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Storia dell’Europa centro-orientale 2009-2010 Università degli Studi Roma Tre Facoltà di Scienza Politiche Francesco Guida L’EUROPA CENTRO-ORIENTALE DALLA PRIMA ALLA SECONDA GUERRA MONDIALE dispensa per l’esame di Storia dell’Europa centro-orientale 1

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Storia dell’Europa centro-orientale 2009-2010

Università degli Studi Roma Tre Facoltà di Scienza Politiche

Francesco Guida

L’EUROPA CENTRO-ORIENTALE DALLA PRIMA

ALLA SECONDA GUERRA MONDIALE

dispensa per l’esame di Storia dell’Europa centro-orientale

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Storia dell’Europa centro-orientale 2009-2010

Indice 1 Il crepuscolo degli imperi 5 2 Il modello occidentale e il nuovo quadro sociale 11 3 Le democrazie impossibili. Il nuovo conflitto mondiale 39 3.1 La Bulgaria 39 3.2 La Romania 42 3.3 La Jugoslavia 46 3.4 L’Albania 51 3.5 La Grecia 52 3.6 La Cecoslovacchia 56 3.7 L’Ungheria 59 3.8 La Polonia 67 3.9 I Paesi baltici 72

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Storia dell’Europa centro-orientale 2009-2010

Questo breve testo costituisce parte del materiale didattico che gli

studenti dovranno presentare all’esame di Storia dell’Europa

centro-orientale. Esso va aggiunto ai seguenti libri: Francesco

Guida, La Russia e l’Europa centro-orientale 1815-1914, ed.

Carocci; Giovanna Cigliano, La Russia contemporanea, un profilo

storico (1855-2005), ed. Carocci; Antonello Biagini e Francesco

Guida, Mezzo secolo di socialismo reale. L'Europa centro-

orientale dal secondo conflitto mondiale all'era post-comunista, ed.

Giappichelli.

Il testo fornisce informazioni essenziali riguardo alle vicende dei

Paesi dell’Europa centro-orientale tra le due guerre mondiali,

vicende che vanno studiate in relazione con quelle avvenute

contemporaneamente nell’Unione Sovietica.

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1. Crepuscolo degli imperi e trionfo dello Stato nazionale. La

guerra mondiale.

L’uccisione dell’erede al trono d’Austria-Ungheria,

l’arciduca Francesco Ferdinando, avvenuta a Sarajevo il 28 giugno

1914 per mano del giovanissimo studente Gavrilo Princip, affiliato

all’organizzazione irredentistica serba Mano Nera, è comunemente

riconosciuta come l’evento che diede il la al conflitto europeo e

mondiale. Gli eventi dei decenni che precedettero l’attentato (cfr.

F.Guida, La Russia e l’Europa centro-orientale 1815-1914)

inducono a considerare tale opinione corretta e a non stupirsi se

scoccò nei Balcani la scintilla che appiccò il fuoco al continente.

La più debole delle Potenze (fatta salva l’Italia) aveva necessità di

consolidare la propria situazione interna in primo luogo e, quasi di

conseguenza, quella internazionale. Si trattava di riconoscere più

che per il passato i diritti di tutte le nazionalità, facendo sì che esse

non optassero per l’indipendenza o non guardassero ai limitrofi

Stati nazionali come a una madrepatria cui unirsi. Su questa strada

si mosse proprio l’erede al trono, spalleggiato da intellettuali e

politici che auspicavano una profonda trasformazione dell’impero

su basi federali: l’esempio più chiaro lo fornì Aurel Popovici, un

romeno di Lugoj, in Transilvania, con il suo volume intitolato Gli

Stati Uniti della Grande Austria. Nonostante la forte presa dell’idea

nazionale, l’impero poteva ancora esercitare attrazione verso i suoi

sudditi, per motivi pratici oltre che per attaccamento alle tradizioni

e alla dinastia. In esso si viveva meglio che non nei vicini Stati

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nazionali (Romania, Serbia) e i suoi vasti territori e le sue grandi

città costituivano un bacino economico di notevole interesse,

offrendo ai sudditi possibilità non disprezzabili di ascesa sociale.

Anche pensatori più radicali (ad esempio gli austro-marxisti come

Adler) ritenevano che una volta trasformato strutturalmente

l’impero fosse possibile procedere con il tempo verso la

Repubblica federale. L’impero non aveva motivo per estendere i

propri confini: la classe dirigente ungherese, a partire dal capo del

governo István Tisza, poco propensa ai progetti federalistici o

trialistici (questi ultimi prevedevano pari dignità politica per austro-

tedeschi, magiari e slavi) non desiderava incorporarvi altri slavi.

Era più opportuno invece imporre nei Balcani la propria influenza e

i propri interessi economici; di conseguenza Vienna non poteva

accettare che un’altra Potenza, grande o piccola, dominasse lo

scacchiere balcanico e soprattutto non poteva tollerare sfide alla

propria egemonia, per quanto non fosse di per sé aggressiva. In

definitiva le agitazioni irredentistiche in atto nella Serbia e, in

misura molto più ridotta e meno pericolosa, in Romania dovevano

essere rese inoffensive o limitate ai minimi termini. Era una

politica, sotto altra forma, simile a quella attuata in occasione della

“guerra dei porci” (cfr. F.Guida, La Russia e l’Europa centro-

orientale 1815-1914). Il gravissimo e mortale attentato di Sarajevo

era naturalmente destinato ad avere un seguito politico, a

prescindere da quanto prescrivesse il diritto internazionale e da

quali fossero le reali responsabilità del governo di Belgrado. Solo

una “resa a discrezione” di esso avrebbe potuto evitare la

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dichiarazione di guerra. Se poi le guerre balcaniche e il riassetto

geo-politico che esse avevano indotto erano considerati da

qualcuno una vittoria della Russia, il tracotante ultimatum del

governo austro-ungarico indirizzato a quello serbo costituiva a sua

volta una sfida al gabinetto di Pietroburgo. Esso nel 1908 non

aveva reagito militarmente all’annessione della Bosnia-Erzegovina;

si poteva sperare che agisse con pari prudenza nel 1914, altrimenti

si poteva contare sull’aiuto tedesco. Tali calcoli, azzardati o miopi

che fossero, innescarono – come è noto – una reazione a catena per

la quale tutte le maggiori Potenze (Russia e Germania, ma anche

Francia e Inghilterra) seguendo la logica dei sistemi di alleanze

contrapposti - Triplice Intesa contro Triplice Alleanza –

intervennero nel conflitto destinato a cambiare la storia europea e

mondiale. Italia e Romania, ambedue legate da alleanza con

Germania e Austria-Ungheria, optarono di comune accordo per la

neutralità.

Lo scoppio della guerra presentava motivi profondi di

interesse per gli Stati e le nazionalità di tutta l’Europa centro-

orientale, non solo per la Serbia aggredita dall’Austria-Ungheria.

Persino la periferica Turchia si lasciò coinvolgere molto presto,

attirata dalla speranza di consolidare la propria situazione

appoggiandosi sul colosso germanico e di sottrarsi alla tradizionale

influenza politica ed economica di Parigi e Londra. I fautori del

nazionalismo al potere speravano in una rivincita rispetto alla

sequela di sconfitte e umiliazioni subite dall’impero da vari decenni

in qua.

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Il governo bulgaro (una coalizione di partiti liberali

guidata da Vasil Radoslavov) che aveva visto respinte a Parigi per

ragioni politiche tutte le sue richieste di prestiti internazionali,

necessari a rinsaldare l’economia debilitata del Paese, cedette alla

sirena di un massiccio prestito di guerra di Berlino e vide

prospettarsi la rivincita verso la Serbia, se non verso altri Paesi

confinanti. Vanamente il leader agrario Stambolijski minacciò il re

Ferdinando di una triste fine se avesse avallato l’intervento: ne

ebbe in cambio una condanna a morte tramutata poi in prigione a

vita. La stragrande maggioranza dei deputati votò a favore della

guerra. Prima di scendere in campo Sofia ottenne dalla Turchia una

piccola rettifica della frontiera in Tracia, utile per garantire

autonomia alla linea ferroviaria che portava all’Egeo.

Come si è detto, il governo romeno, guidato dal liberale

Ion I. Brătianu, preferì la neutralità: tale opinione prevalse in un

Consiglio della Corona che comprendeva anche precedenti

presidenti del Consiglio del partito conservatore e di sentimenti

filo-germanici. Tutti erano incerti su dove risiedesse il vero

interesse del Paese, quale dei due blocchi sarebbe stato vincitore e,

inoltre, su quale sarebbe stata la risposta dell’opinione pubblica

romena nei confronti di un intervento accanto all’Austria-Ungheria,

che dominava in province (Transilvania, Banato, Bucovina) abitate

in buona misura da romeni. Le organizzazioni irredentistiche (come

la Lega per l’unità politica di tutti i romeni) avevano già fatto

sentire la loro voce in manifestazioni pubbliche, ma in tutt’altro

senso. Appunto per dare una soddisfazione al governo, ma anche al

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sentimento nazionale dei romeni i governi tedesco e austro-

ungarico offrirono a quello di Bucarest, in cambio dell’intervento al

loro fianco, la Bessarabia, regione abitata in maggioranza da

romeni e soggetta allo zar. In modo speculare i governi dell’Intesa

offrirono invece i territori soggetti all’Austria-Ungheria, poco sopra

citati. Questa seconda offerta era senza dubbio più allettante, non

meno del sostegno economico che i Paesi occidentali garantivano,

ma, dopo due anni di incertezze, a indurre Brătianu a una entrata in

campo al fianco dell’Intesa fu la situazione militare,

apparentemente favorevole alla Russia sul fronte orientale, oltre

alla scelta operata un anno prima dal governo italiano (uscito dalla

neutralità senza consultare quello romeno).

Molto restia a farsi coinvolgere nel conflitto fu la classe

dirigente ellenica. Il re e gli ambienti di Corte non nascondevano

simpatie filo-germaniche, ma optarono per la neutralità. Per

l’intervento, ma a fianco dell’Intesa, era il leader liberale Elefterios

Venizelos che, per raggiungere il suo scopo, non esitò a costituire

un controgoverno a Salonicco sotto la protezione delle armi

intesiste. Solo nel 1917 la Grecia scese ufficialmente in guerra, ma

va detto che la sua sovranità era stata abbondantemente violata con

un bombardamento anglo-franco-italiano del Pireo e poi con

l’occupazione di Salonicco come testa di ponte per l’Armée

d’Orient nei Balcani: essa in qualche misura e per opera delle flotte

alleate occidentali (inglese, francese e italiana) aveva subito la sorte

tanto deprecata del Belgio occupato dall’esercito tedesco. Al di là

di tali considerazioni, anche nel caso ellenico si trattava di

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comprendere dove si trovasse l’interesse del Paese: una volta

rinunciato alla neutralità l’avversario naturale era la Turchia,

alleata degli imperi centrali, nella quale abitava una cospicua

comunità greca. Si prospettava la possibilità di realizzare la Megali

idea (Grande idea) propugnata lungo tutto il Risorgimento ellenico

e dare luogo a una Grecia erede dell’impero bizantino anche in

Asia.

L’Albania non fu soggetto attivo nel conflitto: troppo

recente la sua indipendenza e troppo incerta la situazione politica

interna. Essa subì tuttavia l’occupazione da parte di eserciti

contrapposti e diversi: austriaco, italiano, francese. Particolarmente

rilevante la posizione del governo di Roma che, per bocca del

generale Ferrero, proclamò nel 1917 l’intangibilità e l’integrità del

territorio albanese contro gli appetiti degli Stati limitrofi. Di fatto

la presenza militare italiana nella “terra delle aquile” fu la più

significativa, avendo riconosciuto le altre Potenze dell’Intesa che

l’Albania rientrava nella sfera d’influenza dell’Italia. Quando però,

in modo travagliato, si ricostituì un governo nazionale sqipetaro le

truppe italiane dovettero ritirarsi, tranne che dall’isolotto di Saseno

di fronte al porto di Valona, sia per l’insofferenza degli albanesi sia

per le vivaci pressioni delle sinistre in patria per richiamare i

soldati.

Per polacchi, cechi e slovacchi il conflitto generale offrì il

destro per una ripresa o il lancio di iniziative volte a conseguire

l’indipendenza. In realtà la gran parte delle popolazioni e delle

classi dirigenti di quei popoli mantenne a lungo un atteggiamento

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di lealismo verso la dinastia e la Monarchia duale. Alcuni leaders

boemi come Masaryk e Beneš preferirono continuare la loro

battaglia politica espatriando, per ottenere un più efficace sostegno

da parte dei governi dell’Intesa e così proponendosi quali dirigenti

del futuro Stato indipendente. Durante il conflitto lo zar promise di

riunire tutti i polacchi (suoi sudditi o degli Imperi centrali) in un

unico Stato dotato di grande autonomia in seno all’impero zarista;

anche Berlino e Vienna fecero promesse tali da convincere i propri

sudditi ad arruolarsi in Legioni e combattere contro l’esercito russo

e quando le province polacche dell’impero zarista furono occupate

si progettò la costituzione di un Regno di Polonia sul cui trono

sedesse un principe tedesco. I tre popoli baltici (lituano, lettone,

estone), dal Settecento inclusi nell’impero zarista, negli ultimi anni

precedenti il conflitto mondiale avevano preso sempre più

coscienza della propria identità nazionale, sia nei confronti dei russi

sia dei tedeschi (classe dominante sulla costa baltica) sia pure dei

polacchi. La rivoluzione russa del 1905 aveva dato forza a tale

processo identitario, quella del 1917 e la guerra offrirono la

possibilità di dare vita a un proprio Stato nazionale a ognuno di

quei popoli.

2. Il modello occidentale e il nuovo quadro sociale.

La guerra mondiale e la Rivoluzione sovietica avevano

ridisegnato completamente il quadro politico dell’Europa centro-

orientale. Di più, l’avvento dei bolscevichi in Russia aveva avviato

una drastica trasformazione dell’economia e della società. Negli

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altri Paesi dell’area tale mutamento non fu né rapido né altrettanto

radicale e tuttavia non fu assente. Esso si presentò in varia forma e

misura da Stato a Stato, ma in genere riguardò un generale processo

di modernizzazione che toccava le campagne (e i rapporti di

proprietà), il giovane e limitato apparato industriale, il settore

finanziario e dei commerci. Soprattutto gli Stati dell’Europa centro-

orientale (principalmente quelli appena costituitisi) acquisirono il

modello politico-istituzionale dominante nei Paesi dell’Intesa, in

sostanza importarono la democrazia liberale di stampo occidentale.

Essa non era ignota in Romania, Grecia, Bulgaria, ma aveva

bisogno di essere ampliata nella sua struttura istituzionale e nei suoi

metodi (dovunque fu introdotto il suffragio universale virile, già

praticato in Bulgaria), e ancora di più doveva essere migliorata

nella sua applicazione. Si trattò di una prova, una “scommessa” di

carattere epocale: purtroppo essa non ebbe per esito un pieno

successo. La vittoria delle ideologie totalitarie in grandi Paesi

europei, dalla Russia all’Italia, poi alla Germania e alla Spagna,

pesò sulle sorti delle democrazie dell’Europa centrale e del Sud-est

europeo. Fu determinante l’instabilità del quadro internazionale,

caratterizzato da forti pulsioni verso la revisione dei trattati di pace

e delle frontiere da essi fissate. Il fattore principale dell’insuccesso

del modello democratico fu di carattere endogeno: la sostanziale

immaturità delle società e la complessità dei problemi sia socio-

economici sia etnici che si ponevano agli Stati portarono

progressivamente al prevalere di regimi autoritari, che finirono per

legarsi alle Potenze dell’Asse, più alla Germania che all’Italia.

