George R.R. Martin - Le Torri Di Cenere

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 GEORGE R.R. MARTIN LE TORRI DI CENERE (GRRM: A RRetrospective, 2003)  A Phipps, naturalmente,  c'è una strada, non una qualunque, tra l'alba e la notte più profonda. Sono contento che tu sia qui a percorrerla con me. Indice L'eroe L'uscita per Santa Breta  Solitudine del secondo tipo  Al mattino cala la nebbia Canzone per Lya Questa torre di cenere ... E ricordati sette volte di non uccidere mai l'uomo La città di pietra  Fioramari Le solitarie canzoni di Laren Dorr L'EROE La città era morta e le fiamme della sua fine diffondevano un alone rosso nel cielo grigio scuro. L'agonia era stata lunga. La resistenza era durata almeno una settimana e all'inizio la battaglia era stata aspra, ma poi gli invasori avevano spezzato  le difese, come tante volte era successo in passato. Il cielo alieno, con il  suo doppio sole, non li turbava. Avevano combattuto e vinto sotto cieli az-  zurri e cieli neri come l'inchiostro. Il primo attacco era stato sferrato dai ragazzi del Controllo meteorologi- co, mentre il grosso delle forze era ancora a centinaia di chilometri verso oriente. Le strade della città erano state flagellate da una tempesta dietro l'altra, per rallentare l'organizzazione della difesa e incrinare lo spirito di resistenza.

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GEORGE R.R. MARTINLE TORRI DI CENERE

(GRRM: A RRetrospective, 2003)

 A Phipps, naturalmente, 

c'è una strada, non una qualunque,

tra l'alba e la notte più profonda. 

Sono contento che tu sia qui a percorrerla con me. 

Indice

L'eroeL'uscita per Santa Breta

Solitudine del secondo tipoAl mattino cala la nebbia

Canzone per LyaQuesta torre di cenere

... E ricordati sette volte di non uccidere mai l'uomo

La città di pietraFioramari

Le solitarie canzoni di Laren Dorr

L'EROE

La città era morta e le fiamme della sua fine diffondevano un alone rossonel cielo grigio scuro.

L'agonia era stata lunga. La resistenza era durata almeno una settimana eall'inizio la battaglia era stata aspra, ma poi gli invasori avevano spezzatole difese, come tante volte era successo in passato. Il cielo alieno, con ilsuo doppio sole, non li turbava. Avevano combattuto e vinto sotto cieli az-zurri e cieli neri come l'inchiostro.

Il primo attacco era stato sferrato dai ragazzi del Controllo meteorologi-co, mentre il grosso delle forze era ancora a centinaia di chilometri versooriente. Le strade della città erano state flagellate da una tempesta dietro

l'altra, per rallentare l'organizzazione della difesa e incrinare lo spirito diresistenza.

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Poi gli invasori si erano avvicinati e avevano mandato avanti gli Urlanti.Giorno e notte le loro strida acutissime erano riecheggiate senza interru-zione, e non c'era voluto molto perché la popolazione precipitasse nel pa-nico e nello sconforto. A quel punto il grosso delle forze attaccanti si eraormai schierato e aveva lanciato le bombe della peste nel forte vento ditramontana.

Perfino in quelle circostanze gli abitanti avevano cercato di reagire. Dal-le postazioni di difesa che cingevano la città, i sopravvissuti avevano fattopartire grappoli di atomiche, riuscendo a disintegrare un'intera compagnia,i cui schermi difensivi non avevano retto all'attacco improvviso. Ma quelloera stato il massimo che erano riusciti a fare ed era stato comunque troppopoco. Ormai sulla città continuavano a piovere bombe incendiarie e la pia-

nura era percorsa da un'enorme nuvola di gas acidi.Dietro quella nuvola, le temute squadre d'assalto delle Forze di spedi-

zione ferrane si mossero all'attacco dell'estrema difesa.

Kagen guardò con occhio torvo il casco di plastoide ammaccato ai suoipiedi e imprecò. "Un normale rastrellamento" pensò. Una banale operazio-ne di routine, e un maledetto intercettatore automatico gli aveva scagliatoaddosso un'atomica a basso potenziale.

L'aveva mancato di poco, ma l'onda d'urto gli aveva danneggiato i razzisistemati ai fianchi della tuta e lo aveva scagliato in quella gola stretta esperduta a est della città. L'armatura leggera da combattimento aveva attu-tito l'impatto, ma il casco aveva preso una bella botta.

Kagen si piegò sulle ginocchia e raccolse il pezzo ammaccato per esa-minarlo. La trasmittente a lungo raggio e tutto il sistema di sensori eranoandati. Con anche i razzi fuori uso, era paralizzato, sordo, muto e mezzocieco. Bestemmiò.

Un movimento quasi impercettibile sulla cresta dell'avvallamento attiròla sua attenzione. Cinque abitanti del posto gli si pararono improvvisamen-te davanti, tutti armati di mitragliatrici a sfioro puntate contro di lui. Si e-rano disposti a ventaglio e lo tenevano sotto tiro da entrambi i lati. Unocominciò a parlare.

Non finì la frase. In un attimo la pistola a urlo di Kagen che si trovavafra i sassi ai suoi piedi era tornata nelle sue mani. Cinque uomini esitanodove uno solo agisce subito. Nel brevissimo istante in cui le dita dei nativi

stavano per sparare, Kagen non restò fermo, non indugiò, non pensò.Kagen uccise.

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La pistola emise un ululato violento, lacerante. Il comandante della pat-tuglia nemica fu scosso da un fremito quando il fascio invisibile di ondesonore ad alta frequenza gli lacerò le viscere. Poi i suoi muscoli comincia-rono a liquefarsi. Intanto l'arma di Kagen aveva colpito altri due bersagli.

Le mitragliatrici dei due superstiti cominciarono finalmente a strepitare.Kagen fu avvolto da un nugolo di pallottole, rotolò a destra grugnendo sot-to l'urto dei colpi che rimbalzavano sulla sua corazza da combattimento.Sollevò l'arma, ma una pallottola vagante gliela strappò di mano.

Non ebbe esitazioni e non si fermò mentre la pistola gli sfuggiva: risalìcon un balzo fino al bordo della gola puntando direttamente contro uno deisoldati. L'uomo barcollò leggermente prima di prendere la mira. Quellabreve esitazione fu sufficiente a Kagen. Con tutto l'impeto datogli dal bal-

zo, spinse con la destra il calcio della mitragliatrice sulla faccia dell'avver-sario e con la sinistra gli sferrò un pugno micidiale appena sotto lo sterno.

Afferrato il corpo inanimato, lo scagliò contro il secondo soldato, cheaveva smesso temporaneamente di sparare mentre il compagno si trovavatra lui e Kagen. Ora le pallottole trapassarono il corpo a mezz'aria. L'uomoindietreggiò rapidamente, continuando a fare fuoco.

Ma Kagen era ormai su di lui. Avvertì un lampo bruciante di dolore,mentre un proiettile gli sfiorava la tempia. Lo ignorò e colpì con il taglio

della mano la gola del soldato. L'uomo cadde a terra e giacque immobile.Kagen si girò, ancora reattivo, pronto ad affrontare l'altro avversario.

Era solo.Si chinò e si ripulì il sangue dalla mano con un brandello dell'uniforme

nemica. Rabbrividì di disgusto. Il rientro al campo sarebbe stato lungo,pensò, gettando a terra lo straccio intriso di sangue.

Non era proprio il suo giorno fortunato.Grugnì cupamente, poi scese di nuovo nella gola per recuperare la pisto-

la e il casco prima di mettersi in marcia.All'orizzonte la città era ancora in fiamme.

La voce di Ragelli uscì gracchiante, ma forte e allegra, dalla trasmittentea breve raggio che Kagen stringeva in pugno.

«Allora sei tu, Kagen!» disse ridendo. «Ti sei fatto riconoscere appenain tempo. I miei sensori cominciavano a rilevare qualcosa. Ancora qualcheistante e la mia pistola a urlo ti avrebbe steso.»

«Mi si è bruciato il casco e i sensori sono fuori uso» rispose Kagen. «Èdannatamente difficile valutare le distanze. Anche la trasmittente a lungo

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raggio è partita.»«Il capo si chiedeva dove fossi finito» lo interruppe Ragelli. «Lo hai fat-

to sudare. Ma io me l'immaginavo che prima o poi saresti rispuntato.»«Già. Uno di quei lombriconi mi ha fatto fuori i razzi e mi ci è voluto un

po' per tornare. Ma eccomi qui.»Sbucò lentamente dal cratere dove si era rannicchiato, rendendosi visibi-

le alla sentinella da lontano. Si muoveva piano, con calma.La figura di Ragelli si stagliò davanti alla barriera della postazione con

un pesante braccio grigio argento alzato in segno di saluto. Era protetto dacapo a piedi dalla tenuta da combattimento di duralloy, al cui confronto lacorazza di plastoide di Kagen sembrava di carta velina. Era sistemato sulsedile di puntamento di un cannone a urlo, circondato da una bolla di

schermi protettivi che rendeva alquanto indistinta la sua figura massiccia.Kagen rispose a sua volta al saluto e coprì a passi lunghi e regolari la di-stanza che lo separava dall'amico. Si fermò proprio davanti alla barriera, aipiedi della postazione di Ragelli.

«Hai un'aria proprio malandata» commentò quest'ultimo, scrutandolo dadietro il visore di plastoide con l'aiuto dei sensori. «Quell'armatura leggeranon vale un centesimo come protezione. Qualsiasi ragazzino con una cer-bottana potrebbe infilzarti da parte a parte.»

Kagen rise. «Almeno riesco a muovermi. Tu potrai anche resistere a unasquadra d'assalto con quel completo in duralloy, ma mi piacerebbe vedertiin un'azione offensiva. Con la difesa non si vincono le guerre.»

«Già» convenne Ragelli. «Questo servizio di guardia è una bella noia.»Diede un colpetto all'interruttore del quadro comandi e una sezione dellabarriera si aprì lampeggiando.

Kagen entrò e un istante dopo la barriera si richiuse. Si diresse verso glialloggiamenti della sua squadra. La porta si aprì automaticamente ed egli

entrò provando una sensazione di riconoscenza. Era bello sentirsi di nuovoa casa, riacquistare il proprio peso normale. Quelle pozzanghere quasi sen-za gravità dopo un po' gli davano la nausea. Gli alloggi erano mantenuti ar-tificialmente alla normale gravità di Wellington, il doppio di quella dellaTerra. Era costoso, ma il comandante non si stancava di ripetere che non sifaceva mai abbastanza per i combattenti.

Kagen si tolse l'armatura di plastoide nello spogliatoio della squadra e lagettò nel contenitore dei cambi. Poi andò direttamente nel suo cubicolo e si

distese.Si allungò verso il tavolino di metallo accanto al letto, aprì un cassetto e

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prese una grossa capsula verdastra. La inghiottì e si rimise sdraiato, per ri-lassarsi e rimettersi in forma. Il regolamento vietava di assumere syntha-stim lontano dai pasti, lo sapeva bene, ma era una di quelle norme che nes-suno rispettava. Come molti suoi commilitoni, Kagen lo prendeva quasi incontinuazione, per mantenere il livello di velocità e resistenza.

Sonnecchiava placidamente da qualche minuto, quando d'un tratto presevita l'interfono sulla parete, proprio sopra il letto.

«Kagen.»Si mise subito seduto, completamente sveglio.«Comandi.»«Subito a rapporto dal maggiore Grady.»Kagen ghignò. La sua domanda aveva provocato una pronta reazione,

pensò. E per giunta da parte di un ufficiale superiore. S'infilò in fretta la tu-ta marrone da lavoro e si spostò di corsa attraverso la base.

Gli alloggi degli ufficiali si trovavano al centro della postazione, in unedificio a tre piani fortemente illuminato, coperto in alto dagli schermi di-fensivi e circondato da sentinelle in armatura leggera da combattimento.Una di queste riconobbe Kagen e lo fece passare.

Appena varcato l'ingresso, lui si fermò per qualche istante, mentre unafila di sensori controllava se era armato. Agli uomini della truppa non era

ovviamente permesso portare armi in presenza degli ufficiali. Se avesseavuto addosso un'arma a urlo, in tutto l'edificio sarebbe suonato l'allarme ei raggi constrictor nascosti nelle pareti e nel soffitto lo avrebbero totalmen-te immobilizzato.

Ma superò l'ispezione e proseguì lungo il corridoio verso l'ufficio delmaggiore Grady. A un terzo del percorso una prima serie di raggi constric-tor gli bloccò saldamente i polsi. Nell'istante in cui avvertì il contatto invi-sibile sulla pelle fece resistenza, però i fasci lo avevano ormai afferrato con

forza. Altri, attivati automaticamente al suo passaggio, gli si attaccaronomentre percorreva il corridoio.

Kagen imprecò tra i denti e resistette all'impulso di opporsi. Detestavasentirsi sul corpo quei fasci che lo stringevano, ma quelle erano le regolese si voleva vedere un alto ufficiale.

La porta si aprì davanti a lui ed egli entrò. All'istante un'intera serie diraggi constrictor lo ricoprì immobilizzandolo. Alcuni lo fecero muovereleggermente mettendolo sull'attenti, mentre tutti i muscoli gli dicevano di

resistere.Il maggiore Carl Grady era seduto a una scrivania piena di carte, a pochi

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metri di distanza, e stava scarabocchiando qualcosa su un foglio. Accantoal gomito c'era una pila di scartoffie con in cima, a mo' di fermacarte, unavecchia pistola laser.

Kagen la riconobbe. Era una specie di cimelio, passato di padre in figlioda generazioni nella famiglia di Grady. Si raccontava che un suo antenatol'avesse usata sulla Terra, ai tempi delle Guerre del Fuoco della prima metàdel ventunesimo secolo. Malgrado l'età, si pensava che fosse ancora fun-zionante.

Dopo diversi minuti di silenzio, Grady posò finalmente la penna e solle-vò lo sguardo su Kagen. Per essere un ufficiale superiore era molto giova-ne, ma i capelli grigi e in disordine lo facevano sembrare più vecchio. Co-me tutti gli ufficiali superiori, era nato sulla Terra: debole e lento rispetto

alle truppe d'assalto provenienti dai Mondi di Guerra, i pianeti Wellingtone Rommel, dall'atmosfera densa e con una gravità maggiore.

«Presentati» ordinò seccamente al soldato. Come sempre, il suo voltopallido e sottile esprimeva una noia sconfinata.

«Ufficiale John Kagen, squadre d'assalto, Forze di spedizione ferrane.»Grady annuì, ma non stava realmente ascoltando. Aprì un cassetto della

scrivania e tirò fuori un pezzo di carta. «Kagen» disse sventolando il foglio«credo che tu sappia perché sei qui.» Puntò l'indice contro la carta. «Che

cosa significa questo?»«Proprio quello che c'è scritto, signor maggiore.» Cercò di spostare il

peso da una gamba all'altra, ma i raggi lo immobilizzavano.Grady se ne accorse e fece un gesto d'impazienza. «Riposo» disse. Gran

parte dei raggi allentò la presa lasciando il soldato libero di muoversi, siapure a velocità dimezzata.

Sollevato, Kagen rilassò i muscoli e sorrise. «Tra due settimane vado incongedo, signor maggiore. Non intendo prolungare la ferma. Così ho chie-

sto di essere trasportato sulla Terra. Tutto qui.»Grady inarcò le sopracciglia di qualche millimetro, ma gli occhi scuri

continuavano a esprimere noia. «Ah, sì? Sei sotto le armi ormai da quasivent'anni, Kagen. Perché andarsene adesso?»

Kagen si strinse nelle spalle. «Non so. Sto invecchiando. Forse sono solostanco della vita militare. Comincia ad annoiarmi tutto questo prendereuna pozzanghera dietro l'altra, vorrei qualcosa di diverso. Qualche emo-zione.»

Grady annuì. «Capisco, ma temo di non essere d'accordo con te, Ka-gen.» La sua voce era sommessa e suadente. «Mi pare che sottovaluti le

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Forze di spedizione. Ci saranno altre emozioni, basta che tu ce ne dia lapossibilità.» Si appoggiò allo schienale della sedia, giocherellando con unamatita. «Voglio dirti una cosa, Kagen. Come sai, siamo in guerra con l'Im-pero dei Hrangan da quasi trent'anni, ormai. Finora gli scontri diretti franoi e il nemico sono stati pochi e distanziati nel tempo. Lo sai perché?»

«Certo» replicò Kagen.Grady ignorò la risposta. «Te lo dico io, perché» continuò. «Finora noi e

loro abbiamo combattuto per consolidare le rispettive posizioni, impadro-nendoci dei piccoli pianeti delle regioni di confine. Le pozzanghere, comele chiami tu; ma sono pozzanghere importantissime. Ci servono come basi,per le materie prime, per la capacità industriale, per la manodopera che cipossono fornire. Per questo cerchiamo di limitare al massimo i danni in

queste campagne, per questo ricorriamo alle tattiche della guerra psicolo-gica e usiamo gli Urlanti. Per far fuggire di paura quanti più indigeni pos-sibile prima di ogni attacco, in modo da preservare la manodopera.»

«Lo so benissimo» lo interruppe Kagen con la tipica schiettezza dellagente di Wellington. «E allora? Non sono venuto qui per una conferenza.»

Grady sollevò lo sguardo dalla matita. «No. Non lo sai. E te lo dirò io,Kagen. I preliminari sono finiti. È arrivato il momento. Resta solo un pu-gno di pianeti da occupare. Molto presto ci sarà uno scontro diretto con i

Corpi di conquista dei Hrangan. Entro un anno attaccheremo le loro basi.»Il maggiore fissò Kagen in attesa di una risposta. Siccome non arrivava,

il suo sguardo assunse un'espressione di perplessità. Si sporse di nuovo inavanti.

«Non capisci, Kagen? Che cosa vuoi di più emozionante? Basta combat-tere con questa gente da poco, civili in uniforme, con le loro atomiche dadue soldi, con quelle armi da fuoco primitive. I Hrangan sono un avversa-rio vero. Hanno un esercito di professione da generazioni, come noi. Sono

soldati nati. E bravi, per giunta. Hanno schermi e armi a modem. Sono av-versari che sapranno mettere davvero alla prova le nostre squadre d'assal-to.»

«Può darsi» ribatté Kagen dubbioso. «Ma non è il genere di emozioniche avevo in mente io. Sto invecchiando. Negli ultimi tempi ho notato chenon sono più rapido come una volta, non mi basta più nemmeno il syntha-stim per tenermi in forma.»

Grady scosse la testa. «Tu hai uno dei migliori stati di servizio di tutte le

Forze di spedizione, Kagen. Sei decorato con due Croci stellari e tre me-daglie del Congresso mondiale. Tutti i mezzi di comunicazione della Terra

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hanno raccontato il tuo salvataggio del gruppo di sbarco su Torego. Perchédevi farti venire questi dubbi proprio adesso? Tra poco avremo bisogno diuomini del tuo stampo contro i Hrangan. Resta.»

«No» esclamò Kagen. «I regolamenti dicono che dopo vent'anni si ha di-ritto al congedo, e quelle medaglie mi valgono un bel gruzzolo di premi diliquidazione. Adesso me li voglio godere.» Fece un ampio sorriso. «Comeha detto lei, sulla Terra devono conoscermi tutti. Sono un eroe. Con unafama del genere, immagino che mi riserveranno una bella accoglienza.»

Grady aggrottò la fronte e tamburellò nervosamente con le dita sullascrivania. «I regolamenti li conosco anch'io, Kagen, ma qui nessuno vadavvero in congedo, dovresti saperlo. Quasi tutti gli uomini preferisconorestare al fronte. È il loro lavoro. È così che vanno le cose sui Mondi di

Guerra.»«Non me ne importa niente, signor maggiore» replicò Kagen. «Conosco

le regole e so che ho il diritto di congedarmi con la pensione completa. Leinon me lo può impedire.»

Grady considerò con calma quell'affermazione, lo sguardo perso nei suoipensieri. «Va bene» fece dopo una lunga pausa. «Cerchiamo di essere ra-gionevoli. Andrai in congedo con la pensione completa e tutte le gratifi-che. Ti sistemeremo con un ruolo adeguato su Wellington, oppure su

Rommel, se preferisci. Ti faremo direttore delle caserme della gioventù odi quelle della fascia d'età che preferisci. Oppure responsabile di un centrodi addestramento. Con il tuo stato di servizio, puoi partire dalle posizionipiù alte.»

«No, no» lo interruppe deciso Kagen. «Né Wellington, né Rommel. LaTerra.»

«Ma perché? Sei nato e cresciuto su Wellington, in una delle caserme dicollina, credo. Non sei mai stato sulla Terra.»

«È vero, ma l'ho vista sui teledisplay, nei documentari. E quello che hovisto mi è piaciuto. Poi ho letto tantissimo sulla Terra. E adesso voglio fi-nalmente conoscerla dal vero.» Fece una pausa e sorrise di nuovo. «Di-ciamo che voglio vedere per che cosa ho combattuto.»

Il volto accigliato di Grady esprimeva la sua contrarietà. «Io vengo dallaTerra, Kagen» disse. «Dammi retta, non ti piacerà. Non riuscirai a adattar-ti. La forza di gravità è troppo scarsa e non ci sono alloggi a gravità artifi-ciale dove rifugiarsi. Il synthastim è illegale, assolutamente vietato; ma chi

è nato nei Mondi di Guerra ne ha bisogno e sarai costretto a spendere cifreesorbitanti per procurartelo. I terrestri, poi, non sono allenati a reagire. So-

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no persone diverse. Torna su Wellington, lì sarai tra gente come te.»«Forse è proprio per questo che voglio andare sulla Terra» replicò osti-

nato Kagen. «Su Wellington sarei solo uno dei tanti veterani. Diavolo, tuttii militari che si congedano tornano alle loro vecchie caserme. Invece sullaTerra sono una celebrità. Sarò il tipo più svelto, quello più forte di tuttoquel dannato pianeta. Questo mi darà qualche vantaggio.»

Grady cominciava a innervosirsi. «Che mi dici della gravità? E ilsynthastim?»

«Dopo qualche tempo mi abituerò alla gravità, non ci sono problemi. Enon avrò più bisogno di migliorare velocità e resistenza, perciò immaginodi riuscire a fare a meno anche delle pillole.»

Grady si passò le dita fra i capelli in disordine e scosse la testa, dubbio-

so. Ci fu una lunga pausa di imbarazzato silenzio. Poi l'ufficiale si sporsesopra la scrivania.

Improvvisamente, la sua mano schizzò verso la pistola laser.Kagen reagì. Si slanciò in avanti, rallentato solo leggermente dai pochi

raggi constrictor che ancora lo fasciavano. La sua mano cercò di raggiun-gere il polso di Grady. Fu bloccato di colpo: i raggi lo afferrarono brutal-mente, irrigidendogli tutto il corpo, e lo scaraventarono a terra.

Grady, che non aveva neppure toccato la pistola, si rimise a sedere. Il

suo viso era pallido e scosso. Sollevò leggermente una mano e i raggi al-lentarono la presa. Kagen cadde ai suoi piedi.

«Vedi, Kagen» disse l'ufficiale «questo piccolo test dimostra che sei informa come sempre. Mi avresti raggiunto e bloccato, se i raggi non ti aves-sero rallentato. Te lo ripeto: abbiamo bisogno di gente con la tua prepara-zione e la tua esperienza. Ci servi per combattere i Hrangan. Rinnova laferma.»

Nei gelidi occhi azzurri di Kagen ribolliva la rabbia. «Al diavolo i Hran-

gan!» esclamò. «Non firmerò di nuovo e nessuno dei suoi maledetti trucchiriuscirà a farmi cambiare idea. Io me ne vado sulla Terra e basta.»

Grady si coprì il viso con le mani e sospirò. «Bene, Kagen, hai vinto»disse finalmente. «Inoltrerò la tua domanda.»

Alzò nuovamente lo sguardo e i suoi occhi scuri sembravano stranamen-te turbati.

«Sei stato un ottimo soldato, Kagen. Ci mancherai. Ti dico che rimpian-gerai la tua decisione. Sei sicuro di non volerci ripensare?»

«Assolutamente.»La strana espressione svanì di colpo dagli occhi di Grady, e il suo viso

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riprese la solita maschera di annoiata indifferenza. «Benissimo, puoi anda-re» lo congedò seccamente.

I raggi non si staccarono da Kagen mentre si girava e lo scortarono finoall'esterno dell'edificio.

«Sei pronto, Kagen?» chiese Ragelli, appoggiato con disinvoltura allaporta del cubicolo.

Kagen raccolse la borsa da viaggio e gettò un'ultima occhiata tutto intor-no, per accertarsi di non avere dimenticato niente. Aveva preso tutto. Lastanza era completamente vuota. «Mi pare di sì» disse uscendo.

Ragelli infilò il casco di plastoide che teneva sotto il braccio e si affrettòa raggiungere l'amico nel corridoio. «Allora, ci siamo» disse mettendosi al

passo.«Già, tra una settimana sarò a spassarmela sulla Terra, mentre a te ver-

ranno le vesciche sul sedere dentro il tuo smoking di duralloy.»Ragelli sghignazzò. «Sarà, ma ti ripeto che sei un idiota a volere andare

sulla Terra, con tutti i posti che ci sono; potresti benissimo comandare uncampo di addestramento su Wellington. Ammesso e non concesso che tuvoglia davvero congedarti, che è una follia...»

La porta degli alloggiamenti si aprì scorrendo davanti a loro e i due usci-

rono all'aperto. Ragelli continuava a parlare. Una seconda guardia affiancòKagen dall'altra parte. Come Ragelli, portava l'armatura leggera da com-battimento.

Kagen indossava una candida divisa con galloni d'oro. Alla cintola eraappesa una fondina di cuoio nero con una pistola laser da cerimonia, nonfunzionante. La tenuta era completata dagli stivali, anch'essi di cuoio nero,e da un casco d'acciaio lucido. Le mostrine azzurre sulle spalle indicavanoil grado di ufficiale. Sul petto, mentre marciava, tintinnavano le medaglie.

Tutta la sua squadra, la Terza assaltatori, era schierata sull'attenti nell'a-stroporto dietro gli alloggiamenti, per il saluto d'onore alla partenza. Lungola rampa della navetta era in attesa un gruppo di alti ufficiali, tutti in piedi,circondati da schermi difensivi. In prima fila c'era il maggiore Grady: ilsuo volto annoiato appariva sfocato dietro gli schermi.

Affiancato da due guardie, Kagen attraversò lentamente la pista di ce-mento, sorridendo sotto il casco. Per tutto il campo si diffuse la musica de-gli ottoni e Kagen riconobbe l'inno di battaglia delle Forze di spedizione

ferrane e quello di Wellington.Ai piedi della rampa si voltò a guardare. La compagnia, al comando de-

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gli ufficiali, presentò le armi: Kagen restituì il saluto e gli uomini si rimise-ro sull'attenti. Poi uno degli ufficiali della squadra uscì dai ranghi e gli por-se i documenti di congedo.

Kagen li infilò nella cintura, fece un cenno di saluto rapido e informale aRagelli e salì di corsa sulla rampa, che si sollevò lentamente dietro di lui.

Dentro la navicella fu accolto da un uomo dell'equipaggio che lo salutòcon un breve cenno del capo. «È pronta per lei una cabina speciale. Mi se-gua. Il volo durerà solo un quarto d'ora. Poi sarà trasferito sulla nave stella-re che la porterà sulla Terra.»

Kagen annuì e seguì l'uomo nella cabina, che altro non era che un nor-malissimo locale vuoto con rinforzi di duralloy. Su una parete c'era unoschermo visore, di fronte una cuccetta antiaccelerazione.

Rimasto solo, Kagen si distese, dopo avere appeso il casco a un gancio lìaccanto. Sentì la pressione delicata dei raggi constrictor che lo assicurava-no alla cuccetta.

Dopo qualche minuto un rumore sordo provenne dal centro della navettae Kagen avvertì la forte spinta del decollo. Lo schermo, accesosi d'im-provviso, mostrava il pianeta che rimpiccioliva sotto di loro.

Una volta entrati in orbita, lo schermo si spense. Kagen cercò di mettersia sedere, ma ancora non gli era possibile muoversi. I raggi lo tenevano in-

chiodato alla cuccetta.Fece una smorfia. Una volta in orbita, non era necessario che rimanesse

sdraiato. Qualche imbecille si era dimenticato di sbloccare i raggi constric-tor.

«Ehi» gridò, immaginando che in qualche angolo della cabina dovesseesserci un interfono. «Questi dannati raggi sono ancora in funzione. Sbloc-cateli, voglio muovermi un po'.»

Nessuno rispose.

Cercò di liberarsi con tutte le sue forze. Sembrava che la pressione deiraggi aumentasse, quei maledetti cominciavano a pizzicarlo. I cretini làfuori dovevano aver girato la manopola al contrario.

Bestemmiò tra i denti. «No» urlò. «Adesso stringono di più. Avete sba-gliato a regolarli.»

La pressione, però, continuava ad aumentare e si erano aggiunti anchealtri raggi che ormai ricoprivano il suo corpo come un lenzuolo invisibile egli facevano male.

«Razza di imbecilli» gridò ancora più forte. «Piantatela, bastardi!» In unimpeto d'ira spinse contro i raggi con tutte le forze, imprecando. Non riu-

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sciva più a staccarsi dalla cuccetta.Uno dei raggi premeva all'altezza del taschino della divisa e gli conficcò

la Croce stellare nella pelle. Il bordo tagliente della decorazione aveva giàlacerato l'uniforme e si vedeva una macchia rossa che si allargava sullastoffa candida.

La pressione continuava a crescere e Kagen ebbe un fremito di dolore,contorcendosi tra quelle invisibili catene. Non c'era verso: la pressione erasempre maggiore e il numero dei raggi aumentava.

«Smettetela, bastardi, quando esco di qui vi faccio a pezzi. Mi state am-mazzando, maledetti.»

Sentì il sinistro scricchiolio di un osso che si spezzava per la pressione.Avvertì un dolore acuto al polso destro. Un attimo dopo udì un altro rumo-

re secco.«Basta, maledetti!» gridò con una voce resa acuta dal dolore. «Mi state

ammazzando, mi state ammazzando!»E di colpo si rese conto che era proprio così.

Grady lanciò un'occhiata in tralice all'aiutante di campo che entravanell'ufficio. «Sì, che c'è?»

L'aiutante, un giovane terrestre che si addestrava per prendere i gradi di

ufficiale, fece un saluto scattante. «Ci è appena arrivato il rapporto dallanavetta, signore. È finita. Ci chiedono che cosa devono fare del corpo.»

«Nello spazio. Un posto vale l'altro.» Sul suo viso spuntò un pallido sor-riso e scosse il capo. «Peccato. Era un bravo combattente, ma dev'essercistato qualche errore nell'addestramento psicologico. Bisognerà mandareuna nota di critica al preparatore delle caserme. Anche se è strano che il di-fetto si sia presentato solo ora.»

Scosse di nuovo la testa.

«La Terra» disse. «Per un momento mi ha fatto venire il dubbio che fos-se possibile. Ma quando ho fatto la prova con la mia pistola laser, ne sonostato certo. Impossibile, impossibile.» Scosse le spalle. «Come se avessi-mo mai lasciato che qualcuno nato nei Mondi di Guerra se ne andasse ingiro per la Terra.» Si rimise al lavoro tra le sue carte.

Mentre l'aiutante stava per andarsene, Grady sollevò ancora lo sguardo.«Un'altra cosa» disse. «Non si dimentichi di trasmettere quel comunicato

stampa sulla Terra. "Un eroe di guerra cade per l'esplosione di un'astrona-

ve colpita dai Hrangan": deve essere messo bene in risalto, mi raccoman-do. Le reti più importanti riprenderanno la notizia e sarà un'ottima pubbli-

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cità. Le sue medaglie, le mandi su Wellington. Le vorranno per il museodella caserma.»

L'aiutante annuì e Grady si rimise al lavoro, con la sua solita aria annoia-ta.

"The Hero" copyright © 1971 by UPD Publishing Corporation. Copy-right renewed © 2001 by George R.R. Martin. From "Galaxy", February1971.

L'USCITA PER SANTA BRETA

All'inizio fu l'autostrada ad attirare la mia attenzione. Fino allora si era

trattato di un viaggio assolutamente normale. Ero in vacanza, e stavo per-correndo la Southwest, in direzione di Los Angeles, con tutta calma. Inquesto, niente di nuovo, l'avevo già fatto altre volte.

Guidare è il mio passatempo preferito; anzi, per essere precisi, adoro leauto in generale. Sono ormai poche le persone che trovano il tempo di gui-dare. I più dicono che si va troppo piano. La macchina è diventata pratica-mente obsoleta quando nel '93 hanno cominciato a produrre elicotteri abasso costo, dopo di che l'invenzione dello zaino gravitazionale individua-

le ha eliminato la poca vitalità che ancora aveva.Ma quando ero bambino, era diverso. A quei tempi tutti avevano l'auto-

mobile, ed eri considerato quasi un disadattato se non prendevi la patenteappena avevi l'età per farlo. Io ho cominciato a interessarmi alle macchineprima dei vent'anni, e da allora non ho mai smesso.

Comunque, quando erano cominciate le vacanze, avevo pensato che fos-se l'occasione buona per provare il mio ultimo reperto: una macchina fan-tastica, un modello sportivo inglese della fine degli anni Settanta. Una Ja-

guar XKL. Non una delle più classiche, lo ammetto, ma comunque unabella macchina. Si guidava benissimo.

Viaggiavo per lo più di notte, come al solito. C'è qualcosa di speciale nelguidare quando è buio. Le vecchie autostrade deserte sono avvolte da unaparticolare atmosfera al chiarore delle stelle, e le puoi quasi vedere com'e-rano un tempo: dinamiche e affollate, piene di vita, con le macchine inco-lonnate, un paraurti contro l'altro, a perdita d'occhio.

Oggi non è più così. Sono rimaste solo le strade, quasi sempre piene di

crepe e ricoperte di erbacce. Il governo non può più farsi carico della loromanutenzione, in troppi hanno deplorato lo spreco di denaro pubblico. Del

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resto, tirarle su sarebbe troppo costoso. Così restano lì e basta, un anno do-po l'altro, cadendo lentamente a pezzi. La maggior parte, però, è ancorapercorribile; costruivano bene le strade, una volta.

C'è ancora un po' di traffico: altri patiti delle auto come me, ovviamente,e gli ali-TIR, che possono scivolare sopra qualsiasi tipo di superficie, mavanno più veloci su quelle lisce, per cui in pratica non si scollano mai dallevecchie autostrade.

È piuttosto terrificante quando un ali-TIR ti supera di notte. Vanno a cir-ca duecento all'ora, e appena ne individui uno nello specchietto ce l'hai giàsopra la testa. Non si vede granché: solo una lunga striscia argentea; e unululato risuona mentre passa. Poi sei di nuovo solo.

Comunque sia, mi trovavo nel cuore dell'Arizona, appena fuori Santa

Breta, quando per la prima volta feci caso all'autostrada, ma allora non no-tai molto. Sì, certo, era strano, ma non così tanto.

La strada di per sé era normalissima: a otto corsie, senza pedaggio, conun bel fondo veloce, e correva dritta da un orizzonte all'altro. Di nottesembrava un nastro nero scintillante disteso sulle bianche dune del deserto.

No, la cosa strana non era l'autostrada, ma le sue condizioni. Non me neaccorsi subito, mi stavo divertendo troppo. Era una notte fredda, limpida,senza stelle, e la Jaguar andava che era una meraviglia.

Andava troppo bene. Fu questa la prima cosa che notai. Non c'eranogobbe, buche o crepe. La strada era in ottime condizioni, come se fossestata appena costruita. Sì, avevo già viaggiato su strade buone, semplice-mente conservate meglio di altre: ce n'è una fuori Baltimora che è fantasti-ca, e alcuni tratti della tangenziale di Los Angeles non sono male.

Ma non avevo mai viaggiato su una così bella. Era incredibile che potes-se essere in condizioni del genere dopo tutti quegli anni senza manuten-zione.

E poi i lampioni erano tutti accesi, chiari e luminosi. Neanche uno dan-neggiato, spento o con la luce intermittente. Accidenti, non c'era nemmenouna lampadina fioca. La strada era perfettamente illuminata.

Dopo di che cominciai a notare altre cose, per esempio i cartelli stradali.Quasi dappertutto sono spariti da tempo, rimossi da cacciatori di souveniro da collezionisti di anticaglie, in ricordo di una vecchia America più lenta.Non vengono più rimpiazzati, dal momento che non servono. Ogni tantone trovi uno che è stato dimenticato, ma ormai è ridotto a un pezzo di me-

tallo arrugginito dalla forma strana.Invece questa autostrada aveva i cartelli, quelli veri, che si possono leg-

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gere. Per esempio: limiti di velocità, mentre da anni nessuno osserva piùun limite; dare la precedenza, quando di rado si incrocia qualcuno da la-sciare passare; svolta, uscita, pericolo... cartelli di ogni genere, e tutti comenuovi.

Ma la sorpresa maggiore furono le corsie. La vernice sbiadisce in fretta,e dubito che in America esista una strada dove puoi ancora distinguere lelinee bianche mentre stai andando. Invece queste erano chiare e nitide, lavernice fresca e le otto corsie ben contrassegnate.

Sì, era proprio una bella autostrada, come quelle di un tempo. Ma nonaveva senso, non poteva essersi conservata così bene dopo tutti quegli an-ni. Quindi qualcuno doveva averne curato la manutenzione, ma chi? Chimai si sarebbe preso la briga di riparare una strada su cui passava solo una

mezza dozzina di persone l'anno? Un costo astronomico, senza alcun ritor-no.

Stavo ancora cercando di capire, quando apparve l'altra automobile.Avevo appena oltrepassato un grande segnale rosso che indicava l'uscita

76, quella per Santa Breta, quando la vidi. Era solo un puntino all'orizzon-te, ma sapevo che doveva trattarsi di un altro automobilista. Non potevaessere un ali-TIR, perché evidentemente io andavo più veloce, quindi do-veva essere un'altra macchina, un altro aficionado come me.

Era un'occasione singolare, è maledettamente difficile incontrare un'altramacchina per la strada. Certo, ci sono i raduni, come il Fresno Festival suruote e l'Ingorgo annuale dell'Associazione americana automobilisti, mahanno qualcosa di troppo artificioso per i miei gusti. Incontrare qualcunosu un'autostrada è tutta un'altra cosa.

Premetti un po' sull'acceleratore e arrivai a centoventi. La Jaguar potreb-be fare di meglio, ma io non sono un patito della velocità come certi mieisimili. Stavo guadagnando rapidamente terreno. Dalla velocità con cui mi

avvicinavo, l'altra macchina non doveva fare più dei settanta.Quando fui abbastanza vicino, diedi un colpo di clacson per attirare l'at-

tenzione, ma sembrava non mi avessero sentito. O, almeno, non lo diederoa vedere. Suonai di nuovo.

Poi, d'un tratto, riconobbi la marca.Era una Edsel.Non credevo ai miei occhi. È un vero classico, insieme alla Stanley

Steamer e al Modello T.

Le poche rimaste in circolazione oggi valgono una vera fortuna.E questa era una delle più rare, uno dei primi modelli, quelli con il muso

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strano. Ne rimanevano solo tre o quattro al mondo, e non erano in vendita,per nessuna cifra. Una vera leggenda automobilistica, e adesso era lì da-vanti a me in autostrada, in tutta la sua bruttura, proprio come il giorno incui era uscita dalla catena di montaggio della Ford.

Mi affiancai e rallentai per restare alla stessa altezza. Non posso dire diessermi soffermato tanto sul suo stato di conservazione. La macchina erasporca, con la vernice bianca scrostata e tracce di ruggine sulla parte bassadelle portiere, ma era pur sempre una Edsel, e poteva essere tranquillamen-te restaurata. Suonai ancora per attirare l'attenzione dell'autista, che peròcontinuò a ignorarmi. C'erano cinque persone a bordo, stando a quello chevedevo, evidentemente una famiglia in gita. Dietro una donna piccola e ro-busta cercava di calmare due bambini che sembravano litigare. Il marito

dormiva sul sedile anteriore, mentre un giovanotto, probabilmente il figlio,stava al volante.

Ci restai male. Il conducente era giovanissimo, forse neanche ventenne,e mi irritava l'idea che a quell'età avesse il privilegio di guidare un similetesoro. Avrei voluto essere al suo posto.

Avevo letto molto sulla Edsel; i libri sulle automobili erano prodighi diinformazioni. Era un caso unico, il peggiore disastro del settore. Attorno alsuo nome erano nati innumerevoli miti e leggende.

Nelle stazioni di rifornimento e nei garage anneriti sparsi per la nazione,dove i maniaci delle auto si ritrovano per fare un po' di manutenzione echiacchierare, girano ancora oggi molte storie sulla Edsel. Si dice che erastata costruita fuori misura per la maggior parte dei garage, che era tuttapotenza e niente freni. La definiscono la macchina più brutta mai disegna-ta, e sono ancora in circolazione vecchie battute sul suo nome. Stando auna diceria molto diffusa, se la fai andare abbastanza forte, l'aria vortican-do attorno al cofano produce uno strano sibilo.

Tutti i sogni, le tragedie e i misteri legati alle vecchie automobili sonocondensati nella Edsel, e le storie su di lei vengono ricordate e tramandatequando ormai le sue sfavillanti contemporanee sono da tempo un ammassodi rottami negli sfasciacarrozze.

Mentre avanzavo al suo fianco, tutte le vecchie leggende su quella mac-china mi erano tornate alla memoria come un fiume in piena, e mi persinella nostalgia. Provai con qualche altro colpo di clacson, ma l'autistasembrava deciso a ignorarmi, quindi ben presto lasciai perdere. Tra l'altro,

stavo cercando di sentire se il cofano fischiava davvero.Mi sarei dovuto accorgere allora della stranezza dell'insieme: la strada,

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la Edsel, il modo in cui mi ignoravano. Ma ero troppo preso dai miei pen-sieri per essere in grado di riflettere, e riuscivo a stento a tenere d'occhio lastrada.

Avrei voluto parlare con i proprietari, certo, e magari fare anche un gi-retto. Visto che erano stati così scortesi da non fermarsi, decisi di seguirlifinché non avessero fatto rifornimento di cibo o di benzina. Quindi rallen-tai e mi misi dietro di loro. Volevo stare vicino senza tallonarli, per cui mipiazzai sulla corsia alla loro sinistra.

Mentre li pedinavo, ricordo di aver pensato che il proprietario dovevaessere un vero patito: si era addirittura preso la briga di cercare un'autenti-ca rarità, una targa d'epoca, di quelle che non si usano più da anni. Stavoancora rimuginando su queste cose, quando oltrepassammo il cartello che

annunciava l'uscita 77.Il ragazzo al volante della Edsel sembrò agitarsi di colpo; si voltò e

guardò indietro, come per dare un'altra occhiata al cartello che ci eravamoappena lasciati alle spalle. Poi, senza alcun preavviso, la Edsel sterzò bru-scamente nella mia corsia.

Inchiodai, ma ovviamente non avevo speranze. Successe tutto in unafrazione di secondo. Ci fu un orribile stridio, e ho in mente il viso terroriz-zato del ragazzo poco prima che le due macchine si scontrassero. Poi lo

schianto.La Jaguar urtò la Edsel sul fianco, sfondando il vano del posto di guida a

settanta all'ora, poi andò a sbattere contro il guardrail e si fermò. La Edsel,colpita in pieno, si capovolse al centro della strada. Non ricordo né di es-sermi tolto la cintura di sicurezza né di essere uscito dalla macchina, madevo averlo fatto, perché l'immagine successiva è di me che striscio carpo-ni sull'asfalto, stordito ma incolume.

Avrei dovuto cercare di fare subito qualcosa per rispondere alle grida di

aiuto provenienti dalla Edsel. Ma non lo feci. Stavo ancora tremando, sottoshock. Non so quanto tempo passò, poi la Edsel esplose e cominciò a bru-ciare. Le grida improvvisamente si fecero più acute, dopo di che calò il si-lenzio.

Quando mi decisi a rimettermi in piedi, il fuoco aveva ormai finito di ar-dere, ed era troppo tardi per fare qualsiasi cosa. Io però avevo ancora lamente annebbiata: riuscii a scorgere delle luci in lontananza, sulla stradache proseguiva dalla rampa di uscita. Mi incamminai in quella direzione.

Quel tragitto mi sembrò eterno, non riuscivo ad andare dritto e continua-vo a inciampare. L'illuminazione della strada era fioca, e facevo fatica a

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vedere dove mettere i piedi. Cadendo mi ero graffiato le mani. Fu l'unicaferita che riportai nell'incidente.

Le luci provenivano da un piccolo caffè, un locale squallido che avevacintato una parte dell'autostrada abbandonata facendone un aeroparcheggioprivato. Quando arrivai barcollando sulla soglia, c'erano solo tre avventori,ma uno di loro era un agente della polizia locale.

«C'è stato un incidente» dissi dalla porta. «Serve aiuto.»Il poliziotto finì il caffè d'un fiato, poi si alzò. «Uno scontro di elicotte-

ri?» chiese. «Dov'è successo?»Io scossi la testa. «No, automobili. Un tamponamento sull'autostrada, la

vecchia interstatale.» Indicai vagamente la direzione da cui ero venuto.Il poliziotto si fermò di colpo a metà del bar e si rabbuiò. Gli altri scop-

piarono a ridere.«Diamine, sono vent'anni che quella strada è inservibile» esclamò un ti-

po grasso, dall'altro angolo della stanza. «È così piena di buche che la u-siamo per i corsi di golf» aggiunse, ridendo da solo della battuta. Il poli-ziotto mi guardò con sospetto. «Vada a casa a smaltire la sbornia. Non vor-rei doverla arrestare.» E fece per tornare a sedersi.

Io avanzai di un passo. «Dannazione, è la verità» dissi, questa volta piùarrabbiato che intontito. «E non sono ubriaco. C'è stato uno scontro sull'in-

terstatale, e delle persone sono rimaste intrappolate...» La mia voce si af-fievolì quando mi resi conto che qualsiasi aiuto sarebbe arrivato troppotardi.

Il poliziotto continuava a guardarmi perplesso.«Forse dovresti andare a dare un'occhiata» suggerì la cameriera da dietro

il bancone. «Potrebbe essere vero. L'anno scorso c'è stato un incidente suun'autostrada nell'Ohio. Ricordo di aver visto un servizio su 3V.»

«Già, penso anch'io» convenne alla fine l'agente. «Andiamo, giovanotto.

Spero per lei che mi abbia detto la verità.»Attraversammo in silenzio l'aeroparcheggio e salimmo sull'elicottero a

quattro posti della polizia. Dopo avere azionato le pale, l'agente mi guardòe disse: «Se è vero, lei e l'altro vi meritate una medaglia».

Lo guardai allibito.«Intendo dire che probabilmente siete gli unici a essere transitati per

quella strada negli ultimi dieci anni, e siete anche riusciti a scontrarvi. Be',ci vuole una certa abilità, no?» Scosse la testa pensieroso. «Non è da tutti,

per questo dico che dovrebbero darvi una medaglia.»L'interstatale non era così lontana dal caffè come mi era sembrato all'an-

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data. Una volta decollati, impiegammo meno di cinque minuti. Ma c'eraqualcosa di strano: la strada dall'alto sembrava diversa.

E d'un tratto capii perché. Era più buia, molto più buia.I lampioni erano quasi tutti spenti, e i pochi accesi facevano una luce

fioca e tremolante.Mentre io rimanevo seduto, confuso, il poliziotto balzò a terra nel cono

di luce giallastra di un lampione. Scesi anch'io, come trasognato, e incespi-cai in una delle buche che si aprivano nell'asfalto. Era piena di erbacce emolte ne spuntavano anche dalle crepe che ricoprivano l'autostrada comeuna ragnatela.

Cominciò a martellarmi la testa. Non aveva senso, niente aveva senso;non capivo che cosa accidenti stesse succedendo.

L'agente mi raggiunse facendo il giro attorno all'elicottero, con un senso-re med portatile appeso alla spalla con una cinghia di cuoio. «Muoviamo-ci» disse. «Allora, dov'è l'incidente?»

«Lungo la strada, credo» mormorai incerto. Non c'era traccia della miamacchina e stavo cominciando a credere che forse eravamo sulla stradasbagliata, anche se non capivo come fosse possibile.

Invece la strada era giusta. Qualche minuto dopo trovammo la mia auto,ferma vicino al guardrail in un tratto buio dell'autostrada, dove erano salta-

te tutte le lampadine. Sì, era proprio la mia macchina, solo che non avevaneanche un graffio. Della Edsel, neppure l'ombra.

Ricordo in che stato avevo lasciato la mia Jaguar: il parabrezza rotto, tut-ta la parte anteriore sfasciata, il parafango sinistro ammaccato dove avevasbattuto contro il guardrail. Ed eccola lì, in condizioni perfette.

Mentre esaminavo la mia macchina, l'agente, accigliato, mi puntò addos-so il sensore med. «Be', non è in stato di ebbrezza» disse alla fine, alzandolo sguardo. «Quindi non la porterò dentro, anche se dovrei. Ecco adesso

che cosa farà, signore. Salirà su quel cimelio, farà manovra e sparirà da quial più presto. Perché se dovessi vederla ancora in giro, passerà dei guai.Siamo intesi?»

Avrei voluto protestare, ma non trovai le parole. Che cosa avrei potutodire di sensato? Perciò mi limitai ad annuire. L'agente si voltò disgustato,borbottando qualcosa sulle burle, e si diresse verso l'elicottero.

Quando se ne fu andato, mi avvicinai alla Jaguar e appoggiai una manosul cofano, incredulo, temendo di essere impazzito. Invece era tutto vero, e

quando girai la chiave dell'accensione, il motore ruggì in maniera rassicu-rante, e i fanali diradarono le tenebre. Restai seduto a lungo prima di porta-

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re la macchina al centro della strada, per fare un'inversione a U.Il tragitto fino a Santa Breta fu lungo e accidentato. Era un continuo sus-

seguirsi di buche e, data la scarsa illuminazione e le infide condizioni delfondo, dovevo tenere la velocità al minimo.

Era una strada orrenda, su questo non c'erano dubbi. In genere facevo ditutto per evitare carreggiate del genere, c'erano troppi rischi di forare.

Riuscii ad arrivare fino a Santa Breta senza incidenti, avanzando pianpianino. Erano le due di notte quando entrai in città. La rampa d'uscita,come il resto dell'autostrada, era buia e piena di crepe, e non era segnalatada alcun cartello.

Ricordai, da altre escursioni nella zona, che a Santa Breta c'erano ungrande garage per gli appassionati e una stazione di rifornimento, così ci

andai e controllai la macchina insieme a un giovane inserviente notturnodall'aria annoiata. Dopo di che raggiunsi a piedi il motel più vicino. Unanotte di sonno, pensavo, avrebbe messo tutto a posto.

Invece non fu così. La mattina mi alzai ancora confuso, anzi, forse più diprima. Una vocina nella testa continuava a ripetermi che era stato tutto unbrutto sogno. Scacciai quel pensiero tentatore e cercai di rimettere insiemei pezzi.

Continuai a riflettere anche sotto la doccia, durante la colazione e nel

breve tragitto fino alla stazione di rifornimento, ma senza fare alcun pro-gresso. O il mio cervello mi aveva giocato un brutto tiro, oppure la notteprima doveva essere successo qualcosa di strano. Non volendo credere allaprima ipotesi, cercai di andare a fondo della seconda.

Il proprietario, un arzillo vecchietto sugli ottant'anni, era di turno allastazione di rifornimento. Indossava una tuta da meccanico vecchio stile, untocco eccentrico. Mi salutò gentilmente quando ritirai la mia Jaguar.

«Che piacere vederla» disse. «Dove se ne va di bello, oggi?»

«Los Angeles. Questa volta prendo l'autostrada.»Al sentire quelle parole, il vecchio inarcò le sopracciglia. «L'interstatale?

Pensavo che avesse più giudizio. Quella strada è un disastro, non va beneper una macchina bella come la sua.»

Non avevo il coraggio di cercare di spiegare, così mi limitai ad accenna-re un sorriso e lasciai che andasse a prendere la Jaguar. Era stata lavata,controllata, ed era stato fatto il pieno. Era in forma smagliante.

Guardai rapidamente se c'erano ammaccature, ma non vidi neanche un

segno.«Quanti clienti abituali avete da queste parti?» chiesi al vecchio, mentre

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pagavo. «Intendo collezionisti della zona, non gente di passaggio.»Alzò le spalle. «Saranno un centinaio in tutto lo Stato, e la maggior parte

viene da noi. Abbiamo la benzina migliore e l'unico servizio di assistenzadecente nei paraggi.»

«Qualcuno con una bella collezione?»«Più di uno» rispose. «C'è un tipo che viene sempre con una Pierce-

Arrow. Un altro, specializzato negli anni Quaranta, ha dei bei pezzi e an-che in buono stato.»

Annuii. «Qualcuno da queste parti ha una Edsel?» domandai.«Difficile» rispose. «Nessuno dei nostri clienti è così ricco. Come mai le

interessa?»Decisi di procedere, per così dire, con cautela. «L'altra notte ne ho in-

crociata una, però non sono riuscito a parlare con il proprietario. Pensavoche magari potesse essere qualcuno della zona.»

L'uomo non ebbe alcuna reazione, per cui feci per salire sulla Jaguar.«Nessuno della zona» disse, mentre chiudevo la portiera. «Sarà stato qual-cuno di passaggio. Curioso, però, incontrarlo su una strada del genere. Nonè facile...»

Poi, mentre stavo girando la chiave dell'accensione, spalancò la bocca.«Aspetti un momento!» urlò. «Ha detto sulla vecchia interstatale? Ha vi-

sto una Edsel sull'interstatale?»Spensi di nuovo il motore. «Proprio così» risposi.«Accidenti» esclamò. «Me n'ero quasi dimenticato, è passato così tanto

tempo. Era una Edsel bianca? Con cinque persone a bordo?»Aprii la portiera e scesi. «Sì, esatto» confermai. «Sa dirmi qualcosa?»Il vecchio mi prese per le spalle. Aveva una strana luce negli occhi.

«L'ha vista soltanto?» mi chiese, scuotendomi. «È sicuro che non sia suc-cesso altro?»

Esitai un momento, sentendomi un idiota. «No» ammisi alla fine. «Cisiamo scontrati, sì, credo che ci siamo scontrati. Ma poi...» Feci un gestoverso la Jaguar.

Il vecchio mi prese entrambe le mani e scoppiò a ridere. «Ancora, dopotutti questi anni» mormorò.

«Che cosa sa?» chiesi. «Che cosa diavolo è successo la notte scorsa?»Lui sospirò. «Venga, le racconto tutto.»

«È accaduto più di quarant'anni fa» mi disse, davanti a una tazza di caffèin un bar all'angolo della strada. «Erano gli anni Settanta, una famiglia sta-

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va andando in vacanza. Il ragazzo e il padre si alternavano alla guida. A-vevano prenotato un albergo a Santa Breta, ma al volante c'era il ragazzo,era tarda notte e chissà come mancò l'uscita, non la vide proprio.

«Finché arrivò all'uscita 77: deve essersi spaventato moltissimo quandovide il cartello. Chi conosceva la famiglia diceva che il padre era un verobastardo, e gli avrebbe fatto pagare cara quella disattenzione. Non sappia-mo che cosa sia successo, ma si pensa che il ragazzo sia stato preso dal pa-nico: aveva la patente da appena due settimane, così cercò di fare un'inver-sione a U e ritornare verso Santa Breta.

«L'altra macchina gli entrò nella fiancata. Il guidatore della seconda autonon aveva agganciato le cinture, sfondò il parabrezza, atterrò sul selciato emorì sul colpo. I passeggeri a bordo della Edsel non furono altrettanto for-

tunati: la macchina si capovolse ed esplose, con loro intrappolati dentro.Morirono tutti e cinque carbonizzati.»

Provai un brivido ricordando le urla provenienti dall'auto in fiamme.«Ma ha detto che è stato quarant'anni fa, come spiega quello che mi è suc-cesso la notte scorsa?»

«Adesso ci arrivo» replicò il vecchio. Prese una ciambella e la intinsenel caffè, masticando pensieroso. «Il secondo fatto accadde circa due annidopo» riprese. «Un tipo denunciò uno scontro alla polizia. Uno scontro

con una Edsel, a tarda notte, sull'interstatale. La descrizione era la replicaesatta dell'altro incidente, solo che una volta arrivati sul posto la sua mac-china non aveva neanche un graffio, e non c'erano tracce dell'altra.

«Be', il ragazzo era della zona, per cui la faccenda fu liquidata come unabravata per farsi pubblicità, ma un anno dopo un altro tizio raccontò lastessa storia. Questa volta era uno che veniva da fuori, impossibile che a-vesse sentito del primo incidente. La polizia non sapeva che pesci pigliare.

«Negli anni si è ripetuto altre volte, con alcune costanti: era sempre notte

fonda, l'uomo coinvolto era da solo in macchina e non c'erano né altre autonelle vicinanze né testimoni, come all'epoca del primo incidente, quellovero. Gli scontri avvenivano sempre poco dopo l'uscita 77, dove la Edselaveva curvato per fare l'inversione.

«Molti cercarono di trovare una spiegazione: allucinazioni, si ipotizzò,colpi di sonno oppure una truffa, sostenne qualcuno. Ma c'era un'unica ra-gione sensata, la più semplice: la Edsel era un fantasma. I giornali sfrutta-rono la notizia, chiamarono l'interstatale "l'autostrada abitata dagli spiri-

ti".»Il vecchio si interruppe, finì di bere il caffè, poi fissò la tazza pensieroso.

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«Be', gli incidenti si sono ripetuti negli anni, ogni volta che si presentavanotutte le condizioni, fino al '93. Poi il traffico cominciò a diminuire, sempremeno gente usava l'interstatale, e così calarono anche gli incidenti.» Alzògli occhi su di me. «Lei è stato il primo dopo oltre vent'anni. Me ne eroquasi dimenticato.» Poi abbassò di nuovo lo sguardo e rimase in silenzio.

Ripensai per qualche minuto a quello che aveva raccontato. «Non so»dissi alla fine, scuotendo la testa. «Coincide tutto, ma un fantasma? Io noncredo alla loro esistenza, lo trovo così assurdo.»

«Non direi» ribatté il vecchio, lanciandomi un'occhiata. «Ripensi allestorie di fantasmi che leggeva da bambino. Che cosa avevano in comune?»

Rabbrividii. «Non lo so.»«Una morte violenta. I fantasmi erano il risultato di omicidi, esecuzioni,

sangue e violenza. Le case infestate dai fantasmi erano sempre posti dovequalcuno, cento anni prima, aveva fatto una brutta fine; ma nell'Americadel ventesimo secolo le morti violente non avvenivano nei castelli o nellefortezze, bensì sulle autostrade intrise di sangue, dove ogni anno perdeva-no la vita migliaia di persone. Un fantasma moderno non potrebbe viverein un castello o impugnare una falce: abita in un'autostrada e guida l'auto-mobile. Che cosa c'è di più logico?»

In effetti era sensato. Annuii. «Ma perché proprio questa autostrada?

Perché proprio questa macchina? È morta così tanta gente sulle strade,perché questo caso è speciale?»

Il vecchio alzò le spalle. «Non lo so. Che cosa rende un omicidio diversoda un altro? Perché solo alcuni originano dei fantasmi? Chi lo può dire?Ma ho sentito diverse teorie. Secondo alcuni la Edsel è condannata ad abi-tare per sempre l'autostrada perché, in un certo senso, è l'assassino: ha pro-vocato l'incidente, quelle morti. Questa è la sua punizione.»

«Può darsi» mormorai dubbioso. «Ma perché tutta la famiglia? Si po-

trebbe dire che è stata colpa del ragazzo. O del padre, per avergli permessodi guidare con così poca esperienza. Ma il resto della famiglia? Perché do-vrebbe essere punito?»

«È vero» ammise il vecchio. «Personalmente non credo a questa teoria.Io ho un'altra spiegazione.» Mi guardò fisso negli occhi. «Penso che si sia-no persi» disse.

«Persi?» ripetei, e lui annuì.«Proprio così» ribadì. «A quell'epoca, quando le strade erano piene di

traffico, non potevi semplicemente fare inversione quando sbagliavi uscita.Dovevi proseguire, a volte per chilometri, prima di poter tornare indietro.

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Alcuni raccordi stradali erano così complicati che rischiavi di non trovarepiù la via per il ritorno.

«E secondo me è quello che è successo alla Edsel. Hanno sbagliato usci-ta, e adesso non sanno più ritrovarla, e devono continuare ad andare avanti,per sempre.» Sospirò, si voltò e ordinò un altro caffè.

Bevemmo in silenzio, poi ritornammo alla stazione di rifornimento. Pre-si la Jaguar e andai dritto alla biblioteca comunale. Nei file dei vecchigiornali trovai tutto: i dettagli del vero scontro, l'incidente di due anni dopoe poi gli altri, a cadenza irregolare. La stessa storia, la stessa dinamica, o-gni volta uguale. Tutto era identico, perfino le grida.

La notte in cui mi rimisi in viaggio, la vecchia autostrada era buia. Nonc'erano né cartelli stradali né linee bianche, solo un'infinità di crepe e bu-

che. Guidai lentamente, immerso nei miei pensieri.Qualche chilometro dopo Santa Breta mi fermai e scesi dall'auto. Restai

lì, sotto le stelle, quasi fino all'alba, a guardare e ascoltare. Ma i lampionierano spenti e non vidi niente.

Però, verso mezzanotte, ci fu uno strano fischio in lontananza, che au-mentò rapidamente fino ad arrivare sopra la mia testa, e poi svanì altrettan-to rapidamente.

Poteva essere stato un ali-TIR, spuntato da qualche parte oltre l'orizzon-

te, immagino; non ho mai sentito quei mezzi fare un rumore del genere,ma può darsi che sia così.

Io però non ci credo.Credo che fosse il sibilo dell'aria che vorticava attorno al cofano di una

Edsel bianca arrugginita, su un'autostrada infestata dai fantasmi che nontroverai su nessuna carta stradale. Penso che fosse il grido di una poveraauto smarrita, che cerca in eterno l'uscita per Santa Breta.

"The Exit to San Breta" copyright © 1971 by Ultimate PublishingCompany, Inc. Copyright renewed © 2001 by George R.R. Martin. From"Fantastic Stories", February 1972.

SOLITUDINE DEL SECONDO TIPO

18 giugno - Oggi il mio sostituto è partito dalla Terra.Certo, ci vorranno almeno tre mesi prima che arrivi, ma è in viaggio.

È decollato dal Capo, proprio come ho fatto io, quattro lunghi anni fa.Alla stazione Komarov passerà su una navetta lunare, poi farà un altro

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cambio in orbita attorno alla Luna, alla stazione Deepspace. A quel puntoinizierà il viaggio vero. Fino ad allora sarà come se fosse rimasto nel corti-le di casa.

Se ne accorgerà, anzi, lo sentirà, come è successo a me quattro anni fa,solo quando la Caronte partirà da Deepspace e si immergerà nelle tenebre,e la Terra e la Luna svaniranno alle sue spalle. Ovviamente sapeva findall'inizio che non si può tornare indietro, ma una cosa è saperlo e un'altrasentirlo: a quel punto lo sentirà.

Ci sarà una sosta in orbita attorno a Marte, per scaricare i rifornimentiper Burroughs City, e altre tappe nella cintura, ma poi la Caronte comince-rà ad acquistare velocità. Andrà velocissima quando raggiungerà Giove, eancora di più quando lo supererà, usando la gravità di quell'enorme pianeta

come una fionda per incrementare la propria accelerazione.Dopo non ci saranno altre soste per la Caronte, fino a quando arriverà da

me, qui, sull'anello stellare Cerbero, sei milioni di chilometri dopo Plutone.Il mio sostituto avrà molto tempo per riflettere, come è successo a me.E lo sto ancora facendo adesso, dopo quattro anni. Del resto qui non ci

sono tante alternative: le navi stellari sono rare, e dopo un po' ne hai abba-stanza di film, dischi e libri, allora rifletti. Pensi al tuo passato e immaginiil futuro, cercando di evitare che la solitudine e la noia ti facciano uscire

fuori di testa.Sono stati quattro lunghi anni, ma adesso sono quasi finiti, e sarà bello

tornare. Voglio camminare ancora sull'erba, vedere le nuvole e mangiareuna macedonia con il gelato.

Però non rimpiango di essere venuto, penso che questi quattro anni dasolo nell'oscurità mi abbiano fatto bene. Non ho la sensazione di avere per-so qualcosa. I giorni sulla Terra mi sembrano lontanissimi, ma volendoposso farli affiorare di nuovo alla memoria. I ricordi non sono tutti piace-

voli: all'epoca ero molto incasinato.Avevo bisogno di tempo per pensare, e il tempo qui non manca. L'uomo

che tornerà indietro sulla Caronte non sarà lo stesso che è arrivato quiquattro anni fa. La mia vita sulla Terra sarà completamente diversa, ne so-no sicuro.

20 giugno - Oggi una nave.Ovviamente non sapevo del suo arrivo. Non lo so mai. Le navi stellari

sono irregolari e le energie che mi circondano quassù trasformano i segnaliradio in un caos crepitante. Quando la nave è penetrata nel campo elettro-

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statico, gli scanner della stazione avevano già rilevato e segnalato la suapresenza.

Si trattava senza dubbio di una nave stellare. Molto più grande dei vec-chi carcassoni arrugginiti come la Caronte, e ben equipaggiata per resisterealle sollecitazioni del vortice dello spazio nullo. È arrivata diretta, senzaaccennare a rallentare.

Mentre mi stavo dirigendo verso la sala di controllo per mettere le cintu-re, un pensiero mi ha attraversato la mente: avrebbe potuto essere l'ultima.Probabilmente no, certo, mancano ancora tre mesi, e nel frattempo puòpassarne un'altra dozzina, ma chi lo sa? Le navi stellari, come ho detto, so-no imprevedibili.

Non ho idea del perché, ma quel pensiero mi turbava. Le navi sono state

per quattro anni parte della mia vita, una parte importante, e forse quella dioggi era l'ultima. In questo caso, la voglio trattenere, la voglio ricordare;giustamente, rifletto. Quando le navi arrivano, tutto il resto qui acquista unsenso.

La sala di controllo si trova nel cuore dei miei alloggi. È il centro di tut-to: da qui partono i nervi, i tendini e i muscoli della stazione, ma non è par-ticolarmente scenografica. È una stanza piccolissima e, quando le portescorrevoli sono chiuse, pareti, pavimento e soffitto sono tutti di un bianco

impersonale.All'interno c'è solo una console a ferro di cavallo, che si snoda attorno a

una poltrona imbottita.Oggi mi sono seduto, forse per l'ultima volta, su quella poltrona. Ho al-

lacciato le cinture, ho messo le cuffie e abbassato il casco. Poi ho allungatoil braccio per attivare i comandi.

E la stanza è scomparsa.Ovviamente si tratta di ologrammi, lo so, ma non fa alcuna differenza

quando siedo su quella poltrona. In quel momento, per quanto mi riguarda,non sono più nella stanza, ma là fuori, nel vuoto. La plancia è ancora lì, eanche la poltrona; il resto però è sparito. Al suo posto la penosa oscuritàdilaga sopra, sotto e anche intorno a me. Il Sole in lontananza è solo unastella in mezzo a tante, tutte terribilmente distanti.

È sempre così, era così anche oggi. Una volta azionato l'interruttore, erosolo nell'universo, tra le stelle indifferenti e l'anello, l'anello stellare Cerbe-ro.

Ho visto l'anello come se lo guardassi dall'esterno, dall'alto in basso. Èuna struttura enorme, anche se da qua fuori appare come un sottile filo

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d'argento perso nell'immensità delle tenebre.Io invece so che è gigantesco. La zona in cui vivo occupa soltanto un

grado della sua circonferenza, il cui diametro misura più di cento chilome-tri. Il resto sono circuiti, scanner e accumulatori di energia. E motori: i mo-tori assopiti dello spazio nullo.

L'anello ruotava silenzioso sotto di me, con la parte più lontana protesaverso il nulla. Ho schiacciato un pulsante sulla console: ai miei piedi, i mo-tori dello spazio nullo si sono ridestati.

Al centro dell'anello era nata una nuova stella.All'inizio era solo un puntino nell'oscurità, questa volta di un colore ver-

de brillante, ma non sempre, e non a lungo; lo spazio nullo ha tanti colori.Se avessi voluto, avrei potuto vedere anche la parte lontana dell'anello,

che splendeva di luce propria. I motori dello spazio nullo, vivi e attivi, im-piegano un'incalcolabile quantità di energia per ingrandire un buco in quel-lo spazio.

Il buco esisteva da molto tempo prima di Cerbero, prima dell'uomo. Gliuomini lo scoprirono, per puro caso, quando raggiunsero Plutone, e ci co-struirono intorno l'anello. Più tardi trovarono altri due buchi, e costruironoaltri anelli stellari.

I buchi erano piccoli, troppo piccoli, ma potevano essere allargati. Pote-

vano essere tenuti temporaneamente aperti, a prezzo di un grande dispen-dio di energia. L'energia grezza veniva riversata in quel minuscolo, imper-cettibile foro nell'universo, finché la placida superficie dello spazio nullonon si fosse contratta e poi rilasciata, formando il vortice.

Ed era quello che stava succedendo.La stella al centro dell'anello cresceva e si appiattiva. Era non un globo,

ma un disco scintillante, l'oggetto più luminoso del firmamento. E aumen-tava a vista d'occhio. Dal disco verde roteante si irradiavano lame arancio-

ni simili a fiamme, e poi si ritraevano, e fuoriuscivano fili di fumo bluastri;macchie rosse danzavano e balenavano in mezzo al verde, si allargavano esi perdevano. Tutti i colori hanno cominciato a fondersi.

Le dimensioni della stella piatta, variopinta e roteante continuavano aduplicarsi. Pochi minuti prima non esisteva, adesso riempiva tutto l'anello,premeva contro le pareti argentee, bruciandole con la sua spaventosa ener-gia. Ha cominciato a ruotare velocemente, sempre più velocemente, comeun gorgo nello spazio, un mulinello di fiamme e colori.

Il vortice. Il vortice dello spazio nullo. Un ciclone ululante che non è unciclone e che non ulula, perché nello spazio non esiste il suono.

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Ecco che cosa è diventata la nave stellare. All'inizio era una stella inmovimento, poi ha assunto forma e contorni visibili a una tale velocità chela mia vista umana faticava a starle dietro. Si è trasformata in un proiettileargento scuro nell'oscurità, una pallottola sparata nel vortice.

La direzione era giusta. La nave è arrivata molto vicino al centro dell'a-nello. I colori vorticanti l'hanno avvolta.

Ho azionato i comandi. Più rapidamente di come si era creato, il vorticeè sparito, e ovviamente anche la nave. Ancora una volta c'eravamo soltantoio, l'anello e le stelle.

Poi ho spinto un altro pulsante, e mi sono ritrovato di nuovo nella sala dicontrollo bianca e vuota. Mi sono tolto le cinture, forse per l'ultima volta.

In un certo senso, ho sperato che non fosse così. Non ho mai pensato di

poter provare nostalgia per questo posto, invece ora so che mi mancheran-no le navi stellari, mi mancheranno momenti come quello di oggi.

Spero di poterne rivivere altri, prima di darci un taglio per sempre. Desi-dero sentire i motori dello spazio nullo risvegliarsi di nuovo sotto le miemani, e vedere il vortice agitarsi e ribollire mentre io fluttuo da solo inmezzo alle stelle. Almeno una volta ancora, prima di ripartire.

23 giugno - Quella nave stellare mi ha fatto riflettere più del solito.

Stranamente, con tutte le navi che ho visto passare attraverso il vortice,non mi è mai venuto in mente di guidarne una. Dall'altra parte dello spazionullo c'è un altro mondo, completamente diverso, Second Chance, un pia-neta verde lussureggiante che ruota intorno a una stella così lontana che gliastronomi si chiedono se faccia ancora parte della nostra galassia. La cosastrana dei buchi è che, finché non ci entri, non puoi sapere con certezzadove portino.

Da ragazzino ho letto molto sui viaggi stellari. La maggior parte della

gente non ci credeva, ma gli altri citavano sempre Alfa Centauri come ilprimo sistema che sarebbe stato esplorato e colonizzato, perché è il più vi-cino e cose di questo genere. È buffo quanto si ingannavano. Al contrario,le nostre colonie orbitano attorno a soli che noi non possiamo neanche ve-dere. E non penso che andremo mai su Alfa Centauri...

Per un motivo o per l'altro non ho mai pensato alle colonie in relazione ame. Nemmeno adesso. La Terra è stata il teatro del mio fallimento, dovràassistere al mio successo: le colonie sarebbero solo un'altra scappatoia.

Come Cerbero?

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26 giugno - Una nave oggi. Quella dell'altra volta, quindi, non era l'ulti-ma. E questa, chissà?

29 giugno - Perché un uomo si offre volontario per un lavoro del gene-re? Perché finisce su un anello d'argento, sei milioni di chilometri oltrePlutone, per sorvegliare un buco nello spazio? Perché butta via quattro an-ni della sua vita da solo nell'oscurità?

Perché?I primi giorni me lo domandavo. Allora non sapevo che cosa rispondere,

adesso forse sì. A quei tempi rimpiangevo amaramente l'impulso che miaveva portato qui. Ora penso di averlo capito.

