alla questione sociale). In

secondo luogo, l'allargamento del suffragio rendeva più complicata l'azione di

sostegno dei candidati filo-governativi da parte delle prefetture. In un sistema di

suffragio allargato, il sostegno prefettizio ai candidati governativi poteva avvenire,

ma ormai soltanto a condizioni imbarazzanti, che esponeva il governo alle critiche

generali dell'opinione pubblica, tanto più che quei meccanismi di mobilitazione

innescati dalla guerra, che accrebbero notevolmente il peso dell'opinione pubblica,

crearono un terreno ancora più favorevole alle critiche anti-giolittiane.

Assolutamente da non sottovalutare sono le divisioni generate in Italia dalla guerra

tra le famiglie politiche al momento della scelta tra neutralità e intervento: i

neutralisti rappresentavano la maggioranza, seguendo Giolitti nella considerazione

che l'Italia non fosse pronta per un conflitto e che essa poteva trarre tutti i vantaggi

possibili mantenendo una posizione di neutralità, cercando di acquisire le terre

irredente senza farsi coinvolgere nella guerra. Nel campo socialista, la sinistra di

classe era contraria alla guerra, così come i riformisti, posizione analoga a quella del

mondo cattolico in ossequio alla linea ufficiale di Benedetto XV che aveva

apertamente condannato la guerra (1° novembre 1914 Ad beatissimi apostolorum

principis cathedram). Anche se in realtà non vi era una opposizione radicale,

giocando infatti fattori di politica internazionale: la gerarchia ufficiale doveva

assumere posizioni di condanna, sia per il rifiuto della guerra in sé, sia perchè sul

fronte degli imperi centrali era schierata una potenza cattolica come l'Austria. D'altra

parte, il fatto che tra le potenze dell'Intesa vi fosse la Francia, il cui governo era

improntato ad uno stretto laicismo, frenava anche la tendenza ad una partecipazione

in quella direzione. Nonostante questo, alcuni settori del mondo cattolico si

mostrarono sensibili all'interesse nazionale ed al riscatto delle terre irredente,

dimostrando come la conciliazione tacita voluta e peseguita da Giolitti stesse in

qualche modo dando dei risultati. Il fronte neutralista era dunque composito, ma

maggioritario e soprattutto le forze popolari, cioè cattolici e socialisti erano contrarie

all'intervento. Quindi la conversione all'intervento del ceto politico liberale, per

volontà del governo Salandra, con il benestare della monarchia, che matura nel 1914,

determinò una frattura politica, culturale e sociale che fece arretrare di molto il

processo di nazionalizzazione delle masse favorito dalla politica giolittiana. Si generò

cioè una frattura, una nuova frattura, tra classe politica e paese reale, una

contrapposizione che fu alla base della incapacità italiana di superare la crisi del

dopoguerra, intesa come crisi di transizione verso una democrazia compiuta, e che fu

base essa stessa sulla quale maturarono tendenze reazionarie ed autoritarie che poi si

consolidarono con la presa di potere del fascismo.

Altrettanto composito era il fronte interventista, di natura trasversale, un arco

politico-ideologico che andava dall'estrema destra, rappresentata dal partito

nazionalista, fino alla estrema sinistra, composta da una componente minoritaria di

sindacalisti rivoluzionari e di socialisti massimalisti transfughi dal partito socialista.

Per quanto riguarda i nazionalisti, essi avevano appoggiato prima l'intervento a fianco

degli Imperi centrali, poi avevano cavalcato l'intervento a fianco dell'Intesa, sulla

base di un progetto di espansione nazionale che sommava alla rivendicazione delle

terre irredente (Trento e Trieste), obiettivi di espansione nei Balcani e nel

Mediterraneo. Si trattava di un progetto di “Grande Italia”, che trovava appoggio in

alcuni settori intellettuali e studenteschi e, dal punto di vista finanziario, nei grupppi

siderurgici e armatoriali che vedevano un interesse economico nell'intervento. Tra gli

interventisi vi fu anche un grande liberale di destra, Luigi Albertini, il direttore del

Corriere della Sera, il quale era consapevole della impreparazione dell'Italia, della

disorganizzazione del suo esercito e della fragilità della sua economia, ma che batteva

sulla necessità di un intervento a fianco di Francia e Inghilterra visto come piena

adesione alla civiltà liberale occidentale. Per farvi capire come la guerra e la

questione di neutralità e intervento alla fine incidono sulle culture politiche e sulle

scelte individuali, basti pensare come su questa strada Albertini alla fine si avvicini

alle componenti dell'interventismo democratico di sinistra, sulla base della difesa

della nazionalità dei popoli.