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La classe contadina era ancora maggioritaria in tutti i Paesi,

mentre solo la Cecoslovacchia poteva vantare un’industria

sviluppata e quindi presentare un proletariato consistente.

Significativo fu lo sviluppo dell’industria anche in Polonia, Paese

per converso caratterizzato dal permanere del grande latifondo

fondiario. Gli altri Stati, pur registrando talora una buona crescita

del settore industriale, continuarono a confrontarsi in primo luogo

con la questione agraria. La Romania avviò un intervento

riformistico di grande incidenza e coraggio: ne scaturì un’ampia

assegnazione di lotti confiscati ai grandi proprietari, alla Corona, ai

possidenti stranieri (con qualche polemica con le Potenze) e la forte

crescita della classe dei piccoli proprietari. La produzione

cerealicola su un territorio statale duplicato dai trattati di pace

divenne una delle più significative su scala mondiale (quarto o

quinto produttore). Non furono però risolti i problemi tecnici e

della produttività per singolo ettaro e le piccole aziende contadine

si dimostrarono impossibilitate a dare luogo a cospicui profitti e

all’accumulazione di capitale, necessaria per un salto di qualità

dell’economia agraria e per eventuali investimenti in altri settori

produttivi. Le campagne romene cambiarono profondamente dal

punto di vista dei rapporti di proprietà, molto meno sul piano delle

tecniche e della capacità produttiva. Si registrò anche un notevole

inurbamento, che nelle regioni di nuova acquisizione significò

mutare le percentuali etniche dei centri cittadini: in concreto molte

città transilvane, dominate da ungheresi e tedeschi, furono

progressivamente abitate da cittadini di etnia romena. Il fenomeno

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non riguardò solo le relazioni tra gruppi etnici, ma anche la

“promozione” sociale dell’elemento romeno che insidiò nelle

professioni e in altre attività lavorative il primato di altri elementi

etnici. Il processo fu, ovviamente, di lunga durata e proseguì

persino dopo la seconda guerra mondiale, negli anni del

comunismo, dando luogo a un radicale mutamento dei rapporti

numerici tra le etnie. Sul piano politico si assistette a una

rivoluzione copernicana. La Romania godeva già di un sistema

democratico, ma di fatto fortemente elitario e l’introduzione del

suffragio universale mutò completamento il quadro dei partiti. Il

partito conservatore si frantumò in diverse formazioni, nessuna

delle quali poté porsi come alternativa all’altro partito storico,

quello nazional-liberale, che subì uno spostamento in senso

moderato, nonostante le riforme attuate e la nuova Costituzione

introdotta nel 1923. Vennero al proscenio nuovi partiti, in

particolare il partito contadino (Ion Mihalache) e il partito

nazionale romeno, da decenni rappresentante degli interessi dei

romeni di Transilvania. Quando queste due formazioni politiche si

unificarono (1926), nacque il partito nazional-contadino, capace di

raccogliere i più ampi consensi tra le masse. Liberali e nazional-

contadini si alternarono alla guida del Paese fino alla sospensione

della democrazia voluta dal re Carol II nel 1938. A sinistra sia i

socialdemocratici sia i comunisti (dal 1921) non riuscirono a

calamitare l’interesse di una parte cospicua dell’elettorato: in

particolare i secondi furono messi fuori legge e scontarono

l’allineamento alle posizioni del Comintern che definiva la Grande

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Romania come un’artificiosa creazione di Versailles, che andava

smembrata. Invece, con l’andare degli anni crebbe una forte destra

radicale e antisemita che assunse vari nomi, tra i quali il più noto fu

Guardia di Ferro.

Al confine meridionale della Romania, lo Stato e la società

bulgari non presentavano gli stessi problemi. Qui il predominio

numerico della classe contadina era ancora più accentuato, ma era

pressoché assente la grande proprietà fondiaria. Sicché l’unico

Paese che ebbe per pochi anni un regime dichiaratamente

contadino, cioè ispirato agli interessi e alla ideologia dei ceti rurali,

registrò paradossalmente una riforma agraria di scarsa entità

quantitativa: la poca terra confiscata (a chi confiscarla se non vi

erano latifondisti?) bastò appena per soddisfare le esigenze dei

bulgari profughi dalla Macedonia e dalla Tracia, cioè dai territori

entrati a far parte di altri Stati. Con un’industria ancora ai primi

passi colpisce il consenso che l’estrema sinistra (prima socialista,

poi comunista) riusciva a raccogliere, benché nettamente inferiore a

quello convogliato verso l’Unione Agraria Bulgara. Giunto al

potere per via elettorale, il suo leader carismatico Aleksandăr

Stambolijski non esitò a ricorrere a qualche escamotage già noto

alla politica bulgara (il ripristino dei collegi uninominali) per

ridurre ai minimi termini l’opposizione di destra e di sinistra, con lo

scopo di realizzare a favore della classe contadina ciò che Lenin

cercava di realizzare in Russia a favore del proletariato, cioè uno

Stato di classe, la dittatura di classe. Tale scelta fondamentale si

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coniugava con il generoso tentativo di porre fine ai conflitti tra

Stati per motivi etnici o nazionali: se il trattato di Neuilly impediva

alla Bulgaria di avere forze armate degne di questo nome, il

governo agrario diede vita a un esercito del lavoro, cioè a un

servizio civile in cui teoricamente sarebbero stati impegnati i

giovani di ambedue i sessi. Fu però un fallimento totale e poche

migliaia di giovani prestarono effettivamente quel servizio. Invece

il governo di Sofia riuscì a trovare un accordo con il principale

avversario della Bulgaria, la Jugoslavia (Regno SHS) padrona di

quasi tutta la Macedonia slava. A questa Stambolijski rinunciò

ufficialmente firmando il trattato di Niš. L’opposizione nazionale e

soprattutto l’Organizzazione Rivoluzionaria Interna Macedone,

saldamente impiantata nella Bulgaria e in particolare nella regione

di Pernik da dove organizzava incursioni sul territorio jugoslavo,

giudicarono quell’atto un tradimento della nazione bulgara e ne

trassero un motivo in più per preparare un colpo di Stato (giugno

1923) che rovesciò il governo agrario e diede una tremenda morte

al suo leader. Nonostante questo passaggio cruento e

antidemocratico, la Bulgaria non rinunciò alle istituzioni

democratiche. Il governo insediatosi con il colpo di Stato,

capeggiato da Aleksandăr Cankov, uomo di simpatie fasciste, non

mutò la Costituzione e governò con l’appoggio di un’ampia

maggioranza parlamentare. Nel giugno 1923 i comunisti erano

rimasti estranei al regolamento di conti, come essi lo definirono, tra

borghesia cittadina e borghesia agraria, ma, anche su invito del

Comintern, avviarono una collaborazione con le residue

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organizzazioni agrarie e con esse nel settembre successivo diedero

vita a una insurrezione che fu repressa nel sangue. Ne seguì la

messa al bando dei partiti coinvolti nell’insurrezione: solo alcuni

anni dopo, il PCB sotto diverso nome (partito del lavoro) e

l’UNAB con il proprio, tornarono a partecipare alla competizione

elettorale.

Ancora più turbinose furono le vicende della Grecia. Essa

acquisì nuovi vasti territori in Tracia e nelle isole egee, ma fallì il

tentativo ambizioso di insediarsi anche in Asia Minore, sulla scorta

della Megali Idea. Dopo che le truppe elleniche penetrarono fino

nel cuore della penisola anatolica, la controffensiva organizzata da

Kemal Atatürk li rigettò in mare (1922). Nel porto di Smirne navi

italiane imbarcarono i soldati ellenici in ritirata. Questo localizzato

serio strascico del più vasto conflitto europeo e mondiale trovò la

sua composizione nella pace di Losanna del 1923. Essa sancì la

frustrazione delle aspirazioni greche: la Tracia orientale e tutti i

territori asiatici rimasero parte integrante della Repubblica turca,

erede (non in termini territoriali né ideali) dell’impero ottomano.

Importante fu la decisione consensuale di avviare uno scambio di

popolazioni: 400.000 musulmani lasciarono la Grecia e oltre un

milione di greci d’Asia (cui se ne aggiunsero altri provenienti dalla

Bulgaria e dalla Russia) vi si stabilirono. Molto serio fu il problema

del loro inserimento nelle nuove sedi: lo sviluppo urbanistico della

capitale – in un Paese con una sola altra grande città, Salonicco –

ne risentì profondamente, mentre molti di quei profughi

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contribuirono a mutare il quadro etnico in Macedonia (dove

l’elemento ellenico salì dal 43% all’89%) e Tracia. Non meno

difficile fu l’integrazione nello Stato ellenico dei territori acquisiti

in seguito alle guerre balcaniche e alla Grande guerra.

Politicamente le province neo-acquisite si dimostrarono favorevoli

al partito liberale e a formazioni ancora più progressiste, come il

partito comunista (KKE), capeggiato da un esule d’Asia, Nikos

Zachariàdis. In termini di consenso il KKE scontò a lungo

l’adesione alla linea del Comintern che voleva staccare la

Macedonia dalla Grecia. La monarchia e le formazioni più

conservatrici trovavano invece maggiore sostegno nei territori del

vecchio Regno.

La sconfitta militare influenzò profondamente la politica

interna: non solo si susseguirono governi di segno diverso e

continui colpi di Stato militari non sempre fortunati, ma persino si

giunse a due riprese a costringere il re all’abdicazione o all’esilio e

a proclamare la repubblica, e altrettante volte si ripristinò il potere

del monarca. Re Costantino che aveva abdicato nel 1917 tornò sul

trono nel 1920, sulla scorta di un referendum inattendibile; nel

1923 il suo successore Giorgio II dovette lasciare il Paese e nel

1924 la repubblica prevalse con il 70% dei suffragi in un

referendum voluto dagli ambienti militari che di fatto sostenevano

il governo liberale in carica (Papanastasiou). Anche a causa di

un’effimera dittatura del generale Pangalos (1925-26) la nuova

Costituzione entrò in vigore solo nel 1927. Il nuovo sistema

parlamentare bicamerale fu accompagnato dal voto proporzionale,

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soppresso da Venizelos, quando tornò alla guida dell’esecutivo per

quattro anni (1928-1932): la misura garantì quanto meno un

periodo di stabilità politica, concluso il quale si ebbe (1935) il

ritorno del re, sancito da un referendum manovrato, e quindi nel

1936 l’instaurazione della dittatura del generale Metaxas.

Dal punto di vista sociale la Grecia poté godere i frutti di

un’estesa assegnazione di lotti agricoli che ne fecero un Paese di

piccoli e medi agricoltori, presso che privo di latifondi, ma anche di

un movimento politico rappresentante la classe contadina.

Nonostante ciò, l’economia continuò a dipendere in larga misura

dalle attività mercantili, svolte soprattutto via mare, mentre fu di

minore rilievo lo sviluppo industriale. Ai problemi tradizionali e

quasi strutturali si aggiunsero dal 1929 gli effetti della crisi

finanziaria ed economica mondiale: come in altri Paesi, essa ebbe

conseguenze anche sul piano politico, non essendo riusciti i governi

liberali (venizelisti) a dare risposte convincenti alle richieste della

società ellenica.

Nonostante la scarsa omogeneità del Paese e la debolezza

delle istituzioni statali, l’Albania, grazie all’interessamento delle

Potenze e in primo luogo dell’Italia, aveva potuto salvaguardare la

propria indipendenza, ma non ottenere tutti i territori ai quali

aspiravano gli albanesi: alcuni di essi restarono inclusi nello Stato

ellenico (ma i greci a loro volta rivendicavano territori dello Stato

sqipetaro) e soprattutto in quello jugoslavo (Kosovo, Macedonia

occidentale). All’indomani della Grande guerra la questione dei

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confini non era tuttavia prioritaria. Si doveva in primo luogo

garantire l’esistenza di uno Stato degno di tale nome, dotato di

un’amministrazione, di istituzioni riconosciute da tutti i cittadini,

capace di fornire servizi essenziali, che erano assolutamente assenti

nel Paese (scuola, sanità). Di fatto continuò la contesa tra capi e

gruppi di potere contrapposti, uniti soltanto nel rifiutare un

protettorato straniero. Infatti le truppe italiane, stanziatesi in

territorio albanese durante il conflitto europeo, dovettero evacuare,

anche sotto la spinta di parte dell’opinione pubblica italiana: come

si è visto, sotto controllo dell’Italia rimase soltanto il piccolo

isolotto di Saseno di fronte all’importante porto di Valona.

L’influenza politica di Roma continuò a farsi sentire nella terra

delle aquile dove dalla lotta politica in atto emerse la figura di un

bey della settentrionale regione del fiume Mati, Ahmed Zogolli

(Zogu), il quale riuscì (1922) a farsi eleggere presidente della

Repubblica. Nel 1924 fu però soppiantato dal vescovo ortodosso

Fan Noli e fuggì in Jugoslavia. Da qui, dopo pochi mesi, lanciò il

contrattacco, sostenuto anche dal governo di Belgrado, che gli

consentì di riassumere il potere e proclamare (1925) ufficialmente

la Repubblica. Come un Napoleone III in sedicesimo, nel 1928 egli

si proclamò re con il nome di Zog, avviando una politica di

basculla tra Roma e Belgrado, nonché di prudente

modernizzazione. Ebbe successo più nel suo barcamenarsi tra

Jugoslavia e Italia (nel 1926 e 1927 furono siglati con questa

accordi di amicizia e protezione) che non nel tentativo di riformare

radicalmente la società albanese. Essa continuava a essere retta

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sulla base del diritto consuetudinario (kanun) e l’abbigliamento

occidentale delle sorelle del re appariva scandaloso. L’Albania

continuava a essere abitata da un 70% di musulmani (inclusi i

bektaşi, seguaci di una setta eterodossa) contro un 20% di cristiani

ortodossi e un 10% di cattolici. Ciò influiva non sui rapporti tra i

fedeli dei diversi culti, ma piuttosto sull’immobilismo della società.

D’altronde lentissimo era anche lo sviluppo economico: pastorizia

e agricoltura erano le risorse essenziali di un Paese in cui

mancavano le attività industriali, ma rare erano persino quelle

manifatturiere. La Banca d’Albania, nata prima del conflitto

mondiale sotto auspici italiani e austriaci, la presenza di società

italiane impegnate a trovare il petrolio, altre consimili iniziative

non furono sufficienti a fare da volano per l’economia e per

favorire, di conseguenza, un rinnovamento anche dei costumi.

Questo passava attraverso l’imposizione di nuovi codici, impresa

improba, e l’alfabetizzazione, che fu limitata a un poco più di un

terzo dei giovani fino al secondo conflitto mondiale. All’epoca

l’Albania era ancora caratterizzata dal fatto che oltre il 90% della

popolazione (in costante crescita) abitava fuori dai, pur piccoli,

centri cittadini.