E non fu un vero e proprio impulso: scappai su Cerbero, scappai per

sfuggire alla solitudine.Non ha senso?Invece sì. Conosco bene la solitudine: è stato il tema centrale della mia

vita. Sono sempre stato solo, da quando riesco a ricordare.Ma esistono due tipi di solitudine.La maggior parte della gente non si accorge della differenza, io sì. Li ho

sperimentati entrambi.Si parla e si scrive della solitudine degli uomini che fanno funzionare le

navi stellari, i fari dello spazio eccetera. Ed è vero.A volte, qui, su Cerbero, penso di essere l'unico uomo in tutto l'universo.

La Terra era solo un sogno dovuto alla febbre, le persone che ricordo solocreature della mia fantasia.

A volte ho così tanta voglia di qualcuno con cui parlare che urlo, e co-mincio a battere i pugni contro le pareti. A volte la noia si impadronisce dime e mi fa quasi impazzire.

Ma ci sono anche altre volte, per esempio quando arrivano le navi stella-

ri, quando esco per fare delle riparazioni, o semplicemente siedo sulla pol-trona di comando, immaginando me stesso nell'oscurità a guardare le stel-le.

Solo? Sì, ma di una solitudine magnifica, assoluta e tragica, che si puòodiare con veemenza, eppure amare così tanto da desiderarne ancora.

E poi c'è la solitudine del secondo tipo.Per provarla non c'è bisogno dell'anello stellare Cerbero, la puoi speri-

mentare in qualunque luogo sulla Terra. Lo so per esperienza. La trovavo

ovunque andassi, qualsiasi cosa facessi.È la solitudine delle persone chiuse in se stesse, di chi ha detto così tante

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volte la cosa sbagliata che non ha più il coraggio di parlare.La solitudine dovuta non alla distanza ma alla paura.Quella delle persone che siedono sole nelle camere ammobiliate delle

grandi città, perché non sanno dove altro andare e non hanno nessuno concui parlare. La solitudine dei ragazzi che vanno al bar per incontrare qual-cuno, solo per scoprire che non sanno come avviare una conversazione, ese anche lo sapessero non troverebbero il coraggio.

Non c'è alcuna grandezza in questo tipo di solitudine, nessuno scopo,nessuna poesia. È una solitudine senza senso, triste, squallida, patetica, chesa di autocommiserazione.

Oh, sì, a volte è doloroso essere soli in mezzo alle stelle.Ma è più doloroso ancora sentirsi soli a una festa, molto di più.

30 giugno - Leggendo le pagine di ieri. Alla faccia dell'autocommisera-zione...

1° luglio - Leggendo la nota di ieri. La mia maschera irriverente. Dopoquattro anni, me la ritrovo ancora davanti ogni volta che cerco di essereonesto con me stesso. Non va bene. Se voglio che questa volta le cose va-dano diversamente, è necessario che capisca me stesso.

Allora perché devo pensare che mi espongo al ridicolo ammettendo diessere solo e vulnerabile? Perché faccio fatica a confessare che la vita mifaceva paura? Nessuno leggerà mai queste pagine. Sto parlando a me stes-so, di me stesso.

E allora, perché ci sono così tante cose che non riesco a dire?

4 luglio - Oggi nessuna nave stellare. Peccato. Sulla Terra non si sonomai visti fuochi d'artificio che possano competere con i vortici dello spazio

nullo, e avevo voglia di festeggiare l'Indipendenza.Ma perché continuo a seguire il calendario terrestre, quando quassù gli

anni sono secoli e le stagioni una pallida memoria? Luglio è come dicem-bre. Allora, perché?

10 luglio - La scorsa notte ho sognato Karen, e adesso non riesco a to-gliermela dalla testa.

Pensavo di averla sepolta ormai da tempo. Comunque, era solo una fan-

tasia. Oh, le piacevo molto, forse mi amava, ma non più di altri cinque osei ragazzi. Non ero veramente speciale per lei, e non si è mai resa conto di

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quanto lei lo fosse per me.E nemmeno di quanto volessi essere speciale per lei, di quanto avessi bi-

sogno di essere speciale per qualcuno.Così ho scelto lei, ma era tutta una fantasia e, nei momenti di maggiore

lucidità, lo sapevo. Non avevo motivo di sentirmi ferito, non avevo parti-colari rimostranze da muoverle.

Tuttavia, penso di averlo fatto, nei miei sogni a occhi aperti. E soffrivo,ma la colpa era mia, non sua.

Karen non avrebbe mai fatto del male a nessuno volontariamente. Solo,non si è mai resa conto della mia fragilità.

Anche quassù, i primi anni, ho continuato a sognarla. Sognavo che ave-va cambiato idea, che mi stava aspettando eccetera.

Ma questo era più che altro l'appagamento di un desiderio. Era primache scendessi a patti con me stesso quassù. Adesso so che lei non mi aspet-ta. Non ha bisogno di me ora, né l'aveva in passato. Per lei ero solo un a-mico.

Perciò non mi piace tanto sognarla. Non va bene. Comunque sia, quandotornerò non devo andare a farle visita. Devo ricominciare tutto da zero.Devo cercare una persona che abbia bisogno di me, e non la troverò se ri-percorro i vecchi sentieri.

18 luglio - È passato un mese da quando il mio sostituto ha lasciato laTerra. La Caronte dovrebbe ormai essere nella cintura. Ancora due mesi.

23 luglio - Incubi. Che Dio mi aiuti.Ho sognato di nuovo la Terra, e Karen. Non riesco a smettere, ogni notte

la stessa storia.Mi sembra così strano chiamare Karen un incubo, finora lei è sempre

stata un sogno, un bel sogno, con i suoi lunghi e morbidi capelli, la sua ri-sata e il suo strano modo di sorridere. Ma quei sogni erano sempre l'appa-gamento di un desiderio. In quei sogni Karen aveva bisogno di me, mi vo-leva e mi amava.

Gli incubi contengono una parte di verità. Sono tutti uguali, la ripetizio-ne dell'ultima notte che Karen e io abbiamo trascorso insieme.

Era stata una bella serata, per i miei standard di allora. Avevamo man-giato in uno dei miei ristoranti preferiti, poi eravamo andati a vedere uno

spettacolo. Si era parlato bene, di tante cose. Avevamo anche riso insieme.Solo più tardi, tornati a casa sua, ero ricaduto nel mio solito modo di fa-

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re. Mentre cercavo di spiegarle quello che lei significava per me, ricordoquanto mi sentivo stupido e goffo, come stentavo a esprimermi, impappi-nandomi nelle parole. Così molte cose erano uscite malamente.

Ricordo il modo in cui poi mi guardava, come aveva cercato di disillu-dermi, con gentilezza. Lei era sempre gentile. E io la guardavo negli occhie ascoltavo la sua voce, ma non ci avevo trovato amore o bisogno. Solo...solo pietà, credo.

Pietà per un idiota che non si sa esprimere, che si è lasciato passare la vi-ta davanti, senza toccarla. Non perché non volesse, ma perché aveva paurae non sapeva come fare. Lei aveva incontrato quell'idiota e a modo suo loamava (amava tutti). Aveva cercato di aiutarlo, di infondergli un po' dellafiducia, del coraggio e della grinta con cui lei affrontava la vita. E in parte

c'era riuscita; ma non era bastato. Quell'idiota amava fantasticare sul gior-no in cui non sarebbe più stato solo, e quando Karen aveva cercato di aiu-tarlo, aveva pensato che fosse la concretizzazione delle sue fantasie. O cosìsi era illuso. L'idiota aveva sempre sospettato la verità, certo, ma mentiva ase stesso.

E quando era arrivato il giorno in cui non poteva più continuare a menti-re, era ancora abbastanza vulnerabile da restare ferito. Non era il tipo le cuiferite cicatrizzano facilmente, e non aveva abbastanza coraggio per ritenta-

re con qualcun altro. Così era scappato.Spero che gli incubi smettano, non li reggo più, una notte dopo l'altra.

Non riesco a liberarmi di quell'ora a casa di Karen.Ho trascorso quattro anni quassù, mi sono osservato intensamente. Ho

cambiato quello che non mi piaceva o, almeno, ci ho provato. Ho cercatodi curare quella cicatrice, di acquisire la sicurezza che mi occorre per af-frontare gli altri "no" che mi verranno detti prima di trovare un "sì". Maormai mi conosco maledettamente bene e so che è solo un successo parzia-

le. Ci saranno sempre cose che mi feriranno, che non riuscirò ad affrontarecome vorrei.

Per esempio, il ricordo dell'ultima ora con Karen. Dio, spero che gli in-cubi finiscano.

26 luglio - Ancora incubi. Per favore, Karen, ti amavo; lasciami solo, tiprego.

29 luglio - Ieri è passata una nave stellare, se Dio vuole. Ne avevo pro-prio bisogno. Mi ha aiutato a distogliere la mente dalla Terra, da Karen, e

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la notte scorsa non ho avuto incubi, per la prima volta in una settimana. Hoinvece sognato il vortice dello spazio nullo, la tempesta silenziosa.

1° agosto - Gli incubi sono tornati. Questa volta non si tratta di Karen.Altre vecchie memorie, meno significative, ma comunque dolorose. Tuttele sciocchezze che ho detto, le ragazze che non ho mai conosciuto, le coseche non ho fatto.

Male, molto male. Devo continuare a ricordare che non sono più così.C'è un nuovo io, che ho costruito quassù, sei milioni di chilometri oltrePlutone, fatto di acciaio, stelle e spazio nullo, forte, sicuro di sé e fiducio-so; e che non teme la vita.

Mi sono lasciato il passato alle spalle. Però mi fa ancora soffrire.

2 agosto - Una nave. Gli incubi continuano, maledizione!

3 agosto - Niente incubi, la notte scorsa. È la seconda volta che dormobene dopo avere aperto il buco per una nave stellare durante il giorno.(Giorno? Notte? Qui non ha senso, ma scrivo ancora come se lo avesse.Quattro anni non hanno intaccato la Terra dentro di me.) Forse il vortice fascappare Karen, ma io prima non l'ho mai voluta allontanare. Tra l'altro,

non dovrei avere bisogno di aiuti esterni.

13 agosto - Qualche notte fa è passata un'altra nave. Niente incubi lanotte successiva. Lo schema si ripete!

Sto lottando con i ricordi. Penso ad altre cose della Terra. I momenti fe-lici. Ce ne sono stati tanti, e ce ne saranno ancora quando tornerò, comin-cio a esserne convinto. Questi incubi sono stupidi, non permetterò loro dicontinuare. C'erano tante altre cose che mi legavano a Karen, e che mi pia-

cerebbe ricordare. Come mai non ci riesco?

18 agosto - La Caronte è a circa un mese di distanza. Mi chiedo chi saràil mio sostituto. Che cosa lo avrà spinto a venire qui?

I sogni della Terra continuano. No, volevo dire il sogno di Karen. Ades-so ho perfino paura a scrivere il suo nome?

20 agosto - Oggi una nave. Quando è passata, sono rimasto a guardare le

stelle. Per ore, a quanto pare, ma al momento non sembrava così a lungo.Quassù è bellissimo. Da solo, certo, ma che solitudine! Solo nell'univer-

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so, con le stelle sparse ai tuoi piedi e sopra la testa.Ognuna di loro è un sole, eppure continuano a sembrarmi fredde. Mi ca-

pita di tremare, sperduto in questa immensità, chiedendomi come sia arri-vata qui e che senso abbia.

Spero che il mio sostituto, chiunque egli sia, saprà apprezzare tutto que-sto come merita. Tante persone non ci riescono, o non vogliono; uominiche camminando la notte non alzano mai la testa per guardare il cielo. Spe-ro che chi mi darà il cambio non sia così.

24 agosto - Quando tornerò sulla Terra, andrò a far visita a Karen. Devo.Come posso fingere che le cose questa volta saranno diverse se non riesconemmeno a trovare questo coraggio? E le cose saranno diverse, quindi de-

vo per forza affrontare Karen, e dimostrare che sono davvero cambiato.

25 agosto - L'assurdità di ieri. Come potrei affrontare Karen? Che cosale direi? Ricomincerei soltanto a illudermi, per poi rimanere scottato dinuovo. No, non devo rivedere Karen. Diavolo, non riesco neanche a sop-portare i sogni.

30 agosto - Di recente sono sceso spesso nella sala di controllo e sono

uscito regolarmente. Niente navi stellari, ma trovo che andare là fuori af-fievolisce i ricordi della Terra. Sono sempre più consapevole che Cerberomi mancherà. Tra un anno sarò sulla Terra, la notte alzerò gli occhi al cieloe ricorderò come l'anello brillava argenteo al chiarore delle stelle. So chesarà così.

E il vortice. Ricorderò il vortice, come i colori giravano rapidamente e simescolavano, ogni volta in modo diverso.

Peccato che non sia mai stato un patito di ologrammi. Sulla Terra avrei

potuto fare una fortuna con gli olo del vortice quando si forma. Il ballettodel vuoto. Mi sorprende che nessuno ci abbia mai pensato.

Forse lo suggerirò al mio sostituto. Qualcosa per passare il tempo, se siappassiona. Spero di sì. La Terra sarebbe arricchita, se qualcuno ritornassecon una registrazione.

Lo farei io stesso, ma l'attrezzatura non è adatta e non ho il tempo permodificarla.

4 settembre - La settimana scorsa sono uscito ogni giorno. Niente incubi:solo sogni delle tenebre striate dai colori dello spazio nullo.

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9 settembre - Continuo a uscire e mi godo ogni particolare. Ben prestotutto questo per me non esisterà più, per sempre. Sento di dover approfitta-re di ogni momento: devo memorizzare come sono le cose qui su Cerbero,così potrò conservarne in me il timore, la meraviglia e la bellezza quandotornerò sulla Terra.

10 settembre - Da tempo non passano più navi. Basta? Non ne vedròpiù?

12 settembre - Nessuna nave, ma sono uscito, ho azionato i motori e hofatto rombare il vortice.

Perché devo sempre scrivere che il vortice urla o ruggisce? Il suono nel-lo spazio non esiste. Non sento nulla, però vedo il vortice. E vi assicuroche ruggisce.

I suoni del silenzio, non però come intendono i poeti.

13 settembre - Oggi ho osservato di nuovo il vortice, anche se non c'era-no navi.

Non lo avevo mai fatto prima, e ora è già la seconda volta. È vietato. I

costi dell'energia sono enormi, e Cerbero vive di energia. Allora, perché?È come se non volessi lasciare il vortice, invece devo, e presto.

14 settembre - Stupido, idiota, deficiente. Che cosa ho fatto? La Caronte

è a meno di una settimana da qui, e io me ne sono rimasto a guardare lestelle, come se le vedessi per la prima volta. Non ho neanche cominciato afare i bagagli, devo ancora sistemare i documenti per il mio sostituto emettere in ordine la stazione.

Che idiota! Perché perdo tempo a scrivere su questo stupido diario?

15 settembre - I bagagli sono quasi pronti. Curiosamente, ho anche ri-trovato alcune cose che i primi anni avevo cercato di nascondere. Per e-sempio, il romanzo; lo avevo scritto i primi sei mesi e pensavo fosse bel-lissimo. Potevo a stento aspettare di tornare sulla Terra, venderlo e diven-tare famoso. Ah, sì, un anno dopo l'ho letto: faceva schifo.

Ho trovato anche una foto di Karen.

16 settembre - Oggi ho portato una bottiglia di whisky e un bicchiere giù

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nella sala di controllo, li ho appoggiati sulla console e mi sono messo lecinture. Ho brindato all'oscurità, alle stelle e al vortice. Mi mancheranno.

17 settembre - Un giorno, secondo i miei calcoli. Un giorno, e poi saròin viaggio verso casa, verso un nuovo inizio e una vita nuova. Se avrò ilcoraggio di viverla.

18 settembre - Quasi mezzanotte. Nessun segno della Caronte. Che cosasarà successo?

Forse niente. Questi calendari non sono mai precisi, a volte sballano an-che di una settimana. Allora, perché mi preoccupo? Accidenti, anch'ioquando sono arrivato qui ero in ritardo. Chissà che cosa avrà pensato il po-

veretto che venivo a sostituire.

20 settembre - La Caronte non è arrivata neanche ieri. Dopo essermistancato di aspettare, ho preso la bottiglia di whisky e sono tornato nellasala di controllo. E sono uscito, a fare un altro brindisi alle stelle e al vorti-ce. Ho azionato il vortice, l'ho fatto balenare e ho brindato alla sua salute.

A forza di brindisi, ho finito la bottiglia, e con i postumi penso che nonriuscirò mai più a ritornare sulla Terra.

È stata una sciocchezza. Gli uomini a bordo della Caronte magari hannovisto i colori del vortice. Se mi fanno rapporto, mi verrà dedotta una picco-la fortuna dal mucchio di quattrini che mi aspetta sulla Terra.

21 settembre - Dove diavolo si è cacciata la Caronte? Le è successoqualcosa? Arriverà?

22 settembre - Sono uscito di nuovo.

Dio, che meraviglia, che solitudine, che vastità. Ossessionante, ecco laparola che cercavo. La bellezza là fuori è ossessionante. A volte penso diessere pazzo a voler tornare. Lasciare tutto questo per una pizza, una sco-pata e una parola gentile.

No, che cosa cavolo sto scrivendo? Certo che torno. Io ho bisogno dellaTerra, mi manca la Terra, desidero la Terra. E questa volta sarà diverso.

Troverò un'altra Karen, e non sprecherò l'occasione.

23 settembre - Sto male. Dio, sto proprio male. Le cose che ho pensato...Credevo di essere cambiato, ma adesso non ne sono più tanto sicuro. Mi

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trovo a riflettere che magari potrei restare, firmare per rinviare la partenza.No, non voglio. Però penso che ho ancora paura della vita, della Terra, ditutto.

Forza, Caronte! Sbrigati, prima che io cambi idea.

24 settembre - Karen o il vortice? La Terra o l'eternità? Accidenti, comefanno a venirmi in mente queste cose?

Karen! La Terra! Devo avere coraggio, devo rischiare di soffrire, devosperimentare la vita.

Non sono un sasso, nemmeno un'isola, o una stella.

25 settembre - Nessuna traccia della Caronte. Un'intera settimana di ri-

tardo. Può succedere, non tanto spesso, però. Presto arriverà, ne sono sicu-ro.

30 settembre - Niente. Ogni giorno guardo, e aspetto. Ascolto i mieiscanner ed esco a vedere, cammino su e giù, da una parte all'altra dell'anel-lo. Ma niente. Non c'è mai stato un ritardo del genere. Che cosa c'è che nonva?

3 ottobre - Oggi una nave. Non è la Caronte. All'inizio, quando gli scan-ner l'hanno captata, pensavo fosse lei. Ho urlato così forte da svegliare ilvortice, ma poi ho guardato e ho provato un tuffo al cuore. Era troppogrande, e arrivava dritta, senza rallentare.

Sono uscito e l'ho fatta passare. E poi sono rimasto fuori un bel po'.

4 ottobre - Voglio tornare a casa. Dov'è la Caronte? Non capisco, noncapisco proprio.

Non possono lasciarmi quassù, è impossibile e non succederà.

5 ottobre - Oggi una nave, un'altra nave stellare. Un tempo le aspettavo,adesso le odio, perché non sono la Caronte. Comunque l'ho fatta passare.

7 ottobre - Ho disfatto i bagagli. È stupido che io viva con le cose nellavaligia quando non so se la Caronte arriverà, o quando.

Però la cerco ancora, aspetto; so che verrà. Ha solo fatto una sosta, ma-

gari per un'emergenza nella cintura. Ci possono essere tante spiegazioni.Nel frattempo traffico in giro per l'anello. Non ho ancora finito di siste-

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marlo per il mio sostituto. Ero troppo impegnato a guardare le stelle per fa-re quello che avrei dovuto.

8 ottobre (circa) - Buio e disperazione.So perché la Caronte non è arrivata. Non doveva arrivare. Il calendario è

saltato. Siamo a gennaio, non a ottobre. E ho vissuto per mesi nell'errore:ho perfino festeggiato il 4 luglio il giorno sbagliato.

Me ne sono accorto ieri, mentre stavo facendo dei lavori di manutenzio-ne all'anello. Volevo che tutto fosse a posto per il mio sostituto.

Solo che non ci sarà alcun sostituto.La Caronte è arrivata tre mesi fa e io... l'ho distrutta.Era orribile, disgustosa e io ero nauseato, fuori di me. Un attimo dopo,

ho capito quello che avevo fatto. Oddio, ho urlato per ore.Poi ho risistemato il calendario a parete, e ho dimenticato, forse delibe-

ratamente, forse perché non potevo sopportare di ricordare. Non lo so, sosolo che ho dimenticato.

Adesso invece ricordo tutto.Gli scanner mi avevano avvertito dell'avvicinamento della Caronte. Io

ero fuori ad aspettare. Stavo cercando di fare una scorta di stelle e oscuritàche mi bastasse per sempre.

Da quella oscurità è emersa la Caronte. Pareva così lenta, rispetto allenavi stellari, e piccola. Trasportava il mio salvatore, il mio sostituto, masembrava fragile, brutta e scialba. Squallida. Mi ricordava la Terra.

Si avvicinava per agganciarsi, calare sull'anello dall'alto, cercando i por-telli nella sezione abitabile di Cerbero. Molto lentamente. L'ho vista avan-zare. D'un tratto mi sono chiesto che cosa avrei detto all'equipaggio e almio sostituto, mi sono domandato che cosa avrebbero pensato di me: hosentito uno spasmo nelle budella.

E a un certo punto non ce l'ho più fatta, avevo paura di loro, li odiavo.Allora ho azionato il vortice.Una luce rossa e tremula che si diramava in lingue gialle, crescendo ra-

pidamente, lanciando lampi verdazzurri. Uno di loro è passato vicino allaCaronte, e la nave ha avuto un sussulto.

Adesso mi dico che non mi rendevo conto di quello che stavo facendo.Invece sapevo che la Caronte era disarmata e non poteva reggere al vorticedi energia. Lo sapevo.

La Caronte era così lenta, il vortice così veloce. Di lì a due secondi ilturbine lambiva la nave, di lì a tre l'aveva divorata.

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Era scomparsa così in fretta. Non so se la nave si sia liquefatta, disinte-grata o sbriciolata, so solo che non può essere sopravvissuta. Però non c'èsangue sul mio anello stellare. I rottami sono finiti da qualche parte al di làdello spazio nullo, se ne sono rimasti.

L'anello e l'oscurità avevano lo stesso aspetto di sempre.Questo mi ha permesso di dimenticare facilmente, e io avevo una gran

voglia di dimenticare.E adesso? Che cosa faccio? Sulla Terra se ne accorgeranno? Arriverà

mai un sostituto? Voglio andare a casa.Karen, io...

18 giugno - Oggi il mio sostituto è partito dalla Terra.

Almeno penso. Non so come, il calendario a parete si era rotto, quindinon sono sicuro della data. Ma l'ho risistemato.

Comunque, non può essere rimasto spento per più di un paio d'ore, al-trimenti me ne sarei accorto. Quindi il mio sostituto deve essere in viaggio.Certo, ci metterà almeno tre mesi.

Ma sta arrivando.

"The Secon Kind of Loneliness" copyright © 1972 by the Conde Nast

Publications, Inc. Copyright renewed © 2001 by George R.R. Martin.From "Analog", December 1972.

AL MATTINO CALA LA NEBBIA

Era presto per la colazione, il primo giorno dopo l'atterraggio, ma quan-do arrivai Sanders era già uscito sulla terrazza dove si mangiava. Era dasolo, in piedi accanto al parapetto, e fissava le montagne e la nebbia. Mi

avvicinai e, giunto alle sue spalle, sussurrai un "buongiorno". Non si preseil disturbo di rispondermi. «È splendido, no?» disse senza voltarsi.

Lo era davvero.La nebbia turbinava a pochi metri dal bordo della terrazza e onde spet-

trali si frangevano contro le mura di pietra del castello di Sanders. Un den-so lenzuolo bianco si estendeva da un estremo orizzonte all'altro, ricopren-do ogni cosa. Potevamo vedere la cima del Fantasma Rosso, lontana a set-tentrione, una punta dentellata di rocce scarlatte che si stagliava nel cielo.

Ma era tutto. Le altre montagne erano ancora immerse nella densa foschia.Noi, invece, ne eravamo al di sopra. Sanders aveva costruito il suo al-

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bergo sulla vetta più alta della catena. Era come se galleggiassimo in soli-tudine fra i turbini di un oceano candido: un castello volante su un mare dinuvole.

Castle Cloud, il "castello delle nuvole", l'aveva battezzato Sanders e nonera difficile capire perché.

«È sempre così?» gli chiesi, dopo avere ammirato il panorama per qual-che minuto.

«Ogni volta che cala la nebbia» rispose, voltandosi verso di me con unsorriso triste. Era un uomo corpulento, con un viso rubizzo e gioviale, nonadatto ai sorrisi tristi.

Fece un cenno verso oriente, dove il sole del pianeta Wraithworld chespuntava dalla nebbia offriva uno spettacolo cremisi e arancione contro il

cielo albeggiante.«Quando il sole sorge» spiegò «ricaccia la nebbia in fondo alle vallate,

la costringe a cedere le montagne che aveva occupato durante la notte. Lacaligine scende, e a una a una rispuntano le alture. A mezzogiorno sonotutte visibili per molti chilometri. Non esiste niente del genere sulla Terrané da nessun'altra parte.»

Sorrise di nuovo e mi fece accomodare a uno dei tavoli della terrazza.«Poi, al tramonto, succede il contrario. Stasera dovrà venire ad ammirare

la nebbia che si alza.»Si mise a sedere e un lucente cameriere robot arrivò a servirci ondeg-

giando, perché i dispositivi nelle sedie avevano segnalato la nostra presen-za.

Sanders non gli badò. «È una guerra, sa? La guerra perenne tra il sole ela nebbia. Ed è la nebbia che ha la meglio. Sono sue le valli e le pianure,suoi i litorali. Il sole ha soltanto poche vette, ed esclusivamente di giorno.»

Si rivolse al cameriere robot e ordinò il caffè per noi due, in attesa che

arrivassero gli altri. Sarebbe stato un caffè vero, ovviamente: Sanders nonsopportava intrugli istantanei e alimenti sintetici sul suo pianeta.

«Le piace proprio questo posto» gli dissi mentre aspettavamo il caffè.Sorrise. «Perché non dovrebbe? Il castello offre di tutto. Buon cibo, di-

vertimenti, giochi d'azzardo e ogni comodità che avrei a casa, e in più c'èquesto pianeta. Ho il meglio di un mondo e dell'altro, non le pare?»

«Suppongo di sì. Ma la maggior parte della gente non la pensa come lei.Nessuno viene su Wraithworld per la roulette o per la cucina locale.»

Sanders annuì. «Però abbiamo dei cacciatori. Escono a catturare gattidelle rocce e diavoli della pianura. E tra pochissimo arriveranno altri turisti

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ad ammirare i ruderi.»«Sarà» commentai «ma sono eccezioni, non la regola. La maggior parte

dei suoi ospiti è qui per un'altra ragione.»«Certo, gli spettri.» Annuì con una smorfia.«Gli spettri» ripetei io. «Ci sono tante bellezze da vedere, qui, si può an-

dare a caccia e a pesca, fare dell'alpinismo, ma non è questo che attira i tu-risti: vengono per gli spettri.»

Arrivò il caffè: due belle tazze fumanti e una caraffa di latte denso. Ilcaffè era caldo e forte, e anche molto buono. Dopo settimane di sbobbasintetica sull'astronave, mi sembrava di rinascere.

Sanders sorseggiò con cura il suo caffè, studiandomi da sopra l'orlo dellatazza. Poi la posò con aria pensosa. «E anche lei è venuto per gli spettri.»

Alzai le spalle. «Certo. Ai miei lettori non interessa il panorama, perspettacolare che sia. Dubowski e i suoi uomini sono qui per scovare glispettri e io per scrivere della loro ricerca.»

Sanders stava per replicare, ma gliene mancò il tempo. S'intromise unavoce netta e tagliente: «Sempre che ci siano spettri da scovare».

Ci voltammo verso la porta della terrazza. Il dottor Charles Dubowski,capo dell'équipe di ricerca del pianeta Wraithworld, era in piedi sulla so-glia, strizzando gli occhi per la luce dell'alba. Era riuscito a scrollarsi di

dosso il branco di assistenti che di solito lo seguiva dappertutto.Dopo un attimo di pausa, Dubowski raggiunse il nostro tavolo, prese una

sedia e si accomodò. Ricomparve il cameriere robot.Sanders squadrò lo scienziato con malcelata antipatia e gli chiese: «Che

cosa le fa pensare che gli spettri non esistano?».Dubowski scosse le spalle e sorrise. «Non mi pare che ci siano molte

prove, ma non si preoccupi: non lascio mai che le mie sensazioni interferi-scano con il lavoro. Voglio arrivare alla verità, come chiunque. La spedi-

zione sarà condotta in modo imparziale. Se i suoi spettri sono da qualcheparte là fuori, io li troverò.»

«O loro troveranno lei» ribatté Sanders in tono serio. «E potrebbe nonessere divertente.»

Dubowski scoppiò a ridere. «Oh, andiamo, Sanders. Solo perché lei vivein un castello, non mi pare il caso che faccia tanto il melodrammatico.»

«C'è poco da ridere, dottor Dubowski. Gli spettri hanno già ucciso qual-cuno, sa?»

«Non c'è niente che lo dimostri» ribatté lo scienziato. «Proprio niente.Come non ci sono prove della loro esistenza. E neppure prove che la ne-

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ghino. Ma lasciamo perdere, ho fame.» Si rivolse al cameriere robot chegli stava accanto e ronzava con impazienza.

Dubowski e io ordinammo bistecche di gatto delle rocce e biscotti appe-na sfornati. La carne di gatto delle rocce ha un gusto che quella degli ani-mali terrestri ha perso da secoli. Sanders invece approfittò delle vettovagliearrivate con la nostra astronave la notte precedente e prese una grossa fettadi prosciutto con mezza dozzina di uova.

«Non dovrebbe liquidare la storia degli spettri con tanta leggerezza» dis-se Sanders dopo che il cameriere robot si fu allontanato con le nostre ordi-nazioni. «Le prove ci sono, e in abbondanza. Ventidue morti da quando èstato scoperto il pianeta e decine di racconti di persone che hanno visto glispettri con i propri occhi.»

«È vero» assentì Dubowski «ma non le definirei prove autentiche. Mor-ti? Sì, ma per lo più si tratta di gente scomparsa, probabilmente caduta inun crepaccio o divorata da un gatto delle rocce o chissà che. È impossibileritrovare i corpi nella nebbia. Tanta gente scompare tutti i giorni anche sul-la Terra e nessuno pensa ai fantasmi. Invece qui, ogni volta che spariscequalcuno, dicono subito che se lo sono preso gli spettri. No, mi dispiace,come prova non è sufficiente.»

«Qualche corpo è stato ritrovato, dottore» ribatté con calma Sanders.

«Orribilmente dilaniato, e non da un gatto o da una caduta sulle rocce.»Mi intromisi a mia volta. «Sono stati ritrovati solo quattro corpi, per

quanto ne so. Ho studiato con cura tutte le notizie sugli spettri.»Sanders aggrottò la fronte. «Va bene, ma come si spiegano? Sono già

prove piuttosto convincenti, date retta a me.»A quel punto fu servita la colazione, e Sanders andò avanti a parlare

mentre mangiavamo.«Il primo avvistamento, per esempio. Non c'è mai stata una spiegazione

convincente. La spedizione Gregor...»Annuii. David Gregor era il comandante dell'astronave che aveva sco-

perto il pianeta, circa settantacinque anni prima. Aveva sondato la nebbiacon i sensori e aveva fatto scendere la nave sulla pianura lungo il litorale.Poi aveva fatto uscire alcune squadre in esplorazione.

Ogni squadra era formata da due uomini bene armati. In un caso, però,uno solo era rientrato, in preda a una crisi isterica. In mezzo alla nebbia siera trovato lontano dal compagno e improvvisamente aveva sentito un urlo

raccapricciante. Quando lo aveva ritrovato, questi era ormai morto e luiaveva scorto qualcosa che stava dritto sopra il cadavere.

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Il sopravvissuto aveva raccontato che l'assassino assomigliava a un esse-re umano, alto quasi due metri e mezzo e con un che di evanescente.Quando aveva fatto fuoco su di lui, il raggio blaster gli era passato attra-verso. Un leggero ondeggiamento e la creatura era svanita nella nebbia.

Gregor aveva mandato altre squadre alla ricerca di quell'essere. Gli uo-mini avevano recuperato il cadavere dello sventurato, ma nient'altro. Senzastrumenti speciali, in mezzo alla nebbia era già difficile riuscire a ritrovareil posto, figurarsi una creatura come quella descritta.

La storia non era mai stata confermata. Ciò nondimeno, aveva provocatouna certa sensazione al ritorno di Gregor sulla Terra. Era stata inviataun'altra astronave per condurre un'indagine più approfondita. Non era statotrovato niente, ma una delle squadre di ricerca era scomparsa senza lascia-

re traccia.Ormai la leggenda degli spettri era nata e aveva continuato a crescere.

Altre astronavi erano arrivate sul pianeta, un modesto flusso di coloni an-dava e veniva, finché un giorno era giunto Paul Sanders e aveva costruitoCastle Cloud, così i turisti potevano visitare comodamente il misteriosopianeta degli spettri.

C'erano stati altri morti e altre sparizioni, molti avevano detto di avereintravisto per qualche istante gli spettri che si aggiravano nella nebbia. Poi

qualcuno aveva scoperto le rovine: semplici massi di pietra crollati, untempo appartenuti a chissà quali costruzioni. Le case degli spettri, sostene-va la gente.

Prove ce n'erano, pensai. Alcune difficili da negare. Invece Dubowskiscuoteva vigorosamente la testa.

«La vicenda di Gregor non dimostra un bel niente. Lei sa meglio di meche questo pianeta non è mai stato esplorato a fondo. Soprattutto le zone dipianura dov'era atterrata la sua astronave. Probabilmente è stato qualche

animale ad ammazzare quell'uomo. Un animale raro, chissà quale, che vivein quella regione.»

«E la testimonianza del suo compagno?» chiese Sanders.«Pura e semplice isteria.»«E gli altri avvistamenti? Ce n'è stato un numero spaventoso. E i testi-

moni non erano tutti isterici.»«Non dimostrano niente» insistette lo scienziato, sempre scuotendo la

testa. «Sulla Terra c'è tanta gente che sostiene di avere visto i fantasmi o i

dischi volanti. Qui, con questa maledetta nebbia, è normale avere allucina-zioni o prendere una cosa per un'altra.»

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Puntò il coltello con cui stava spalmando il burro verso il suo interlocu-tore. «È questa nebbia che confonde tutto. Se non ci fosse, la favola deglispettri sarebbe già morta da tempo. Finora nessuno disponeva degli stru-menti o dei soldi per fare un'indagine davvero approfondita. Noi però ab-biamo gli uni e gli altri, e indagheremo. La verità sarà stabilita una voltaper tutte.»

Sanders fece una smorfia. «Se lei non finirà ammazzato prima. Forse a-gli spettri non piacerà essere studiati.»

«Proprio non la capisco, Sanders» disse Dubowski. «Se ha tanta pauradegli spettri ed è così convinto che si aggirino laggiù da qualche parte,perché vive qui da tanto tempo?»

«Il castello è stato costruito con tutte le misure di sicurezza. Sono de-

scritte sulla brochure promozionale che inviamo ai potenziali clienti. Nes-suno è in pericolo tra queste mura. Intanto, gli spettri non uscirebbero maidalla nebbia e per gran parte del giorno noi siamo in pieno sole. Giù nellevallate è un'altra storia.»

«È superstizione pura e semplice. Se dovessi avanzare un'ipotesi, direiche questi spettri altro non sono che fantasmi terrestri trasferiti qui. Illu-sioni nate dalla fantasia di qualcuno. Ma io non faccio ipotesi: aspetterò irisultati della ricerca. Poi vedremo. Se esistono, non potranno sfuggirci.»

Sanders si rivolse a me. «E lei? È d'accordo con il dottore?»«Io sono un giornalista» risposi prudentemente. «Sono qui solo per scri-

vere articoli. Gli spettri sono famosi e interessano ai miei lettori. Io non hoopinioni. O, almeno, nessuna opinione che m'importi di comunicare.»

Sanders s'immerse in un silenzio imbronciato e attaccò le sue uova eprosciutto con rinnovato vigore. Dubowski aveva avuto la meglio su di luie spostò la conversazione sui particolari del suo progetto di ricerca. Il restodel pasto trascorse tra discorsi entusiastici su trappole per spettri, piani di

ricerca, sonde robotiche e sensori. Ascoltai con interesse e presi mental-mente nota di ogni cosa per i miei articoli.

Anche Sanders ascoltava attento, ma dalla sua espressione si capiva chenon era affatto contento di quello che sentiva.

Quel giorno non successe molto altro. Dubowski passò il tempo all'a-stroporto, che era stato costruito in un piccolo spiazzo dietro il castello, asovrintendere allo scarico delle sue apparecchiature. Io scrissi un articolo

sui programmi della sua spedizione e lo trasmisi sulla Terra. Sanders si oc-cupò degli altri ospiti, facendo tutto quello che fa normalmente il direttore

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di un albergo, almeno credo.Al tramonto tornai sulla terrazza a osservare la nebbia che si alzava.Era una guerra, proprio come aveva detto Sanders. Quando la nebbia era

calata, avevo visto il sole vittorioso nella prima battaglia giornaliera. Maora lo scontro riprendeva. La nebbia, a mano a mano che scendeva la tem-peratura, cominciava di nuovo a strisciare verso le cime. Sottili viticcibianco sporco risalivano dal fondovalle, cingevano i ripidi pendii con ditaspettrali, che si gonfiavano e s'ispessivano fino a trasformarsi in una densacoltre caliginosa.

A una a una le cime scolpite dal vento finivano inghiottite per un'altranotte. Il Fantasma Rosso, il massiccio gigante a settentrione, fu l'ultimo asvanire, avvolto dall'oceano bianco. Infine la nebbia cominciò a riversarsi

oltre il parapetto della terrazza e tutto intorno al castello.Rientrai. Sanders era fermo in piedi proprio davanti alla portafinestra e

mi osservava.«Aveva ragione» dissi. «È bellissimo.»Annuì. «Sa, credo che Dubowski non si sia ancora preso il disturbo di

dargli un'occhiata.»«Sarà occupatissimo.»Sanders sospirò. «Fin troppo. Venga, le offro da bere.»

Il bar dell'albergo era silenzioso e sobriamente illuminato, con quell'at-mosfera che favorisce le conversazioni e invita a bere. Più conoscevo il ca-stello, più mi piaceva il suo proprietario. I nostri gusti erano in notevolesintonia.

Sedemmo a un tavolino nell'angolo più scuro e appartato, e ordinammoda bere, scegliendo da una lista che comprendeva liquori provenienti dauna decina di pianeti. Poi ci mettemmo a conversare.

«Non mi pare molto contento di avere Dubowski tra gli ospiti» osservai

dopo che ci fu servito da bere. «Ma perché? Con la sua équipe le ha riem-pito l'albergo.»

Sanders sollevò gli occhi dal bicchiere e sorrise. «È vero. Siamo in bassastagione. Ma non mi va quello che ha in mente di fare.»

«Per questo cerca di spaventarlo? Per farlo andare via?»Il sorriso di Sanders svanì. «È così evidente?»Annuii.Sospirò. «Temo che non funzionerà» disse sorseggiando pensosamente

il suo drink. «Ma dovevo comunque provarci.»«Perché?»

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«Perché? Perché finirà per distruggere questo mondo, se glielo permetto.Una volta che lui e i suoi simili l'avranno spuntata, non ci sarà più un mi-stero in tutto l'universo.»

«Cerca soltanto di trovare delle risposte. Esistono gli spettri? Che cosasono quelle rovine? Chi le ha costruite? Non si è mai chiesto queste cose,Sanders?»

Vuotò il bicchiere, si guardò intorno e fece segno al cameriere di portar-gli un altro drink. Niente robot al bar, solo inservienti umani. Sanders eramolto attento all'atmosfera. «Certo» mi rispose quando gli fu servito il se-condo drink. «Sono domande che chiunque si pone. È per questo che lagente viene qui, a Castle Cloud. Tutti quelli che mettono piede su questopianeta hanno la segreta speranza di vivere un'avventura con gli spettri e di

trovare di persona una risposta.«Ma non ci riescono: così impugnano un blaster e girano per qualche

giorno, o qualche settimana, tra la nebbia della foresta, ma non trovanoniente. E allora? Possono tornare un'altra volta e cercare ancora. Il sognoresiste, e con esso sopravvivono lo spirito d'avventura e la fantasia.

«E poi chissà. Può darsi che qualcuno intraveda uno spettro che si aggiranella foschia, o qualcosa che pensa sia uno spettro. Così se ne tornerà a ca-sa felice e contento, perché è entrato anche lui nella leggenda, perché ha

sfiorato un angolo dell'universo il cui mistero, le cui meraviglie non sonoancora stati cancellati da personaggi come Dubowski.»

Ciò detto, tacque e rimase a fissare imbronciato il suo bicchiere.Poi, dopo una lunga pausa, riprese: «Quel Dubowski mi dà proprio sui

nervi. Viene qui a caccia di spettri con la sua nave piena di tirapiedi, mi-lioni di finanziamenti e tutti quei gingilli. Oh, li scoverà di certo, gli spet-tri. È proprio questo che mi spaventa. Dimostrerà che non esistono o li tro-verà, e verrà fuori che si tratta di una specie di umanoidi, o di animali o

chissà che...».Vuotò rabbiosamente il secondo bicchiere.«E sarà la rovina, capisce? Troverà una risposta per tutto, con il suo ar-

mamentario, e non lascerà niente alla curiosità degli altri. Non è giusto.»Io me ne stavo lì seduto a bere tranquillo, senza dire una parola. Sanders

ordinò un terzo bicchiere. Mi venne in mente un pensiero maligno, che allafine espressi ad alta voce. «Se Dubowski trova una risposta a tutto, non cisarà più motivo di venire qui e lei dovrà chiudere. È sicuro che non sia

questo che la spaventa?»Sanders mi fissò e per un attimo temetti che stesse per tirarmi un pugno.

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Ma non lo fece. «Credevo che lei fosse diverso. Ha guardato la nebbia checalava e ha capito. Almeno, mi pareva che avesse capito. Ma forse sba-gliavo.» Volse il capo in direzione dell'uscita. «Se ne vada» m'intimò.

Mi alzai. «Va bene, mi scusi, Sanders. Ma fare domande sgradevoli faparte del mio lavoro.»

Mi ignorò e io mi allontanai. Arrivato alla porta mi voltai indietro.Sanders fissava il suo bicchiere parlando da solo, ad alta voce.

«Risposte» borbottava. Fece un verso osceno. «Risposte, devono averesempre una risposta. Ma le domande sono molto più raffinate. Perché nonlasciano perdere?»

Io lasciai perdere lui, da solo con il suo bicchiere.

Le settimane seguenti furono frenetiche, per la spedizione e per me. Du-bowski aveva fatto le cose per bene, bisognava dargliene atto. Aveva pro-grammato il suo attacco a Wraithworld con pignola meticolosità.

Per prima cosa procedette a una mappatura del territorio. A causa dellanebbia, le carte esistenti del pianeta erano molto approssimative secondo icriteri moderni. Dubowski spedì un'intera flottiglia di sonde robotiche chesfioravano la nebbia per carpirle i segreti grazie ai loro sensori sofisticati.Con i dati che le sonde riversarono al centro fu possibile comporre una

carta geografica dettagliata dell'intero territorio.Fatto questo, Dubowski e i suoi assistenti utilizzarono la mappa per in-

dividuare ogni avvistamento degli spettri segnalato dai tempi della spedi-zione Gregor.

Prima di lasciare la Terra, ovviamente, era stata raccolta e analizzata unanotevole quantità di dati sull'argomento. I vuoti furono colmati ricorrendoai testi della impareggiabile biblioteca di Castle Cloud. Com'era prevedibi-le, gli avvistamenti erano stati più numerosi nelle valli circostanti l'albergo,

unico insediamento umano fisso del pianeta.Completata la mappatura, Dubowski collocò le trappole per spettri, si-

stemandole nelle zone dove c'erano stati più avvistamenti. Ne mise qual-cuna anche in aree remote e distanti, fra cui il litorale dove era atterrata l'a-stronave di Gregor.

Le trappole, ovviamente, non erano vere trappole. Si trattava di tozzi pi-lastri di duralloy, dotati di tutti i dispositivi di rilevazione e di registrazionenoti alla scienza terrestre. Per quei congegni era come se la nebbia non esi-

stesse: se qualche sfortunato spettro si fosse trovato alla loro portata, nonavrebbe potuto evitare di essere individuato.

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Nel frattempo le sonde robotiche erano state rimesse a punto e ripro-grammate, per essere di nuovo inviate in missione. Adesso che esistevanocarte geografiche dettagliate, potevano attraversare le zone nebbiose, per-lustrare il territorio sfiorando il terreno, senza il rischio di andare a sbatterecontro una montagna invisibile.

I sensori di cui erano dotate non erano dello stesso genere di quelli delletrappole. Le sonde avevano una portata più ampia e ogni giorno potevanocoprire una superficie di migliaia di chilometri quadrati.

Infine, una volta sistemate tutte le trappole e con le sonde robotiche co-stantemente in azione, Dubowski e i suoi uomini scesero nella foresta dinebbia. Ognuno aveva uno zaino pieno di sensori e rilevatori. L'equipe diricerca aveva un raggio d'azione più ampio rispetto alle trappole e dispo-

neva di apparecchi più sofisticati delle sonde. Ogni giorno veniva percorsoun itinerario diverso, in modo coscienzioso e accurato.

Io partecipai a qualcuna di queste spedizioni, con lo zaino in spalla. Losforzo mi valse interessanti articoli, anche se non trovammo mai niente.Nel corso della ricerca, però, m'innamorai delle foreste di nebbia.

Sulle guide turistiche sono generalmente definite "le spettrali foreste dinebbia del fantasmatico pianeta chiamato Wraithworld". Invece hanno benpoco di spettrale, anzi, niente. Possiedono una strana bellezza, al loro in-

terno, per chi sa apprezzarla.Gli alberi hanno tronchi sottili e molto alti, con la corteccia bianca e le

foglie di un tenue grigio, ma le foreste sono tutt'altro che prive di colori.C'è una pianta parassita, una specie di muschio, molto diffusa, che pendedai rami formando cascate verde scuro e scarlatto, e ci sono rocce, rampi-canti e cespugli ricoperti di frutti violacei dalla forma strana.

Il sole, ovviamente, non si vede. La nebbia nasconde ogni cosa, mulinel-la, ti scivola addosso mentre cammini, ti accarezza con mani invisibili, si

aggrappa ai tuoi piedi.Ogni tanto si diverte a giocare con te. Per lo più ti trovi a camminare in

una densa caligine e non vedi al di là di qualche metro, con i piedi che af-fondano nel tappeto niveo sotto di te. Certe volte, però, si chiude di colpo enon riesci a vedere più niente. In questi casi, mi è capitato in più occasionidi andare a sbattere contro un albero.

Altre volte, invece, e senza nessuna ragione apparente, la nebbia si ritraee ti lascia lì in piedi, in una bolla limpida dentro una nuvola. Allora riesci a

vedere la foresta in tutta la sua grottesca bellezza. È una visione fugace, diun mondo incredibile, che ti lascia senza fiato. Sono momenti rari che du-

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rano poco, ma ti restano impressi.Restano impressi nella tua memoria.In quelle prime settimane non ebbi molto tempo per andare a spasso nel-

la foresta, se non al seguito dell'equipe dei ricercatori. Per lo più ero occu-pato a scrivere. Feci una serie di servizi sulla storia del pianeta, dando ri-salto ai racconti degli avvistamenti più famosi; abbozzai un ritratto deimembri più pittoreschi della spedizione; stesi un articolo su Sanders, sulledifficoltà che aveva incontrato e superato nella costruzione di CastleCloud; preparai qualche appunto scientifico su quel poco che si sapevadell'ecologia del pianeta; scrissi un pezzo di colore sulle foreste e le mon-tagne. In altri articoli avanzai qualche ipotesi sulle rovine, raccontai dellacaccia ai gatti delle rocce, delle scalate, dei pericolosi varani giganti che

vivevano su qualche isola in mezzo al mare.Ovviamente, scrissi di Dubowski e della sua ricerca, ne riempii intere

filze di carta.A un certo punto, però, la ricerca prese l'andamento di una noiosa routi-

ne e stavo esaurendo gli argomenti offerti dal pianeta. Non fui più cosìproduttivo e mi ritrovai con molto tempo a disposizione.

Fu a quel punto che cominciai davvero ad apprezzare il fascino di quelpianeta. Facevo ogni giorno una passeggiata nella foresta e ogni volta mi

spingevo sempre più lontano. Visitai le rovine e, non accontentandomi de-gli ologrammi, raggiunsi in volo l'altro emisfero per vedere con i miei oc-chi i varani delle paludi. Mi unii a un gruppo di cacciatori di passaggio eriuscii ad abbattere anch'io un gatto delle rocce. Accompagnai altri caccia-tori sulla costa occidentale e per poco non finii tra gli artigli di un diavolodelle pianure.

Avevo anche ricominciato a discorrere con Sanders.Fino allora, il proprietario dell'albergo aveva bellamente ignorato sia me

sia Dubowski, e chiunque fosse in relazione con la ricerca.Ci rivolgeva a fatica la parola o non ci parlava affatto, ci salutava sec-

camente e passava il tempo con gli altri ospiti.In un primo momento, dopo la discussione che avevamo avuto al bar, mi

ero preoccupato di quello che avrebbe potuto fare. Con la fantasia me loimmaginavo mentre ammazzava qualcuno nella nebbia per dare la colpa auno spettro, oppure che sabotava le trappole. Ero comunque certo che a-vrebbe tentato qualcosa per spaventare Dubowski o per danneggiare in

qualche modo la sua spedizione.È quello che succede a stare troppo attaccati all'olovisore, suppongo.

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Sanders non fece niente del genere. Si limitò a tenere il broncio, a lanciarciocchiate astiose quando ci incrociava nei corridoi, a non offrirci mai unasincera collaborazione.

Passato un certo tempo, però, riprese un atteggiamento più cordiale, manon nei confronti di Dubowski e dei suoi uomini: solo con me.

Credo che fosse grazie alle mie passeggiate nella foresta. Dubowski nonsi avventurava nella nebbia se non quando era proprio indispensabile. Ciandava di malavoglia e rientrava il più presto possibile. I suoi uomini se-guivano l'esempio del capo. Solo io facevo eccezione, ma in fondo non fa-cevo parte del gruppo.

Sanders se n'era accorto, ovviamente. Non gli sfuggiva quasi niente diquello che accadeva al castello. Mi rivolse di nuovo la parola. Civilmente.

Poi un giorno mi offrì ancora da bere.La spedizione era lì da due mesi. Si avvicinava l'inverno a Castle Cloud,

e l'aria si faceva fredda e pungente. Dubowski e io eravamo seduti a un ta-volo sulla terrazza, a sorseggiare il caffè dopo un altro splendido pranzo.Sanders stava a un tavolo non lontano e discorreva con alcuni turisti.

Non ricordo di che cosa discutessi con Dubowski. Comunque, lo scien-ziato a un certo punto m'interruppe rabbrividendo. «Fa freddo qua fuori,perché non rientriamo?» Non gli era mai piaciuto pranzare sulla terrazza.

Corrugai la fronte. «Non si sta così male, e poi è quasi il tramonto, unodei momenti più belli della giornata.»

Dubowski rabbrividì ancora e si alzò. «Resti pure comodo. Io preferiscorientrare. Non mi va di prendermi un raffreddore mentre lei ammira perl'ennesima volta la nebbia che cala.»

Si avviò verso la porta, ma non aveva fatto nemmeno tre passi quandoSanders scattò in piedi ululando come un gatto delle rocce ferito.

«La nebbia che cala» strillò. «Che cala!» Dalla sua bocca uscì una lunga

serie di parolacce. Non l'avevo mai visto tanto infuriato, nemmeno quandomi aveva cacciato dal bar la prima sera. Stava lì in piedi, tremante di rab-bia, la faccia paonazza, le grosse mani che continuavano a stringersi a pu-gno e riaprirsi.

Mi alzai di scatto e corsi a mettermi tra di loro. Dubowski si voltò versodi me, sembrava sconcertato e spaventato. Aprì la bocca. «Ma cosa...»

«Vada dentro» lo interruppi. «In camera sua, presto, o nella hall, dovevuole, ma si allontani da qui prima che la uccida.»

«Ma... ma cosa... non capisco... che cosa è successo?»«La nebbia cala al mattino» gli spiegai. «La sera, al tramonto, risale. Ora

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vada.»«Tutto qui? Perché si è tanto...»«Vada via!»Dubowski scosse la testa, come a ribadire che non capiva, ma se ne an-

dò.Mi rivolsi a Sanders. «Su, adesso si calmi.»Smise di tremare, ma dagli occhi gli uscivano ancora lampi d'ira in dire-

zione dello scienziato. «La nebbia che cala» borbottò. «Quel bastardo è quida due mesi e non ha ancora capito quando la nebbia cala e quando risale.»

«Non si è mai preso il disturbo di osservarla» confermai. «Non gli inte-ressa. Comunque non sa che cosa si perde. Ma non c'è motivo che lei si ir-riti a questo modo.»

Mi fissò accigliato, poi annuì. «Già, probabilmente ha ragione» conven-ne sospirando «ma la nebbia che cala, accidenti...!» E dopo un breve silen-zio, aggiunse: «Ho bisogno di bere qualcosa. Viene con me?».

Annuii.Ci accomodammo nello stesso angolo buio della prima sera, a quello che

doveva essere il tavolino preferito di Sanders. Tracannò tre bicchieri primache io avessi finito il primo. Roba forte. A Castle Cloud era tutto forte.

Questa volta non litigammo. Parlammo della nebbia che cala, della fore-

sta, delle rovine, degli spettri e Sanders mi fece un resoconto appassionatodei principali avvistamenti. Tutte storie che già conoscevo, certo, ma noncome le raccontava lui.

A un certo punto mi capitò di dirgli che ero nato a Bradbury, perché imiei genitori erano su Marte per una breve vacanza. Gli occhi di Sanderss'illuminarono e per un'ora circa mi omaggiò con una serie di barzellettesui terrestri. Le conoscevo già tutte, ma cominciavo a sentirmi un po' altic-cio e mi fecero ridere.

Da quella sera passai più tempo con Sanders che con chiunque altrodell'albergo. Pensavo di conoscere abbastanza bene il pianeta, ormai, maera una vacua presunzione e Sanders me lo dimostrò. Mi fece vedere certiangoli nascosti della foresta, che da allora non posso più dimenticare. Miportò nelle paludi sulle isole, dove ci sono alberi di un genere completa-mente diverso, che ondeggiano paurosamente anche in assenza di vento.Raggiungemmo in volo, nel lontano Nord, un'altra catena montuosa concime più alte e ricoperte di ghiaccio, poi a sud una pianura dove la nebbia

si riversa senza sosta, come una spettrale cascata.Io continuavo a scrivere di Dubowski e della sua caccia agli spettri, ma

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non c'erano molte novità sull'argomento, così passavo gran parte del tempoin compagnia di Sanders. Non mi preoccupavo tanto del mio rendimentosul lavoro. Le corrispondenze da Wraithworld avevano riscosso un ottimosuccesso sulla Terra e in gran parte dei mondi colonizzati, per cui credevoche il più fosse fatto.

Ma non era così.Ero sul pianeta da poco più di tre mesi quando ricevetti un messaggio

dalla mia agenzia. In un sistema solare non molto lontano era scoppiatauna guerra civile su un pianeta chiamato New Refuge. Mi volevano là perun servizio. Su Wraithworld, comunque, non c'era niente di nuovo, vistoche la spedizione di Dubowski doveva proseguire ancora per un anno.

Per quanto il pianeta mi piacesse, colsi al volo l'occasione. Quello che

scrivevo cominciava a essere piuttosto scontato, ero a corto di idee, e NewRefuge poteva diventare una faccenda grossa.

Salutai Sanders, Dubowski e Castle Cloud, feci un'ultima passeggiatanella foresta e prenotai un posto sulla prima astronave in partenza.

La guerra civile di New Refuge si rivelò una bolla di sapone. Rimasimeno di un mese sul pianeta e fu di una noia deprimente. Il luogo era statocolonizzato da una setta di fanatici religiosi, poi c'era stato uno scisma e le

due parti si accusavano a vicenda di eresia. Era tutto molto scontato. Per dipiù il fascino del pianeta era pari a quello di una periferia marziana.

Me ne andai appena possibile, saltando da un pianeta all'altro, da unacorrispondenza all'altra. Trascorsi sei mesi, ero finalmente riuscito a torna-re sulla Terra. Si avvicinavano le elezioni e fui preso completamente dalconfronto politico. Per me non andò male: fu una campagna vivace contante storie interessanti da raccontare.

Una volta finita, però, cominciai a interessarmi delle scarse notizie che

arrivavano da Wraithworld. Finalmente, come prevedevo, Dubowski an-nunciò che avrebbe tenuto una conferenza stampa. Riuscii a farmi assegna-re l'incarico dalla mia agenzia e saltai sulla prima astronave in partenza.

Arrivai una settimana in anticipo rispetto alla data fissata per la confe-renza, e non c'erano altri giornalisti in giro. Prima di imbarcarmi avevo in-viato un messaggio a Sanders, che venne a prendermi all'astroporto. Ci ac-comodammo sulla terrazza e ci facemmo servire da bere lì fuori.

«Allora?» gli chiesi, dopo che ci fummo scambiati qualche cordialità.

«Sa che cosa annuncerà Dubowski?»Sanders pareva alquanto depresso. «Posso immaginarlo. Ha raccolto tut-

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te le sue maledette attrezzature un mese fa e ha fatto riscontri incrociati deidati al computer. Dopo che lei se n'è andato, ci sono stati alcuni avvista-menti di spettri. Dubowski si è mosso con ore di ritardo dopo ognuno deicasi, e ha rastrellato a palmo a palmo i luoghi incriminati. Niente. Ecco checosa sta per annunciare, credo: niente.»

Annuii. «È così grave? Anche Gregor non aveva trovato niente.»«Non è la stessa cosa. Gregor non ha agito come Dubowski. La gente gli

crederà.»Non ne ero così sicuro e stavo per dirglielo, quando comparve Dubo-

wski. Qualcuno doveva avergli detto del mio arrivo. Uscì a passi rapidisulla terrazza, sorrise, mi scrutò e venne a sedersi accanto a me.

Sanders gli lanciò un'occhiata in tralice e si mise a studiare il suo bic-

chiere. Dubowski badava solo a me. Sembrava molto compiaciuto di sestesso. Mi chiese come stavo, che cosa avevo fatto dopo che me ne ero an-dato; glielo raccontai e lui si congratulò con me.

Alla fine riuscii a domandargli dell'esito delle sue ricerche. «No com-ment» rispose. «Per questo ho indetto la conferenza stampa.»

«Andiamo» insistetti. «Ho scritto di lei per mesi, quando tutti ignorava-no la sua spedizione. Potrebbe almeno darmi qualche anticipazione peruno scoop. Che cosa ha trovato?»

Esitò, poi disse dubbioso: «Be', d'accordo. Ma non pubblichi niente perora. Potrà trasmettere il suo articolo qualche ora prima della conferenzastampa. Spero le basti».

Glielo promisi. «Allora, che cosa ha scoperto?»«Gli spettri non esistono. Ho prove sufficienti per dimostrarlo senza

ombra di dubbio.» Fece un ampio sorriso.«Solo perché lei non ha trovato niente? Magari la evitavano. Se fossero

esseri senzienti, sarebbero anche abbastanza furbi. Forse i sensori non rie-

scono a rilevarli.»«Su, non può credere una cosa del genere» ribatté lo scienziato. «Le no-

stre trappole disponevano di ogni tipo possibile di sensore. Se gli spettriesistessero, ne avremmo comunque registrato la presenza. Ma non esisto-no. Tre trappole erano sistemate proprio nelle zone dove ci sono stati i co-siddetti avvistamenti decantati da Sanders. Niente. Assolutamente niente.È la prova definitiva che quelle persone hanno avuto delle allucinazioni,erano solo miraggi.»

«E i morti, le sparizioni? Che mi dice della spedizione Gregor e degli al-tri casi di cui si parla?»

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Lo scienziato sorrise ancora di più. «Non posso negare le morti, certo.Le sonde e le ricerche ci hanno fatto ritrovare quattro scheletri.» Sollevòquattro dita per contare. «Due erano morti per una frana e uno aveva segnidi morsi di un gatto delle rocce sulle ossa.»

«E il quarto?»«Assassinato. Il corpo era stato sepolto in una fossa poco profonda, chia-

ramente scavata da mani umane. Poi un'alluvione lo ha riportato alla luce.Era stato registrato fra gli scomparsi. Sono sicuro che, continuando a cer-care, potremmo ritrovare anche gli altri corpi. E scopriremmo che si è trat-tato di normalissimi decessi.»

Sanders sollevò lo sguardo dal bicchiere. Era uno sguardo cattivo. «Gre-gor» disse ostinato. «Gregor e i suoi casi.»

Il sorriso di Dubowski sembrò ancora più divertito. «Ah, sì. Abbiamoispezionato con la massima cura quella zona. La mia teoria era giusta. Ab-biamo scoperto una colonia di primati nei paraggi. Esemplari di grandi di-mensioni. Una specie di babbuini giganti con la pelliccia color biancosporco. Una razza non molto ben riuscita, comunque. Abbiamo individuatosolo un piccolo branco in via di estinzione. In ogni caso, questo spiega ciòche aveva visto l'uomo di Gregor, esagerando tutte le proporzioni.»

Ci fu un momento di silenzio, poi Sanders parlò, con voce stanca. «Solo

una domanda» sussurrò. «Perché?»Lo scienziato s'irrigidì mentre il suo sorriso svaniva. «Non l'ha mai volu-

to capire, vero, Sanders? È stato per amore della verità, per liberare questopianeta dall'ignoranza e dalla superstizione.»

«Liberare il pianeta?» ripeté Sanders. «Era in schiavitù?»«Sì, schiavo di uno stupido mito. E della paura. Adesso sarà libero e a-

perto. Potremo finalmente scoprire la verità su quelle rovine, senza lasciar-ci fuorviare da tenebrose leggende di spettri umanoidi. Il pianeta si aprirà

alla colonizzazione. La gente non avrà più timore di venire qui a vivere e acoltivare la terra. Abbiamo sconfitto la paura.»

«Una colonia? Qui?» Sanders sembrava divertito. «Ha intenzione di in-stallare grossi ventilatori che disperdano la nebbia? Qualche colono era giàsbarcato qui in passato. E se n'è andato. Il terreno non è adatto, con tuttequeste montagne non si può coltivare niente, almeno non su scala indu-striale. Non c'è modo di garantirsi un profitto dall'agricoltura su Wrai-thworld. Per giunta ci sono centinaia di pianeti che si lamentano per la

scarsità di coloni. C'era proprio bisogno di aggiungerne un altro? Wrai-thworld deve proprio diventare un'altra Terra?» Scosse tristemente la testa,

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vuotò il bicchiere e continuò: «È lei che non capisce, dottore. Non se laracconti. Lei non ha liberato il pianeta, lo ha distrutto. Gli ha sottratto glispettri e lo ha lasciato deserto».

Adesso fu Dubowski a scuotere la testa. «Credo che lei sia in errore. Sitroveranno tanti modi utili e vantaggiosi per sfruttare il pianeta. Ma anchese lei avesse ragione, be', non è poi così grave. Per gli esseri umani quelloche conta è la conoscenza. Le persone come lei hanno sempre cercato dibloccare il progresso, ma non ci sono mai riuscite. L'uomo deve conosce-re.»

«Sarà» obiettò Sanders. «Ma è l'unico bisogno che ha? Non lo credo.Penso che abbia bisogno anche di mistero, di poesia, di avventura. Pensoche occorrano domande senza risposta, che facciano riflettere e stupire.»

Dubowski si alzò di scatto e fece una smorfia. «Questa discussione è fu-tile come la sua filosofia, Sanders. Nel mio universo non c'è posto per ledomande senza risposta.»

«Allora vive in un universo molto squallido, caro dottore.»«E lei, Sanders, vive nel fetore della sua ignoranza. Si trovi qualche altra

superstizione, se proprio non ne può fare a meno, ma non cerchi di scari-carmi addosso le sue leggende. Non abbiamo più tempo per gli spettri.»Rivolgendosi a me, aggiunse: «Ci vediamo alla conferenza stampa». Dopo

di che si voltò e lasciò la terrazza.Sanders lo osservò in silenzio, poi si dondolò sulla sedia guardando le

montagne. «La nebbia sta cominciando a salire» disse.

Sanders si sbagliava anche a proposito della colonia. Ne fu fondata una,sebbene non offrisse molto di cui andare fieri. Qualche vigneto, poche fat-torie, alcune migliaia di abitanti, tutti dipendenti di due grosse aziende.

Le attività agricole si dimostrarono ben poco remunerative, con un'unica

eccezione: la produzione di un'uva locale con chicchi grigi grossi come li-moni. Così Wraithworld esporta un unico prodotto, un vino bianco fumo-so, dal gusto amabile e persistente.

Lo chiamano nebbiolo, mi pare ovvio. Con l'andare degli anni ho finitoper apprezzarlo. L'aroma mi ricorda quello della nebbia, in un certo senso,e mi fa fantasticare. Ma più che merito del vino, probabilmente si trattadella mia immaginazione. La maggior parte della gente non ci fa tanto ca-so.

Eppure, sebbene in modo limitato, si tratta di un prodotto redditizio, cosìWraithworld è ancora una tappa regolare sulle rotte spaziali. Almeno per le

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astronavi mercantili.I turisti, invece, sono spariti da tempo. Su questo Sanders aveva ragione.

Si possono gustare bei panorami più vicino a casa, e a prezzi inferiori. E-rano gli spettri ad attirare fin là i turisti.

Anche Sanders se ne è andato da tempo. Era troppo testardo e sprovvistodi senso pratico per investire nel vino quando ne ebbe l'occasione, e se nerestò trincerato dietro gli spalti del suo castello sino alla fine. Non so checosa ne sia stato di lui dopo, quando l'albergo fu costretto a chiudere.

Il castello c'è ancora. L'ho rivisto qualche anno fa, durante una breve so-sta mentre ero in viaggio per un servizio su New Refuge. Però sta già an-dando in rovina. Troppo costoso da mantenere: tra pochi anni non si di-stinguerà più dai ruderi più antichi.

Per il resto, il pianeta non è cambiato granché. La nebbia sale ancora altramonto e cala all'alba. Il Fantasma Rosso è tuttora bello e splendente allaluce dell'alba. Le foreste sono sempre lì e vi si aggirano ancora i gatti dellerocce.

Solo gli spettri non ci sono più.Solo gli spettri.

"With Morning Comes Mistfall" copyright © 1973 by the Conde Nast

Publications, Inc. Copyright renewed © 2002 by George R.R. Martin.From "Analog", May 1973.

CANZONE PER LYA

Le città degli Shkeen sono molto più antiche di quelle degli uomini, e lagrande metropoli rosso ruggine che sorge nella regione delle colline sacreè la più antica di tutte. Non aveva nome, non ne aveva bisogno. Anche se

gli Shkeen hanno costruito migliaia di paesi e città, quella sulla collina nonconosceva rivali: era la più grande come dimensioni e per popolazione, el'unica sulle pendici delle colline sacre. La loro Roma, la Mecca e Gerusa-lemme, in un solo luogo. Era la città per eccellenza, dove tutti gli Shkeenconfluivano gli ultimi giorni prima dell'Unione.

La città era antica prima che Roma cadesse, era grande e prospera quan-do Babilonia era ancora un sogno, ma non portava i segni del passare deltempo. L'occhio umano scorgeva solo chilometri e chilometri di basse cu-

pole di mattoni rossi, piccole dune di fango essiccato che ricoprivano lecolline ondulate come una slavina. All'interno erano buie e quasi senza ae-

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razione; le stanze erano piccole, l'arredo rudimentale.Eppure non era una città lugubre. Ogni giorno venivano occupate le case

su quelle aride colline, sotto un sole cocente che se ne stava in cielo comeun melone di un arancione esausto; ma la città brulicava di vita, odori dicibo, echi di risate e di voci, bambini che correvano, il trambusto degli o-perai sudati che riparavano le cupole, i campanelli dei Congiunti che ri-suonavano per le strade. Gli Shkeen erano persone gioiose ed esuberanti,quasi infantili. Di certo niente in loro faceva supporre un passato illustre oun'antica saggezza. Questa è una razza giovane, suggerivano gli indizi, unacultura ai primordi.

Ma quell'infanzia durava da oltre quattordicimila anni.La vera neonata era la città degli uomini, che aveva meno di dieci anni

terrestri. Era stata edificata sul limitare delle colline, tra la metropoli shke-en e le polverose pianure dove era stato costruito l'astroporto. In terminiumani era una bella città, aperta, ariosa, piena di graziose arcate e fontanescintillanti, con ampi viali alberati. Gli edifici erano di metallo, plastica co-lorata e legno del pianeta, quasi tutti bassi secondo i dettami dell'architettu-ra shkeen. Faceva eccezione la Torre dell'amministrazione, un obelisco dilucente acciaio blu che fendeva un cielo cristallino.

La si vedeva da chilometri di distanza in ogni direzione. Lyanna la notò

prima che atterrassimo, così l'ammirammo dall'alto. I severi grattacieli diVecchia Terra e di Baldur erano più alti, le fantastiche città ragnatela diArachne molto più belle, ma quella torre blu dalla forma slanciata risultavapiuttosto imponente, poiché si ergeva senza rivali nel suo solitario dominiosulle sacre colline.

L'astroporto era all'ombra della Torre, quindi una distanza facilmentepercorribile a piedi, ma ci vennero comunque a prendere. Un'aeromobilerossa scarlatta per brevi tragitti ci aspettava con il motore acceso alla base

della rampa. L'autista era chino sulla cloche. Appoggiato al portello, DinoValcarenghi stava parlando con un assistente.

Valcarenghi era l'amministratore planetario, il mago del settore. Giova-ne, ovviamente, ma questo lo sapevo. Non tanto alto, di bell'aspetto, confitti riccioli neri a conferirgli un fascino scuro e intenso e un sorriso apertoe cordiale.

Ci rivolse il suo bel sorriso mentre scendevamo dalla rampa, e venne astringerci la mano. «Salve!» esordì. «Sono felice di vedervi.» Non aveva

senso fare le presentazioni: lui sapeva chi eravamo noi, noi sapevamo chiera lui, e lui non era uno che badasse ai rituali.

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Lyanna gli prese con delicatezza una mano tra le sue, lanciandogli il suosguardo da vampira: grandi occhi scuri spalancati che ti fissano, la boccasottile che accenna un vago, impercettibile sorriso. Di corporatura minuta,i capelli castani corti e un fisico da adolescente, sembra quasi un'orfanella.Può apparire molto fragile e indifesa, quando vuole, ma ha uno sguardoche scuote le persone. Se sanno che Lya è telepatica, pensano che stia fru-gando nei loro più intimi segreti. In realtà, sta solo giocando. QuandoLyanna legge davvero, il suo corpo diventa rigido e comincia a tremare, equei suoi grandi occhi succhia anima diventano piccoli, duri e opachi.

Ma pochi lo sanno, per cui si imbarazzano, guardano da un'altra parte esi affrettano a lasciarle la mano. Non Valcarenghi, però: lui si limitò a sor-ridere e ricambiò lo sguardo, poi si voltò verso di me.

Quando gli strinsi la mano lo stavo leggendo, come faccio d'abitudine.Non è una bella cosa, immagino, perché affossa anzitempo potenziali ami-cizie. Il mio talento non è paragonabile a quello di Lya, ma è anche menoimpegnativo. Io capto le emozioni. L'affabilità di Valcarenghi si rivelò for-te e sincera, senza secondi fini, almeno non in superficie.

Strinsi la mano anche all'assistente, Nelson Gourlay, un tizio biondo eallampanato di mezza età. Poi Valcarenghi invitò tutti a salire sull'aeromo-bile. «Immagino sarete stanchi» disse dopo il decollo «quindi vi risparmio

la visita della città e ci dirigeremo direttamente alla Torre. Nelse vi mostre-rà i vostri alloggi, dopo di che potrete raggiungerci per un aperitivo, e par-leremo della questione. Avete letto il materiale che vi ho mandato?»

«Sì» risposi io. Lya annuì. «I dati sono interessanti, ma non ho capito ilmotivo per cui siamo qui.»

«Lo saprete presto» replicò Valcarenghi. «Adesso vi lascio ammirare ilpaesaggio» aggiunse indicando il finestrino, sorrise e si ammutolì.

Così Lya e io ammirammo il panorama, almeno per quanto ci fu possibi-

le nei cinque minuti di volo dall'astroporto alla Torre. L'aeromobile sfrec-ciava lungo la via principale all'altezza delle cime degli alberi, provocandouno spostamento d'aria che sferzava i rami. Dentro era freddo e buio, men-tre fuori il sole splendeva quasi a mezzogiorno, e si vedevano onde scintil-lanti di calore salire dal terreno. Gli abitanti dovevano essere nelle loro ca-se con l'aria condizionata, perché in giro non c'era quasi nessuno.

Arrivati all'ingresso principale della Torre attraversammo un'enorme halldi una pulizia impeccabile. A quel punto Valcarenghi si allontanò per par-

lare con alcuni subalterni; Gourlay ci condusse verso uno dei tubi ascen-sionali e schizzammo su di cinquanta piani. Dopo aver oltrepassato una

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segreteria, prendemmo un altro tubo ascensionale privato, e salimmo anco-ra.