A sinistra si riconoscevamo due componenti: la componente democratica, espressa

dal movimento irredento, dai radicali, dai repubblicani, dai socialisti riformisti che

avevano rotto con il partito socialista nel 1912, i quali rivendicavano le terre irredente

e vedevano l'opportunità di una quarta guerra di Indipendenza. Non bisogna

dimenticare che in questi settori aleggiava un forte antigiolittismo (Salvemini) e

quindi l'intervento era visto anche come una via per liberarsi dell'esterienza

giolittiana (e questo spiega anche Albertini).

Si trattava di una componente che in generale batteva sul principio di nazionalità

come base per la rivendicazione della libertà dei popoli sottoposti al potere politico

degli imperi multinazionali. Per cui le rivendicazioni italiane erano le rivendicazioni

di tutti i popoli balcanici e non, sottoposti al dominio straniero. Una componente le

cui rivendicazioni affondavano nei risorgimenti nazionali, molto influente sul piano

dell'opinione pubblica, che guardava con favore alle potenze dell'Intesa, considerate

portatrici di una “guerra democratica”, ma che alla fine dovette soccombere di fronte

alle logiche di potenza che invece sempre sottostanno ad una impresa bellica.

Infine esisteva una corrente estremista di sinistra che perseguiva l'intervento secondo

la logica del “tanto peggio tanto meglio”, perchè riteneva che soltanto la guerra

avrebbe favorito una rottura dell'ordine politico esistente e avrebbe aperto prospettive

rivoluzionarie. Mussolini era un degno rappresentante di tale linea, che da dirigente

del partito socialista su posizioni massimaliste, era passato fra il settembre e il

novembre 1914 dalla neutralità all'intervento, disponendo di un quotidiano, «Il

Popolo d'Italia» finanziato da gruppi armatoriali italiani che divenne la voce di punta

della campagna interventista.

C'è poi il nodo dell'introduzione del sistema elettorale proporzionale del 1919, che

tocca anche altri contesti nazionali, ma che in Italia agì da vero elemento detonatore

del sistema. Anche su questo problema si è scritto molto, con un proliferare di tesi

contrapposte. Diciamo che esistono due tesi; una di matrice liberale – dei Maranini,

Ghisalberti - che punta il dito sulla riforma, accusandola di aver provocato la crisi del

sistema e di aver spianato la strada agli avversari; ed altre analisi più recenti che si

basano sulla constatazione che i liberali avrebbero perso anche con un sistema

maggioritario, che in parte quindi riabilitano il sistema proporzionale. Ora, non è

questa la sede per analizzare nel dettaglio la riforma, nei suoi aspetti tecnici; è vero

che non bisogna enfatizzare il significato dei sistemi elettorali nel gioco politico-

istituzionale, ma è vero che quella riforma delle conseguenze le ebbe eccome.

Semmai, quello che dobbiamo dire è che se guardiamo al clima complessivo in cui la

riforma è maturata, non possiamo fare a meno di considerare l'eredità pre-bellica e

vedere come già al momento dell'intervento, come abbiamo visto, la scelta

interventista può essere vista come un vero e proprio colpo di mano per giungere

all'abbattimento del sistema giolittiano: secondo alcune versioni, che ci sentiamo di

accreditare, la proporzionale fu la logica conclusione di un percorso iniziato in quel

momento.

Attraverso la riforma venivano consolidati gli effetti rivoluzionari del conflitto. Certo,

la responsabilità della classe politica liberale nel non provvedere ad una soluzione

alternativa per la crescita del consenso è evidente: collegi allargati, inadeguatezza

delle organizzazioni di partito, difficoltà di adattamento del vecchio sistema

notabilare, difficoltà di mobilitazione della vecchia macchina prefettizia, difficoltà

nella selezione delle candidature, un fattore rispetto al quale furono favoriti i partiti

più strutturati, come il PPI o il PSI, e d'altronde un fattore che in casa socialista favorì

il modello massimalista, accrescendo la centralizzazione del partito.