Anche alcune regioni della Jugoslavia (ufficialmente

definita fino al 1929 Regno dei serbi, croati e sloveni, in sigla SHS)

presentavano una popolazione residente in buona misura in

campagna: le percentuali variavano naturalmente tra il Nord, che

aveva conosciuto il dominio absburgico, e il Sud, progressivamente

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Storia dell’Europa centro-orientale 2009-2010

emancipatosi dalla dominazione ottomana. Dunque, anche nel

Regno SHS la questione agraria era tra le preoccupazioni principali

dei governanti che proclamarono una pur limitata riforma, sperando

di dare una risposta alle tensioni presenti tra le masse, che nelle

elezioni per la Costituente alimentarono un discreto successo del

partito comunista (58 seggi su 419). Questo era sorto dalla fusione

di ben sei partiti socialisti, la maggioranza dei cui iscritti subì il

fascino del successo bolscevico in Russia e delle parole d’ordine

del Comintern. Il PCJ, isolatosi con la rinuncia a trattare la

questione nazionale, già nel 1920 vide limitata la sua possibilità di

fare propaganda e nel 1921, dopo che un suo giovane militante

compì un attentato mortale contro il ministro degli Interni

Drašković, fu messo fuori legge. La scena politica vide

protagoniste altre forze organizzate: il tradizionale Partito radicale

serbo, il Partito democratico (che raccoglieva il consenso dei serbi

delle nuove province), il Partito contadino croato, nonché altri

partiti sloveni e musulmani – di Bosnia e Kosovo).

In un Paese fortemente provato dalla guerra (secondo una

stima eccessiva del governo di Belgrado poco meno di due milioni

di caduti su una popolazione di undici milioni), la questione sociale

fu affiancata nell’agenda del governo dalla difesa dei confini,

contestati chilometro per chilometro da tutti gli Stati confinanti

(Italia, Grecia, Albania, Bulgaria, Ungheria, Austria), e dal titanico

sforzo politico per tenere assieme le diverse componenti etniche

dello Stato. Gli accordi di Rapallo (1920) e di Roma (1922)

allentarono la tensione con l’Italia giunte al culmine con

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Storia dell’Europa centro-orientale 2009-2010

l’occupazione di Fiume da parte di D’Annunzio e dei suoi

legionari, mentre restarono più minacciose le aspirazioni

revisionistiche di altri Paesi limitrofi. Con nuovi accordi nel 1914

e 1925 Belgrado riconobbe l’annessione di Fiume all’Italia,

acquisendo in tenue compenso Porto Baros. Negli anni Venti le

coalizioni tra partiti variarono di anno in anno: resta il fatto che lo

Stato si diede nel fatidico giorno di San Vito (28.06.1921) una

Costituzione, votata a maggioranza semplice, cioè non condivisa

soprattutto dall’opinione pubblica e dai politici croati. Le tendenze

secessionistiche, autonomistiche e federaliste erano evidenti e

pericolose – non mancavano formazioni paramilitari - di fronte a

uno Stato che a molti sembrava una Grande Serbia, poiché serba

era la dinastia regnante e in mano ai serbi erano l’amministrazione

e soprattutto l’esercito. Non stupisce che nel 1928 si giungesse

addirittura a un triplice omicidio in pieno Parlamento (skupština):

tra le vittime vi fu Radić, capo del partito contadino croato. Di

fronte a un quadro politico così difficile da governare, il re

Alessandro Karadjorgević sospese la Costituzione nel 1929,

tentando di porre le basi per uno Stato realmente jugoslavo, una

patria comune per tutti i suoi sudditi.

Negli ultimi giorni della guerra mondiale in Ungheria la

sinistra democratica ebbe l’occasione per assumere le redini della

situazione politica. In particolare emerse un nobile di opinioni

democratiche, Mihály Károlyi, esponente di punta dell’opposizione

al precedente regime conservatore, e toccò a lui di proclamare la

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Storia dell’Europa centro-orientale 2009-2010

Repubblica e la separazione dall’Austria. Quei giorni registrarono

anche episodi poco commendevoli, come l’uccisione dell’ex

presidente del Consiglio István Tisza, considerato forse a torto

responsabile della guerra. Il nuovo regime democratico fu, però,

molto debole: il partito di Károlyi dovette poggiare presto

sull’accordo con il partito socialdemocratico. Soprattutto pesava la

condizione internazionale del Paese, considerato non solo vinto, ma

anche responsabile del conflitto. Il governo Károlyi concluse uno

specifico armistizio che faceva seguito a quello già firmato dai

responsabili militari austro-ungarici sul fronte italiano. In realtà il

fronte era ancora in movimento nella penisola balcanica ed era

evidente che il problema principale da risolvere era la fissazione

delle nuove frontiere. Serbi, cecoslovacchi, romeni era protesi a

ottenere il massimo possibile in termini territoriali. La debolezza

della posizione ungherese di fronte alle Potenze vincitrici e agli

Stati limitrofi (quello romeno e quelli, appena costituiti, jugoslavo

e cecoslovacco) trascinava verso il basso la credibilità politica del

nuovo governo. Di fronte all’ennesima imposizione della

diplomazia internazionale (un ulteriore arretramento delle posizioni

ungheresi richiesto attraverso la Nota consegnata dal colonnello

Vyx) nel marzo 1919 Károlyi decise di dimettersi.

Tra il 20 e 21 marzo la socialdemocrazia ungherese,

all’epoca caso unico nella storia del mondo, approvò l’unione con i

comunisti per dare vita insieme a un nuovo regime politico. Il

leader comunista Béla Kun, pur essendo in prigione proprio in

seguito a violenze dei suoi seguaci contro la sede del giornale

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Storia dell’Europa centro-orientale 2009-2010

socialdemocratico, poté dettare le condizioni per tale

collaborazione. Il partito comunista (MKP) aveva acquistato grande

influenza e nelle piazze si protestava contro l’arresto dei suoi capi,

ma il partito socialdemocratico (MSZDP) contava su un numero di

sostenitori almeno triplo. Si può credere che il gruppo dirigente dei

socialdemocratici - come forse prima Károlyi - giunse alla

conclusione che, per difendere gli interessi nazionali era necessario

l'aiuto militare sovietico e per questo scesero a patti con Kun

attribuendogli non solo ufficialmente il commissariato per gli

Affari Esteri, ma nei fatti anche la guida del governo. Per questi o

per altri motivi di ordine ideologico, fu dunque proclamata la

Repubblica dei Consigli, ispirata all’esempio dei Soviet russi,

un’esperienza politica destinata a durare solo 133 giorni.

La "rivoluzione mondiale" – è noto – non vi fu né l'Armata

Rossa giunse in soccorso della Repubblica dei Consigli ungherese:

essa era già impegnata a combattere le truppe del generale “bianco”

Denikin in Russia e in Ucraina. L'Armata Rossa ungherese

conseguì dei successi contro l’esercito cecoslovacco, da poco

costituito, ma fu facilmente battuta a sud da quello romeno.

Peraltro l’isolamento politico del regime rivoluzionario ungherese

fu quasi assoluto: le Potenze vincitrici non desideravano che

l’infezione rivoluzionaria si diffondesse nel cuore dell’Europa.

Anche tra la popolazione magiara le simpatie verso Kun e

compagni non erano sufficientemente ampie: alcune misure troppo

radicali, in fatto di nazionalizzazione della terra o di confisca delle

abitazioni, si dimostrarono controproducenti. Le pratiche violente

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Storia dell’Europa centro-orientale 2009-2010

di alcune milizie operaie (quelle capeggiate da Tibor Szamuely ad

esempio) diedero luogo a un “terrore rosso”, non certo atto a

suscitare consenso tra i cittadini. Infine in agosto il sopraggiungere

delle truppe romene, mentre quelle serbe e francesi, come pure

l’Esercito nazionale controrivoluzionario, premevano nella regione

di Szeged, indusse i dirigenti rivoluzionari a passare la mano a un

governo che si potrebbe definire di sindacalisti, che presentava

aspetti di minor radicalismo quali dalla diplomazia occidentale

erano stati a più riprese richiesti per evitare una soluzione drastica e

cruenta. Era troppo tardi: quel governo (guidato da Gyula Peidl)

sopravvisse solo sei giorni, poi fu rovesciato da un putsch militare

che preparò il terreno per l’instaurazione di un governo

controrivoluzionario. Kun e altri dirigenti rivoluzionari fuggirono

in Austria: il leader comunista finì molti anni dopo vittima delle

purghe staliniane in Unione Sovietica.

Dopo la caduta della Repubblica dei Consigli (agosto 1919)

vi furono alcuni mesi di incertezza politica. Al governo di destra

capeggiato da István Friedrich, inviso alle Potenze, successe solo in

novembre un esecutivo moderato guidato da Huszár. Il Paese,

soprattutto dopo che le truppe romene in novembre si ritirarono da

Budapest, era in mano all’Esercito nazionale capeggiato

dall’ammiraglio Miklós Horthy, ex aiutante dell’imperatore

Francesco Giuseppe. Mentre regnava il “terrore bianco” che fece

molte più vittime di quello “rosso”, Horthy, entrato a Budapest,

dall’hotel Gellert dove aveva il suo quartiere generale dichiarò di

“perdonare” la città per i suoi recenti trascorsi rivoluzionari e

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Storia dell’Europa centro-orientale 2009-2010

all’inizio del 1920, con il sostanziale consenso delle Potenze, fu

eletto reggente o governatore, in assenza di un re: infatti il nuovo

parlamento abolì la repubblica e restaurò la monarchia. Il regime in

Ungheria rimase monarchico anche dopo la detronizzazione di

Carlo IV di Absburgo, avvenuta il 6 novembre 1921, per

imposizione delle Potenze occidentali e della Piccola Intesa. L’ex

imperatore (oggi proclamato beato dalla Chiesa cattolica)

inutilmente aveva tentato per due volte di tornare in terra ungherese

e di insediarsi sul trono detenuto dalla sua famiglia da secoli. La

questione fondamentale continuava ad essere quella del nuovo

assetto territoriale dello Stato, monarchia o repubblica che fosse. In

realtà non vi era modo di opporsi alla volontà della Conferenza di

pace. Nel giugno 1920 il governo Teleki dovette accettare il trattato

di pace firmato nel palazzo del Trianon, nei pressi di Parigi che,

nonostante alcune mezze promesse dei governi occidentali, restò

agli occhi degli ungheresi la più grande catastrofe e umiliazione

della loro storia. Di fatto il vecchio Regno di Ungheria era ridotto a

un terzo per chilometri quadrati (da 220.00 a 83.000) e per

popolazione. Di più, oltre due milioni e mezzo di ungheresi

divenivano cittadini di altri Stati; inoltre il bacino economico e

commerciale esistente entro i confini precedenti era frazionato con

conseguenze di non scarso rilievo, anche perché presto prevalsero

in tutta Europa le politiche protezionistiche piuttosto che il libero

scambio e la collaborazione commerciale. L’Ungheria ottenne solo

di recuperare, alla frontiera con l’Austria, la città e il circondario di

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Storia dell’Europa centro-orientale 2009-2010

Sopron in seguito a plebiscito, essendo nel 1923 ammessa nella

Società delle Nazioni.

Il quadro politico interno andò progressivamente

chiarendosi. Tre tendenze politiche lottavano per il potere: i

democratici, i radicali di destra e i conservatori. I1 partito

socialdemocratico dall’agosto 1919, abbandonando la linea

precedente di collaborazione con i comunisti, decise di seguire una

linea riformista. Negli ambienti della piccola e media borghesia e

degli intellettuali si manifestarono simpatie per il movimento

cristiano socialista, ma soprattutto per i partiti liberali democratici.

Un programma democratico presentava anche una corrente del

Partito contadino diretta da István Nagyatádi Szabó, radicato nelle

campagne, ma sostenuto anche da intellettuali. I seguaci del

radicalismo di estrema destra, raccolti prevalentemente in

associazioni paramilitari (MOVE, Lega nazionale delle forze

armate ungheresi, ÉME, Associazione degli ungheresi risvegliatisi)

responsabili in parte di uccisioni e altre violenze, intendevano

abolire o almeno limitare il parlamentarismo per dare vita a un

potere centralizzato o dittatoriale, né mancavano nelle loro fila

sentimenti antiebraici. Terminata la fase del “terrore bianco” e

normalizzatasi la situazione del quadro politico, dal 1921-22

Horthy prese le distanze da questi movimenti, dei quali divenne

uomo di riferimento Gyula Gömbös. Al centro del sistema politico

si collocavano i rappresentanti dell'élite tradizionale, cioè grandi

possidenti e ricchi capitalisti, i quali volevano ripristinare il sistema

parlamentare prebellico, eventualmente con qualche concessione in

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Storia dell’Europa centro-orientale 2009-2010

senso democratico. In sostanza intendevano favorire un regime di

carattere conservatore, attraverso il sostegno ai partiti agrari e

cattolici. Il miglior rappresentante di questa prevalente tendenza

conservatrice, rispettosa delle forme democratiche, fu István

Bethlen, dal 1921 al 1931 primo ministro, e dal 1922 al 1932

leader del partito governativo. Difensore di un liberalismo

moderatamente censitario di stampo ottocentesco, si oppose ai

partiti della sinistra radicale e della destra radicale, ma anche a

tendenze democratiche più moderate. Ciò non gli impedì di

giungere a un accordo con il partito socialdemocratico che

riammise nel gioco politico. Fu dunque propugnatore della

"democrazia guidata" o "democrazia conservatrice" ovvero del

“progresso moderato". Di fatto il sistema politico ungherese

vigente fino al 1944 si ispirò alle sue concezioni.

Tra il 1920 e il 1926 la funzione legislativa fu assicurata

dall’assemblea nazionale, poi dal 1927 il parlamento divenne

bicamerale, quando fu istituita la Camera Alta, erede della Camera

dei magnati, vigente prima del 1918. Essa fu di tendenza più

conservatrice, essendo i suoi membri in parte nominati e in parte

eletti in rappresentanza di varie istituzioni ed Enti. Nel 1937 i

poteri della Camera Alta furono aumentati per limitare quelli

dell’altra Camera. Le elezioni del 1920 si tennero sulla base di una

legge elettorale piuttosto democratica varata dal governo Friedrich

sulla scorta di quanto precedentemente deciso dal governo Károlyi:

poterono esprimere le proprie preferenze con voto segreto il 75%

dei cittadini adulti, pari al 40% della popolazione totale, con un

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Storia dell’Europa centro-orientale 2009-2010

notevole ampliamento del numero degli elettori rispetto al periodo

prebellico. All’epoca nell’Europa occidentale e settentrionale,

come anche in Austria e in Cecoslovacchia, godeva dei diritti

elettorali il 45-60% della popolazione, mentre in altri Paesi

(Francia, Italia, Svizzera, Belgio, Polonia) tali diritti spettavano al

25-35% dei cittadini e nei Balcani al 20-25%. Ne sortì un

parlamento espressione di vari ceti sociali e non solo di quelli alti,

tanto che Bethlen nella primavera del 1922 cambiò la legge

elettorale, riducendo la percentuale degli elettori al 28% della

popolazione, ma soprattutto introducendo il voto palese

(sconosciuto negli altri Paesi europei) in campagna, dove votava

circa l’80% degli elettori. Nel parlamento eletto nel 1922, così,

aumentarono le rappresentanze dei ceti alti e diminuirono quelle

dei ceti medi e popolari. Sempre per iniziativa di Bethlen nel 1922 i

maggiori partiti (Partito dei piccoli proprietari e Partito dell’Unione

nazionale cristiana) si disgregarono e in parte ricomposero nel

nuovo partito di governo – Partito unitario, dal 1932 Partito

dell’Unità nazionale e poi Partito della Vita Ungherese – che

ottenne sistematicamente dal 1922 in avanti un’ampia maggioranza

dei seggi (60-70%). Molto limitata fu invece l’incidenza

parlamentare dei socialdemocratici e dei liberali democratici.