Le nostre stanze erano deliziose, con una moquette verde chiaro e le pa-reti rivestite da pannelli in legno. C'era anche una vera biblioteca, per lopiù classici terrestri rilegati in finta pelle, e alcuni romanzi di Baldur, il no-stro pianeta d'origine. Qualcuno doveva aver preso informazioni sui nostrigusti. Una parete della camera da letto era di vetro colorato, con una vistapanoramica sulla città ai nostri piedi, e un comando per oscurarla quandosi andava a dormire.

Gourlay ci mostrò come funzionava, con fare da austero inserviented'albergo. Lo lessi brevemente, ma non trovai alcun risentimento. Era unpo' nervoso, ma non tanto, e nutriva sincero affetto per qualcuno. Noi?

Valcarenghi?Lya si sedette su uno dei due lettini. «Qualcuno ci porterà su il baga-

glio?» domandò.Gourlay fece cenno di sì con la testa. «Vi sarà riservato un trattamento

speciale» disse. «Qualsiasi cosa desideriate, basta chiedere.»«Bene, non mancheremo» replicai sedendomi sull'altro letto; poi indicai

a Gourlay la poltrona. «Da quanto tempo è qui?»«Sei anni» rispose lui, accomodandosi. «Sono ormai un veterano. Ho la-

vorato sotto quattro amministratori: Dino e prima di lui Stuart, prima anco-ra Gustaffson, e perfino con Rockwood per qualche mese.»

Lya si rianimò, incrociò le gambe sotto di sé e si chinò in avanti. «Più omeno la durata del suo mandato, vero?»

«Già» confermò Gourlay. «Rockwood non amava questo pianeta e ac-cettò quasi subito un incarico meno importante come viceamministratorealtrove. A essere sincero, a me non dispiacque: era un tipo nervoso, e con-tinuava a dare ordini per dimostrare di essere il capo.»

«E Valcarenghi?» domandai.Gourlay fece un sorriso che sembrò uno sbadiglio. «Dino? Lui è in gam-

ba, il migliore. È bravo, e lo sa. È qui solo da due mesi, ma ha già risoltoparecchie questioni, e si è fatto molti amici. Tratta i subalterni come per-sone, chiama tutti per nome eccetera. È fatto così.»

Stavo scandagliando, e lessi sincerità. Era a Valcarenghi che Gourlay eraaffezionato. Credeva in quello che aveva appena detto.

Avrei voluto fargli altre domande, ma non ne ebbi il tempo. Gourlay si

alzò di scatto. «Non posso trattenermi oltre» disse. «Immagino che avretevoglia di riposare. Tra un paio d'ore, se vi va, salite all'ultimo piano, ve-

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dremo un po' di cose insieme. Sapete dov'è il tubo ascensionale, vero?»Facemmo cenno di sì, e Gourlay se ne andò.«Che ne pensi?» chiesi voltandomi verso Lya.Lei si sdraiò sul letto e si mise a fissare il soffitto. «Non lo so» rispose.

«Non stavo leggendo. Mi chiedo come mai abbiano avuto così tanti ammi-nistratori, e perché ci abbiano chiamato.»

«Siamo dei Talenti» dissi sorridendo. Sì, con la maiuscola. Lyanna e ioavevamo sostenuto degli esami ed eravamo accreditati come Talenti psi-chici, con tanto di diploma.

«Mmm» fece lei mettendosi sul fianco, e mi sorrise. Questa volta nonera il sogghigno vampiresco, ma un sorriso sexy da ragazzina.

«Valcarenghi vuole che ci riposiamo un po'. Forse non è una cattiva ide-

a.»Lei saltò giù dal letto. «Certo, ma questi lettini singoli devono sparire.»«Li potremmo avvicinare» proposi.Lei sorrise di nuovo. Li avvicinammo.E in effetti dormimmo, poi.Quando ci svegliammo, il bagaglio era davanti alla porta. Contando sulla

nota mancanza di formalità di Valcarenghi, indossammo abiti comodi efreschi. Il tubo ascensionale ci portò all'ultimo piano della Torre.

L'ufficio dell'amministratore planetario non sembrava un ufficio: nonc'erano né scrivanie né gli altri arredi consueti. Solo un tappeto blu, nudo elussuoso, dove i piedi affondavano fino alle caviglie, e sei o sette poltronein ordine sparso. E molto spazio e tanta luce proveniente dall'esterno, conShkea sotto di noi, oltre i vetri colorati. Qui tutt'e quattro le pareti erano divetro.

Valcarenghi e Gourlay ci stavano aspettando; l'amministratore ci servì

personalmente da bere. Non capii che cosa fosse, ma era una bevanda fre-sca, speziata e aromatica, con una nota acuta. La sorseggiai con gratitudi-ne: non so perché, ma avevo bisogno di qualcosa che mi tirasse su.

«Vino shkeen» disse Valcarenghi con un sorriso, in risposta a una do-manda inespressa. «Ha un nome, ma non riesco ancora a pronunciarlo. Da-temi tempo. Sono qui solo da due mesi, ed è una lingua difficile.»

«Sta studiando lo shkeen?» chiese Lya, sorpresa. Sapevo perché: gli u-mani lo trovano molto difficile, mentre i nativi imparano il ferrano con

straordinaria facilità. Per molti questo risolveva il problema in modo sod-disfacente, e smettevano di cercare di decifrare il linguaggio alieno.

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«Mi aiuta a capire il loro modo di pensare» spiegò Valcarenghi. «Alme-no in teoria» aggiunse sorridendo.

Lo scandagliai di nuovo, anche se era più difficile. La vicinanza fisicaaiuta a mettere a fuoco. Anche questa volta, percepii una semplice emo-zione, vicino alla superficie: orgoglio, misto a una sfumatura di piacere,che attribuii al vino. Niente negli strati inferiori.

«Comunque si pronunci, è buono» dissi.«Gli Shkeen producono un'ampia varietà di alcolici e altri generi alimen-

tari» intervenne Gourlay. «Ne abbiamo già selezionati un certo numero perl'esportazione, e stiamo proseguendo le ricerche. La domanda dovrebbe es-sere buona.»

«Questa sera potrete gustare alcuni prodotti locali» annunciò l'ammini-

stratore planetario. «Ho organizzato un tour della città, con qualche sostanella Shkeentown. In un insediamento di queste dimensioni la vita nottur-na è piuttosto interessante: vi farò da guida.»

«Sembra un bel programma» esclamai; anche Lya sorrise. Non capitavaspesso: in genere i Normali si sentono a disagio vicino ai Talenti, così cifanno arrivare in tutta fretta per fare quello vogliono che facciamo, e poi cirispediscono via il più rapidamente possibile. Di certo non socializzanocon noi.

«Be', il fatto è...» esordì Valcarenghi, posando il bicchiere e sporgendosiin avanti sulla poltrona. «Avete letto del Culto dell'Unione?»

«Una delle religioni shkeen» disse Lya.«L'unica» puntualizzò l'amministratore. «Sono tutti credenti. Questo è

un pianeta senza atei.»«Abbiamo letto il materiale che ci avete mandato» dichiarò Lya.«Che cosa ne pensate?»Io mi strinsi nelle spalle. «Truce, primitiva, ma non più di altre credenze

di cui mi è capitato di leggere. Dopotutto gli Shkeen non sono molto avan-zati; anche su Vecchia Terra c'erano religioni che includevano sacrificiumani.»

Valcarenghi scosse la testa e guardò Gourlay.«No, non capite» iniziò questi, appoggiando il bicchiere sul tappeto.

«Sono sei anni che studio la loro religione, e non ha precedenti nella storia.Di certo non è mai esistito niente di simile su Vecchia Terra, e nemmenopresso le altre razze con cui siamo entrati in contatto.

«E l'Unione, be', non è paragonabile a un sacrificio umano: è una cosadiversa. Le religioni di Vecchia Terra sacrificavano una o due vittime in-

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volontarie per placare le loro divinità. Ucciderne pochi per salvarne milio-ni, e quei pochi in genere protestavano. Tra gli Shkeen non funziona così.Il Greeshka prende tutti, e loro ci vanno spontaneamente. Come i lemming,si mettono in marcia verso le grotte per essere mangiati vivi da quei paras-siti. Ogni Shkeen diventa Congiunto a quarant'anni, e va all'Unione Finaleprima dei cinquanta.»

Ero confuso. «D'accordo» dissi. «Penso di avere capito la differenza. Eallora? Qual è il problema? Immagino che l'Unione sia un problema per gliShkeen, ma sono fatti loro. Come religione non è peggio dei riti cannibali-ci dei Hrangan.»

Valcarenghi vuotò il bicchiere, si alzò e si diresse verso il bar. Dopo es-sersi servito di nuovo, osservò con apparente noncuranza. «Per quanto ne

so, al cannibalismo dei Hrangan non si è convertito nessun umano.»Lya lo guardò allarmata; anch'io mi raddrizzai sulla poltrona, sgranando

gli occhi. «Come?»Valcarenghi, con in mano il bicchiere, ritornò alla sua poltrona. «Degli

umani si sono convertiti al Culto dell'Unione. Ci sono già decine di Con-giunti; per ora nessuno di loro ha compiuto la piena Unione, ma è soloquestione di tempo.» Si sedette e guardò Gourlay. Noi lo imitammo.

L'assistente biondo e allampanato cominciò a raccontare. «La prima

conversione è avvenuta circa sette anni fa. Quasi dodici mesi prima delmio arrivo qui, due anni e mezzo dopo la scoperta di Shkea e la costruzio-ne dell'insediamento. Un ragazzo di nome Magly, uno psico-psi che lavo-rava a stretto contatto con gli Shkeen. Ha aderito per due anni. Poi un altronello '08, altri ancora l'anno successivo, e continuano ad aumentare. C'èstato anche un pezzo grosso: Phil Gustaffson.»

Lya batté le palpebre. «L'amministratore planetario?»«Proprio lui» confermò Gourlay. «Abbiamo avuto diversi amministrato-

ri. Gustaffson subentrò a Rockwood, quando questi decise di andarsene.Era un uomo alto, burbero, di mezza età. Tutti gli volevano bene. Avevaperso la moglie e i figli nell'ultimo incarico, ma non lo avresti mai detto,era sempre cordiale, pronto a scherzare. Bene, cominciò a interessarsi allareligione degli Shkeen, a parlare con loro. Parlò con Magly e altri converti-ti. Andò anche a vedere un Greeshka. Ne restò profondamente turbato, maalla fine superò la crisi e riprese le sue ricerche. Io lavoravo con lui, manon immaginavo che cosa avesse in mente. Poco più di un anno fa si con-

vertì. Adesso è un Congiunto. Nessuno è mai stato accolto così in fretta.Ho sentito dire a Shkeentown che potrebbe addirittura essere ammesso

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all'Unione Finale, direttamente. Phil è stato l'amministratore che qui hagovernato più a lungo di tutti. Alla gente piaceva e, quando si convertì,molti amici lo seguirono. Adesso il numero sta crescendo.»

«Quasi l'uno per cento, ed è in aumento» disse Valcarenghi. «Sembrapoco, ma pensate a quello che significa: l'uno per cento della popolazionedel mio insediamento sceglie una religione che comprende una forma mol-to barbara di suicidio.»

Lya passò lo sguardo da lui a Gourlay, poi tornò a fissare l'amministrato-re planetario. «Perché non è stato steso un rapporto?»

«Avrebbe dovuto essere fatto» ammise Valcarenghi «ma il successore diGustaffson, Stuart, aveva il terrore di suscitare uno scandalo. Nessuna leg-ge impedisce agli umani di abbracciare una religione aliena, quindi Stuart

dichiarò che era un falso problema. Secondo la prassi, continuava a riferirela percentuale di conversioni, e nessuno in alto si è preso mai la briga difare la correlazione e ricordare a che cosa si converte tutta questa gente.»

Svuotai il bicchiere e lo posai a terra. «Prosegua» dissi a Valcarenghi.«Secondo me il problema esiste. Indipendentemente dal numero di per-

sone coinvolte, mi allarma l'idea che degli esseri umani possano acconsen-tire a diventare cibo per i Greeshka. Ho avuto un gruppo di psichici che ciha lavorato da quando sono arrivato senza cavare un ragno dal buco. Mi

servivano dei Talenti: voglio che scopriate perché queste persone si con-vertono. A quel punto saprò come affrontare la situazione.»

Il problema era strano, ma l'incarico sembrava molto semplice. LessiValcarenghi per maggior sicurezza. Le sue emozioni questa volta erano piùcomplesse, ma non tanto.

Innanzitutto fiducia in se stesso: non aveva dubbi di poter risolvere ilproblema; provava una sincera preoccupazione, ma non paura, e non av-vertii una briciola di inganno. Anche questa volta non riuscii a vedere

niente sotto la superficie. Valcarenghi teneva ben nascosto il suo travagliointeriore, se mai esisteva.

Lanciai un'occhiata a Lyanna. Sedeva in modo strano sulla poltrona, ledita aggrappate al bicchiere di vino: stava leggendo. A un certo punto si ri-lassò, guardò nella mia direzione e annuì.

«Okay» dissi. «Penso che ce la possiamo fare.»Valcarenghi sorrise. «Non ne dubitavo» esclamò. «La questione era solo

se avreste accettato o no. Ma basta parlare di lavoro per oggi: vi ho pro-

messo una notte in giro per la città e io cerco sempre di tenere fede allamia parola. Ci vediamo giù nella hall tra mezz'ora.»

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 Lya e io tornammo in camera per indossare qualcosa di un po' più ele-

gante. Io optai per una tunica blu scuro, pantaloni bianchi e una sciarpa direte in tinta. Non ero all'ultimo grido, ma speravo che la moda qui arrivas-se con qualche mese di ritardo. Lya scelse un abito aderente di seta, biancocon sottili linee azzurre che disegnavano sensuali ondulazioni a secondadel calore emanato dal corpo. La sua snella figura ne risultava accentuata ecome esaltata, con un effetto molto provocante. Una mantella blu imper-meabile completava la tenuta.

«Valcarenghi è un tipo strano» disse abbottonandosi la mantella.«In che senso?» chiesi mentre lottavo con la fibbia della mia tunica, che

rifiutava di chiudersi. «Hai percepito qualcosa mentre lo leggevi?»

«No» rispose, finendo di abbottonarsi. Ammirai la sua immagine nellospecchio. Poi lei fece una piroetta verso di me, con la mantella che le vor-ticava dietro le spalle. «Niente. Pensava quello che diceva; be', con qual-che variazione nella scelta delle parole, ovviamente, ma niente di significa-tivo. La sua mente era concentrata sugli argomenti di cui si discuteva, edietro c'era solo un muro.» Sorrise. «Non sono riuscita a cogliere neancheuno dei suoi oscuri e profondi segreti.»

Finalmente riuscii ad avere la meglio sulla fibbia. «Coraggio, stasera ti

potrai rifare» dissi.Lei rispose con una smorfia. «Neanche per idea: non leggo la gente fuori

dall'orario di lavoro, non è corretto. Inoltre, è un tale stress! Mi piacerebbecaptare i pensieri con la facilità con cui tu percepisci le emozioni.»

«È il prezzo del Talento» ribattei. «Tu ne hai di più, e quindi anche loscotto è maggiore.» Rovistai nella valigia per cercare una mantella imper-meabile, ma non riuscii a trovarla, così decisi di farne a meno. Le mantelle,tra l'altro, erano fuori moda. «Anch'io non ho scoperto molto su Valcaren-

ghi. Solo quello che chiunque avrebbe potuto dire guardandolo in faccia.Deve avere una mente molto disciplinata, però lo perdono: serve dell'otti-mo vino.»

Lya annuì. «È vero! Mi ha fatto anche bene, mi ha liberato del mal di te-sta con cui mi ero svegliata stamattina.»

«L'altitudine» suggerii, mentre ci dirigevamo verso la porta.La hall era deserta, ma Valcarenghi non si fece attendere. Questa volta

prese l'aeromobile personale, una vecchia carcassa sgangherata che evi-

dentemente era con lui da molto tempo. Gourlay non c'era, non amava lamondanità, ma l'amministratore era arrivato in compagnia di una donna,

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una stupefacente apparizione dai capelli ramati di nome Laurie Blackburn.Era ancora più giovane di Valcarenghi, a occhio e croce sui venticinqueanni.

C'era il tramonto quando decollammo. L'orizzonte era uno splendido a-razzo rosso e arancione, e una lieve brezza soffiava dalle pianure. Valca-renghi spense l'impianto di raffreddamento e aprì i finestrini. Lungo il tra-gitto ammirammo la città che veniva avvolta dal crepuscolo.

Cenammo in un ristorante lussuoso, con arredo balduriano (immaginoper farci sentire a casa). Il cibo, però, era molto cosmopolita. Spezie, aromie modo di cucinare erano tutti di Baldur, ma le carni e le verdure erano lo-cali. Un'interessante combinazione. Valcarenghi fece le ordinazioni pertutti e quattro, e finimmo per assaggiare una decina di piatti diversi. Il mio

preferito fu un minuscolo uccello locale cucinato in salsa acida. Non avevamolta carne, ma era davvero squisito. Durante il pasto ci scolammo tre bot-tiglie di vino: una come quella che avevamo assaggiato nel pomeriggio, unfiasco di veltaar ghiacciato di Baldur e del borgogna originale di VecchiaTerra.

La conversazione si animò rapidamente; Valcarenghi era un narratorenato e anche un ottimo ascoltatore. Ovviamente si finì per parlare di Shkeae degli Shkeen. Il discorso fu introdotto da Laurie. Era arrivata da circa sei

mesi, stava lavorando a una sorta di dottorato in antropologia extraterre-stre. Voleva scoprire perché la civiltà shkeen era rimasta congelata per cosìtanti millenni.

«Sono più vecchi di noi, sapete?» disse. «Le loro città esistevano primache gli esseri umani cominciassero a usare gli utensili. Devono essere statigli Shkeen che, viaggiando nello spazio, si sono imbattuti negli uominiprimitivi, non viceversa.»

«Ci sono teorie al riguardo?» chiesi.

«Sì, ma nessuna ancora universalmente accettata» rispose lei. «Cullen,per esempio, parla di scarsità di metalli pesanti. Un fattore, ma può esserela risposta? Von Hamrin afferma che gli Shkeen vivono in condizioni chenon favoriscono la competitività: sul pianeta non sono presenti grandi pre-datori carnivori, quindi niente ha stimolato nella razza l'aggressività. Lostudioso però è stato duramente criticato: Shkea non è un posto così idilli-aco, altrimenti gli abitanti non sarebbero mai arrivati al punto in cui sonooggi. Tra l'altro il Greeshka non è forse carnivoro? Li mangia, no?»

«Lei che cosa pensa?»«Credo che abbia a che fare con la religione, ma non ho ancora finito le

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mie indagini. Dino mi aiuta a parlare con la gente e gli Shkeen sono abba-stanza aperti, ma non è una ricerca facile.» Si bloccò di colpo, e lanciòun'intensa occhiata a Lya. «Almeno per me. Immagino che per voi sia di-verso.»

Ce l'avevano detto altre volte. La gente comune spesso immagina che iTalenti siano ingiustamente avvantaggiati, il che è perfettamente compren-sibile. In effetti lo siamo. Laurie però non era risentita: le sue parole ave-vano un tono meditabondo, speculativo, non esprimevano astio.

Valcarenghi le mise un braccio intorno alle spalle. «Ehi» esclamò. «Ba-sta parlare di lavoro. Non angosciamo più Robb e Lya con gli Shkeen finoa domani.»

Laurie lo guardò e accennò un sorriso. «D'accordo» replicò in tono alle-

gro. «Mi sono lasciata trasportare, scusatemi.»«Non si preoccupi» dissi. «È un argomento interessante. Tempo un gior-

no, probabilmente anche noi proveremo lo stesso entusiasmo.»Lya annuì e le promise che lei sarebbe stata la prima a sapere se il nostro

lavoro avesse fatto emergere qualche indizio a sostegno della sua teoria. Ioascoltavo con un orecchio solo. So che non è educato scandagliare i Nor-mali quando sei fuori a cena con loro, ma a volte non so resistere. Valca-renghi teneva il braccio attorno a Laurie, stringendola dolcemente a sé. Ero

curioso.Cominciai una lettura rapida, colpevole. L'amministratore era di ottimo

umore, un po' alticcio, credo, molto sicuro di sé e protettivo: padrone dellasituazione. Laurie, invece, era un ginepraio: insicurezza, rabbia repressa,una venatura di paura, e amore, confuso ma forte. Dubitavo che quel sen-timento fosse per me o per Lya: amava Valcarenghi.

Allungai il braccio sotto il tavolo per cercare la mano di Lya e trovai ilsuo ginocchio. Lo strinsi delicatamente; lei mi guardò e sorrise. Non stava

scandagliando, meglio così. Mi seccava che Laurie amasse Valcarenghi,anche se non sapevo perché, e fui contento che Lya non avesse notato ilmio disappunto.

Finimmo in breve anche l'ultima bottiglia. Valcarenghi si occupò delconto, poi si alzò. «Forza!» annunciò. «La notte è giovane, e abbiamo tantiposti da visitare.»

Così partimmo per il nostro giro. Niente spettacoli olografici o cose delgenere, anche se la città aveva i suoi teatri. Il primo della lista fu un casinò.

A Shkea ovviamente il gioco d'azzardo è legale, e se anche non lo fossestato Valcarenghi lo avrebbe legalizzato. Ci procurò le  fiches; io persi un

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po', anche Laurie. Lya non poteva giocare: il suo Talento era troppo forte.Valcarenghi vinse parecchio; era un ottimo giocatore di mindspin, e se lacavava abbastanza bene anche nei giochi tradizionali.

Poi entrammo in un bar. Altro alcol, più uno spettacolo che era menopeggio di quanto mi sarei aspettato.

Era notte fonda quando uscimmo, e supposi che la spedizione stessevolgendo al termine. Valcarenghi ci sorprese. Risaliti in macchina, allungòun braccio sotto i comandi, tirò fuori una scatola di pastiglie smaltisci-sbornia e la fece passare in giro.

«Ehi, che cosa me ne faccio?» esclamai. «Tanto guidi tu. Io devo solostare seduto.»

«Stiamo andando a un vero evento culturale shkeen, Robb» disse. «Non

voglio che facciate commenti fuori luogo o che vomitiate addosso allagente del posto. Prendi una pastiglia.»

La mandai giù, e la testa cominciò schiarirsi. Valcarenghi era già decol-lato. Mi appoggiai allo schienale, misi un braccio intorno alle spalle diLya; lei appoggiò la testa al mio petto. «Dove stiamo andando?» doman-dai.

«A Shkeentown» rispose l'amministratore, senza voltarsi. «Nella GrandeSala. Questa notte c'è un Raduno, e ho pensato che vi potesse interessare.»

«Ovviamente sarà in shkeen» aggiunse Laurie «ma Dino vi farà da in-terprete. Anch'io capisco un po' la lingua, e se necessario interverrò.»

Lya sembrava emozionata. Avevamo letto dei Raduni, ma non ci aspet-tavamo certo di vederne uno il giorno del nostro arrivo a Shkea. Si trattavadi una sorta di rito religioso, una specie di confessione di massa per coloroche stavano per entrare nelle file dei Congiunti. I pellegrini si riversavanoogni giorno nella città collinare, ma i Raduni avvenivano solo tre o quattrovolte l'anno, quando il numero di quelli che stavano per entrare nell'Unio-

ne era abbastanza elevato.L'aeromobile sfrecciò quasi in silenzio attraverso lo sfavillante insedia-

mento, oltrepassando enormi fontane in cui danzavano decine di colori ebegli archi ornamentali che ondeggiavano come fuoco liquido. Erano de-collate anche altre macchine, e ogni tanto sorvolavamo pedoni che passeg-giavano per i grandi viali della zona commerciale della città. Ma le personeerano per lo più al coperto; luce e musica uscivano da gran parte delle casesotto di noi.

Poi, all'improvviso, l'aspetto della città cominciò a mutare. Il livello delterreno iniziò a sollevarsi e abbassarsi, le colline apparvero davanti a noi e

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poi furono alle nostre spalle, mentre le luci si affievolivano. Sotto, i vialiilluminati fecero posto a buie strade acciottolate e polverose, e le cupole divetro e metallo in stile similshkeen cedettero il passo alle loro più antichesorelle di mattoni. La città shkeen era più tranquilla della sua controparteumana, le case erano per lo più buie e silenziose.

Poi, davanti a noi, apparve una collina più grande delle altre: quasi uncolle a sé stante, con una grande porta ad arco e una serie di finestre alte estrette. Da una di queste fenditure trapelavano luce e suoni, e fuori c'eranomolti Shkeen.

D'un tratto mi resi conto che, pur essendo a Shkea da quasi un giorno,era la prima volta che vedevo gli Shkeen. Non che potessi distingueregranché da un'aeromobile di notte, ma li intravidi. Erano più piccoli degli

uomini - il più alto misurava circa un metro e mezzo - con grandi occhi elunghe braccia. Dall'alto non potevo dire di più.

Valcarenghi parcheggiò vicino alla Grande Sala, e scendemmo. GliShkeen stavano confluendo da varie direzioni, ma i più erano già dentro.Ci unimmo alla fiumana e nessuno ci guardò due volte, a parte un tizio chechiamò Valcarenghi per nome, con una voce esile e stridula. Aveva amiciperfino qui.

L'interno era un'enorme sala, con al centro una grande piattaforma senza

decori, circondata da un'immensa folla di Shkeen. L'unica luce era quelladelle torce collocate nelle fessure lungo le pareti e su alti supporti attornoal palco. Qualcuno stava parlando, e tutti gli occhi grandi e sporgenti eranorivolti in quella direzione. Noi quattro eravamo gli unici umani nella sala.

L'oratore, nella luce vivida delle torce, era uno Shkeen di mezza età, paf-futo, che parlando dondolava lentamente le braccia, in modo quasi ipnoti-co. Il suo discorso era tutto fischi, sibili e grugniti, quindi non ascoltavogranché, ed era troppo distante per poterlo scandagliare. Mi limitai a os-

servare il suo aspetto fisico, e quello degli altri Shkeen vicino a me. Eranotutti calvi, a quello che vedevo, con la pelle arancione, apparentementemorbida, attraversata da una miriade di piccole rughe. Indossavano sem-plici camicioni di tessuto grezzo, di vari colori, e faticavo a distinguere gliuomini dalle donne.

Valcarenghi si chinò verso di me e sussurrò, attento a tenere basso il to-no di voce: «Quello che sta parlando è un contadino. Racconta all'uditorioa che punto si trova e alcune difficoltà della sua vita».

Mi guardai intorno. Il bisbiglio dell'amministratore era l'unico rumorenella platea. Tutti ascoltavano in assoluto silenzio, lo sguardo rivolto verso

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il palco, respirando a malapena.«Dice che ha quattro fratelli» proseguì Valcarenghi. «Due sono andati

all'Unione Finale, uno è tra i Congiunti; l'altro, il più giovane, manda avan-ti l'azienda.» Si accigliò e proseguì in un tono di voce leggermente più al-to. «Dice che non vedrà più la sua fattoria, ed è felice di questo.»

«Cattivo raccolto?» chiese Lya, con un sorriso impertinente. Ascoltavaanche lei la traduzione di Valcarenghi. La fulminai con lo sguardo.

Lo Shkeen proseguì e Valcarenghi andò avanti a tradurre. «Adesso staparlando delle cattive azioni di cui si pente, i segreti bui dell'anima. Tal-volta ha avuto la lingua tagliente, è orgoglioso, in un'occasione ha addirit-tura picchiato il fratello minore. Ora parla della moglie e delle altre donneche ha conosciuto. L'ha tradita spesso. Da ragazzo si accoppiava con gli

animali perché aveva paura delle donne. Negli ultimi anni è diventato im-potente, e allora il fratello ha provveduto a soddisfare la moglie.»

Lo Shkeen continuò, fornendo dettagli incredibili, sorprendenti e al tem-po stesso spaventosi. Non venne risparmiata alcuna intimità, nessun segre-to restò inviolato. Rimasi ad ascoltare i bisbigli di Valcarenghi, da princi-pio stupito, poi annoiato da tutto quello squallore. Cominciavo a sentirmi adisagio. Subito dopo mi domandai se sapevo di qualcuno la metà delle co-se che sapevo di quello Shkeen. Poi mi chiesi se Lyanna, con il suo Talen-

to, conosceva qualcuno altrettanto bene. Era come se l'oratore ci volessefar rivivere la sua vita momento per momento.

A un certo punto il discorso, che mi sembrò durare ore, si avviò final-mente alla conclusione. «Adesso sta parlando dell'Unione» sussurrò Valca-renghi. «Sarà Congiunto, e questo lo rende felice; ha desiderato a lungoquesto momento. La sua sofferenza è giunta al termine, non sarà più solo;presto percorrerà le strade della città sacra e i campanelli daranno voce allasua gioia. E poi, l'Unione Finale. Sarà con i fratelli nell'aldilà.»

«No, Dino» bisbigliò Laurie. «Non umanizzare troppo le sue parole. Hadetto che lui sarà i suoi fratelli, implicando che anche loro saranno lui.»

Valcarenghi sorrise. «Certo, Laurie, se lo dici tu...»A quel punto il contadino grasso era sceso dal palco. Dalla folla si levò

un mormorio, e un altro prese il suo posto: molto più basso, con un'infinitàdi rughe e una cavità al posto di un occhio. Cominciò a parlare, all'iniziofacendo delle pause, poi con sempre maggiore scioltezza.

«Questo è un muratore, ha lavorato alla costruzione di molte cupole e

vive nella città sacra. Ha perso l'occhio tanti anni fa: cadendo da una cupo-la gli si conficcò un pezzo di legno appuntito. Il dolore fu terribile, ma do-

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po un anno ricominciò a lavorare; non chiese l'Unione prima del tempo, ti-rò avanti e oggi è fiero del proprio coraggio. Ha una moglie, ma purtropponon hanno avuto figli, e ciò lo rattrista; non riesce a intendersi facilmentecon la moglie, sono distanti anche quando sono insieme e lei piange la not-te; anche a lui dispiace, ma non le ha mai fatto del male e...»

Anche lui sarebbe andato avanti ore. Cominciai di nuovo a sentirmi agi-tato, ma mi trattenni: era troppo importante. Mi lasciai catturare dal rac-conto di Valcarenghi e dalla storia dello Shkeen con un occhio solo. Nelgiro di poco, ero preso dalla narrazione non meno degli alieni. Faceva cal-do, l'aria era viziata e sotto la cupola si soffocava; la mia tunica si stavacoprendo della fuliggine delle torce e inzuppando di sudore, in parte dellecreature strette intorno a me, ma io non ci facevo caso.

Il secondo oratore terminò come il primo, con un lungo inno alla gioia diessere un Congiunto e alla futura Unione Finale. A quel punto non avevoquasi neanche più bisogno della traduzione di Valcarenghi: potevo perce-pire la gioia nella voce dello Shkeen e vederla nella sua figura tremolante,o forse stavo scandagliando inconsciamente, anche se a quella distanza ingenere non ci riesco, a meno che il soggetto non sia molto emozionato.

Salì sul palco un terzo oratore, e parlò in un tono di voce più acuto. Val-carenghi non perdeva una battuta. «Questa è una donna» disse. «Ha dato

otto figli al marito; ha quattro sorelle e tre fratelli; ha sempre lavorato laterra...»

A un certo punto il discorso sembrò giungere al punto culminante, eterminò con una lunga sequenza di fischi acuti. Poi la donna restò in silen-zio. La folla, in coro, cominciò a rispondere con altri fischi. Una musicasoprannaturale riecheggiò nella Grande Sala, e gli Shkeen attorno a noi i-niziarono a ondeggiare, sempre fischiando tutti insieme. Lei osservava lascena, curva e affranta.

Valcarenghi cominciò a tradurre, ma poi si fermò. Laurie subentrò primache lui si riprendesse. «Ha appena raccontato di un'immane tragedia. Glialtri fischiano per esprimere il loro dispiacere, la partecipazione al suo do-lore.»

«Sì, la loro simpatia» aggiunse Valcarenghi, che nel frattempo si era ri-preso. «Quando era giovane, suo fratello si ammalò e sembrò sul punto dimorire. I genitori le dissero di portarlo sulle colline sacre, perché loro nonpotevano lasciare i figli più piccoli. Ma guidò con imprudenza e una ruota

del carro si spezzò, così il fratello morì nelle pianure, senza raggiungerel'Unione. Oggi si sente in colpa per questo.»

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La Shkeen aveva ricominciato a parlare. Laurie riprese a tradurre, stan-doci vicino e sussurrando con un filo di voce. «Per colpa sua, ripete, il fra-tello è morto senza l'Unione, e ora è separato, solo e senza... senza...»

«Aldilà» completò Valcarenghi. «Senza aldilà.»«Non penso intenda questo» ribatté Laurie. «Il concetto è che...»L'amministratore le fece cenno di tacere. «Stiamo attenti» esclamò, e ri-

prese lui a tradurre.Ascoltammo la storia della donna, raccontata dal sussurro sempre più

roco di Valcarenghi. Fu quella che parlò più di tutti, e il suo racconto fu ilpiù lugubre dei tre. Quando ebbe finito, anche lei fu sostituita da un altrooratore. A quel punto, però, Valcarenghi mi mise una mano sulla spalla emi guidò verso l'uscita.

L'aria fresca della notte fu come una doccia gelata, e di colpo mi accorsiche ero madido di sudore. Valcarenghi andò direttamente alla macchina.Alle nostre spalle intanto il discorso proseguiva e gli Shkeen non davanosegni di stanchezza.

«La cerimonia dell'Unione va avanti per giorni e giorni, anche settima-ne» ci spiegò Laurie, quando fummo di nuovo sull'aeromobile. «Gli Shke-en ascoltano a turno, più o meno... Cercano con tutte le loro forze di nonperdere una parola, ma a un certo punto la stanchezza li vince, allora si riti-

rano per una breve sosta, e poi ritornano. È un grande onore riuscire ad as-sistere a un intero Raduno senza dormire.»

Valcarenghi decollò. «Un giorno o l'altro ci voglio provare. Non ho mairesistito più di un paio d'ore, ma credo che assumendo qualche droga ce lapotrei fare. La comprensione tra umani e Shkeen sarebbe maggiore se noipartecipassimo di più ai loro rituali.»

«Forse anche Gustaffson la pensava così» esclamai.Valcarenghi fece una risatina. «Be', non intendo partecipare così inten-

samente.»Il ritorno avvenne in un silenzio pieno di stanchezza. Avevo perso la co-

gnizione del tempo, ma il mio corpo diceva che era quasi l'alba. Lya siraggomitolò sotto il mio braccio; sembrava esausta, svuotata e mezzo ad-dormentata. Proprio come me.

Lasciammo l'aeromobile davanti alla Torre e prendemmo i tubi ascen-sionali. Non ero più in grado di pensare, e il sonno arrivò molto in fretta.

Quella notte sognai. Fu un bel sogno, credo, ma svanì con l'arrivo del

giorno, lasciandomi vuoto e con la sensazione di essere stato ingannato.Restai lì, una volta sveglio, con un braccio attorno a Lya e gli occhi al sof-

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fitto, cercando di ricordare che cosa avevo sognato, ma non affiorò niente.Invece mi trovai a pensare al Raduno nella Grande Sala, ripassando

mentalmente quello che avevo visto. Alla fine mi divincolai dall'abbraccioe mi alzai. Avevamo oscurato i vetri, per cui nella stanza era ancora buio,ma trovai abbastanza facilmente i comandi e lasciai filtrare un po' della lu-ce del mattino inoltrato.

Lya mormorò un'assonnata protesta e si voltò dall'altra parte, senza ac-cennare ad alzarsi. Uscii dalla camera da letto e mi avvicinai alla libreria,alla ricerca di un volume sugli Shkeen: qualcosa di più dettagliato rispettoal materiale che ci era stato inviato. Non ebbi fortuna. I libri erano statiscelti per rilassare, non per compiere delle ricerche.

Trovai un videofono e mi misi in comunicazione con l'ufficio di Valca-

renghi. Mi rispose Gourlay. «Salve!» esordì. «Dino immaginava che a-vrebbe chiamato. Adesso non è qui, è andato ad arbitrare un patto com-merciale. Che cosa le serve?»

«Libri» dissi con voce ancora un po' assonnata. «Qualcosa sugli Shke-en.»

«Purtroppo non la posso accontentare» rispose Gourlay. «Non ne esisto-no; ci sono tanti saggi, studi, monografie, ma nessuna opera completa. Do-vrei scriverla io, ma non ho ancora cominciato. Dino pensa che potrei esse-

re io la sua fonte.»«Ah, capisco.»«Ha qualche domanda da farmi?»Cercai di formularne una, ma non ci riuscii. «Al momento no» risposi,

stringendomi nelle spalle. «Volevo solo farmi un'idea generale, averequalche notizia in più sui Raduni.»

«Le posso raccontare qualcosa più tardi» propose Gourlay. «Dino pensache oggi magari vorrete iniziare a lavorare. Se lo desiderate, possiamo far

venire alcuni Shkeen alla Torre, oppure potete uscire voi.»«Andremo noi» dissi subito. «Spostare i soggetti fuori dal contesto altera

i risultati dell'indagine. Diventano ansiosi, e questo nasconde tutte le altreemozioni; inoltre, sono più distratti, quindi anche per Lyanna diventa piùdifficile.»

«Bene» concluse Gourlay. «Dino vi ha messo a disposizione un'aeromo-bile; la trovate giù all'ingresso. C'è anche un paio di chiavi dell'ufficio, cosìpotrete salire direttamente senza passare dalle segretarie e tutto il resto.»

«Grazie, a più tardi.» Spensi il videofono e tornai in camera da letto.Lya si era messa a sedere, con le coperte avvolte attorno alla vita. Le an-

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dai vicino e la baciai. Lei sorrise, ma non rispose al bacio. «Ehi, che suc-cede?» domandai.

«Mal di testa» replicò. «Pensavo che quelle pastiglie servissero a evitarei postumi della sbronza.»

«In teoria sì. Su di me hanno fatto un ottimo lavoro.» Mi avvicinaiall'armadio per cercare qualcosa da mettere. «Da qualche parte ci sarannodelle pillole per il mal di testa. Sono sicuro che Dino non ha tralasciato unparticolare così ovvio.»

«Mah, passami qualcosa da mettere.»Presi una delle sue tute da lavoro e gliela lanciai dall'altra parte della

stanza. Lya si alzò e la infilò, mentre io mi vestivo; poi andò in bagno.«Meglio» esclamò poi. «Avevi ragione, non ha dimenticato le medici-

ne.»«È un tipo che non lascia le cose a metà.»Lya sorrise. «Credo anch'io. Però Laurie sa meglio lo shkeen. L'altra

notte l'ho scandagliata e Dino aveva fatto un paio di errori nella traduzio-ne.»

Me l'ero immaginato, ma era comprensibile: Valcarenghi aveva quattromesi di svantaggio, stando a quanto avevano detto. Annuii. «Hai lettoqualcos'altro?»

«No. Ho tentato con gli oratori, ma erano troppo lontani.» Si avvicinò emi prese la mano. «Oggi dove andiamo?»

«A Shkeentown» risposi. «Cerchiamo qualche Congiunto: ieri non ne hovisto nessuno.»

«La cerimonia dell'Unione è per quelli che lo devono ancora diventare.»Lasciammo la stanza. Ci fermammo al quarto piano per una tarda cola-

zione nel bar della Torre, poi prendemmo l'aeromobile che ci indicò unaddetto alla reception. Era una quattro posti verde coupé, molto comune e

poco appariscente.Non arrivai in volo fino alla città shkeen, perché pensavo che avremmo

percepito di più la sua atmosfera muovendoci a piedi. Così parcheggiai ap-pena dopo la prima fila di colline, e Lya e io ci incamminammo.

La città umana era sembrata quasi vuota; Shkeentown, invece, brulicavadi vita. Le strade acciottolate erano gremite di alieni, che andavano da unaparte all'altra indaffarati, portando pile di mattoni, ceste piene di frutta o di

vestiti. E dappertutto c'erano bambini, per lo più nudi; grasse palle aran-cioni di energia ci correvano intorno sibilando, grugnendo e sogghignando,

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strattonandoci di tanto in tanto. Il loro aspetto era diverso da quello degliadulti. Innanzitutto avevano qualche ciocca di capelli rossicci, e poi la loropelle era ancora liscia e senza rughe. Erano gli unici che mostravano di ac-corgersi di noi. Gli Shkeen adulti si occupavano solo delle loro faccende,rivolgendoci di tanto in tanto un sorriso amichevole. Evidentemente gliumani non erano poi così inusuali in giro per Shkeentown.

Nelle strade si vedevano per lo più pedoni e molti carrettini di legno. Glianimali da tiro degli Shkeen assomigliavano a grandi cani verdi sul puntodi vomitare. Erano attaccati a due a due al carretto, e mentre tiravano con-tinuavano a lamentarsi. Per questo gli umani li avevano soprannominati"piagnoni". Per di più, defecavano senza sosta, e il fetore dei loro escre-menti, unito agli odori dei cibi venduti per strada e degli Shkeen stessi,

contribuiva al tanfo penetrante tipico della città.Regnava anche un rumore, un chiasso costante. I fischi dei bambini, gli

Shkeen che parlavano a voce alta con grugniti, gemiti e strilli, i piagnoniche uggiolavano e i carretti che sferragliavano sull'acciottolato. Lya e iopassammo in mezzo a tutto questo senza scambiare una parola, mano nellamano, osservando, ascoltando, annusando e... scandagliando.

Io ero totalmente aperto quando entrai nel cuore di Shkeentown, prontoa lasciarmi invadere da tutto mentre camminavo svagato ma ricettivo. Ero

il centro di una bolla di emozioni: le sensazioni mi sommergevano quandogli Shkeen si avvicinavano e si ritiravano quando loro si allontanavano,sempre circondati da frotte di bambini saltellanti. Galleggiavo in un maredi impressioni, e la cosa mi spaventava.

Mi spaventava perché era tutto così familiare. Avevo già scandagliato al-tri alieni; qualche volta era più difficile, altre più facile, ma non era maipiacevole. I Hrangan hanno menti inacidite, piene di odio e di rancore, equando finisco ho la sensazione di essere sporco. I Fyndii provano emo-

zioni così tenui che riesco a stento a percepirle. I Damoosh, invece, sonoun caso a sé: le loro emozioni sono forti, anche se non so dare loro un no-me.

Con gli Shkeen invece... era come passeggiare per le strade di Baldur.Anzi, per le strade di una Colonia Perduta, quando un insediamento umanoè ritornato alla barbarie, immemore delle proprie origini. Qui le emozioniumane imperversavano, forti, reali e primitive, però meno sofisticate chesu Vecchia Terra o su Baldur. Gli Shkeen erano forse primitivi, ma facil-

mente comprensibili. Leggevo gioia e dolore, invidia, rabbia, ripicca, ran-core, desiderio, sofferenza. La stessa inebriante miscela che mi travolgeva

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ovunque, quando le permettevo di entrare.Anche Lya stava leggendo, avvertivo la tensione della sua mano nella

mia. Quando sentii che si rilassava, mi voltai, e lei colse la domanda neimiei occhi.

«Sono come noi» disse.Annuii. «Forse un'evoluzione parallela. Shkea potrebbe essere una Terra

più vecchia, con qualche piccola differenza. Però hai ragione: sono piùumani delle altre razze che abbiamo incontrato nello spazio.» Ci rifletteiun po'. «È questa allora la risposta alla domanda di Dino? Se sono comenoi, anche la loro religione sarà più attraente di quelle veramente aliene.»

«No, non penso, anzi» replicò Lya. «Essendo come noi, è ancora più in-concepibile che vadano a morire così volentieri, non credi?»

Certo, aveva ragione. Non c'era alcuna tendenza suicida nelle emozioniche percepivo, nulla di instabile, di realmente anomalo. Eppure tutti gliShkeen prima o poi andavano all'Unione Finale.

«Dobbiamo concentrarci su qualcuno» proposi. «Questa baraonda dipensieri non ci porta da nessuna parte.» Stavo guardandomi intorno alla ri-cerca del soggetto giusto, quando cominciai a sentire i campanelli.

Il suono proveniva da sinistra, appena distinguibile tra i rumori della cit-tà. Presi Lya per la mano e iniziammo a cercare da dove veniva; corremmo

in fondo alla strada, poi a sinistra, al primo varco tra le file ordinate di cu-pole.

I campanelli erano più avanti, noi continuammo a correre, attraversandoquello che probabilmente era il giardino di qualcuno e scavalcando lo stec-cato di un boschetto di dolcicorni. Dietro c'era un altro giardino, un deposi-to di concime, altre cupole e alla fine una strada, dove trovammo i suona-tori.

Erano quattro, tutti Congiunti, con lunghe tuniche rosse che strascicava-

no nella polvere e grandi campanelli di bronzo in entrambe le mani. Conti-nuavano a suonarli senza sosta, con le lunghe braccia che oscillavano a-vanti e indietro, e le note acute, metalliche, riempivano la strada. Eranotutti e quattro anziani, calvi e con miriadi di rughe come tutti gli Shkeen.Le loro facce erano illuminate da ampi sorrisi e gli Shkeen più giovani chepassavano sorridevano a loro volta.

Ciascuno aveva un Greeshka sulla testa.Mi aspettavo fossero creature ripugnanti, ma non era così. Piuttosto, va-

gamente inquietanti, ma solo perché sapevo che cosa significavano. I pa-rassiti erano una sorta di aloni luccicanti di una sostanza gelatinosa color

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cremisi, e la loro misura andava da una verruca pulsante dietro il cranio fi-no a un grande drappo rosso, gocciolante e semovente, che copriva la testae le spalle come un cappuccio vivo. Sapevo che il Greeshka succhia i nu-trienti contenuti nel sangue degli Shkeen.

E così lentamente, molto lentamente, consuma il suo ospite.Ci fermammo a qualche metro di distanza, e li guardammo suonare. Il

viso di Lya aveva un'espressione grave e solenne, come penso anche il mi-o. Tutti gli altri sorridevano, e le musiche dei campanelli erano inni allagioia. Strinsi forte la mano di Lyanna e le sussurrai: «Leggi».

Scandagliammo entrambi.Io analizzai i campanelli: non il suono, ma la sensazione, l'emozione,

l'intensa gioia fragorosa, il rumore stridulo, squillante, strepitante, il canto

dei Congiunti, il loro senso di unione e di condivisione. Percepii quello cheessi provavano suonando, la felicità e l'attesa, l'estasi nel comunicare aglialtri la loro strepitante contentezza. E lessi l'amore, che arrivava a caldeondate: l'amore passionale e possessivo tra un uomo e una donna, non l'af-fetto annacquato di chi "ama" i suoi fratelli. Era un sentimento vero e ar-dente, che quasi bruciava quando arrivò e mi circondò. Amavano se stessie tutti gli Shkeen, i Greeshka, si amavano l'un l'altro e amavano noi, ci a-mavano, mi amavano con il calore e la veemenza con cui mi amava Lya. E

insieme all'amore, percepivo un senso di appartenenza, di comunione. Era-no quattro, l'uno diverso dall'altro, eppure pensavano come un essere solo,si appartenevano a vicenda e appartenevano al Greeshka, ed erano tutti in-sieme, uniti, pur continuando a restare ognuno se stesso, anche se nessunopoteva leggere nell'altro come io leggevo loro.

E Lyanna? Lasciai perdere i suonatori, chiusi il collegamento e la guar-dai. Era pallida ma sorridente. «Sono meravigliosi» disse con un filo divoce, estasiata. Immerso nell'amore, ricordai quanto l'amassi, come io fa-

cessi parte di lei e lei di me.«Che cosa hai letto?» chiesi esitante, cercando di sovrastare il frastuono

incessante dei campanelli.Lya scosse la testa, come per schiarirsi le idee. «Ci amano» rispose.

«Penso che tu lo sappia, ma io... l'ho sentito: ci amano davvero, e così pro-fondamente! E sotto l'amore c'è altro amore, e poi ancora, e ancora. Le loromenti hanno un tale spessore, e sono così aperte... Non credo di aver mailetto un essere umano così a fondo. È tutto lì, a disposizione, in superficie:

le loro vite, i sogni, le memorie, i sentimenti e... questo l'ho capito, l'hocolto solo con una lettura, con un'occhiata. Con gli umani è così difficile:

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devo scavare, lottare, e comunque non scendo più di tanto. Tu lo sai, Robb,mi capisci. Oh, Robb!» Si strinse a me; io la abbracciai. Il torrente di emo-zioni che si era riversato su di me, nel suo caso doveva essere stata unamarea. Aveva un Talento più grande e profondo del mio, e adesso stavatremando. La scandagliai mentre si aggrappava a me, e lessi amore, tanfoamore, e meraviglia, felicità, ma anche paura, un turbine di paura e preoc-cupazione.

A un certo punto il suono attorno a noi si placò. I campanelli, l'uno dopol'altro, smisero di vibrare, e i quattro Congiunti restarono in silenzio. UnoShkeen si avvicinò con un grande cesto coperto da un canovaccio. Quandoil Congiunto più basso di statura lo aprì, l'aroma di involtini di carne caldiinvase la strada. Ognuno attinse dal cesto, e in breve erano tutti intenti a

masticare felici e contenti, con il proprietario degli involtini che li guarda-va sorridendo. Una bambina shkeen senza vestiti arrivò di corsa e offrì lo-ro una brocca d'acqua, che si passarono l'un l'altro senza commenti.

«Che cosa sta succedendo?» chiesi a Lya. Poi, prima che lei rispondesse,mi venne in mente una cosa che avevo letto fra il materiale inviato da Val-carenghi: i Congiunti non lavoravano. Dai quarant'anni in poi dormivano esi lavavano, ma dalla Prima Unione fino all'Unione Finale la loro vita erasolo musica e gioia; camminavano per le strade, scuotevano i campanelli,

discorrevano e suonavano, mentre altri Shkeen provvedevano a dar loro damangiare e da bere. Era un onore nutrire un Congiunto, e lo Shkeen cheaveva offerto gli involtini irradiava orgoglio e soddisfazione.

«Prova a leggerli adesso» mormorai.Lya annuì appoggiata al mio petto, si scostò e cominciò a fissare i Con-

giunti; il suo sguardo si indurì. Quando ritornò normale, si voltò verso dime e disse, stupita: «È diverso».

«In che senso?»

Lei socchiuse gli occhi perplessa. «Non saprei, cioè, ci amano ancora etutto il resto, ma adesso i loro pensieri sono, per così dire, più umani. Cisono vari livelli, e non è facile scendere in profondità: ci sono zone segre-te, inaccessibili anche a loro stessi. Non sono più aperti come prima; ades-so pensano al cibo, a quanto è gustoso. È tutto molto vivido, potrei sentireil sapore di quegli involtini, ma è diverso da prima.»

Mi venne un'ispirazione. «Quante menti hanno adesso?»«Quattro» rispose. «Sono collegate, direi, ma non totalmente.» Lya si

bloccò, confusa, e scosse la testa. «Sai, è come se percepissero l'uno leemozioni dell'altro, un po' come fai tu, credo. Però non i pensieri, non con

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precisione. Io li posso leggere, ma loro non possono leggersi a vicenda.Ognuno è separato. Prima, invece, mentre suonavano, erano uniti, pur a-vendo ognuno la propria individualità.»

Ero un po' deluso. «Quindi quattro menti anziché una?»«Così pare.»«E i Greeshka?» Avevo avuto un'altra brillante intuizione: se i Greeshka

avevano menti proprie...«Zero» rispose Lya. «È come leggere una pianta o un pezzo di stoffa.

Nemmeno un sì-io-vivo.»Era strano. Persino gli animali di livello inferiore avevano una vaga co-

scienza di esistere che i Talenti chiamavano "sì-io-vivo": per lo più unadebole fiammella che solo chi possedeva poteri psichici superiori riusciva

a distinguere. Ma Lya li possedeva.«Proviamo a parlare con loro» proposi. Lei annuì, e ci avvicinammo ai

Congiunti che stavano mangiando. «Salve» salutai goffamente, chieden-domi come saremmo riusciti a comunicare. «Parlate ferrano?»

Tre di loro mi guardarono senza capire, ma il quarto, un piccoletto con ilGreeshka a forma di mantellina rossa increspata, mosse la testa su e giù.«Sì» rispose con voce acuta e penetrante.

Improvvisamente dimenticai quello che volevo chiedere, ma Lyanna mi

venne in aiuto. «Sapete se ci sono umani Congiunti?» domandò.Lui sorrise. «I Chiongiunti sono tutti uguali» rispose.«Sì, certo» interloquii «ma ne conoscete qualcuno che ci assomiglia? Al-

to, con i capelli e la pelle rosa, o scura, o di qualche altro colore?» Mi in-terruppi di nuovo, imbarazzato, incerto sulla sua conoscenza del ferrano etenendo d'occhio con un po' d'apprensione il suo Greeshka.

La testa del vecchio si mosse da sinistra a destra. «I Chiongiunti sonotutti diversi, ma sono un'unica chiosa, sempre uguale. Qualchiuno che ti

assomiglia. Ti vuoi chiongiungere?»«No, grazie» mi affrettai a rispondere. «Dove posso trovare un Congiun-

to umano?»Lui scosse di nuovo la testa. «I Chiongiunti cantano, suonano e cammi-

nano per le strade della città sacra.»Lya lo aveva scandagliato. «Non lo sa» mi disse. «Ognuno vaga con i

suoi campanelli. Non hanno regole, nessuno sa dove sono gli altri. È tuttolasciato al caso. Certi si spostano in gruppo, altri da soli, e nuove aggrega-

zioni si formano ogni volta che si incontrano.»«Dovremo metterci a cercare» conclusi.

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«Mangiate» ci invitò lo Shkeen. Infilò la mano nel cesto appoggiato aterra ed estrasse due involtini fumanti. Ne diede uno a me e uno a Lya.

Guardai il cibo, incerto sul da farsi. «Grazie» dissi, poi presi Lya con lamano libera e ci rimettemmo in marcia. I Congiunti ci sorrisero mentre ciallontanavamo e prima che fossimo arrivati a metà della strada avevano giàripreso a suonare.

Avevo ancora l'involtino in mano, la crosta mi ustionava le dita. «Cosafaccio, lo mangio?» chiesi a Lya.

Lei diede un morso al suo. «Perché no? Erano anche nel menu di ieri se-ra, no? E di certo Valcarenghi ci avrebbe messi in guardia se il cibo localefosse velenoso.»

Il suo ragionamento non faceva una grinza, per cui portai l'involtino alla

bocca e diedi un morso camminando. Era caldo e piccante, e non assomi-gliava affatto a quelli che avevamo mangiato la sera prima. Al ristorante ciavevano servito delicati bocconcini di carne avvolti in una pasta sfogliadorata, aromatizzati con arancispezia di Baldur; la versione shkeen, invece,era più crostosa, il ripieno gocciolava unto e anestetizzava il palato daquanto era piccante. Però era buono e io avevo fame, per cui l'involtinosparì in un lampo.

«Hai captato qualcos'altro mentre leggevi il piccoletto?» chiesi a Lya

con la bocca piena.Lei deglutì, facendo cenno di sì con la testa. «Era felice, più ancora degli

altri. È più anziano di loro, non gli manca molto all'Unione Finale ed èmolto eccitato.» Parlava tranquillamente come sempre; i postumi della let-tura dei Congiunti sembravano essere stati smaltiti.

«Perché?» riflettei a voce alta. «Sta per morire, che cosa lo rende feli-ce?»

Lya si strinse nelle spalle. «Non aveva pensieri precisi, mi spiace.»

Mi leccai le dita per non perdere neanche l'ultima goccia di grasso. Era-vamo a un incrocio, con gli Shkeen che si agitavano attorno a noi in tuttele direzioni, e il vento ci portò il suono di altri campanelli. «Altri Congiun-ti» esclamai. «Andiamo a vedere?»

«Che cosa pensi di scoprire di nuovo? Ci serve un Congiunto umano.»«Forse tra loro c'è un umano.»Lya mi fulminò con lo sguardo. «Sì, e quante probabilità ci sono?»«D'accordo» concessi, ormai era tardo pomeriggio. «Forse è meglio ri-

entrare. Inizieremo presto domattina. Tra l'altro, Dino probabilmente ci a-spetterà per cena.»

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 Questa volta la cena venne servita nell'ufficio di Valcarenghi, previa in-

troduzione di un piccolo pezzo d'arredamento aggiuntivo. Il suo apparta-mento, si venne poi a sapere, era al piano di sotto, ma lui preferiva riceverelì i suoi ospiti, dove potevano ammirare la splendida vista dalla Torre.

Eravamo in cinque: Lya e io, Laurie, Valcarenghi e Gourlay. CucinòLaurie, sotto la supervisione dello chef Valcarenghi. Bistecche di bovini diorigine terrana allevati a Shkea, accompagnate da un affascinante assorti-mento di verdure, tra cui funghi di Vecchia Terra, boccioli di Baldur e dol-cicorni di Shkea. A Dino piaceva sperimentare, e il piatto era una sua in-venzione.

Lya e io facemmo un rapporto dettagliato della giornata, interrotto solo

dalle domande perspicaci di Valcarenghi. Dopo cena, sparecchiato e porta-to via il tavolo, ci sedemmo in ordine sparso a bere veltaar e a chiacchiera-re. A quel punto eravamo Lya e io a fare le domande, mentre Gourlay for-niva gran parte delle risposte. Valcarenghi ascoltava, seduto per terra su uncuscino, tenendo un braccio attorno alle spalle di Laurie e un bicchierenell'altra mano. Non eravamo i primi Talenti arrivati a Shkea, ci spiegòGourlay, e nemmeno gli unici ad aver notato che gli Shkeen erano similiagli umani.

«Suppongo che significhi qualcosa, ma non so cosa» disse. «Di certonon sono umani. Tanto per cominciare sono molto più socievoli. Ottimicostruttori di piccoli edifici da lungo tempo, vivono sempre in comunità,sempre in mezzo agli altri, e hanno un senso più forte della collettività.Cooperano a tutti i livelli e sono sempre disposti a condividere. Per fare unesempio, il commercio per loro è una forma di mutua partecipazione.»

Valcarenghi rise. «Ti prego di ripeterlo. Ho passato tutto il giorno a cer-care di stilare un contratto con un gruppo di coltivatori che facevano affari

con noi per la prima volta. Non è stato facile, vi assicuro. Ci daranno lamerce che chiediamo solo se non servirà a loro e se nessun altro glielachiederà prima. In cambio, però, vogliono avere tutto quello di cui avrannobisogno in futuro. È così, se lo aspettano. Per cui ogni volta che trattiamo,dobbiamo scegliere: o consegnare loro un assegno in bianco, oppure af-frontare un'incredibile quantità di colloqui negoziali, da cui escono convin-ti che siamo degli emeriti egoisti.»

Lya voleva saperne di più. «E il sesso?» domandò. «Da quello che avete

tradotto ieri sera, ho avuto l'impressione che siano monogami.»«Le loro idee sulle relazioni sessuali sono piuttosto confuse» rispose

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Gourlay. «È molto strano. Vedete, il sesso significa condividere, ed è giu-sto condividere con tutti; ma dev'essere una condivisione reale e pregnan-te, e questo crea dei problemi.»

Laurie si raddrizzò, interessata. «Ho approfondito l'argomento» disse ra-pidamente. «Secondo la morale degli Shkeen bisogna amare tutti, però nonci riescono, sono troppo umani, troppo possessivi. Finiscono per avere re-lazioni monogame, perché nella loro cultura una relazione sessuale vera eprofonda con una persona è meglio di milioni di brevi scambi solo a livellofisico. L'ideale per loro sarebbe condividere il sesso con tutti, che ogni u-nione avesse la stessa intensità, ma è un ideale irraggiungibile.»

Mi accigliai. «L'altra sera, però, c'era qualcuno che si sentiva in colpaper avere tradito la moglie.»

Laurie annuì prontamente. «Sì, ma la colpa stava nel fatto che le altre re-lazioni avevano diminuito l'intensità dello scambio con la moglie: stava inquesto il tradimento. Se fosse riuscito a non danneggiare la relazione co-niugale precedente, il sesso non sarebbe stato un problema. Se tutte le rela-zioni fossero state veri scambi d'amore, sarebbe anzi stato un vantaggio.La moglie sarebbe stata fiera di lui. Per uno Shkeen è un successo avereuna relazione molteplice felice!»

«E uno dei crimini peggiori è lasciare qualcuno emotivamente solo, sen-

za scambi affettivi» precisò Gourlay.Riflettei su quel punto, mentre Gourlay proseguiva con la spiegazione.

Gli Shkeen commettevano pochi crimini, disse. Soprattutto non esistevanocrimini violenti: nella loro lunga storia niente omicidi, pestaggi, guerre oprigioni.

«Sono una razza senza assassini» commentò Valcarenghi «il che puòspiegare molte cose. Su Vecchia Terra, le culture con le più alte percentua-li di suicidi spesso registravano anche la minore presenza di omicidi, e il

suicidio presso gli Shkeen riguarda il cento per cento della popolazione.»«Però uccidono gli animali» osservai.«Non rientrano nell'Unione» spiegò Gourlay. «L'Unione abbraccia tutti

gli esseri pensanti, e questi non possono essere uccisi. Non uccidono né al-tri Shkeen, né gli umani o i Greeshka.»

Lya guardò prima me, poi Gourlay, quindi obiettò: «Ma i Greeshka nonpensano. Questa mattina ho provato a leggerli ma non ho trovato niente, aparte le menti degli Shkeen cui erano attaccati. Nemmeno un sì-io-vivo».

«Lo sappiamo, e la cosa mi ha sempre lasciato perplesso» aggiunse Val-carenghi, alzandosi. Si diresse verso il bar, aprì un'altra bottiglia e ci riem-

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pì i bicchieri. «Si tratta di un parassita totalmente irrazionale, di cui unarazza intelligente come quella degli Shkeen è in totale balia: perché?»

Il vino era buono e fresco, una cascata gelida nella gola. Lo bevvi e an-nuii, ricordando la sensazione di euforia che avevamo provato quella mat-tina. «Droga» dissi, meditabondo. «I Greeshka devono produrre qualcheendorfina di origine organica, gli Shkeen si sottomettono volontariamentee muoiono felici. La gioia è reale, credetemi, noi l'abbiamo sentita.»

Lyanna, però, sembrava perplessa, e Gourlay scosse la testa. «No, Robb,è impossibile. Abbiamo fatto degli esperimenti sui Greeshka e...»

Doveva aver notato il movimento delle mie sopracciglia, perché si fer-mò.

«Che reazione hanno avuto gli Shkeen, al riguardo?» chiesi.

«Non gliel'abbiamo detto, non avrebbero gradito. Il Greeshka è solo unanimale, ma è il loro Dio. E, come sapete, con le divinità non si scherza. Cisiamo trattenuti per molto tempo, ma quando Gustaffson si convertì, ilvecchio Stuart doveva sapere. L'ordine venne da lui. Fu comunque un buconell'acqua: nessuna sostanza stimolante, nessuna secrezione, niente. Di fat-to gli Shkeen sono l'unica forma di vita indigena che si sottometta così fa-cilmente. Abbiamo provato con un piagnone, sapete, lo abbiamo legato epoi gli abbiamo messo sopra un Greeshka. Dopo un paio d'ore, lo abbiamo

dovuto liberare. Il piagnone era furibondo, strideva e guaiva, cercando ditogliersi quella roba dalla testa. Si era ridotto quasi il cranio a brandelliprima di riuscirci.»

«Forse gli Shkeen sono gli unici sensibili» azzardai, in un debole tenta-tivo di salvare la mia ipotesi.

«A quanto pare no» replicò Valcarenghi accennando un sorriso. «Anchenoi.»

Lya era stranamente silenziosa nel tubo ascensionale, quasi scostante.Credevo stesse ripensando all'ultima conversazione, ma quando la portadella suite si chiuse alle nostre spalle si voltò verso di me e mi gettò lebraccia al collo.

L'abbracciai, carezzandole i morbidi capelli castani, un po' allarmato.«Ehi, che ti succede?» mormorai.

Fragile tra le mie braccia, con gli occhi enormi, mi lanciò uno dei suoisguardi da vampira. «Fa' l'amore con me, Robb» disse con un'urgenza dol-

ce e improvvisa. «Ti prego, fa' subito l'amore con me.»Sorrisi, ma era un sorriso un po' perplesso, non il mio solito sogghigno

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lascivo da letto. In genere, quando Lya è arrapata diventa seduttrice e ma-liziosa, questa volta invece sembrava angosciata e vulnerabile. Non riusci-vo a capire.

Non era però il momento di fare domande. La tirai verso di me senza di-re niente, la baciai con passione, poi ci spostammo in camera da letto.

Facemmo l'amore, facemmo davvero l'amore, più intensamente di quan-to riescano anche solo a immaginare i poveri Normali. Fondemmo i nostricorpi, e sentii Lya irrigidirsi quando la sua mente si congiunse con la mia.E mentre ci muovevamo insieme, mi aprii a lei, sommerso dall'onda diamore, bisogno e paura che sentivo provenire da lei.

Poi, così come era iniziato finì. Il suo piacere mi travolse con un'ondarosso vivo; io la raggiunsi sulla cresta e Lya si strinse forte a me, e i suoi

occhi si rimpicciolirono nell'estasi dell'appagamento.Restammo sdraiati al buio, lasciando che la luminosità delle stelle di

Shkea filtrasse attraverso la vetrata. «È stato bello» dissi con voce asson-nata e sognante, sorridendo nell'oscurità tempestata di stelle.

«Sì» rispose lei, e la sua voce era dolce e così fioca che stentavo a udirla.«Ti amo, Robb» sussurrò.

«Mmm, io amo te» risposi.Lya si divincolò dal mio abbraccio, puntellò la testa con una mano per

guardarmi e sorrise. «È vero, lo leggo» disse. «Lo so; così come tu saiquanto ti amo io, vero?»

Annuii, sorridendo. «Certo.»«Siamo fortunati, sai? I Normali hanno solo le parole, poverini. Come

fanno a esprimersi in quel modo? Come possono sapere? Sono sempre se-parati e cercano inutilmente di stabilire un contatto. Anche quando fannol'amore, quando hanno l'orgasmo, sono comunque divisi. Devono sentirsimolto soli.»

C'era qualcosa... di stonato. Ci pensai su, fissando lo sguardo negli occhisplendenti e radiosi di Lya. «Può darsi» commentai poi. «Ma per loro nonè una tragedia: non conoscono altri modi, e ci provano, amano anche loro,a volte riescono a colmare la distanza.»

«Solo uno sguardo e una voce, poi di nuovo oscurità e il silenzio» citòLya in tono triste e commosso. «Noi siamo più fortunati, vero? Abbiamomolto di più.»

«Siamo più fortunati» ripetei, accingendomi a leggerla. La sua mente era

una bruma di soddisfazione, con una sottile venatura di malinconia, solitu-dine e desiderio; ma c'era qualcos'altro, in fondo, ormai quasi dissolto ma

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ancora vagamente distinguibile.Mi alzai lentamente. «C'è qualcosa che ti preoccupa» dissi «e prima,

quando siamo arrivati, eri spaventata. Che cosa ti succede?»«Non lo so» rispose. Sembrava confusa, e in effetti lo era, lo leggevo.

«Ero spaventata, ma non so perché. Penso per via dei Congiunti: continuoa pensare a quanto mi amavano. Non mi conoscevano nemmeno, eppuremi amavano infinitamente e capivano... quasi come succede tra noi e, nonso, questo mi ha turbato. Pensavo di non poter mai essere amata così, senon da te; erano così vicini, così intimi. Ho provato una certa solitudine, atenerci solo per mano e parlare. Avevo voglia di essere con te in quel mo-do. Dopo aver visto come condividevano tutto, essere sola mi ha dato unsenso di vuoto, mi ha spaventato, capisci?»

«Sì» dissi, accarezzandola piano, con la mano e con la mente. «Capisco;noi ci capiamo, siamo quasi come loro, come i Normali non potranno maiessere.»

Lya annuì, sorrise e mi abbracciò. Ci addormentammo l'uno nelle brac-cia dell'altra.

Altri sogni, ma di nuovo, all'alba, il ricordo svaniva. Una vera seccatura.Era stato un sogno piacevole, confortante, volevo richiamarlo e non riusci-

vo nemmeno a ricordare che cosa fosse. La nostra camera, inondata dallaluce del giorno, sembrava scialba rispetto alla fulgida visione che avevoperduto.

Lya si svegliò dopo di me, di nuovo con il mal di testa. Questa volta a-veva le pillole a portata di mano, vicino al letto. Fece una smorfia e ne pre-se una.

«Dev'essere il vino shkeen» le dissi. «Ci sarà dentro qualcosa che non vabene per il tuo metabolismo.»

Mi guardò di traverso, mentre si infilava una tuta pulita. «L'altra seraabbiamo bevuto veltaar, ricordi? Mio padre mi ha dato il primo bicchierequando avevo nove anni, e non mi ha mai fatto venire mal di testa.»

«C'è sempre una prima volta!» esclamai sorridendo.«C'è poco da ridere» disse. «Mi fa male.»Smisi di scherzare e cercai di leggerla. Aveva ragione, sentiva proprio

male. Tutta la fronte le pulsava per il dolore. Mi tirai subito indietro, primache prendesse anche me. «Scusa, mi dispiace» dissi. «Comunque tra poco

le pillole ti faranno stare meglio. Nel frattempo dobbiamo metterci in mo-to.»

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Lya annuì. Non permetteva mai che qualcosa interferisse con il lavoro.Il secondo giorno c'era in programma la caccia all'uomo. Uscimmo pre-

sto e, dopo aver fatto colazione con Gourlay, ritirammo la nostra aeromo-bile davanti all'entrata della Torre.

Questa volta non atterrammo alla periferia di Shkeentown: cercavamoun Congiunto umano, quindi dovevamo fare una ricerca a tappeto. Era lacittà più grande che avessi mai visto, o almeno della zona, e le migliaia diseguaci umani erano disseminati fra milioni di Shkeen, e solo la metà circadi quegli umani erano effettivamente Congiunti.

Volavamo bassi, su e giù per le colline punteggiate di cupole, come sumontagne russe fluttuanti, provocando un certo scalpore nelle strade sotto-stanti. Non era la prima volta che gli Shkeen vedevano un'aeromobile, cer-

to, ma rappresentava ancora una certa novità, soprattutto per i bambini, checercavano di correrci dietro quando passavamo sfrecciando. Spaventammoanche un piagnone, facendogli rovesciare il suo carretto pieno di frutta. Misentii in colpa per questo, e da allora mi tenni a quota più alta.

C'erano Congiunti in tutta la città, che cantavano, mangiavano, cammi-navano e suonavano i loro immancabili campanelli di bronzo. Nelle primetre ore trovammo solo Congiunti shkeen: Lya e io ci davamo il cambio allaguida e nella perlustrazione e, dopo l'eccitazione del giorno precedente,

quella ricerca era noiosa e stancante.Alla fine, però, trovammo qualcosa dietro una delle colline più elevate:

un grande gruppo di Congiunti, ben dieci, attorno a un carretto del pane.Due di loro erano più alti degli altri.

Atterrammo dall'altra parte della collina e facemmo il giro a piedi perraggiungerli, lasciando l'aeromobile circondata da una frotta di bambinishkeen. Quando arrivammo da loro, i Congiunti stavano ancora mangian-do. Otto erano Shkeen, di varie dimensioni e colori, con i Greeshka palpi-

tanti sul cranio; gli altri erano umani.Indossavano la stessa lunga tunica rossa degli Shkeen e portavano gli

stessi campanelli. Uno era alto, con la pelle flaccida, come chi abbia persomolti chili in poco tempo; aveva i capelli bianchi e ricci, il volto illuminatoda un ampio sorriso e le rughe di chi ride attorno agli occhi. L'altro sem-brava una faina: magro, scuro, con un grande naso adunco.

Entrambi avevano un Greeshka sulla testa. Il parassita dell'uomo magroera poco più grande di un francobollo; quello dell'altro, invece, era un e-

semplare ragguardevole che gli scendeva sulle spalle e sulla schiena.Non so perché, questa volta trovai lo spettacolo ripugnante.

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Lyanna e io ci avvicinammo a loro, sforzandoci di sorridere, senza scan-dagliarli, almeno all'inizio. I Congiunti ci sorrisero, poi ci salutarono anchecon la mano.

«Salve» esordì lo smilzo, in tono cordiale. «Non vi ho mai visti prima;siete da poco a Shkea?»

Restai un po' sorpreso. Mi aspettavo una sorta di confuso saluto mistico,o magari nessun saluto. Pensavo che in un modo o nell'altro gli umaniconvertiti avessero abbandonato la loro umanità per diventare simili agliShkeen: mi sbagliavo.

«Più o meno» risposi, e scandagliai la faina. Era veramente contento divederci, e sprizzava gioia e allegria. «Siamo stati incaricati di parlare conpersone come te.» Avevo deciso di giocare a carte scoperte.

Il sorriso dello smilzo si allargò oltre ogni limite. «Sono Congiunto, e fe-lice» disse. «Sarà un piacere parlare insieme. Mi chiamo Lester Kamenz.Che cosa vuoi sapere, fratello?»

Lya, al mio fianco, stava cominciando a entrare in tensione. Le avreipermesso di scandagliarlo in profondità facendogli qualche domanda.«Quando ti sei convertito al culto?»

«Quale culto?»«Quello dell'Unione.»