C'è da chiedersi perchè la classe politica liberale, che era maggioritaria, abbia poi

optato per una riforma. Negli ambienti liberali più avveduti, si credeva che in questo

senso una “evoluzione avrebbe preveduto la rivoluzione”. Lo stesso Gaetano Mosca

che nel 1912 si era schierato contro la proporzionale, nel 1919 appoggia la riforma

prendendo in considerazione questioni di carattere sociale legate al periodo bellico.

Questo non vuol dire che ci fu una sottovalutazione dei possibili effetti della riforma,

e questo anche da parte di estranei alla tradizione liberale: tra i non liberali, la

proporzionale fu vista soprattutto come uno strumento per sbarazzarsi del giolittismo,

piuttosto che come base per una nuova formula di governo (un limite di ogni azione

politica; la politica “anti”, al negativo). Indicativo è poi il fatto che assieme ad un

rifiuto del sistema uninominale maggioritario, ci fu un rifiuto della forma partito

come strumento di lotta politica, nel senso che su questo terreno il ritardo in casa

liberale rimane latente, mentre i partiti al contrario sarebbero stati glorificati dal

proporzionale.

Ma che cosa avvenne? Intanto ci fu un notevole aumento del corpo elettorale: nelle

liste per il 1913 gli iscritti erano stati 8.672.249, mentre nelle liste approvate per

l'anno 1919 gli iscritti risultarono essere 11.115.441. Tuttavia la frequenza alle urne

(56,6%) fu nettamente inferiore a quella registrata nelle elezioni del 1909 (65%) e del

1913 (60,4%), nonostante la consultazione si fosse svolta durante un processo di

progressiva politicizzazione e di accentuata sindacalizzazione, con percentuali di

votanti assai diverse per area geografica: al Nord la percentuale fu del 63,8%, al

Centro del 54,9%, al Sud del 50,9%, nelle Isole del 46,3%. Se guardiamo alle regioni,

si va da un massimo dell'Emilia (71,5%) ad un minimo della Sicilia (44,5%). Le

elezioni del 16 novembre 1919 provocarono una profonda modificazione nella

struttura della rappresentanza parlamentare e per la prima volta nella storia dell'Italia

unita i vari gruppi liberali si trovarono in minoranza. Ma non solo, in confronto alla

legislatura precedente si ebbero 327 sostituzioni (su 508 deputati). Con queste

elezioni la Camera si era rinnovata per circa due terzi nella misura del 65,3%. Le liste

del partito liberale (Salandra) ottenero solo 41 deputati; quelle del partito liberale

democratico (Amendola) 156; quelle radicali 12; Ottennero un rilevantissimo

successo il Partito socialista che passò da 52 seggi ottenuti nel 1913 a 156 seggi. Il

gruppo parlamentare socialista, la cui guida venne conquistata dai massimalisti (70

eletti massimalisti, contro 60 eletti riformisti), divenne il gruppo parlamentare più

numeroso. Il Partito popolare che era stato fondato da Don Sturzo nel gennaio del

1919 ottenne 100 seggi in parlamento. Cioè i due partiti popolare e socialista

ottennero nel complesso circa tre milioni di voti raggiungendo la maggioranza

assoluta nel Parlaemento e nel paese. Altri 20 seggi vennero conquistari dai

combattenti, che dettero vita al partito del Rinnovamento; i socialisti riformisti

ottenero solo 6 seggi, 4 i repubblicani ed altri seggi vennero attribuiti a liste

congiunte repubblicani, socialriformisti e combattenti. Una modifica del regolamento

parlamentare, come conseguenza della legge proporzionale, stabiliva la formazione

dei gruppi parlamentari per cui ogni gruppo doveva essere composto da almeno 20

deputati, anche se in realtà il numero minimo non fu mai di 20 ma di 10: in base a

questo regolamento abbiamo infatti i gruppi di Democrazia liberale; Liberale; Misto;

Popolare; Radicale; Republicano; Rinnovamento; Socialista; Socialista riformista.