Nonostante l’operato di Bethlen, non si può parlare di una dittatura

del presidente del consiglio, il cui potere era limitato

dal1'opposizione parlamentare, e dalla disomogeneità dello stesso

partito governativo. In esso, accanto al forte centro conservatore,

convivevano frange di contadini democratici e di liberali, nonché,

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Storia dell’Europa centro-orientale 2009-2010

all’ala destra, Gyula Gömbös e una pattuglia di radicali di destra

(nel 1923 uscirono dal partito per farvi ritorno nel 1928). Negli

anni trenta i vari gruppi radicali di destra del partito governativo si

rafforzarono, a scapito dei liberali; e, dal 1935, si può parlare di

una concorrenza tra l’ala destra e il centro conservatore. Di fatto le

riunioni interne al partito governativo precorrevano le decisioni

parlamentari: il vero confronto di interessi e idee contrastanti

avveniva in quella sede più che in parlamento, dove raramente le

opposizioni potevano fare valere il loro punto di vista.

Il reggente ebbe poteri abbastanza significativi, ma non tali

da imporre la sua volontà al legislativo e all’esecutivo, sebbene

fosse anche capo supremo dell’esercito, essendo suo subalterno

immediato pure i1 capo di Stato maggiore. Nella pratica divenne

uso costante che il governo presentasse i più importanti progetti di

legge a Horthy anticipatamente, prima della discussione in

parlamento, il che ricordava la pratica usata fino al 1918 con il

sovrano austro-ungarico (pre-sanzione). Tuttavia per alcuni anni il

reggente godette di una dignità rappresentativa più che politica.

Però le sue competenze, fissate ne1 1920, si estesero gradualmente

negli anni trenta, rinforzandone la posizione di fronte al parlamento

e infine consentendogli persino di scegliere il successore. Nel

febbraio 1942 le due Camere del parlamento nominarono

vicegovernatore il figlio maggiore di Horthy, István. Si pensò

all’instaurazione di una nuova dinastia, ma appena dopo un anno e

mezzo il giovane Horthy perse la vita in un disastro aereo il 20

agosto 1942, né fu nominato un altro vicegovernatore. I poteri

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Storia dell’Europa centro-orientale 2009-2010

conferiti al reggente sembrano agli storici essere stati soprattutto un

freno alla crescente influenza della destra radicale in seno al

parlamento.

Il più grande degli Stati nati sulle rovine degli imperi fu la

Polonia. Il suo territorio non era certo vasto come quello

dell’Unione polacco-lituana scomparsa in seguito alle spartizioni

del Settecento, ma comprendeva anche territori non abitati da

polacchi. Si è detto di come, sia da parte russa che da parte

austriaca e tedesca, si fosse fatto di tutto per attirare le simpatie

della nazionalità polacca (entità certo non trascurabile), tanto che

accanto agli eserciti degli Imperi centrali combatterono anche

polacchi inquadrati in specifiche formazioni militari. Gli eventi

tumultuosi e imprevisti del 1918, che trasformarono le vittorie

austro-tedesche sul fronte orientale nella sconfitta finale contro le

Potenze occidentali, fecero sì che il comandante della Legione

polacca, Josef Piłsudski, proclamasse l’indipendenza polacca.

All’organizzazione dello Stato e del governo si affiancò

come problema urgente quello della definizione dei confini. Le

truppe polacche si trovarono a contrastare le iniziative delle nazioni

baltiche che aspiravano parimenti all’indipendenza: in particolare

sorsero seri conflitti con i lituani per la città di Vilnius (Vilno),

abitata in prevalenza da polacchi, ma circondata da un contado

etnicamente lituano. L’impegno militare dei polacchi fu ancora più

significativo nella Galizia, già provincia austro-ungarica: qui essi si

scontrarono con i ruteni o ucraini occidentali i quali proclamarono

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Storia dell’Europa centro-orientale 2009-2010

a Lvov (Leopoli, Lviv) una Repubblica democratica che entrò

presto in relazioni, prodromo di una progettata unione, con la

Repubblica democratica d’Ucraìna, con capitale Kiev, costituitasi

già nel 1917 e proclamatasi indipendente all’inizio del 1918 (si

vedano maggiori dettagli in N. Werth, Storia della Russia nel

Novecento, Il Mulino). Quando poi scoppiò il conflitto tra Polonia e

Russia bolscevica, gli uomini di Piłsudski penetrarono anche

nell’Ucraìna occupando in modo effimero Kiev. Un’impetuosa

controffensiva dei bolscevichi si arrestò solo sulla Vistola donde

l’Armata Rossa fu ricacciata da una nuova avanzata polacca. Infine

con la pace di Riga del 1921 il confine russo-polacco si stabilizzò

in modo da includere nella Polonia cospicue minoranze di ucraini e

bielorussi. Se la regione mineraria della Slesia fu divisa tra

Germania e Polonia sulla base di un plebiscito, un ultimo

contenzioso territoriale (se pure modesto) riguardò il distretto di

Teschen, incluso in buona parte nello Stato cecoslovacco.

La fissazione delle frontiere polacche era stata questione

estremamente difficile e drammatica, ma non meno complessa fu la

vicenda politica interna. Faticoso fu il processo costituzionale della

neo-costituita Repubblica e troppo frequenti i cambi di governo. A

lungo si discusse sulle funzioni delle due Camere, Senato e Sejm, e

fu questa assemblea di deputati ad avere maggiori poteri. Le

principali forze in campo erano la Destra che si richiamava in parte

alle idee della Democrazia nazionale di Dmowski e comprendeva

partiti di ispirazione cattolica, la Sinistra socialista (e patriotica)

che aveva in Piłsudski il suo capo carismatico, nonché in posizione

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Storia dell’Europa centro-orientale 2009-2010

centrale il partito contadino di Witos. Dopo alcuni anni di

incertezze e un continuo alternarsi di esecutivi di vario colore, il

conflitto si fece particolarmente acuto nel 1926 a riguardo dei

poteri del capo dello Stato, nonché in fatto di subordinazione

dell’esercito al governo. Un colpo di Stato che causò un numero

non altissimo di vittime risolse la situazione a favore dei socialisti e

di Piłsudski. Si trattò di un processo politico di non facile

interpretazione e definizione, ma di fatto ne conseguì una dittatura

dissimulata dietro forme parlamentari che finì per allontanare dal

Maresciallo eroe dell’indipendenza molti suoi seguaci. Il nuovo

regime in un primo tempo ebbe, in modo paradossale, le simpatie

sia del fascismo italiano sia del movimento socialista, salvo un

successivo chiarimento delle posizioni. Di fatto non si può parlare

per la Polonia di un regime fascista, ma soltanto di crisi della

democrazia e del prevalere di una politica autoritaria, peraltro con

coincidente, almeno in linea di principio, con forze e interessi

conservatori. Eccessivo e preoccupante fu il ruolo che i militari

ebbero in tutte quelle vicende e nello stesso regime. La discreta

apertura di Piłsudski verso le minoranze non ebbe conseguenze

soddisfacenti in termini di dialogo tra queste e la maggioranza

polacca e cattolica. Il problema delle relazioni interetniche restò

aperto, e affine ad esso fu quello attinente la numerosissima

comunità ebraica (oltre tre milioni di persone) destinata ad essere

sterminata durante la seconda guerra mondiale dagli occupanti

tedeschi. Fu quel regime semiautoritario a guidare la Polonia nella

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Storia dell’Europa centro-orientale 2009-2010

restante parte del periodo interbellico e ad affrontare la crisi

economica successiva al 1929.

La Cecoslovacchia fu l’ennesimo Stato “successore”

dell’impero su cui avevano regnato gli Absburgo. Esso nacque

dall’unione dei Paesi cechi (Boemia e Moravia) già inclusi nella

parte austriaca della Duplice Monarchia, con la Slovacchia e la

Rutenia subcarpatica, province fino al 1918 del regno d’Ungheria.

A quei tre popoli slavi (cechi, slovacchi e ruteni) si aggiungevano

una numerosissima minoranza di tedeschi (oltre tre milioni) nella

regione dei Sudeti e una cospicua minoranza ungherese (circa

mezzo milione) in Slovacchia. I padri della Cecoslovacchia

Masaryk e Beneš, furono i principali propugnatori della distruzione

dell’Austria-Ungheria, tanto da convincere i governi occidentali a

optare nella seconda parte della guerra mondiale per questa drastica

opzione. Paradossalmente lo Stato cecoslovacco si trovò a fare

fronte al problema delle relazioni interetniche che era stato cruciale

per la Duplice Monarchia. I cechi erano avvertiti dalle altre

comunità etniche come i “padroni” dello Stato, dominando

nell’amministrazione e nell’esercito, nonché nelle più avanzate

attività economiche. Il fenomeno in parte era fisiologico poiché la

Boemia-Moravia era senza dubbio e da tempo Paese più progredito

della Slovacchia e della Rutenia. Dagli accordi preliminari siglati

negli Stati Uniti con i cechi da loro rappresentanti slovacchi e

ruteni si attendevano maggiore autonomia e una “convivenza”

basata su piena parità. Il partito popolare (cattolico) di monsignor

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Storia dell’Europa centro-orientale 2009-2010

Hlinka, la principale forza politica slovacca, manifestò chiare

tendenze autonomistiche che sfumavano verso l’aspirazione

all’indipendenza. Anche il ruolo che la Chiesa cattolica aveva in

Slovacchia piuttosto che in Boemia entrò in conflitto con un certo

laicismo del ceto politico e dirigente ceco. Grandi polemiche

accompagnarono i rapporti tra il governo e la Santa Sede tanto da

impedire la conclusione di un Concordato, come invece si ebbe

persino in Paesi in cui i cattolici erano minoranza (come la

Romania o la Jugoslavia). Nonostante questi seri problemi legati

alla disomogeneità etnica della popolazione, la Cecoslovacchia fu il

Paese dell’Europa centro-orientale nel quale più radicata e duratura

fu la democrazia. Persino i comunisti godettero di agibilità politica

e a Praga ebbe il suo principale centro l’Internazionale verde,

costituita dai partiti contadini. E le regole democratiche vigevano

ancora quando, nel 1938, lo Stato cecoslovacco subì la mortale

offensiva della Germania nazista.

I popoli baltici (lituani, lettoni ed estoni), legati all’impero

zarista dai tempi di Pietro il Grande, avevano rappresentato un’area

sufficientemente progredita della compagine imperiale. La classe

dirigente (i baroni baltici) era di origine o di cultura tedesca e aveva

saputo trovare un modus vivendi con lo zar e la sua Corte. Fino alla

Grande guerra era difficile credere che essa sarebbe stata

estromessa dal potere, così come non molti ipotizzavano un

distacco di quelle terre dalla Russia. In verità una valida

rappresentanza delle tre nazioni era già matura per assumere la

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Storia dell’Europa centro-orientale 2009-2010

responsabilità di costituire e guidare tre Stati indipendenti.

Nonostante l’opposizione di forze tedesche (Freikorps), che

operarono sul Baltico persino dopo la firma degli armistizi

dell’autunno 1918 (con la precedente pace di Brest Litovsk la

Russia bolscevica aveva accettato che i Paesi baltici fossero annessi

alla Germania), nonché dei russi e dei polacchi, Lituania, Lettonia

ed Estonia proclamarono l’indipendenza e seppero difenderla. Il

più vasto dei tre Paesi, la Lituania, non poté però includere nei suoi

confini la città principale (oggi la capitale), cioè Vilnius,

controllata dai polacchi. La capitale fu quindi Kaunas (Kovno).

Inoltre allo Stato lituano fu contestato anche il limitato sbocco al

mare rappresentato in primo luogo dal porto di Memel (alla foce

del fiume omonimo) o Klapeida. Quel porto era soggetto alle

aspirazioni revisionistiche della Germania, aspirazioni che

trovarono realizzazione nel marzo 1939. Nel 1921 le Potenze

occidentali riconobbero Estonia e Lettonia (sull’antico territorio di

Livonia e Curlandia), mentre ci volle ancora del tempo per la

Lituania a causa del contenzioso territoriale con la Polonia.

Nonostante la sufficiente maturità dimostrata dalle popolazioni

baltiche, esse pure non furono in grado di fare attecchire la pianta

della democrazia. Tuttavia il regime democratico, con limitazioni e

difetti, fu vigente per tutti gli anni Venti e i primi anni Trenta. Il

1934 segnò la sua fine con l’affermarsi di regimi autoritari anche in

quell’angolo settentrionale del continente. Per Lituania, Lettonia ed

Estonia i problemi principali continuarono a riguardare il

mantenimento dell’indipendenza. In tal senso già nel 1923 Tallinn

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Storia dell’Europa centro-orientale 2009-2010

e Riga siglarono un’alleanza militare, ma nel 1934 con il governo

lituano giunsero a stipulare un’Intesa baltica che alla prova dei fatti

non si dimostrò uno strumento diplomatico sufficiente a respingere

gli interessi delle grandi Potenze dell’area.

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Storia dell’Europa centro-orientale 2009-2010

3. Le democrazie impossibili. Il nuovo conflitto mondiale.

Negli anni Trenta si dimostrò tutta la fragilità del modello

democratico importato nell’Europa centro-orientale. Ad uno ad uno

i regimi parlamentari si trasformarono in regimi autoritari, sotto la

spinta degli eventi internazionali e di forze antisistema, più di

destra radicale che di sinistra. Le vicende di politica interna si

intrecciarono o furono sovrastate dalle dinamiche delle relazioni

internazionali, sempre più convulse con il passare degli anni, sino

al coinvolgimento in varia forma di tutti i Paesi dell’Europa centro-

orientale nel grande dramma della seconda guerra mondiale.