L'uomo annuì, e rimasi colpito dalla grottesca somiglianza tra il suo mo-do di muovere la testa e quello dell'anziano Shkeen che avevamo visto ilgiorno prima. «Io sono sempre stato nell'Unione, tu sei nell'Unione, ogniessere pensante è nell'Unione.»

«Alcuni di noi, però, non lo sanno» replicai. «E tu? Quando ti sei accor-to di essere nell'Unione?»

«Un anno fa, secondo il calendario di Vecchia Terra. Sono stato ammes-so tra i Congiunti solo qualche settimana fa. La Prima Unione è un mo-

mento di gioia. Io sono nella gioia. Adesso camminerò per le strade e suo-nerò i campanelli fino all'Unione Finale.»

«Prima che cosa facevi?»«Prima?» Il suo sguardo per un attimo si fece vacuo. «In passato mi oc-

cupavo delle macchine. Facevo funzionare i computer, nella Torre. Ma lamia vita era vuota, fratello; non sapevo di essere nell'Unione, e mi sentivosolo. C'erano solo le macchine, fredde. Adesso sono Congiunto, adesso i-o...» esitò, cercando le parole «non sono più solo.»

Entrai dentro di lui e trovai felicità e amore; adesso però c'era anche unpo' di dolore, una vaga reminiscenza del passato, il profumo di sgradevoli

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memorie. Stavano svanendo? Forse il dono che i Greeshka recavano alleloro vittime era l'oblio, il dolce immemore riposo e la fine della lotta. Chis-sà?

Decisi di fare un tentativo. «Quella cosa che hai sulla testa» dissi senzatanti preamboli «è un parassita che sta succhiando il tuo sangue, di cui sinutre. Con il passare del tempo, avrà sempre più bisogno delle sostanzeche ti servono per vivere. Alla fine comincerà a divorare la tua carne, capi-sci? Ti mangerà. Non so se farà male, comunque tu alla fine morirai. Ameno che non torni alla Torre e non te lo fai togliere con un intervento chi-rurgico. Forse potresti farlo anche da solo. Perché non ci provi? Basta chelo prendi e lo tiri via. Forza!»

Mi aspettavo... che cosa? Rabbia? Orrore? Disgusto? Non vidi niente di

tutto questo. Kamenz si limitò a mettersi un pezzo di pane in bocca e misorrise, e quello che lessi fu solo amore, gioia e un po' di compassione.

«Il Greeshka non uccide» disse alla fine. «Il Greeshka dà gioia e Unionefelice. Solo quelli senza Greeshka muoiono, perché... sono soli. Sì, soli persempre.» Nella sua mente passò come un brivido di paura, ma svanì subi-to.

Lanciai un'occhiata a Lya. Era rigida e con lo sguardo fisso, stava ancoraleggendo. Mi voltai di nuovo per fargli un'altra domanda, ma il Congiunto

improvvisamente ricominciò a suonare. Uno degli Shkeen aveva dato il vi-a, muovendo su e giù il campanello che produceva un suono acuto; poi a-veva fatto oscillare l'altra mano, poi di nuovo la prima, alternate, e alloratutti si erano messi a suonare e il tintinnio dei campanelli si infrangevacontro le mie orecchie mentre la gioia, l'amore e la sensazione emanata daquella musica si impadronivano di nuovo della mia mente.

Indugiai ad assaporare quelle emozioni: c'erano un amore così grandeche mozzava il fiato, quasi spaventoso per calore e intensità, e una sensa-

zione di condivisione così profonda che avevano dello stupefacente e face-vano venire voglia di mettersi a ballare, una sorta di arazzo di buoni senti-menti calmanti, rassicuranti, esilaranti. Suonando i Congiunti subirono unatrasformazione, qualcosa li toccò, li elevò e conferì loro più ardore, qual-cosa di strano e glorioso che i Normali non possono sentire nella loro mu-sica dai suoni dissonanti. Io, però, non sono un Normale, e quindi sentivo.

Mi tirai indietro a malincuore, lentamente. Kamenz e l'altro uomo adessostavano scampanellando vigorosamente, con grandi sorrisi, occhi lucidi e

scintillanti che li trasfiguravano. Lyanna era ancora in tensione; le labbradischiuse, tremava.

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Le misi un braccio attorno alle spalle e aspettai con pazienza, seguendola musica. Lya stava continuando a leggere. Alla fine, dopo vari minuti, lascossi leggermente. Lei si voltò e mi scrutò con uno sguardo duro e distan-te. Poi batté le palpebre, i suoi occhi si dilatarono e ritornò, scuotendo latesta con espressione accigliata.

Confuso, la lessi. Strano, sempre più strano. Nella sua mente c'era unafoschia vorticosa, un turbinio di emozioni, più di quante riuscissi a coglie-re. Appena entrato, mi sentii subito perso e a disagio. Da qualche parte c'e-ra un abisso sconfinato, pronto a inghiottirmi. Almeno, questa era la miasensazione.

«Lya, che ti succede?»Lei scosse di nuovo la testa, lanciando ai Congiunti uno sguardo in cui

paura e desiderio si mescolavano in parti uguali. Ripetei la domanda.«Non lo so, Robb» rispose. «Ma non parliamone ora. Andiamo, ho biso-

gno di un po' di tempo per pensare.»«Come vuoi» dissi. Ma che cos'era successo? La presi per mano e fa-

cemmo lentamente il giro della collina per andare a riprendere l'aeromobi-le. I bambini si erano arrampicati dappertutto. Li mandai via, ridendo. Lyasi limitò a stare ferma ad aspettare, con lo sguardo perso. Avrei voluto leg-gerla ancora, ma avevo la strana sensazione di violare la sua privacy.

Tornammo rapidamente alla Torre, volando più alti e veloci che all'an-data. Io guidavo, Lya, seduta al mio fianco, fissava l'orizzonte.

«Hai scoperto qualcosa di interessante?» le chiesi, cercando di riportarela sua mente al nostro lavoro.

«Sì... no... forse.» Il tono era distratto, come se solo una parte di lei stes-se parlando con me. «Ho letto le loro vite, di tutti e due. Kamenz era unprogrammatore informatico, come ha detto. Ma non era una bella persona.Un essere gretto e meschino, senza amici, niente sesso, nulla. Viveva per

conto suo, evitava gli Shkeen, non li reggeva; in realtà, non gli piacevanessuno. Solo Gustaffson riuscì in un certo senso a penetrare la sua coraz-za. Ignorava la freddezza di Kamenz, le sue frecciatine pungenti, le battuteacide. Non reagiva, sai? Dopo un po' Kamenz cominciò ad apprezzarlo, adammirarlo. Non sono mai stati amici nel vero senso della parola, ma eracomunque il rapporto più simile all'amicizia che lui abbia mai avuto.» Lyadi colpo si bloccò.

«Così si è convertito insieme a Gustaffson?» suggerii, lanciandole

un'occhiata. Il suo sguardo era ancora perso nel nulla.«No, non subito. Aveva paura, era ancora spaventato dagli Shkeen e ter-

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rorizzato dai Greeshka. Ma quando Gustaffson aderì, cominciò a rendersiconto di quanto fosse vuota la sua vita. Lavorava tutto il giorno con perso-ne che disprezzava e macchine cui non importava niente di lui; poi passavala notte da solo a leggere e guardare spettacoli all'olovisore. Non era vita!Praticamente non aveva contatti con la gente che aveva intorno. Alla fineandò a cercare Gustaffson e si convertì. Adesso...»

«Adesso...?»Lya esitò. «È felice, Robb. Totalmente, e per la prima volta in vita sua.

Non aveva mai conosciuto l'amore, adesso lo sperimenta.»«Hai sentito molte cose» commentai.«Sì» ammise; la sua voce era ancora distratta, lo sguardo perso. «Lui era,

per così dire, predisposto. C'erano vari livelli, ma andare a fondo non è sta-

to difficile come al solito: era come se le barriere in lui fossero allentate,pronte a cedere...»

«E l'altro?»Lya passò leggermente le dita sul pannello di controllo, con gli occhi

fissi solo sulla propria mano. «L'altro? Era Gustaffson...»E poi, di colpo, sembrò ridestarsi, tornare la Lya che conoscevo e ama-

vo. Scosse la testa e mi guardò, e la voce vaga diventò un torrente di paro-le. «Robb, sai, quello era Gustaffson, è Congiunto da oltre un anno, ormai,

e tra una settimana andrà all'Unione Finale. Il Greeshka lo ha accettato, elui è d'accordo, capisci? Lo vuole davvero, e... oh, Robb, morirà!»

«Però tra una settimana, hai appena detto!»«No, cioè sì, ma non è questo il punto. L'Unione Finale, secondo lui, non

rappresenta la morte. Ci crede, ha una fede cieca in quella religione. IlGreeshka è il suo Dio, e lui va a raggiungerlo. Ma sta già morendo, in que-sto momento. Ha preso la peste lenta, Robb. È in fase terminale. Lo stamangiando dall'interno ormai da oltre quindici anni. L'ha contratta a

Nightmare, nelle paludi, quando i suoi sono morti. Quello non è un mondoper umani, ma era là come amministratore di una base di ricerca, un incari-co a breve termine. Vivevano a Thor; era solo una visita, ma la nave ebbeun incidente. Gustaffson rischiò di impazzire e fece di tutto per raggiunge-re la sua famiglia prima della fine, ma i suoi guanti di sottilpelle erano di-fettosi, e le spore passarono. E quando arrivò erano tutti morti. Provò undolore enorme, Robb. Per la peste lenta, ma soprattutto per la perdita deisuoi. Li amava davvero, e poi non fu più la stessa persona. Gli affidarono

Shkea, come forma di ricompensa, ma il suo pensiero era sempre là. Pote-vo vedere l'immagine, Robb, era molto vivida, non è mai riuscito a dimen-

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ticarla: i bambini erano dentro la nave, ma il sistema di sopravvivenza nonha funzionato e sono morti soffocati. Invece la moglie - oh, Robb - avevaindossato una tuta di sottilpelle ed era uscita in cerca di aiuto, e fuori quel-le cose, quei grandi esseri dimenanti che vivono su Nightmare...»

Mi sentivo la gola stretta e provavo un vago senso di nausea. «I mangia-vermi?» mormorai. Avevo letto di loro, e guardato degli ologrammi. Pote-vo immaginare quello che Lya aveva visto nella memoria di Gustaffson, enon era un bello spettacolo. Ero felice di non avere il suo Talento.

«Quando Gustaffson arrivò, stavano ancora... Li ha sterminati tutti conuna pistola a urlo.»

Io scossi la testa. «Non pensavo che cose del genere potessero realmentesuccedere.»

«Nemmeno Gustaffson» disse Lya. «Erano stati... così felici, prima diallora. Lui l'amava, erano una coppia molto unita, e aveva fatto una carrie-ra favolosa. Non sarebbe dovuto andare a Nightmare, sai? Aveva accettatoperché era una sfida, perché nessun altro ci sarebbe andato. Anche questolo tormenta, e il ricordo non lo lascia mai. Lui, loro...» Lya cominciò abalbettare. «Pensavano di essere fortunati» mormorò, e poi restò in silen-zio.

Non c'era altro da aggiungere. Rimasi zitto anch'io e continuai a guidare,

pensando, sentendo una versione indistinta e meno intensa di quella chedoveva essere stata la sofferenza di Gustaffson. Dopo un po', Lya riprese aparlare.

«C'era tutto questo, Robb» disse, e la sua voce era di nuovo più morbida,lenta e riflessiva. «Ma lui era in pace; ricordava tutto, anche ciò che avevasofferto, ma non gli importava più come una volta. L'unico dispiacere, inquel momento, era che loro non fossero con lui. Purtroppo erano mortisenza l'Unione Finale. Un po' come quella donna shkeen, ricordi? Quando

parlava del fratello.»«Sì, mi ricordo» risposi.«Una cosa del genere. La sua mente era aperta, ancora più di quella di

Kamenz. Quando suonava, i vari livelli svanivano e tutto veniva in super-ficie, l'amore e la sofferenza. Tutta la sua vita, Robb. Ho condiviso la suaesistenza in un attimo, e anche i suoi pensieri... Ha visto le grotte dell'U-nione... Una volta è sceso, prima di convertirsi. Io...»

Un altro silenzio calò su di noi rendendo cupa l'atmosfera nell'aeromobi-

le. Eravamo quasi ai margini di Shkeentown. La Torre si stagliava davantia noi, illuminata dal sole, e si cominciavano a scorgere le cupole e le arcate

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della città umana.«Robb» disse Lya. «Atterra qui: ho bisogno di pensare. Torna senza di

me, voglio camminare per un poco tra gli Shkeen.»La guardai allarmato. «Camminare? C'è un sacco di strada da qui alla

Torre, Lya.»«Non ti preoccupare, va bene così. Ti prego, lasciami pensare.»La scandagliai. La foschia era tornata fra i suoi pensieri, più densa che

mai, striata dei colori della paura. «Sei sicura?» chiesi. «Sei spaventata,Lyanna. Perché? Che cosa c'è che non va? I mangiavermi sono lontani.»

Lei si limitò a guardarmi, turbata. «Ti prego, Robb» ripeté.Non sapevo che cos'altro fare, per cui atterrai.

Pensai anch'io, mentre guidavo l'aeromobile verso la Torre, a quello cheLyanna aveva detto, e letto, di Kamenz e Gustaffson. Concentrai la mia at-tenzione sul problema che dovevamo risolvere. Cercai di tenere fuori Lyae quello che la spaventava. La cosa si sarebbe risolta da sé, pensavo.

Una volta arrivato alla Torre, non persi tempo. Andai direttamentenell'ufficio di Valcarenghi: lo trovai da solo, che dettava a una macchina.Smise appena entrai.

«Ciao, Robb» mi salutò. «Dov'è Lya?»

«A fare una passeggiata. Aveva bisogno di pensare. Ho riflettuto anch'i-o, e credo di avere la risposta che cercavi.»

Lui inarcò le sopracciglia, in attesa.Mi sedetti. «Questo pomeriggio abbiamo trovato Gustaffson, e Lya lo ha

scandagliato. Penso che sia chiaro perché si è convertito: era un uomo apezzi dentro, malgrado la sua aria allegra; il Greeshka ha posto fine al suodolore. E c'era anche un altro adepto con lui, un certo Lester Kamenz; unpoveraccio, solo come un cane, senza niente per cui valga la pena di vive-

re. Che cos'ha da perdere? Analizza gli altri convertiti, e scommetto chetroverai lo stesso schema: nell'Unione entrano le persone più sole, vulne-rabili, fallite, isolate.»

Valcarenghi annuì. «D'accordo, ci credo» disse. «I nostri psichici lohanno già ipotizzato da tempo, Robb. Solo che non è la risposta giusta.Certo, i convertiti spesso sono una banda di incasinati, non dico di no. Maperché scegliere il culto dell'Unione? Gli psichici non riescono a trovareuna spiegazione. Prendi Gustaffson, per esempio: era un duro, te l'assicuro.

Io non l'ho conosciuto personalmente, ma so la carriera che ha fatto. Haaccettato anche incarichi difficili, per lo più volontariamente, portandoli a

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termine. Avrebbe potuto avere lavori di tutto riposo, ma non gli interessa-va. Avevo sentito parlare dell'incidente a Nightmare, è tristemente famoso;Phil Gustaffson però non era il tipo che si dava per vinto, nemmeno in uncaso del genere. Si è ripreso in fretta, stando a quanto dice Nelse. È venutoa Shkea e ha riportato l'ordine, riparando al casino che Rockwood avevalasciato. È riuscito a stipulare il primo vero contratto commerciale, facen-done capire il significato agli Shkeen, impresa tutt'altro che semplice.

«Quindi ci troviamo davanti a un uomo competente, in gamba, che hafatto carriera affrontando lavori difficili e sapendo trattare con la gente. Havissuto un incubo, che però non lo ha distrutto, è rimasto in piedi. E d'untratto entra nel culto dell'Unione, accettando la clausola di un suicidio grot-tesco. Perché? Per porre fine al suo dolore, dici? Una teoria interessante,

ma ci sono altri modi per smettere di soffrire. Gustaffson ha fatto passareanni tra Nightmare e il Greeshka. E in quell'arco di tempo non è mai scap-pato dal dolore: non si è dato né all'alcol, né alle droghe, né agli altri con-sueti metodi di evasione. Non è tornato su Vecchia Terra per fare una puli-zia psichica dei suoi ricordi e, credimi, avrebbe potuto ottenerla anche gra-tis, se avesse voluto. La Sovrintendenza alle colonie avrebbe fatto qualsiasicosa per lui, dopo Nightmare. Andò avanti, sopportò il dolore, ricominciò,e a un tratto si convertì.

«Il dolore lo aveva reso più vulnerabile, sì, senza dubbio, ma c'è qual-cos'altro che lo ha spinto, qualcosa che l'Unione gli offre, e che lui non puòtrovare nell'alcol o nel reset della memoria. Lo stesso discorso vale perKamenz e per tutti gli altri. Ci sono molti sistemi per evadere, diversi modiper dire no alla vita. Li hanno ignorati e hanno scelto l'Unione. Capisci do-ve voglio arrivare?»

Ovviamente sì. Mi resi conto che la mia risposta non spiegava niente,ma neppure Valcarenghi aveva del tutto ragione.

«Sì, immagino che dovremo fare altre letture» dissi con un pallido sorri-so. «Però c'è una cosa: Gustaffson non aveva sconfitto realmente la propriasofferenza. Lya è stata molto chiara al riguardo. Era sempre dentro di lui,lo angustiava, solo che non la lasciava trasparire.»

«Questa è una vittoria, no?» replicò Valcarenghi. «Cacciare così in fon-do il proprio dolore che nessuno può intuirne l'esistenza.»

«Be', non credo. E poi c'è dell'altro: Gustaffson ha la peste lenta, sta mo-rendo, il processo è in atto da anni.»

L'espressione di Valcarenghi mutò per una frazione di secondo. «Questonon lo sapevo, ma non fa che rafforzare la mia teoria. Ho letto che circa

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l'ottanta per cento delle vittime della peste lenta opta per l'eutanasia, se nelpianeta in cui vivono è considerata legale. Gustaffson era un amministrato-re planetario, avrebbe potuto renderla legale. Se non ha pensato al suicidioper tutti quegli anni, perché sceglierlo adesso?»

Non avevo risposte per quella domanda. Lyanna non me ne aveva date,se anche ne avesse avute. Non sapevo nemmeno dove cercarne una, senon...

«Le grotte» esclamai d'un tratto. «Le grotte dell'Unione. Dobbiamo assi-stere a un'Unione Finale. Dev'esserci qualcosa che giustifica le conversio-ni.»

Valcarenghi sorrise. «D'accordo, non c'è problema» disse. «Immaginavoche prima o poi ci saremmo arrivati, ma non sarà un bello spettacolo, ti

avviso. Ci sono già andato una volta, e so di che cosa si tratta.»«Per me va bene» lo rassicurai. «Se pensi che scandagliare Gustaffson

sia stato divertente, avresti dovuto vedere Lya mentre lo faceva. Adesso èin giro per cercare di smaltire camminando.» Avevo deciso che doveva es-sere quello il motivo. «L'Unione Finale non sarà peggio dei ricordi diNightmare, ne sono sicuro.»

«Ottimo. Organizzerò per domani. Ovviamente verrò con voi, non vo-glio correre il rischio che vi capiti qualcosa.»

Io acconsentii.«Allora, d'accordo» concluse Valcarenghi alzandosi. «Nel frattempo

pensiamo a cose più interessanti: programmi per cena?»Alla fine decidemmo di mangiare in un ristorante pseudoshkeen gestito

da umani, insieme a Gourlay e Laurie Blackburn. A tavola si parlò dellesolite cose: sport, politica, arte eccetera. Non mi pare che in tutta la serataci sia stato un solo accenno agli Shkeen o ai Greeshka.

Quando tornai in camera, trovai Lyanna che mi aspettava. Era a letto e

stava leggendo uno dei volumi rilegati della nostra biblioteca, un libro dipoesia di Vecchia Terra. Alzò lo sguardo quando entrai.

«Ciao» dissi. «Com'è stata la tua passeggiata?»«Lunga.» Un sorriso le increspò il viso, poi svanì. «Ma ho avuto tempo

per pensare, su oggi pomeriggio, su ieri, sui Congiunti e su di noi.»«Perché su di noi?»«Robb, tu mi ami?» La domanda era concreta, ma il tono dubitativo,

come se lei davvero non lo sapesse.

Mi sedetti sul letto, le presi la mano e cercai di sorridere. «Certo, Lya, losai.»

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«Lo sapevo, lo so. Mi ami quanto possono amare gli umani, ma...» Sifermò, scosse la testa, chiuse il libro e sospirò. «Ma siamo comunque sepa-rati, Robb, siamo distinti l'uno dall'altra.»

«Di che cosa stai parlando?»«Di oggi pomeriggio. Ero così confusa e spaventata. Non sapevo bene

perché, ma ci ho pensato, mentre leggevo... Io ero là, insieme ai Congiunti,connessa con loro e con il loro amore. Lo sentivo, e non volevo andarme-ne, Robb, non li volevo lasciare. Quando l'ho fatto mi sono sentita così iso-lata, tagliata fuori.»

«La colpa è tua» proruppi. «Ho cercato di parlare con te, ma tu eri trop-po presa dai tuoi pensieri.»

«Parlare? A cosa serve parlare? È una forma di comunicazione, credo,

ma ci si riesce realmente? Pensavo di sì, prima di esercitare il mio Talento.Poi leggere la mente mi è sembrata la comunicazione reale, il vero modoper entrare in contatto con un'altra persona, per esempio con te. Ma adessonon ne sono più sicura. I Congiunti, quando suonano, sono così insieme,Robb, tutti connessi, quasi come noi quando facciamo l'amore; si amanol'un l'altro, ci amano, intensamente. Ho sentito, non so... Gustaffson miama quanto te. Anzi, di più.»

Mentre diceva questo aveva il viso pallido e gli occhi spalancati, persi,

solitari. E io provai improvvisamente una sensazione di freddo, come unsoffio di vento gelido nell'anima. Non dissi niente, mi limitai a guardarla,mi inumidii le labbra e mi sentii morire.

Lei vide il dolore nei miei occhi, immagino, oppure lo lesse. Mi preseuna mano e l'accarezzò. «Oh, Robb, ti prego. Non volevo ferirti. Non ècolpa tua, siamo tutti così. Che cosa abbiamo noi in confronto a loro?»

«Non capisco che cosa stai dicendo, Lya.» Una metà di me, d'un tratto,aveva voglia di piangere; l'altra metà voleva mettersi a urlare. Le soffocai

entrambe e mi sforzai di stabilizzare la voce, anche se dentro di me erotutt'altro che stabile.

«Mi ami, Robb?» chiese di nuovo, con una punta di meraviglia.«Sì!» risposi con veemenza. Era una sfida.«E che cosa significa?»«Lo sai benissimo. Accidenti, Lya, pensaci! Ricorda quello che abbiamo

vissuto, le cose che abbiamo fatto insieme. L'amore è questo, Lya. Noisiamo fortunati, ricordi? L'hai detto tu stessa. I Normali hanno solo il con-

tatto e la voce, poi tornano nella loro oscurità. Riescono a stento a trovarsi,sono sempre soli, brancolano, provano continuamente a scavalcare le pare-

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ti del loro isolamento, e non ci riescono; noi invece abbiamo trovato lastrada, ci conosciamo per quanto è umanamente possibile. Non c'è nienteche non ti direi, o non condividerei con te. Te l'ho già detto in passato, esai che è vero, perché puoi leggere dentro di me. L'amore è questo, no?»

«Non lo so» rispose con voce triste e confusa. Poi, senza far rumore,nemmeno un singhiozzo, iniziò a piangere. E, mentre le lacrime tracciava-no solitari percorsi lungo le sue guance, disse: «Forse l'amore è questo,l'ho sempre pensato anch'io, ma adesso non lo so più. Se quello che noi vi-viamo è amore, che nome dare a quanto ho provato e condiviso oggi po-meriggio? Oh, Robb, ti amo anch'io, lo sai. Cerco di parlarti con il cuore;vorrei spiegarti che cosa ho letto, dirti a che cosa assomigliava, ma non ciriesco. Siamo separati, non posso farti capire. Io sono qui e tu sei lì, pos-

siamo toccarci, fare l'amore, parlare, ma siamo comunque lontani. Capisci?Adesso capisci? Io sono sola. Questo pomeriggio, invece, no».

«Ma non sei sola, maledizione» esclamai. «Io sono qui» aggiunsi, strin-gendole forte la mano. «Mi senti? Non sei sola!»

Lei scosse la testa, continuando a piangere. «Tu non capisci, lo vedi? Eio non posso farci niente. Hai detto che ci conosciamo per quanto è uma-namente possibile: hai ragione, ma quanto si possono conoscere gli esseriumani? Non sono forse separati l'uno dall'altro? Ognuno da solo in un

grande, buio, vuoto universo? Non facciamo che ingannarci, pensando chevicino a noi ci sia qualcun altro. Alla fine, nella fredda e solitaria fine, cisiamo solo noi, solitari, nelle tenebre. Ci sei, Robb? Come faccio a saper-lo? Morirai con me? Allora saremo insieme? E adesso? Dici che siamo piùfortunati dei Normali, lo dicevo anch'io. Loro hanno solo il contatto e lavoce, vero? Quante volte l'ho ripetuto? Ma noi che cos'abbiamo? Forse uncontatto e due voci. Non basta. D'un tratto, ho paura.»

Cominciò a singhiozzare. Istintivamente mi avvicinai, la strinsi tra le

braccia, l'accarezzai. Ci sdraiammo insieme e lei pianse contro la mia spal-la. La scandagliai rapidamente e lessi il suo dolore, la sua improvvisa soli-tudine, la sua fame, il tutto turbinante in una scura tempesta mentale di pa-ura. E, anche se la toccavo, l'accarezzavo, continuando a sussurrarle cheandava tutto bene, che ero lì, che non era sola, sapevo che non sarebbe ba-stato. D'un tratto, fra noi si era aperto un baratro, una voragine scura checontinuava a diventare più profonda, e io non sapevo come fare per gettareun ponte.

Lya, la mia Lya, stava piangendo, aveva bisogno di me, e io avevo biso-gno di lei, ma non potevo raggiungerla.

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A un certo punto mi accorsi che stavo piangendo anch'io.Restammo abbracciati, in quel pianto silenzioso, per circa un'ora. Alla

fine esaurimmo le lacrime. Lya si strinse così forte a me che riuscivo astento a respirare, e ricambiai l'abbraccio.

«Robb» sussurrò «hai detto che noi ci conosciamo davvero, e me lo hairipetuto spesso. A volte dici che sono la persona giusta per te, che sonoperfetta.»

Io annuii, incredulo. «È vero.»«No, non è così» replicò, smozzicando le parole, forzandole a uscire, lot-

tando contro se stessa per tirarle fuori. «Sì, io ti leggo, posso sentire i ter-mini che ti frullano nella testa quando metti insieme una frase prima dipronunciarla; sento che ti rimproveri se hai fatto qualcosa di sbagliato, e

vedo i ricordi, almeno alcuni, li posso rivivere insieme a te; ma è tutto insuperficie, Robb, è il primo strato. Sotto ci sono altre cose, che sono tue:stralci di pensieri alla deriva che non riesco a captare, emozioni senza no-me, passioni che hai soffocato, ricordi che neanche tu sai di avere. A volteriesco ad arrivare fino a quel livello, ma non sempre, solo se mi sforzomolto, sino allo sfinimento. E una volta lì, so, perché lo so, che sotto c'è unaltro livello, e poi un altro, ancora e ancora, sempre più giù. Non riesco adarrivarci, Robb, anche se fanno parte di te. Io non ti conosco, non ti posso

conoscere. Neanche tu conosci te stesso, capisci? E tu mi conosci? No,meno ancora. Sai quello che ti dico io, ed è la verità, forse però non tutta.Leggi le mie emozioni, quelle superficiali: il dolore per un dito del piedeschiacciato, un lampo di fastidio o di piacere quando sei dentro di me.Questo vuole forse dire che mi conosci? Quali dei miei tanti livelli? E tuttoquello che neanche io so di me stessa? Tu lo conosci? In che modo, Robb,come potresti?»

Scosse di nuovo la testa, in quel buffo gesto che ripeteva sempre quando

era confusa.«E dici che io sono perfetta, che mi ami, che sono la persona giusta. Ma

è vero? Robb, io leggo i tuoi pensieri. So quando mi vuoi sexy, e allora so-no sexy. Vedo che cosa ti eccita, e lo faccio. So quando mi preferisci seriae quando ti va che scherzi. So anche quali barzellette raccontarti: mai quel-le ciniche, non ti piace ferire o vedere ferire la gente. Ami ridere con gli al-tri, non alle loro spalle, e io rido insieme a te, e ti amo come piace a te. Soquando vuoi che parli e quando devo stare zitta. So quando vuoi che io sia

la tua leonessa, la telepatica tenebrosa e quando la ragazzina da cullare trale tue braccia. E sono tutto questo, Robb, perché tu lo vuoi, e io ti amo,

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sento la gioia in te a ogni cosa giusta che faccio. Non ho mai scelto dicomportarmi così, è successo. Non mi importava, non mi importa. Lamaggior parte delle volte non ne sono nemmeno consapevole. E anche tufai lo stesso. Te lo leggo. Tu non puoi leggere come me, così a volte le tueintuizioni sono sbagliate: sei brillante quando ti vorrei silenzioso e com-prensivo, o ti comporti da macho quando avrei bisogno di un bambino alquale fare da mamma. Ma a volte indovini anche tu, e ci provi, continui aprovarci.

«Ma tu sei veramente tu? E io sono veramente io? E se non fossi perfet-ta, se fossi solo me stessa, con tutti i miei difetti e le cose che non ti piac-ciono, mi ameresti ugualmente? Non lo so. Invece Gustaffson sì, e ancheKamenz. Lo so, Robb, l'ho visto. Io li conosco. I loro livelli svanivano... Li

conosco davvero, e se tornassi indietro potrei condividere con loro moltodi più di quello che condivido con te. E loro conoscono me, come sonodavvero. E mi amano. Capisci?»

Capivo? Non lo so. Ero confuso. Avrei amato Lya se fosse stata se stes-sa? Ma che cosa voleva dire "essere se stessa"? Che differenza c'era dallaLya che conoscevo? Pensavo di amare Lya e che l'avrei sempre amata, mase la sua vera natura fosse stata diversa da quella che conoscevo? Che cosaamavo? Il concetto astratto di un essere umano, o la carne, la voce, la per-

sonalità che pensavo essere Lya? Non lo sapevo. Non sapevo più chi eraLya, chi ero io e che cosa accidenti volevano dire tutti quei discorsi. Erospaventato. Forse non potevo sentire quello che lei aveva provato quelpomeriggio, però sapevo quello che provava in quel momento. Ero solo, eavevo bisogno di qualcuno vicino.

«Lya, proviamoci, non ci dobbiamo arrendere. Possiamo capirci l'un l'al-tra; c'è un modo, il nostro, l'abbiamo già sperimentato. Vieni, su, vieni conme.»

Parlando, la spogliai, lei rispose e le sue mani si unirono alle mie. Unavolta nudi, cominciai ad accarezzarla lentamente, e lei me. Le nostre mentisi ritrovarono, si raggiunsero e si sondarono come mai prima di allora. Po-tevo sentirla che scavava nella mia testa, giù, sempre più giù. E io mi apriia lei, mi arresi: tutti i piccoli segreti che avevo avuto perfino con lei, o cer-cato di avere, adesso glieli consegnai, tutto quello che potevo ricordare, imiei trionfi, le mie pene, le gioie e i dolori, le volte in cui avevo feritoqualcuno, le volte in cui ero stato ferito, i lunghi pianti solitari, le paure

che non avrei voluto ammettere, i pregiudizi contro cui lottavo, le vanitàche avevo combattuto in passato, gli stupidi peccati giovanili, tutto. Non

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nascosi niente. Consegnai tutto me stesso a lei, a Lya, la mia Lya. Mi do-veva conoscere.

E anche lei si concesse. La sua mente era una foresta di pensieri in cui iovagavo, dando la caccia a brandelli di emozione; in superficie paura, biso-gno e soprattutto amore; sotto cose più vaghe, capricci e passioni ancorapiù profondi, seminascosti. Non avevo il Talento di Lya, leggevo solo leemozioni, non i pensieri, ma allora lessi anche i pensieri, per la prima e ul-tima volta, pensieri che mi consegnò lei stessa perché non li avevo mai vi-sti prima. Non potevo leggere molto, ma qualcosa percepii.

E come la sua mente si aprì alla mia, lo stesso fece il suo corpo. Entrai inlei e ci muovemmo insieme, un corpo solo, le menti intrecciate, vicini neilimiti delle umane possibilità. Sentii il piacere salire in me in grandi ondate

magnifiche, il mio e il suo piacere che si creavano a vicenda, e restai sullacresta dell'onda per un'eternità mentre all'orizzonte si avvicinava unaspiaggia lontana. E alla fine, quando l'onda si franse sulla riva, venimmoinsieme, e per un istante, un piccolo, fugace istante, non avrei potuto direquale fosse il mio orgasmo e quale il suo.

Poi però finì. Restammo sdraiati sul letto, abbracciati, al chiarore dellestelle. Ma non era un letto, era la spiaggia, una spiaggia nera e piatta, senzastelle. Un pensiero mi affiorò alla mente, un pensiero vagabondo, che non

mi apparteneva. Era di Lya. Eravamo su una piana, pensava, e io vidi cheaveva ragione. L'acqua che ci aveva portato fin lì si era ritirata, non c'erapiù. Restava solo una vasta, piatta oscurità che si estendeva in tutte le dire-zioni, con vaghe forme sinistre che si muovevano su entrambi gli orizzon-ti. "E siamo qui, come in una piana che s'oscura" pensò Lya, e d'un trattocapii che cos'erano quelle figure, e quale poesia stesse leggendo prima. Ciaddormentammo.

Mi svegliai, solo.La stanza era buia. Lya dormiva ancora raggomitolata dall'altra parte del

letto. Era tardi, quasi l'alba, pensai, ma non ero sicuro. Ero inquieto.Mi alzai e mi vestii in silenzio. Avevo bisogno di andare da qualche par-

te, per pensare, riordinare le idee. Dove, però?Avevo in tasca una chiave. La sentii mentre infilavo la tunica, e ricordai:

era dell'ufficio di Valcarenghi. A quell'ora di notte doveva essere chiuso edeserto, e il panorama avrebbe potuto aiutarmi a pensare.

Uscii, presi il tubo ascensionale e salii fino in cima alla Torre, l'apicedella sfida d'acciaio dell'uomo agli Shkeen. L'ufficio non era illuminato, i

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mobili sagome scure nelle tenebre. C'era solo la luce delle stelle. Shkea èpiù vicino al centro galattico rispetto a Vecchia Terra o Baldur. Gli astrierano un fiammeggiante baldacchino nel cielo notturno. Alcune stelle era-no molto vicine, e risplendevano come fuochi rossi e biancazzurri nel neroassoluto che le sovrastava. L'ufficio di Valcarenghi aveva tutte le paretitrasparenti; mi avvicinai a una e guardai fuori. Non stavo pensando, soloascoltando le mie emozioni, e mi sentivo freddo, piccolo e sperduto.

Poi una voce vellutata dietro di me mi salutò. Quasi non la udii.Mi allontanai dalla vetrata, ma altre stelle brillavano dalle altre pareti.

Laurie Blackburn era seduta su una poltroncina bassa, avvolta nelle tene-bre.

«Salve» risposi. «Non volevo disturbare, pensavo non ci fosse nessuno.»

Sorrise. Un bel sorriso su un viso radioso, ma privo di allegria. I capellile ricadevano in ampie onde ramate dietro le spalle, e indossava qualcosadi lungo e trasparente. Potevo intravedere le sue forme morbide tra le pie-ghe, e lei non faceva alcuno sforzo per nascondersi.

«Vengo spesso qui» mi disse. «Di solito la notte, quando Dino dorme. Èun bel posto per pensare.»

«Già» approvai, sorridendo. «Avevo avuto la stessa idea.»«Le stelle sono belle, vero?»

«Sì.»«Lo penso anch'io.» Un'esitazione, poi si alzò e venne verso di me. «A-

mi Lya?» mi chiese.Una domanda cruciale, straordinariamente opportuna. Ma me la cavai

bene, almeno credo. La mia mente era ancora ferma alla conversazione conLya. «Sì, molto» risposi. «Perché?»

Lei era in piedi vicino a me, mi guardò e poi fissò le stelle. «Non lo so.A volte penso all'amore. Amo Dino, sai? È arrivato qui due mesi fa, per

cui non abbiamo avuto molto tempo per conoscerci, ma lo amo già. Nonho mai incontrato nessuno come lui. È gentile, premuroso e fa tutto bene.Non l'ho mai visto fallire in un'impresa. Eppure non sembra puntare alsuccesso, come altri uomini. Gli riesce così facile. Ha molta fiducia in sestesso, e questo lo rende attraente. Mi ha dato tutto quello che potevo desi-derare, tutto.»

La scandagliai, lessi in lei amore, preoccupazione e paura, e tirai a indo-vinare. «Tranne se stesso» dissi.

Lei mi guardò allarmata, poi sorrise. «Dimenticavo che sei un Talento, èovvio che tu lo sappia. Sì, è vero. Non so perché, ma c'è qualcosa che mi

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preoccupa. Dino è così perfetto, sai; gli ho detto tutto di me e della mia vi-ta, e lui ascolta, capisce. È sempre disponibile, presente quando ho bisognodi lui, però...»

«Funziona a senso unico» terminai. Era un'affermazione. Lo sapevo.Lei fece cenno di sì con la testa. «Non che tenga per sé i suoi segreti:

non ne ha. Risponde a tutte le domande che gli faccio, ma le sue rispostesono vuote. Gli chiedo di che cosa ha paura, e dice di niente, e fa sì che iogli creda. È molto razionale, molto calmo; non si arrabbia mai, non è maisuccesso, gliel'ho domandato; non odia nessuno, perché ritiene che non bi-sogna odiare. Non ha nemmeno mai sofferto, almeno così dice: sofferenzaemotiva, intendo. Eppure mi capisce quando parlo della mia vita. Una vol-ta ha detto che il suo peggiore difetto è la pigrizia, però non è affatto pigro,

e io lo so. È davvero così perfetto? Dice che è sempre sicuro di sé perchésa di essere bravo, ma sorride quando lo dice, per cui non si può nemmenoaccusarlo di essere presuntuoso. Dice che crede in Dio, ma non ne parlamai. Se cerchi di discutere seriamente, ti ascolta paziente, oppure scherza,o cambia discorso. Dice di amarmi, però...»

Annuii. Sapevo quello che stava per dire.Infatti, lei mi guardò implorante. «Tu sei un Talento, e lo hai letto, vero?

Lo conosci? Ti prego, dimmi.»

La stavo leggendo. Vidi il suo bisogno di sapere, quanto era preoccupatae spaventata, quanto lo amava. Non potevo mentirle, eppure era difficiledarle quella risposta.

«L'ho letto» dissi lentamente, con circospezione, misurando le parolecome un liquido prezioso «e ho letto anche te. Ho visto il tuo amore laprima sera, quando abbiamo cenato insieme.»

«E Dino?»Le parole mi si fermarono in gola. «Lui è... strano, come ha detto una

volta Lya. Posso leggere abbastanza facilmente le sue emozioni superficia-li, ma sotto non c'è niente. È molto controllato, chiuso in se stesso; comese le uniche emozioni fossero quelle che si permette di sentire. Ho percepi-to in lui la sicurezza, il piacere, anche la preoccupazione, ma nessuna verapaura. Ti vuole molto bene, è protettivo nei tuoi confronti. Gli piace pro-teggere gli altri.»

«Tutto qui?» chiese speranzosa. Era doloroso.«Temo di sì. È un uomo chiuso dietro un muro, Laurie. Ha bisogno solo

di se stesso. Se prova amore, è dietro quel muro, nascosto, e non possoleggerlo. Pensa molto a te, Laurie, ma l'amore... è un'altra cosa. È più forte,

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più irrazionale, e arriva con un'energia dirompente. E il sentimento di Dinonon è così, almeno non fin dove mi è possibile leggerlo.»

«È chiuso con me» ripeté. «Io mi sono data totalmente, lui invece no. Hosempre avuto paura, anche quando eravamo insieme, a volte sentivo chenon c'era...»

Sospirò. Lessi la sua disperazione, la solitudine crescente. Non sapevoche cosa fare. «Piangi pure se vuoi» le dissi stupidamente. «So che a volteaiuta. Ho pianto molto anch'io.»

Lei non pianse. Mi guardò e fece una risatina. «No, non posso. Dino miha insegnato che non si deve mai piangere. Dice che le lacrime non risol-vono niente.»

Una triste filosofia. Forse non risolvono, ma fanno parte dell'essere u-

mano, stavo per dire, invece mi limitai a sorridere.Anche lei sorrise, poi drizzò la testa. «Tu piangi» esclamò d'un tratto,

con voce insolitamente gaia. «È buffo. Non ho mai ricevuto un'ammissionedel genere da Dino. Grazie, Robb, grazie davvero.»

E restò lì, di fronte a me, guardandomi di sotto in su, in attesa. Io lessiche cosa aspettava, così la presi tra le braccia e la baciai; lei si strinse con-tro di me. E per tutto il tempo pensai a Lya, dicendo a me stesso che non lesarebbe importato, che sarebbe stata fiera di me, che avrebbe capito.

Poi rimasi nell'ufficio, da solo, a guardare sorgere l'alba. Ero svuotatoma in un certo senso contento. La luce che trapelava all'orizzonte stavascacciando le ombre davanti a sé, e d'un tratto tutte le paure, che la notteerano sembrate così minacciose, parvero sciocche, irrazionali. Lya e io cel'avremmo fatta, pensai, saremmo riusciti a costruire quel ponte; avremmosuperato qualsiasi avversità, con la stessa facilità con cui oggi avremmo af-frontato i Greeshka, insieme.

Quando tornai in camera, Lya non c'era.

«Abbiamo ritrovato l'aeromobile nel centro di Shkeentown» stava di-cendo Valcarenghi. Era freddo, preciso, rassicurante. La sua voce mi disse,al di là delle parole, che non c'era niente di cui preoccuparsi. «Ho sguinza-gliato degli uomini per cercarla, ma Shkeentown è grande. Hai idea di do-ve possa essere andata?»

«No» risposi debolmente. «Forse a conoscere altri Congiunti. Sembrava,be'... quasi ossessionata da loro, non so.»

«Qui abbiamo un ottimo corpo di polizia. La troveremo, ne sono certo.Magari ci vorrà un po' di tempo. Avete litigato?»

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«Sì, no, quasi, ma non è stata una vera lite, una cosa strana.»«Capisco» fece lui, ma non era vero. «Laurie mi ha detto che la notte

scorsa sei salito quassù, da solo.»«Sì, avevo bisogno di pensare.»«Bene, quindi diciamo che Lya si è svegliata, e magari ha deciso che an-

che lei voleva pensare. Tu sei salito, lei invece è andata a fare un giro. For-se vuole solo una giornata libera per visitare Shkeentown. Ieri ha fatto co-sì, no?»

«È vero» ammisi.«Adesso lo sta facendo di nuovo. Il problema non esiste. Probabilmente

sarà di ritorno prima di cena.» Sorrise.«Perché, allora, è uscita senza dirmelo? Senza lasciare un messaggio,

qualcosa?»«Non lo so, ma non è importante.»Non lo era? Non lo era davvero? Mi sedetti, la testa fra le mani e la fron-

te aggrottata, sudavo. D'un tratto mi sentii ancora più spaventato, senza sa-pere perché. Non avrei dovuto lasciarla da sola, mi dicevo. Mentre io eroquassù con Laurie, lei si era svegliata da sola nella camera buia e... che co-sa? E se n'era andata.

«Nel frattempo, però, noi abbiamo delle cose da fare» disse Valcarenghi.

«È tutto pronto per scendere a visitare le grotte.»Lo guardai, incredulo. «Le grotte? Ma non ci posso andare, non ora e

non da solo.»Lui emise un sospiro di esasperazione, volutamente esagerato. «Su,

Robb! Non è la fine del mondo. Andrà tutto bene. Lya sembra una ragazzapiena di buonsenso e sono sicuro che se la sa cavare benissimo da sola, ve-ro?»

Annuii.

«Nel frattempo daremo un'occhiata alle grotte. Voglio andare al fondo diquesta faccenda.»

«Io non farò un bel niente senza Lya» protestai. «Lei ha più Talento, io...so leggere solo le emozioni, non posso scendere in profondità come lei.Non vi sarò di grande aiuto.»

Lui si strinse nelle spalle. «Può darsi, ma ormai è tutto organizzato e nonabbiamo niente da perdere. Possiamo sempre fare un secondo giro quandoLya sarà tornata. Fra l'altro, ti farà bene, ti distrarrà dal resto. Adesso come

adesso non puoi fare niente per lei. Ho mandato tutti gli uomini disponibilia cercarla, e se non la trovano loro di certo non ci riuscirai tu. Quindi non

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ha senso continuare a rimuginare. Torna all'azione, tieniti occupato.» Dettoquesto si voltò, avviandosi verso il tubo ascensionale. «Vieni, c'è un'aero-mobile che ci sta aspettando. Verrà anche Nelse.»

Rimasi fermo, indeciso. Non ero in vena di occuparmi dei problemi de-gli Shkeen, ma le argomentazioni di Valcarenghi avevano una certa logica.Tra l'altro ci aveva ingaggiato, Lyanna e me, ed eravamo ancora in obbligocon lui. "Almeno ci posso provare" pensai.

Durante il viaggio, Valcarenghi si mise davanti con il guidatore, un mas-siccio brigadiere della polizia con la faccia scolpita nel granito. Questavolta aveva optato per un mezzo della polizia, così potevamo restare ag-giornati sulle ricerche di Lya. Gourlay e io sedevamo sul sedile posteriore.Gourlay aveva spiegato una grande cartina sulle ginocchia di tutti e due, e

mi raccontava delle grotte dell'Unione Finale.«In teoria le grotte sarebbero la casa madre dei Greeshka» disse. «Pro-

babilmente è vero, ha senso. Qui i Greeshka, come vedrai, sono molto piùgrandi. Le grotte sono disseminate su tutte le colline, dalla parte opposta diShkeentown rispetto a noi, dove la regione diventa più selvaggia. Come unpiccolo favo di forma regolare. E in ognuna c'è un Greeshka, almeno cosìmi hanno riferito: nelle poche in cui sono stato, in effetti, l'ho sempre tro-vato, per cui credo a quanto dicono delle altre. La città, quella sacra, forse

è stata costruita per via delle grotte. Gli Shkeen arrivano qui da ogni ango-lo del continente per l'Unione Finale. Ecco, la zona delle grotte è questa.»Con una penna disegnò un grande anello rosso quasi al centro della carti-na. A me sembrava tutto assurdo. La cartina mi stava demoralizzando: nonpensavo che Shkeentown fosse così estesa. Come era possibile trovarequalcuno che non voleva farsi trovare?

Valcarenghi si voltò verso di noi. «La grotta dove stiamo andando è unadelle più grandi della zona. Ci sono già stato. Non ci sono formalità per

l'Unione Finale, capisci. Gli Shkeen si limitano a scegliere una grotta, en-trano e si sdraiano sul Greeshka. Usano l'ingresso loro più comodo: alcunisono poco più grandi dei condotti della fognatura, ma se ti inoltri abba-stanza in teoria dovresti incontrare un Greeshka, che pulsa in fondo, nell'o-scurità. Le grotte più ampie sono illuminate da torce, come la Grande Sala,ma questi sono dettagli, non hanno alcuna importanza per l'Unione.»

«Suppongo che andremo in una di queste» dissi.Valcarenghi annuì. «Esatto. Ho pensato che ti sarebbe interessato vedere

che aspetto ha un Greeshka maturo. Non è uno spettacolo gradevole, ma èistruttivo. Quindi abbiamo bisogno della luce.»

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Poi Gourlay finì il suo racconto, ma io ormai avevo staccato la spina. Ri-tenevo di saperne abbastanza sugli Shkeen e i Greeshka, ed ero ancorapreoccupato per Lyanna. Dopo un po' ci abbassammo, e il resto del viaggiotrascorse in silenzio. Era il tragitto più lungo che avessimo mai fatto. Per-fino la Torre, il nostro scintillante punto di riferimento d'acciaio, erascomparsa dietro le colline alle nostre spalle.

Il terreno si fece più accidentato e roccioso, con arbusti selvatici semprepiù fitti; le colline si susseguivano più alte e selvagge, ma le cupole le ri-coprivano senza soluzione di continuità, e c'erano Shkeen dappertutto."Lya potrebbe essere in mezzo a loro" pensai "persa tra quella folla bruli-cante." Che cosa stava cercando? Quali erano i suoi pensieri?

Alla fine atterrammo in una valle fitta di vegetazione, tra due colline alte

e pietrose. Perfino qui c'erano Shkeen: le cupole di mattoni rossi spuntava-no dal sottobosco. Non feci fatica a individuare l'ingresso della grotta. Eraa metà di una scarpata, un foro nero che si apriva nella nuda roccia, cui siarrivava da un sentiero sterrato e polveroso.

Dopo essere scesi dall'aeromobile, ci incamminammo in quella direzio-ne. Gourlay attaccò la strada con lunghi passi sgraziati, mentre Valcaren-ghi avanzava con la sua falcata armoniosa e costante e il poliziotto arran-cava imperturbabile. Io ero il ritardatario. Mi trascinavo e arrivai all'im-

boccatura della grotta quasi senza fiato.Se mi fossi aspettato pitture rupestri, altari o un tempio di qualche natu-

ra, sarei rimasto tristemente deluso. Era una semplice grotta, con le paretigrondanti e il soffitto basso. L'aria era fredda e umida. Più fresca che aShkea e meno polverosa, tutto qui. C'era un unico, lungo passaggio tortuo-so nella roccia, abbastanza ampio perché si potesse camminare in quattrofianco a fianco, ma così basso che Gourlay doveva chinare la testa. Le tor-ce erano disposte lungo le pareti a intervalli regolari, ma solo una su quat-

tro era accesa. Bruciavano esalando un fumo oleoso che sembrava impre-gnare il soffitto della grotta e scendere nelle sue viscere prima di noi. Michiesi che cosa lo stesse risucchiando.

Dopo circa dieci minuti di cammino, per lo più in leggera discesa, il cu-nicolo sbucò in una stanza alta e molto illuminata, con il soffitto a voltamacchiato dalla fuliggine delle torce. Lì c'era il Greeshka.

Era di un rosso marrone opaco, come il colore del sangue rappreso, nondel vivace cremisi quasi traslucido dei giovani esemplari appesi ai crani

dei Congiunti. Il grande corpo era tempestato di macchie nere, simili abruciature o a tracce di fuliggine. Riuscivo a stento a intravedere il lato

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lungo della sala; il Greeshka era troppo grosso, torreggiava sopra di noi,lasciando solo una piccola fessura tra lui e il soffitto, poi a metà della stan-za scendeva di colpo come una gigantesca massa di gelatina, e terminava acirca sei metri da dove eravamo noi. In quello spazio c'era una foresta difilamenti rossi pendenti e ciondolanti, una ragnatela di tessuto del Gree-shka che arrivava fin quasi alle nostre facce.

E pulsava, era viva. Anche i filamenti andavano a tempo, ampliandosi econtraendosi, in un battito silenzioso che era una cosa sola con il grandeGreeshka che c'era dietro.

Il mio stomaco si rivoltò, mentre i miei compagni sembravano impassi-bili. Lo avevano già visto altre volte.

«Vieni» disse Valcarenghi accendendo una torcia elettrica che si era por-

tato per avere più luce. L'alone chiaro, roteando sulla ragnatela pulsante,sembrò evocare una foresta fantastica abitata da spettri. Valcarenghi si ad-dentrò con disinvoltura, facendo oscillare la luce e scostando il Greeshka.

Gourlay lo seguì, ma io esitavo. Valcarenghi si voltò e sorrise. «Non tipreoccupare» disse. «Il Greeshka ci mette ore ad attaccarsi, ed è facile datogliere. Non ti afferra neanche se inciampi.»

Mi feci coraggio, allungai il braccio e toccai uno di quei filamenti vivi.Era morbido, umido, leggermente vischioso al tatto, e basta; si spezzava

abbastanza facilmente. Cominciai ad avanzare, con le braccia avanti, chi-nandomi e rompendo la rete per aprirmi un varco. Il brigadiere camminavain silenzio dietro di me.

A un certo punto arrivammo alla fine del reticolo, di fronte al grandeGreeshka. Valcarenghi lo studiò per un secondo, poi puntò la torcia. «Eccol'Unione Finale» disse.

Guardai. Il raggio aveva proiettato un alone di luce attorno a uno deipunti scuri, una macchia nel mastodonte. Guardai meglio. Dalla macchia

spuntava una testa: al centro della zona scura, si vedeva solo il viso, rico-perto da una sottile pellicola color sangue, ma non si poteva sbagliare: unanziano Shkeen, con le rughe e gli occhi grandi, che adesso erano chiusi.Però sorrideva. Sorrideva! * Mi avvicinai. Un po' più in basso, sulla destra,spuntavano le dita di una mano: il resto era già sparito, inglobato nel Gree-shka, dissolto o in via di dissolvimento. Il vecchio Shkeen era morto, e ilparassita ne stava digerendo il cadavere.

«Ogni macchia scura è un'Unione recente» spiegò Valcarenghi, muo-

vendo la torcia come un puntatore. «Ovviamente le macchie con il tempospariscono. Il Greeshka continua a crescere, tra cento anni avrà riempito

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tutta la sala e si espanderà nel corridoio.»A quel punto udimmo un fruscio alle nostre spalle. Mi voltai. Qualcuno

stava avanzando tra i filamenti.Ben presto ci raggiunse, e sorrise. Era una donna shkeen, vecchia, nuda,

con i seni ciondolanti; ovviamente una Congiunta. Il suo Greeshka le co-priva quasi tutta la testa e arriva fin sotto al seno. Era ancora brillante etraslucido per il tempo trascorso alla luce del sole: si poteva vedere in tra-sparenza dove le stava mangiando la carne della schiena.

«Una candidata all'Unione Finale» spiegò Gourlay.«Questa è una grotta popolare» sussurrò Valcarenghi in tono beffardo.

La donna non ci rivolse la parola, né noi a lei. Sorridendo ci superò e sisdraiò sul Greeshka.

Il piccolo Greeshka sulla sua schiena sembrò quasi dissolversi al contat-to, mescolandosi con la grande creatura della grotta, così la donna Shkeene il grande Greeshka erano diventati una cosa sola. Poi, nient'altro. Lei silimitò a chiudere gli occhi, e restò sdraiata tranquilla, quasi fosse addor-mentata.

«Adesso che cosa succede?» chiesi.«L'Unione» rispose Valcarenghi. «Ci vorrà un'ora prima che tu possa

notare qualcosa, ma il Greeshka ha già cominciato ad avvolgerla, a in-

ghiottirla. È una risposta al calore corporeo, mi hanno detto. Tra un giornosarà ricoperta, tra due sarà come lui...» La torcia ritrovò la faccia semi-sommersa sopra di noi.

«La puoi leggere?» suggerì Gourlay. «Forse ci fornirà qualche indizio.»«D'accordo» dissi, disgustato ma curioso. Mi aprii, e la tempesta menta-

le arrivò.Anzi, non è giusto chiamarla così: era immensa, spaventosa, intensa, ro-

vente, accecante e soffocante, ma portava anche un senso di pace. Era gen-

tile, di una gentilezza che era più violenta dell'odio umano; evocò dolci ri-chiami e canti di sirene, mi attirò in modo seduttore, riversò su di me onda-te cremisi di passione, e mi chiamò a sé. Mi riempì, e al tempo stesso misvuotò. E da qualche parte sentii i campanelli, il risuonare stridulo delbronzo nella loro canzone, una canzone d'amore e di resa, stare insieme econgiungersi, unirsi e non essere mai soli.

Una tempesta, una tempesta mentale, sì, fu così, ma rispetto a una nor-male tempesta fu come una supernova rispetto a un ciclone, e la sua era

una violenza d'amore. Quella tempesta mentale mi amava e mi desiderava,e i suoi campanelli mi chiamavano, risuonavano il suo amore, e io allungai

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le braccia, desideroso di essere con lei, di unirmi, di non essere di nuovosolo. E d'un tratto ero di nuovo sulla cresta di una grande onda, un'onda difuoco che viaggiava tra le stelle, e questa volta sapevo che l'onda non sa-rebbe finita mai: non sarei più ritornato solo nella mia piana oscura.

Quella frase mi fece ripensare a Lya.E improvvisamente cominciai a lottare, a combattere contro quel mare di

amore risucchiante. Corsi, corsi, corsi... e chiusi la porta della mente, in-chiodai il saliscendi e lasciai che la tempesta si agitasse e ululasse all'e-sterno, mentre con tutte le mie forze resistevo. Ma a un certo punto la portacominciò a cedere, a fessurarsi.

Urlai. La porta si spalancò, e la tempesta entrò con forza, mi ghermì e mitrascinò fuori. Volteggiai nell'aria su fino alle stelle, che però non erano

più fredde, e diventai sempre più grande, finché io ero le stelle e le stelleerano me, ero l'Unione, e per un singolo, solitario, luminoso istante fui l'u-niverso.

Poi il nulla.

Mi svegliai nella mia stanza con un mal di testa che sembrava volermispaccare il cranio. Gourlay, seduto su una sedia, stava leggendo uno deinostri libri. Alzò lo sguardo all'udirmi gemere.

Le pillole di Lya per il mal di testa erano ancora vicino al letto. Ne presiuna, poi cercai di mettermi a sedere.

«Come va? Meglio?» chiese Gourlay.«Male alla testa» risposi, sfregandomi la fronte. Mi batteva, come se

stesse per scoppiare. Peggio della volta in cui avevo scrutato nel dolore diLya. «Che cosa è successo?»

Lui si alzò. «Ci hai spaventati a morte tutti quanti. Dopo avere iniziato ascandagliare, improvvisamente hai cominciato a tremare e sei partito verso

quel maledetto Greeshka, urlando. Dino e il brigadiere hanno dovuto tra-scinarti fuori a forza. Ci stavi entrando dentro, e ti era già arrivato fino alleginocchia. E tirava. Strano. Dino ti ha colpito, facendoti perdere i sensi.»Gourlay scosse la testa, poi andò verso la porta.

«Dove vai?» chiesi.«A dormire» rispose. «Sei rimasto senza conoscenza per quasi otto ore.

Dino mi ha chiesto di vegliare su di te finché non ti fossi ripreso. Bene, tisei ripreso. Adesso cerca di riposare, come farò anch'io. Ne riparliamo

domani.»«Io voglio parlarne ora.»

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«È tardi» disse, chiudendo la porta della stanza. Sentii il rumore dei suoipassi che si allontanavano e sono sicuro di aver udito anche lo scatto dellaserratura della porta che dava sul corridoio. Qualcuno era evidentemente inansia per i Talenti che se la svignano durante la notte. Io però non sareiandato da nessuna parte.

Mi alzai per prendere qualcosa da bere. C'era del veltaar nel frigorifero.Buttai giù un paio di bicchieri, l'uno dopo l'altro, e mangiucchiai qualcosa.Il mal di testa cominciò a diminuire. Poi tornai in camera da letto, spensi lalampada e schiarii la vetrata per far passare la luce delle stelle. Poi ripresi adormire.

Ma non mi addormentai, almeno non subito. Erano successe troppe cose

e dovevo pensare. Innanzitutto quell'incredibile mal di testa che non midava tregua. Com'era successo a Lya, anche se lei non aveva vissuto quelloche avevo vissuto io. O forse sì? Lei ha un Talento maggiore, è molto piùsensibile di me, capta più cose. Quella tempesta mentale poteva essere ar-rivata così lontano, a chilometri e chilometri di distanza, nel cuore dellanotte, quando gli umani e gli Shkeen stanno dormendo e i loro pensieri siaffievoliscono? Forse, e forse i sogni che ricordavo erano il pallido riflessodi tutto quello che lei aveva sperimentato in quelle notti. Ma i miei sogni

erano piacevoli: il problema era svegliarmi, aprire gli occhi e non ricorda-re.

Avevo avuto male alla testa anche mentre dormivo, o solo quando miero svegliato?

Che cosa accidenti era successo? Che cosa mi aveva preso, là nella grot-ta? Chi mi aveva tirato a sé? Il Greeshka? Per forza. Non avevo avuto iltempo di concentrarmi sulla Shkeen, doveva quindi essere stato lui. MaLyanna aveva detto che il Greeshka non ha mente, nemmeno un sì-io-

vivo...Attorno a me era tutto un turbinio di domande, e nessuna risposta. Allora

cominciai a pensare a Lya, a chiedermi dove fosse e perché mi avesse la-sciato. Aveva vissuto anche lei un'esperienza simile? Perché non l'avevocapito? A quel punto sentii la sua mancanza. Avevo bisogno di averla vi-cina, invece non c'era. Ero solo, e ne ero acutamente consapevole.

Mi addormentai.Una lunga oscurità e alla fine un sogno, e così ricordai. Mi trovavo di

nuovo nella pianura, la sconfinata distesa oscura, con il suo cielo senzastelle e le figure nere in lontananza, la piana di cui Lya parlava così spesso.

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Una delle sue poesie preferite. Ero solo, per sempre, e lo sapevo; era nellanatura delle cose. Ero l'unica creatura esistente in tutto l'universo; avevofreddo, fame, ero spaventato e le ombre si muovevano intorno a me, crude-li e inesorabili. Nessuno da poter chiamare, nessuno cui rivolgersi, nessunoche udisse le mie grida. Non c'era mai stato nessuno e non ci sarebbe maistato nessuno.

Poi arrivava Lya.Calava dal cielo senza stelle, pallida, sottile e fragile, e si fermava accan-

to a me sulla pianura. Si lisciava i capelli neri con una mano, guardandomicon i suoi grandi occhi raggianti, e sorrideva. Sapevo che non era un so-gno: lei era con me, in un certo senso.

Cominciammo a parlare.

"Ciao, Robb.""Lya? Ciao, dove sei? Perché mi hai lasciato?""Mi dispiace, ho dovuto. Cerca di capire, Robb, devi capire. Non volevo

più stare in questo orribile posto. Invece ci sarei dovuta rimanere in eterno:gli umani vengono spesso qui, ma solo per brevi istanti."

"Un contatto e una voce?""Sì, Robb. Poi di nuovo le tenebre e il silenzio. E la piana oscura.""Stai mescolando due poesie, Lya, ma va bene lo stesso. Le conosci me-

glio di me. Però non hai tralasciato qualcosa? La prima parte. 'Ah, amore,restiamo fedeli...'"

"Oh, Robb...""Dove sei?""Sono... dappertutto, ma per lo più nella grotta. Ero pronta, Robb, ero

già più aperta degli altri. Ho potuto saltare il Raduno e il Congiungimento.Il mio Talento mi ha abituato a condividere, così sono stata accettata."

"Per l'Unione Finale?"

"Sì.""Oh, Lya.""Robb, ti prego, unisciti a noi, unisciti a me. È la felicità, sai? Per sem-

pre e in eterno, appartenere, condividere, stare insieme. Sono nell'amore,Robb, insieme a miliardi di miliardi di persone, e so tutto di loro, più diquanto abbia mai saputo di te; e loro mi conoscono, sanno tutto di me, e miamano. E sarà così per sempre. Io, noi, l'Unione. Sono ancora io, ma sonoanche loro, capisci? E loro sono me. Leggere i Congiunti mi ha predispo-

sto, e ogni notte l'Unione mi chiamava, perché mi amava, sai? Oh, Robb,unisciti a noi. Ti amo."

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"L'Unione? Intendi il Greeshka? Ti amo anch'io, Lya, per favore tornaindietro. Non può averti già assorbita, dimmi dove sei, e ti verrò a cerca-re."

"Sì, vieni. Sono ovunque, Robb. Il Greeshka è uno solo, le grotte sonotutte collegate sotto le colline; i piccoli Greeshka fanno tutti parte dell'U-nione. Vieni e unisciti a me, amami come dici di amarmi. Sei così lontano,faccio fatica a raggiungerti, anche con l'Unione. Vieni, e sarai una cosa so-la con noi."

"No, non voglio essere mangiato. Ti prego, Lya, dimmi dove sei.""Povero Robb. Non ti preoccupare, amore. Il corpo non è importante: il

Greeshka ne ha bisogno per nutrirsi e noi abbiamo bisogno del Greeshka.Ma l'Unione non è solo il Greeshka, capisci? Il Greeshka non è importante,

non ha nemmeno una mente; lui è solo il mezzo, lo strumento: l'Unionesono gli Shkeen. Miliardi di miliardi di Shkeen, tutti gli Shkeen che sonovissuti e si sono Congiunti in quattordicimila anni, tutti insieme, che siamano, e appartengono gli uni agli altri, immortali. È bellissimo, Robb, èpiù di quello che avevamo noi, molto di più, ed eravamo già fortunati, ri-cordi? Questo è ancora di più."

"Lya, cara Lya, io ti amavo. Questo non è per te, non è per gli umani.Torna indietro."

"Non è per gli umani? Oh, sì invece! È quello che gli uomini hannosempre cercato, desiderato, per cui piangevano la notte da soli. È l'amore,Robb, il vero amore, del quale quello umano è solo una pallida imitazione.Capisci?"

"No.""Vieni, Robb, unisciti. Q sarai solo per sempre, nella piana, con soltanto

una voce e un contatto per andare avanti. E alla fine, quando il tuo corpomorirà, non avrai neanche questo: solo un'eternità di nero e di vuoto. La

piana per sempre, Robb, in eterno. E io non ti potrò più raggiungere. Nondeve succedere..."

"No.""Oh, Robb, mi sto dissolvendo. Per favore, vieni.""No, Lya, non andartene. Ti amo, non lasciarmi.""Ti amo, Robb. Ti ho amato, davvero..."E poi sparì. Ero di nuovo solo nella piana. Il vento soffiò da qualche par-

te, portando via l'eco delle sue parole, nella fredda vastità infinita.

Quella triste mattina la porta esterna della suite non era più chiusa a

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chiave. Il tubo ascensionale mi portò all'ufficio di Valcarenghi. Lo trovai,ed era da solo. «Tu credi in Dio?» gli chiesi a bruciapelo.

Lui mi guardò e sorrise. «Certo» rispose con disinvoltura. Lo stavoscandagliando: era un tema su cui non si era mai soffermato.

«Io no» replicai «e neanche Lya: i Talenti sono quasi tutti atei, sai. C'erastato un esperimento ancora su Vecchia Terra cinquant'anni fa, organizzatoda un grande Talento, di nome Linnel, che era anche un credente devoto.Facendo uso di alcune droghe e riunendo insieme le menti dei più potentiTalenti del mondo, pensava di poter raggiungere qualcosa che lui chiama-va il Sì-io-vivo universale, noto anche come Dio. L'esperimento fu un fal-limento, ma qualcosa in effetti successe: Linnel impazzì e gli altri tornaro-no a casa con la visione di un vasto, buio, insensibile nulla, un vuoto privo

di ragione, forma o significato. Altri Talenti hanno avuto la stessa perce-zione, e anche i Normali. Secoli fa c'era un poeta chiamato Matthew Ar-nold, che scrisse di una piana oscura. La poesia è in uno dei vecchi lin-guaggi, ma vale la pena leggerla. Mostra... la paura, credo. Qualcosa difondamentale nell'uomo, quel timore di essere da soli nel cosmo. Forse èsoltanto la paura della morte, forse qualcosa di più, non lo so, ma è pri-mordiale. Tutti gli uomini sono per sempre soli, anche se non vogliono,cercano, provano a stabilire un contatto, a raggiungere gli altri oltre il vuo-

to. Alcuni non ci riescono mai, altri occasionalmente. Lya e io eravamofortunati, ma comunque non è mai uno stato permanente. Alla fine sei dinuovo solo, nella tua piana oscura. Capisci, Dino? Lo capisci?»

Lui sorrise come divertito, non con scherno - non era nel suo stile - macon sorpresa e incredulità. «No» disse.

«Allora proverò a spiegarmi meglio. La gente cerca sempre qualcosa,qualcuno; le parole, il Talento, l'amore, il sesso, fa tutto parte della stessacosa, della stessa ricerca. E anche le divinità. L'uomo le ha inventate per-

ché ha paura di essere solo, è spaventato dall'universo vuoto, dalla pianaoscura. È per questo che i tuoi uomini si convertono, che la gente fa ilgrande passo. Hanno trovato Dio, o per lo meno il qualcosa il più possibilesimile a Dio che hanno potuto trovare. L'Unione è una mente di massa,immortale: molti in un solo, unico amore. Gli Shkeen non muoiono, dan-nazione, ecco perché non hanno il concetto di una vita nell'aldilà. Sannoche esiste un Dio: forse non ha creato l'universo, ma è amore, amore puro.E si dice che Dio è amore, no? O forse quello che noi chiamiamo amore è

una piccola parte di Dio. Non importa, comunque sia, l'Unione è questo.La fine della ricerca per gli Shkeen, e anche per l'uomo. In fondo, siamo

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tutti uguali, tanto che addolora.»Valcarenghi tirò un sospiro esagerato. «Robb, hai lavorato troppo: parli

come un Congiunto.»«Forse è quello che dovrei diventare. Lya lo è. Adesso fa parte dell'U-

nione.»Lui batté le palpebre. «Come lo sai?»«Questa notte mi è venuta a trovare in sogno.»«Ah, in sogno.»«Ma era vero, accidenti. È tutto vero.»Valcarenghi si bloccò e sorrise. «Ti credo. Cioè, credo che il Greeshka

usi un'esca psichica, un'esca d'amore se vuoi, per attirare le sue prede;qualcosa di così potente che convince gli uomini - persino te - che lui è

Dio. Pericoloso, certo. Dovrò pensarci prima di prendere provvedimenti.Potremmo sorvegliare le grotte per tenere lontani gli umani, ma ce ne sonotroppe, e sigillare il Greeshka non gioverebbe ai nostri rapporti con gliShkeen. Ma questo è un problema mio: tu hai portato a termine la tua mis-sione.»

Aspettai che avesse finito. «Ti sbagli, Dino. Questa è la realtà, non uninganno o un'illusione. L'ho sentito, e anche Lya. Il Greeshka non hanemmeno un sì-io-vivo, figurati un'esca psichica talmente potente da atti-

rare Shkeen e uomini.»«Ti aspetti che io creda che Dio è un animale che vive nelle grotte di

Shkea?»«Sì.»«Robb, è assurdo, e lo sai benissimo. Pensi che gli Shkeen abbiano tro-

vato la risposta ai misteri della creazione. Ma guardali! La più antica razzacivilizzata nello spazio conosciuto, rimasta ferma all'età del bronzo daquattordicimila anni. Siamo arrivati noi da loro. Dove sono le loro navi

stellari e le loro torri?»«Dove sono i nostri campanelli?» ritorsi. «E la nostra gioia? Loro sono

felici, Dino. Noi possiamo dire altrettanto? Forse hanno trovato quello chenoi ancora stiamo cercando. Perché l'uomo è così alla perenne ricerca, al-lora? Perché è in giro a conquistare la galassia, l'universo, qualsiasi cosa?Sta forse cercando Dio? Può darsi, però non riesce a trovarlo da nessunaparte; così va avanti, cerca, cerca, ma alla fine torna sempre alla stessapiana oscura.»

«Paragona i risultati: prendiamo l'operato dell'umanità.»«Pensi che ne valga la pena?»

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«Ritengo di sì.» Andò verso la vetrata e guardò fuori. «Noi abbiamo l'u-nica Torre che sovrasta il loro mondo» disse con un sorriso, guardando trale nubi sottostanti.

«Loro hanno l'unico Dio all'interno del nostro universo» replicai, ma luisi limitò a sorridere di nuovo.

«D'accordo, Robb» disse alla fine allontanandosi dalla finestra. «Terròpresente quanto mi hai riferito, e ritroveremo Lyanna.»

La mia voce si ammorbidì. «Lyanna è perduta. Adesso lo so. E lo saròpresto anch'io, se rimango ancora. Parto stanotte. Prenoterò un posto sullaprima nave che fa rotta su Baldur.»

Lui annuì. «Se vuoi, ho già pronto il vostro compenso.» Fece una smor-fia. «E appena ritroveremo Lya, faremo in modo che ti raggiunga. Imma-

gino che sarà un po' seccata, ma questi sono fatti vostri.»Non risposi, alzai le spalle e mi diressi verso il tubo ascensionale. Ero

quasi arrivato alla porta, quando lui mi chiamò.«Un momento» disse. «E se cenassimo insieme? Hai fatto un buon lavo-

ro, e abbiamo comunque in programma una serata di addio, Laurie e io.Anche lei parte.»

«Mi dispiace» dissi.Questa volta fu lui ad alzare le spalle. «E perché? Laurie è una bella per-

sona, mi mancherà, ma non è una tragedia. Ci sono altre belle persone.Penso che Shkea cominciasse a renderla inquieta.»

Nella foga e nel dolore per la perdita mi ero quasi dimenticato del mioTalento. Ci pensai allora, e lessi Valcarenghi. In lui non c'era dispiacere odolore, solo un vago disappunto; e, sotto, il solito muro che lo teneva sepa-rato. Quell'uomo che era amico di tutti e intimo di nessuno. Ed era come sesu quel muro ci fosse scritto: "Puoi arrivare fin qui, e non oltre".

«Vieni anche tu, ci divertiremo» disse. Io annuii.