Nel 15 maggio del 1921 si andò nuovamente a votare in seguito a scioglimento

anticipato delle Camere. Le elezioni furono indette sotto il V ministero Giolitti, che

era tornato al potere nel giugno del 1920, ed aveva lanciato un programma di riscossa

delle forze liberali realizzando un blocco che andava dai fascisti ai riformisti di

Bonomi. Nelle elezioni per la XXVI legislatura, si ebbe un leggero incremento dei

votanti, e i partiti che si presentarono con caratteri ben distinti furono il PSI, il PPI, il

PRI e il Partito comunista d'Italia – sezione dell'Internazionale comunista, che si era

costituito in seguito alla scissione di Livorno. Le altre formazioni politiche si

presentarono invece con denominazioni e simboli diversi da collegio a collegio.

Come è noto la campagna elettorale fu contrassegnata da una lunga sequela di

violenze e i risultati scalfirono di poco le posizioni raggiunte nel 1919. Alla Camera il

Psi ebbe 124 seggi (32 in meno rispetto al 1919) e il Partito comunista 15. I

combattenti presentarono proprie liste ottenendo 10 seggi, così come i fascisti, che

presentarono liste autonome nei collegi di Napoli e Verona ottenendo 2 seggi. Vi era

poi un Partito economico (partito agrario) ottenne 5 seggi; quelle socialiste

indipendenti 1; il PRI 6 seggi, mentre 4 seggi vennero assegnati ai candidati della

minoranza tedesca dell'Alto Adige e 5 a quella slava della Venezia Giulia. Il PPI

mantenne le percentuali del 1919, con 197 deputati, cioè più 7 rispetto alle precedenti

elezioni. Il blocco costituzionale mantenne 275 seggi, di cui 85 seggi di Democrazia

liberale (Amendola) e 65 seggi di Democrazia sociale (Colonna di Cesarò). Una parte

di deputati fu eletta nei Bocchi nazionali, che però non riuscirono a costituirsi

ovunque, per la presenza di rivalità tra liberali e democratico-liberali. I liberali

costituzionali erano rimasti indipendenti in Piemonte, l'unica regione nella quale i

liberali potevano contare su un alto numero di adesioni (49.000 iscritti su un tolate di

72.000 al momento della fondazione del Partito a Bologna nel 1922). Alla Camera, i

deputati del blocco costituzionale riuscirono tuttavia ad ottenere la maggioranza,

anche se si trattava di una maggioranza eterogenea da un punto di vista politico, in

buona parte composta da elementi non filogiolittiani. Alla Camera i deputati si

suddivisero in 11 gruppi parlamentari. Basta dare un'occhiata a quello che avviene

nella famiglia liberale per capire quanto eterogenea fosse la maggioranza liberale,

infatti abbiamo: un gruppo Agrario, uno di Democrazia Liberale (Amendola); uno di

Democrazia Sociale (Colonna di Cesarò); uno Parlamentare Liberale Democratico

(Salandra), poi abbiamo un gruppo Nazionalista; un gruppo Fascista; poi Popolari,

Socialisti, Socialisti riformisti, comunisti e gruppo misto. E non solo, perchè nel

corso della legislatura ci fu una ridefinizione dei gruppi con la formazione di due

gruppi tra socialisti e socialisti unitari, nuova scissione che si era verificata al

congresso di Roma 1922, per cui i turatiani abbandonarono il PSI per formare il

Partito socialista unitario. Mentre nuove scissioni e ricomposizioni avvenivano anche

all'interno della famiglia liberale a dimostrazione di una frammentazione e mancanza

di unità di intenti che favorì soltanto l'avvento del fascismo al potere.

É una fase in cui tutto viene messo in gioco: giolittismo, partito politico,

parlamentarismo venivano aspramente criticati e si guardava invece a forme di stato

nuovo, a nuove forme di rappresentanza, anche al di fuori della democrazia

parlamentare (Ordine Nuovo di Gramsci). Quello che appare evidente insomma è che

in questo passaggio mancano in Italia elaborazioni riformatrici coerenti che avessero

puntato ad una seria ed incisiva innovazione della democrazia parlamentare. Questa

mancanza di una cultura realmente riformista fece sì che tutto lo sforzo di

mobilitazione si orientasse contro lo stato liberale, travolgendolo e determinandone il

crollo. Stato liberale che, piaccia o no, aveva dato all'Italia l'unità, l'indipendenza, la

libertà e tutti i presupposti necessari per la costruzione di una matura democrazia.