La Bulgaria fu il primo Paese balcanico ad abbandonare il

modello democratico occidentale. Eppure esso era sopravvissuto

persino al colpo di Stato del 1923. Anzi, dopo il governo Cankov,

nel 1927 il sistema politico era sembrato tornare alla piena

normalità tanto da consentire la conclusione di un prestito

internazionale, a opera del governo britannico, un gesto che era

prova di credibilità della Bulgaria. Le formazioni di destra

simpatizzanti per il fascismo italiano (il nazismo non costituiva

ancora un modello) avevano un seguito molto limitato ed erano

sostanzialmente emarginate dalle maggiori forze politiche. Il

maggiore pericolo per la democrazia veniva dalle file della Lega

militare o Voenna Liga, elemento fondamentale per la buona

riuscita del golpe attuato contro Stambolijski. Al suo interno

convivevano più anime, fautori della monarchia come della

39

Storia dell’Europa centro-orientale 2009-2010

repubblica, sostenitori di una politica estera revisionista ma pure di

una conciliativa. Con gli anni particolare successo ebbe il circolo

politico e culturale Zvenò (Anello). I suoi membri non

partecipavano dell’avversione contro la Jugoslavia diffusa tra i

bulgari, ma in politica interna non speravano che la

modernizzazione del Paese potesse seguire la via della democrazia

liberale: il modello cui sembravano ispirarsi era di stampo

corporativo e per questo certa storiografia (Ilčo Dimitrov) ha

parlato di affinità con il fascismo italiano. Eppure quando lo Zvenò

attuò nel 1934 un nuovo colpo di Stato che non depose il re Boris

III, ma gli impose la nomina del colonnello Kimon Georgiev a capo

del governo e l’immediata sospensione della Costituzione del 1879,

esso non compì alcun atto di simpatia verso Roma, bensì effettuò

una precisa apertura diplomatica verso Belgrado. Il nuovo regime

ebbe vita breve. Già nel 1935 Boris III (sposato con Giovanna di

Savoia, figlia di Vittorio Emanuele III), puntando sull’ala

monarchica della Lega militare, esautorò Georgiev e il colonnello

Delčev (il “tecnico” dei colpi di Stato). Non ripristinò però la

Costituzione, bensì diede vita a un regime personale, fondato su un

partito nazionale e quasi unico a lui devoto e su un parlamento

opportunamente eletto per non negare mai l’assenso all’esecutivo.

Una rara eccezione fu costituita da un pugno di oppositori che non

approvarono nel 1940 l’adesione al Patto tripartito, mentre il

vicepresidente della Camera Dimităr Pešev nel pieno del secondo

conflitto mondiale riuscì a impedire la deportazione dell’intera

comunità ebraica di Bulgaria (50.000 individui) quando le tradotte

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Storia dell’Europa centro-orientale 2009-2010

erano già pronte a partire alla volta dei campi di concentramento

del Reich, facendo vivaci pressioni (forse non del tutto sgradite) sul

re e sul primo ministro Bogdan Filov. Per il resto il regime

autoritario bulgaro non si discostò molto dal modello che si andava

diffondendo in tutta l’Europa centro-orientale. Nonostante

l’adesione al patto Tripartito il governo bulgaro restò fuori dal

conflitto, soltanto procedendo all’occupazione dei territori

macedoni sia della Grecia sia della Jugoslavia. Ciò fu sufficiente

perché Inghilterra e stati Uniti d’America dichiarassero guerra alla

Bulgaria, senza però che le operazioni militari raggiungessero il

suolo bulgaro. Soprattutto la Bulgaria non partecipò alla guerra

contro l’Unione Sovietica con la quale mantenne normali rapporti

diplomatici. Gli sviluppi della guerra, però, non mancarono di

influire sulle sorti anche di quel Paese balcanico. Morto per cause

naturali re Boris III nel 1943, la Reggenza qualche tempo dopo

cercò di sganciarsi dall’alleanza con la Germania, nominando a tale

scopo nel giugno 944 il governo Bagrianov e nel settembre 1944,

con l’Armata Rossa alla frontiera, il governo capeggiato

dall’esponente del partito contadino Muraviev che si spinse sino a

dichiarare guerra alla Germania Ciò non bastò per impedire che

Mosca dichiarasse guerra alla Bulgaria, l’armata Rossa procedesse

all’occupazione del territorio bulgaro e il Fronte patriottico

(Otečestven Front) in buona misura ispirato dal partito comunista

proclamasse l’insurrezione e assumesse il potere, arrestando

reggenti e ministri. Paradossalmente per qualche tempo il Paese che

meno aveva avuto a che fare con il conflitto si trovò in guerra con

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Storia dell’Europa centro-orientale 2009-2010

tutte le grandi Potenze belligeranti. Si stava profilando un

cambiamento politico di lunga durata con la costituzione del

regime comunista e la “satellizzazione” nei confronti dell’Unione

Sovietica.

In Romania la Guardia di Ferro era sempre più popolare

presso contadini, intellettuali e studenti. Essa toccò il massimo dei

consensi nelle elezioni del 1937 (le più libere della storia romena)

tanto da indurre il re Carol II a un colpo di Stato incruento, dal

carattere conservatore, cui nel 1938 seguì l’arresto e l’uccisione di

Corneliu Codreanu, leader dei fascisti romeni. Fu abolita la

Costituzione, presto sostituita con un’altra di stampo non

democratico, mentre elezioni e parlamento ebbero funzione

puramente esornativa: la Grande Romania, intesa non solo

territorialmente ma anche come modello politico trovò allora la sua

fine. Peraltro il monarca da tempo svolgeva una sua politica

personale, a copertura degli scandali che erano sorti intorno alla sua

persona (era stato costretto prima della morte del padre, il re

Ferdinand, a rinunciare ai suoi diritti di erede al trono e a trasferirsi

all’estero) ma soprattutto con l’intento di realizzare un governo

autoritario non privo di ambizioni modernizzatrici, considerate

inconciliabili con metodi pienamente democratici. L’aver scelto

questa linea politica non impedì che si cercasse di mantenere

l’orientamento filo-occidentale in politica estera, nonostante

l’allontanamento di Nicolae Titulescu dal dicastero degli Esteri

(avvenuto già nell’agosto 1936) e sebbene i rapporti commerciali

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Storia dell’Europa centro-orientale 2009-2010

con la Germania nazista fossero sempre più massicci e

condizionanti. La dittatura del re durò solo due anni: nel 1940 il

governo di Bucarest era ormai legato a filo doppio con l’Asse e

soprattutto con Berlino. Il Patto Molotov-Ribbentrop lasciò la

Romania senza protettori di fronte al revisionismo sovietico:

esisteva una “garanzia” anglo-francese ma non riguardava le

frontiere orientali. Un ultimatum di Stalin del giugno obbligò il

governo romeno a cedere nel giro di poche ore la Bessarabia e la

Bucovina settentrionale che – con alcuni aggiustamenti territoriali –

andarono a costituire la repubblica sovietica della Moldavia,

nell’ambito dell’Unione sovietica. Pochi mesi più tardi Bucarest e

Sofia si accordarono a Craiova per la cessione della Dobrugia

meridionale alla Bulgaria. Infine, in settembre venne il colpo più

duro: il secondo arbitrato di Vienna a opera di Ciano e Ribbentrop,

ministri degli Esteri di Italia e Germania, preluse alla cessione di

buona parte della Transilvania all’Ungheria. Una decisione che non

soddisfece a pieno le aspirazioni degli ungheresi, colpì

profondamente l’opinione pubblica e il sentimento nazionale

romeno, ma soprattutto costrinse Carol II ad abdicare a favore del

giovane figlio Michele che lasciò di fatto il potere a un uomo forte,

un militare, il generale Ion Antonescu, nominato successivamente

Maresciallo e noto con il titolo di Conducător, calco di Duce o

Führer. Egli – sostanzialmente rappresentante di un destra

conservatrice – governò per pochi mesi insieme con gli uomini

della Guardia di ferro, cioè con la destra radicale. Eccessi dei

guardisti (come l’uccisione dello storico e politico Nicolae Iorga e

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Storia dell’Europa centro-orientale 2009-2010

dell’economista Virgil Madgearu e violenze antisemite) e tensioni

politiche fecero sì che l’accordo durasse solo quattro mesi. Dopo

essersi garantito con un viaggio in Germania l’assenso di Hitler,

Antonescu provocò una – peraltro attesa - sollevazione della

Guardia che represse con il ricorso all’esercito, consentendo

tuttavia che alcuni esponenti di punta di essa (tra cui il nuovo

leader Horia Sima) espatriassero.

Hitler aveva consentito ad Antonescu di liberarsi della

Guardia di ferro e governare senza oppositori o pericolosi alleati

poiché aveva bisogno che la Romania godesse di stabilità

nell’imminenza dello scontro con l’Unione Sovietica. Infatti nel

giugno 1941 ebbe inizio l’operazione Barbarossa e il governo di

Bucarest decise di fare la sua parte. Anche esponenti dei partiti

operanti fino al 1938 e buona parte dell’opinione pubblica romena

non erano contrari all’intervento a fianco della Germania per

recuperare le province orientale cedute all’Unione Sovietica appena

un anno prima e tutti gioirono per l’andamento positivo della prima

fase della campagna. Minore fu il consenso per il proseguimento

dell’avanzata oltre il Dniestr (Nistru) che portò le truppe romene a

occupare persino Odessa. Peraltro in questa fase temporale e in

questa aerea geografica le autorità romene si resero responsabili di

gravissimi massacri o deportazioni di ebrei, mentre i correligionari

delle province storiche del Regno di Romania – nonostante la

legislazione antiebraica – riuscirono in buona misura a salvare la

vita, evitando la deportazione verso i campi di concentramento

nazisti. Sul giudizio storico riguardo Antonescu pesa questa odiosa

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Storia dell’Europa centro-orientale 2009-2010

macchia, sebbene alcuni gli abbiano attribuito il merito di avere

salvato oltre metà degli ebrei romeni.

Il consenso verso il Conducător scemò ancora di più e

rapidamente quando si comprese che la guerra sul fronte orientale

era ben lungi dall’essere vinta. Se l’intervento era stato giustificato

dal desiderio di riconquistare i territori ceduti e per riaprire, in

modo indiretto, anche la questione della Transilvania, ora esponenti

dell’opposizione iniziarono a trattare con i governi occidentali e

successivamente fu aperto anche un canale di trattative con Mosca.

Parallelamente il vicepresidente del Consiglio e ministro degli

Esteri romeno Mihai Antonescu cercò di convincere il governo

italiano a uscire contemporaneamente dalla guerra, convinto

dell’esito negativo. Tuttavia il Conducător mantenne la Romania in

campo accanto alla Germania sino all’estate del 1944 quando ormai

l’Armata Rossa sovietica si affacciava alle frontiere della

Moldavia, cioè la parte orientale del Paese. Fu allora che, concluse

bene o male trattative segrete con i governi della coalizione

antitedesca, i leader di alcuni partiti (nazional-contadino, liberale,

socialdemocratico, comunista) con l’appoggio di settori militari e il

pieno avallo del giovane re Mihai, attuarono un colpo di mano che

ricorda quanto era avvenuto nel luglio 1943 in Italia per deporre

Mussolini. Ion Antonescu fu arrestato e fu costituito un governo

guidato dal generale Sănătescu che si affrettò a dichiarare il

rovesciamento delle alleanze. Le truppe romene furono così

impegnate per breve tempo contro quelle germaniche in ritirata.

Successivamente dovettero fare atto di resa verso quelle sovietiche,

45

Storia dell’Europa centro-orientale 2009-2010

nel frattempo sopraggiunte. Buona parte dell’esercito romeno fu

però immediatamente reso operativo per affiancare l’Armata Rossa

nelle operazioni in Transilvania, Ungheria, Cecoslovacchia e

Austria. Al pesante costo della campagna sul fronte orientale si

aggiunse, in termini di vite umane, un costo non indifferente di

questa ulteriore campagna. Ciò valse però alla Romania una

maggiore considerazione da parte delle Potenze vincitrici,

nonostante i termini abbastanza severi dell’armistizio firmato a

Mosca in settembre. In buona sostanza si posero le premesse per la

riannessione dei distretti della Transilvania perduti nel 1940. Su

tale evento positivo per lo Stato romeno pesò anche il rapido

insediamento nel marzo 1945 di un governo orientato a sinistra e

filosovietico, capeggiato da Petru Groza, ma già egemonizzato dal

partito comunista. La presenza dell’Armata Rossa, protratta ben al

di là della firma del trattato di pace (1947), sino al 1958, significò

non solo una garanzia per la costituzione del regime comunista (si

veda A.Biagini – F.Guida, Mezzo secolo di socialismo reale) e per

l’inserimento nel blocco sovietico, ma anche la rinuncia a ogni

speranza di recuperare i territori ceduti nel giugno 1940 all’Unione

Sovietica. In modo parzialmente simile non fu messo in discussione

neanche l’accordo bulgaro-romeno di Craiova del 1940 e la

Dobrugia meridionale restò parte integrante della Bulgaria.

In Jugoslavia (ora il nome era ufficiale) nel 1931 il re

Alessandro pose termine al periodo di sospensione della

Costituzione. L’introduzione di rinnovate norme costituzionali non

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Storia dell’Europa centro-orientale 2009-2010

migliorò di molto la situazione, nonostante le nuove divisioni

amministrative (banovine) rivelassero il chiaro intento di mettere

da parte le antiche appartenenze storiche. Nel 1934 il re cadde

vittima, con il ministro degli Esteri francese Barthou, di un

attentato a Marsiglia, opera di croati e macedoni, che avevano

goduto dell’appoggio dei governi di Roma e Budapest.

Paradossalmente il progetto riformatore non fu interrotto da un

evento così tragico. Dopo la sostituzione del primo ministro

Stojadinović (uomo forte della debole democrazia jugoslava,

sgradito al governo inglese anche per le sue simpatie filo-italiane e

filotedesche, tanto da volerne l’esilio dorato nelle lontane isole

Mauritius) e dopo lunghe trattative, il reggente Paolo, secondato

dal nuovo presidente del Consiglio Dragiša Cvetković, il 26 agosto

1939 seppe trovare la via dell’accordo con il partito contadino

croato e il suo leader Maček. La Croazia divenne sulla base di tale

accordo (sporazum) una banovina estremamente estesa e dotata di

vera autonomia (con il suo governatore o ban e un proprio

parlamento o sabor). La linea conciliativa dei due principali

interlocutori e di altri uomini politici era stata fortemente

condizionata dall’abbattimento in due tempi (ottobre 1938 – marzo

1939) di un altro Stato multietnico, la Cecoslovacchia. Tuttavia non

si era pervenuti ad accordarsi sulla formazione di una Jugoslavia

federale e maggiormente fondata su principi democratici

(attraverso l’abolizione della Costituzione del 1931). La bontà della

formula adottata non poté essere verificata sul lungo periodo per lo

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Storia dell’Europa centro-orientale 2009-2010

scoppio della nuova guerra che coinvolse drammaticamente la

Jugoslavia nel 1941.

Il governo jugoslavo, discostandosi da una tradizionale

politica anglofila e francofila, era stato il primo a togliere

significativo al proprio impegno nella Piccola Intesa. Da una parte

aveva fatto seguire alla firma dell’Intesa o Patto balcanico (1934) –

volto a salvaguardare lo status quo nei Balcani – un deciso

riavvicinamento alla Bulgaria, Paese revisionista proprio nei

confronti della Jugoslavia. Con Stojadinović si era fatte migliori le

relazioni con Germania e Italia (ed era stato firmato il concordato

con il Vaticano non senza echi polemici). Realizzato l’accordo con

i croati, il reggente Paolo e l’esecutivo guidato da Cvetković, sotto

l’impressione degli eventi bellici (il crollo della Francia) e da

tempo sottoposti alle pressioni diplomatiche dell’Asse, si spinsero

oltre, firmando prima un trattato d’amicizia con un altro Stato

revisionista quale l’Ungheria, quindi aderendo al Patto tripartito. La

Jugoslavia era ormai nell’orbita italo-tedesca, ma buona parte

dell’opinione pubblica, soprattutto in Serbia, e degli ambienti

militari non condividevano il nuovo indirizzo di politica estera.