Quando la nave decollò, mi chiesi perché partivo.Forse per tornare a casa. Abbiamo una casa a Baldur, lontano dalle città,

in uno dei continenti non sviluppati, dove l'unico vicino è il deserto. Sitrova su un dirupo, vicino a un'alta cascata che scroscia senza requie in unospecchio d'acqua verde, ombreggiato. Lya e io ci nuotavamo spesso, con ilsole, tra una missione e l'altra. Poi ci sdraiavamo nudi all'ombra degli a-rancispezia, e facevamo l'amore su un tappeto di muschio argentato. Forse

torno per questo, ma non sarà più lo stesso senza Lya...Potrei essere ancora con lei, adesso, sarebbe stato facile, semplicissimo:

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una lenta camminata in una caverna buia, un breve sonno, e Lya sarebbestata mia per sempre, mi avrebbe condiviso, sarebbe stata me, e io lei. Cisaremmo amati e conosciuti l'un l'altra oltre i limiti umani: gioia e unione,e niente più oscurità, in eterno. Dio. Se credevo in quello che avevo detto aValcarenghi, perché allora mi ero negato a Lya?

Forse perché non sono sicuro, forse spero ancora in qualcosa di piùgrande e più amorevole dell'Unione, nel Dio di cui mi hanno parlato tantotempo fa; forse sto correndo un rischio, perché una parte di me crede anco-ra, ma se sbaglio... saranno le tenebre, e la piana...

Ma forse è qualcos'altro, che ho visto in Valcarenghi e che mi ha fattodubitare di quanto avevo detto.

Perché l'uomo è, per un motivo o per l'altro, più avanti degli Shkeen. Ci

sono persone come Dino e Gourlay, oppure come Lya e Gustaffson, per-sone che hanno tanta paura dell'amore e dell'Unione, ma al tempo stesso lidesiderano: allora si crea una scissione. L'uomo ha forse due impulsi pri-mari e lo Shkeen uno solo? In questo caso magari c'è una risposta per en-trare in contatto, unirsi e non essere soli, e tuttavia restare ancora umani.

Non invidio Valcarenghi. Credo che in realtà pianga dietro il suo muro,e nessuno lo sa, nemmeno lui. E nessuno lo saprà mai, e alla fine saràsempre solo nel suo sorridente dolore. No, non lo invidio affatto.

Eppure in me c'è qualcosa di lui, Lya, così come di te. Ed è per questoche fuggo, anche se ti ho amata.

Laurie Blackburn era sulla mia stessa nave. Ho mangiato con lei dopo illancio e abbiamo trascorso la serata a discorrere, sorseggiando vino. Nonsarà stata una conversazione allegra, però era umana. Entrambi avevamobisogno di qualcuno, e ci siamo abbracciati.

Più tardi, l'ho portata nella mia cabina e ho fatto l'amore con lei con tuttal'intensità che potevo esprimere. Poi, mentre l'oscurità si attenuava, siamo

andati avanti a parlare tenendoci abbracciati.

"A Song for Lya" copyright © 1974 by the Conde Nast Publications,Inc. Copyright renewed © 2002 by George R.R. Martin. From "Analog",June 1974.

QUESTA TORRE DI CENERE

La mia torre è fatta di mattoni, mattoni piccoli di un grigio fuligginosotenuti insieme da una malta di una sostanza nera lucente, che ai miei occhi

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inesperti sembra stranamente simile all'ossidiana, anche se di certo nonpuò esserlo. Si trova presso un braccio del mar Magro, è alta sei metri mapende da un lato, e dista pochi passi dal bosco.

L'ho scoperta quasi quattro anni fa, quando Squirrel e io ce ne siamo an-dati da Port Jamison con l'aeromobile argento che adesso giace sventrato ecoperto di rovi ed erbacce non lontano dall'ingresso della torre. Ancoraoggi so ben poco della sua struttura, ma mi sono fatto le mie teorie.

Intanto non credo che sia stata costruita da esseri umani. È di sicuro pre-cedente alla nascita di Port Jamison e spesso ho il sospetto che risalga ad-dirittura a un periodo anteriore alla conquista umana dello spazio. I matto-ni (che sono stranamente piccoli, meno di un quarto delle dimensioni deilaterizi normali) sono rovinati, erosi, consunti: mi si sbriciolano sotto i

piedi. Dappertutto c'è polvere e so bene da dove proviene: più di una voltaho tirato fuori un mattone dalla balaustra del tetto e l'ho frantumato sem-plicemente stringendolo in mano. Quando soffia il vento salmastro da o-riente, dalla torre si alza una nube di cenere.

I mattoni all'interno sono in condizioni migliori, perché il vento e lapioggia non li hanno corrosi più di tanto, ma l'ambiente è tutt'altro chegradevole: c'è un unico locale, pieno di cenere e di rimbombi, senza fine-stre, la luce viene solo dall'apertura circolare al centro del tetto. Una scala

a chiocciola, anch'essa di vecchi mattoni, è scavata nei muri perimetrali esale circolarmente, come la filettatura di una vite, fino al livello del tetto.Salire non è un problema per Squirrel, piccolo come sono i gatti, ma per unpiede umano gli scalini sono stretti e scomodi.

Io, però, ci salgo. Ogni notte rientro dalla fresca boscaglia, con le miefrecce annerite dal sangue coagulato dei ragni sognanti e la giberna pienadelle loro sacche di veleno, sistemo l'arco al fianco, mi lavo le mani, poisalgo sul tetto e vi passo le poche ore che mancano all'alba. Al di là dello

stretto braccio di mare, sull'isola, si vedono le luci di Port Jamison chebrillano e da lassù la città non sembra quella che ricordavo. Gli edifici nerie squadrati di notte emettono un bagliore romantico; le luci, di un arancio-ne fumoso e di un tenue azzurro, parlano di mistero, di canti silenziosi, diuna solitudine sconfinata, mentre le astronavi vanno su e giù tra le stellecome le instancabili lucciole della mia infanzia su Vecchia Terra.

"Laggiù ci sono tante storie" avevo spiegato una volta a Korbec, primadi saperne di più. "C'è qualcuno dietro ciascuna luce, ognuno con una sua

vita, una sua storia. Solo che conducono le proprie esistenze senza maisfiorarci, così noi quelle storie non le conosceremo mai." Mi pare che stes-

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si gesticolando: ero, ovviamente, ubriaco fradicio.Korbec mi aveva risposto con un ampio sorriso e aveva scosso la testa.

Era un omaccione grasso e scuro di carnagione, con una barba che parevafilo di ferro ritorto. Usciva tutti i giorni dalla città, con la sua aeromobilenera piena di rattoppi, per scaricare le mie provviste e ritirare il veleno cheavevo raccolto, e una volta al mese salivamo sul tetto e ci prendevamo unabella sbronza. Un camionista dello spazio, ecco cos'era Korbec, un vendi-tore di sogni a buon mercato e di arcobaleni di seconda mano. Ma gli pia-ceva considerarsi un filosofo e uno studioso degli esseri umani.

"Non t'illudere" mi aveva detto, offuscato dal vino e dall'oscurità. "Nonti perdi niente. Le vite sono pessime storie: quelle vere, in genere, hannouna trama, un inizio, uno sviluppo e quando è il momento finiscono, a me-

no che il personaggio non abbia una storia a puntate. La vita della gentenon è così: le persone vagano senza meta e continuano ad andare avanti,avanti. Non c'è mai una vera fine."

"La gente muore" avevo obiettato. "Mi pare che sia sufficiente."Korbec aveva fatto un versaccio. "Certo, ma hai mai saputo di qualcuno

che è morto al momento giusto? No, le cose non vanno così. Un tizioscompare quando la sua vita non è nemmeno cominciata, un altro quando ènel pieno del rigoglio, altri ancora si ostinano a restare vivi anche dopo che

tutto è finito."Spesso quando me ne stavo seduto lassù da solo, con Squirrel in grembo

che mi scaldava e un bicchiere di vino accanto, ho ripensato alle parole diKorbec e alla gravità con cui le aveva pronunciate; nella sua voce roca c'e-ra un tono stranamente gentile. Non è un uomo brillante, Korbec, però cre-do che quella sera avesse detto il vero, forse senza rendersene conto. Ma lostanco realismo del quale mi aveva fatto dono in quell'occasione è l'unicoantidoto ai sogni che i ragni continuano a tessere.

Io, però, non sono Korbec e non posso diventarlo, e anche ammettendola sua verità non riesco a viverla.

Ero fuori ad allenarmi con l'arco nel tardo pomeriggio, con addosso soloun paio di calzoncini e la faretra, quando arrivarono. Era quasi l'imbruniree mi stavo preparando alla mia perlustrazione notturna (fin dall'inizio lamia vita qui andava dal tramonto all'alba, come quella dei ragni sognanti).L'erba sotto i piedi nudi era piacevole, e ancora più piacevole era sentire in

mano il legnargento del mio arco a doppia curvatura; stavo tirando bene.Poi li udii arrivare. Gettai un'occhiata alle mie spalle e vidi l'aeromobile

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blu scura che si stagliava sempre più grande nel cielo a oriente. Dovevaper forza essere Gerry. Lo riconobbi dal suono: la sua vettura ha semprefatto rumore, da quando lo conosco.

Voltai loro la schiena, tesi con calma l'arco e feci il primo centro dellagiornata.

Gerry fece scendere l'aeromobile tra le erbacce vicino alla base della tor-re, a pochi metri da me. Insieme a lui c'era Crystal, seria e sottile: i lunghicapelli dorati emanavano riflessi rossi sotto il sole pomeridiano. Sceserodalla vettura e si diressero verso di me.

«Non state vicino al bersaglio» li avvertii, incoccando un'altra freccia etendendo l'arco. «Come avete fatto a trovarmi?» Alla mia domanda fece dacontrappunto il suono della freccia che si conficcava vibrando nel bersa-

glio.Fecero una cauta deviazione per tenersi fuori della linea di tiro. «Una

volta ci hai raccontato di avere scoperto questo posto dall'alto» risposeGerry «e sapevamo che non eri più a Port Jamison. Abbiamo provato a ve-dere se eri qui.» Si fermò a pochi passi da me con le mani sui fianchi: eracome me lo ricordavo, alto, con i capelli scuri e in perfetta forma. Crystalsi mise al suo fianco e gli appoggiò una mano sul braccio.

Abbassai l'arco e mi voltai verso di loro. «Va bene, mi avete trovato. E

allora?»«Eravamo preoccupati per te, Johnny» sussurrò Crystal. Ma evitò il mio

sguardo quando la fissai.Gerry le cinse la vita con un atteggiamento possessivo e qualcosa mi

bruciò dentro. «Scappare non risolve niente» mi disse poi, in quel tono diamichevole preoccupazione mista ad arrogante condiscendenza con cui miaveva trattato per mesi.

«Non sono scappato» replicai con voce tesa. «Dannazione! Non sareste

mai dovuti venire.»Crystal lanciò un'occhiata a Gerry, con aria abbattuta, ed era chiaro che

ormai la pensava come lui. Gerry si strinse nelle spalle. Non credo che a-vesse mai capito perché dicessi quello che dicevo e facessi quello che fa-cevo. Tutte le volte che ne discutevamo, il che non succedeva spesso, cer-cava di spiegarmi vagamente perplesso che cosa avrebbe fatto se fosse sta-to al mio posto. Gli sembrava stranissimo che qualcuno si comportasse inun modo diverso dal suo nella stessa situazione.

La sua smorfia di disapprovazione non mi toccò, ma ormai il danno erafatto. Nel mese in cui ero rimasto volontariamente esiliato nella torre, ave-

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vo cercato di fare i conti con le mie azioni e con il mio stato d'animo, e nonera stato affatto facile. Crystal e io eravamo insieme da tanto tempo, quasidue anni, quando eravamo arrivati sul pianeta di Jamison, cercando di sco-prire l'origine di certi rari manufatti d'argento e ossidiana che avevamoraccolto su Baldur. Per tutto quel tempo l'avevo amata e l'amavo ancora,perfino in quel momento, dopo che mi aveva lasciato per stare con Gerry.Quando mi sentivo a posto con me stesso, mi sembrava che l'impulso chemi aveva indotto ad andarmene da Port Jamison fosse stato nobile e altrui-sta. Volevo solo che Crys fosse felice, e con me vicino non avrebbe potutoesserlo. Le mie ferite erano troppo profonde e non ero capace di tenerlenascoste a entrambi, la mia presenza soffocava la nuova felicità che avevatrovato con Gerry. Visto che Crys non ce la faceva a rompere del tutto con

me, mi ero sentito obbligato a dare io un taglio netto. Per loro, per lei.Almeno così mi andava di raccontarmela. Poi c'erano ore in cui quella

brillante spiegazione razionale andava in pezzi, ore buie di disgusto per mestesso. Era proprio quella la vera ragione? O mi ero allontanato solo perfarmi del male, in un impeto autodistruttivo di rabbia infantile, e così fa-cendo punire loro due, come un bambino testardo che pensa al suicidioquale forma di vendetta?

A dire il vero, non lo sapevo. Per tutto il mese ero passato da una certez-

za a quella opposta, cercando di capire quello che volevo e di decidere checosa fare. Mi piaceva vedermi come un eroe, disposto a sacrificarsi per lafelicità della donna amata, ma le parole di Gerry erano chiare: lui non lapensava affatto così.

«Perché devi sempre fare tante scene?» mi chiese con aria ostinata. Eracome al solito deciso a dimostrarsi una persona molto civile e sembravacontrariato perché io non volevo riscuotermi e curare le mie ferite, in modoche tutti tornassimo a essere amici. Niente m'irritava di più della sua irrita-

zione: mi pareva, tutto sommato, di gestire piuttosto bene la situazione edero infastidito dalla sua insinuazione che non fosse così.

Ma Gerry era deciso a cambiarmi, e perfino il mio sguardo più sprezzan-te era sprecato per lui. «Abbiamo intenzione di restare qui e di sviscerarela faccenda, finché non ti deciderai a rientrare a Port Jamison con noi» micomunicò in tono estremamente deciso.

«Merda!» esclamai, e mi allontanai bruscamente da loro estraendo conrabbia una freccia dalla faretra. La sistemai sull'arco, lo tesi e scoccai il

colpo, tutto troppo in fretta. La freccia mancò il bersaglio di trenta centi-metri abbondanti e s'infilzò in uno dei fragili mattoni scuri della mia torre

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cadente.«Che razza di posto è questo?» chiese Chrys, osservando la torre come

se la guardasse per la prima volta. Forse era proprio così e c'era voluta l'in-congrua vista della freccia che si conficcava nel muro per farle notare l'an-tica costruzione. Ma era più probabile che avesse cambiato argomento ap-posta, con l'idea di impedire la lite che stava per esplodere tra Gerry e me.

Riabbassai l'arco e mi accostai al bersaglio per recuperare le frecce cheavevo scoccato. «Veramente non lo so con certezza» risposi, un po' piùcalmo e ben lieto di raccogliere l'imbeccata. «Una torre d'avvistamento,credo, non di origine umana. Il pianeta di Jamison non è mai stato esplora-to a fondo. È possibile che una volta ci vivesse una razza raziocinante.»Superai il bersaglio e mi avvicinai alla costruzione per strappare l'ultima

freccia dal mattone corroso. «In realtà, potrebbero essere ancora qui. Sap-piamo così poco di quello che succede sulla terraferma.»

«Un posto maledettamente squallido per viverci, se vuoi sapere la miaopinione» commentò Gerry, osservando la torre. «Da come si presenta, po-trebbe crollare da un momento all'altro.»

Gli risposi con un sorriso divertito. «L'avevo pensato anch'io. Ma quan-do ero arrivato qui, non m'interessava più niente.» Appena quelle parolemi uscirono di bocca, rimpiansi di averle pronunciate; Crys era trasalita.

Era andata sempre così nelle mie ultime settimane a Port Jamison. Perquanti sforzi facessi, mi sembrava di avere solo due alternative: o mentireo farle del male. Nessuna delle due mi piaceva e per questo ero lì. Ma a-desso c'erano anche loro due e quella situazione insostenibile si ripresenta-va.

Gerry stava per fare un altro commento, quando Squirrel spuntò a balzitra l'erba, precipitandosi verso Crystal.

Lei gli sorrise, s'inginocchiò e un attimo dopo l'animale era già ai suoi

piedi, a leccarle e mordicchiarle le dita. Squirrel era chiaramente contento.Gli piaceva vivere alla torre. A Port Jamison la sua esistenza era limitatadalle paure di Crystal, che temeva che finisse inghiottito nell'intrico di vi-coli, inseguito dai cani o torturato dai bambini del posto. Laggiù invece lolasciavo correre in libertà e la cosa lo rendeva felice. La sterpaglia che cir-condava la torre era popolata da topi frusta, una razza di roditori locali conla coda nuda lunga tre volte il corpo. Sulla punta avevano un pungiglione,ma a Squirrel non importava, anche se faceva la gobba e s'irritava ogni

volta che c'era una coda di mezzo. Gli piaceva appostarsi e acchiapparequei topi tutto il giorno. Si era sempre considerato un abile predatore, ma

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non ci vuole una grande abilità per dare la caccia alle scatolette di cibo pergatti.

Mi conosceva da più tempo di Crys, ma quando stavamo insieme lei glisi era molto affezionata. Ho spesso pensato che se ne sarebbe andata conGerry molto prima, se non fosse stata turbata all'idea di lasciare Squirrel.Non che quel gatto fosse una bellezza: piccolo, magro, con l'aria vissuta,orecchie da volpe e pelo malconcio grigio e fulvo, una coda folta, il doppiorispetto alla sua taglia. L'amica che me lo aveva regalato su Avalon mi a-veva informato tutta seria che si trattava del figlio illegittimo di una psico-gatta, nata da manipolazioni genetiche, e di un micio bastardo e randagio.Anche se avesse avuto davvero la capacità di leggere nella mente del suopadrone, non sembrava tenerne conto. Quando voleva le coccole, per e-

sempio, saltava proprio sul libro che stavo leggendo, lo spingeva via e co-minciava a mordicchiarmi una guancia; quando voleva starsene per contosuo, era pericoloso anche solo provare ad accarezzarlo.

Mentre stava accucciata accanto al gatto che le strofinava il muso sullamano, Crystal sembrava la stessa donna con la quale avevo viaggiato, fattoall'amore, conversato all'infinito, dormito ogni notte, e di colpo avvertiiquanto mi fosse mancata. Mi pare di avere sorriso; rivederla, anche inquella situazione, mi dava un senso di gioia, sia pure oscurato da un'ombra

di tristezza. Pensai che forse ero stato stupido, sciocco e vendicativo a vo-lerli mandare via, in fondo erano arrivati fin lì solo per me. Crys era sem-pre Crys e Gerry non poteva essere così male, visto che lei lo amava.

Osservandola in silenzio, presi una decisione: avrei lasciato che restasse-ro. Avremmo visto come sarebbero andate le cose. «Fa quasi buio» mi sen-tii dire. «Non avete fame?»

Crys mi guardò, continuando ad accarezzare Squirrel, e sorrise. Gerryannuì. «Certo.»

«Benissimo» feci. Li oltrepassai e sulla soglia mi voltai verso di loro,invitandoli a entrare con un gesto. «Benvenuti nel mio rudere».

Accesi le torce elettriche e cominciai a preparare la cena. La mia dispen-sa era ben rifornita in quei giorni: non avevo ancora cominciato a viveredei prodotti dei boschi. Scongelai tre bei sandragoni, i crostacei dal guscioargenteo che i pescatori di Port Jamison estraggono dalla sabbia, e li serviiaccompagnati da pane, formaggio e vino bianco.

La conversazione a tavola fu cauta e garbata: parlammo degli amici co-

muni di Port Jamison, Crystal mi disse di una lettera che aveva ricevuto dauna coppia che avevamo conosciuto su Baldur, Gerry si dilungò su argo-

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menti politici e sugli sforzi della polizia di Port per stroncare il traffico diveleno dei sogni. «Il consiglio ha finanziato una ricerca per una specie disuperinsetticida che elimini del tutto i ragni sognanti» mi spiegò. «Unabella spruzzata lungo la costa sopprimerebbe gran parte delle fonti di rifor-nimento, credo.»

«Certamente» assentii, reso un po' alticcio dal vino e irritato dalla stupi-dità di Gerry. Una volta di più, ascoltandolo, mi veniva da dubitare dei gu-sti di Crystal. «Pazienza se avrà altri effetti sull'ecosistema, no?»

Gerry alzò le spalle. «È la terraferma» si limitò a commentare. Era il ti-pico cittadino di Port Jamison e la sua frase si traduceva così: "Che m'im-porta?". Gli eventi della storia avevano fatto sì che la gente del posto aves-se un singolare atteggiamento di disprezzo nei confronti dell'unico grande

continente del pianeta. Gran parte dei primi coloni veniva da Vecchia Po-seidonia, dove il mare aveva offerto sostentamento a intere generazioni.Gli oceani ricchi di vita e i pacifici arcipelaghi del nuovo pianeta li aveva-no attratti molto di più delle oscure foreste della terraferma. I loro figli e-rano cresciuti con lo stesso atteggiamento, tranne quei pochi che avevanotrovato il modo di fare guadagni illeciti vendendo sogni.

«Io non la prenderei tanto alla leggera» insistetti.«Sii realista» ribatté Gerry. «La terraferma non serve a nessuno, a parte i

cacciatori di ragni. Chi ne risentirebbe?»«Accidenti, Gerry, guarda questa torre! Da dov'è spuntata? Te lo dico io!

Possono esserci forme di vita intelligenti, fra questi boschi. La gente diPort Jamison non si è mai presa il disturbo di controllare.»

Crystal annuiva da sopra il bicchiere. «Johnny potrebbe avere ragione»disse lanciando un'occhiata a Gerry. «È per questo che ero venuta qui, ri-cordi? I manufatti. Nella bottega di Baldur ci avevano detto che arrivavanoda Port Jamison, ma circa la loro origine non sapevano altro. E il tipo di

lavorazione... ho trattato arte aliena per anni, Gerry. Conosco le opere deiFyndii, dei Damoosh e di tutti gli altri. Quella era diversa.»

Gerry si limitò a sorridere. «Ciò non dimostra niente. Ci sono tante altrerazze, a milioni, più in là, verso il centro della galassia. Le distanze sonoimmense e per questo ne abbiamo notizia molto di rado, ma non è impos-sibile che di tanto in tanto un loro oggetto artistico arrivi fino a noi.» Scos-se la testa. «Chi può dirlo? Potrebbe darsi che qualcuno sia arrivato primadi Jamison su questo pianeta e non abbia mai riferito della sua scoperta.

Forse è lui che ha costruito questa torre. Non me la bevo la storia di esserisenzienti sul continente.»

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«Almeno fino a quando non avrai affumicato questi maledetti boschi e livedrai uscire urlanti agitando le spade» ribattei sarcastico.

Gerry scoppiò a ridere e anche Crystal sorrise.D'un tratto mi venne una voglia irrefrenabile di avere la meglio in quella

discussione. I miei pensieri avevano quella confusa chiarezza che solo ilvino può dare e mi parevano assolutamente logici. Avevo ragione io, eraevidente, e quella era l'occasione buona per dimostrare che Gerry era unpiccolo provinciale e per farmi bello agli occhi di Crys.

Mi sporsi in avanti. «Se voi di Port vi decideste a dare un'occhiata, li po-treste trovare. Sono sul continente solo da un mese e ho già scoperto tantecose. Non hai la minima idea delle bellezze che proclami così stupidamen-te di voler cancellare. Qui fuori c'è tutto un sistema ecologico, diverso da

quello delle isole, tantissime specie probabilmente non ancora individuate.Ma tu che ne sai? Che ne sapete tutti quanti?»

Gerry annuì. «Allora, fammi vedere» disse alzandosi di colpo in piedi.«Ho sempre voglia di imparare, Bowen. Perché non ci accompagni a vede-re tutte le meraviglie della terraferma?»

Penso che anche lui volesse avere la meglio: probabilmente non credevache avrei accettato la sfida, ma era proprio quello che cercavo. Fuori erabuio, ormai, e conversavamo alla luce delle torce. Oltre l'apertura del tetto,

lassù, brillavano le stelle. Il bosco sarebbe stato brulicante di vita, aquell'ora, e di colpo fui impaziente di andare, con l'arco in pugno, in quelmondo dove io ero una potenza e un amico, e Gerry solo un impacciato tu-rista.

«Crystal?»Sembrava incuriosita. «Mi pare divertente, se non c'è pericolo.»«Non ce ne sarà» confermai. «Prenderò l'arco.» Si alzò anche lei e sem-

brò contenta. Mi vennero in mente le volte in cui ci eravamo avventurati

insieme nei luoghi più selvaggi di Baldur e improvvisamente fui feliceanch'io, sicuro che tutto sarebbe andato per il meglio. Gerry faceva parte diun brutto sogno. Era impossibile che lei ne fosse davvero innamorata.

Per prima cosa tirai fuori le pillole smaltisti-sbornia: mi sentivo bene,ma non abbastanza da avventurarmi nella boscaglia ancora stordito dal vi-no. Crystal e io le inghiottimmo subito e pochi secondi dopo gli effettidell'alcol cominciarono a svanire.

Gerry, invece, rifiutò con un gesto la pastiglia che gli offrivo. «Non ho

bevuto tanto. Non mi serve.»Alzai le spalle e pensai che le cose si mettevano sempre meglio. Se

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Gerry fosse andato a sbattere contro qualche pianta ubriaco, non avrebbepotuto evitare che Crys si allontanasse da lui. «Come vuoi» gli dissi.

Nessuno dei due aveva indumenti adatti per un'escursione del genere,ma pensavo che non fosse un problema, anche perché non avevo intenzio-ne di portarli nel folto della boscaglia. Sarebbe stato un giro rapido, se-guendo per un po' il mio solito sentiero; avrei mostrato loro il tumulo dipolvere e la buca dei ragni, e forse avrei infilzato un ragno sognante per lo-ro. Niente di che, saremmo andati e tornati.

Infilai lo spolverino nero e gli stivali pesanti, presi la faretra, porsi aCrys una pila tascabile, nell'eventualità che ci fossimo allontanati dalla zo-na del muschio azzurro, e afferrai l'arco.

«Ti serve davvero?» mi chiese Gerry con sarcasmo.

«Per proteggerci.»«Non sarà poi così pericoloso.»Non lo è se sai quello che fai, ma non glielo dissi. «Allora come mai voi

cittadini ve ne state sulla vostra isola?»Sorrise. «Mi fiderei di più di una pistola laser.»«Io coltivo un desiderio di morte: per lo meno, l'arco lascia un'opportu-

nità alla preda.»Crys mi rivolse un sorriso che nasceva dai ricordi condivisi. «Caccia so-

lo animali predatori» spiegò a Gerry. Feci un leggero inchino.Squirrel accettò di fare la guardia al castello. Calmo e sicuro di me, mi

allacciai un coltello alla cintura e condussi la mia ex moglie e il suo inna-morato fra i boschi del pianeta di Jamison.

Procedevamo vicini in fila indiana, io in testa con l'arco, Crys in mezzoe Gerry dietro di lei. Crys accese la pila appena uscimmo, illuminando ilsentiero che seguivamo in mezzo al folto delle palme freccia che s'innalza-va come un muro di fronte al mare. Quelle piante, slanciate e drittissime,

con una ruvida corteccia grigia e tronchi grossi come la mia torre, raggiun-gevano un'altezza assurda prima di far spuntare una serie di rametti stenta-ti. In certi punti si infittivano, rendendo difficoltoso passare fra i tronchi ea volte formavano una barriera insuperabile che, al buio, ci si parava da-vanti all'improvviso. Crys, però, riusciva sempre a trovare un varco, conme avanti che le indicavo dove puntare la pila.

Avevamo lasciato la torre da dieci minuti e l'aspetto del bosco comin-ciava a cambiare. Il terreno e l'aria erano più secchi, il vento era fresco, ma

senza l'aroma salmastro; le palme freccia assetate assorbivano quasi tuttal'umidità presente nell'aria. Cominciavano ad apparire altre specie di pian-

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te: gli alberi folletti, piccoli e deformi, similquerce dalle ampie fronde,graziosi ebani fiamma, le cui venature rosse pulsavano brillanti nel buiodella boscaglia quando la luce della pila di Crys le colpiva.

E il muschio azzurro.Poco all'inizio: qua un intreccio di fili che pendeva da un albero folletto,

là una chiazza blu a terra, che spesso s'inerpicava sul tronco di un ebanofiamma o di una palma freccia secca e isolata. Sotto i nostri piedi il tappetosi faceva sempre più spesso, mentre in alto, tra le foglie, si stendevano co-perte di muschio che penzolavano tra un ramo e l'altro danzando al vento.Crystal fece ruotare il fascio di luce sui grappoli più grossi e belli di sofficifunghi azzurri. Ai margini della zona illuminata cominciai a scorgere ilbagliore.

«Spegni» dissi, indicando la pila e Crys obbedii.Restammo al buio per un istante, poi i nostri occhi si adattarono a quel

vago lucore. Intorno a noi tutto il bosco era soffuso di un tenue fulgore:sembrava che il muschio azzurro ci irradiasse con la sua spettrale fosfore-scenza. Eravamo in piedi al bordo di una piccola radura, sotto i rami neri elucenti di un ebano fiamma, ma perfino le venature rosso brillante del suotronco parevano fredde alla tenue luce bluastra. Il muschio azzurro avevaavuto la meglio sul sottobosco, aveva preso il posto dell'erba e trasformato

gli arbusti in pelose palle azzurre. Si arrampicava sui tronchi di quasi tuttigli alberi e quando guardammo in su, tra i rami, verso le stelle, notammoaltre colonie che formavano un'aureola splendente fra una pianta e l'altra.

Appoggiai con cautela l'arco al tronco scuro di un ebano fiamma, michinai e porsi a Crys una manciata di luce. Mentre la tenevo sotto il suomento, lei mi sorrise di nuovo, e i tratti del suo viso erano ancora più dolcial magico, algido bagliore che tenevo in mano. Ricordo la sensazione digioia che provai per averli portati a vedere una simile bellezza.

Invece Gerry si limitò a ghignare. «È questa roba che metteremmo in pe-ricolo, eh, Bowen? Un bosco pieno di muschio azzurro?»

Lasciai cadere il muschio. «Non lo trovi bello?»Gerry alzò le spalle. «Sì, certo. È anche un fungo, un parassita con la pe-

ricolosa tendenza a sopraffare e soffocare ogni altra forma di vita vegetale.Una volta il muschio era fittissimo su Jolostar e nell'arcipelago di Barbis,lo sai. Lo abbiamo estirpato completamente: poteva distruggere un interoraccolto di cereali in meno di un mese.» Scosse la testa.

Crys annuì. «Ha ragione.»Li fissai a lungo; ormai mi sentivo lucidissimo, l'effetto del vino era del

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tutto scomparso. All'improvviso mi colpì il pensiero che, senza renderme-ne conto, mi ero costruito un bel castello in aria. Là fuori, in un mondo checominciavo a considerare mio, fatto di ragni sognanti e di muschio azzur-ro, mi ero illuso di potermi riprendere un sogno da tempo svanito, la miasorridente, cristallina anima gemella. In mezzo alla natura selvaggia e sen-za tempo del continente, avevo creduto che lei ci avrebbe visti entrambisotto una luce nuova e avrebbe finalmente capito che ero io quello che a-mava.

Così avevo tessuto una bella tela, lucida e seducente come la trappola diun ragno sognante, ma era bastata una parola di Crys per lacerare quegliesili filamenti. Lei era di Gerry: non più mia, né ora né mai. E se a mequell'uomo sembrava sciocco, insensibile, materialista, be', forse era pro-

prio per quei tratti del suo carattere che Crys lo aveva scelto. O forse no:non avevo alcun diritto di giudicare i suoi sentimenti, e probabilmente nonli avrei mai capiti.

Scossi via le ultime tracce di muschio dalle mani, mentre Gerry prende-va la torcia di Crys e la riaccendeva. Il mio universo azzurro e incantato sidissolse, spazzato via dalla lucida realtà del fascio di luce. «Che si fa?»chiese sorridendo. Dopotutto non era poi così ubriaco.

Ripresi l'arco da dove l'avevo appoggiato. «Seguitemi» dissi seccamen-

te. Entrambi sembravano curiosi e interessati, ma il mio stato d'animo eradecisamente cambiato. Da un momento all'altro mi sembrava che quellagita avesse perso ogni significato. Avrei voluto che se ne fossero andati,per tornarmene nella mia torre da solo con Squirrel. Ero proprio a terra...

... e disperato. Nel folto del bosco appesantito dal muschio, arrivammo aun torrente dalle acque scure e il lampo della torcia colpì un solitario ferro-corno che era lì ad abbeverarsi. L'animale ci diede un'occhiata rapida, al-larmato, poi con un balzo scomparve tra gli alberi, simile al liocorno delle

antiche leggende terrestri. Una vecchia abitudine mi spinse a cercare losguardo di Crys, ma i suoi occhi erano fissi in quelli di Gerry e gli sorride-va.

Poi, mentre c'inerpicavamo lungo un pendio roccioso, si profilò vicinis-sima l'apertura di una grotta: dall'odore riconobbi la tana di un ringhio dellegno.

Mi girai per metterli in guardia, ma in quel momento scoprii di avereperso il mio seguito. I due erano rimasti indietro di una decina di passi, alla

base delle rocce, camminavano lentamente e conversavano tranquilli te-nendosi per mano.

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Incupito, irritato, senza parole, mi voltai di nuovo e proseguii oltre lacollina. Non parlammo più fino a quando arrivammo al tumulo di polvere.

Mi fermai ai margini, con gli stivali che affondavano di qualche centi-metro nella sottile sostanza grigia. Loro arrivarono arrancando dietro dime. «Vieni qui, Gerry» feci. «Accendi la pila adesso.»

Il fascio di luce vagò nel buio. La collina pietrosa era alle nostre spalle,rischiarata qua e là dai freddi bagliori del muschio azzurro sparso sulla ve-getazione. Ma davanti a noi c'era solo desolazione, un grande spiazzo vuo-to, nero, arido e senza vita, illuminato dalle stelle. Gerry muoveva la torciaavanti e indietro, il cono di luce era netto ai piedi del tumulo e sbiadivaquando lui lo puntava dritto e lontano. L'unico suono che si percepiva erail sibilo del vento.

«Allora?» chiese alla fine.«Tocca la polvere» gli dissi. Non avevo intenzione di cedere, stavolta.

«E quando saremo tornati alla torre, spacca uno dei mattoni e senti com'è.È lo stesso materiale, una specie di cenere.» Feci un ampio gesto. «Mi fapensare che forse un tempo qui sorgeva una città, e che ora tutto si è sgre-tolato e polverizzato. Forse la torre era un avamposto delle persone chel'avevano costruita.»

«Gli abitanti intelligenti della foresta ormai scomparsi» commentò Gerry

con il suo immancabile sorriso. «Be', devo ammettere che sulle isole nonc'è niente di simile. Per una buona ragione: non lasciamo che gli incendidivampino nei boschi senza controllo.»

«Incendi! A chi la racconti? Un incendio non riduce le piante in una pol-vere così fina; e poi resta sempre qualche tronco annerito, qualche traccia.»

«Ah, sì? Forse hai ragione. Ma in tutte le città in rovina che ho visto ri-mangono ancora dei resti che i turisti possono fotografare.» Passò il fasciodi luce da una parte all'altra del tumulo, per dimostrare il contrario. «Qui

c'è soltanto una montagna di spazzatura.»Crystal taceva.Presi la via del ritorno e loro mi seguirono in silenzio. La mia situazione

peggiorava di minuto in minuto: era stata un'idiozia portarli fin là. A quelpunto avevo in mente una sola cosa: raggiungere la mia torre il più in frettapossibile, rispedirli a Port Jamison e riprendere il mio eremitaggio.

Appena superata la collina, all'inizio del bosco di muschio azzurro,Crystal mi chiamò.

Mi fermai e loro mi raggiunsero. Crys indicò qualcosa.«Spegni la luce» ordinai a Gerry. Al tenue bagliore del muschio era più

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facile scorgerla: era la ragnatela intricata e iridescente di un ragno sognan-te, che dai rami bassi di una similquercia scendeva fino a terra. I cuscini dimuschio che risplendevano intorno a noi non erano niente in confronto: ifili della tela avevano lo spessore di un mignolo, erano lucidi, oleosi edemanavano riflessi iridescenti.

Crys mosse un passo verso la ragnatela, ma io l'afferrai per un braccio ela fermai. «I ragni sono qui intorno» sussurrai. «Non avvicinarti troppo.Papà ragno non lascia mai la tela e Mamma ragno la notte si aggira tra glialberi.»

Gerry guardò in su un po' preoccupato. La sua torcia era spenta, e d'untratto lui non sembrava più avere tutte le risposte. I ragni sognanti sonopredatori pericolosi e credo che non ne avesse mai visti fuori da un video-

display. Sulle isole non ce n'erano. «Una bella tela grossa» commentò.«Anche i ragni avranno dimensioni notevoli.»

«Già» confermai e in quel momento mi venne l'ispirazione. Se una nor-malissima ragnatela come quella gli creava tanto disagio, sarebbe statosemplice metterlo in difficoltà. Lui faceva altrettanto con me da quandoera arrivato. «Seguitemi. Vi farò vedere un ragno sognante dal vero.» Ol-trepassammo cautamente la ragnatela, senza vedere nessuno dei suoi dueguardiani. Li guidai fino alla buca.

Sul terreno sabbioso c'era un grande avvallamento, un tempo forse il let-to di un ruscello, ora prosciugato e ricoperto di vegetazione. La buca delragno non pareva molto profonda alla luce del giorno, ma di notte, se laosservavi dal bordo ricoperto di piante, faceva davvero impressione. Sulfondo c'era un oscuro groviglio di arbusti ravvivato da piccole luci lam-peggianti; sopra, alberi di ogni genere si incurvavano sull'avvallamento ele loro fronde quasi si toccavano al centro. Uno di questi, anzi, lo attraver-sava: una palma freccia, vecchia e malridotta, resa secca dalla mancanza di

umidità, era crollata chissà da quanto tempo, formando un ponte naturale.Dal suo tronco pendevano ciuffi rilucenti di muschio azzurro. Tutti e tresalimmo sul tronco ricurvo e io indicai verso il basso.

A pochi metri sotto di noi, da un margine all'altro del fosso, pendeva unaragnatela multicolore, con fili grossi come cavi coperti di un olio vischio-so, che legavano in un complicato abbraccio tutte le piante più basse. Eracome un tetto fatato che risplendeva sopra la buca. Era bellissimo e ti ve-niva voglia di allungare una mano per toccarlo.

Era proprio per quello scopo che i ragni tessevano le loro tele. Eranopredatori notturni e i colori lucenti nel buio della notte costituivano una

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potente attrazione per le loro vittime.«Guarda, il ragno» sussurrò Crys indicando uno degli angoli più scuri

della rete, seminascosto da un gruppo di alberi folletti che spuntavano tra isassi. Riuscivo a intravedere l'animale alla luce della ragnatela e del mu-schio, una massa biancastra con otto zampe, il corpo grosso come un'angu-ria. Immobile, in attesa.

Gerry si guardò intorno nuovamente a disagio, osservando i rami contor-ti di una similquercia che pendevano sopra di noi. «La sua compagna è quiin giro, vero?»

Annuii. I ragni sognanti del pianeta di Jamison sono completamente di-versi dagli aracnidi di Vecchia Terra. La femmina è la più pericolosa, manon divora il maschio, lo tiene tutta la vita in un sodalizio costante con di-

verse funzioni. Infatti è il maschio, torpido e grosso, che produce i fili; tes-se la ragnatela rilucente e la rende appiccicosa con la sostanza oleosa cheproduce; lega e avvolge le prede attratte dalla luce e dai colori. Intanto lafemmina, di dimensioni più piccole, si aggira nel buio tra i rami, con lasacca gonfia di quel viscoso veleno che provoca sogni, visioni lucenti, e-stasi e alla fine il nero totale. Punge creature molto più grosse di lei, le tra-scina inerti fino alla ragnatela e le mette in dispensa per i pasti successivi.

I ragni sognanti sono cacciatori gentili, hanno pietà della preda. Preferi-

scono divorarla viva, ma non importa; la vittima probabilmente è contentadi essere mangiata. A Port Jamison si dice che la preda del ragno mugoladi piacere mentre viene inghiottita. Come tutte le voci popolari, è un'esage-razione, resta comunque il fatto che chi viene catturato non lotta mai perliberarsi.

Tranne quella notte: qualcosa si agitava nella ragnatela sotto di noi.«Che cos'è?» chiesi, battendo le palpebre. Le tela iridescente era tutt'al-

tro che sgombra: a poca distanza da noi giaceva il cadavere mezzo mangia-

to di un ferrocorno e un po' più in là una specie di grosso pipistrello nerotutto avvolto da fili lucenti. Ma non erano quegli animali che avevano atti-rato la mia attenzione. Nell'angolo opposto a quello del ragno maschio, ac-canto agli alberi a occidente, un essere era rimasto impigliato e si dibatte-va. Ricordo di avere intravisto arti pallidi che si agitavano, occhi luminosie spalancati, qualcosa che forse erano ali. Ma non riuscivo a vedere distin-tamente.

Fu in quel momento che Gerry scivolò. Forse era il vino che lo rendeva

instabile, forse il muschio sotto i piedi, oppure la curva del tronco su cuicamminavamo. Magari stava soltanto cercando di avvicinarsi a me per ve-

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dere che cosa stessi osservando. In ogni caso inciampò, perse l'equilibrio,lanciò un grido acuto e finì di colpo due metri e mezzo sotto di noi, impi-gliato nella ragnatela che oscillò violentemente, ma non accennò a romper-si: in fondo, le tele dei ragni sognanti sono abbastanza forti da reggere fer-rocorni e ringhi del legno.

«Dannazione!» esclamò Gerry. Aveva un'aria ridicola, con una gambache pendeva attraverso le maglie della tela, le braccia mezzo affondate nelgroviglio dei fili, con solo la testa e le spalle libere. «Questa roba è appic-cicosa, non riesco quasi a muovermi.»

«Non provarci nemmeno» gli raccomandai. «Peggioreresti la situazione.Cerco di venire giù e di tagliare la rete con il mio coltello per liberarti.» Miguardai intorno cercando un ramo al quale appendermi.

«John!» La voce di Crys era tesa, spaventata.Il ragno aveva lasciato il nascondiglio dietro l'albero folletto. Si spostava

verso Gerry con un'andatura pesante ma decisa, il corpo massiccio e bian-castro strideva con la soprannaturale bellezza della ragnatela.

«Maledizione!» esclamai. Non ero seriamente preoccupato, ma la fac-cenda si stava complicando. Era il ragno più grande che avessi mai visto, emi pareva un peccato ucciderlo. Del resto non vedevo altra scelta. Il ma-schio non ha veleno, ma è carnivoro e il suo morso può essere mortale, so-

prattutto se è grosso come quello. Non potevo lasciare che si avvicinassetroppo a Gerry.

Con calma e attenzione estrassi una lunga freccia grigia dalla faretra e lasistemai sulla corda dell'arco. Era notte, certo, ma non ero troppo angoscia-to. Ero un buon tiratore e il bersaglio era bene in vista tra i fili lucenti dellarete.

Crystal urlò.Mi fermai un istante, irritato che si fosse fatta prendere dal panico quan-

do tutto era sotto controllo. Ma subito dopo pensai che doveva esserciun'altra ragione per farla reagire così. In un primo tempo non riuscii a im-maginarmi che cosa potesse essere.

Poi capii. Seguendo lo sguardo di Crys, lo vidi: un ragno bianco, grossocome il pugno di un uomo, che era calato dalla similquercia fino al troncosu cui stavamo, a meno di tre metri da noi. Crys, per fortuna, era al sicuroalle mie spalle.

Restai lì fermo, per non so quanto tempo. Se avessi agito d'istinto, senza

pensare, avrei potuto risolvere tutto. Mi sarei occupato prima del maschio,con la freccia già incoccata. Poi avrei avuto tutto il tempo per estrarne

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un'altra e colpire anche la femmina.Invece rimasi paralizzato per una frazione di eternità, con l'arco in mano

ma incapace di usarlo. Di colpo tutto si fece più complicato. La femminaavanzava verso di me più rapidamente di quanto pensassi, e sembrava mol-to più svelta e pericolosa del maschio bianco e torpido sotto di noi. Forseavrei dovuto eliminare prima la femmina. Ma se l'avessi mancata mi ci sa-rebbe voluto più tempo per usare il coltello o estrarre una seconda freccia.

Solo che così avrei lasciato Gerry bloccato e inerme tra le fauci del ma-schio che si avvicinava inesorabilmente. Sarebbe potuto morire, sì, maCrystal non avrebbe potuto incolparmi di questo. Io dovevo salvare mestesso e lei, avrebbe capito. E l'avrei avuta di nuovo con me.

Sì.

NO!Crystal urlava e urlava, e di colpo tutto mi fu chiaro: capii il significato

di ogni cosa, per quale motivo ero lì nella foresta e che cosa dovevo fare.Fu un attimo di rivelazione, di assoluta trascendenza. Avevo smarrito ildono di rendere felice la mia Crystal, ma ora, per un istante sospeso neltempo, avevo riacquistato quel potere, ed ero in grado di concedere o nega-re la felicità eterna. Con una freccia potevo dare prova di un amore cheGerry non avrebbe mai saputo uguagliare.

Credo di avere sorriso, anzi, ne sono certo.La mia freccia volò scura nella fredda notte e lasciò il segno nel corpo

gonfio e biancastro del ragno che correva lungo la tela.La femmina mi era addosso e io non feci alcun movimento per allonta-

narla da me o schiacciarla sotto il calcagno. Sentii un dolore acuto e pene-trante alla caviglia.

Lucenti, multicolori sono le tele che tessono i ragni sognanti.La notte, quando ritorno dai boschi, ripulisco con cura le frecce e apro il

mio grosso coltello dalla lama sottile e seghettata per tagliare le sacche diveleno che ho raccolto. Le seziono a una a una, usando la lama con cuiprima le avevo staccate dal corpo bianco e immobile dei ragni, poi verso ilveleno in una bottiglia che metto da parte, aspettando che Korbec arrivicon la sua aeromobile a prenderla.

Dopo tiro fuori il minuscolo calice d'argento e ossidiana, su cui sono in-cise file di ragni, e lo riempio di quel denso vino nero che mi portano dallacittà. Ci immergo il coltello e continuo a mescolare finché la lama è di

nuovo lucida e pulita, e il vino è appena un po' più scuro di prima. E salgosul tetto.

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Spesso, allora, mi tornano in mente le parole di Korbec, e con queste lamia storia. Crystal, il mio amore, Gerry e una notte di luci e di ragni. Sem-brava che tutto andasse per il verso giusto in quel breve istante, mentre erosul tronco coperto di muschio con la freccia in mano e decidevo che cosafare. Invece, tutto è andato nel modo più sbagliato...

... dal momento che ho ripreso conoscenza, dopo un mese di febbre e vi-sioni, e mi sono ritrovato nella torre dove Crys e Gerry mi avevano riporta-to e assistito fino alla guarigione. La mia decisione, la mia scelta trascen-dente, non era stata così risolutiva come avevo creduto.

Certe volte mi domando se sia stata davvero una scelta. Ne abbiamo di-scusso spesso, mentre riacquistavo le forze, e la storia che Crys mi ha rac-contato non era quella che ricordavo io. Dice che solo quando era troppo

tardi avevamo visto la femmina, che si era calata silenziosa sul mio colloproprio mentre scoccavo la freccia per uccidere il maschio. Allora lei l'a-veva schiacciata con la torcia che Gerry le aveva dato da tenere e io erocaduto precipitando nella tela.

In effetti ho una ferita sul collo mentre sulla caviglia non c'è nemmenoun segno. Il racconto di Crys sembra veritiero. Ho finito per conoscere be-ne i ragni sognanti nel corso dei lunghi anni trascorsi da quella notte, soche le femmine sono subdole assassine che si calano dall'alto sulle prede

inconsapevoli. Non vanno alla carica su tronchi caduti come ferrocorni in-furiati, non è nel loro stile.

Crystal e Gerry non hanno alcun ricordo di quella cosa pallida e alatache si agitava nella ragnatela.

Eppure io la ricordo chiaramente... così come ricordo il ragno femminache avanzava verso di me, per tutto l'eterno istante in cui ero rimasto para-lizzato... ma poi... dicono che la puntura dei ragni sognanti faccia strani ef-fetti sulla mente.

Sarà...A volte, quando Squirrel mi segue su per la scala, graffiando i mattoni di

polvere nera con le sue otto zampe candide, sono turbalo dall'insensatezzadi tutta la faccenda e mi rendo conto di essermi cullato troppo nei sogni.

Sognare però è spesso meglio che essere svegli, e le storie sono più inte-ressanti della vita.

Crys non è ritornata da me, né allora né mai. Appena mi sono ripreso, sene è andata con Gerry. La felicità che le ho procurato con quella scelta che

non era una scelta, con quel sacrificio che non era un sacrificio, il mio do-no eterno, è durata meno di un anno. Korbec dice che hanno rotto in modo

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violento e che poi lei ha lasciato il pianeta di Jamison.Suppongo che sia vero, se si può dare retta a un tipo come Korbec. La

cosa non mi turba più di tanto.Io mi limito a uccidere i ragni, bere vino e accarezzare Squirrel. E ogni

notte salgo su questa torre di cenere a guardare le luci lontane.

"This Tower of Ashes" copyright © 1976 by the Conde Nast Publica-tions, Inc. From "Analog Annual" (Pyramid, 1976).

... E RICORDATI SETTE VOLTEDI NON UCCIDERE MAI L'UOMO

Puoi uccidere per te,per la tua compagnae per i tuoi cuccioli, se è necessarioe se ne hai la forza;ma non uccidere per il piacere di uccidere,e ricordati sette volte di non uccidere mai l'Uomo.

RUDYARD KIPLING

All'esterno delle mura penzolavano i piccoli Jaenshi, una fila di corpicinidal pelo grigio, immobili e silenziosi all'estremità delle lunghe corde. I piùgrandi, chiaramente, erano stati massacrati prima di venire appesi: là unmaschio decapitato oscillava, con i piedi strettì da un cappio; poco lontanodondolava il cadavere bruciato di una femmina. Ma la maggior parte deipiccoli dal pelame scuro e dai grandi occhi dorati era stata semplicementeimpiccata. Verso il tramonto, quando cominciava a spirare il vento dalle

aspre colline circostanti, i corpi dei più piccoli roteavano in fondo alle cor-de e sbattevano contro le mura della città, quasi fossero vivi e bussasseroper entrare.

Le sentinelle sulle mura, però, non badavano a quei tonfi e continuavanoa percorrere gli spalti in instancabili giri di ronda, e le porte arrugginitedella città restavano chiuse.

«Tu credi all'esistenza del male?» chiese Arik neKrol a Jannis Ryther,mentre entrambi osservavano la Città degli Angeli d'Acciaio da un'altura

vicina. Da ogni tratto del suo viso camuso e giallastro trapelava la rabbia,mentre stava accucciato tra le macerie di quella che era stata una piramide

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sacra degli Jaenshi.«Il male?» mormorò la donna distrattamente. I suoi occhi non si stacca-

vano dalle lontane mura di pietra rossa, contro le quali si stagliavano i cor-picini scuri. Il sole stava calando, il grosso globo rosso che gli Angelid'Acciaio chiamavano Cuore di Bakkalon, e la valle ai loro piedi sembravaimmergersi in una caligine color sangue.

«Il male» ripeté neKrol. Il mercante era un uomo di bassa statura e dicorporatura tozza, dai tratti decisamente mongoli, tranne per i capelli di unrosso fiammante che gli arrivavano fin quasi alla cintola. «È un concettoreligioso e io non sono una persona religiosa. Molto tempo fa, quand'erobambino, sul pianeta di ai-Emerel, mi ero convinto che bene e male nonesistessero, ma ci fossero solo diversi modi di pensare.» Affondò le mani

piccole e delicate nella sabbia e frugò, finché estrasse un coccio frastaglia-to grosso come il suo pugno. Si alzò e lo porse a Ryther. «Gli Angeli d'Ac-ciaio mi hanno indotto a credere di nuovo che il male esista.»

La donna prese il frammento senza dire niente e se lo rigirò tra le mani.Ryther era molto più alta di neKrol e molto più magra: una donna ossutacon un viso lungo e corti capelli neri, gli occhi privi di espressione. Unlungo spolverino sporco e chiazzato di sudore le ricadeva floscio sul corpoesile. «Interessante» disse alla fine, dopo avere studiato l'oggetto per diver-

si minuti. Era duro e liscio come il vetro, ma più resistente, di un colorerosso traslucido e scurissimo, tanto da sembrare quasi nero. «Plastica?»domandò, lasciandolo cadere a terra.

NeKrol alzò le spalle. «Lo pensavo anch'io, ma è impossibile. Gli Jaen-shi sanno lavorare l'osso, il legno e alcuni metalli, ma sono indietro di se-coli per le materie plastiche.»

«O magari sono avanti di secoli» ribatté Ryther. «Dici che ci sono tantedi queste piramidi sacre sparse tra i boschi?»

«Sì, per quanto ho potuto vedere. Gli Angeli, però, hanno demolito tuttequelle vicine alla loro valle, per cacciare gli Jaenshi. Più si espandono,come stanno facendo, più piramidi abbatteranno.»

Ryther annuì. Osservò nuovamente il fondo della vallata mentre l'ultimascheggia del Cuore di Bakkalon scivolava dietro le montagne a occidente ecominciavano ad apparire le luci della città. I piccoli Jaenshi penzolavanotra i barlumi di una tenue luce azzurrata e, proprio sopra le porte della cit-tà, si riuscivano a scorgere due individui all'opera. Sollevarono in fretta

qualcosa oltre gli spalti, srotolarono una corda ed ecco che un'altra piccolaombra scura ondeggiava e roteava sulle mura. «Perché?» sussurrò Ryther

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con voce atona, osservando la scena.NeKrol era rimasto tutt'altro che impassibile. «Gli Jaenshi hanno tentato

di difendere una delle loro piramidi con spade, coltelli e sassi contro gliAngeli d'Acciaio, armati di laser, cannoni blaster e fucili a urlo. Li aveva-no colti di sorpresa e ne avevano ammazzato uno. Il Censore ha dichiaratoche un fatto del genere non si sarebbe più ripetuto». Sputò. «Il male. Ibambini si fidavano di loro, e guarda.»

«Interessante» commentò Ryther.«Non puoi fare qualcosa?» chiese neKrol con voce rotta. «Hai la tua na-

ve, il tuo equipaggio. Gli Jaenshi hanno bisogno di qualcuno che li difen-da, Jannis. Sono inermi davanti agli Angeli.»

«Ho quattro uomini di equipaggio, forse anche quattro laser da caccia»

si limitò a rispondere la donna senza scomporsi.NeKrol la guardò scoraggiato. «Proprio niente?»«Forse domani verrà a farci visita il Censore. Ha visto di sicuro atterrare

la Lights. Può darsi che gli Angeli vogliano fare scambi.» Si voltò di nuo-vo a guardare la valle. «Andiamo, Arik, dobbiamo rientrare alla tua base:bisogna caricare la merce.»

Wyatt, Censore dei Figli di Bakkalon sul pianeta Corlos, aveva l'incarna-to rossiccio, una corporatura alta e ossuta, ma la sua muscolatura, come si

vedeva dalle braccia nude, era possente. I capelli nero azzurrati erano ta-gliati cortissimi, il portamento era rigido ed eretto. Come tutti gli Angelid'Acciaio, indossava una divisa di lana di cammello, che appariva di un co-lore marrone chiaro mentre stava in piena luce ai margini del piccolo e ru-dimentale astroporto. Alla vita portava una cintura di maglie d'acciaio, conlaser, interfono e pistola a urlo; la gola era serrata da un colletto rigido dicolore rosso. La figurina appesa alla catena che portava al collo rappresen-tava Bakkalon bambino, nudo e innocente, dallo sguardo luminoso, ma

con una grande spada nera nel piccolo pugno: era questa l'unica insegnadel rango di Wyatt.

Dietro di lui stavano sull'attenti altri quattro Angeli, due uomini e duedonne, tutti con l'uniforme identica alla sua. C'era una somiglianza anchenei loro volti: il taglio corto dei capelli, che fossero biondi, rossi o castani,lo sguardo vigile e freddo, l'espressione leggermente esaltata, la postura ri-gida ed eretta che sembrava una caratteristica di quella setta militar-religiosa, il fisico solido e asciutto. NeKrol, che invece era moscio, pigro e

trasandato, li detestava cordialmente.Il Censore Wyatt era arrivato poco dopo l'alba e aveva mandato uno del-

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la sua squadra a bussare alla porta della piccola cupola prefabbricata checostituiva la base commerciale di neKrol e anche la sua abitazione. Inson-nolito e irritato, ma prudentemente cortese, il mercante si era alzato per ac-cogliere gli Angeli, e li aveva accompagnati al centro dell'astroporto dovestava, poggiata su tre gambe retraibili, l'ogiva metallica e piena di graffidella Lights of Jolostar. 

I portelloni del mercantile a quell'ora erano ancora sigillati: l'equipaggiodi Ryther aveva impiegato quasi tutta la sera nelle operazioni di scaricodella merce ordinata da neKrol, sostituendola nella stiva con casse di ma-nufatti degli Jaenshi che forse potevano essere venduti a buon prezzo acollezionisti di oggetti d'arte extraterrestre. Era impossibile esserne certifino a quando un grossista non avesse esaminato la mercanzia: Ryther a-

veva fatto sbarcare neKrol solo un anno prima e questo era il primo caricoche faceva.

«Sono una mercante indipendente e Arik è il mio agente su questo pia-neta» spiegò Ryther al Censore, ai margini della pista dell'astroporto. «De-ve trattare con lui.»

«Capisco» rispose Wyatt. Teneva ancora in mano la lista, che aveva pre-sentato a Ryther, dei prodotti delle colonie industriali di Avalon e del pia-neta di Jamison di cui avevano bisogno gli Angeli. «Però neKrol non vuole

trattare con noi.»Ryther fissò il mercante con sguardo inespressivo.«Ho le mie buone ragioni» ribatté neKrol. «Io commercio con gli Jaen-

shi, e voi li massacrate.»Negli ultimi mesi, da quando gli Angeli d'Acciaio avevano fondato la lo-

ro città colonia, il Censore aveva avuto frequenti colloqui con neKrol, chesi erano conclusi tutti con una lite. Ora lo ignorò. «Sono stati interventi in-dispensabili» spiegò rivolgendosi a Ryther. «Quando un animale uccide un

uomo, deve essere punito e gli altri animali devono assistere e imparare:così le bestie possono apprendere che l'uomo è il seme della terra, il Figliodi Bakkalon e il signore e padrone di tutti loro.»

NeKrol sbuffò. «Gli Jaenshi non sono bestie, Censore, sono una razzaintelligente, hanno una religione, una loro arte, usanze proprie e...»

Wyatt lo squadrò. «Non hanno anima, solo i Figli di Bakkalon, solo isemi della Terra hanno un'anima. Che cos'abbiano in testa interessa solo ate, e forse a loro. Sono senz'anima, sono solo bestie.»

«Arik mi ha fatto vedere le piramidi sacre che hanno costruito» inter-venne Ryther. «Creature che edificano santuari del genere non possono

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non avere un'anima.»Il Censore scosse la testa. «Siete in errore se credete questo. Sta scritto

chiaramente nel Libro. I semi della Terra, i veri Figli di Bakkalon, siamonoi e nessun altro. Tutti gli altri sono animali e in nome di Bakkalon noidobbiamo affermare il nostro dominio su di loro.»

«Molto bene» concluse Ryther «ma dovrete affermare questo dominiosenza l'aiuto della  Lights of Jolostar ,  mi dispiace. E io devo informarla,Censore, che considero le vostre azioni gravemente lesive e intendo de-nunciarla appena sarò tornata sul pianeta di Jamison.»

«Lo prevedevo» ribatté Wyatt. «Forse, nel giro di un anno, lei arderàd'amore per Bakkalon e potremo riparlarne. Fino allora, Corlos riuscirà asopravvivere.» La salutò e lasciò in fretta l'astroporto, seguito dai quattro

di scorta.«Che vantaggio ci sarà a denunciarli?» chiese scettico neKrol, dopo che

gli Angeli se ne furono andati.«Nessuno» rispose Ryther, fissando la foresta in lontananza. Il vento sol-

levò della polvere, la donna abbassò le spalle: sembrava stanchissima. «Al-la gente di Jamison non importerà niente ma, anche se così non fosse, checosa potrebbero fare?»

NeKrol si ricordò del pesante volume con la copertina rossa che Wyatt

gli aveva dato mesi prima. «"E Bakkalon, il pallido fanciullo, forgiò le suecreature con l'acciaio"» citò «"giacché le stelle spezzeranno quelli di costi-tuzione più delicata. E nelle mani di ogni infante di nuova fattura Egli poseuna spada d'acciaio temprato e disse loro: 'Ecco la Verità e la Via'."» Sputòdisgustato. «Il loro credo è questo, e noi non ci possiamo fare niente.»

Il volto della donna era impassibile. «Ti lascerò due laser. Stai sicuroche entro un anno gli Jaenshi sapranno come usarli. Penso di immaginareche genere di mercanzie dovrò portare la prossima volta.»

Gli Jaenshi vivevano in clan (così almeno pensava neKrol) di venti otrenta individui, equamente divisi tra adulti e bambini: ogni clan abitava inuna zona del bosco e aveva una sua piramide sacra. Non costruivano altro:dormivano raggomitolati sugli alberi intorno alla piramide. Vivevano diraccolta: dappertutto crescevano frutti succosi di un colore tra il blu e il ne-ro, c'erano tre varietà di bacche commestibili, foglie allucinogene e una ra-dice gialla dalla consistenza tenera. NeKrol aveva scoperto che cacciavano

anche, sia pure raramente. Un clan andava avanti per mesi senza mangiarecarne, mentre intorno si moltiplicava una varietà di grugnanti maiali selva-

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tici che giocavano con i bambini e grufolavano in cerca di radici. Quandola popolazione dei suini aveva raggiunto un numero critico, gli Jaenshimaschi armati di lancia si muovevano con calma in mezzo al branco ucci-dendone due esemplari su tre, e per una settimana intorno alla piramide sitenevano banchetti a base di maiale arrosto. Un destino simile era riservatoai lumaconi bianchi che in certi casi ricoprivano gli alberi da frutta comeun flagello: gli Jaenshi li raccoglievano e li facevano stufare insieme allepseudoscimmie mangiatrici di frutta che infestavano i rami più alti.

Per quanto ne sapeva neKrol, nei boschi dove vivevano gli Jaenshi nonc'erano animali predatori. Nei primi mesi sul nuovo pianeta il mercante sene andava da una piramide all'altra, nei suoi giri di acquisti, con un grossocoltello a serramanico e una pistola laser. Non aveva mai incontrato nessu-

no che fosse nemmeno lontanamente ostile, e adesso il coltello giaceva rot-to in cucina e la pistola non sapeva più dove fosse finita.

Il giorno dopo la partenza della Lights of Jolostar , neKrol ricominciò adandare per i boschi portando a tracolla uno dei laser da caccia che gli ave-va lasciato Ryther.

A meno di due chilometri dalla sua base aveva scoperto un campo di Ja-enshi che aveva battezzato "il popolo della cascata". Il clan viveva sul ver-sante boscoso di una collina, lungo il quale scendeva un torrente scroscian-

te di acque biancazzurre, che formavano cascatelle, si separavano e si riu-nivano, così che il fianco della collina era tutto una rete scintillante e intri-cata di rapide, pozze e cortine di spruzzi. La piramide sacra del clan si tro-vava nella pozza più bassa, sopra un lastrone di pietra grigia in mezzo allacorrente. Quel manufatto superava in altezza la maggior parte degli Jaenshie arrivava al mento di neKrol; sembrava incredibilmente pesante, solido einamovibile: un blocco a tre facce di un rosso scurissimo.

NeKrol non si faceva illusioni. Aveva visto altre piramidi fatte a pezzi

dai laser degli Angeli d Acciaio e distrutte dalle fiamme dei loro blaster:qualunque fosse il potere che i miti degli Jaenshi attribuivano a quelle co-struzioni e il segreto delle loro origini, non potevano bastare a fermare learmi di Bakkalon.

La radura intorno alla pozza con la piramide era ravvivata dal sole quan-do neKrol vi arrivò; l'erba alta ondeggiava alla brezza leggera, ma la mag-gior parte del popolo della cascata si trovava altrove. Forse tra gli alberi,ad arrampicarsi, accoppiarsi, cogliere frutti o vagare nel bosco sulla colli-

na. Nella radura il mercante trovò solo alcuni piccoli, in groppa a un maia-lino. Si sedette ad aspettare e a scaldarsi al sole.

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Poco dopo comparve il Vecchio della parola.Si sedette accanto a neKrol. Era uno Jaenshi piccolo e rugoso, con solo

pochi ciuffi di pelo giallastro a coprirgli le grinze della pelle. Era sdentato,senza unghie, cadente, ma i grandi occhi dorati e privi di pupille, comequelli di tutti gli Jaenshi, erano attenti e vivaci. Era il portavoce del popolodella cascata, l'unico in stretta comunicazione con la piramide sacra. Ogniclan ne aveva uno.

«Ho cose nuove da scambiare» disse neKrol nella dolce lingua balbet-tante degli Jaenshi che aveva imparato al suo ritorno su Avalon, prima ditrasferirsi lì. Tomas Chung, il leggendario linguista avaloniano, ne avevascoperto la chiave un secolo prima, quando la spedizione Kleronomas ave-va ispezionato il pianeta. Nessun altro umano era più stato tra gli Jaenshi

da allora, ma le carte di Kleronomas e l'analisi delle forme linguistiche diChung erano rimaste nella memoria dei computer dell'Istituto Avalon perlo studio delle intelligenze non umane.

«Abbiamo fatto altre statue per te, abbiamo scolpito altri legni» disse ilVecchio. «Che cosa ci hai portato? Sale?»

NeKrol si tolse lo zaino dalle spalle, lo posò a terra e lo aprì. Tirò fuoriuna delle mattonelle di sale che aveva portato e la pose davanti al Vecchio.«Sale, e qualcos'altro.» Mise il laser da caccia davanti allo Jaenshi.

«Che cos'è?» chiese il Vecchio.«Conosci gli Angeli di Acciaio?» domandò a sua volta il mercante.L'altro fece sì con la testa: un gesto che aveva imparato da neKrol. «I

senza dio che fuggono dalla valle della morte parlano di loro. Sono quelliche fanno tacere gli dèi, che abbattono le piramidi.»

«Questo è uno strumento uguale a quelli che gli Angeli d'Acciaio usanoper distruggere le vostre piramidi» spiegò neKrol. «Ve lo offro per un ba-ratto.»

Il Vecchio della parola sedeva immobile. «Ma noi non vogliamo di-struggere le piramidi.»

«Lo si può usare per altre cose» replicò neKrol. «Prima o poi gli Angelid'Acciaio potrebbero arrivare qui e mandare in pezzi la piramide del popo-lo della cascata. Ma se, quando vengono, avrete strumenti come questo, sa-rete in grado di fermarli. Gli Jaenshi della piramide dell'anello di pietrahanno cercato di fermarli con lance e coltelli, e adesso sono dispersi e di-sperati, e i loro figli pendono dalle mura della Città degli Angeli d'Acciaio.

Altri clan non hanno opposto resistenza, e anche loro adesso sono senzadio e senza terra. Verrà il giorno in cui il popolo della cascata avrà bisogno

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di questo strumento.»Il Vecchio sollevò l'arma e la rigirò curioso tra le piccole mani grinzose.

«Dobbiamo pregare per questo» disse. «Rimani, Arik. Te lo diremo questanotte, quando gli dèi ci guardano. Fino allora, faremo commercio.» Si alzòdi colpo in piedi, diede una rapida occhiata alla piramide al di là del la-ghetto e sparì nel bosco con il laser in mano.

NeKrol sospirò. Doveva prepararsi a una lunga attesa: i raduni di pre-ghiera non si tenevano mai prima del tramonto. Si spostò sulla riva del la-ghetto e si tolse gli stivali per dare sollievo ai piedi sudati e callosi nellafresca acqua corrente.

Quando alzò gli occhi vide che era arrivato il primo degli incisori. Erauna femmina giovane e snella con un pelame dai riflessi ramati. Gli mostrò

il suo lavoro in silenzio (tacevano tutti in presenza del mercante, solo ilVecchio parlava). Era una statuina non più grande di un pugno, una deadella fertilità dal seno prosperoso, scolpita nel legno azzurro degli alberi dafrutta, dalle venature sottili e dal profumo fragrante. La dea era seduta agambe incrociate su una base triangolare e tre sottili lamelle d'osso spunta-vano dai vertici del triangolo e salivano a unirsi a una sfera di argilla sulcapo della statuetta.

NeKrol prese la scultura, la rigirò e fece un cenno di assenso. La giovane

sorrise e si dileguò, portando con sé la mattonella di sale. Se n'era andatada parecchio tempo, ma neKrol non smetteva di ammirare il suo acquisto.Era nel commercio da una vita, era stato dieci anni in mezzo ai Gethsoididi Aath dalla testa di seppia e quattro fra i Fyndii sottili, aveva lavoratocome agente in una mezza dozzina di pianeti fermi all'età della pietra, untempo schiavizzati dal distrutto impero dei Hrangan, ma non aveva maitrovato artisti del livello degli Jaenshi. Una volta di più si chiese come mainé Kleronomas né Chung avevano menzionato l'esistenza di quelle scultu-

re locali. Però era contento che non l'avessero fatto, ed era abbastanza sicu-ro che, quando i grossisti avessero visto le casse con le statuette che avevainviato con la nave di Ryther, il pianeta sarebbe stato invaso da altri mer-canti. NeKrol era arrivato lì per pura speculazione, sperando di trovarequalche droga, erba o liquore da poter piazzare bene nel commercio inter-stellare. Invece aveva scoperto l'arte, come risposta a una preghiera.

Vennero da lui altri artigiani la mattina e il pomeriggio, e poi finoall'imbrunire, a mostrargli le loro opere. NeKrol esaminava ogni pezzo con

attenzione, qualcuno lo prendeva, altri li rifiutava, pagava tutti gli acquisticon il sale. Prima che facesse buio alla sua destra si era formata una picco-

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la pila di oggetti: un servizio di coltelli in pietra rossa, un sudario grigiotessuto con il pelo di un anziano Jaenshi dalla sua vedova e dai suoi amici(con al centro il ritratto del morto, ricamato con i setosi peli dorati di unapseudoscimmia), una lancia d'osso con incisioni che al mercante fecerovenire in mente i simboli runici di Vecchia Terra.

Le statuette, comunque, erano gli oggetti che preferiva: troppo spessol'arte aliena era al di là di ogni umana comprensione, invece gli artigiani

 jaenshi sapevano toccare le corde delle sue emozioni. Ognuna delle divini-tà da loro scolpite, seduta su una piramide d'osso, aveva un volto simile aquello degli Jaenshi, ma nello stesso tempo sembrava un archetipo umano:dèi della guerra dall'espressione austera, altri che assomigliavano curiosa-mente a satiri, dee della fertilità come quella che aveva acquistato, guerrie-

ri umanoidi e ninfe. A neKrol sarebbe piaciuto avere studiato antropologiaextraterrestre per poter scrivere un libro sugli universali del mito. Gli Jaen-shi avevano indubbiamente una ricca mitologia, anche se i loro portavocenon ne parlavano mai: non si potevano spiegare in altro modo quelle scul-ture. Forse le antiche divinità non erano più oggetto di venerazione, ma siera tramandata la loro memoria.

Quando ormai il Cuore di Bakkalon era tramontato e gli ultimi raggi ros-sastri non filtravano più occhieggiando tra gli alberi, neKrol aveva raccolto

tutta la mercanzia che era in grado di trasportare e il suo sale era pressochéesaurito. Si rimise gli stivali e se li allacciò, imballò con cura gli acquisti esi sedette sull'erba accanto al laghetto in paziente attesa. Finalmente ri-comparve il Vecchio della parola.

La preghiera ebbe inizio.Il Vecchio, che impugnava ancora il laser, guadò con attenzione le scure

acque notturne e si accoccolò accanto alla massa scura della piramide. Glialtri, circa una quarantina tra adulti e bambini, presero posto vicino alla ri-

va, dietro il mercante o al suo fianco. Tutti, anche ne-Krol, fissavano la pi-ramide e il Vecchio, il cui profilo si stagliava nettamente alla luce di unaluna enorme, appena sorta.

Dopo avere posato il laser sulla pietra, il Vecchio appoggiò le palme del-le mani sulla superficie della piramide e il suo corpo sembrò contrarsi; an-che gli altri Jaenshi si irrigidirono e il silenzio diventò assoluto.

NeKrol si mosse irrequieto e soffocò uno sbadiglio. Non era la primavolta che assisteva al rito della preghiera e ne conosceva lo svolgimento.

Lo aspettava una buona ora di noia: gli Jaenshi pregavano in silenzio e nonc'era niente da ascoltare se non il loro respiro regolare, niente da vedere se

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non quaranta facce inespressive. Il mercante sospirò e cercò di rilassarsi;chiuse gli occhi e si concentrò sulla morbidezza dell'erba sotto di lui e sul-la tiepida brezza che gli agitava la chioma arruffata. Per un po' trovò pace.Quanto sarebbe durata, pensò, se gli Angeli d'Acciaio fossero usciti dallaloro valle?