Londra, dal canto suo, sostenne e rinfocolò quel malcontento,

preoccupata di perdere un importante “amico” nella penisola

balcanica, con grave pericolo anche per la Grecia, da alcuni mesi

sottoposta all’aggressione militare italiana. Infatti Mussolini aveva

“offerto” Salonicco ai suoi interlocutori jugoslavi per averne il

sostegno anche in funzione della sfortunata campagna di Grecia.

Nel giro di pochi giorni un colpo di mano militare portò alla

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Storia dell’Europa centro-orientale 2009-2010

deposizione del reggente e del governo in carica, sostituendoli con

il giovanissimo principe Pietro (di cui si proclamò la maggiore età

con qualche mese di anticipo sul compimento dei 18 anni) e con il

governo di ampia coalizione capeggiato dal generale Simović. Pur

in assenza di denuncia formale del Patto tripartito, era evidente il

significato di quel cambiamento politico anche in termini di

politica estera. La reazione dell’Asse non si fece attendere. Dopo

un intenso bombardamento paracadutisti tedeschi scesero su

Belgrado mentre le frontiere settentrionali e occidentali furono

violate dagli eserciti germanico e italiano. La resistenza militare

jugoslava si dimostrò inferiore alle attese e in pochi giorni l’intero

Paese fu sotto controllo degli invasori. Essi non si accontentarono

di consegnare il potere a uomini fidati; preferirono spartirsi la

Jugoslavia, invitando altri Paesi a partecipare alla spartizione. Parte

della Slovenia e la Dalmazia passarono sotto controllo italiano, la

restante parte della Slovenia sotto quello tedesco; prese vita uno

Stato croato indipendente che includeva la Bosnia-Erzegovina

affidato agli ustaša e al loro capo (poglavnik) Ante Pavelić; fu

restituita l’indipendenza al Montenegro ma sotto protettorato

italiano, all’Albania (in unione personale con l’Italia) furono

annesse Kosovo e Macedonia occidentale, all’Ungheria Bacska e

Baranya, alla Bulgaria la Macedonia serba. Infine fu lasciata in

essere una Serbia ridotta ai confini dell’Ottocento, con un governo

Nedić poco meno che collaborazionista. Gli occupanti

sottovalutarono, però, la possibilità che si riorganizzasse la

resistenza con azioni di guerriglia e non vi fu un opportuno

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Storia dell’Europa centro-orientale 2009-2010

rastrellamento delle armi in dotazione all’esercito disfatto. A

distanza di pochi mesi più movimenti di resistenza erano in azione,

i principali essendo quello dei cetniči, tipico della Serbia, fedele al

giovane re in esilio a Londra e capeggiato da un ufficiale Draža

Mihajlović, e quello orientato politicamente a sinistra e guidato dal

leader comunista Josif Broz detto Tito. La Resistenza jugoslava fu,

assieme a quella polacca, la più importante nell’intero continente.

Un aspetto negativo fu il conflitto continuo che oppose le sue

diverse correnti, in combinazione con la lotta contro gli occupanti e

contro i regimi da loro imposti, tanto che si può parlare di una sorta

di guerra civile, spesso a carattere etnico. Sebbene sembri

eccessivo affermare - come in Jugoslavia si è fatto - che il Paese si

liberò senza il concorso di eserciti stranieri, è vero che quella

Resistenza contribuì notevolmente a tenere impegnati gli eserciti

occupanti sino alla loro ritirata (per gli italiani avviata già

dall’autunno 1943) conclusasi nel 1945, nonché all’abbattimento

dei regimi da essi favoriti o istituiti. In particolare fu abbattuto il

regime ustascia in Croazia, fino alla fine convinto satellite della

Germania nazista e responsabile di pesantissimi eccidi di serbi,

ebrei e zingari. Praticamente senza soluzione di continuità avvenne

la presa di potere del governo che faceva capo a Tito, nell’ultima

fase della guerra preferito dagli Alleati come referente politico e

destinatario di rifornimenti militari e in grado militarmente di

spingersi sino a occupare l’Istria e Trieste, dove (pure come rivalsa

per quanto fatto dal regime fascista verso gli slavi prima e dopo il

1941) furono commesse violenze particolarmente crudeli verso gli

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Storia dell’Europa centro-orientale 2009-2010

italiani, a migliaia scomparsi nelle foibe, così ponendo le premesse

per il loro successivo esodo generalizzato dalla Jugoslavia

comunista (si veda A.Biagini – F.Guida, Mezzo secolo di

socialismo reale).

L’Albania non aveva conosciuta una reale democrazia e il

progetto di modernizzazione dall’alto perseguito da re Zog

procedeva molto lentamente. L’Italia sempre più sembrava

esercitare un protettorato de facto sul Paese. Non vi erano seri

motivi per pensare a un’annessione territoriale, essendo sufficiente

creare una dipendenza dell’economia albanese da quella italiana né

il re Zog era in grado di scrollarsi di dosso quella tutela. Eppure il 7

aprile 1939 le forze militari italiane occuparono l’Albania (senza

particolari difficoltà): gli studiosi del regime fascista italiano

considerano tale atto una risposta all’annessione al Reich tedesco di

Boemia e Moravia, come dimostrazione di forza e capacità di

iniziative autonome da parte di Mussolini nei confronti di Hitler. Si

trattò di un’unione personale e non di annessione poiché il re

Vittorio Emanuele III ricevette la corona albanese, ma il Paese fu

governato da un viceré italiano (Jacomoni di San Savino) e da un

governo di esponenti politici locali – si potrebbe dire meglio

notabili. Shefqet Verlaci, nemico di Zog, fu il primo capo

dell’esecutivo, ma più tardi cedette il posto a Mustafa Kruja. Più di

prima la vita dell’Albania fu legata all’Italia, ma presto fu possibile

dare una grande soddisfazione al sentimento nazionale. Dapprima

si pretese che la guerra alla Grecia (1940) nascesse anche dalla

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Storia dell’Europa centro-orientale 2009-2010

volontà di sostenere le aspirazioni a reintegrare nello Stato

albanese la regione della Çamuria, ma nella primavera 1941, con il

crollo della Jugoslavia, fu possibile concretamente allargare i

confini albanesi non solo a lembi del territorio ellenico, ma

soprattutto al Kossovo e alla Macedonia occidentale in cui era forte

la presenza dell’elemento etnico albanese: nasceva la Grande

Albania sognata da molti albanesi. Fu però una realizzazione

effimera destinata a crollare dopo la fine della guerra (cfr.

A.Biagini- F.Guida, Mezzo secolo di socialismo reale).

Completa il quadro dell’area balcanica la vicenda della

Grecia. Il nuovo e ultimo periodo di governo di Venizelos si

concluse nel 1932, anno in cui le elezioni politiche diedero un

risultato di sostanziale pareggio tra i liberali e i populisti di

Tsaldaris. Un Gabinetto di minoranza guidato da quest’ultimo durò

molto poco e infine nuove consultazioni elettorali nel 1933

consegnarono ai populisti una maggioranza confortante alla

Camera bassa, ma non al Senato. Ciò indusse il generale Plastiras a

tentare un nuovo colpo di Stato nel marzo 1933, fallito nel peggiore

dei modi ma tale da indebolire la posizione di Venizelos che fu

fatto segno a un attentato (giugno 1933). L’ascesa dei sostenitori

della monarchia indusse ufficiali repubblicani a un ulteriore

tentativo di colpo di Stato nel marzo 1935. Fallito anche questo

tentativo, vi furono alcune condanne a morte e un’ampia

epurazione nei quadri militari. Infine lo stesso Venizelos e Plastiras

furono costretti a riparare in Francia dove il primo morì nel 1936.

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Storia dell’Europa centro-orientale 2009-2010

Le correnti monarchiche ormai prevalevano: dopo un

successo quasi plebiscitario dei populisti alle nuove elezioni dovuto

anche all’astensione dei liberali, Tsaldaris, nonostante avesse

promesso di indire un nuovo referendum istituzionale, fu costretto a

cedere la guida dell’esecutivo al generale Kondilis (ex

repubblicano venizelista, ora convertito alla monarchia) il quale

proclamò il ritorno dell’istituto monarchico e fece poi svolgere un

referendum - del tutto inattendibile - che confermò la sua decisione.

Resta il dubbio, tuttavia, che una maggioranza dei greci fosse

realmente favorevole al ritorno del re Giorgio che peraltro era

intenzionato a favorire una riconciliazione generale nel Paese.

Nominò pertanto un civile, il professore Demertzìs, a capo del

governo perché all’inizio del 1936 si tenessero elezioni regolari:

così fu ma, complice il ripristinato sistema proporzionale, ancora

una volta si creò una situazione di sostanziale pareggio tra i due

maggiori partiti, tanto da porre nella posizione dell’ago della

bilancia i 15 eletti del Fronte popolare egemonizzato dal partito

comunista. Le trattative che Tsaldaris e Sofulis (erede di Venizelos)

avviarono con questi ultimi non sortirono effetti concreti e

indussero invece la Corte e alcuni settori militari a cercare una

soluzione “forte” in una particolare contingenza che vide la morte

in rapida successione dei più esperti politici ellenici, incluso il capo

del governo Demertzìs. Re Giorgio affidò la guida dell’esecutivo al

generale Metaxàs, capo di un piccolo partito di destra (7 deputati),

il quale ottenne la sospensione delle attività parlamentari per alcuni

mesi e l’affidamento delle funzioni legislative a una commissione

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Storia dell’Europa centro-orientale 2009-2010

di 40 saggi. Era la premessa per la costituzione di un regime

autoritario che avvenne attraverso la sospensione il 4 agosto 1936

di diversi articoli costituzionali, in seguito al perdurante stallo

politico, alle dimostrazioni di piazza sindacali e allo sciopero

generale proclamato dai comunisti. Sciolto formalmente il

parlamento, esso non fu più riconvocato fino al termine del nuovo

conflitto mondiale.

Il regime di Metaxàs si ispirò in buona parte a quelli tedesco

e italiano: grande era l’ammirazione personale del dittatore per la

civiltà germanica tanto da parlare di “terza civiltà ellenica” a

imitazione del Terzo Reich. Il regime non godeva tuttavia di un

sostegno di massa e dovette difendersi con la repressione

(capeggiata dal ministro degli Interni Mariadakis) da alcuni

tentativi di rovesciarlo, il più clamoroso essendo l’insurrezione di

Creta domata nel sangue. Se alcuni istituti, come l’Organizzazione

nazionale della gioventù, richiamavano chiaramente quelli dei

regimi fascisti, e un certo corporativismo paternalistico ricordava

gli aspetti più popolari dei regimi tedesco e italiano, la politica

estera e commerciale di Metaxàs non fu troppo sbilanciata verso

Berlino e Roma. La presenza del capitale tedesco effettivamente si

fece più forte in seno all’economia greca, ma Atene non disdegnò il

tradizionale apporto finanziario inglese e soprattutto cercò di

mantenere buoni, quasi privilegiati, rapporti diplomatici con

l’antica Potenza protettrice britannica, tanto da optare nel 1939 per

una neutralità benevola verso Londra.

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Storia dell’Europa centro-orientale 2009-2010

Aggredita dall’Italia nell’ottobre 1940, nonostante

l’omogeneità dei regimi, la Grecia fu sconfitta nel 1941 grazie

all’intervento tedesco proveniente dalla Bulgaria (operazione

Marita), contro cui nulla poté neanche la presenza di reparti

britannici. Sul fronte albanese invece l’esercito ellenico

(riorganizzato negli ultimi anni sotto la guida del generale Papàgos)

aveva ottenuto confortanti successi contro quello italiano. L’attacco

italiano era stato lanciato il 28 ottobre 1940 in coincidenza con il

18° anniversario della Marcia su Roma con un inaccettabile

ultimatum presentato nel cuore della notte dall’ambasciatore

Grazzi, cui Metaxàs rispose laconicamente “no” (ochi in greco) e

tale data è oggi per i greci festa nazionale. Il dittatore, morto nel

gennaio 1941 e sostituito da Alexandros Korizìs, non vide la resa

del 20 aprile firmata dal generale Tsolakoglu senza autorizzazione

del governo (il cui capo era Tsuderòs essendosi Korizìs suicidato

due giorni prima). Il Paese fu quindi posto sotto occupazione italo-

germanico-bulgara, sebbene restasse in carica un governo

fantoccio, ma la resistenza non mancò di farsi sentire, nonostante

fosse divisa in correnti tra loro ostili. Il re e il governo Tsuderòs si

trovavano in esilio al Cairo, sotto protezione britannica. Dopo

l’uscita dell’Italia dalla guerra nel 1943 il movimento partigiano si

fece più ardito e infine le truppe britanniche poterono rientrare sul

suolo ellenico, seguite dal monarca e dal suo entourage. Già allora

sembrò stesse per scoppiare la guerra civile tra le forze politiche

moderate e quelle di sinistra, guidate dal partito comunista. Un

precario accordo permise di rinviare lo scontro alla fine della

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Storia dell’Europa centro-orientale 2009-2010

guerra. Da allora sino al 1949 le forze comuniste, operanti

soprattutto nel Nord del Paese, dove potevano ricevere aiuti da

oltre frontiera, si opposero tenacemente alle unità governative,

sostenute dagli inglesi e, successivamente, dagli statunitensi. Infine

la guerriglia comunista, capeggiata dal comandante Markos

Vaphiadis e dal segretario del partito comunista Zachariadis, fu

sconfitta e non furono pochi i greci che espatriarono, essendone

stati parte attiva. Proprio gli Stati Uniti d’America sostituirono la

loro influenza a quella tradizionale britannica nei confronti dei

governi ellenici. La Grecia restò così fuori dalla sfera di influenza

sovietica né sperimentò il regime comunista.

Nell’estate del 1938 il governo germanico avanzò alla

Cecoslovacchia la richiesta di cessione della regione dei Sudeti,

popolati da tedeschi. La diplomazia internazionale si mise subito

all’opera per trovare una soluzione di compromesso che di fatto

consisteva nel passaggio alla Germania dei distretti in cui la

popolazione tedesca fosse assolutamente dominante. Poiché il

clima politico si fece piuttosto caldo, per giungere a un atto

diplomatico ufficiale fu necessario convocare una conferenza a

Monaco tra i leaders inglese, francese, tedesco e italiano. Di fatto

essi imposero al governo di Praga la cessione di ampi territori, oltre

quanto esso avesse desiderato, ma soprattutto decise che era

necessario mettere mano alla soluzione della questione anche per le

altre minoranze presenti in Cecoslovacchia. Infatti altri territori

furono ceduti all’Ungheria (vedi infra) e alla Polonia: questa

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Storia dell’Europa centro-orientale 2009-2010

occupò immediatamente il distretto di Teschen, su cui esisteva un

contenzioso sino dalla fine della prima guerra mondiale. Infine alla

Slovacchia e alla Rutenia fu concessa l’autonomia da tempo

richiesta.

I progetti di Hitler non si fermarono qui. Nel marzo 1939

avviò una nuova complessa iniziativa politica: dopo avere offerto

alla Slovacchia l’indipendenza e all’Ungheria l’annessione della

Rutenia subcarpatica, fece occupare senza difficoltà Boemia e

Moravia che divennero parte integrante del Reich sotto forma di

protettorato. Non si trattava più di riunire tutti i tedeschi in un solo

Stato, ma di ricostituire l’aggregazione che era stata rappresentata

dal Sacro Impero Romano Germanico. Si può dire che la

popolazione ceca reagì all’occupazione con rassegnazione e

soltanto nell’autunno del 1939 gli ambienti studenteschi

manifestarono il loro dissenso. Una concreta resistenza ebbe le sue

basi piuttosto all’estero, dove si era costituito un governo in esilio

guidato da Beneš, ma riuscì a colpire in alto, uccidendo nel maggio

1942 Reinhard Heydrich, prima capo della polizia e poi protettore

(cioè governatore in nome della Germania). Fu solo allora che la

popolazione dovette subire una pesante repressione, inclusa la

distruzione di alcuni paesi, come Lidice. Di fatto Boemia e

Moravia dovettero attendere l’arrivo nel 1945 dell’Armata Rossa

(entrò a Praga il 9 maggio) e delle truppe statunitensi per essere

liberate dalla presenza tedesca e solo nell’ultima fase del conflitto

le operazioni dei partigiani divennero più significative.

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Storia dell’Europa centro-orientale 2009-2010

In Slovacchia dalla primavera 1939 si era costituito il

governo capeggiato dall’esponente del partito popolare, monsignor

Tiso: era un governo filotedesco e che in parte imitò le forme del

regime germanico (ad esempio creando un corpo detto Guardia

Hlinka), ma dal punto di vista ideologico non era veramente

omogeneo al nazional-socialismo hitleriano poiché legato alla

cultura cattolica. Come altri satelliti dell’Asse la Slovacchia prese

parte all’aggressione contro l’Unione Sovietica (sia pure con le sue

molto limitate forze militari) e attuò la deportazione dei non

numerosi ebrei slovacchi, ma non in maniera generalizzata come

desideravano i governanti di Berlino, che se ne lamentarono. In più

i cechi furono internati o costretti a trasferirsi in Boemia e Moravia:

era una rivincita verso la loro vera o presunta egemonia nei due

decenni precedenti. Contro quel regime la resistenza fu più vivace

che non nei Paesi cechi e divenne particolarmente attiva dal 1944:

alla fine di quell’anno fu costituito in clandestinità un Consiglio

nazionale slovacco, in cui significativo fu il ruolo dei comunisti.

Oltre a volere sottrarre il Paese all’influenza tedesca, si pensava di

ricostituire la Cecoslovacchia su basi federali e pari dignità delle

due nazioni slave. Contro le attività dei partigiani dovette

intervenire l’esercito germanico poiché essi erano riusciti a

conquistare l’importante città di Banska Bystrica e avevano

proclamato l’insurrezione generale, attirando dalla propria parte

anche unità dell’esercito. Quell’importante iniziativa militare in

capo a due mesi fu repressa dalla Wehrmacht e migliaia furono le

vittime, nonostante le forze sovietiche si trovassero non molto

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Storia dell’Europa centro-orientale 2009-2010

lontane: esse infatti procedettero all’occupazione della Slovacchia

solo nel marzo 1945. Proprio in una città slovacca, Košice (Kassa

per gli ungheresi) all’inizio di aprile del 1945 si costituì un governo

provvisorio cecoslovacco con a capo Beneš che pose la prima

pietra della ricostituzione della Cecoslovacchia, destinata a essere

“ripulita” dalle minoranze (con il drammatico esodo dei tedeschi e

quello parziale degli ungheresi sottoposti per qualche tempo a

slovacchizzazione) e a essere privata della sua propaggine

orientale, la Rutenia subcarpatica, ceduta all’Unione Sovietica in

omaggio a un principio etnico, ma anche agli interessi strategici di

quella Potenza. Il cosiddetto Programma di Košice in realtà

lasciava intendere solo parzialmente che a esso sarebbe seguita la

trasformazione della Cecoslovacchia in una repubblica popolare a

regime comunista.

In Ungheria dopo il lungo mandato di Bethlen, si

susseguirono alla Presidenza del Consiglio molti politici, solo in

pochi casi provenienti dalle famiglie di più alto lignaggio. Se il

parlamento non fu mai in grado di costringere il governo alle

dimissioni (con l’eccezione nel 1939 di Béla Imrédy) l’esecutivo fu

sufficientemente rispettoso delle regole costituzionali. Esso non

lasciò grande spazio a poteri esercitati dalle autonomie locali

(fortemente influenzate da norme elettorali di tipo censitario,

secondo il sistema definito “virilismo”) e tuttavia dovette accettare

nella stessa Budapest (dove il “virilismo” era stato abolito) sindaci

non graditi. Il regime di legislazione e giurisdizione speciale che

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Storia dell’Europa centro-orientale 2009-2010

aveva accompagnato il “terrore bianco” fu progressivamente

abolito già dalla prima metà degli anni venti. Restò in vigore una

censura molto moderata che non impedì la pubblicazione di

innumerevoli testate di varie tendenze, con limitate eccezioni (il

giornale liberal-radicale "Világ" fu chiuso e altri subirono chiusure

temporanee o altre pressioni). La censura preventiva ricomparve

solo con la seconda guerra mondiale e i giornali di opposizione

furono pubblicati fino al marzo del 1944, cioè fino all’occupazione

tedesca. La stampa e il partito comunista non furono considerati

legali; talora però le norme che colpivano i comunisti servirono

anche contro formazioni di estrema destra (il capo delle Croci

frecciate Ferenc Szalasi saggiò così il carcere). Il regime ungherese

che una certa parte ha voluto assimilare ai regimi fascisti, in verità

fu solo autoritario e conservatore, nel rispetto delle forme

democratiche, se pure non assoluto. E’ stato d’altra parte osservato

che esso, sotto il profilo sociale, fu meno attento alle necessità delle

classi meno agiate di quanto non avvenne per regimi

antidemocratici, quale fu il fascismo italiano.

L’Ungheria, come molti Paesi dell’Europa centro-orientale,

era caratterizzata da una non trascurabile questione ebraica. Si

fissarono dei tetti alla presenza degli ebrei dapprima nelle scuole,

quindi anche in vari settori delle attività professionali o produttive.

In seguito all’occupazione tedesca fu scritta la triste pagina

dell’Olocausto ungherese: circa mezzo milione di ebrei su 800.000

persero la vita nei campi di concentramento. Di tale dramma si può

trovare traccia nelle opere del premio Nobel Kertesz. Per cause

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Storia dell’Europa centro-orientale 2009-2010

interne, ma ancor più per influenza delle vicende politiche

internazionali il sistema politico ungherese subì alcuni parziali

mutamenti. Al passaggio tra un decennio e l’altro fu costituita una

nuova formazione politica, il Partito dei piccoli proprietari, erede

delle tendenze democratiche presenti nel vecchio Partito contadino,

ma anche legato alle correnti del populismo ungherese,

particolarmente vivace e persino prevalente in campo letterario.

Tale corrente intellettuale peraltro era estremamente sensibile alla

condizione della classe contadina. Va ricordato che l’Ungheria fu

tra i Paesi dell’Europa centro-orientale che mantennero in vita il

latifondo, dacché governo e parlamento approvarono una riforma

agraria dalle dimensioni e dagli effetti decisamente limitati. Altra

importante novità fu costituita nel 1932 dall’arrivo al potere di

Gömbös, un aperto ammiratore del fascismo italiano e del suo

Duce, tanto da meritare il nomignolo di Gombolini. E’ stato, però,

osservato che quel presidente del Consiglio proveniente dall’ala

destra del partito di governo finì per conformarsi alla linea politica

tradizionale di esso, piuttosto che mutarla significativamente. Nel

1936 Gömbös morì, ma la restante parte del decennio e i primi anni

quaranta registrarono la crescita di vari movimenti di destra

radicale contro cui la destra tradizionale e conservatrice fu

obbligata ad approntare opportune difese. Dietro i nazional-

socialisti ungheresi e, soprattutto, dietro il partito delle Croci

frecciate (Nyilás keresztes Part) vi era anche il sostegno della

Germania nazista.

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Storia dell’Europa centro-orientale 2009-2010

Nel 1938 si tornò al voto segreto generalizzato come

chiedevano le opposizioni di destra e di sinistra. Effettivamente il

nuovo metodo di voto favorì la destra radicale, ma non le

opposizioni di sinistra che persero consensi e seggi. Nonostante

questo successo della destra populista, essa non riuscì a sottrarre il

potere all’élite tradizionale, né poté influenzarne eccessivamente le

scelte. Nel 1939 il presidente del Consiglio Imrédy, intenzionato a

ridurre i poteri del parlamento – come si è già detto – fu costretto

alle dimissioni. Persino in piena guerra, con l’Ungheria ormai

alleata della Germania, i governi magiari ebbero la forza di non

accettare la volontà di Berlino in ogni aspetto della loro politica:

nonostante l’appesantimento della legislazione antiebraica, ad

esempio, il massacro degli ebrei avvenne soltanto dopo l’ingresso

delle forze armate tedesche sul territorio ungherese.

Un tratto essenziale della storia ungherese tra le due guerre

mondiale è dato dall’opzione revisionistica per ciò che riguardava

le nuove frontiere dello Stato. L’opinione pubblica magiara

avvertiva, lo si è visto, il trattato del Trianon come ingiusto e

gravemente punitivo: troppi territori del vecchio Regno erano stati

ceduti, soprattutto troppi ungheresi vivevano fuori delle frontiere.

Già negli anni di Bethlen si cercò di creare le premesse di una

revisione territoriale, ma senza grande successo. In questo senso va

interpretato il trattato di amicizia del 1927 con l’Italia di Mussolini,

sebbene ambedue i contraenti conoscessero i limiti del loro atto. Il

revisionismo ungherese, tenuto sotto vigilanza attenta dai Paesi

limitrofi (con episodi anche clamorosi come la scoperta di un

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Storia dell’Europa centro-orientale 2009-2010

traffico di armi tra Italia e Ungheria), si manifestò anche nel

sostegno agli ustaša croati, avversi al regime jugoslavo.

L’Ungheria peraltro era costretta a limitare a poche decine di

migliaia i suoi contingenti militari e di fatto non vi furono seri

tentativi di riarmo, tale da minacciare i Paesi dell’area. Solo la

politica di Mussolini lasciava in vita speranze, peraltro tenui, di una

possibile revisione. In effetto l’avvio della dinamica politica

revisionistica tedesca dopo l’ascesa al potere di Hitler, di ben altra

portata e pericolosità per il “sistema di Versailles”, portò con sé

l’opportunità di seri mutamenti alle frontiere anche dell’Ungheria.

Il primo risultato concreto si ebbe in margine alla crisi tedesco-

cecoslovacca culminata nella conferenza di Monaco. Se la

Slovacchia dal novembre 1938 ottenne una significativa autonomia

da Praga ma non l’indipendenza, un lodo arbitrale italo-tedesco

(primo arbitrato di Vienna) stabilì che la Slovacchia meridionale (o

Alta Ungheria, Felvidék) dovesse essere ceduta allo Stato magiaro

che l’aveva perduta con la prima guerra mondiale. Un territorio di

11.927 km² abitato in prevalenza da ungheresi, ma anche da un

cospicuo numero di slovacchi, mutò di sovranità. Anche la Rutenia

subcarpatica aveva ottenuto un regime di autonomia e quando,

nella primavera del 1939, Hitler completò l’opera di distruzione

dello Stato cecoslovacco, annettendo in forma di protettorato la

Boemia-Moravia, sembrò per un attimo che anche i ruteni (ucraini)

avrebbero avuto il loro piccolo Stato. Monsignor Vološin, leader

ruteno, non fece in tempo a proclamare l’indipendenza che, con il

consenso di Berlino, l’esercito ungherese passò la frontiera e

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Storia dell’Europa centro-orientale 2009-2010

occupò la regione. In questo caso il territorio annesso (12.000 km² )

era abitato soltanto da una minoranza di ungheresi contro una

stragrande maggioranza di ruteni: peraltro era difficile pensare a

un’altra soluzione. L’opinione pubblica magiara era per lo più

entusiasta per la realizzazione di un sogno coltivato per circa venti

anni, ma era da tenere in conto anche l’eccessiva dipendenza che si

stava profilando dalla politica germanica. L’Ungheria non fu

coinvolta nella guerra che ebbe inizio nel settembre 1939, ma

presto subì pressioni da Roma e Berlino perché si allineasse

all’Asse. Sebbene i militari polacchi fossero accettati in Ungheria,

dopo il crollo della Polonia, l’allineamento progressivamente si

realizzò e il “premio” fu, questa volta, ancora più significativo:

grazie anche alle dinamiche revisionistiche che vedevano

protagonista ora pure l’Unione Sovietica, nel settembre 1940, dopo

vane trattative ungaro-romene, una buona parte della Transilvania

(43.000 km²) fu assegnata allo Stato ungherese da un nuovo lodo

arbitrale italo-tedesco (secondo arbitrato di Vienna). Non si trattava

di quanto desiderato e richiesto da Budapest, ma era pur sempre un

grande successo, inconcepibile fino a pochi anni prima. Nonostante

l’annessione dei territori transilvani fosse accompagnata da un

parziale scambio di popolazioni su base volontaria, le tensioni tra

Ungheria e Romania restarono vive anche in piena guerra.

L’allineamento all’Asse si faceva però sempre più marcato

e pericoloso, come evidenziò l’adesione al Patto tripartito.

Soprattutto dopo l’aggressione italiana alla Grecia, Berlino e Roma

tentavano in particolare di convincere anche il governo jugoslavo a

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Storia dell’Europa centro-orientale 2009-2010

seguirli contro Inghilterra e Francia, e per questo indussero

Belgrado e Budapest a un riavvicinamento. Fu infatti firmato un

trattato di amicizia ungaro-jugoslavo, ma pochi giorni dopo

l’allontanamento del reggente Pietro dal trono jugoslavo segnò la

fine dell’orientamento filo-Asse di Belgrado. L’ascesa al potere di

uomini di opinioni filo-britanniche indussero Germania e Italia ad

aggredire la Jugoslavia (aprile 1941). Il governo ungherese fu

invitato a intervenire militarmente per annettere le regioni (Bacska

e Baranya) in cui viveva una cospicua comunità magiara. Il

presidente del Consiglio Pál Teleki costretto a tradire il trattato

ancora fresco di firma (era stato ratificato il 7 febbraio), subito

dopo preferì suicidarsi; le truppe ungheresi si mossero con il

consenso di Horthy e, poi, del nuovo premier Bárdossy. Londra

aveva diffidato Budapest dal partecipare alla spartizione della

Jugoslavia e da quel momento anche l’Ungheria fu travolta nel

vortice del conflitto mondiale. Il vero coinvolgimento però si ebbe

nel giugno 1941 quando le forze militari ungheresi parteciparono

alla guerra contro l’Unione Sovietica. L’intervento fu giustificato

da un bombardamento di aerei sovietici su territori magiari di

recente annessione, ma l’episodio presenta qualche margine di

ambiguità. Invero i governanti ungheresi non avevano certo

simpatie per l’Unione Sovietica, ma si rendevano conto della

debolezza militare dell’Ungheria. Tuttavia considerarono

inopportuno non seguire la Germania sul fronte orientale poiché la

Romania vi aveva inviato le sue truppe: Bucarest e Budapest

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Storia dell’Europa centro-orientale 2009-2010

dovevano dimostrare al patrono germanico di essere, ognuno, il più

fedele alleato.