Trascorse un'ora, ma neKrol, immerso nelle sue meditazioni, quasi nonsi accorse del tempo che passava. Improvvisamente udì un mormorio equalche voce intorno a lui: il popolo della cascata si rialzò in piedi e rien-trò nel bosco. Poi il portavoce si mise davanti al mercante e depose il laserai suoi piedi.

«No» disse semplicemente.NeKrol tentò di obiettare. «Perché? Ma voi dovete prenderlo. Ti faccio

vedere come si usa...»«Ho avuto una visione, Arik. Il dio me l'ha mostrato, ma mi ha anche in-

dicato che non sarebbe una cosa buona acquistare questo oggetto.»«Vecchio della parola, ma arriveranno gli Angeli d'Acciaio...»«Se verranno, il nostro dio parlerà loro» rispose il Vecchio con la sua

voce bisbigliante, ma c'era determinazione nel suo tono gentile e nei grandiocchi acquosi.

«Per il cibo che abbiamo, ringraziamo noi stessi e nessun altro. È nostroperché ce lo siamo sudato, perché abbiamo lottato per averlo, per l'unicodiritto che conta, quello del più forte. Ma per questa forza, per la potenzadelle nostre braccia e per l'acciaio delle nostre spade e per il fuoco nei no-stri cuori, noi rendiamo grazie a Bakkalon, il pallido fanciullo che ci hadonato la vita e ci ha insegnato come conservarla.»

Il Censore stava rigido in piedi al centro dei cinque tavoli di legno, chesi estendevano per tutta la lunghezza della grande sala della mensa, e pro-

nunciava ogni parola della formula di ringraziamento con solenne dignità.Mentre parlava le sue grandi mani venate erano strettamente congiunte sulpiatto della spada; alla fioca luce del locale la sua uniforme appariva quasinera. Tutto intorno a lui sedevano attenti gli Angeli d'Acciaio, senza tocca-re il cibo che avevano davanti: grossi tuberi lessi, fette fumanti di maialeselvatico, pane nero, scodelle piene di neolattuga verde e croccante. Ibambini sotto i dieci anni, non ancora in età per combattere, con la tunicabianca inamidata e l'onnipresente cintura di maglie d'acciaio, sedevano ai

due tavoli più esterni sotto le finestre a feritoia; i più piccoli si sforzavanodi stare immobili, sorvegliati con attenzione da quelli di nove anni, i severi

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genitori della casa, con duri bastoni di legno appesi alla cinta. Più all'inter-no, a due tavoli di pari lunghezza, sedeva la confraternita dei combattenti,armata di tutto punto, maschi e femmine alternati, i veterani dalla pelle du-ra come il cuoio accanto a ragazzi di dieci anni che avevano appena lascia-to il dormitorio dei piccoli per la caserma. Tutti indossavano la divisa dilana di cammello identica a quella di Wyatt, ma senza collare, e solo pochiostentavano i bottoni del grado. Il tavolo centrale, lungo meno della metàdegli altri, era occupato dai quadri: i Padri e le Madri dei plotoni, i MastriArmieri, i Guaritori, i quattro Feldvescovi, tutti con l'alto e rigido collarecremisi. Il Censore stava a capotavola.

«Mangiamo» disse alla fine Wyatt. Fece sibilare la spada sopra il tavolonel fendente della benedizione, poi si sedette. Come tutti gli altri, aveva

fatto la coda nella fila che dalla cucina arrivava alla sala mensa e le sueporzioni non erano diverse da quelle dell'ultimo membro della confraterni-ta.

Si sentirono tintinnare coltelli e forchette, talvolta l'acciottolio dei piattie di tanto il tanto il suono secco di un bastone, quando un genitore dellacasa puniva l'infrazione di uno dei piccoli sotto la sua sorveglianza. A par-te questi rumori, nella sala vigeva un assoluto silenzio. Gli Angeli d'Accia-io non parlavano a tavola: consumando il loro pasto spartano, riflettevano

sulle vicende della giornata.Dopo mangiato i bambini, sempre in silenzio, lasciarono marciando la

sala e rientrarono nel dormitorio. Seguì poi la confraternita dei combatten-ti: qualcuno si diresse alla cappella, la maggior parte alle camerate e unpiccolo gruppo al servizio di guardia sulle mura. Gli uomini ai quali dava-no il cambio avrebbero trovato il pranzo caldo in cucina.

Tutti gli ufficiali rimasero seduti a tavola: portati via i piatti, il pranzo sitrasformò in una riunione dello stato maggiore.

«Riposo» disse Wyatt, ma nessuno seduto a quel tavolo era veramentedisteso. Gli Angeli erano stati addestrati a non rilassarsi mai. Il Censorecercò uno di loro con lo sguardo. «Dhallis, hai preparato la relazione che tiho chiesto?»

La Feldvescova annuì. Dhallis era una donna robusta di mezza età, mu-scolosa, e la sua carnagione sembrava cuoio scuro. Sul collare aveva unapiccola insegna d'acciaio, un chip di memoria ornamentale che indicava lasua appartenenza ai servizi informatici. «Sì, Censore» rispose, in tono

chiaro e deciso. «Il pianeta di Jamison è una colonia di quarta generazione,gli abitanti provengono in maggioranza da Vecchia Poseidonia. C'è un solo

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grande continente, per lo più inesplorato, e oltre dodicimila isole di variagrandezza. La popolazione umana è concentrata quasi esclusivamente sulleisole e ha un'economica basata su pesca, agricoltura, allevamenti acquaticie industria pesante. Gli oceani sono ricchi di cibo e di metalli. Il pianetaconta circa settantanove milioni di abitanti. Ci sono due grandi città, en-trambe dotate di astroporto: Jolostar e Port Jamison.» Diede un'occhiata al-la stampata di computer posata sul tavolo. «Il pianeta di Jamison non eranemmeno segnato sulle carte ai tempi della Doppia Guerra. Non ha mai vi-sto un intervento militare e l'unico corpo armato presente è quello della po-lizia planetaria. Non ha un programma coloniale e non ha mai tentato di ri-vendicare una giurisdizione politica al di fuori della propria atmosfera.»

Il Censore fece un cenno di assenso. «Eccellente. Allora il rischio che il

mercante ci denunci è praticamente inesistente. Possiamo procedere. Pa-dreplotone Walman?»

«Oggi sono stati catturati quattro Jaenshi, Censore, e adesso sono sullemura.» Walman era un giovane rubicondo, con i capelli biondi a spazzolae le orecchie a sventola. «Se mi è concesso, signore, chiederei di discuteredella possibile conclusione della campagna. Ogni giorno fatichiamo di piùnella ricerca e troviamo sempre meno. In pratica, abbiamo eliminato tutti igiovani Jaenshi presenti nella valle della Spada.»

Wyatt annuì. «Altre opinioni?»Il Feldvescovo Lyon, un uomo magro dagli occhi celesti, non era d'ac-

cordo. «Gli adulti sono ancora vivi. Le bestie mature sono più pericolosedi quelle più giovani, Padreplotone.»

«Non in questo caso» obiettò il Mastro Armiere C'ara DaHan, una speciedi colosso, calvo e con la pelle scura, responsabile dell'armamento psico-logico e dello spionaggio. «I nostri studi dimostrano che, quando una pi-ramide è distrutta, gli adulti come i giovani non rappresentano più alcun

pericolo per i Figli di Bakkalon. In pratica la struttura sociale degli Jaenshisi disintegra. Gli adulti fuggono, nella speranza di unirsi a un altro clan, oritornano a uno stato selvaggio. Abbandonano i piccoli, che per lo piùprovvedono a se stessi in un modo confuso e non oppongono resistenzaquando li prendiamo. Se teniamo conto del numero di quelli sulle nostremura, sommato a quelli uccisi dai predatori o dai loro simili, sono convintoche la valle della Spada sia stata totalmente ripulita da quegli animali. Siavvicina l'inverno, Censore, e c'è molto da fare. Al Padreplotone Walman e

ai suoi uomini si dovrebbero assegnare altri compiti.»La discussione andò avanti, ma l'orientamento era chiaro: la maggioran-

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za degli interventi fu a favore di DaHan. Wyatt ascoltava attento invocan-do per tutto il tempo l'ispirazione di Bakkalon. Alla fine fece segno di tace-re.

«Padreplotone» ordinò a Walman «domani radunerai tutti gli Jaenshiadulti e bambini che riuscirai a trovare, ma non impiccarli se non oppon-gono resistenza. Li condurrai invece in città e mostrerai loro i compagniappesi sulle mura. Poi li caccerai dalla valle, disperdendoli ai quattro ven-ti.» Chinò la testa. «La mia speranza è che comunichino agli altri Jaenshiqual è il prezzo che si deve pagare quando una bestia alza una mano, un ar-tiglio o una lama sui semi della Terra. Allora, quando sarà primavera e iFigli di Bakkalon usciranno dalla valle della Spada, gli Jaenshi abbandone-ranno pacificamente le loro piramidi e lasceranno ogni terra che servirà a-

gli uomini, così che la gloria del pallido fanciullo possa diffondersi.»Lyon e DaHan assentirono, insieme agli altri. «Dacci parole di saggez-

za» chiese allora la Feldvescova Dhallis.Il Censore Wyatt fece segno di sì. Una Madreplotone di grado inferiore

gli porse il Libro e lo aprì al capitolo dei Precetti.«"In quei giorni gran male era venuto al seme della Terra"» lesse il Cen-

sore «"poiché i Figli di Bakkalon Lo avevano abbandonato per inchinarsi adèi meno severi. Allora i cieli si oscurarono e su di loro calarono dall'alto i

Figli di Hranga dagli occhi rossi e dai denti di demone, e su di loro sorsedal basso l'Orda dei Fyndii come una nuvola di locuste che fece impallidirele stelle. E i mondi erano in fiamme e i figli gridavano: 'Salvaci! Salvaci!'.E il pallido fanciullo venne e si pose davanti a loro, con la Sua grande spa-da in mano, e con voce di tuono li rimproverò: 'Siete stati figli inetti, poi-ché avete disobbedito. Dove sono le vostre spade? Non vi ho forse messoin mano la spada?'.

«"E i figli gridarono: 'Le abbiamo forgiate come vomeri di aratro, Bak-

kalon!'.«"Ed Egli fu preso da amara furia. 'Con i vomeri, dunque, affronterete i

Figli di Hranga? Con i vomeri massacrerete l'Orda dei Fyndii?'. Ed Egli lilasciò e non ascoltò più i loro pianti, giacché il Cuore di Bakkalon è unCuore di Fuoco.

«"Ma allora uno dei semi della Terra si asciugò le lacrime, perché i cielibruciavano al punto che gli ustionavano le gote. E in lui sorse la sete disangue e forgiò il suo vomere per riavere la spada e attaccò i Figli di Hran-

ga, e avanzava uccidendoli. Lo videro gli altri e lo seguirono, e un unicogrido di battaglia risuonò per il mondo.

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«"Il pallido fanciullo lo udì e ritornò, poiché il suono di battaglia è piùgradito alle Sue orecchie di quello del pianto. E quando Egli vide, sorrise.'Ora siete di nuovo miei figli' disse ai semi della Terra. 'Perché vi eravaterivoltati contro di me per adorare un dio che chiama se stesso agnello: manon sapevate che gli agnelli sono destinati al macello? Ora però i vostriocchi sono limpidi e siete di nuovi i Lupi di Dio!'

«"E Bakkalon ridiede le spade a tutti i Suoi figli e ai semi della Terra, esollevò la Sua grande lama nera, il Demonio Predone, che stermina isenz'anima, e la fece roteare. E i Figli di Hranga caddero sotto la Sua po-tenza, e la Grande Orda che fu dei Fyndii bruciò sotto il Suo sguardo. E iFigli di Bakkalon si propagarono su tutti i mondi."»

Il Censore sollevò gli occhi.

«Andate, miei fratelli in armi, e meditate sui Precetti di Bakkalon mentredormite. Possa il pallido fanciullo portarvi delle visioni!».

La seduta fu tolta.

Sulla collina gli alberi erano spogli e coperti di ghiaccio e la neve, intattaa parte le loro impronte e le tracce del vento gelido del Nord, col suo bian-co accecante rifletteva il sole del mezzogiorno. Più giù, nella valle, la Cittàdegli Angeli d'Acciaio appariva nitida e immobile in modo innaturale.

All'esterno, contro le pietre rosse delle mura, si addossavano grandi cumulidi neve; le porte erano rimaste chiuse per mesi. Era passato molto tempoda quando i Figli di Bakkalon avevano provveduto al raccolto e si eranobarricati in città, riunendosi intorno ai focolari. Se non fosse stato per leluci azzurre che ancora bruciavano nella notte gelida e buia e per le raresentinelle che percorrevano gli spalti, neKrol avrebbe stentato a credereche gli Angeli fossero ancora vivi.

La giovane Jaenshi, che lui aveva mentalmente battezzato Parolamara, lo

fissò con occhi stranamente più scuri di quelli dorati dei suoi simili. «Sottola neve giace spezzato il dio» disse, e il dolce suono della lingua jaenshinon riuscì a nascondere la durezza di quelle parole. Si trovavano nellostesso luogo in cui neKrol aveva già accompagnato Ryther, là dove untempo sorgeva la piramide del popolo dell'anello di pietra. NeKrol era co-perto dalla testa ai piedi da una tuta termica troppo aderente, che accentua-va ogni sgradevole protuberanza del suo corpo. Osservò la valle della Spa-da attraverso il plastifilm blu scuro del suo cappuccio. La Jaenshi, invece,

era nuda, coperta solo dalla folta pelliccia grigia della sua muta invernale.La cinghia del laser da caccia le passava tra i seni.

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«Altri dèi, oltre al tuo, finiranno infranti, se gli Angeli d'Acciaio nonvengono fermati» rispose neKrol, che malgrado la tuta termica stava rab-brividendo.

La femmina sembrò quasi non averlo udito. «Ero piccola quando sonoarrivati, Arik. Se ci avessero lasciato il nostro dio, forse sarei ancora unabambina. Più tardi, quando la luce si è spenta e il bagliore dentro di me èmorto, ho vagato a lungo, lontano dall'anello di pietra, oltre il bosco che cifaceva da casa, ignara di tutto, nutrendomi di quello che trovavo. Nellavalle scura la vita è diversa. I maiali grugnivano al mio passaggio e mi ag-gredivano con le zanne, alcuni Jaenshi mi attaccavano e si attaccavano avicenda. Io non capivo, non riuscivo a pregare. Anche quando gli Angelid'Acciaio mi hanno trovato, continuavo a non capire e sono andata con lo-

ro nella città, senza comprendere niente di quello che dicevano. Mi ricordole mura, i bambini, tanti erano più piccoli di me. Allora mi sono messa aurlare e a dibattermi, e quando ho visto quelli appesi alle corde, dentro dime si è agitato qualcosa di selvaggio e di empio.» Fissò il mercante con isuoi occhi dai riflessi di bronzo. Si mosse nella neve, affondando fino allecaviglie, stringendo con la mano artigliata la cinghia del laser.

NeKrol l'aveva istruita bene, dal giorno che l'aveva incontrata, verso lafine dell'estate, quando gli Angeli d'Acciaio l'avevano cacciata dalla valle

della Spada.Parolamara era di gran lunga la più abile dei sei esuli senza dio che ave-

va radunato e addestrato. Non aveva avuto altra scelta: aveva offerto il la-ser a un clan dietro l'altro, ricevendo solo rifiuti. Gli Jaenshi erano sicuriche i loro dèi li avrebbero protetti. Solo alcuni di quelli che avevano persoil proprio dio lo avevano ascoltato, ma non tutti; i bambini più piccoli,quelli più taciturni, i primi a fuggire erano stati accolti in altri clan. Certi,come quella giovane, si erano inselvatichiti, avevano visto troppo e non si

sapevano più adattare. Parolamara era stata la prima a imbracciare l'arma,dopo che il Vecchio della parola l'aveva allontanata dal popolo della casca-ta.

«In molti casi è meglio non avere un dio» le disse ne-Krol. «Quelli lag-giù ne hanno uno che li ha resi come sono. Gli Jaenshi hanno dèi e muoio-no proprio a causa della loro fede. Voi senza dio siete l'unica speranza.»

La giovane non rispose. Si limitò a osservare con occhi ardenti la cittàsilenziosa assediata dalla neve.

NeKrol la guardava perplesso. Tutte le probabilità di salvezza degli Ja-enshi dipendevano da lui e dai suoi sei compagni, dunque che speranza c'e-

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ra? Parolamara e gli altri esuli dimostravano una sorta di follia, una rabbiache lo faceva tremare. Anche se Ryther fosse arrivata con altri laser, e unmanipolo così esiguo fosse riuscito a fermare l'avanzata degli Angeli, an-che se tutto fosse andato per il verso giusto, che cosa sarebbe successopoi? Gli Angeli sarebbero potuti morire tutti da un giorno all'altro, ma lostesso, dove avrebbero potuto trovare pace quei profughi senza dio?

Restarono fermi in piedi, in silenzio, con la neve che si agitava sotto ipiedi e il vento del Nord che li aggrediva.

La cappella era buia e silenziosa. Nell'oscurità splendevano globi infuo-cati con magici riflessi rossi a entrambi i lati, e le file dei disadorni banchidi legno erano deserte. Sopra il grandioso altare, posato su una lastra di

pietra nera e grezza, c'era l'ologramma di Bakkalon, talmente reale che pa-reva respirasse: un fanciullo, un semplice fanciullo nudo dalla carnagionebianca come il latte, con gli occhi grandi e i capelli biondi di un giovaneinnocente. In mano stringeva la grande spada nera, lunga la metà della suaaltezza.

Wyatt s'inginocchiò davanti all'immagine, a capo chino e in assoluto si-lenzio. Durante l'inverno aveva fatto sogni oscuri e agitati, per questo tuttii giorni s'inginocchiava e pregava, invocando un consiglio. Non poteva ri-

volgersi a nessuno, se non a Bakkalon: era lui, Wyatt, il Censore, la guidanella battaglia e nella fede, a lui solo toccava risolvere l'enigma di quellevisioni.

Così, un giorno dopo l'altro, si trovò a combattere con i propri pensieri,finché la neve cominciò a sciogliersi e i pantaloni della sua divisa eranoquasi consumati alle ginocchia a forza di strofinarsi sul pavimento. Final-mente si decise: quel giorno aveva convocato gli ufficiali più alti in gradoa riunirsi con lui nella cappella.

Entrarono a uno a uno, mentre il Censore rimaneva inginocchiato e im-mobile; si sedettero nei banchi alle sue spalle, l'uno distanziato dall'altro.Wyatt non diede segno di averli sentiti: pregava che le sue parole fosserogiuste e la sua visione si dimostrasse vera. Quando tutti si furono sistemati,si alzò, si girò verso di loro e cominciò a parlare.

«Sono molti i mondi sui quali sono vissuti i Figli di Bakkalon, ma nes-suno benedetto come questo, il nostro pianeta Corlos. Un grande momentosi approssima per noi, fratelli in armi. Il pallido fanciullo è venuto a visi-

tarmi in sogno, come un tempo si era recato dai primi Censori, negli anniin cui fu formata la confraternita. Egli mi ha portato delle visioni.»

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Tutti restavano in silenzio, con lo sguardo umile e sottomesso; Wyatt erail loro Censore, e non era consentito fare domande quando un superiorepronunciava parole di saggezza o impartiva degli ordini. Uno dei Precettidi Bakkalon stabiliva che la catena di comando era sacra e non poteva es-sere messa in dubbio. Così nessuno aprì bocca.

«Bakkalon in persona è sceso su questo mondo. Ha camminato tra isenz'anima e tra le bestie dei campi e ha parlato loro del nostro dominio, equesto è ciò che ha detto a me: quando verrà la primavera e i semi dellaTerra usciranno dalla valle della Spada per prendere nuove terre, tutti glianimali sapranno qual è il loro posto e si ritireranno davanti a noi. Questoè ciò che profetizzo!

«Inoltre, noi vedremo miracoli. Anche questo mi ha promesso il pallido

fanciullo, segni grazie ai quali conosceremo la Sua verità, segni che fortifi-cheranno la nostra fede con nuove rivelazioni. E tuttavia la nostra fede saràmessa alla prova, perché sarà un tempo di sacrifici e Bakkalon farà appellopiù di una volta a noi chiedendoci di dimostrare la nostra fede in Lui. Nondobbiamo dimenticare i Suoi Precetti e dobbiamo essere sinceri, ognuno dinoi dovrà obbedirgli come un figlio obbedisce al genitore e un combattenteal suo ufficiale, prontamente e senza discutere. Perché il pallido fanciullosa che cos'è il meglio.

«Queste sono le visioni. Me l'ha garantito, questi sono i sogni che ho so-gnato. Fratelli, pregate insieme a me.»

Wyatt si girò nuovamente, s'inginocchiò, gli altri lo imitarono e tutte leteste si chinarono in preghiera, tranne una. Nell'ombra, sul fondo dellacappella, dove i globi fiammeggianti mandavano solo un tenue bagliore,C'ara DaHan osservava il Censore con la fronte aggrottata.

Quella sera, dopo una cena in silenzio e una breve riunione dello statomaggiore, il Mastro Armiere chiese a Wyatt di passeggiare con lui sulle

mura. «Censore, il mio animo è turbato» gli disse. «Devo avere consiglioda chi è più vicino a Bakkalon.»

Wyatt annuì. Entrambi indossarono pesanti mantelli di pelliccia nera emaglie metalliche color petrolio, e si misero a camminare sotto le stellelungo gli spalti di pietra rossa.

Vicino al posto di guardia che sovrastava le porte della città, DaHan sifermò e si sporse dal parapetto, cercando a lungo con lo sguardo la neveche si stava lentamente sciogliendo, prima di rivolgersi di nuovo al Censo-

re. «Wyatt» gli confessò «la mia fede vacilla.»Il Censore non disse niente, si limitò a fissarlo con il volto seminascosto

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dal cappuccio. La confessione non era prevista dai riti degli Angeli d'Ac-ciaio: Bakkalon aveva detto che la fede del combattente non deve mai va-cillare.

«Ai vecchi tempi» proseguì DaHan «contro i Figli di Bakkalon furonousate molte armi. Alcune ormai esistono solo nei racconti, o forse non so-no mai esistite. Può darsi che siano cose vacue, come gli dèi adorati dagliuomini imbelli. Io sono un semplice Mastro Armiere, non ho queste cono-scenze.

«C'è però una storia, mio Censore, che mi turba. Si racconta che un tem-po, nei lunghi secoli di guerra, i Figli di Hranga avessero liberato fra i semidella Terra quattro vampiri della mente, le creature che gli uomini chiama-vano succhia anima. Il loro tocco era impercettibile, ma potevano spingersi

a chilometri di distanza, più lontano di quanto può arrivare la vista di unuomo, più lontano della portata di un laser, e provocavano la follia. Visio-ni, mio Censore, visioni! Nella mente degli uomini s'insinuavano false di-vinità, assurdi progetti e...»

«Silenzio» lo interruppe Wyatt. La sua voce era dura, fredda come l'arianotturna che alitava su di loro e trasformava il respiro in vapore.

Ci fu una lunga pausa. Poi Wyatt riprese a parlare in un tono meno pe-rentorio. «Ho pregato per tutto l'inverno, DaHan, ho lottato con le mie vi-

sioni. Sono il Censore dei Figli di Bakkalon sul pianeta Corlos, non unbambinetto alle prime armi che può essere ingannato da falsi dèi. Parlo so-lo quando ho la certezza di ciò che dico. Parlo in quanto tuo padre nellafede, tuo comandante in capo. Ciò che tu metti in discussione, Mastro Ar-miere, il dubbio che sollevi, mi irrita molto. Vuoi forse arrivare a batterticon me, vuoi confutare alcuni dei miei ordini?»

«Mai, Censore.» DaHan s'inginocchiò in penitenza sulla neve che copri-va il camminamento.

«Lo spero proprio; ma prima che ti congedi, poiché sei mio fratello inBakkalon, ti darò una risposta, anche se non sarei tenuto e sarebbe sbaglia-to da parte tua aspettarla. Ti dirò questo: il Censore Wyatt è un buon uffi-ciale e un uomo devoto. Il pallido fanciullo mi ha fatto profezie e ha pre-detto che avverranno alcuni miracoli. Tutte cose che vedremo con i nostristessi occhi. Ma se le profezie fossero ingannevoli e se non apparisse alcunsegno, bene, anche questo lo vedremo con i nostri occhi. Allora io sapròche non era stato Bakkalon a mandarmi le visioni, ma solo un falso dio,

magari un succhia anima di Hranga. O forse credi che un Hrangan sappiafare miracoli?»

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«No» rispose DaHan, sempre inginocchiato, con la grossa testa calvaabbassata. «Sarebbe un'eresia.»

«Infatti» confermò Wyatt. Diede una rapida occhiata oltre le mura. Fa-ceva un freddo pungente in quella notte senza luna. Si sentiva trasfiguratoe gli parve che perfino le stelle cantassero la gloria del pallido fanciullo,perché la costellazione della Spada era alta nel cielo, mentre quella delSoldato si allungava verso di lei dal limite dell'orizzonte.

«Questa notte resterai di guardia senza il mantello» ordinò a DaHan,quando si voltò di nuovo verso di lui. «Se anche soffiasse il vento del Norde ti mordesse il gelo, ti rallegrerai della punizione, perché sarà il segno del-la sottomissione al tuo Censore e al tuo dio. Più la carne si raffredderà, piùforte dovrà ardere la fiamma nel tuo cuore.»

«Sì, mio Censore.» DaHan si alzò e si tolse il mantello, porgendolo alsuperiore. Wyatt gli diede la sferzata di benedizione.

Sullo schermo a parete della sua buia abitazione, lo sceneggiato proce-deva con il ritmo abituale, ma neKrol, allungato sulla grande poltrona im-bottita con gli occhi socchiusi, lo seguiva distrattamente. Accanto a lui, ac-cucciati sul pavimento, c'erano Parolamara e gli altri Jaenshi, con gli occhidorati fissi sullo spettacolo di esseri umani che si inseguivano e si sparava-

no nelle vie delle torreggianti metropoli di ai-Emerel. Erano sempre piùincuriositi dagli altri mondi e dai diversi stili di vita. Era tutto molto stra-no, rifletteva neKrol: il popolo della cascata e gli altri Jaenshi inseriti in unclan non avevano mai dimostrato la stessa curiosità. Ripensò a quando eraarrivato su quel pianeta, prima che sbarcassero gli Angeli d'Acciaio con laloro astronave da guerra vetusta e prossima alla demolizione. Aveva mo-strato ai portavoce degli Jaenshi ogni sorta di mercanzia, rocchetti di setasfavillante di Avalon, gioielli con pietre fosforescenti di High Kavalaan,

coltelli di duralluminio, generatori solari e balestre automatiche d'acciaio,libri di una dozzina di pianeti, vini, medicinali: si era presentato con un po'di tutto. Gli Jaenshi avevano preso qualcosa, di tanto in tanto, ma senza ungrande interesse, e l'unica offerta che li aveva entusiasmati era stato il sale.

Solo quando arrivarono le piogge di primavera e Parolamara cominciò afargli domande, neKrol si rese conto, di colpo, che gli Jaenshi non gli ave-vano quasi mai avanzato delle richieste. Forse la struttura sociale e la reli-gione soffocavano la loro naturale curiosità. I fuggiaschi, invece, e soprat-

tutto quella giovane, erano piuttosto vogliosi di sapere. NeKrol era in gra-do di rispondere solo ad alcune delle domande che lei gli poneva e anche

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allora ne seguivano subito altre che lo mettevano in imbarazzo. Comincia-va a preoccuparsi delle dimensioni della propria ignoranza.

Lo stesso discorso però valeva anche per Parolamara. A differenza degliJaenshi dei clan - la religione era davvero così importante? - avrebbe potu-to dare a sua volta qualche risposta. NeKrol aveva provato spesso a inter-rogarla su vari argomenti che lo incuriosivano, ma lei si era limitata a bat-tere le palpebre e a rispondergli con altre domande.

"Non ci sono storie sui nostri dèi" gli aveva detto quando il mercante a-veva cercato di sapere qualcosa dei miti locali. "Che storie potrebbero es-serci? Gli dèi vivono nelle piramidi sacre; noi li preghiamo e loro ci pro-teggono, combattono e si scontrano, come mi pare facciano anche i vostridèi."

"Ma voi un tempo avevate altri dèi, prima di cominciare a adorare le pi-ramidi" aveva obiettato neKrol. "Quelli che i vostri artigiani hanno fattoper me." Era arrivato al punto di aprire una cassa per mostrarglieli, anchese era sicuro che li conoscesse, perché il popolo della piramide dell'anellodi pietra annoverava i più raffinati artigiani.

La giovane, però, si era limitata a lisciarsi la pelliccia e a scuotere la te-sta. "Ero troppo giovane per fare le sculture, forse per questo non mi hannodetto niente. Noi sappiamo solo quello che ci serve sapere, e gli incisori

sono gli unici che devono conoscere queste cose, quindi forse loro sono alcorrente delle storie di quelle antiche divinità."

Un'altra volta il mercante le aveva chiesto delle piramidi, ottenendo an-cora meno. "Costruirle?" aveva replicato la giovane. "Ma non le abbiamocostruite noi, Arik. Ci sono sempre state, come gli alberi e le rocce." Poi,però, aveva battuto le palpebre. "Ma non sono come gli alberi e le rocce,vero?" E, sconcertata, era andata a confabulare con gli altri.

Ma se gli Jaenshi senza dio erano più riflessivi dei loro simili dei clan,

erano anche più difficili da trattare, e neKrol si rendeva conto ogni giornodi più dell'inconsistenza dell'impresa. Adesso aveva con sé otto sbandati(ne aveva trovati altri due, mezzo morti di fame, nel pieno dell'inverno)che a turno si addestravano con i due laser e spiavano le mosse degli An-geli. Anche se Ryther fosse tornata con altre armi, le loro forze erano ridi-cole rispetto alla potenza che il Censore poteva mettere in campo. Se la Lights of Jolostar fosse arrivata con un intero carico di materiale bellico,nella previsione che ogni clan nel raggio di un centinaio di chilometri si

fosse ormai ribellato e, in preda al furore, fosse pronto a resistere agli An-geli d'Acciaio e a sopraffarli con la sola superiorità numerica, Jannis sa-

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rebbe sbiancata vedendo che ad accoglierla c'erano solo neKrol e la suabanda scalcinata.

Come in effetti avvenne. E anche arrivare a quel risultato era statotutt'altro che facile: neKrol aveva avuto molte difficoltà nel tenere insiemei suoi guerriglieri. Nutrivano per gli Angeli d'Acciaio un odio ai limiti del-la follia, ma non si potevano definire un gruppo unito. A nessuno di loropiaceva ricevere ordini, litigavano continuamente, si attaccavano sfoderan-do gli artigli per affermare il proprio dominio sul branco. Se non li avesseminacciati di gravi sanzioni, neKrol sospettava che avrebbero finito perusare il laser in quei duelli. Per non parlare della forma fisica di chi avreb-be dovuto affrontare duri combattimenti. Delle tre femmine del gruppo,l'unica che aveva evitato di farsi ingravidare era stata Parolamara. Dato che

gli Jaenshi in genere figliano da quattro a otto piccoli, neKrol aveva calco-lato che per la fine dell'estate ci sarebbe stata un'esplosione demograficatra la popolazione dei profughi. E la faccenda non sarebbe finita lì, lo sa-peva: sembrava che i senza dio copulassero quasi ogni ora e non esistevaniente di simile al controllo delle nascite. Si chiese come facessero i clan amantenere stabile la loro popolazione, ma nessuno del suo piccolo esercitoglielo seppe spiegare.

«Forse facevamo meno sesso» rispose Parolamara quando glielo chiese.

«Ma io ero piccola per cui non lo so. Prima che arrivassi qui, non avevomai avuto l'estro. Ero troppo giovane.» Però, mentre lo diceva si grattava esembrava molto incerta.

Con un sospiro neKrol si distese di nuovo sulla chaise-longue e cercò diescludere l'audio. La faccenda si stava facendo estremamente complessa.Gli Angeli d'Acciaio erano già spuntati da dietro le mura e i loro cingolatipercorrevano da un capo all'altro la valle della Spada, trasformando i bo-schi in terreni coltivabili. Era salito di persona sulle colline e di lassù era

facile vedere che presto ci sarebbe stata la semina primaverile. Dopo diche, temeva, i Figli di Bakkalon avrebbero cercato di espandere il proprioterritorio. Solo una settimana prima uno di loro, un gigante "senza pellicciasulla testa", così lo avevano descritto i suoi esploratori, era stato notatosull'anello di pietra mentre raccoglieva frammenti della piramide distrutta.Qualsiasi cosa avesse in mente non era certo rassicurante.

Certe volte si sentiva male al pensiero di quello che aveva messo in mo-to e avrebbe quasi voluto che Ryther si dimenticasse dei laser. Parolamara

era decisa ad attaccare non appena avessero avuto le armi, quali che fosse-ro le probabilità di successo. NeKrol era spaventato e le ricordò come ave-

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vano reagito duramente gli Angeli l'ultima volta che uno Jaenshi aveva o-sato uccidere un uomo. La notte si sognava ancora i bambini appesi sullemura.

Lei si limitava a fissarlo con lampi di follia color bronzo negli occhi egli diceva: "Sì, Arik, mi ricordo".

Silenziosi ed efficienti, gli inservienti in grembiule bianco sgombraronoil tavolo dagli ultimi avanzi della cena e sparirono. «Riposo» disse Wyattagli ufficiali. Poi cominciò a parlare: «Il tempo dei miracoli si approssima,come ha predetto il pallido fanciullo. Questa mattina ho inviato tre plotonisulle colline a sudest della valle della Spada, per disperdere gli Jaenshi dal-le terre che ci servono. Nel primo pomeriggio hanno fatto un rapporto che

desidero rendervi noto. Madreplotone Jolip, vuoi riferire ciò che è emersoquando hai eseguito i miei ordini?».

«Sì, Censore.»Jolip - una donna bionda dalla carnagione chiara e dal volto tirato, con

l'uniforme un po' cascante sul corpo sottile - si alzò in piedi. «Mi è statoaffidato un plotone di dieci unità, per far sgombrare il cosiddetto clan deldirupo, la cui piramide si trova ai piedi di una parete granitica nella zonapiù selvaggia delle colline. Le informazioni fornite dai nostri servizi di

intelligence dicevano che il clan era uno dei meno numerosi, solo una tren-tina di adulti, così ho fatto a meno dei mezzi blindati. Abbiamo preso uncannone blaster di classe cinque, perché la distruzione di una piramide conle armi leggere richiede troppo tempo, ma per il resto ci siamo limitatiall'armamento standard.

«Non ci aspettavamo alcuna resistenza, ma ricordando l'incidente all'a-nello di pietra, mi sono mossa con prudenza. Dopo una marcia di circa do-dici chilometri fra le colline, in prossimità del dirupo, ci siamo schierati a

ventaglio e siamo avanzati lentamente, con le pistole a urlo spianate. Nelbosco abbiamo incontrato solo pochi Jaenshi, li abbiamo presi prigionieri eli abbiamo fatti avanzare davanti a noi, per utilizzarli da scudo nel caso diun'imboscata o di un attacco. Una precauzione che si è rivelata superflua.

«Arrivati alla piramide nei pressi del dirupo, abbiamo scoperto di essereattesi. C'era almeno una dozzina di quegli animali, signore. Uno di loro se-deva alla base della piramide con le mani lungo i fianchi, mentre gli altri locircondavano in una specie di cerchio. Tutti hanno alzato la testa e ci han-

no guardato, senza fare altri movimenti.»Jolip tacque e si grattò pensosamente il naso con un dito, poi riprese:

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«Come ho già riferito al Censore, da quel momento in poi è andato tutto inun modo molto strano. L'estate scorsa ho guidato due volte un plotone con-tro i clan degli Jaenshi. La prima volta non avevano alcuna idea delle no-stre intenzioni e non c'era in giro nessuno dei senz'anima: ci siamo limitatia distruggere la costruzione e ce ne siamo andati. La seconda volta si ac-calcò una folla di quelle creature, che ci ostacolavano con i loro corpi, purnon essendo attivamente ostili. Si sono dispersi solo quando ne ho abbattu-to uno con la pistola a urlo. Ho anche studiato le difficoltà incontrate dalPadreplotone Allor al cerchio di pietra.

«Questa volta le cose sono andate in modo completamente diverso. Hoordinato a due dei miei uomini di montare il cannone blaster sul treppiedee ho fatto capire alle bestie che dovevano togliersi di mezzo. A gesti, chia-

ramente, perché non so una parola del loro linguaggio assurdo. Si sonospostati subito, separandosi in due gruppi e... be', allineandosi da una partee dell'altra della linea di fuoco. Li abbiamo ovviamente tenuti sotto il tirodelle pistole a urlo, ma tutto sembrava procedere pacificamente.

«E così è stato. Il blaster ha centrato in pieno la piramide, vi sono statiuna grande palla di fuoco e poi una specie di tuono mentre la struttura e-splodeva. Qualche frammento si è sparso in giro, ma nessuno è rimasto fe-rito: noi ci eravamo messi al riparo e gli Jaenshi pareva non ci badassero.

Dopo che la piramide era stata distrutta, c'era un odore acuto di ozono eper un istante si è vista indugiare una fiamma bluastra, ma forse era soloun effetto ottico. Praticamente non ho avuto il tempo di notarla, perchéproprio in quel momento gli Jaenshi sono caduti in ginocchio davanti anoi. Tutti insieme, signore. Poi hanno posato la fronte a terra e si sono pro-strati. Per un momento ho pensato che intendessero onorarci come divinità,perché noi avevamo distrutto il loro dio, e stavo per fare capire loro chenon ce ne facevamo niente di quell'adorazione e che volevamo solo che se

ne andassero al più presto. Poi, però, ho capito di averli fraintesi: altriquattro membri del clan sono scesi dagli alberi in cima al declivio e cihanno consegnato la statua. A quel punto tutti si sono rialzati in piedi.Quando li ho visti per l'ultima volta, il clan al gran completo era diretto aoriente e abbandonava la valle della Spada e le colline che la cingono. Hopreso la statua e l'ho portata al Censore.» La donna tacque, ma rimase inpiedi, pronta a rispondere alle domande.

«Ecco la statuetta» disse Wyatt. Si chinò, la prese, la posò sul tavolo e

tirò via il panno bianco che la copriva. La base era un triangolo di cortec-cia nera, dura come la pietra, con tre lunghe schegge d'osso che spuntava-

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no dai suoi vertici a formare una piramide. All'interno, scolpito nel tenerolegno blu con una tecnica raffinata e curata in ogni particolare, c'era Bak-kalon, il pallido fanciullo con una spada dipinta in mano.

«Che cosa significa?» chiese il Feldvescovo Lyon esterrefatto.«Sacrilegio!» esclamò la Feldvescova Dhallis.«Niente di grave» fu il commento di Gorman, Feldvescovo agli arma-

menti pesanti. «Le bestie stanno solo cercando di ottenere la nostra bene-volenza, magari nella speranza che teniamo a freno le spade.»

«Nessuno, tranne il seme della Terra, può inchinarsi a Bakkalon» ribadìDhallis. «Sta scritto nel Libro! Il pallido fanciullo non guarderà con favorei senz'anima!»

«Silenzio, fratelli in armi!» intimò il Censore, e sul lungo tavolo tornò di

colpo la quiete. Wyatt sorrise impercettibilmente. «Ecco il primo dei mira-coli di cui vi ho detto quest'inverno nella cappella, il primo di quegli stranieventi di cui mi ha parlato Bakkalon. Egli ha davvero attraversato questomondo, il nostro Corlos, così perfino le bestie conoscono il Suo aspetto!Meditate su questo, fratelli. Meditate su questa scultura. Fatevi qualchesemplice domanda. È mai stato permesso a uno qualsiasi di quegli animali

 jaenshi di mettere piede nella città santa?»«No di certo!» rispose qualcuno.

«Nessuno di loro può aver visto l'ologramma che sta sopra il nostro alta-re. E io non mi sono trovato spesso tra quelle bestie, perché i miei impegnimi trattengono qui, dentro queste mura; comunque nessuno può ricordarel'immagine del pallido fanciullo che porto al collo come insegna del miogrado, perché i pochi Jaenshi che mi hanno visto in faccia non sono vissutiabbastanza per raccontarlo: erano quelli che ho giudicato e che sono appesisulle mura. Gli animali non parlano la lingua del seme della Terra e nessu-no di noi ha appreso il loro linguaggio animale. Infine, essi non hanno letto

il Libro. Considerate tutto questo e chiedetevi: come facevano i loro scul-tori a conoscere il volto e la figura che riproducevano?»

Tutti tacquero; i capi dei Figli di Bakkalon si scambiarono occhiate per-plesse.

Wyatt congiunse lentamente le mani. «Un miracolo! Non avremo piùproblemi con gli Jaenshi, perché il pallido fanciullo è sceso tra loro.»

La Feldvescova Dhallis sedeva impettita alla destra del Censore. «MioCensore, mia guida nella fede» disse con qualche difficoltà, perché le paro-

le stentavano a uscirle dalla bocca «certamente ... certamente non vorraidire che questi... questi animali possono adorare il pallido fanciullo, e che

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Egli accetta la loro venerazione!»Wyatt appariva calmo, benevolente, e si limitò a sorridere. «Il tuo spirito

non deve essere turbato, Dhallis. Tu ti chiedi se io non stia commettendo laPrima Eresia, ricordando forse il Sacrilegio di G'hra, quando un prigionie-ro hrangan s'inchinò a Bakkalon per evitare di essere scannato come un a-nimale, e il Falso Censore Gibrone proclamò che tutti quelli che adoranoBakkalon devono avere un'anima.» Scosse la testa. «Vedi, anch'io ho lettoil Libro, ma no, non c'è alcun sacrilegio. Bakkalon è avanzato fra gli Jaen-shi e sicuramente ha dato loro solo il vero. Essi lo hanno visto in armi intutta la sua oscura gloria e lo hanno udito proclamare che loro sono anima-li, senz'anima, come sicuramente Egli proclama. Per questo hanno accetta-to il loro posto nell'ordine dell'universo e si ritirano davanti a noi. Non uc-

cideranno mai più un uomo. Tenete presente che non si sono inchinati da-vanti alla statua che hanno scolpito, ma l'hanno offerta a noi, il seme dellaTerra, i soli che hanno il diritto di adorarla. Quando si sono prostrati, lohanno fatto ai nostri piedi, come animali davanti agli uomini, ed è così chedeve essere. Capite? A loro è stata data la verità.»

Dhallis assentiva. «Sì, mio Censore. Sono illuminata. Perdona il miomomento di debolezza.»

Al centro della tavolata, però, C'ara DaHan si chinò in avanti e strinse le

grosse mani nodose con un'espressione aggrottata. «Mio Censore» gridò.«Mastro Armiere?» rispose Wyatt severo in volto.«Come la Feldvescova, anch'io ho avuto l'animo turbato dal timore e

vorrei essere illuminato; mi è permesso?»Wyatt sorrise. «Parla» gli disse con voce inespressiva.«Può essere davvero un miracolo, ma prima dobbiamo interrogarci ed

essere certi che non si tratti di un trucco. Non riesco a figurarmi uno stra-tagemma o le ragioni per cui i senz'anima agiscono in questo modo, ma so

che c'è un caso in cui gli Jaenshi hanno conosciuto la figura del nostroBakkalon.»

«E quale?»«Parlo della base commerciale di Jamison e del mercante con i capelli

rossi, Arik neKrol. Anche lui è un seme della Terra, un Emereli dall'aspet-to, e noi gli abbiamo dato il Libro, però non si è acceso d'amore per Bak-kalon e va in giro privo di armi come un senza dio. Fin dal nostro arrivo siè dimostrato ostile verso di noi e lo è diventato ancora di più dopo la le-

zione che abbiamo dovuto dare agli Jaenshi. Forse è riuscito a convincereil clan del dirupo, ha detto lui di fare quella scultura per qualche oscuro

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scopo. Credo che intrattenga qualche commercio con loro.»«Sono convinto che tu dica il vero, Mastro Armiere. Nei primi mesi do-

po il nostro sbarco ho cercato in tutti i modi di convertire neKrol, senzariuscirci, ma ho appreso molto sulle bestie Jaenshi e sul commercio che facon loro.» Il Censore sorrise di nuovo. «Ha scambiato mercanzie con unodei clan della valle della Spada, con quelli dell'anello di pietra, del dirupo edel tralcio di frutta, con il popolo della cascata e con diversi clan più a o-riente.»

«Dunque di questo si tratta» esclamò DaHan. «Un trucco!»Tutti gli sguardi si spostarono su Wyatt. «Non ho detto questo. Quali che

siano le sue intenzioni, NeKrol è un uomo solo. Non ha rapporti con tuttigli Jaenshi, e non conosce nemmeno l'intera popolazione.» Il sorriso del

Censore si fece per un istante più ampio. «Quelli di voi che hanno vistol'Emereli, sanno che si tratta di un uomo molle e inetto, che cammina condifficoltà e non dispone di un'aeromobile o di una motoslitta.»

«Però ha avuto rapporti con il clan del dirupo» obiettò DaHan. La suafronte restava ostinatamente aggrottata.

«Sì, è vero» ammise Wyatt «ma la Madreplotone Jolip non è l'unica cheè uscita stamattina. Ho anche mandato il Padreplotone Walman e la Ma-dreplotone Allor al di là del fiume Biancocoltello. Laggiù la terra è scura e

fertile, migliore di quella a oriente. Il clan del dirupo, che sta a sudest tra lavalle della Spada e il Biancocoltello, doveva essere scacciato, ma le altrepiramidi che abbiamo attaccato appartengono a clan più lontani lungo ilfiume, oltre trenta chilometri a sud. Laggiù non hanno mai visto Arik ne-Krol, a meno che quest'inverno non gli siano spuntate le ali.»

Wyatt si chinò di nuovo, pose sul tavolo altre due statuette e le scoprì.Una poggiava su una lastra di ardesia e la figura era scolpita in modo piùrozzo, l'altra era lavorata fin nei minimi particolari ed era tutta di radice di

saponaria, fino al vertice della piramide. Nonostante le differenze di mate-riali e di lavorazione, erano identiche alla prima.

«Ci vedi un trucco, Mastro Armiere?» chiese Wyatt.DaHan fissò gli oggetti senza aprire bocca, ma il Feldvescovo Lyon bal-

zò in piedi ed esclamò: «Io ci vedo un miracolo», e gli altri gli fecero eco.Quando il mormorio finalmente scemò, il Mastro Armiere abbassò la te-

sta e sussurrò: «Mio Censore. Leggici parole di saggezza».

«I laser, ragazza, i laser!» C'era una punta di isterica disperazione nellavoce di neKrol. «Il fatto è che Ryther non è ancora tornata. Dobbiamo a-

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spettare.»Stava all'esterno della cupola della base commerciale, a torso nudo e su-

dato sotto il sole rovente del mattino, mentre un forte vento gli arruffava icapelli. Il clamore lo aveva riscosso da un sonno agitato. Li aveva fermatiproprio ai margini del bosco e Parolamara gli si era rivolta contro, conun'aria fiera e decisa, per niente da Jaenshi, con il laser a tracolla, un faz-zoletto di seta blu annodato al collo e anelli con grosse pietre lucenti a tuttele otto dita. Accanto a lei c'erano gli altri fuggiaschi, tranne le due femmi-ne gravide. Uno aveva il laser, gli altri erano armati di balestra automaticae faretra. L'idea era stata della giovane. Il suo nuovo compagno stava chinocon un ginocchio a terra e ansimava: era arrivato di corsa dall'anello di pie-tra.

«No, Arik» disse la giovane con un lampo di rabbia negli occhi di bron-zo. «I laser dovevano arrivare un mese fa, secondo i tuoi calcoli. Ognigiorno che aspettiamo, gli Angeli abbattono altre piramidi. Tra poco po-trebbero ricominciare a impiccare bambini.»

«Se li attaccate, tra pochissimo» ribatté neKrol. «Che speranze avete difarcela? Il tuo esploratore dice che si spostano con due plotoni e un cingo-lato: pensi di fermarli con due fucili laser e qualche balestra automatica?Hai imparato a riflettere, o no?»

«Sì» gli rispose la giovane, e nel dirlo gli mostrò i denti. «Ma questo nonconta. I clan non fanno resistenza, quindi tocca a noi opporci.»

Il suo compagno, ancora ansimante, alzò gli occhi verso neRrol. «Loro...avanzano verso la cascata.»

«La cascata!» ripeté Parolamara. «Morto l'inverno, più di venti piramidispezzate, Arik, e i boschi abbattuti dai grandi carri a ruote di ferro e oraun'enorme strada polverosa va dalla valle fino alla terra dei fiumi. In que-sta stagione nessun Jaenshi ucciso, tutti lasciati andare. E tutti i clan senza

più un dio ora sono alla cascata, in tantissimi, e il bosco del popolo dellacascata è tutto spoglio. I portavoce dei clan siedono con il Vecchio dellaparola e forse il dio della cascata li accetta tutti, forse è un dio molto gran-de. Io non so di queste cose. Ma so che l'Angelo con la testa senza pellic-cia ha sentito che venti clan si sono messi insieme, che tantissimi Jaenshiadulti sono là e ora li attacca. Li lascerà andare tranquillamente? Si accon-tenterà di una statuetta? E loro andranno via, Arik, lasceranno anche que-sto secondo dio?» Socchiuse gli occhi. «Ho paura che attacchino con que-

gli inutili artigli, ho paura che l'Angelo con la testa senza pelliccia li ap-penda alle corde anche se non faranno niente, perché un'unione di tanti lo

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farà insospettire. Ho molte paure e conosco così poco, ma so che dobbia-mo andare là. Non ci fermerai, Arik, non possiamo aspettare ancora i tuoilaser.» Poi si rivolse ai compagni e disse: «Andiamo, presto!».

Il gruppo sparì nel bosco prima che neKrol riuscisse a gridare qualcosaper fermarlo. Rientrò imprecando nella cupola.

Sulla soglia incontrò le due femmine incinte: se ne stavano andando an-che loro. Erano quasi alla fine della gravidanza, ma impugnavano una ba-lestra automatica. «Anche voi!» esclamò neKrol furioso. «È una follia, pu-ra follia!» Le femmine si limitarono a fissarlo in silenzio con gli occhisgranati, poi scomparvero tra gli alberi.

Infilò una camicia, si annodò in fretta i lunghi capelli rossi perché nons'impigliassero tra i rami e si precipitò fuori. Poi si bloccò di colpo. Un'ar-

ma, doveva avere un'arma! Si guardò freneticamente intorno e corse versoil magazzino. Vide che non restava più nemmeno una balestra. Che cosapoteva prendere? Iniziò a frugare dappertutto e finalmente trovò unmachete di duralluminio. In mano sua sembrava strano, gli dava un'ariaancora più imbelle e ridicola, ma pensò che fosse meglio di niente.

Uscì e si diresse verso la cascata.

NeKrol era sovrappeso e poco muscoloso; inoltre non era abituato a cor-

rere e doveva avanzare per un paio di chilometri tra la fitta vegetazione e-stiva del bosco. Fu costretto a fermarsi tre volte per riprendere fiato e cal-mare le fitte al torace: quella corsa gli sembrò non finire mai. Comunquearrivò prima degli Angeli d'Acciaio: i cingolati sono mezzi lenti e pesanti,e il percorso dalla valle della Spada era più lungo e accidentato.

Gli Jaenshi erano dappertutto. Lo spiazzo era stato ripulito dall'erba e re-so due volte più ampio, rispetto a quando il mercante lo aveva visto l'ulti-ma volta, all'inizio della primavera. Eppure era interamente occupato da

Jaenshi seduti a terra, che fissavano il laghetto e la cascata, in silenzio, cosìaddossati l'uno all'altro che quasi non si poteva camminare. Altri si eranosistemati in alto, una decina su ogni albero, e qualche bambino si era ar-rampicato addirittura sui rami più alti, già regno esclusivo delle pseudo-scimmie.

I portavoce dei clan erano ammassati attorno alla piramide, sulla grandepietra al centro del laghetto, con la cascata sullo sfondo. Erano l'uno vicinoall'altro, ancora più stretti di quelli nella radura, e tutti premevano le palme

contro la piramide. Uno, più esile, stava sulle spalle di un altro per riuscirea toccarla. NeKrol cercò di contarli, ma ci dovette rinunciare: erano troppo

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accalcati, una massa confusa di braccia grigie e pelose e di occhi dorati,con al centro la piramide, più scura e immobile che mai.

Parolamara stava in piedi, immersa nell'acqua sino ai fianchi. Si rivolge-va alla folla e gridava con una voce stranamente diversa dal solito ronziodella lingua jaenshi: con il fazzoletto al collo e gli anelli sembrava assur-damente fuori posto. Mentre parlava, scuoteva il laser che stringeva in ma-no. Si esprimeva con passione, dicendo che stavano per arrivare gli Angelid'Acciaio, che dovevano andarsene subito, disperdersi nel bosco e poi rag-grupparsi nella base commerciale. Continuava a ripeterlo istericamente.

Ma tutti restavano immobili e in silenzio. Nessuno rispondeva, nessunoascoltava, nessuno sentiva: tutti pregavano, in pieno giorno.

NeKrol si fece largo tra loro, calpestando una mano qui e un piede là,

non riuscendo talvolta a evitare di mettere lo stivale sul corpo di uno Jaen-shi. Arrivò vicino alla giovane che ancora si agitava e gridava, e che solo aquel punto si accorse di lui. «Arik!» disse. «Gli Angeli stanno arrivando eloro non ascoltano.»

«E gli altri?» chiese il mercante ansimando. «Dove sono?»La giovane fece un gesto vago. «Sugli alberi. Li ho fatti salire sugli albe-

ri. Cecchini, Arik, come abbiamo visto sul tuo muro.»«Ti prego, torna indietro con me. Lasciali stare, lasciali qui. Gliel'hai

detto tu, gliel'ho detto io. Comunque vadano le cose, sono fatti loro, è col-pa della stupida religione che seguono.»

«Non posso andare via» rispose Parolamara. Sembrava confusa, comecapitava spesso quando neKrol la interrogava. «Forse dovrei, ma in qual-che modo sento di dover restare qui. E gli altri comunque non se ne an-drebbero, anche se io lo facessi. Sono ancora più convinti di me. Dobbia-mo rimanere qui. Per batterci, per parlare.» Socchiuse gli occhi. «Non soperché, Arik, ma è così.»

Prima che il mercante potesse replicare, spuntarono dal bosco gli Angelid'Acciaio.

All'inizio erano in cinque, distanziati fra loro, poi se ne aggiunsero altricinque. Procedevano a piedi con le divise verde scuro screziato che si con-fondeva con il fogliame, facendo risaltare solo le cinture di maglie d'accia-io e i lucidi elmi di metallo. Uno di loro, una donna magra e pallida, avevaun alto collare rosso; tutti impugnavano pistole laser.

«Tu!» intimò la donna bionda, che aveva subito adocchiato Arik, con i

capelli rossi e il machete che teneva inutilmente in mano. «Parla a questianimali! Di' loro di andarsene! Di' che non sono permessi raduni di Jaenshi

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così numerosi a est delle montagne, per ordine del Censore Wyatt e per vo-lontà del pallido fanciullo Bakkalon. Forza!» Poi notò la giovane vicino alui. «E togli il laser dalle mani di quell'animale, se non vuoi che spariamo atutti e due!»

NeKrol, tremante, lasciò cadere in acqua il machete. «Parolamara, lasciaandare il laser» disse alla giovane in jaenshi. «Ti prego, se vuoi vedere lestelle lontane. Lascialo, amica mia, figlia mia, lascialo andare subito. Equando arriva Ryther ti porterò con me su ai-Emerel e su pianeti anche piùlontani.» Il mercante era terrorizzato; gli Angeli d'Acciaio tenevano le pi-stole spianate e lui era assolutamente certo che la giovane non gli avrebbedato retta.

Invece, stranamente, lei obbedì, remissiva, e gettò il fucile laser in ac-

qua. NeKrol non poteva vederla in viso per capire che cosa avesse in men-te.

La Madreplotone si era visibilmente tranquillizzata. «Bene, adesso di'loro che se ne vadano, se non vogliono finire stritolati: sta arrivando uncarro armato.» Infatti, sotto lo scroscio delle acque vicine, neKrol potevaudire lo strepito del pesante mezzo che abbatteva gli alberi e li frantumavasotto i cingoli metallici. Forse gli Angeli usavano anche il cannone blastere i laser della torretta per sgombrare la strada dai macigni e da altri ostaco-

li.«Glielo abbiamo già detto» rispose disperato neKrol. «Lo abbiamo ripe-

tuto un sacco di volte, ma non ci ascoltano!» Fece un ampio gesto: la radu-ra era ancora ricoperta dai corpi degli Jaenshi e nessuno pareva essersi ac-corto della presenza degli Angeli e della discussione in corso. Alle spalledel mercante, il gruppo dei portavoce continuava a tenere le mani appog-giate alla piramide.

«Allora sguaineremo la spada di Bakkalon contro di loro» ribatté la

donna «e forse udranno i loro stessi lamenti!» Ripose il laser nella fondinaed estrasse la pistola a urlo: neKrol rabbrividì, vedendo quello che stavaper fare. Quell'arma produceva onde sonore concentrate, capaci di frantu-mare le pareti delle cellule e di liquefare la carne, con terribili effetti psico-logici oltre che fisici: non c'era morte più orribile.

A quel punto, però, arrivò un secondo plotone di Angeli; si udì lo scric-chiolio di tronchi sradicati e spezzati e al di là di un gruppo di alberi dafrutta neKrol riuscì vagamente a scorgere il profilo del cingolato, con il

cannone blaster che sembrava puntato proprio contro di lui. Due dei nuoviarrivati portavano un collare rosso come quello della donna: un giovane

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con la faccia paonazza e le orecchie a sventola, che latrava ordini ai suoiuomini, e un uomo calvo, corpulento, con la pelle scura e raggrinzita. Ne-Krol lo riconobbe: era il Mastro Armiere C'ara DaHan. Quest'ultimo bloc-cò il braccio della Madreplotone che stava sollevando la pistola a urlo.«No, non così» disse.

La donna ripose immediatamente l'arma. «Ti ascolto e obbedisco.»Quindi DaHan si rivolse a neKrol: «Mercante, è opera tua?».«No» rispose neKrol.«Non si vogliono disperdere» confermò la Madreplotone.«Ci vorrebbero un giorno e una notte per eliminarli tutti con le armi a ur-

lo» osservò DaHan, contemplando la radura e seguendo con gli occhi lacascata fino alla cima del dirupo. «C'è un sistema più semplice: distrug-

giamo la piramide e se ne andranno subito.» S'interruppe e fissò la giovaneaccanto a neKrol.

«Una Jaenshi con anelli e vestiti» esclamò. «Finora non avevano maiprodotto tessuti, tranne i sudari. La cosa mi preoccupa.»

«È una del popolo dell'anello di pietra» intervenne subito il mercante.«Ha vissuto con me.»

DaHan annuì. «Capisco. Sei proprio un uomo empio, neKrol, per legarticosì ad animali senz'anima, insegnando loro a scimmiottare le maniere del

seme della Terra. Ma non importa.» Sollevò il braccio per dare il segnale;alle sue spalle, tra gli alberi, il cannone blaster si mosse lentamente versodestra. «Tu e la tua bestia dovete togliervi subito di lì» disse a neKrol.«Quando abbasserò il braccio, il dio jaenshi brucerà e, se resti dove sei,non ti muoverai più.»

«I portavoce!» protestò il mercante. «Il colpo li...» e si girò per indicarli,ma vide che si stavano già allontanando dalla piramide, a uno a uno.

Alle sue spalle, gli Angeli mormoravano. «Un miracolo!» esclamò uno

con voce roca. «Il nostro fanciullo! Il nostro Signore!» gridò un altro.NeKrol era paralizzato. La piramide non era più fatta di lastre rossastre:

al sole splendeva un prisma di cristallo trasparente, dentro il quale, perfettoin ogni particolare, c'era Bakkalon, il pallido fanciullo, sorridente con inmano la sua spada, il Demonio Predone. I portavoce jaenshi si staccavanodalle pareti trasparenti e si lasciavano cadere in acqua nella fretta di allon-tanarsi. NeKrol scorse il Vecchio della parola che si muoveva più sveltoche mai, nonostante l'età. Perfino lui sembrava non capire. Parolamara era

rimasta a bocca aperta.Il mercante si voltò: una metà degli Angeli d'Acciaio era caduta in gi-

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nocchio, gli altri avevano abbassato le armi senza nemmeno renderseneconto ed erano come paralizzati dalla sorpresa. La Madreplotone si rivolsea DaHan: «È un miracolo, come aveva previsto il Censore Wyatt. Il pallidofanciullo cammina in questo mondo».

Il Mastro Armiere, però, restò imperturbabile. Con una voce fredda co-me l'acciaio disse: «Il Censore non è qui e questo non è un miracolo, è iltrucco di qualche nemico e io non mi lascio ingannare. Bruceremo questooggetto blasfemo eliminandolo dal suolo di Corlos». Abbassò il braccio.

Gli uomini sul cingolato dovevano essere stati presi da un sacro timore:il cannone non sparò. DaHan si voltò ringhioso. «Non è un miracolo!» gri-dò. Sollevò di nuovo il braccio.

La giovane accanto a NeKrol urlò. Lui si voltò preoccupato e vide che i

suoi occhi spalancati erano diventati giallo oro. «Il dio!» sussurrò. «Mi ètornata la luce!»

Dagli alberi intorno si udì il sibilo delle balestre automatiche e due frec-ce si conficcarono contemporaneamente nella grande schiena di C'ara Da-Han. La forza dei colpi fece cadere in ginocchio il Mastro Armiere, che poicrollò a terra.

«Corri!» gridò neKrol e spinse la giovane con tutte le sue forze; lei ince-spicò e si voltò un istante a guardarlo: gli occhi erano di nuovo colore del

bronzo e nello sguardo si leggeva la paura. Poi si mise a correre, col fazzo-letto che le sventolava sulle spalle mentre a balzi raggiungeva gli alberi piùvicini.

«Uccidetela!» strillò la Madreplotone. «Uccideteli tutti!» Le sue parolescossero dal torpore sia i suoi uomini sia gli Jaenshi. Gli Angeli d'Acciaiopuntarono le pistole laser sulla folla che si stava alzando in piedi e comin-ciò il massacro. NeKrol si inginocchiò nell'acqua e si mise a rovistare tragli scogli scivolosi; riuscì a ripescare il fucile laser, lo appoggiò alla spalla

e sparò. Dall'arma partirono rabbiose scariche di fuoco, una, due, tre volte.Tenne premuto il grilletto e le raffiche divennero un unico raggio che tran-ciò alla vita uno degli Angeli prima che una fiamma gli esplodesse nellostomaco facendolo precipitare nell'acqua.

Per qualche istante non vide più niente, sentiva solo dolore e rumori,l'acqua che gli lambiva delicatamente il volto, le urla acute degli Jaenshiche correvano intorno a lui. Per due volte udì il rombo e lo schianto delcannone blaster e più di due volte qualcuno lo calpestò. Niente sembrava

avere più importanza. Si sforzò di tenere la testa appoggiata agli scogli,mezzo fuori dall'acqua, ma anche questo dopo un po' gli parve inutile. L'u-

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nica cosa che contava era quella fiamma nelle viscere.Poi, chissà come, il dolore scomparve, ci furono solo tanto fumo e un or-

ribile fetore, ma il rumore diminuì e neKrol rimase disteso tranquillo adascoltare le voci.

«La piramide, Madreplotone?» chiedeva qualcuno.«È un miracolo» rispondeva una voce femminile. «Guarda, Bakkalon è

ancora lì. Lo vedi come sorride? Abbiamo agito bene!»«Che cosa dobbiamo farne?»«Caricatelo a bordo del cingolato. Lo porteremo dal Censore Wyatt.»Subito dopo le voci si allontanarono e neKrol udì soltanto lo scroscio

della cascata. Era un suono molto riposante. Decise di mettersi a dormire.

L'uomo dell'equipaggio infilò la spranga tra le assi e fece leva. Il legnosottile quasi non protestò prima di cedere. «Altre statue, Jannis» riferì do-po avere aperto la cassa e liberato qualche oggetto dall'imballaggio.

«Non valgono niente» rispose Ryther con un sospiro. Erano in mezzo al-le rovine della base commerciale di neKrol. Gli Angeli l'avevano devastataalla ricerca di Jaenshi armati, e c'erano macerie dappertutto. Però non ave-vano toccato le casse.

L'uomo riprese la spranga e si diresse verso le altre casse. Ryther osser-

vò preoccupata i tre Jaenshi che le si stringevano attorno: avrebbe volutosaper comunicare un po' meglio con loro. La femmina magra che portavaun fazzoletto al collo e tanti gioielli, e non si staccava mai da una balestraautomatica, conosceva qualche rudimento di lingua terrana, ma certo nonera sufficiente. Imparava in fretta, però fino a quel momento l'unica cosasensata che aveva detto era: "Pianeta di Jamison. Arik porta noi. Angeliuccide". Aveva ripetuto continuamente quelle parole finché Ryther le ave-va fatto capire che, sì, li avrebbe portati con lei. Gli altri due Jaenshi, la

femmina incinta e il maschio con il laser, non avevano detto neanche unaparola.

«Ancora statue» disse l'uomo che, nel magazzino devastato, aveva presouna cassa dalla cima del mucchio e l'aveva aperta.

Ryther alzò le spalle e l'uomo proseguì. Lei si allontanò, uscì all'apertodirigendosi lentamente verso il bordo dell'astroporto dove stava in attesa la Lights of Jolostar : nella prima oscurità della sera dai portelloni aperti usci-va una luce gialla. Gli Jaenshi le andavano dietro, come sempre dal suo ar-

rivo, temendo indubbiamente che sarebbe ripartita lasciandoli lì, se avesse-ro anche per un istante staccato i loro occhi da lei.

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«Statue» mormorò rivolta a se stessa e agli Jaenshi. Scosse la testa. «Maperché l'ha fatto?» chiese ai tre, pur sapendo che non la capivano. «Unmercante della sua esperienza? Forse voi potreste rispondermi se capisteche cosa vi dico. Invece di concentrarsi sui sudari e su altri oggetti autenti-ci della vostra arte, perché ha insegnato alla vostra gente a scolpire versio-ni aliene di divinità umane? Avrebbe dovuto sapere che nessun grossistaavrebbe accettato frodi così evidenti. L'arte aliena deve essere aliena.» So-spirò. «Colpa mia, suppongo. Avemmo dovuto aprire le casse.» Sorrise.

Parolamara la guardò. «Sudario Arik. Dato.»Ryther annuì pensando ad altro. Lo aveva steso sulla sua cuccetta, un

piccolo, strano pezzo di tessuto, in parte fatto con peli jaenshi ma soprat-tutto con lunghi e setosi capelli rosso fiamma. Al centro, grigio su sfondo

rosso, c'era un ritratto un po' rozzo ma riconoscibile di Arik neRrol. Avevasuscitato la sua curiosità. Era il tributo di una vedova? Di una figlia? O so-lo di un'amica? Che cos'era successo ad Arik durante l'anno in cui la Lights

era stata via? Se almeno fosse riuscita ad arrivare in tempo, chissà. Ma a-veva perso tre mesi sul pianeta di Jamison, interpellando un rivenditoredopo l'altro nel vano tentativo di piazzare quelle statuette senza valore. Eraormai autunno inoltrato quando la nave spaziale era tornata su Corlos perscoprire che la base di neKrol era in rovina e che gli Angeli stavano già

mietendo il raccolto.E gli Angeli... Quando era andata da loro con i suoi laser ormai inutili

per proporre qualche scambio, la vista delle mura rosso sangue della cittàaveva fatto stare male anche lei. Pensava di essere preparata, ma quellostrazio andava oltre ogni sua previsione. Un plotone di Angeli d'Acciaiol'aveva sorpresa mentre vomitava fuori dalle grandi porte arrugginite e l'a-veva scortata davanti al Censore.

Wyatt era due volte più scheletrico di come se lo ricordava. Stava in

piedi vicino a un enorme altare innalzato al centro della città. Sopra la piat-taforma di legno gettava un'ampia ombra una statua di Bakkalon, incredi-bilmente realistica, inserita in un prisma di cristallo e posta in cima a unplinto di pietra rossa. Sotto l'altare i plotoni degli Angeli accumulavano laneolattuga e il frumento appena mietuti e le carcasse congelate di maialiselvatici.

"Non abbiamo bisogno della tua mercanzia" le aveva detto il Censore."Il pianeta Corlos è più volte benedetto, figlia mia, e Bakkalon ora vive tra

noi. Egli ha operato grandi miracoli e altri ne farà. La nostra fede è in Lui."Aveva indicato l'altare con la mano ossuta. "Vedi? Come tributo bruciamo

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le nostre riserve per l'inverno, poiché il pallido fanciullo ha promesso chequest'anno l'inverno non verrà. Ed Egli ci ha insegnato a distinguerci nellapace come una volta ci distinguevamo nella guerra, affinché il seme dellaTerra cresca sempre più forte. È giunto il tempo di una nuova e grande ri-velazione!" Mentre parlava, il suo sguardo era ardente: grandi occhi fana-tici, scuri ma con strani riflessi dorati.

Ryther lasciò appena possibile la Città degli Angeli d'Acciaio, sforzan-dosi di non voltarsi a guardare le mura. Ma una volta salita sulle colline,sulla via per tornare alla base commerciale, le capitò di passare dall'anellodi pietra, vicino alla piramide distrutta dove l'aveva portata Arik. Lì nonriuscì più a resistere e si dovette voltare a dare un'ultima occhiata alla valledella Spada. Quella vista non si sarebbe mai più cancellata dalla sua men-

te.Fuori delle mura pendevano immobili all'estremità di lunghe corde i figli

degli Angeli, una fila di corpi in tunica bianca. Se n'erano andati tutti inpace, ma la morte è raramente un evento pacifico. I più grandi, quanto me-no, erano morti in fretta, con il collo spezzato dallo strappo improvviso.Invece i bambini più piccoli avevano la corda stretta intorno alla vita, eRyther capì che erano rimasti appesi fino a morire di fame.

Mentre stava lì in piedi, a ricordare, la raggiunse l'uomo dell'equipaggio

che aveva ispezionato la base. «Nient'altro. Solo statue» riferì. Ryhter an-nuì.

«Andare?» chiese Parolamara. «Pianeta di Jamison?»«Sì» rispose Ryther, con gli occhi fissi oltre la  Lights of Jolostar pronta

al decollo, verso la scura foresta primordiale. Il Cuore di Bakkalon eratramontato per sempre. In milioni di boschi e in un'unica città, i clan si e-rano messi a pregare.

"And Seven Times Never Kill Man" copyright © 1975 by the CondeNast Publications, Inc. From "Analog", July 1975.

LA CITTÀ DI PIETRA

Il crocevia dei mondi aveva migliaia di nomi. Sulle carte stellari degliumani era indicato come Greyrest, se mai era indicato, il che succedeva ra-ramente, perché ci vogliono dieci anni di viaggio per raggiungerlo dalle

regioni degli uomini. I Dan'lai lo indicavano, nella loro lingua fatta di la-trati acuti, con un termine che significa "vuoto". Per gli Ul-mennaleith, che

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lo conoscevano da più tempo di tutti, era semplicemente "il mondo dellacittà di pietra". I Kresh avevano un nome per definirlo, così come i Linkel-lar, i Cedran e le altre popolazioni che vi erano sbarcate e ne erano poi ri-partite, e tutti quei nomi erano rimasti. Ma in genere, per gli esseri che vifacevano una breve sosta saltando da una stella all'altra, era semplicementeil "crocevia".

Era un luogo desolato, un mondo di oceani grigi e di pianure sconfinatesulle quali infuriavano venti tempestosi. Al di fuori dell'astroporto e dellacittà di pietra, era un mondo deserto e senza vita. L'astroporto esisteva daalmeno cinquemila anni, secondo il tempo degli umani. Lo avevano co-struito gli Ul-nayileith all'epoca del loro splendore, quando rivendicavanole stelle ullish, e per un centinaio di generazioni quel pianeta era stato loro.

Poi, però, quella civiltà aveva visto il declino, nei loro pianeti erano suben-trati gli Ul-mennaleith e ora degli Ul-nayileith restava memoria solo nelleleggende e nelle preghiere.

Il loro astroporto, invece, resisteva: un'ampia cicatrice sulla pianura, cin-ta da torreggianti pareti antivento che quegli antichi ingegneri avevano in-nalzato a protezione dalle tempeste. All'interno delle alte mura c'era la cittàportuale, fatta di hangar, capannoni e negozi, dove esseri stanchi, sbarcatida centinaia di pianeti diversi, potevano trovare riposo e ristoro. Fuori, a

occidente, il nulla: i venti soffiavano da ovest, si abbattevano contro le mu-ra con una violenza che veniva incanalata e sfruttata per produrre energia.Le mura orientali, invece, facevano ombra a una seconda città, una conur-bazione aperta di cupole di plastica e di baracche metalliche. Là abitavanoi vinti, i reietti, i sofferenti, là si radunavano quelli che non disponevano diun mezzo per ripartire, i "senza imbarco".