La guerra sul fronte sovietico fu per le limitate forze armate

ungheresi molto pesante e dal 1942 fu evidente che non era

possibile sconfiggere l’Unione Sovietica, ora alleata

dell’Inghilterra e degli Stati Uniti, entrati in guerra sullo scorcio del

1941. I maggiori responsabili della politica ungherese,

particolarmente con il governo Kállay, fecero di tutto per sganciarsi

dall’abbraccio mortale con la Germania, provando a indurre

Mussolini e l’Italia a una scelta neutralista (e offrendo persino la

corona d’Ungheria al re d’Italia). Come detto, si cercò anche di

sottrarsi agli impegni presi con Berlino in fatto di lotta agli ebrei.

Infine si aprirono trattative segrete con le Potenze alleate. Nel

marzo 1944 Hitler, non fidandosi più dell’alleato magiaro, mise in

atto il piano Margarete: l’intera Ungheria fu occupata militarmente

e a Budapest fu insediato il governo Sztójay, gradito a Berlino, ma

poi sostituito dal più moderato Géza Lakatos. Il reggente e il nuovo

esecutivo trattarono la resa e il rovesciamento delle alleanze, però

quando Horthy il 15 ottobre annunciò la conclusione dell’armistizio

fu arrestato, costretto a rinnegare le sue affermazioni e a nominare

Ferenc Szálasi alla guida del governo, per essere quindi deportato

in un campo di concentramento.

In autunno però l’Armata Rossa mise piede su territorio

ungherese e a fine dicembre 1944 a Debrecen si costituì

un’Assemblea nazionale provvisoria, nonché un controgoverno

guidato dal generale Béla Dálnoki Miklós. Intanto nei pochi mesi

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Storia dell’Europa centro-orientale 2009-2010

in cui furono al potere le Croci frecciate completarono la

deportazione, quando non il massacro degli ebrei. Molti di questi,

concentratisi nella capitale, riuscirono tuttavia a salvare la vita

anche per l’intervento di vari personaggi: il ministro

plenipotenziario svedese Wallenberg (proveniente dalla più ricca

famiglia della Svezia e successivamente deportato e ucciso dai

sovietici), il nunzio apostolico e l’italiano Perlasca, fintosi

coraggiosamente reggente del Consolato spagnolo. L’assedio di

Budapest, difesa da tedeschi e Croci frecciate contro l’assalto

sovietico, durò diverse settimane (dal Natale 1944 al febbraio

1945) e la città pagò un prezzo altissimo, come dimostra la

distruzione di tutti i suoi bellissimi ponti sul Danubio. All’inizio

del 1945, l’intera Ungheria era sotto il controllo dell’Armata Rossa

che aveva lanciato l’ultimo attacco alla stessa Germania:

quell’occupazione sarebbe stata foriera di novità politiche di grande

significato e di lunga durata.

In Polonia il regime di Piłsudski aveva reagito duramente al

tentativo delle opposizioni di porvi termine. Nel 1930 le Camere

furono sciolte dopo che agrari, cristiani democratici e socialisti

delusi dal Maresciallo ne avevano chiesto le dimissioni, mentre i

capi di quei partiti furono incarcerati. Nel novembre di quell’anno

elezioni fortemente condizionate dal governo e caratterizzate da un

forte astensionismo diedero un’ampia maggioranza al Blocco

governativo che sosteneva Piłsudski. La Costituzione subì

emendamenti illiberali, ma il regime mantenne un carattere di

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Storia dell’Europa centro-orientale 2009-2010

ambiguità, poiché il vero suo capo deteneva cariche non di

primissimo piano. La sua autorità non fu messa in discussione fino

alla morte sopraggiunta nel maggio 1935 e neanche allora

l’autoritarismo si tramutò in esplicita dittatura: alla Presidenza

rimase un civile di estrazione socialista, Ignac Mościnski, sebbene

il ministro degli Esteri, colonnello Beck, e l’ispettore generale

dell’esercito, generale Rydz-Śmigły, detenessero il potere reale,

assumendo le decisioni fondamentali per le sorti del Paese ed

essendo considerati anche dalla diplomazia straniera come gli

interlocutori più validi. Dunque il sistema parlamentare non fu

abolito, ma gli stessi uomini continuarono a governare sino allo

scoppio del nuovo conflitto mondiale. Il disagio e l’insofferenza

della popolazione si espresse attraverso alcune rivolte contadine e

alcuni scioperi, oltre che attraverso l’astensionismo elettorale

poiché ai partiti non fu più consentito di condurre una normale

battaglia politica. Una sorte del tutto particolare toccò al partito

comunista, poco amato dall’opinione pubblica poiché russofilo e

messo da molto tempo fuori legge. I suoi militanti finirono per

rifugiarsi oltre frontiera, in Unione Sovietica, ma qui furono

pesantemente coinvolti nel Grande terrore staliniano, al punto che il

partito stesso fu sciolto essendo accusato di deviazionismo. Ancor

più che prima del 1935, la condizione delle cospicue minoranze

nazionali in Polonia non migliorò ed esse costituirono un serio

motivo di pericolo e tensione nelle relazioni internazionali. Sia la

Germania sia l’Unione Sovietica, due grandi Potenze, avevano

aspirazioni revisionistiche da realizzare a danno della Polonia. E’

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Storia dell’Europa centro-orientale 2009-2010

nota l’espressione “morire per Danzica” coniata per la guerra

mondiale, scoppiata in seguito all’aggressione militare tedesca (1°

settembre 1939) nei confronti della Polonia, a partire appunto

dall’occupazione di quella città libera (importante porto del

Baltico) e del cosiddetto “corridoio” polacco che tagliava in due la

Germania. I governanti polacchi cercarono di trovare un modus

vivendi con Berlino (accordo di amicizia del 1934), ma non

secondarono gli accordi intercorsi tra Francia, Unione Sovietica e

Cecoslovacchia, negando la possibilità di transito sul territorio

polacco alle truppe sovietiche in caso di guerra. Nel 1938 Varsavia

non mancò di sfruttare la crisi cecoslovacca per risolvere a proprio

vantaggio la questione di Teschen (v. sopra). Meno di un anno

dopo la Polonia cadeva vittima della nuova alleanza conclusa (con

sorpresa dei governi occidentali) tra Germania e Unione Sovietica e

subiva l’invasione della Wehrmacht, cui lo Stato maggiore polacco

si era illuso di potere resistere: in capo a un mese le operazioni

militari erano concluse, mentre l’Armata Rossa a partire dal 17

settembre aveva occupato una vasta parte della Polonia orientale.

Infatti il patto Molotov-Ribbentrop, firmato a Mosca il 23

agosto 1939, prevedeva la spartizione della Polonia tra Germania e

Unione Sovietica, ma anche il mantenimento di un piccolo Stato

polacco indipendente; inoltre assegnava alla sfera di influenza

tedesca la Lituania e a quella sovietica Lettonia ed Estonia; infine

Berlino diede libertà a Mosca di rivedere la frontiera con la

Romania. Durante l’occupazione della Polonia, gli accordi tedesco-

sovietici furono rivisti: anche la Lituania fu riconosciuta come

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Storia dell’Europa centro-orientale 2009-2010

rientrante nella sfera di influenza sovietica e la Germania poté

annettere anche i territori polacchi che sarebbero dovuti restare

indipendenti. Dunque, mentre le province orientali nelle quali

abitavano bielorussi e ucraini furono annesse all’Unione Sovietica,

quelle occidentali entrarono a fare parte del Reich nazista e le

restanti costituirono il Governo generale delle province polacche

occupate, ospitando i più noti campi di concentramento e sterminio

nei quali fu attuato l’atto finale dell’Olocausto ebraico, ma anche

detenuti ed eliminati zingari, omosessuali e seguaci di religioni

minoritarie, come i testimoni di Geova. Con l’Operazione

Barbarossa (con cui ebbe inizio la guerra della Germania contro

l’Unione Sovietica) pure le province orientali caddero sotto

controllo tedesco. L’occupazione sovietica, durata una ventina di

mesi, non vi era stata lieve: l’episodio senza dubbio più grave fu

l’uccisione a sangue freddo di 11.000 ufficiali polacchi, considerati

ostili all’Unione Sovietica e all’ideologia comunista: a lungo

Mosca cercò di attribuire ai tedeschi la responsabilità di

quell’eccidio e solo alla fine degli anni ottanta il segretario del

PCUS Gorbačëv ammise quale fosse la verità dei fatti e chiese

scusa alla nazione polacca.

Dopo la sconfitta militare il governo polacco si recò in

esilio prima nella limitrofa Romania, quindi a Londra, da dove

continuò a svolgere un’intesa attività politica, tanto più che anche

cospicui contingenti militari riuscirono a riparare all’estero e

successivamente a tornare in linea accanto alle forze inglesi e

statunitensi. E’ noto che truppe polacche operarono nella penisola

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Storia dell’Europa centro-orientale 2009-2010

italiana negli ultimi anni del conflitto. Molti altri militari polacchi

(nonché civili) organizzarono una forte resistenza in patria – con

quella jugoslava la più importante dell’intera continente europeo –

che aveva come punto di riferimento il governo in esilio e si diede

come nome Armia Krajowa (esercito del Paese). Solo in seguito

all’aggressione tedesca all’Unione Sovietica, particolarmente dopo

che l’esercito sovietico passò alla controffensiva, polacchi militanti

di sinistra poterono organizzare l’Armia Ludowa (esercito del

popolo), cioè una resistenza di altro segno politico, che rimase

tuttavia minoritaria. Essa di fatto conseguì i suoi successi sulla

scorta delle vittorie dell’Armata Rossa sovietica, mentre l’Armia

Krajowa fu protagonista di episodi di grande rilevanza militare e

politica, come l’insurrezione di Varsavia che tenne in scacco le

forze tedesche occupanti dall’estate 1944 sino all’inizio del 1945.

La pesante repressione nazista stroncò la Resistenza nazionale e

forti furono le polemiche al riguardo poiché le truppe sovietiche

che si trovavano in un sobborgo di Varsavia non intervennero a

favore degli insorti, restando forte il dubbio se quella inazione

fosse dovuta a impossibilità militare oppure a calcolo politico.

Resta il fatto che dopo di allora la resistenza egemonizzata dal

partito comunista e il Comitato di liberazione nazionale costituito a

Lublino, da essa espresso e capeggiato dal socialista Osubka-

Morawski, si trovarono in posizione di notevole vantaggio per

impossessarsi del potere nella Polonia sottratta all’occupazione

germanica dall’avanzata sovietica. In quegli eventi si individuano i

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Storia dell’Europa centro-orientale 2009-2010

prodromi della futura sorte politica del Paese, destinato al regime

comunista e a entrare nel cosiddetto blocco sovietico.

Le sorti dei Paesi baltici furono molto simili a quelle della

Polonia. Poco dopo il crollo di quest’ultima i governi di Tallinn,

Riga e Kaunas furono costretti a siglare con l’Unione Sovietica

degli accordi di mutua assistenza. I primi contingenti militari

sovietici entrarono nel territorio dei tre Stati sulla scorta di tali

accordi, ma a metà del 1940 l’annessione divenne esplicita con la

proclamazione, a opera di parlamenti frutto di elezioni non libere,

di tre nuove Repubbliche socialiste sovietiche che entrarono a fare

parte dell’Unione Sovietica. La Finlandia si oppose con le armi alle

richieste sovietiche di correggere ll tracciato della frontiera,

considerata pericolosa per Leningrado (l’antica Pietroburgo), ma

nonostante una coraggiosa resistenza infine il governo di Helsinki

dovette accettare la volontà di Mosca, che, grazie al patto Molotov-

Ribbentrop, non trovava ostacoli nella Germania. Se la Finlandia

manteneva tuttavia l’indipendenza, nei Paesi baltici all’annessione

seguì l’eliminazione o epurazione di buona parte delle classi

dirigenti, poco propense ad accettare la fine dell’indipendenza, ma

anche la trasformazione del regime sociale ed economico. Prima

ancora dell’annessione Hitler aveva avviato il trasferimento dei

150.000 tedeschi dai tre Stati baltici verso i territori di recente

acquisiti dalla Germania; dopo l’inizio della guerra tedesco-

sovietica Lituania, Lettonia ed Estonia furono occupate dalla

Werhmacht che trovò una larga disponibilità a collaborare contro i

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Storia dell’Europa centro-orientale 2009-2010

sovietici. Nello stesso spirito la Finlandia scese nuovamente in

guerra contro l’Unione Sovietica. Gli ulteriori sviluppi bellici, del

tutto favorevoli all’Armata Rossa, portarono a un nuovo

mutamento della situazione. Da una parte fu ribadita l’annessione

all’Unione Sovietica di Lituania (ora con Vilnius capitale), Lettonia

ed Estonia, dall’altra la frontiera sovietico-finlandese fu tracciata in

modo ancora più favorevole agli interessi dell’Unione Sovietica

che divenne persino confinante con la Norvegia. La Finlandia

tuttavia non divenne un satellite di Mosca, pur essendo molto

condizionata dal Cremlino nella sua politica estera: fu quello un

fenomeno molto particolare, sulla base del quale non a caso fu

coniato il termine “finlandizzazione”.

Alla fine della seconda guerra mondiale era

sufficientemente chiaro che l’Europa centro-orientale sarebbe stata

sottoposta in larga parte all’influenza dell’Unione Sovietica. Non

sempre si comprese che quell’influenza sarebbe stata generalizzata

e soprattutto che avrebbe comportato l’introduzione in ogni singolo

Paese (fecero eccezione la Grecia e la Finlandia) del modello

politico, sociale ed economico sovietico. Contrariamente a quanto

si crede, nessuna delle conferenze delle grandi Potenze (Teheran,

Jalta, Potsdam) approvò formalmente l’esistenza di zone di

influenza, ma con il procedere degli eventi e delle conquiste

militari esse furono riconosciute de facto, non essendo alcun

governo disposto a scatenare un nuovo conflitto, questa volta tra i

Paesi che avevano sconfitto la Germania e i suoi alleati. E’ noto

73

Storia dell’Europa centro-orientale 2009-2010

però un colloquio intercorso tra Churchill e Stalin a Mosca

nell’autunno 1944, in cui in modo del tutto informale si

appuntarono su un foglio di carta le percentuali di influenza che

l’Inghilterra (ovvero l’Occidente) e l’Unione Sovietica avrebbero

dovuto esercitare sui vari Paesi tra il mar Baltico e il mar Nero

dopo il termine del conflitto. Quelle percentuali, già abbastanza

sbilanciate a favore dei sovietici, non furono rispettate e i regimi

comunisti divennero per quasi mezzo secolo la norma in tutta

l’area.

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