Più avanti, sempre verso oriente, c'era la città di pietra.Era già lì quando, cinquemila anni prima, erano arrivati gli Ul-nayileith,

che non avevano mai saputo né da quanto tempo avesse resistito ai ventiné come. I più antichi Ullie, che a quei tempi erano arroganti e curiosi, cosìalmeno si diceva, avevano fatto molte ricerche. Avevano percorso i vicolitortuosi, salito le strette scalinate, si erano arrampicati sulle torri l'una ad-dossata all'altra e sulle piramidi tronche. Avevano perlustrato i corridoi buie senza fine che s'insinuavano sottoterra tortuosi come un labirinto. Ave-vano scoperto quanto fosse immensa quella città, ne avevano visto tutta lapolvere e lo spaventoso silenzio. Ma non avevano mai saputo chi fossero

stati i Costruttori.Alla fine, una strana spossatezza si era impadronita degli Ul-nayileith e,

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con essa era arrivata la paura. Si erano ritirati dalla città di pietra e non a-vevano messo mai più piede nei suoi palazzi. Per migliaia di anni si eranotenuti lontano da quelle pietre, ma intanto prendeva vita il culto dei Co-struttori. Contemporaneamente cominciava il declino della razza antica.

Gli Ul-mennaleith adoravano solo gli Ul-nayileith; i Dan'lai nessuno. Echi può dire che cosa adorano gli umani? Così, ora, le pietre della città rie-cheggiavano di altri rumori e nuovi passi risuonavano per i vicoli tortuosi.

Gli scheletri erano incastonati nelle mura. Erano undici, disposti piutto-sto casualmente sopra le porte, per metà nelle lastre senza saldature di me-tallo ullish e per metà esposti ai venti del pianeta, qualcuno di più, qualcu-no di meno. In cima sbatacchiava alle raffiche lo scheletro di un essere ala-

to senza nome, un mucchio di irreali ossa cave, unite alla parete solo per lezampe e l'attaccatura delle ali. Più in basso, sopra e un po' a destra dellaporta, tutto quello che si poteva vedere di un Linkellar erano le sue costolegialle, simili alle doghe di una botte.

Lo scheletro di Ian MacDonald era mezzo dentro e mezzo fuori. Gli artierano quasi del tutto affondati nel metallo e spuntavano solo le ultime fa-langi delle dita (una mano stringeva ancora il laser) e i piedi, mentre il bu-sto era completamente esposto all'aria. Anche la testa, certo: un teschio

scarnificato e bianco, frantumato, che però rappresentava ancora un asproammonimento. Ogni mattina all'alba quelle orbite vuote fissavano Holt cheattraversava il portale sottostante. A volte, allo strano baluginare dellamezza luce del primo mattino sul pianeta crocevia, sembrava quasi chequegli occhi mancanti lo seguissero lungo la strada verso la porta dellemura.

Per mesi Holt non era stato turbato da quello spettacolo. Le cose eranocambiate subito dopo che avevano preso MacDonald, e il suo cadavere in

putrefazione era comparso improvvisamente sulle mura, in parte saldato almetallo. Holt ne sentiva il puzzo, in quei giorni, e in quella carne che si di-sfaceva erano ancora troppo riconoscibili i tratti di Mac. Ma adesso era so-lo uno scheletro, e per Holt era meno difficile dimenticare.

Il mattino di quell'anniversario, perché era trascorso un anno standardesatto da quando la Pegasus era atterrata, Holt passò sotto lo scheletrosenza quasi alzare gli occhi a guardarlo.

Dentro, come al solito, il corridoio era deserto. Si estendeva con un'am-

pia curva in entrambe le direzioni, bianco, polveroso, completamente vuo-to, scandito a intervalli regolari da piccole porte blu, tutte chiuse.

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Holt svoltò a destra e provò ad aprire la prima, premendo con la manosulla piastra d'accesso. Niente: l'ufficio era chiuso. Provò la successiva,stesso risultato, e poi quella dopo. Procedeva con metodo. Doveva farlo:ogni giorno solo un ufficio era aperto e ogni giorno era uno diverso.

La settima porta si aprì scorrendo al suo tocco.Dietro una scrivania ricurva di metallo sedeva da solo un Dan'la, che

sembrava nel posto sbagliato. La stanza, i mobili, tutto l'arredo erano staticostruiti a misura degli Ul-nayileith, che non c'erano più da tempo, e ilDan'la era decisamente troppo piccolo per quell'ambiente. Ma Holt si eraormai abituato a quella vista: era venuto tutti i giorni per un anno e ognigiorno c'era un Dan'la seduto da solo dietro una scrivania. Non sapeva se sitrattasse dello stesso che cambiava ufficio oppure se ogni giorno ve ne fos-

se uno diverso. Tutti avevano un muso lungo, occhi vivaci e un pelame lu-cido e rossiccio. Gli umani li chiamavano uomini volpe. Salvo rare ecce-zioni, Holt non li distingueva l'uno dall'altro e i Dan'lai, da parte loro, nonlo aiutavano di certo. Si rifiutavano di dire il proprio nome, e certe volte lacreatura alla scrivania lo riconosceva, altre volte no. Holt ci aveva ormairinunciato e si era rassegnato a trattare ognuno come un estraneo.

Quella mattina, però, l'uomo volpe lo riconobbe. «Ah!» fece. «Un im-barco per te?»

«Sì» rispose Holt. Si tolse il logoro berretto, che faceva il paio con laconsunta divisa grigia, e rimase in attesa. Era magro e pallido, con i capellicastani piuttosto radi sulla fronte e un mento volitivo.

L'uomo volpe intrecciò le sei dita delle mani e fece un leggero sorriso.«Niente imbarchi, Holt. Spiacente, niente navi oggi.»

«Ne ho sentita una ieri notte» ribatté Holt. «La si è udita dappertutto sul-la città di pietra. Dammi un foglio d'imbarco. Ho i requisiti per averlo. Co-nosco il pilotaggio standard, posso guidare perfino un jumper dei Dan'lai.

Ho le credenziali.»«Sì, sì» disse l'impiegato scoprendo le zanne in un sorriso. «Ma niente

navi. Settimana prossima, forse, arriva una nave umana. Allora avrai unimbarco, Holt, lo giuro, hai la mia parola. Sei bravo con il jumper, no? Co-sì hai detto. Ti darò l'imbarco. Ma settimana prossima, settimana prossima.Niente navi adesso.»

Holt si morse il labbro e si piegò in avanti, appoggiando le mani sul pia-no della scrivania, sempre tenendo stretto il cappello. «La settimana pros-

sima non ci sarai tu. O, se ci sarai, non mi riconoscerai, non ti ricorderaipiù quello che mi hai promesso. Dammi un posto sulla nave arrivata ieri

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notte.»«No, niente imbarco» ripeté il Dan'la. «Niente navi umane, Holt, niente

imbarchi per umani.»«Non importa, mi va bene una nave qualsiasi. Sono disposto a lavorare

per i Dan'lai, per gli Ullie, per i Cedran, per chiunque. I jump, i salti da unastella all'altra, sono sempre gli stessi. Fammi salire sulla nave che è arriva-ta ieri notte.»

«Ma non c'era nave» replicò l'uomo volpe. Di nuovo scoprì i denti, maper poco. «Ripeto, Holt, niente navi. Torna settimana prossima. Ci vedia-mo fra sette giorni.» Il tono era decisamente di congedo. Holt aveva impa-rato a riconoscerlo. Una volta, mesi prima, era rimasto e aveva cercato dialzare la voce, ma l'impiegato aveva chiamato altri Dan'lai che lo avevano

cacciato fuori. La settimana successiva tutte le porte erano rimaste chiuse.Così adesso Holt sapeva quando era il momento di sloggiare.

Fuori, alla luce fioca, si appoggiò per un momento alle mura antivento,cercando di fermare il tremore alle mani. Doveva tenersi occupato, si ripe-té. Aveva bisogno di soldi, di buoni pasto, doveva concentrarsi su questo.Poteva fare un salto al Capannone, magari raggiungere Sunderland a casa.Per il posto su qualche nave, c'era sempre un altro giorno. Doveva averepazienza.

Dopo avere lanciato una rapida occhiata a MacDonald, che di pazienzanon ne aveva avuta, si inoltrò nelle vie deserte della città dei senza imbar-co.

Anche da piccolo Holt amava le stelle. Se ne andava in giro la notte, ne-gli anni di massimo freddo, quando su Ymir fiorivano le foreste di ghiac-cio. Si allontanava chilometri, facendo scricchiolare la neve sotto i piedi,finché le luci della città sparivano alle sue spalle, e restava solo in quel

mondo magico pieno dei bagliori biancazzurri dei fiordigelo e delle ragna-tele di ghiaccio, tra il rosa dei boccioli di fioramari. Poi guardava in su.

Su Ymir le notti dell'Anno Invernale sono limpide, silenziose e nerissi-me. Non c'è luna, solo le stelle e il silenzio.

Holt aveva imparato con diligenza i nomi, non quelli delle stelle - nes-suno le chiamava più per nome, bastavano i numeri - ma quelli dei pianetidei vari sistemi solari. Era un bambino intelligente, che apprendeva bene ein fretta, tanto che perfino suo padre, un tipo burbero e pratico, era orgo-

glioso di lui. Holt ricordava le interminabili serate alla Vecchia Dimora,quando suo padre, alticcio per la troppa birra estiva bevuta, costringeva gli

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ospiti a uscire sulla terrazza a sentire il figlio che chiamava i pianeti pernome.

"Quello" diceva il vecchio, reggendo un boccale in una mano e indican-do con l'altra. "Là, quello brillante."

"Arachne" rispondeva il ragazzo, impassibile. Gli ospiti sorridevano emormoravano gentilmente qualche complimento.

"E quello lassù?""Baldur.""E quello, l'altro accanto e i tre in fondo?""Finnegan, Johnhenry, Celia, Nuova Roma, Cathaday." I nomi fluivano

leggeri dalle labbra del bambino e il volto abbronzato del padre si incre-spava in un sorriso: insisteva nel gioco finché gli altri non erano annoiati e

stanchi, e Holt aveva elencato i nomi di tutti i pianeti che può citare un ra-gazzo in piedi sulla terrazza della Vecchia Dimora di Ymir. Aveva sempredetestato quel rito.

Era una fortuna che suo padre non fosse mai uscito con lui nella forestadi ghiaccio, perché lontano dalle luci si potevano vedere migliaia di altrestelle e questo implicava conoscere i nomi di altri mille pianeti. Holt non liaveva mai imparati tutti, non quelli degli astri meno visibili e più lontani,non quelli dove non c'erano umani. Ma ne conosceva un numero sufficien-

te. Le pallide stelle dell'interno di Damoosh, verso il centro della galassia,il sole rossastro dei Centauri Silenti, le luci sparse dove le orde dei Fyndiiinnalzavano il loro bastone emblema. Di questi conosceva il nome, e di al-tri ancora.

Aveva continuato ad andare nei boschi anche quando fu più grande, nonda solo, però. Vi portava tutte le sue giovani innamorate, e lì aveva fattoall'amore la prima volta, durante un Anno Estivo, quando dagli alberi goc-ciolavano petali di fiori e non di ghiaccio. Certe volte ne aveva parlato con

una ragazza o un amico, ma era difficile trovare le parole. Holt non erabravo a parlare, e non era mai riuscito a far capire quel che provava. Face-va fatica a capirlo lui stesso.

Quando il padre era morto, gli era subentrato nella Vecchia Dimora enelle altre proprietà, e le aveva gestite per un lungo Anno Invernale, anchese aveva solo venti anni standard. Arrivato il disgelo, aveva abbandonatotutto e se n'era andato a Ymir City. C'era una nave in partenza, un mercan-tile diretto a Finnegan e su altri pianeti. Holt era stato arruolato nell'equi-

paggio.

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Con il passare delle ore le strade diventavano sempre più affollate. IDan'lai erano già in attività e sistemavano i loro banchetti di alimentari frauna baracca e l'altra. Di lì a un'ora tutte le vie ne sarebbero state piene. Sivedeva anche qualche gruppo di quattro o cinque sparuti Ul-mennaleith.Indossavano tutti vesti azzurro polvere che sfioravano terra e pareva chescivolassero magicamente, invece di camminare, misteriosi, dignitosi, si-mili a fantasmi. La pelle di un grigio tenue era coperta di un talco fine, gliocchi erano liquidi e distanti. Sembravano sempre sereni, anche gli sfortu-nati rimasti senza imbarco.

Holt capitò dietro uno di questi gruppi e accelerò per oltrepassarlo. Gliuomini volpe delle bancarelle ignorarono i solenni Ul-mennaleith, ma a-docchiarono tutti Holt e lo chiamarono a gran voce mentre passava davanti

a loro. E sghignazzarono, con quella risata simile a un latrato, quando luipassò via senza degnarli di un'occhiata.

Vicino al quartiere dei Cedrati, Holt si staccò dagli Ullie e imboccò unapiccola traversa che sembrava deserta. Aveva un lavoro da fare e quelloera il posto giusto.

Si addentrò nell'intrico di baracche a cupola giallastre e ne scelse unaquasi a caso. Era vecchia, con la superficie esterna di plastica passata a lu-cido e la porta di legno con incisi simboli di nidi. Ovviamente era chiusa a

chiave. Holt appoggiò una spalla e spinse. Il legno resistette, allora indie-treggiò di alcuni passi, prese una breve rincorsa e diede una forte spallata.Al quarto tentativo cedette fragorosamente. Il rumore non lo preoccupò:negli slum dei Cedran, nessuno stava a sentire.

Dentro era buio pesto. Tastò accanto alla porta e trovò una torcia a fred-do, la strinse finché non ebbe trasformato in luce il calore del suo corpo.Poi, con tutto comodo, si guardò intorno.

C'erano cinque Cedran: tre adulti e due piccoli, tutti avvoltolati a palla

sul pavimento, con i volti nascosti. Holt quasi non li degnò di un'occhiata.Di notte i Cedran erano terrificanti, li aveva incontrati molte volte nellestrade buie della città di pietra, che gemevano in quella loro lingua som-messa e oscillavano in modo sinistro. Il torso segmentato si srotolava pertre metri di carne flaccida e lattea, cui erano attaccati sei arti specializzati,due piedi piatti, un paio di morbidi tentacoli ramificati per afferrare e i te-mibili artigli per aggredire. Gli occhi, pozze grandi come scodelle di unviola brillante, vedevano tutto. Di notte i Cedran erano esseri dai quali te-

nersi alla larga.Di giorno erano palle di carne amorfa.

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Holt li scavalcò e cominciò a svuotare la baracca. Prese una torcia a ma-no, la regolò in modo che emettesse quella luce fioca e violacea che piace-va tanto ai Cedran, poi afferrò una sacca piena di buoni pasto e un osso ar-tigliato. Al posto d'onore su una parete c'erano le unghie lunghe e ingioiel-late di qualche illustre antenato, ma Holt stette bene attento a non sfiorarlenemmeno. Se la divinità di famiglia fosse stata rubata, l'intero nucleo sa-rebbe stato obbligato a rintracciare il colpevole o a suicidarsi.

Alla fine trovò una serie di carte magiche, placchette di legno grigio fu-mo con inserti di ferro e d'oro. Se le ficcò in tasca e uscì. La strada era an-cora deserta. Pochi passavano nel quartiere dei Cedran, se non erano Ce-dran.

Holt si ritrovò in fretta nella via principale, il largo viale inghiaiato che

portava dalle mura antivento dell'astroporto ai cancelli silenziosi della cittàdi pietra, a cinque chilometri di distanza. Ora la strada era affollata e pienadi rumori, e Holt dovette farsi largo tra la calca. C'erano dappertutto uomi-ni volpe che sghignazzavano e latravano, scoprendo o coprendo le file didenti aguzzi, sfioravano con la pelliccia rossastra le vesti azzurre degli Ul-mennaleith, i gusci dei Kresh e la pelle cascante dei Linkellar dai verdi oc-chi a palla sporgenti.

Qualche banchetto di prodotti alimentari esponeva anche pietanze calde

e la via era piena di fumi e di odori. C'erano voluti mesi sul crocevia deimondi prima che Holt riuscisse a distinguere gli aromi dei cibi dall'odoredei corpi.

Si fece strada tra la folla, schivando gli alieni con il suo bottino stretto inmano e guardandosi intorno con circospezione. Era il suo atteggiamentoabituale, ormai insito in lui: cercava in continuazione un volto umano sco-nosciuto, segno che era atterrata una nave umana, che era arrivata la sal-vezza.

Non ne vide nemmeno uno. Come al solito intorno a lui c'era la solitacalca del crocevia dei mondi: i latrati dei Dan'lai, i ticchettii dei Kresh, gliululati dei Linkellar, ma nemmeno una voce umana. Ormai quell'assenzanon lo turbava più.

Trovò il banchetto che cercava. Un Dan'la dall'aria stanca lo squadrò dasotto una tesa di cuoio grigio e lo apostrofò con impazienza: «Sì, sì. Chisei? Che cosa vuoi?».

Holt spostò da una parte i brillanti gioielli multicolori sparsi sul banchet-

to e vi depose la torcia a freddo e l'osso artigliato che aveva preso. «Affa-ri» disse. «Questi in cambio di buoni.»

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L'uomo volpe esaminò gli oggetti, fissò Holt e cominciò a sfregarsi vi-gorosamente il muso. «Affari, affari per te» cantilenò. Prese l'artiglio, se lopassò da una mano all'altra, lo rimise sul banco, toccò la torcia facendoleemettere un filo di luce. Annuì e fece un gran sorriso. «Roba buona. Ce-dran. I grossi vermi la compreranno. Sì, sì. Allora scambiamo. Buoni?»

Holt annuì. Il Dan'la frugò in una tasca del grembiule che aveva addossoe lasciò cadere sul banco una manciata di buoni pasto. Erano dischi di pla-stica brillante di una decina di colori diversi, la cosa più simile al denaroche esisteva sul crocevia dei mondi. I mercanti dan'lai li accettavano incambio di cibo ed erano loro che importavano tutti i prodotti alimentaricon le loro flotte di jumper interstellari.

Holt contò i buoni, li raccolse e li ripose nella sacca che aveva preso

nell'abitazione dei Cedran. «Ho altra roba» disse al mercante, cercando intasca le carte magiche.

La tasca era vuota. Il Dan'la ghignò e batté i denti. «Sparita? Allora nonsei l'unico ladro su Vuoto. Non sei l'unico ladro.»

Gli venne in mente il primo imbarco, ripensò alle stelle della sua giovi-nezza su Ymir, ai mondi che aveva toccato da allora, alle navi sulle qualiera stato ingaggiato e agli uomini (e non uomini) per i quali aveva lavora-to. Soprattutto non poteva dimenticare la sua prima astronave, l'Ombra che

 Ride (un nome antico e carico di storia, una storia che qualcuno gli avevaraccontato solo molto tempo dopo), al largo del pianeta di Celia, in rottaper Finnegan. Era un mercantile convertito per il trasporto di minerali, unagrande goccia grigiazzurra di duralloy butterato, che aveva almeno centoanni più di Holt. Una struttura spartana: grandi stive per il carico e pocospazio per l'equipaggio, dodici amache come cuccette per il personale dibordo, niente griglia di gravità (ma si era abituato in fretta alla caduta libe-ra), reattori nucleari per il decollo e l'atterraggio e un motore standard FTL

(Faster Than Light , più veloce della luce) per i balzi interstellari. Holt erastato destinato alla sala motori, uno spazio disadorno con luci smorzate,superfici metalliche a vista e le console dei computer. Cain narKarmian gliaveva spiegato le sue mansioni.

Holt si ricordava bene anche di narKarmian, un uomo vecchio, vecchis-simo. Troppo vecchio per lavorare a bordo di un'astronave, si sarebbe det-to: aveva la pelle simile a un sottile strato di cuoio giallastro, piegato estropicciato, tanto che non c'era più un punto che non presentasse miriadi

di grinze, occhi castani a mandorla, cranio calvo e pieno di macchie e unabarbetta a punta rada e biondiccia. A volte sembrava decrepito e mental-

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mente confuso, ma in genere era sveglio e vigile: conosceva i motori, co-nosceva le stelle, e non stava mai zitto.

"Duecento anni standard!" aveva detto una volta, mentre entrambi sede-vano davanti alle console. Aveva fatto un timido sorriso, più simile a unasmorfia, e Holt aveva notato che alla sua età aveva ancora tutti i denti (oforse li aveva di nuovo). "Cain ha navigato per tutto questo tempo. È la pu-ra verità, Holt! Sai, un uomo normale non stacca mai i piedi dal pianetadov'è nato. Mai, o almeno nel novantanove per cento dei casi. Non se nevanno mai da lì, nascono, vivono e muoiono sempre sullo stesso pianeta. Equelli che navigano, be', per lo più non girano tanto. Un paio di pianeti,una decina al massimo. Io no! Sai dove sono nato? Indovina!"

Holt aveva alzato le spalle. "Su Vecchia Terra?"

Cain si era fatto una risata. "La Terra? La Terra non è niente, solo tre oquattro anni da qui. Quattro, mi pare, non me lo ricordo. No, no, ma io l'hovista, la Terra, il mondo originario, da cui tutti veniamo. L'ho vista cin-quant'anni fa, sulla Corey Dark , se ben ricordo. Era anche ora: navigavo dacentocinquant'anni standard, e non ero ancora stato sulla Terra. Ma final-mente ci sono arrivato!"

"Ma non sei nato lì" aveva replicato Holt.Il vecchio Cain aveva scosso la testa e riso di nuovo. "No davvero! Io

sono un Emereli, sono di ai-Emerel. Non lo sapevi?"Holt si era messo a riflettere. Non conosceva quel nome, non era uno

degli astri che suo padre gli mostrava puntando l'indice, una delle luci ac-cese nella notte di Ymir. Ma qualcosa gli si era risvegliato nella mente."La Frangia?" Finalmente aveva capito. La Frangia era il margine estremodello spazio umano, quello dove la piccola scheggia della galassia chechiamano "il regno dell'uomo" sfiorava il culmine dello spazio galattico, làdove le stelle si assottigliano. Ymir e le stelle che conosceva erano dalla

parte opposta rispetto a Vecchia Terra, più all'interno dei densi ammassistellari e del nucleo ancora irraggiungibile.

Cain era stato contento che avesse indovinato. "Sì, sono uno della perife-ria. Ho più o meno duecentoventi anni standard e ormai ho visto quasi lostesso numero di mondi, mondi umani, dei Hrangan, dei Fyndii e di ognisorta di esseri, anche mondi del regno dell'uomo in cui gli umani non sonopiù umani, se capisci che cosa voglio dire. Sempre a bordo, sempre. Ognivolta che trovavo un pianeta interessante lasciavo l'imbarco e ci restavo

per un po', poi ripartivo quando mi andava. Ho visto di tutto, Holt.Quand'ero giovane sono stato al Festival della Frangia, sono stato a caccia

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di banscee su High Kavalaan, su Kimdiss ho preso moglie. Poi lei è morta,allora sono ripartito. Ho visto Prometheus e Rhiannon, che sono poco di-stanti dalla Frangia, ho visto i pianeti di Jamison e Avalon, che sono anco-ra più lontani. Sai? Sono rimasto su Jamison per un po', e su Avalon hoavuto tre mogli e due mariti, o co-mariti, non so come li chiami tu. Ero an-cora un pivello di cento anni, forse meno. È stato il periodo in cui eravamoproprietari della nostra nave, facevamo commercio locale, toccando alcunidei vecchi mondi schiavi dei Hrangan, che sono usciti dalle loro orbite do-po la guerra. E sono stato anche su Vecchia Hranga, perfino lì. Si dice chesu Hranga esistano ancora alcune Menti, sepolte chissà dove, pronte a ri-apparire e ad attaccare di nuovo il regno degli uomini. Ma tutto quello cheho visto io è stato un bel po' di caste assassine, operai ed esseri inferiori."

Aveva sorriso. "Anni buoni, Holt, ottimi. Avevamo chiamato la nostra na-ve Il Somaro di Jamison. Le mie mogli e i miei mariti erano tutti di Ava-lon, tranne uno che era di Vecchia Poseidonia, e gli Avaloniani non amanomolto quelli di Jamison, per questo siamo arrivati a battezzarla così. Manon posso dire che sbagliassero. Anch'io ero un Jamie, prima, e devo direche Port Jamison è una città di stupidi presuntuosi su un pianeta che non èda meno.

"Siamo rimasti insieme per quasi trent'anni standard, sulla Somaro di

 Jamison. Hanno lasciato la famiglia un marito e due mogli, oltre a me, allafine. Gli altri volevano mantenere Avalon come base commerciale, ma intrent'anni io avevo ormai visto tutti i pianeti che volevo là in giro e nonconoscevo molto del resto. Così mi sono imbarcato di nuovo. Ma gli vole-vo bene, Holt, li amavo tutti. Un uomo dovrebbe essere sposato con i suoicompagni d'equipaggio. C'è più armonia." Aveva sospirato. "Anche il ses-so funziona meglio, con meno complicazioni."

A quel punto Holt si era incuriosito e aveva chiesto, con un'espressione

che lasciava trasparire solo una punta dell'invidia che provava: "E poi, checosa hai fatto dopo?".

Cain si era stretto nelle spalle, aveva fissato i comandi del computer ecominciato a dare pugni alle borchie luminose per correggere le imposta-zioni del motore. "Oh, ho sempre navigato. Mondi vecchi, mondi nuovi,umani, non umani, alieni. New Refuge e Pachacuti, il vecchio Wellingtonmezzo bruciato, e poi Newholme e Silversky e Vecchia Terra. Adesso mene vado verso l'interno, il più lontano possibile prima di morire. Come

Tomo e Walberg, credo. Erano giunte notizie di Tomo e Walberg, là aYmir?"

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Holt si era limitato ad annuire. Perfino su Ymir avevano sentito parlaredi loro. Anche Tomo era uno della periferia, era nato su Darkdawn, nelbordo superiore della Frangia, e dicevano che fosse un sognatore come glialtri del suo pianeta. Walberg era un umano manipolato di Prometheus, untipo avventuroso e spaccone, secondo la leggenda. Trecento anni prima idue erano partiti da Darkdawn con una nave che si chiamava Sogno di

 Baldracca, facendo rotta verso il margine opposto della galassia. Su quantipianeti fossero stati, che cosa fosse successo su ognuno di questi, fin dovefossero arrivati prima di morire erano tutti i punti interrogativi della lorostoria, e i ragazzini ne discutevano ancora. A Holt piaceva pensare che fos-sero ancora vivi da qualche parte. In fondo Walberg sosteneva di essere unsuperuomo, e nessuno sapeva quanto potesse vivere un superuomo. Forse

abbastanza da raggiungere il centro della galassia o addirittura spingersioltre.

Holt fissava la tastiera, fantasticando. Cain sorridendo aveva detto: "Ehi,patito di stelle!". Holt aveva sollevato la testa e il vecchio, sempre sorri-dendo, aveva continuato: "Sì, proprio tu! Datti da fare, se no non arriveraida nessuna parte!".

Era un rimprovero gentile, e anche il sorriso era benevolo: Holt non l'a-vrebbe più dimenticato, come non avrebbe mai scordato i racconti di Cain

narKarmian. Le amache dove dormivano erano l'una accanto all'altra e o-gni notte lo ascoltava: era difficile farlo stare zitto e Holt non ci provavanemmeno. Quando l'Ombra che Ride aveva raggiunto finalmente Catha-day, la sua ultima destinazione, e si apprestava a prendere la via del ritornoverso il regno degli uomini e il pianeta di Celia, Holt e narKarmian si era-no congedati insieme per imbarcarsi su un postale diretto a Vess e verso isoli alieni dei Damoosh.

Navigavano insieme da sei anni quando narKarmian era morto. Holt ri-

cordava il volto del vecchio molto meglio di quello di suo padre.

Il Capannone era un edificio lungo e stretto di metallo ondulato, duralloyblu che probabilmente qualcuno aveva trovato nelle stive di un mercantilesaccheggiato. Era stato montato a chilometri di distanza dalle pareti anti-vento, in un luogo visibile dalle mura delle città di pietra e dalla grandevolta della Porta d'Occidente. Era circondato da altre costruzioni metalli-che ancora più grandi, gli alloggi magazzini degli Ul-mennaleith senza

imbarco. Ma all'interno non c'erano Ullie.Era quasi mezzogiorno quando Holt arrivò al Capannone, e lo trovò se-

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mideserto. Al centro della sala si ergeva dal pavimento al soffitto una gi-gantesca torcia a freddo che diffondeva una luce smorta e violacea, la-sciando al buio la maggior parte dei tavoli vuoti. Un angolo era pieno diLinkellar che bisbigliavano tra loro; dalla parte opposta dormiva placida-mente un grasso Cedran acciambellato a palla, con la viscida pelle bian-chiccia che luccicava. Accanto al pilastro centrale, al tavolo della vecchiaPegasus, Alaina e Takker-Rey stavano bevendo dell'amberlite, versandolada una caraffa di pietra bianca.

Takker lo notò subito e alzò il bicchiere in segno di saluto. «Guarda, A-laina, abbiamo compagnia. Il ritorno di un'anima smarrita! Come vanno lecose nella città di pietra, Michael?»

Holt si accomodò al tavolo. «Come al solito, Takker, come al solito.» Si

sforzò di sorridere al volto gonfio e pallido di Takker, poi si voltò versoAlaina. Un anno prima, o forse più, avevano manovrato insieme un

 jumper. Ed erano stati amanti per un breve periodo. Ma era una storia fini-ta, ormai.

Alaina era ingrassata e i suoi lunghi capelli castano chiaro erano sporchie opachi. Gli occhi verdi un tempo erano lucenti, ma l'amberlite li avevaresi appannati e vacui. Comunque, gratificò Holt con un ampio sorriso.«Ciao, Michael. Hai trovato la tua nave?»

Takker-Rey si mise a ghignare, ma Holt lo ignorò. «No, ma non cedo.Oggi l'uomo volpe mi ha detto che ce ne sarà una la prossima settimana.Una umana. Mi ha garantito un imbarco.»

A quel punto sghignazzavano tutti e due. «Oh, Michael» fece Alaina.«Come sei sciocco! Lo raccontavano sempre anche a me. Non ci vado piùda un sacco di tempo. Lascia perdere anche tu. Torna da me, vieni nellamia stanza. Mi manchi, Tak è una tale noia.»

Takker aggrottò la fronte, ma non sembrava essersela presa. Era intento

a versarsi un altro bicchiere di amberlite. Il liquore scendeva con una len-tezza esasperante, denso come il miele.

Holt ne ricordava il sapore, fuoco dorato sulla lingua, e quel piacevolesenso di pace che suscitava. Le prime settimane ne avevano bevuto tutti inabbondanza, mentre aspettavano il ritorno del Capitano. Prima che andassetutto a rotoli.

«Prendi un po' di lite» gli propose Takker. «Unisciti a noi.»«No, magari bevo un brandy, Takker, se me lo offri. O una volbirra, ma-

gari una birra estiva, se ce n'è a portata di mano. Ma niente amberlite. Èper questo che me ne sono andato, non ricordi?»

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Alaina si mise di colpo a singhiozzare, con la bocca spalancata e le pal-pebre che battevano. «Te ne sei andato» sussurrò con un filo di voce. «Melo ricordo, sei stato il primo. Te ne sei andato. Prima tu e poi Jeff. Tu perprimo.»

«No, cara» la interruppe Takker pazientemente. Posò la caraffa di am-berlite, bevve un sorso dal bicchiere, sorrise e cominciò a spiegare. «Ilprimo ad andare via è stato il Capitano. Non ricordi? Il Capitano, Villareale Susie Benet sono partiti insieme, e noi abbiamo aspettato e aspettato...»

«Ah, sì» disse Alaina. «E poi ci hanno lasciato Jeff e Michael. La poveraIrai si è ammazzata, e le volpi hanno preso Ian e lo hanno affondato nelmuro. E tutti gli altri sono spariti. Non so dove, Michael, non lo so pro-prio.» D'improvviso scoppiò in lacrime. «Eravamo così uniti, tutti quanti, e

adesso siamo rimasti solo Tak e io. Ci hanno lasciato tutti. Siamo i soli avenire ancora qui, gli unici.» Ormai singhiozzava disperata.

Holt era nauseato. Era ancora peggio dell'ultima volta che era andato atrovarla, il mese precedente. Avrebbe voluto afferrare la caraffa e scara-ventarla per terra. Ma sarebbe stato inutile. Lo aveva già fatto una volta,molto tempo prima, due mesi dopo l'atterraggio, quando quell'attesa eternae senza speranza gli aveva scatenato un'esplosione di rabbia inaudita. A-laina aveva pianto, MacDonald lo aveva insultato e preso a pugni, rom-

pendogli un dente (di notte, ogni tanto, gli faceva ancora male) e Takker-Rey aveva comprato un'altra caraffa. A Takker non mancavano mai i soldi.Non che fosse un ladro, ma era cresciuto su Vess, dove gli umani convive-vano con due razze aliene e, come molti di quel pianeta, andava d'accordocon qualsiasi straniero. Era cortese e disponibile, e gli uomini volpe (al-meno alcuni di loro) lo trovavano simpatico. Quando Alaina si era messacon lui, come amante e come socia in affari, Holt e Jeff Sunderland aveva-no interrotto i rapporti con loro e si erano trasferiti alla periferia della città

di pietra.In quella situazione, però, cercò di consolarla. «Non piangere, Alaina.

Vedi? Sono qui, e ho portato un po' di buoni pasto.» Frugò nella borsa e nesparse una manciata sul tavolo, rossi, azzurri, argento e neri. I gettoni ri-suonarono e rotolarono sul piano del tavolo.

Il pianto di Alaina cessò di colpo. Prese a rovistare sul tavolo tra quei di-schetti e perfino Takker si sporse in avanti per osservarli meglio. «Rossi»esclamò la donna eccitata. «Guarda, Takker, buoni rossi, quelli per la car-

ne! E d'argento, per l'amberlite! Guarda, guarda!» Se ne infilò qualcuno intasca, ma le mani le tremavano e più di uno finì sul pavimento. «Aiutami,

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Tak» fece.Takker sogghignava. «Non ti preoccupare, amore, tanto era uno verde.

Non vogliamo più quella sbobba per vermi, ti pare?» Poi si rivolse a Holt.«Grazie, Michael, grazie davvero. Ho sempre detto ad Alaina che sei unapersona generosa, anche se ci hai lasciato quando avevamo bisogno di te.Tu e Jeff; Ian diceva che eri un vigliacco, sai, ma io ti ho sempre difeso.Grazie, davvero!» Prese un gettone d'argento e lo fece volare in aria con ilpollice. «Generoso Michael. Sei sempre il benvenuto qui.»

Holt taceva. Al suo fianco si era improvvisamente materializzato il bossdel Capannone, un ammasso enorme di carne nero bluastra e muschiosa.Chinò la testa e guardò Holt, se si poteva usare questo termine per quell'es-sere privo di occhi e se si poteva chiamare faccia quella vescica floscia,

mezzo sgonfia e piena di sfiatatoi, circondata di tentacoli bianchicci. Ave-va le stesse dimensioni della testa di un neonato e pareva assurdamentepiccola in cima a quel grosso corpo oleoso fatto di rotoli di grasso striato.Il boss non parlava né ferrano né ullish né quel dan'lai semplificato cheveniva usato come lingua franca nei commerci interstellari, ma sapevasempre quello che volevano i clienti.

Holt voleva solo andarsene. Il boss stava dritto accanto a lui, silenzioso,in attesa, quando lui si alzò e uscì. Attraverso la porta, che si era chiusa

dietro di lui, sentiva ancora Alaina e Takker che litigavano per i buoni.I Damoosh sono una razza saggia e gentile, e grandi filosofi, così alme-

no si diceva su Ymir. La zona più esterna dei loro sistemi solari si con-giunge con quella più interna del regno degli uomini in continua espansio-ne. Proprio su una ex colonia dei Damoosh era morto narKarmian e Holtaveva visto per la prima volta un Linkellar.

All'epoca era in compagnia di Rayma-k-Tel, una tipa dura dal volto ta-gliente, che veniva da Vess: erano andati a farsi un bicchiere in un bar del-

la zona franca, appena fuori dell'astroporto. Il locale aveva ottimi liquoriprovenienti da Vecchia Terra. Holt e Rayma bevevano tranquilli, seduti vi-cino a una finestra di vetro giallo. Cain era morto da tre settimane. QuandoHolt aveva notato il Linkellar che strisciava accanto alla finestra, con gliocchi sporgenti che roteavano, aveva preso l'amica per un braccio e le ave-va detto: "Guarda, uno nuovo. Sai di che razza è?".

Rayma si era liberata il braccio, aveva scosso la testa e risposto irritatadi no. Era una xenofoba arrabbiata, una caratteristica sempre più frequente

su Vess. "Probabilmente è di qualche posto al di là di chissadove. Nonsforzarti nemmeno di comportarti bene con loro, Holt. Ci sono milioni di

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razze, soprattutto in posti così sperduti. Questi maledetti Damos commer-ciano con tutti."

Holt, incuriosito, aveva cercato di dare un'altra occhiata a quel grossoessere dalla pelle verde e cascante, ma era già sparito alla vista. Aveva ri-pensato a Cain ed era stato scosso da una specie di brivido. Il vecchio ave-va navigato nello spazio per oltre duecento anni, eppure non aveva mai vi-sto un alieno di quella razza. L'aveva riferito a Rayma-k-Tel.

Lei non ne era stata affatto impressionata. "E allora? Noi non abbiamomai visto la Frangia o un Hrangan, ma che io sia dannata se so perché do-vremmo avere voglia di vederli." Aveva sorriso alla sua stessa battuta. "Glialieni sono come le caramelle, Mikey. Ce n'è di tutti i colori, ma il conte-nuto è sempre lo stesso. Non diventare un collezionista come il vecchio

narKarmian. Che gliene è venuto, alla fine? Se n'è andato in giro su unmucchio di navi scalcinate, ma non ha mai visto il Braccio Lontano, non èmai arrivato al centro della galassia, dove nessuno arriverà mai. E non si ènemmeno arricchito. Tu pensa a rilassarti e a vivere tranquillo."

Holt non l'ascoltava quasi. Aveva posato il bicchiere e sfiorato il vetrofreddo della finestra con la punta delle dita.

Quella notte, dopo che Rayma era tornata sulla sua nave, Holt era uscitodalla zona franca e aveva vagabondato tra i luoghi natali dei Damoosh.

Aveva pagato una cifra esorbitante per farsi portare nella camera sotterra-nea dove si trovava quello che chiamavano il pozzo di sapienza del piane-ta, un grande computer con luci vivide collegato ai cervelli telepatici deglianziani Damoosh defunti (almeno quella era la spiegazione fornita dallaguida).

La camera era una bolla di vapore verde sulla cui superficie si agitavanoonde e leggere increspature. All'interno si accendevano, lampeggiavano esi spegnevano pannelli di luci. Holt aveva rivolto le sue domande stando

sul bordo superiore: le risposte arrivavano in un'eco sussurrante, come ditante flebili voci. Per cominciare aveva descritto l'essere che aveva vistoquel pomeriggio e aveva chiesto chi fosse: era stato allora che aveva uditoil termine "Linkellar".

"Da dove vengono?" era stata la seconda domanda."Da sei anni di viaggio dal regno degli uomini, con i mezzi di trasporto

che usate voi" gli aveva risposto il bisbiglio dalla nebbia verde. "Verso ilcentro della galassia, ma non proprio nel nucleo. Vuoi le coordinate?"

"No. Perché non ne vediamo più spesso?""Sono lontani, troppo. I sistemi solari dei Damoosh si frappongono tra il

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regno degli uomini e i Dodici Mondi dei Linkellar, e lo stesso vale per lecolonie dei Nor T'alush e un centinaio di pianeti che non dispongono anco-ra di motori interstellari. I Linkellar commerciano con i Damoosh, ma nonarrivano spesso fino a qui, perché siamo più vicini a voi che a loro."

"Già" aveva detto Holt. Era rabbrividito come se un vento freddo avessespazzato la caverna e agitato il mare di nebbia. "Avevo sentito parlare deiNor T'alush, ma non dei Linkellar. Che altro c'è, più in là?"

"Dipende dalla direzione" aveva sussurrato la nebbia, sotto la quale gal-leggiavano vari colori. "Noi conosciamo i mondi morti della razza scom-parsa che i Nor T'alush chiamano i Primi, anche se non sono stati veramen-te i primi; conosciamo i Tratti dei Kresh, la colonia perduta dei Gethsoididi Aath, che da zone così remote avevano raggiunto il regno degli uomini

prima che fosse il regno degli uomini.""Che cosa c'è dopo di loro?""I Kresh parlano di un pianeta che si chiama Cedris e di un'enorme sfera

di soli, più grande del regno degli uomini, dei sistemi solari dei Damoosh edel vecchio impero dei Hrangan messi insieme. All'interno ci sono le stelleullish."

"Bene" aveva detto Holt, con un tremito nella voce. "E ancora al di là? Eintorno? Verso il centro della galassia?"

Nelle profondità della nebbia si era accesa una fiamma che aveva pro-dotto lucenti riflessi rossi nell'alone verde. "I Damoosh non lo sanno. Chinaviga a simili distanze e così a lungo? Esistono solo racconti. Vuoi saperedegli Antichissimi? O degli Dèi Lucenti, i naviganti senza navi? Vuoi sen-tire l'antico canto degli esseri senza mondo? Laggiù sono state avvistatenavi fantasma, veicoli che si spostano più in fretta di un'astronave umana odi un razzo damoosh, che distruggono quello che vogliono, anche se non sitrovano lì. Chi può dire che cosa sono, chi sono, dove sono, se ci sono?

Noi conosciamo nomi, sappiamo storie, possiamo dirti nomi, raccontartistorie. Ma i fatti restano oscuri. Abbiamo sentito parlare di un mondo chesi chiama Huul il Dorato, che commercia con i Gethsoidi perduti, che trat-tano con i Kresh, che commerciano con i Nor T'alush che commercianocon noi, ma nessuna nave dei Damoosh è mai arrivata su Huul il Dorato enon possiamo dirne molto, non sappiamo nemmeno dove si trovi. Abbia-mo saputo degli uomini velati di un mondo senza nome, che si gonfiano esi spostano galleggiando nella loro atmosfera, ma potrebbe essere solo una

leggenda e non sappiamo nemmeno quale. Abbiamo sentito di un popoloche vive nello spazio profondo, che parla con una razza chiamata Dan'la,

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che commercia con i sistemi solari ullish, che commerciano con Cedris ecosì la catena arriva di nuovo fino a noi. Ma noi Damoosh, su questo pia-neta tanto vicino al regno degli uomini, non abbiamo mai visto un Cedran:come possiamo allora essere certi di questa catena di scambi?"

Si era udito un suono simile a un borbottio, la nebbia giù in basso si eraagitata, e alle narici di Holt era arrivato un profumo simile all'incenso.

"Ci andrò" aveva dichiarato Holt. "M'imbarcherò e andrò a vedere.""Allora torna, un giorno, e raccontaci" aveva urlato la nebbia e per la

prima volta Holt aveva udito il triste lamento di una sapienza che non sa-peva abbastanza. "Ritorna, ritorna. C'è tanto da imparare." Il profumo diincenso si era fatto più penetrante.

Quel pomeriggio Holt svaligiò tre case a cupola dei Cedran e fece irru-zione in altre due. La prima era vuota, fredda e polverosa; la seconda eraabitata, ma non da un Cedran. Dopo avere scosso e aperto la porta, era ri-masto impietrito dalla sorpresa nel vedere appeso al soffitto un essere ete-reo e alato dagli occhi ferini, che gli sibilava contro. Non portò via nientené da quella cupola né dalla prima, vuota, ma le altre tre effrazioni gli frut-tarono un discreto bottino.

Verso sera tornò nella città di pietra, risalendo una stretta rampa che por-

tava all'Iride Occidentale, con uno zaino pieno di roba da mangiare sullespalle. Alla luce pallida del tramonto la città appariva senza colori, sbian-cata, morta. Le mura di cinta erano alte quattro metri e larghe il doppio. Sipresentavano come un unico blocco di pietra grigia; l'Iride Occidentale siapriva sul quartiere dei senza imbarco, e più che una porta di accesso erauna breve galleria. Holt l'attraversò in fretta e penetrò nello stretto vicolo azigzag che si apriva tra due grossi edifici (che forse non erano edifici) diventi metri di altezza, dalla forma irregolare, privi di porte e di finestre:

non era possibile accedervi, se non da qualche passaggio nei livelli inferio-ri della città di pietra. Eppure le costruzioni di quel tipo, fatte di blocchicrepati di forma irregolare, erano le più diffuse nella zona più orientaledella città di pietra, che ricopriva una superficie di una dozzina di chilome-tri quadrati. Sunderland ne aveva tracciato una mappa.

I vicoli, lì, formavano un disperante labirinto, nessuno procedeva in li-nea retta per più di dieci metri; osservandoli dall'alto, Holt aveva pensatospesso che assomigliavano a un lampo disegnato da un bambino. Aveva

seguito tante volte quel percorso, però, e aveva mandato a memoria lamappa di Sunderland (almeno per quella sezione limitata della città di pie-

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tra). Si muoveva rapido e sicuro, senza incontrare nessuno.Di tanto in tanto, quando si trovava nei punti in cui diversi vicoli s'incro-

ciavano, gettava una rapida occhiata ad altre costruzioni in lontananza. Lamaggior parte era segnata nella mappa di Sunderland e molte servivanocome punti di riferimento. La città di pietra era composta da un centinaiodi parti distinte e in ognuna di esse l'architettura e perfino il materiale dicostruzione erano diversi. Lungo le mura di nordovest c'era una giungla ditorri di ossidiana addossate l'una all'altra, separate solo da canali asciutti; asud si estendeva un quartiere di piramidi di pietra rosso sangue; a oriente siallargava un enorme spiazzo di granito assolutamente deserto, con al cen-tro un'unica torre a forma di fungo. C'erano tante altre zone, tutte strane,tutte disabitate. Sunderland aveva disegnato ogni giorno la mappa di qual-

che isolato, ma il suo lavoro descriveva solo la punta di un iceberg. La cit-tà di pietra si dipanava su vari livelli, e né Holt né Sunderland, come nes-suno degli altri, era mai penetrato in quelle gallerie nere e prive d'aria.

Era ormai calata l'oscurità quando Holt si fermò in uno dei principalipunti di collegamento, un ampio ottagono con una vasca anch'essa ottago-nale al centro. L'acqua era stagnante e verde, nemmeno un alito di vento neincrespava la superficie, finché Holt non si chinò per lavarsi. Le loro stan-ze, poco distanti, erano senz'acqua, come tutta quella zona della città. Sun-

derland diceva che le piramidi avevano una rete idrica interna, ma vicinoall'Iride Occidentale non c'era acqua, a parte quella della vasca pubblica.

Dopo essersi tolto la polvere dalla faccia e dalle mani, Holt si rimise incammino. Lo zaino gli rimbalzava sulla schiena, i suoi passi riecheggiava-no nel vicolo, rompendo il silenzio. Non si udivano altri rumori, la nottescendeva rapida. Sarebbe stata buia e senza luna, Holt lo sapeva, come tut-te le notti sul crocevia dei mondi. La coltre di nubi persisteva ed era diffi-cile scorgere più di una mezza dozzina di pallide stelle.

Oltre la piazza con la vasca, uno dei grandi edifici era crollato: restavasolo un cumulo di pietre frantumate e di sabbia. Holt l'attraversò con cau-tela per raggiungere una costruzione isolata che contrastava con il resto:un'enorme cupola di pietre dorate, simile a quelle dei Cedran, gonfiata adismisura. Aveva una decina di accessi, raggiungibili da altrettante scalettea chiocciola, e all'interno un alveare di camere.

Era la sua casa da quasi dieci mesi standard.Entrando trovò Sunderland seduto sul pavimento del locale comune, con

le sue mappe sparse tutto intorno. Aveva sistemato i fogli in modo checoincidessero, in una sorta di puzzle; vecchi scarabocchi ingialliti che ave-

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va comprato dai Dan'lai e che aveva corretto erano sistemati tra le foto ae-ree prese dalla Pegasus e i riquadri di argenteo metallo ullish. Il tutto tap-pezzava il pavimento del locale: ogni tassello era ricoperto dalle linee edalle note tracciate con precisione da Sunderland, che sedeva al centro conuna mappa in grembo e un evidenziatore in mano, gli occhi fissi, l'aria ar-ruffata e decisamente grasso.

«Ho preso da mangiare» disse Holt. Lanciò lo zaino che cadde tra le car-te, scompigliandone alcune.

Sunderland strillò: «Ah, le carte! Stai attento!». Batté le palpebre, spinselo zaino da parte e risistemò i fogli con cura.

Holt attraversò la stanza, diretto verso l'amaca che gli faceva da letto, te-sa fra due torce a freddo che fungevano da montanti. Per raggiungerla cal-

pestò le carte fra le proteste di Sunderland, ma le ignorò e si stese sull'a-maca.

«Accidenti a te» borbottò Sunderland, lisciando i fogli stropicciati. «Nonpuoi stare più attento?» Guardò in su e vide che l'amico lo fissava incupito.«Che c'è, Mike?»

«Scusa. Hai scoperto qualcosa oggi?» Il tono rendeva la domanda unavuota formalità.

Sunderland non ci badava mai e rispose eccitato: «Sono arrivato in una

zona del tutto nuova, verso sud. Molto interessante. È stata chiaramenteprogettata in modo unitario. C'è un pilastro centrale, vedi, fatto di una pie-tra tenera e verde, circondato da dieci colonne leggermente più piccole, epoi ci sono questi ponti, be', sono come nastri di pietra, che collegano lacima del pilastro alle colonne. Lo schema si ripete all'infinito. Sotto ab-biamo una sorta di labirinto di pareti di pietra che arriva all'altezza dellavita. Mi ci vorranno settimane per fare tutti i rilievi.»

Holt fissava la parete vicina alla sua testa: sulla pietra dorata era segnato

il conto dei giorni passati. «Un anno, un anno standard, Jeff.»Sunderland lo guardò perplesso, poi si alzò e cominciò a raccogliere le

sue carte. «E a te come è andata oggi?» domandò.«Non ce ne andremo mai di qui» disse Holt, rivolto più a se stesso che

all'amico. «Mai. È finita.»Sunderland lo interruppe. «Piantala, Mike. Se rinunci, lo sai che finirai a

rimbecillirti con l'amberlite come Alaina e Takker. La soluzione è qui, nel-la città di pietra. L'ho sempre saputo. Quando avremo scoperto i suoi se-

greti, potremo rivenderli agli uomini volpe e ce ne andremo da questo po-sto. Appena avrò finito i miei rilievi...»

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Holt si girò su un fianco per fissare Sunderland. «Un anno, Jeff, un an-no. Non li finirai mai, i tuoi rilievi. Puoi disegnare mappe per dieci anni eavrai la carta solo di una parte della città. E le gallerie? E i livelli più bas-si?»

Sunderland si passò nervosamente la lingua sulle labbra. «In basso. Be',se avessi gli apparecchi di bordo della Pegasus...»

«Non ce li hai, e comunque non funzionerebbero. Non funziona nientenella città di pietra. Per questo il Capitano è atterrato. Quaggiù le regolenon funzionano.»

Sunderland scosse la testa e ricominciò a radunare le carte. «La menteumana è in grado di capire qualsiasi cosa. Dammi solo un po' di tempo etroverò la soluzione. Potremmo perfino capire i Dan'lai e gli Ullie, se Susie

Benet fosse ancora qui.» Susie era stata la loro specialista dei contatti, nonun granché come linguista, ma un'esperta scadente è sempre meglio diniente quando hai a che fare con menti aliene.

«Susie Benet non c'è» tagliò corto Holt. La sua voce aveva un tono a-spro. Si mise a contare sulle dita. «Susie è sparita con il Capitano. Carloscome sopra. Irai si è ammazzata. Ian ha cercato di aprirsi con la forza lastrada fuori dalle mura e c'è finito dentro. Det, Lana e Maje sono scesi disotto per cercare il Capitano e sono scomparsi anche loro. Davie Tillman si

è venduto come ospite di un uovo kresh, e ormai è andato anche lui. Alainae Takker-Rey sono due vegetali, inutili, e non sappiamo che ne è stato deiquattro a bordo della Pegasus. Restiamo noi due, Sunderland, tu e io.» Fe-ce una smorfia che voleva essere un sorriso. «Tu fai le mappe, io rubo aivermi e nessuno ci capisce niente. È finita. Moriremo qui, nella città dipietra. Non rivedremo mai più le stelle.»

Tacque di colpo, come aveva cominciato. Era un discorso insolitamentelungo per Holt: in genere era taciturno, impassibile, forse un po' introverso.

Sunderland rimase lì in piedi, stupito, mentre Holt si risistemava disperatosull'amaca.

«Un giorno dopo l'altro» riprese Holt «e nemmeno uno che abbia unsenso. Ti ricordi che cosa diceva Irai?»

«Era mentalmente instabile» obiettò Sunderland. «Lo ha dimostrato al dilà dei nostri peggiori incubi.»

«Lei diceva che ci eravamo spinti troppo lontano» continuò Holt, comese l'amico non avesse parlato. «Che è sbagliato pensare che tutto l'universo

funzioni secondo leggi che possiamo capire. Te lo ricordi? La definiva "lasciocca e arrogante follia umana". Ricordi, Jeff? La sciocca e arrogante

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follia umana.» Rise. «Il crocevia dei mondi era quasi comprensibile. Èquesto che ci ha tratto in inganno. Ma se Irai aveva ragione, dovremmoriuscire a capire. In fondo siamo solo a un passo dal regno degli uomini,no? Più avanti, magari le leggi cambiano ancora di più.»

«Non mi piacciono questi discorsi» lo interruppe Sunderland. «Stai di-ventando un disfattista. Irai era malata. Alla fine, lo sai, andava alle riu-nioni di preghiera degli Ul-mennaleith, si sottometteva agli Ul-nayileith ecose del genere. Una mistica, ecco che cos'era diventata.»

«Aveva torto?»«Certo» rispose Sunderland con sicurezza.Holt lo fissò di nuovo. «Allora dammi tu una spiegazione, Jeff. Dimmi

come uscire di qui. Dimmi che senso ha tutto questo.»

«La città di pietra. Be', quando avrò finito i rilievi...»S'interruppe di colpo. Holt si era messo supino e non lo ascoltava più.Gli ci erano voluti cinque anni e sei imbarchi per attraversare la grande

sfera trapuntata di stelle che i Damoosh rivendicavano come propria e pe-netrare nella fascia di confine al di là di quella. Nel procedere del viaggioaveva consultato altri e più grandi pozzi di sapienza per raccogliere tutte leinformazioni che poteva, ma su ogni nuovo pianeta trovava sempre altrimisteri e nuove sorprese. Nelle navi sulle quali si era imbarcato non sem-

pre l'equipaggio era composto da umani: le astronavi umane percorrevanoraramente quegli spazi remoti, per questo si era messo al servizio di Da-moosh, di Gethsoidi erranti e di altri meno noti meticci. In ogni porto chetoccava, comunque, trovava sempre qualche essere umano e aveva comin-ciato a sentire voci di un secondo impero umano a un mezzo migliaio dianni di distanza, verso il centro della galassia, abitato dai discendenti diuna nave vagante e retto da un pianeta splendente chiamato Prester. Suquel pianeta, gli aveva raccontato un rugoso Vess, c'erano città che galleg-

giavano sulle nuvole. Holt gli aveva creduto, finché un altro dell'equipag-gio non gli aveva detto che Prester era in realtà una città che copriva l'inte-ro pianeta, che sopravviveva grazie ai rifornimenti di una flotta di mercan-tili più grandi di tutte le astronavi che l'Impero Federale avesse varato nelcorso delle guerre prima del Grande Crollo. Gli aveva anche detto che nonerano stati i discendenti di una nave vagante a creare quell'insediamento:glielo aveva dimostrato calcolando quale distanza poteva coprire una navea sub-luce, partendo da Vecchia Terra agli inizi dell'era interstellare. Se-

condo lui il nucleo originario era costituito da un plotone dell'Impero Ter-restre in fuga da una Mente Hrangan. Holt era rimasto scettico davanti a

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quella tesi. Quando aveva sentito una donna sbarcata da un mercantile diCathaday che sosteneva che Prester era stata fondata da Tomo e Walberg,e che Walberg ne era ancora il capo, aveva lasciato perdere la faccenda.

C'erano altre leggende, altre storie che lo attiravano.Come attiravano altri.Aveva conosciuto Alaina su un pianeta senza atmosfera che ruotava in-

torno a un sole biancazzurro, sotto la cupola dell'unica città. Era stata lei aparlargli della Pegasus. 

"Il Capitano l'ha costruita da zero, proprio qui. Faceva il mercante, spin-gendosi sempre più avanti, come tutti noi." Gli aveva fatto un sorriso d'in-tesa, immaginandosi che anche Holt fosse un mercante avventuroso, allaricerca del colpo grosso. "Poi ha conosciuto un Dan'la, uno di quel popolo

che vive ancora più in là.""Lo so" aveva risposto Holt."Be', forse però non sai che cosa succede laggiù. Il Capitano dice che i

Dan'lai hanno conquistato quasi tutte le stelle ullish, ne hai sentito parlare?Bene. Ora, è successo perché gli Ul-mennaleith non hanno resistito molto,suppongo, ma anche grazie ai cannoni jumper dei Dan'lai. È una nuova in-venzione, e il Capitano dice che dimezza, se non di più, i tempi di percor-renza. I motori normali distorcono la struttura del continuum spaziotempo-

rale per produrre effetti FTL e...""Sono un motorista" l'aveva interrotta Holt. Ma si era chinato in avanti e

l'ascoltava attentissimo.Alaina non era parsa affatto impressionata. "Ah, sì?" aveva detto. "Bene,

i jumper dei Dan'lai funzionano in una maniera differente: ti inseriscono inun altro continuum e poi ti riportano in quello originale. È un modo total-mente diverso di procedere. In parte è psionico e si deve mettere questoanello intorno alla testa."

"Voi avete un jumper?" l'aveva interrotta Holt.La donna aveva annuito. "Il Capitano ha fatto fondere la sua vecchia na-

ve per costruire la Pegasus, con un jumper che gli hanno venduto i Dan'lai.Sta arruolando un equipaggio proprio adesso e ci sta addestrando."

"Dove siete diretti?"Lei aveva accennato un sorriso e i suoi occhi verdi avevano brillato.

"Dove? Dentro."

Holt si svegliò all'alba, si alzò senza fare rumore, si vestì in fretta e uscìripercorrendo la strada della sera prima, oltre la vasca verde e l'intrico dei

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vicoli, oltre l'Iride Occidentale, e attraverso la città dei senza imbarco. Su-però il muro con gli scheletri senza alzare lo sguardo.

Dentro le pareti antivento, nel lungo corridoio, cominciò a tastare le por-te. Le prime si scossero ma restarono chiuse. La quinta si spalancò su unufficio vuoto: non c'erano Dan'lai all'interno.

Era una novità. Holt entrò cautamente e si guardò intorno. Nessuno,niente, non c'erano altre porte. Girò intorno all'ampia scrivania ullish ecominciò a rovistare metodicamente, come faceva quando svaligiava lecapanne dei Cedran. Sperava di trovare un lasciapassare, un'arma, qualco-sa, qualsiasi cosa potesse riportarlo sulla Pegasus. Purché fosse sempreormeggiata al di là delle mura. Oppure avrebbe potuto trovare un docu-mento d'imbarco.

La porta scorrevole si riaprì e apparve un Dan'la. Indistinguibile da tutti isuoi simili. Latrò e Holt con un salto si allontanò dalla scrivania.

L'uomo volpe la raggiunse rapido e afferrò la sedia. «Ladro» esclamò.«Ladro. Ti sparerò. Tu sparato. Sì.» Fece battere i denti.

«No» replicò Holt, avvicinandosi all'uscita. Se il Dan'la avesse chiamatorinforzi, si sarebbe messo a correre. «Sono qui per un imbarco» spiegò,con scarsa convinzione.

«Ah!» L'uomo volpe congiunse le mani. «Diverso. Bene. Holt, chi sei

tu?»Holt restò muto.«Un imbarco, un imbarco, Holt vuole un imbarco» cantilenò in tono

stridulo il Dan'la.«Ieri mi hanno detto che in settimana sarebbe arrivata una nave umana.»«No, no, spiacente. Nessuna nave umana. Non ci sarà nessuna nave u-

mana. La settimana prossima, ieri, mai. Capisci? E non abbiamo imbarchi.La nave è piena. Non andrai mai al porto senza foglio d'imbarco.»

Holt si spostò più avanti verso il lato opposto della scrivania. «Nientenavi la settimana prossima?»

L'altro scosse la testa. «Niente navi. Niente navi. Niente navi umane.»«Qualche altra, allora. Ho lavorato su navi degli Ullie, per i Dan'lai, per i

Cedran. Ve l'ho già detto: conosco i motori, conosco i vostri jumper. Ti ri-cordi? Ho le credenziali.»

Il Dan'la inclinò la testa da un lato. «Sì, ma niente imbarchi.» Dove ave-va già visto quel gesto? L'aveva fatto uno che aveva incontrato prima?

Holt fece per uscire.«Aspetta» gli ordinò l'uomo volpe.

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Holt si girò.«Niente navi umane la settimana prossima» ripeté il Dan'la. «Niente na-

vi, niente navi, niente navi» riprese a cantilenare. Poi s'interruppe di colpo.«La nave umana è adesso!»

Holt s'irrigidì. «Adesso? Vuoi dire che c'è una nave umana proprio ades-so nell'astroporto?»

Il Dan'la annuì furiosamente.«Una carta d'imbarco!» Holt era frenetico. «Dammela, maledizione!»«Sì, sì. Un imbarco per te, un imbarco per te.» L'uomo volpe toccò qual-

cosa sulla scrivania, si aprì un cassetto ed egli estrasse una pellicola di me-tallo argenteo e una bacchetta di plastica blu. «Nome?»

«Michael Holt.»

«Oh!» L'uomo volpe posò la bacchetta, prese il foglio metallico, lo ripo-se nel cassetto e tuonò: «Niente imbarco!».

«Niente imbarco?»«Nessuno può averlo due volte.»«Due?»L'uomo volpe annuì. «Holt ha già una carta d'imbarco sulla Pegasus.»«Sulla Pegasus?»Altro cenno di assenso.

«Mi farete passare dalle mura, allora? Posso andare all'astroporto?»Il Dan'la annuì ancora. «Scrivo il pass di Holt.»«Sì» fece Holt. «Sì.»«Nome?»«Michael Holt.»«Razza?»«Umana.»«Pianeta di origine?»

«Ymir.»Ci fu un istante di silenzio. Il Dan'la rimase seduto a fissare Holt, con le

mani giunte. Poi, improvvisamente, riaprì il cassetto, estrasse una perga-mena dall'aspetto vetusto, che frusciava toccandola, e riprese la bacchetta.«Nome?» chiese.

Ripeté tutte le domande; quando ebbe finito di scrivere, consegnò a Holtil foglio, che si sfaldava al tatto. Holt lo prese con cautela. Quegli scara-bocchi non gli dicevano niente. «Le guardie mi faranno passare con que-

sto?» domandò scettico. «Fino al porto? Fino alla Pegasus?»Il Dan'la annuì. Holt si voltò e uscì quasi di corsa.

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«Aspetta!» gridò l'uomo volpe.Holt si sentì raggelare, ma si girò. «Che c'è?» sibilò tra i denti e stava

quasi per esplodere di rabbia.«Un aspetto tecnico.»«Ebbene?»«Il pass, per essere valido, deve essere firmato.» Il Dan'la gli fece il suo

sorriso tutto denti. «Firmato, sì, sì, firmato dal tuo Capitano.»Silenzio. Holt strinse spasmodicamente il pezzo di carta ingiallita e i

frammenti svolazzarono sul pavimento. Poi, rapido, senza dire una parola,gli fu addosso.

Il Dan'la ebbe appena il tempo di emettere un breve latrato prima cheHolt gli afferrasse la gola. Le mani a sei dita si agitarono disperatamente.

Holt strinse e il collo si spezzò. Gli rimase in pugno un ciuffo di peli rossa-stri.

Restò lì in piedi per un tempo indefinito, le mani chiuse, le mascelle ser-rate. Poi lasciò lentamente la presa e il corpo senza vita ricadde all'indietro,contro lo schienale.

Nella mente di Holt passò un'immagine delle mura antivento.Corse via.

La Pegasus era dotata anche di motori standard, in caso di guasto del jumper: nella sala c'era l'odore familiare del metallo a vista e dei calcolato-ri. Ma in mezzo c'era il grosso ingombro del jumper fornito dai Dan'lai: unlungo cilindro di vetro metallizzato grande quanto un uomo, montato su unquadro comandi. Il cilindro era pieno a metà di un liquido vischioso checambiava colore di colpo ogni volta che arrivava un impulso di energia dalserbatoio. Intorno c'erano i sedili dei quattro piloti, due per parte. Da un la-to sedevano Holt e Alaina, dalla parte opposta Irai, alta e bionda, e Ian

MacDonald. Ognuno aveva in testa un anello di vetro pieno dello stesso li-quido che si agitava nel cilindro.

Alle spalle di Holt c'era Carlos Villareal, alla tastiera principale, che sca-ricava dati dal calcolatore di bordo. I vari balzi nel continuum spaziotem-porale erano già stati programmati. Avrebbero visto le stelle ullish: cosìaveva deciso il Capitano. E Cedris e Huul il Dorato e luoghi ancora piùremoti. Forse perfino Prester e il centro della galassia.

La prima tappa era un punto di transito chiamato Greyrest, il grigio o-

spizio (capiva dal nome che ci dovevano essere già stati altri umani: il pia-neta era segnato sulle carte). Il Capitano aveva sentito dire che laggiù c'era

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una città di pietra più vecchia del tempo.Superata l'atmosfera, i reattori nucleari si erano spenti e Villareal aveva

dato l'ordine: "Coordinate inserite, pronti alla navigazione". La voce erasembrata un po' meno sicura del solito: tutta la procedura era nuova."Jump!"

I quattro avevano attivato il jumper.Nel buio colori lampeggianti e migliaia di astri roteanti, e Holt era lì in

mezzo tutto solo. No! C'era Alaina e anche qualcun altro e tutti si erano fu-si e il caos aveva vorticato tutto intorno e grandi ondate grigie si eranoschiantate sulla loro testa e i volti erano parsi circondati di fuoco, risate,dissolvenza, dolore, male male male, erano perduti e non c'era più nientedi solido ed erano trascorsi eoni e nessun Holt aveva visto una cosa che

bruciava, chiamava, spingeva il nucleo, il nucleo, ed ecco fuori di lì Gre-yrest, ma poi non c'era più e chissà come Holt lo aveva riportato indietro eaveva urlato ad Alaina e anche lei lo aveva afferrato, e MacDonald e Irai etutti AVEVANO TIRATO.

Erano di nuovo seduti davanti al jumper: Holt si era accorto di avere undolore al polso, lo aveva osservato e aveva visto che gli avevano infilatoun ago nell'avambraccio. L'avevano anche Alaina e gli altri due. Di Villa-real non c'era traccia.

Si era spalancata la porta ed era apparso il grasso Sunderland che sorri-deva e ammiccava. "Grazie al cielo! Siete rimasti senza coscienza per tremesi. Temevo che non vi sareste più svegliati."

Holt si era tolto l'anello di vetro dalla testa e aveva visto che era rimastasolo qualche goccia del liquido. Poi aveva notato che anche il cilindro del

 jumper era quasi completamente vuoto. "Tre mesi?"Sunderland si era stretto nelle spalle. "È stato terribile. Fuori non c'era

niente, niente, e non riuscivamo a risvegliarvi. Villareal ha dovuto farvi da

infermiere. Se non fosse stato per il Capitano, non so che cosa sarebbesuccesso. So quello che aveva detto l'uomo volpe, ma non era affatto scon-tato che sareste riusciti a tirarci fuori da... chissà dove eravamo."

"Siamo arrivati?" aveva domandato MacDonald.Sunderland aveva girato intorno al jumper, aveva raggiunto la tastiera e

l'aveva collegata al videodisplay della nave. In mezzo a un oceano nero ri-splendeva un piccolo sole giallo. Poi una sfera fredda e grigia aveva riem-pito lo schermo.

"Greyrest" aveva detto. "Ho rilevato le coordinate. Siamo arrivati. Il Ca-pitano ha già inviato un fascio di segnali. Sembra che laggiù comandino i

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Dan'lai, e ci hanno dato il permesso di atterrare. Ho controllato anche itempi: tre mesi soggettivi, tre mesi oggettivi, secondo i nostri calcoli."

"E facendo lo stesso viaggio con un motore standard?" aveva chiestoHolt.

"È andata meglio di quanto ci avevano promesso i Dan'lai" aveva rispo-sto Sunderland. "Greyrest si trova a più di un anno e mezzo rispetto al no-stro punto di partenza."

Era troppo presto: c'erano forti probabilità che i Cedran non fossero an-cora del tutto addormentati, ma Holt doveva correre il rischio. Penetrò co-me al solito nella prima cupola che trovò e la saccheggiò da cima a fondo,fracassando ogni cosa con una furia frenetica. Per fortuna gli abitanti erano

appallottolati e dormivano profondamente.Fuori, sulla via principale, ignorò i mercanti dan'lai, nel timore di ritro-

varsi davanti lo stesso uomo volpe che aveva appena ammazzato. Scelseinvece un banco tenuto da un massiccio Linkellar cieco, con gli occhisporgenti, simili a palle roteanti, pieni di pus. La creatura cercò comunquedi imbrogliarlo, in qualche modo. Scambiò tutto quello che aveva rubatocon un casco ovoidale di un azzurro trasparente e con un laser funzionante.Il laser lo aveva fatto sussultare: era identico a quello che aveva MacDo-

nald, laggiù, sul bordo di Finnegan. Ma funzionava, e questo era ciò checontava.

La folla si accalcava nell'andirivieni giornaliero lungo le strade della cit-tà dei senza imbarco. Con furia Holt si fece largo fra la gente, diretto all'I-ride Occidentale, e riprese un'andatura misurata solo quando ebbe raggiun-to i vicoli deserti della città di pietra.

Sunderland era fuori a fare i suoi rilievi. Holt prese un evidenziatore escrisse sopra una delle carte: AMMAZZATA UNA VOLPE, DEVO NA-

SCONDERMI. VADO SOTTO LA CITTÀ DI PIETRA. LÀ SARÒ ALSICURO.

Poi prese tutte le scorte di cibo rimaste, sufficienti per un paio di setti-mane o forse più, se le avesse razionate. Ficcò tutto in uno zaino che legòcon cura, e uscì. Il laser infilato in tasca, il casco appeso al braccio.

La galleria più vicina era a pochi isolati di distanza: una grande rampa aspirale che scendeva sottoterra al centro di un incrocio. Holt e Sunderlanderano scesi spesso fino al primo livello, dove arrivava ancora un po' di lu-

ce. Anche laggiù era scuro, cupo, soffocante; una rete di gallerie intricatacome i vicoli in superficie si diramava in ogni direzione. Molti cunicoli

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proseguivano verso il basso, e la rampa scendeva ancora con altre dirama-zioni, più buia e silenziosa a ogni svolta. Nessuno era sceso sotto il primolivello: chi ci aveva provato, come il Capitano, non era mai più tornato. Siraccontavano varie storie sull'effettiva profondità della città di pietra, manon c'era modo di verificarle: gli strumenti che avevano scaricato dallaPegasus non avevano mai funzionato sul crocevia.

Alla fine del primo giro di trecentosessanta gradi, il primo livello, Holtsi fermò e mise il casco azzurro. Gli andava stretto, la visiera gli schiaccia-va la base del naso e i lati comprimevano fastidiosamente le tempie. Erachiaramente destinato alla testa di un Ul-mennaleith, ma bisognava adat-tarsi. Aveva quanto meno un'apertura intorno alla bocca che gli permettevadi respirare e di parlare.

Attese che il calore del corpo fosse assorbito dal casco, che in breve co-minciò a emettere una tenue luce azzurra. Proseguì lungo il sentiero achiocciola avvolto nell'oscurità.

La discesa presentava nuove gallerie a ogni curva. Holt continuò acamminare, e ben presto perse il conto del livello cui era sceso. Al di làdell'alone di luce del casco c'erano solo buio, nero come la pece, silenzio eun'aria immobile e calda che rendeva sempre più difficoltoso il respiro. Mala paura lo spingeva ad andare avanti, e non rallentò la marcia. In superfi-

cie la città di pietra era deserta, ma non del tutto: i Dan'lai ci entravano, sedovevano. Solo là sotto sarebbe stato al sicuro. Si ripromise di non usciredalla rampa a chiocciola, per non correre il rischio di perdersi, come dove-va essere successo al Capitano e agli altri. Si erano allontanati, addentran-dosi in qualche galleria laterale ed erano morti di fame, non essendo piùriusciti a trovare una via per risalire. Holt no: di lì a un paio di settimanesarebbe tornato in superficie e si sarebbe fatto dare da mangiare da Sunder-land, forse.

Scese lungo la rampa per ore, superando infinite pareti di pietre grigie einformi, su cui si rifletteva la luce bluastra del casco, oltre un migliaio diaperture che si spalancavano ai lati verso l'alto e verso il basso, pronte ainghiottirlo come enormi bocche nere. L'aria si faceva sempre più roventerendendogli faticoso respirare. Intorno, solo pietre, eppure nei tunnel sem-brava aleggiare un odore greve. Lo ignorò.

Dopo un certo tempo arrivò in un punto dove la rampa a spirale finiva, esi trovò davanti a un trivio: tre aperture ad arco e tre scale strette che scen-

devano ripide in direzioni diverse, così ricurve che non si vedeva più in làdi qualche metro. I piedi ormai gli dolevano: si mise a sedere, tolse gli sti-

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vali, prese una scatola di carne affumicata e cominciò a mangiare.Era circondato dall'oscurità, senza più il rimbombo dei suoi passi, nel

più assoluto silenzio. Se non che... Tese l'orecchio. Sì, si sentiva qualcosa,un suono vago e distante, una specie di brontolio. Masticò la carne, poi sirimise in ascolto con più attenzione e dopo un po' decise che i rumori pro-venivano dalla scala di sinistra. Finito di mangiare, si leccò le dita, infilògli stivali e si alzò. Impugnò il laser e cominciò a scendere piano, cercandodi non fare il mimmo rumore. Anche quella scala era a chiocciola, una spi-rale più stretta di quella della rampa, senza diramazioni e con gradini mol-to piccoli. Faceva fatica a svoltare, ma almeno non c'era pericolo di per-dersi. A mano a mano che scendeva, il suono si faceva più forte e dopo unpo' si rese conto che non si trattava di un brontolio, ma piuttosto di un ulu-

lato. Poco dopo il suono cambiò di nuovo. Era difficile da definire, forsegemiti e latrati.

La scala faceva una curva ancora più stretta: Holt la seguì e si fermò dicolpo. Si trovò davanti a una finestra in una costruzione di pietra grigiadalla forma insolita, che si affacciava sulla città di pietra. Era notte e il cie-lo era trapuntato di stelle. Più in basso, vicino a una vasca ottagonale, seiDan'lai circondavano un Cedran. Ridevano con quei loro rapidi latrati rab-biosi, chiacchieravano tra loro e mordevano il Cedran ogni volta che tenta-

va di muoversi. Più alto di loro, il grosso verme era intrappolato nel cer-chio, confuso e gemente, e ondeggiava di qua e di là. I grandi occhi violabrillavano mentre agitava gli artigli.

Uno dei Dan'lai teneva qualcosa in mano: l'aprì piano, era un lungo col-tello dalla lama seghettata. Ne comparve un secondo e poi un terzo. Tuttigli uomini volpe erano armati. Ridevano tra loro; uno assalì il Cedran dadietro, la lama argentea scintillò e da un taglio nella carne lattea del Ce-dran Holt vide scorrere un liquido nero.

Si sentì un lungo gemito da far gelare il sangue; il verme si girò lenta-mente mentre il Dan'la balzava indietro: gli artigli si mossero più veloci diquanto Holt avrebbe mai immaginato. Il Dan'la con il coltello ancora goc-ciolante fu sollevato in aria e cominciò a scalciare. Abbaiava furiosamente,ma l'artiglio scattò e si richiuse, e l'uomo volpe cadde a terra tagliato indue. Gli altri si avvicinarono agitando i coltelli e ghignando: il lamento delCedran si trasformò in un urlo acutissimo. Sferrò un secondo colpo con gliartigli e un altro Dan'la precipitò senza testa nell'acqua. A quel punto, però,

due gli tagliarono i tentacoli mentre un terzo gli trafiggeva il torace mol-liccio. Tutti i Dan'lai erano in preda a una folle eccitazione: i loro latrati

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frenetici superavano l'urlo del Cedran.Holt sollevò il laser, mirò al Dan'la più vicino e premette. Uscì un fascio

rabbioso di luce rossa.Di colpo calò una tenda, impedendo la vista. Holt allungò un braccio per

scostarla. Dietro c'erano un locale con il soffitto basso e una decina di gal-lerie che portavano in ogni direzione. Spariti i Dan'lai, sparito il Cedran. Sitrovava molto al di sotto della città, l'unica luce era quella azzurrata delsuo casco.

Lentamente, in silenzio, Holt raggiunse il centro del locale. Notò chemetà delle gallerie era murata, le altre si aprivano come buchi neri. Da unaarrivava un alito d'aria fresca. La percorse per un lungo tratto al buio: allafine sbucò in una lunga sala piena di una caligine di un rosso brillante,

formata da quelle che sembravano minuscole gocce di fiamma. Quell'am-biente si estendeva a destra e a sinistra a perdita d'occhio, con un soffittoalto, rettilineo; la galleria che l'aveva portato fino a lì era solo una delletante che si aprivano ai lati, di forma e dimensioni diverse, ma tutte nerecome la morte.

Holt fece un passo dentro quella nebbia rossastra, poi si girò e con il la-ser fece un segno sul pavimento di pietra della galleria alle sue spalle. Pro-seguì lungo la sala superando una serie infinita di tunnel. La nebbia era

densa, ma era possibile attraversarla con lo sguardo e Holt vide che tuttoquell'immenso locale era vuoto, almeno fin dove poteva vedere. Non riu-sciva però a individuarne le due estremità e i suoi passi non facevano alcunrumore.

Camminò a lungo, quasi in trance, ormai dimentico della paura. Poi, dicolpo, molto più avanti, spuntò una luce bianca. Holt si mise a correre, mala luce era scomparsa prima che avesse percorso metà della distanza versola galleria. Qualcosa però lo spingeva a continuare.

L'imboccatura della galleria, quando Holt l'ebbe varcata, era un arco al-to, pieno solo di buio. Dopo pochi metri c'era una porta: Holt si fermò.

L'arco si apriva su un alto cumulo di neve e su un bosco di alberi grigioferro, uniti fra loro da fragili ragnatele di ghiaccio, talmente sottili che ba-stava un respiro per scioglierle o spezzarle. Gli alberi non avevano foglie,ma da aperture sotto ogni ramo facevano capolino fiori di un azzurro in-tenso. Nella gelida oscurità brillavano le stelle. Holt vide ergersi, all'oriz-zonte lontano, la staccionata di legno e i parapetti di pietra, la struttura

sconnessa e contorta della Vecchia Dimora.Restò immobile a lungo, a osservare e ricordare. Cominciò a soffiare un

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vento pungente e una folata di neve attraversò l'arco, facendolo rabbrividi-re. Holt si voltò per tornare nella sala della caligine rossa. All'uscita dallagalleria c'era ad aspettarlo Sunderland, per metà avvolto da quella nebbiache assorbiva i rumori. «Mike!» gli disse in un tono di voce normale, maalle orecchie di Holt arrivò solo un sussurro. «Devi tornare indietro. Ho bi-sogno di te. Non posso fare le mie prospezioni se non procuri il cibo a me,Alaina e Takker... Devi tornare!»

Holt scosse la testa. La nebbia si addensava e formava spirali, la figuramassiccia di Sunderland ne fu ricoperta e resa sfocata: alla fine Holt riuscìappena a distinguerne il profilo. Poi la nebbia si diradò e Sunderland nonera più lì: al suo posto c'era il boss del Capannone. La creatura stava eretta,in silenzio, i bianchi tentacoli si agitavano in cima alla vescica sul torso, e

aspettava. Anche Holt aspettava.Dall'altra parte della sala una luce improvvisa si accese all'interno di una

galleria. Le due attigue cominciarono a illuminarsi, poi le due più in là.Holt guardò a destra e a sinistra. Su entrambi i lati della sala partivano dalui onde silenziose, e a poco a poco tutti i portali si accesero: qua uno rossocupo, là un alone biancazzurro, qui un amichevole giallo sole.

Il boss si girò faticosamente e cominciò ad arrancare lungo la sala. I ro-toli di grasso nero bluastro rimbalzavano e sussultavano mentre avanzava,

ma la caligine attenuava l'odore muscoso. Holt lo seguì, sempre stringendoin mano il laser.

Il soffitto era più alto e Holt notò che anche le porte di accesso erano piùgrandi. Da una galleria spuntò un essere screziato simile al boss, che attra-versò la sala ed entrò in un'altra galleria.

Si fermarono davanti a un'imboccatura rotonda e nera, alta il doppio diHolt. Il boss aspettava; Holt, con il laser spianato, entrò. Si trovò davanti aun'altra finestra o forse a un videodisplay; dalla parte opposta del buco ro-

tondo di cristallo c'era un caos di urla e convulsioni. Rimase per un po' afissarlo, e proprio quando cominciava a fargli male la testa quel movimen-to frenetico si solidificò, se si poteva definire solida quella vista. Al di làdel buco c'erano quattro Dan'lai seduti, con anelli jumper intorno alla fron-te e un cilindro davanti a loro. Se non che... se non che... l'immagine erasfocata. Spettri, c'erano spettri, altre immagini che quasi si sovrapponeva-no alle prime, ma non del tutto, non completamente. Poi Holt vide una ter-za immagine, e una quarta, e improvvisamente quello che vedeva si spezzò

come se l'osservasse attraverso una serie infinita di specchi. Lunghe file diDan'lai sedevano l'una sopra l'altra, confondendosi l'una con l'altra, rim-

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picciolendo sempre di più fino ad annullarsi. All'unisono... no, quasi all'u-nisono (perché qui un'immagine non si muoveva insieme al suo riflesso e lìun'altra annaspava), si tolsero gli anelli jumper vuoti, si guardarono e co-minciarono a ridere. Un riso folle, quel latrato acuto: ridevano, ridevano eHolt ebbe l'impressione che nei loro occhi ardesse la follia. Tutti (o, me-glio, quasi tutti) inarcavano le spalle esili e sembravano più feroci e anima-leschi che mai.

Se ne andò. Nella sala il boss lo aspettava paziente. Holt lo seguì ancora.Adesso c'erano altri esseri nella sala: Holt vide che si muovevano da una

parte e dall'altra nella caligine rossastra. Sembrava che per lo più fosserocreature simili al boss, ma non erano le sole. Holt notò un unico Dan'la,smarrito e spaventato, che continuava a sbattere contro le pareti. C'erano

esseri un po' angeli e un po' aquiloni che volteggiavano silenziosi nell'aria,c'era qualcosa di lungo e sottile circondato da veli di luce lampeggiante,c'erano presenze che egli, più che vedere, intuiva. Notò creature dalla pellelucente e dagli splendidi colori, con alti collari di ossa e carne, e animalisottili e sensuali che balzellavano alle loro caviglie e avanzavano con fluidimovimenti su quattro zampe. Avevano una pelle morbida e grigia, occhiliquidi e strane facce da esseri pensanti.

Poi gli parve di vedere un uomo dalla carnagione scura e molto dignito-

so, con divisa e berretto da navigatore. Holt s'irrigidì e si mosse versoquell'apparizione, ma la nebbia lucente lo offuscò e lo perse di vista. Siguardò intorno: era sparito anche il boss del Capannone.

Cercò nella galleria più vicina: era un arco, come il primo. Al di là c'erauna terrazza che si affacciava su un territorio aspro e arido, uno spiazzopavimentato di mattoni attraversato da una grossa crepa. In mezzo a quelladesolazione sorgeva una città con le mura di gesso bianco e edifici squa-drati. Era una città morta, ma Holt la conosceva, in qualche modo: Cain gli

aveva raccontato spesso di come i Hrangan costruivano le città nei territoridevastati dalle guerre tra Vecchia Terra e la Frangia.

Con un po' di esitazione Holt tese una mano oltre l'arco, poi la ritirò ra-pidamente. Al di là c'era un forno; non era un panorama, come del restoquello di Ymir.

Ritornò nella sala e si fermò, cercando di ragionare. La sala si estendevaall'infinito nelle due direzioni; esseri che non aveva mai visto si incrocia-vano nella nebbia, in un silenzio mortale, senza quasi notare la presenza

degli altri. Il Capitano era laggiù, ne era certo, e c'erano Villareal, SusieBenet e forse anche gli altri... o forse erano stati laggiù e adesso si trova-

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vano altrove. Forse tutti avevano visto i mondi da cui provenivano chia-marli da un arco di pietra, forse avevano provato a raggiungerli e non era-no più tornati. Una volta superati gli archi, si chiese Holt, come si faceva atornare indietro?

Ricomparve il Dan'la, che ormai si trascinava, e Holt notò quanto fossevecchio. Da come avanzava si capiva che era completamente cieco, eppu-re... gli occhi sembravano sani. Poi Holt cominciò a osservare gli altri e sidecise a seguirli. Molti uscivano attraverso gli archi e raggiungevano dav-vero i paesaggi che si presentavano alla vista. I paesaggi... vide i mondi ul-lish in tutto il loro stanco splendore, con gli Ul-mennaleith che si raduna-vano a celebrare i loro culti... vide la notte senza stelle di Darkdawn, almargine superiore della Frangia, con sotto i sognatori del pianeta che va-

gavano... e Huul il Dorato (esisteva, dopotutto, anche se non era all'altezzadelle aspettative)... e le navi fantasma dal centro della galassia, e gli esseriurlanti dei pianeti neri del Braccio Lontano, e le antiche razze che avevanorinchiuso i propri mondi entro sfere, e migliaia di mondi mai nemmenosognati.

Smise di seguire i viaggiatori silenziosi e cominciò a vagabondare da so-lo: scoprì che le vedute oltre gli archi cambiavano. Fermo davanti a unaporta rettangolare che si apriva sulle pianure di ai-Emerel, pensò per un

momento al vecchio Cain, che aveva navigato tanto ma non abbastanza.Davanti a lui si ergevano le torri degli Emereli e volle vederle più da vici-no: di colpo nell'apertura della porta se ne stagliò una. Ritrovò al suo fian-co il boss, che improvvisamente si era materializzato, più rapido di comefaceva al Capannone, e Holt fissò quel volto senza lineamenti. Poi posò illaser, tolse il casco (che non emanava più luce, stranamente, come avevafatto a non accorgersene?) e uscì.

Era su una terrazza; un vento gelido gli sferzava il volto, alle sue spalle

c'era una parete nera di metallo emereli e davanti un tramonto dai riflessiarancioni. All'orizzonte si stagliavano altre torri e Holt sapeva che ognunaera una città con un milione di abitanti, ma da lì sembravano solo lunghiaghi scuri.

Un mondo. Il mondo di Cain. Eppure doveva essere molto cambiato daquando narKarmian l'aveva visto l'ultima volta, duecento anni prima. Sichiese quanto. Non importava, l'avrebbe scoperto presto.

Si voltò per rientrare e si ripromise di ritornare presto in superficie, a

prendere Sunderland, Alaina e Takker-Rey. Per loro, forse, laggiù tutto sa-rebbe stato buio e terrore, ma Holt adesso poteva guidarli fino a casa. Sì,

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l'avrebbe fatto. Ma non subito. Prima voleva vedere ai-Emerel, VecchiaTerra e gli uomini manipolati di Prometheus. Sì, poi sarebbe tornato. Piùtardi, un po' più tardi.

Il tempo scorre lentamente nella città di pietra, soprattutto sottoterra, do-ve i Costruttori avevano intrecciato le reti dello spazio-tempo. Ma scorre,comunque, inesorabile. I grandi edifici grigi, ormai, sono tutti in rovina, letorri a fungo sono crollate, le piramidi ridotte in polvere. Delle mura anti-vento erette dagli ullish non rimane traccia, da millenni non atterrano piùnavi. Gli Ul-mennaleith rimasti sono pochi; stranamente diffidenti, giranocon animali corazzati alle caviglie; i Dan'lai si sono dispersi, travolti dauna violenta anarchia dopo un millennio di balzi tra le stelle; i Kresh sono

scomparsi; i Linkellar sono ridotti in schiavitù; le navi fantasma sono an-cora silenziose. Fuori di lì, i Damoosh sono una razza in estinzione, anchese i pozzi di sapienza esistono ancora e riflettono, in attesa di domande chenessuno fa più. Nuove razze attraversano mondi stanchi; quelle antiche a-vanzano e cambiano. Nessun uomo è mai arrivato al centro della galassia.

Il sole del crocevia dei mondi si oscura.Nelle gallerie deserte sotto le rovine, Holt vaga ancora da una stella

all'altra.

"The Stone City" copyright © 1977 by George R.R. Martin. From "NewVoice in Science Fiction" (Macmillan, 1977).

FIORAMARI

Quando alla fine lui morì, Shawn si accorse con vergogna che non sa-rebbe nemmeno riuscita a seppellirlo.

Non aveva attrezzi per scavare, solo le mani, il coltello a lama lunga as-sicurato alla coscia e quello piccolo infilato nello stivale. Comunque nonsarebbero serviti. Sotto la rada coltre di neve, il terreno gelato era durocome pietra. Lei aveva sedici anni (secondo il conto del tempo dei suoi ge-nitori) e per metà della sua vita il terreno era rimasto ghiacciato. Era Pie-ninverno e il gelo copriva il mondo.

Pur sapendo che era inutile prima ancora di cominciare, provò comun-que a scavare. Scelse un punto a pochi metri dalla rozza tettoia che aveva

costruito come riparo per loro due, ruppe la sottile crosta di neve e la spaz-zò via con le mani, poi iniziò a colpire il terreno gelato con il coltello più

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piccolo. La terra, però, era più dura dell'acciaio. La lama si spezzò e la ra-gazza rimase a fissarla disperata: sapeva quanto fosse prezioso quel coltel-lo e sapeva anche che cosa le avrebbe detto Creg. Allora cominciò a graf-fiare quel suolo insensibile, piangendo, finché le dita le fecero male e le la-crime si gelarono sotto la maschera. Non era giusto lasciarlo senza sepoltu-ra: le aveva fatto da padre, da fratello, da amante, era sempre stato buonocon lei, e lei lo aveva sempre tradito. E adesso non poteva nemmeno dargliuna tomba.

Alla fine, non sapendo che altro fare, lo baciò per l'ultima volta. Ilghiaccio gli ricopriva la barba e i capelli, e il viso era innaturalmente con-torto per il dolore e il freddo, ma era comunque la sua famiglia. Fece cade-re la tettoia sul suo corpo, nascondendolo sotto una rozza bara di rami e di

neve. Era inutile, ne era convinta: i vampiri e i lupi del vento se ne sareb-bero sbarazzati facilmente e avrebbero azzannato le sue carni. Ma non po-teva abbandonarlo così, senza una protezione.

Gli mise ai fianchi gli sci e il grosso arco di legnargento con la cordaspezzata dal gelo, ma tenne con sé la spada e il pesante mantello di pellic-cia: non erano un peso eccessivo da aggiungere al suo zaino. Lo aveva as-sistito per quasi una settimana, dopo che il vampiro lo aveva ferito, e intutti quei giorni senza lasciare mai il riparo le scorte si erano quasi comple-

tamente esaurite. Adesso contava di viaggiare leggera e veloce. Si infilò glisci accanto alla rozza tomba che aveva fatto per lui, gli diede l'estremo ad-dio e puntò le racchette. Si lanciò sulla neve nel tremendo silenzio del bo-sco, in Pieninverno, verso casa, verso il focolare e la famiglia.

Era appena passato mezzogiorno. Al calar della sera si rese conto chenon ce l'avrebbe mai fatta.

Era più calma ora, più razionale. Si era lasciata alle spalle, insieme alcorpo di lui, il dolore e la vergogna, come le era stato insegnato. Intorno,

tutto era silenzio e gelo, ma quelle ore sugli sci l'avevano lasciata accalda-ta, quasi sudata sotto gli strati di cuoio e di pelliccia. I pensieri nella suamente avevano la limpida chiarezza dei ghiaccioli che pendevano dai ramispogli e contorti degli alberi che la circondavano.

Mentre la notte stendeva il suo manto scuro sul mondo, lei cercò riparodal lato sottovento del più grande di quegli alberi, un enorme tronco di tremetri di diametro con la corteccia nera. Distese il mantello di pelliccia sul-la terra nuda e si rimboccò la cappa di maglia come coperta per difendersi

dal vento che si stava alzando. Appoggiò la schiena al tronco e, con il col-tello sotto la cappa, caso mai ne avesse avuto bisogno, dormì un sonno

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breve e vigile, svegliandosi in piena notte per riflettere sui propri errori.Il cielo era pieno di stelle: le intravedeva attraverso i rami neri e spogli

sopra di lei. Tra gli astri dominava il Carro di Ghiaccio, che portava ilfreddo nel mondo, come aveva sempre fatto da quanto Shawn aveva me-moria. Gli occhi azzurri del cocchiere la fissavano dall'alto, irridenti.

Era stato il Carro di Ghiaccio che aveva ucciso Lane, pensò amareggiata.Non il vampiro. Il vampiro lo aveva ridotto male quella notte, quando lacorda dell'arco si era spezzata mentre cercava di difendersi con le frecce.Ma in un'altra stagione, grazie alle cure di Shawn, sarebbe sopravvissuto:il Pieninverno non gli aveva lasciato scampo. Il freddo si era insinuato intutte le difese che la ragazza gli aveva fornito; aveva prosciugato Lane ditutta la sua forza, di tutta la sua fierezza; l'aveva ridotto a un ammasso

bianco e rattrappito, torpido e pallido, con le labbra bluastre. Infine il coc-chiere del Carro di Ghiaccio ne aveva reclamato l'anima.

E si sarebbe preso anche la sua, ne era certa. Avrebbe dovuto abbando-nare Lane al proprio destino. Creg l'avrebbe fatto e anche Leila... tutti. Nonc'era mai stata speranza che sopravvivesse, non in Pieninverno. Nessunosopravviveva. Gli alberi erano stentati e spogli in quella stagione, l'erba ele foglie morivano, gli animali si congelavano o si rintanavano sottoterra adormire. Perfino i lupi del vento e i vampiri smagrivano e diventavano più

aggressivi, e molti morivano di fame prima del disgelo.Avrebbe fatto quella fine anche lei.Erano ormai in ritardo di tre giorni e avevano già razionato i viveri

quando il vampiro li aveva attaccati. Dopo Lane si era indebolito molto: alquarto giorno le sue razioni erano finite e Shawn, senza dirglielo, avevacominciato a dargli parte del proprio cibo. Gliene restava pochissimo or-mai, e Carinhall, la salvezza, distava ancora quasi due settimane a tappeforzate. In Pieninverno equivalevano a due anni.

Raggomitolata sotto la cappa, pensò per un attimo di accendere un fuo-co. Ma il fuoco avrebbe attirato i vampiri: avvertivano il calore a tre chi-lometri di distanza. Si sarebbero avvicinati furtivamente, silenziosi, tra glialberi, ombre scarne e scure, più alte di Lane, con la pelle flaccida che ri-cadeva sugli arti scheletrici come un mantello scuro, nascondendo gli arti-gli. Forse, se fosse rimasta sdraiata ad aspettare, avrebbe potuto coglierneuno di sorpresa. Un vampiro adulto sarebbe bastato a nutrirla fino all'arrivoa Carinhall. Si dilettò con quell'idea nel buio e l'abbandonò con una certa

riluttanza. I vampiri corrono sulla neve alla velocità di una freccia e quasisenza toccare il terreno: di notte era praticamente impossibile vederli. Lo-

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ro, invece, l'avrebbero vista benissimo, sentendo il calore del suo corpo.Un fuoco acceso le avrebbe garantito solo una morte rapida e relativamen-te poco dolorosa.

Rabbrividì e strinse ancora di più il manico del coltello, per rassicurarsi.D'un tratto le sembrò che dietro ogni ombra si nascondesse un vampiro enel sibilo del vento le parve di riconoscere il sordo sbatacchiare della pelleflaccida di una di quelle bestie in corsa.

Poi le arrivò alle orecchie un altro suono, più forte e molto reale, un sibi-lo furioso e acuto che Shawn non aveva mai sentito. E d'improvviso l'oriz-zonte fu soffuso di luce, un guizzo di spettrali radiazioni blu che disegnò ilprofilo degli spogli scheletri della foresta e lampeggiò vistosamente nelcielo. Shawn fece un profondo respiro, una boccata di ghiaccio giù per la

gola, e balzò faticosamente in piedi, temendo un improvviso attacco. Manon c'era niente. Intorno tutto era freddo, nero, morto; solo quella luce eraviva e baluginava in lontananza, quasi le inviasse un segnale. Rimase variminuti a guardarla, ripensando al vecchio Jon e alle storie spaventose cheraccontava ai bambini riuniti intorno al grande cuore di Carinhall. "Ci sonocose peggiori dei vampiri" diceva. Ricordandolo, Shawn si sentì ritornarebambina, accoccolata sulla spessa pelliccia, con la schiena rivolta al fuoco,ad ascoltare Jon che raccontava storie di spettri e di ombre viventi, di fa-

miglie cannibali che abitavano in grandi castelli fatti di ossa.Improvvisamente com'era apparsa, la strana luce sbiadì e si spense, e

con essa cessò anche il sibilo acuto. Shawn, però, aveva memorizzato ilpunto dove era apparsa. Raccolse lo zaino, si avvolse nel mantello di Laneper sentire meno freddo e cominciò a infilarsi gli sci. Non era più unabambina ormai, si disse, e quella non era la luce di una danza di fantasmi.Qualsiasi cosa fosse, per lei poteva rappresentare l'ultima possibilità disalvezza. Afferrò le racchette e si mosse in quella direzione.

Viaggiare di notte era quanto mai pericoloso, lo sapeva bene. Creg glieloaveva ripetuto centinaia di volte, e anche Lane. Al buio, sotto la tenue lucedelle stelle, era facile sbagliare strada, rompere uno sci, fratturarsi unagamba o peggio. Inoltre il movimento generava calore, e il calore attirava ivampiri dal profondo del bosco. Sarebbe dovuta restare sdraiata fino all'al-ba, quando i predatori notturni si ritirano nelle loro tane. Tutta la sua espe-rienza, tutto quello che aveva imparato, tutto il suo istinto glielo ripeteva-no. Ma era Pieninverno e a stare fermi il freddo mordeva anche attraverso

la pelliccia più calda. Lane era morto, lei aveva fame e quella luce erasembrata vicinissima, tanto vicina da far male. Così la seguì, avanzando

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lentamente, con prudenza, e fu come se quella notte lei fosse protetta da unincantesimo. Il terreno era piatto, benevolo con lei, quasi gentile, il mantonevoso abbastanza uniforme di modo che una radice o un sasso non potes-sero prenderla di sorpresa e farla cadere. Dal buio della notte non sbucaro-no neri predatori e l'unico suono che si sentiva era quello che faceva leimuovendosi, il leggero scricchiolio della neve ghiacciata sotto gli sci.

A mano a mano che procedeva, il bosco diventava sempre più rado edopo un'ora ne era uscita, e si era trovata in una landa desolata, piena diblocchi di pietra sparsi a terra e di rottami di ferro arrugginiti e contorti.Sapeva che cosa erano: aveva già visto altre volte i ruderi di palazzi e casedove erano vissute e morte tante famiglie, e che poi erano crollati. Ma nonaveva mai visto rovine così grandi. La famiglia che aveva abitato in quel

luogo, chissà quanto tempo prima, doveva essere stata molto numerosa: iresti delle case si estendevano su una superficie pari a cento volte quella diCarinhall. Si fece strada con attenzione tra le macerie dei muri ricoperte dineve. Arrivò due volte alla base di costruzioni che parevano quasi integre etutt'e due le volte prese in considerazione l'idea di cercare riparo tra quelleantiche mura di pietra, ma al loro interno non c'era niente che avrebbe po-tuto emettere quella luce, così, dopo una breve ispezione, proseguì. Il cor-so d'acqua che incontrò di lì a poco la bloccò per un certo tempo. Dall'alto

argine dove si era fermata riuscì a scorgere i resti di due ponti che una vol-ta univano le rive opposte dello stretto canale, ma erano crollati entrambida chissà quanto tempo. Il fiume, però, era ghiacciato, per cui non avrebbeavuto problemi ad attraversarlo. In Pieninverno la lastra di ghiaccio eraspessa e compatta, e non c'era pericolo che si spezzasse facendola caderein acqua.

Mentre risaliva a fatica sull'argine opposto, vide il fiore.Era molto piccolo, con un grosso gambo nero che spuntava tra due sassi

vicino alla riva del fiume. Nel buio della notte non sarebbe mai riuscita avederlo, ma una delle racchette aveva spostato uno dei sassi coperti dighiaccio mentre saliva arrancando, e il rumore le aveva fatto volgere losguardo proprio in quel punto.

Sorpresa, afferrò entrambe le racchette con una mano e con l'altra frugòtra le pieghe degli abiti cercando un fiammifero. Si arrischiò ad accender-lo, la fiammella durò poco ma fu sufficiente. Shawn lo vide.

Un fiore, piccolo, minuscolo, con quattro petali azzurri, la stessa tonalità

con sfumature più chiare delle labbra di Lane poco prima che morisse. Unfiore lì, vivo, sbocciato nell'ottavo anno di Pieninverno, quando tutto nel

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mondo era morto.Shawn pensò che non le avrebbero mai creduto, a meno che non avesse

portato con sé la prova fino a Carinhall. Tolse gli sci e cercò di cogliere ilfiore. Fu un tentativo vano, come lo era stato quello di seppellire Lane. Ilgambo era resistente come filo di ferro. Fece forza per vari minuti, poi,quando si rese conto di non riuscirci, cercò di ricacciare indietro le lacri-me. Creg le avrebbe dato della bugiarda, della visionaria, l'avrebbe presa amale parole come faceva sempre.

Alla fine, però, riuscì a non piangere. Lasciò il fiore dov'era e si arram-picò fino alla cima dell'argine. Arrivata lassù, si fermò.

Sotto di lei, per metri e metri, c'era un campo interamente vuoto. In certipunti si erano ammucchiati grossi cumuli di neve, in altri sassi nudi e piat-

ti, esposti al vento e al gelo. Nel mezzo sorgeva l'edificio più strano cheShawn avesse mai visto, un'enorme lacrima tondeggiante, appollaiata sottola luce delle stelle come un animale su tre zampe nere. Le zampe erano ri-curve sotto la struttura, flesse e con le giunture ghiacciate: pareva un ani-male pronto a spiccare un balzo verso il cielo. Le zampe e l'edificio eranocompletamente ricoperti di fiori.

I fiori erano dappertutto, notò Shawn quando distolse lo sguardo dallacostruzione abbastanza a lungo per guardare. Spuntavano, isolati o a grap-

poli, dalle crepe del terreno, circondati dalla neve e dal ghiaccio, creandocolorate isole di vita nella candida immobilità del Pieninverno.

Camminò tra i fiori, tenendosi rasente alla struttura, fino a trovarsi ac-canto a una delle zampe: tese una mano inguantata per sfiorare incuriositail giunto. Era di metallo: metallo, ghiaccio e fiori, come tutto il resto. Dovepoggiavano le zampe, la roccia sottostante s'era incrinata formando centi-naia di crepe, come se fosse stata sottoposta a un colpo fortissimo. Dallefessure spuntavano viticci, neri e contorti, che si avvolgevano ai fianchi

dell'edificio come ragnatele tessute da un ragno dell'estate. I fiori sboccia-vano da quei tralci: osservandoli più da vicino, Shawn si accorse che nonerano affatto come il piccolo fiore che aveva scoperto in riva al fiume.Boccioli di vari colori, alcuni grossi come la sua testa, crescevano dapper-tutto in una profusione selvaggia, come se non fossero consapevoli che eraPieninverno, quando avrebbero dovuto essere anneriti e morti.

Stava girando intorno alla costruzione in cerca di un'entrata, quando unrumore le fece voltare la testa verso il crinale.

Un'ombra sottile guizzò per un istante sulla neve e parve svanire nel nul-la. Shawn ebbe un fremito e si nascose in fretta, appoggiando la schiena al-

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la grande zampa più vicina, poi lasciò cadere tutto a terra e impugnò con lasinistra la spada di Lane e con la destra il suo coltello, quindi restò immo-bile, maledicendosi per avere acceso quel fiammifero, quello stupido, in-sulso fiammifero, mentre ascoltava il  flap-flap-flap mortale che avanzavasu piedi artigliati.

Si rese conto che era troppo buio, la sua mano scattò, ma l'ombra lepiombò comunque addosso lateralmente. Il coltello sfrecciò in quella dire-zione, di punta e di taglio, ma riuscì solo a sfiorare il mantello di cute delvampiro, che lanciò un grido di trionfo e la scaraventò a terra. Shawn siaccorse di sanguinare: sentiva un peso sul petto e qualcosa di nero e coria-ceo le gravava sugli occhi. Cercò di colpirlo con il coltello, ma si rese con-to di non averlo più in mano. Lanciò un urlo.

Poi il vampiro gridò e lei sentì un'esplosione di dolore alla tempia: avevasangue negli occhi, sangue in gola che la soffocava, sangue, sangue enient'altro...

Era azzurro, tutto azzurro, lieve, cangiante. Un azzurro chiaro che dan-zava, come quella luce spettrale che aveva sfavillato in cielo. Un azzurrotenue, come quello del piccolo fiore, dell'improbabile bocciolo sulla rivadel fiume. Un azzurro freddo, come quello degli occhi del cocchiere del

Carro di Ghiaccio, come le labbra di Lane quando l'aveva baciato per l'ul-tima volta. Azzurro, azzurro che si muoveva e non stava mai fermo. Tuttopareva confuso, irreale. C'era l'azzurro. Per tanto tempo, solo l'azzurro.

Poi la musica. Una musica indistinta, una musica in qualche modo az-zurra, strana, acuta e fugace, tristissima, solitaria, vagamente erotica. Unaninnananna, come quella che le cantava Tesenya, quando Shawn era picco-la, prima che la vecchia perdesse le forze e si ammalasse e che Creg lamandasse fuori a morire. Tanto tempo era trascorso da quando Shawn ave-

va ascoltato quel canto: tutta la musica che conosceva era quella che face-vano Creg con la sua arpa e Rys con la chitarra. Si sentì fluttuare rilassata,le gambe e le braccia trasformate in acqua, un'acqua pigra, anche se sapevache era Pieninverno e che poteva esserci solo ghiaccio.

Sentì mani morbide che la toccavano, le sollevavano la testa, le toglie-vano la maschera così quel calore azzurro le accarezzò le guance, poiscendevano giù, giù, le scioglievano i vestiti, le toglievano pelliccia e gliindumenti, la cintura, il giustacuore, i pantaloni. Avvertì un fremito sulla

pelle. Galleggiava. Tutto era caldo, molto caldo, e quelle mani le percorre-vano ogni parte del corpo ed erano così gentili, com'erano quelle di mam-

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ma Tesenya, com'erano a volte quelle di sua sorella Leila o di Devin. Co-me quelle di Lane, pensò, e quel pensiero piacevole la confortò e la spronòallo stesso tempo, e se lo tenne stretto. Era insieme a Lane, era al sicuro, alcaldo e... rivide il volto di lui, l'azzurro delle labbra, il ghiaccio sulla barbadove gli si era gelato il fiato, il dolore che lo straziava e gli faceva contrar-re il volto come una maschera. Ricordò e di colpo si sentì affogare dentrol'azzurro, si sentì soffocare, lottare, urlare.

Le mani la sollevarono e una voce sconosciuta sussurrò qualcosa in unalingua che lei non capiva. Una tazza fu avvicinata alle sue labbra. Aprì labocca per urlare ancora, invece cominciò a bere. Era un liquido caldo, dol-ce e profumato, riconobbe alcune spezie, ma altre non sapeva identificarle.Tè, pensò, e le sue mani tolsero la tazza alle altre mani e bevve a grandi

sorsate.Era in una camera piccola e buia, su un letto, appoggiata a un cuscino; i

suoi abiti erano ammucchiati lì accanto. Nell'aria fluttuava un vapore az-zurro proveniente da un bastoncino acceso. Una donna era inginocchiata alsuo fianco; indossava un abito fatto con pezzi di stoffa di vari colori; dueocchi grigi la fissavano calmi da sotto la capigliatura più folta e scompi-gliata che Shawn avesse mai visto. «Tu... chi...»

La donna le carezzò la fronte con una mano candida e morbida. «Carin»

le disse con voce chiara.Shawn annuì lentamente, chiedendosi chi fosse quella donna e come fa-

cesse a conoscere il nome della sua famiglia.«Carinhall» aggiunse la donna, e i suoi occhi sembravano divertiti e an-

che un po' tristi. «Lin, Eris e Caith. Me li ricordo, bambina. Beth, la Vocedi Carin, era così dura. E Kaya, Dale e Shawn.»

«Shawn? Sono io Shawn. Ma la Voce di Carin è Creg...»La donna fece un vago sorriso continuando ad accarezzarle la fronte. La

sua mano era molto morbida. Shawn non aveva mai sentito niente di cosìsoffice. «Shawn è il mio amore» disse la donna. «La incontro ogni noveanni al Raduno.»

Shawn la fissò confusa. Cominciava a ricordare: la luce azzurra nel bo-sco, i fiori, il vampiro. «Dove sono?» domandò.

«Sei in un posto in cui non ti saresti mai sognata di arrivare, bambinaCarin» rispose la donna, sorridendo della sua battuta.

La ragazza notò che le pareti della stanza mandavano scuri riflessi me-

tallici. «L'edificio!» esclamò. «L'edificio con le zampe, tutti i fiori...»«Sì.»

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«E tu chi sei? Sei tu che hai fatto la luce? Ero nel bosco, Lane era mortoe avevo quasi finito il cibo, poi ho visto la luce azzurra...»

«Era la mia, bambina Carin, mentre venivo giù dal cielo. Ero così lonta-na, oh sì, lontanissima, in luoghi di cui non hai mai sentito parlare, ma so-no tornata.» D'un tratto la donna si alzò in piedi e cominciò a volteggiare, eil suo abito sgargiante svolazzò e brillò, mentre il fumo azzurro le facevada aureola. «Io sono la strega, quella da cui ti dicevano di guardarti a Ca-rinhall, bambina» gridò esultante, continuando a roteare finché, presa daun capogiro, si lasciò cadere accanto al letto.

Nessuno aveva mai parlato di una strega a Shawn, che più che spaventa-ta era incuriosita. «Sei tu che hai ucciso il vampiro?» le chiese.

«Sono una maga» fu la risposta. «Sono una maga e so fare magie, vivrò

per sempre. E anche tu vivrai per sempre, bambina Carin, Shawn, quandote l'avrò insegnato. Potrai viaggiare con me e io t'insegnerò tutte le magie,ti racconterò tante storie e potremo amarci. Tu sei già il mio amore, sai?Lo sei sempre stata, al Raduno. Shawn, Shawn.» Sorrise.

«No» disse la ragazza. «Era un'altra persona.»«Sei stanca, bambina. Il vampiro ti ha fatto male e non ti ricordi. Ma la

memoria ti tornerà presto, vedrai.» Si alzò, attraversò la stanza, spense ilbastoncino con la punta delle dita, fece tacere la musica. Mentre la donna

le dava le spalle, Shawn vide che i capelli le scendevano quasi fino alla vi-ta, tutti arricciati e aggrovigliati, e mentre lei si muoveva si agitavano ri-belli come le onde in mezzo al mare. Lei aveva visto il mare anni prima,quando non era ancora arrivato il Pieninverno, e se lo ricordava.

La donna abbassò le luci, non si sa come, e al buio disse alla ragazza:«Adesso riposati. Con la mia magia ti ho fatto andare via il dolore, ma po-trebbe tornare. In quel caso, chiamami. Ho altre magie».

Shawn si sentiva molto insonnolita. «Sì» sussurrò docilmente, ma quan-

do la donna fece per andarsene, la richiamò. «Aspetta. La tua famiglia,madre. Dimmi chi sei.»

La donna si fermò, incorniciata da una luce gialla, una silhouette indefi-nita. «La mia famiglia è grandissima, bambina. Le mie sorelle sono Lilith,Marcyan, Erika Stormjones, Lamiya-Bailis e Deirdre d'Allerane. Klero-nomas, Stephen Cobalt Northstar, Tomo e Walberg erano tutti miei fratelli,e miei padri. La nostra casa è lassù, oltre il Carro di Ghiaccio e io michiamo Morgan: questo è il mio nome.» Poi uscì e chiuse la porta alle sue

spalle, lasciando che Shawn si addormentasse.

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"Morgan" pensava nel sonno. "Morganmorganmorgan." Quel nome on-deggiava nei suoi sogni come fumo.

Era piccolissima, fissava il fuoco nel focolare di Carinhall, guardava lefiamme che lambivano e stuzzicavano i grandi ciocchi neri, odorava ledolci fragranze del legno di cirsio, e lì accanto qualcuno stava raccontandouna storia. Non era Jon, no: era prima che Jon diventasse il cantastorie. EraTesenya, vecchissima, il volto grinzoso, che parlava con una voce stancama melodiosa, una voce da ninnananna che i bambini ascoltavano intenti.Le sue storie erano diverse da quelle di Jon, che parlavano sempre di com-battimenti, guerre, mostri e vendette, che erano piene di orrore, sangue ecoltelli, di spietate maledizioni lanciate dal cadavere di un genitore. Quelledi Tesenya non erano così terrificanti: raccontava di un gruppo di sei vian-

danti, della famiglia Alynne, che un anno, nella stagione del gelo, si eranosmarriti nei boschi. Erano finiti davanti a un enorme palazzo, tutto di me-tallo, e la famiglia che vi abitava li aveva accolti con un grande banchetto.I viandanti avevano mangiato e bevuto e, proprio mentre si stavano ripu-lendo le labbra prima di andarsene, erano arrivate altre portate e il banchet-to era ricominciato. Gli Alynne erano rimasti, perché il cibo era il più riccoe il più gustoso che avessero mai assaggiato, e più ne mangiavano più au-mentava in loro l'appetito. Per giunta, fuori del palazzo di metallo era cala-

to il Pieninverno. Finalmente, quando era arrivato il disgelo, molti annidopo, altri della famiglia Alynne erano andati in cerca dei sei scomparsi.Li avevano trovati morti nel bosco. Si erano tolti gli indumenti di pellicciae addosso avevano solo panni di tela leggera. Le loro spade erano copertedi ruggine ed erano tutti morti di fame. Perché il nome del palazzo di me-tallo, spiegò Tesenya ai bambini, era Morganhall, e la famiglia che vi abi-tava si chiamava Bugia, e il suo cibo era fatto di una sostanza vuota com-posta di aria e di sogni.

Shawn si svegliò. Era nuda e aveva i brividi.I suoi vestiti erano ancora ammucchiati accanto al letto. Si rivestì in fret-

ta, prima infilò la biancheria, poi la camicia di lana nera, e sopra i pantalo-ni i gambali, la cintura e il giustacuore, tutti di cuoio, poi la sopravveste dipelliccia con il cappuccio e infine le cappe, il mantello di Lane e il suo diquando era bambina. Per ultima s'infilò la maschera. Tese la pelle sul visoe la legò stretta sotto il mento. A quel punto era protetta dai venti del Pie-ninverno come dal contatto degli sconosciuti. Trovò le sue armi appoggia-

te con cura in un angolo, insieme agli stivali. Con la spada di Lane strettain mano e il fedele coltello infilato nel fodero, si sentì di nuovo se stessa.

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Varcò la soglia, decisa a trovare gli sci e l'uscita.Trovò invece Morgan, con un sorriso splendente e nervoso, in una came-

ra di vetro e lucente metallo argenteo. La sua figura si stagliava davanti al-la finestra più grande che la ragazza avesse mai visto, una lastra di purocristallo più alta di un uomo e più larga del grande focolare di Carinhall,più pura perfino degli specchi della famiglia Terhis, che era famosa per isuoi soffiatori di vetro e fabbricanti di lenti. Al di là del vetro era mezzo-giorno, un gelido mezzogiorno di Pieninverno. Shawn vide il campo dipietre, neve e fiori, e al di là il basso crinale che aveva risalito e, oltre an-cora, il fiume gelato che si snodava tra le rovine.

«Sembri così fiera e arrabbiata» le disse Morgan, senza più quello scioc-co sorriso sulle labbra. Si era intrecciata la capigliatura ribelle con nastri e

mollette d'argento ornate di gemme che brillavano quando si muoveva.«Vieni, bambina Carin, togli quelle pellicce. Il freddo non ci può raggi-ungere qui e, se anche fosse, potremmo sempre andarcene altrove. Ci sonoaltre terre, lo sai.» Attraversò la stanza.

Shawn, che aveva appoggiato la punta della spada sul pavimento, la sol-levò di nuovo. «Stammi lontana» intimò, con voce roca e strana.

«Non mi fai paura, Shawn» replicò Morgan. «Non tu, la mia Shawn,amore mio.» Superò senza difficoltà la punta della spada, si tolse lo scialle

che portava, una garza leggerissima di seta grigia trapuntata di minuscolegemme cremisi e la drappeggiò intorno al collo di Shawn. «Vedi, io so checosa stai pensando» le disse, indicando i gioielli che, a uno a uno, cambia-vano colore, da fiamma diventavano sangue, il sangue si coagulava e di-ventava marrone, il marrone si trasformava in nero. «Hai paura di me, eccotutto. Non temere. Non mi farai mai del male.» Strinse lo scialle sotto lamaschera di Shawn e sorrise.

La ragazza fissò le gemme con orrore. «Come hai fatto?» chiese arre-

trando, incerta.«Con la magia.» Ruotò sui talloni e tornò danzando alla finestra. «Mor-

gan sa tante magie.»«Tu sai tante bugie» ribatté Shawn. «Io conosco la storia dei sei Alynne.

Non ho nessuna intenzione di mangiare qui e di morire di fame. Dove haimesso i miei sci?»

Morgan sembrò non udirla, aveva gli occhi annebbiati e pensosi. «Nonhai mai visto la casa degli Alynne d'estate, bambina? È bellissima. Il sole

sorge sopra la torre di pietra rossa e tramonta ogni giorno dietro il lago diJamei. Lo sapevi, Shawn?»

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«No» rispose la ragazza in tono insolente «e nemmeno tu lo sai. Perchéparli della casa degli Alynne? Hai detto che la tua famiglia viveva sul Car-ro di Ghiaccio e aveva nomi che non avevo mai sentito, Kleraberus o cheso io...»

«Kleronomas» la corresse Morgan con una risatina. Si mise una manodavanti alla bocca, per zittirsi, e si morsicò distrattamente un dito, mentreuna luce brillava nei suoi occhi grigi. A ogni dito portava anelli di metallolucente. «Avresti dovuto vederlo, mio fratello Kleronomas, bambina. Èmetà di metallo e metà di carne, ha occhi splendenti come il cristallo e co-nosce più cose di tutte le Voci che hanno mai parlato a Carinhall.»

«Non è vero. Sono ancora bugie!»«Sì che è vero» rispose Morgan abbassando la mano. «È un mago. Tutti

noi lo siamo. Erika è morta, ma si risveglia e rivive continuamente. Ste-phen era un guerriero, ha ucciso un miliardo di famiglie, più di quelle cheriesci a contare, e Celia ha scoperto tanti luoghi segreti che nessuno avevamai visto prima. Nella mia famiglia tutti fanno magie.» Assunse un'espres-sione maliziosa. «Ho ucciso il vampiro, no? Come pensi che ci sia riusci-ta?»

«Con un coltello!» esclamò testardamente Shawn. Ma era arrossita sottola maschera. Morgan aveva ucciso davvero il vampiro, quindi Shawn ave-

va un debito con lei. E le aveva puntato contro la spada! Al pensiero dicome si sarebbe infuriato Creg, lasciò la presa sull'arma che cadde a terracon fragore. Si sentì di colpo confusa.

La voce di Morgan era amichevole. «Tu avevi un coltello e una spada,però non sei riuscita ad ammazzare il vampiro, non ti pare, bambina? No.»Attraversò la stanza. «Tu mi appartieni, Shawn Carin, sei il mio amore, seimia figlia e mia sorella. Devi imparare a fidarti di me. Ho tante cose da in-segnarti. Vieni.» Prese la ragazza per mano e la portò davanti alla finestra.

«Resta qui e aspetta, Shawn, aspetta e guarda, ti mostrerò altre magie diMorgan.» Dalla parete lontana, sorridendo, con i suoi anelli fece qualcosasu un pannello di metallo lucente con tante spie luminose quadrate.

La ragazza guardava e di colpo fu presa dal panico.Il pavimento sotto i suoi piedi aveva cominciato a tremare e un urlo acu-

to e lamentoso attraversò la maschera di cuoio e le penetrò nelle orecchie,finché se le coprì con le mani inguantate per farlo smettere. Però continua-va a sentirlo, come una vibrazione che le arrivava fin nelle ossa. Le face-

vano male i denti e avvertì un'improvvisa fitta alla tempia sinistra. E quellonon era ancora il peggio.

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Fuori, infatti, dove tutto poco prima era freddo, lucente e immobile, unafosca luce azzurra si agitava danzando e tingendo ogni cosa. I cumuli dineve erano celeste chiaro, i pennacchi di polvere gelida sollevata dal ventoerano ancora più chiari e sull'argine del fiume, dove prima non c'era nes-suno, andavano e venivano ombre blu. Shawn riuscì a vedere che la luceazzurra si rifletteva sul fiume stesso e sulle rovine desolate oltre la rivaopposta. Morgan, alle sue spalle, sorrideva; poi ogni cosa alla finestra par-ve sfumare e dissolversi, finché non ci fu più nulla di visibile, solo colori,chiari e scuri, che scorrevano insieme come pezzi di arcobaleno mescolatiin un enorme calderone. Shawn non si mosse dal suo punto di osservazio-ne, ma con la mano strinse il manico del coltello e suo malgrado iniziò atremare.

«Guarda, bambina Carin!» gridò Morgan sopra quel terribile stridore.Shawn riusciva appena a sentirla. «Siamo saltati in cielo, adesso, lontanoda tutto quel freddo. Te l'avevo detto. Ora saliremo sul Carro di Ghiaccio.»Fece un altro movimento sul pannello e il rumore sparì, insieme ai colori.Al di là del vetro c'era il cielo.

Shawn urlò spaventata. Si vedevano solo buio e stelle, stelle dappertutto,più di quante ne avesse mai viste. Si rese conto di essere perduta. Lane leaveva insegnato a riconoscere tutte le costellazioni e lei così sapeva orien-

tarsi, trovare la strada per andare da un punto a un altro, ma quelle stelleerano sbagliate, diverse. Non riusciva a trovare né il Carro di Ghiaccio nélo Sciatore Fantasma, e neppure Lara Carin con i suoi lupi del vento. Nonc'era niente che le fosse familiare, solo stelle, rosse, bianche, azzurre, gial-le che la fissavano come milioni di occhi malvagi, tutte senza il minimotremito.

Morgan era in piedi alle sue spalle.«Siamo sul Carro di Ghiaccio?» chiese la ragazza con un filo di voce.

«Sì.»Shawn tremò, gettò via il coltello che rimbalzò rumorosamente contro

una parete di metallo, e si voltò a fissare la sua ospite. «Allora siamo mortee il cocchiere sta portando le nostre anime lontano dal deserto di gelo.»Non pianse. Avrebbe preferito non morire, soprattutto non in Pieninverno,ma almeno avrebbe rivisto Lane.

Morgan cominciò a sciogliere lo scialle che le aveva annodato intorno alcollo. Le gemme erano nere, spaventose. «No, Shawn Garin» le disse in

tono piatto. «Non siamo morte. Vivi qui con me, bimba, e non morirai mai.Vedrai.» Le tolse lo scialle e cominciò a sciogliere i lacci della maschera

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di Shawn. Quindi la sollevò e la gettò distrattamente a terra. «Sei carina,Shawn, lo sei sempre stata. Me lo ricordo, tanti anni fa, me lo ricordo.»

«Non sono carina. Sono troppo molle, debole, e Creg dice che sonotroppo magra e che ho la faccia rincagnata. E non sono...»

Morgan la fece tacere posandole un dito sulle labbra, poi aprì la fibbiasotto il mento e le fece scivolare dalle spalle il logoro mantello di Lane.Seguirono la sua cappa di bambina e la sopravveste, quindi le dita delladonna si mossero verso i lacci del giustacuore.

«No» fece Shawn, arretrando per un improvviso pudore. Si trovò con laschiena contro la finestra e le sembrò che quella spaventosa oscurità la op-primesse con tutto il suo peso. «Non posso, Morgan. Io sono una Carin etu non sei della mia famiglia; non posso.»

«Il Raduno» sussurrò Morgan. «Fai finta che sia il Raduno, Shawn. Seisempre stata la mia amante preferita al Raduno.»

Shawn sentì la gola secca. «Ma questo non è il Raduno» insistette. Eragià stata a un Raduno, giù al mare, quando quaranta famiglie si erano ri-trovate per scambiarsi notizie, mercanzie e amore. Ma era successo quandoancora non si era sviluppata e nessuno l'aveva presa: non era ancora unadonna, quindi era intoccabile. «Non è il Raduno» ripeté ormai sul punto dipiangere.

Morgan fece un risolino. «Benissimo, io non sono una Carin, ma sonoMorgan dalle tante magie. Posso far succedere un Raduno.» Attraversò dicorsa la stanza a piedi nudi e spinse di nuovo i suoi anelli contro il pannel-lo, muovendoli di qui e di là in modo strano. Poi esclamò: «Guarda! Giratie guarda».

Shawn, turbata, guardò fuori.Sotto il doppio sole di Pienestate, il mondo era verde e splendente. Sulle

placide acque del fiume si muovevano alcune barche a vela, e Shawn riu-

sciva a vedere danzare e ondeggiare sulle loro scie i riflessi lucenti dei duesoli, sfere di un tenue giallo burro galleggianti nel cielo. Anche il cielo ap-pariva dolce e cremoso: nuvole candide si muovevano parallelamente allelussuose barche della famiglia Crien, e non si vedeva nemmeno una stella.La riva lontana era punteggiata di abitazioni, alcune piccole come rifugi ealtre addirittura più grandi di Carinhall, torri alte e sottili come le roccescolpite dal vento dei Monti Spaccati. Di qua e di là e in mezzo a quellecostruzioni si muoveva tanta gente, esseri scuri di bassa statura che Shawn

non aveva mai visto, ma anche membri delle famiglie, tutti mescolati in-sieme. Sul campo di pietra c'erano non più neve e ghiaccio, ma tante strut-

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ture di metallo, alcune più grandi di Morganhall, molte più piccole, ognunacon i propri segni distintivi, e tutte posate su tre zampe. Fra una struttura el'altra c'erano tende e cabine con i sigilli e le insegne delle famiglie. E lestuoie, le stuoie degli amanti con i loro colori allegri. Shawn vide personeche si accoppiavano e sentì la mano di Morgan che si posava leggera sullasua spalla.

«Lo sai che cosa stai vedendo, bambina Carin?» sussurrò la donna.Shawn si girò con un'espressione insieme spaventata e sorpresa negli oc-

chi. «È il Raduno.»Morgan sorrise. «Hai visto? È il Raduno e io ti reclamo. Festeggia con

me.» Le sue dita si protesero verso la fibbia della cintura di Shawn, chenon oppose più resistenza. Dentro le pareti di metallo di Morganhall le

stagioni diventavano ore, le ore anni, mesi, settimane e di nuovo stagioni.Il tempo non aveva alcun senso. Quando Shawn si risvegliò, sdraiata suuna folta pelliccia che Morgan aveva steso sotto la finestra, l'estate avevadi nuovo lasciato il posto al Pieninverno; le famiglie, le barche, il Radu-no... non c'erano più. L'alba era arrivata prima di quanto desiderasse eMorgan, contrariata, fece scendere il buio. La stagione era freddissima, diun gelo inquietante, e dove avevano brillato le stelle dell'aurora ora nuvolegrigie correvano attraverso un cielo color del rame. La cena fu consumata

mentre il rame virava al nero. Morgan servì funghi e insalata fresca, panenero con burro e miele, tè alle spezie con latte e grosse fette di carne rossaal sangue, poi arrivò il gelato al gusto di nocciola e infine un'abbondantebevanda calda a otto strati, ognuno di un colore e di un gusto diverso. Lasorseggiarono da bicchieri di un cristallo incredibilmente sottile e a Shawnfece venire il mal di testa. Cominciò a piangere, perché il cibo sembravaproprio vero ed era tutto buono, ma aveva paura che se ne avesse mangiatoancora sarebbe morta di fame. Morgan le sorrise, scomparve per un attimo

e ritornò con alcune fette durissime di carne di vampiro essiccata: disse aShawn di mettersele nello zaino e di masticarle tutte le volte che avessesentito la fame.

La ragazza le conservò a lungo, ma non le toccò mai.All'inizio cercò di tenere il conto dei giorni, segnando il numero dei pa-

sti consumati, quante volte si era messa a dormire, ma il panorama fuoridella finestra cambiava continuamente e la vita irregolare di Morganhallben presto la confuse togliendole ogni speranza di raccapezzarsi. Per varie

settimane (o forse qualche giorno) se ne preoccupò, poi smise di pensarci.Morgan poteva fare tutto quello che voleva con il tempo, quindi era inutile

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farsene un problema.Shawn chiese più volte di andarsene, ma Morgan non la stava nemmeno

a sentire. Si limitava a sorridere e con qualche stupefacente magia facevadimenticare tutto alla ragazza. Una notte, mentre dormiva, Morgan fecesparire la spada e il coltello, e anche gli indumenti di cuoio e le pellicce,dopo di che la ragazza fu costretta a vestirsi come voleva lei, con nuvole diseta colorata e fantastici nastri, o niente del tutto. All'inizio Shawn se laprese, poi si abituò. I suoi vecchi abiti, comunque, sarebbero stati troppocaldi lì a Morganhall.

Morgan le faceva regali: sacchetti di spezie profumate d'estate, un lupodel vento fatto di vetro celeste, una maschera di metallo che consentiva divedere al buio, oli profumati per il bagno, bottiglie di un denso liquore do-

rato che le dava l'oblio quand'era triste, lo specchio più bello mai esistito,libri che Shawn non sapeva leggere, una serie di braccialetti di piccole pie-tre rosse che il giorno assorbivano la luce e la notte brillavano, cubi che alcalore delle mani suonavano strane musiche, stivali di tessuto metallico,così leggeri e flessibili che si potevano accartocciare nella palma di unamano, statuine di uomini e donne e ogni sorta di demoni.

Morgan le raccontava tante storie. Ogni oggetto che regalava a Shawnne aveva una: da dove veniva, chi l'aveva fatto e come era arrivato fin lì.

Morgan le spiegava ogni cosa. C'erano anche storie dei suoi parenti: l'in-domito Kleronomas che aveva solcato i cieli alla ricerca del sapere, CeliaMarcyan dalla curiosità insaziabile e la sua nave Shadow Chaser ,  ErikaStormjones, dilaniata dalla sua stessa famiglia e che continuava a tornarein vita, il feroce Stephen Cobalt Northstar, il malinconico Tomo, l'astutaDeirdre d'Allerane e la sua malvagia e spettrale gemella. Tutte queste sto-rie, Morgan le raccontava con una magia. Su una parete c'era uno spaziodotato di una piccola fessura quadrata, in cui Morgan inseriva una scatola

piatta di metallo; allora tutte le luci si spegnevano e i parenti defunti diMorgan tornavano in vita, fantasmi luminosi che si muovevano e parlava-no e sanguinavano quando venivano feriti. Shawn aveva creduto che fosse-ro reali, fino al giorno in cui, mentre Deirdre piangeva per i suoi figli ucci-si, lei era corsa a consolarla e si era resa conto di non poterla toccare. Soloallora Morgan le aveva spiegato che Deirdre e gli altri non erano che spiritirichiamati dalla sua magia.

Tante cose le raccontava Morgan. Era la sua maestra, oltre che la sua

amante, ed era paziente quasi com'era stato Lane, anche se più incline adivagare e a perdere interesse. Regalò a Shawn una meravigliosa chitarra a

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dodici corde e le diede i primi rudimenti per suonarla, le insegnò anche unpo' a leggere e la istruì su qualche semplice magia, affinché potesse muo-versi agevolmente sulla nave. Perché, le aveva spiegato, Morganhall in re-altà era non un edificio, ma una nave, una nave celeste, che poteva ripiega-re le sue zampe metalliche e saltare da una stella all'altra. Le raccontò deipianeti, di terre oltre quelle stelle remote, e le disse che i doni che le avevafatto venivano da lassù, da luoghi più lontani del Carro di Ghiaccio: la ma-schera e lo specchio arrivavano da Jamison, i libri e il cubo da Avalon, ilbraccialetto da High Kavalaan, gli oli profumati da Braque, le spezie daRhiannon, Tara e Vecchia Poseidonia, gli stivali da Bastion, le statuette daChul Damien, il liquore dorato da una terra così remota che perfino lei neignorava il nome. Solo la statuirla in vetro del lupo del vento veniva da lì,

dal mondo di Shawn. Quell'oggetto era stato uno dei suoi preferiti, ma do-po quella rivelazione scoprì che in fondo non le piaceva poi tanto. Gli altrile davano più emozioni. Aveva sempre desiderato viaggiare, incontrarefamiglie lontane in climi diversi, ammirare oceani e montagne. Ma eratroppo piccola e quando era diventata donna Creg non l'aveva lasciata an-dare: diceva che era troppo lenta, troppo timida, troppo irresponsabile. Sa-rebbe dovuta restare tutta la vita a casa, dove le sue scarse qualità sarebbe-ro state più utili per Carinhall. Anche quel viaggio fatale che l'aveva porta-

ta fin lì era cominciato per caso: Lane aveva insistito ed era l'unico abba-stanza forte per tenere testa a Creg, la Voce di Carin.

Morgan, invece, la faceva navigare tra le stelle. Ogni volta che la fiam-ma azzurra lampeggiava sul paesaggio di ghiaccio del Pieninverno e dachissà dove esplodeva il sibilo acuto, Shawn correva alla finestra e aspet-tava sempre più impaziente che si schiarissero i colori. Morgan le fece ve-dere tutti i mari e tutte le montagne che avrebbe potuto sognare, e molto dipiù. Attraverso la perfetta trasparenza del cristallo la ragazza vide i luoghi

di tutti i racconti che aveva ascoltato: Vecchia Poseidonia con i suoi molierosi dalle maree e le flotte di navi d'argento, le praterie di Rhiannon, lenere torri a volta di acciaio su ai-Emerel, le pianure spazzate dal vento e lealture scoscese di High Kavalaan, le città isole di Port Jamison e Jolostarsul pianeta di Jamison. Morgan le raccontò delle città, e improvvisamentevide con occhi diversi le rovine sul fiume. Imparò anche che esistevano al-tri modi di vivere, seppe delle arcologie, delle superfortezze e delle fratel-lanze, delle compagnie federate, della schiavitù e degli eserciti. La fami-

glia Carin non le sembrò più il primo e ultimo esempio di sodalizio umano.Tra i mondi che toccavano, quello su cui scendevano più spesso era A-

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valon, che divenne il prediletto da Shawn. Su quel pianeta l'astroporto erasempre pieno di viaggiatori e la ragazza poteva ammirare altre navi cheandavano e venivano su scie di luce azzurra. Da lontano riusciva a scorge-re gli edifici dell'Accademia dell'Umano Sapere, dove Kleronomas avevadepositato tutti i suoi segreti, perché fossero riservati esclusivamente allafamiglia Morgan. Quelle torri frastagliate di vetro le riempivano l'animo diun desiderio quasi doloroso, di un dolore che in un certo senso agognava.

Certe volte, su alcuni di quei mondi, ma soprattutto su Avalon, le sem-brò che qualche estraneo stesse per salire a bordo della loro nave. Li osser-vava venire, avanzare decisi mentre la meta si faceva a ogni passo più evi-dente. Ma nessuno saliva mai a bordo, con sua grande delusione. Mai nes-suno con cui parlare, nessuno da toccare, tranne Morgan. Shawn sospetta-

va che Morgan, con un incantesimo, impedisse a chiunque di entrare o atti-rasse gli estranei verso un altro destino. Quale, non riusciva neppure a im-maginarlo, Morgan era così volubile che avrebbe potuto combinare di tut-to. Una sera a cena si ricordò della storia raccontata da Jon, quella del pa-lazzo dei cannibali, e fissò con orrore la carne rossa che stava mangiando.Quella sera toccò solo la verdura e così fece per molti pasti successivi, mapoi decise che quel comportamento era infantile. Pensò se fosse il caso dichiedere a Morgan chi fossero quegli estranei che si avvicinavano alla na-

ve, ma aveva paura di farlo. Si ricordava di Creg e di come s'infuriava sequalcuno gli faceva una domanda fuori luogo. Se Morgan ammazzava ve-ramente tutti quelli che cercavano di entrare nella sua nave, non sarebbestata una buona idea affrontare quell'argomento. Quando Shawn era solouna bambina, Creg l'aveva picchiata selvaggiamente quando lei gli avevachiesto perché la vecchia Tesenya era andata fuori a morire.

Shawn fece altre domande e si rese conto che Morgan non le rispondevamai. Non diceva niente delle proprie origini, non spiegava da dove venisse

il cibo o quale magia facesse volare la nave. Shawn chiese due volte di co-noscere le parole magiche che le facevano andare da una stella all'altra, edentrambe le volte Morgan replicò irritata e non volle rispondere. Avevaanche altri segreti che non rivelava a Shawn. C'erano camere che restavanochiuse per lei, oggetti che non aveva il permesso di toccare, altri di cuiMorgan non aveva mai parlato. Ogni tanto scompariva per quelli che sem-bravano giorni e Shawn si aggirava desolata, senza poter fare altro che fis-sare alla finestra le stelle che brillavano immobili. Quando si ripresentava,

Morgan era triste e taciturna, ma solo per poche ore, poi tornava di umorenormale. Normale per lei, ovviamente.

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Non si stancava mai di canterellare, di danzare, a volte da sola, oppureinsieme a Shawn. Parlava tra sé e sé in una lingua musicale che Shawn nonconosceva. Alternava atteggiamenti seri, da madre assennata, in tre occa-sioni autoritaria come una Voce, ad altri in cui si lasciava andare a balbettiie risatine da bambina piccola. Talvolta sembrava sapesse chi era Shawn,ma in altri casi si intestardiva a confonderla con quella Shawn Carin cheaveva amato a un Raduno. Era pazientissima e molto impetuosa, era diver-sa da tutte le altre persone che Shawn conosceva. "Sei una sventata" le a-veva detto una volta. "Non potresti comportati così se vivessi a Carinhall.Gli sciocchi muoiono, sai, e possono nuocere alla famiglia. Ognuno deverendersi utile, e tu non lo sei. Creg ti costringerebbe a cambiare. Sei fortu-nata a non essere una Carin."

Morgan l'aveva accarezzata e l'aveva fissata con uno sguardo triste negliocchi grigi. "Povera Shawn" le aveva sussurrato. "Sono stati molto duricon te. I Carin sono sempre stati così. La casa degli Alynne era diversa,bambina. Saresti dovuta nascere Alynne." Dopo di che non aveva più toc-cato l'argomento.

Per Shawn le giornate passavano vuote; girovagava di giorno e faceval'amore di notte. Pensava sempre meno spesso a Carinhall e pian piano sirese conto di essersi affezionata a Morgan come se fosse la sua famiglia.

Anzi, ormai si fidava di lei.Fino al giorno in cui venne a sapere dei fioramari.

Un mattino, alzandosi, Shawn si accorse che la finestra era piena di stel-le e Morgan era scomparsa. Questo, di solito, voleva dire che l'aspettavauna noiosa attesa, ma quel giorno stava ancora finendo la colazione cheMorgan le aveva lasciato quando la donna ricomparve, con le mani pienedi fiori celesti.

Era ansiosa, agitata come Shawn non l'aveva mai vista. Le fece inter-rompere la colazione e la fece sedere sul tappeto di pelliccia vicino alla fi-nestra, per intrecciarle i fiori tra i capelli. «Li ho visti mentre dormivi,bambina» le disse tutta contenta intanto che le annodava le trecce. «I tuoicapelli sono lunghi ormai. Quando sei arrivata erano corti, tagliati male ebrutti, ma adesso si sono allungati abbastanza, sono come i miei, e ti stan-no meglio. I fioramari li faranno ancora più belli.»

«I fioramari?» chiese Shawn curiosa. «Si chiamano così? Non lo sape-

vo.»«Sì, bambina» rispose Morgan, continuando ad acconciarle i capelli.

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Shawn le dava le spalle e non poteva vederla in faccia. «Questi piccoli ce-lesti sono i fioramari e crescono anche alle temperature più rigide. Vengo-no da un pianeta che si chiama Ymir, molto lontano, dove ci sono invernilunghi e gelidi quasi come i nostri. Anche gli altri fiori, quelli che cresconoin viticci intorno alla nave, vengono da Ymir. Si chiamano fiordigelo. IlPieninverno è sempre così cupo e grigio, per questo li ho piantati, per ren-dere tutto più bello.» Prese Shawn per una spalla e la fece girare. «Adessomi assomigli: vai a prendere lo specchio e guardati, bambina Carin.»

«Eccolo là» rispose Shawn e con un balzo superò Morgan. Il piede nudotoccò qualcosa di umido e freddo; indietreggiò con un grido: sul tappetoc'era una pozza d'acqua. Rabbrividì e rimase lì, immobile, fissando Mor-gan. La donna non si era ancora tolta gli stivali: erano tutti bagnati.

Dietro Morgan non c'era niente da vedere, solo oscurità e stelle scono-sciute. Shawn ebbe paura: c'era qualcosa di sbagliato. Morgan la guardavaa disagio.

La ragazza si inumidì le labbra, fece un timido sorriso e andò a prenderelo specchio.

Prima di andare a dormire Morgan fece sparire le stelle con la sua magi-a: fuori era notte, ma una notte gradevole, lontana dal gelido rigore del

Pieninverno. Tutto intorno all'astroporto c'erano alberi frondosi che on-deggiavano al vento, la luna splendeva nel cielo rendendo ogni cosa piùbella e luminosa. Un mondo sicuro e buono in cui dormire, disse Morgan.Ma Shawn non prese sonno. Rimase seduta in camera, lontana da Morgan,fissando la luna. Per la prima volta da quando era arrivata a Morganhall, simise a ragionare come una Carin. Lane sarebbe stato fiero di lei e Creg leavrebbe chiesto solo perché ci avesse messo tanto tempo.

Morgan era rientrata con un mazzo di fioramari e con gli stivali bagnati

per la neve. Eppure fuori non si vedeva niente, solo quel vuoto che secon-do Morgan riempiva lo spazio tra le stelle.

Morgan le aveva detto che la luce che aveva visto nel bosco era quelladelle fiamme della sua nave che stava atterrando. Ma i fitti viticci dei fior-digelo erano cresciuti tutto intorno, dentro e sulle zampe della nave, e do-vevano averci messo anni per farlo.

Morgan non la lasciava mai uscire. Le faceva vedere tutto attraverso lagrande finestra. Ma Shawn ricordò che da fuori lei non aveva scorto alcuna

finestra. E se quella era una finestra vera, dov'erano i rampicanti che le e-rano cresciuti intorno o il ghiaccio che si era formato sulla superficie e-

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sterna?Tesenya glielo aveva raccontato da bambina: il nome del palazzo di me-

tallo era Morganhall, e la famiglia che ci viveva si chiamava Bugia, il lorocibo era materia vuota fatta di sogni e d'aria. Shawn si alzò e alla luce dellaluna si diresse dove aveva riposto i regali che Morgan le aveva fatto. Liosservò a uno a uno, prese in mano quello più pesante, il lupo del vento invetro. Era una scultura piuttosto grande e la ragazza doveva servirsi di en-trambe le mani per sollevarla, una sotto il muso digrignante e l'altra sottola coda. «Morgan!» gridò.

Morgan si mise a sedere ancora assonnata e le sorrise. «Shawn» mormo-rò «piccola mia, che cosa fai con il lupo del vento?»

Shawn fece due passi avanti e sollevò la statua di vetro sopra la testa.

«Mi hai mentito. Non siamo mai andate da nessuna parte. Siamo ancoranella città in rovina ed è sempre Pieninverno.»

Il viso di Morgan era triste. «Non sai quello che dici.» Si alzò a fatica.«Hai intenzione di colpirmi con quell'oggetto, bambina? Non mi fai paura.Una volta mi hai puntato contro una spada e nemmeno allora mi hai fattopaura. Io sono Morgan dalle tante magie. Non puoi ferirmi, Shawn.»

«Voglio andarmene» ribatté la ragazza. «Ridammi le mie armi e i mieivecchi vestiti. Voglio tornare a Carinhall. Sono una Garin, non una bambi-

na. Sei tu che hai fatto di me una bambina. E dammi anche da mangiare.»Morgan rise. «Come sei seria! E se non lo facessi?»«Se non lo farai, lo getterò dalla finestra.» Agitò con chiare intenzioni la

statua di vetro.«No» fece Morgan, con un'espressione impenetrabile. «Non vuoi farlo,

bambina.»«Sì, invece, se non fai quello che dico.»«Tu non vuoi lasciarmi, Shawn Carin, non lo farai. Siamo amanti, ricor-

di? Siamo una famiglia. Io posso fare tante magie per te.» La sua vocetremava. «Mettilo giù, bambina. Ti farò vedere cose che non ti ho mai mo-strato prima. Ci sono tanti posti dove possiamo andare insieme, posso rac-contarti tante storie. Mettilo giù.» La stava implorando.

Shawn provò un senso di trionfo, ma stranamente aveva gli occhi gonfidi lacrime. «Perché sei spaventata?» chiese con rabbia. «Non sai aggiusta-re una finestra rotta con la tua magia? Perfino io la so riparare, e Creg diceche non sono capace di fare niente.» Le lacrime le scorrevano silenziose

lungo le guance. «Fa caldo fuori, lo vedi, e la luna fa abbastanza luce perlavorare, e c'è perfino una città. Puoi rivolgerti a un vetraio. Non capisco

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perché sei tanto spaventata. Non è come se là fuori fosse Pieninverno, conil freddo, il ghiaccio e i vampiri in agguato nel buio, vero?»

«No» rispose Morgan. «No.»«No» ripeté la ragazza. «Ridammi le mie cose.»Morgan non si mosse. «Non erano tutte bugie. Se rimani con me, vivrai

a lungo. Credo che sia per via del cibo, ma è così. Tante cose erano vere,Shawn. Non ti ho mai voluto ingannare. Desideravo il meglio per te,com'era stato per me all'inizio. Basta che fingi che sia tutto vero, sai? Di-mentica che la nave non può muoversi. È meglio così.» La voce suonavagiovane, spaventata: era una donna matura ma implorava come una bam-bina, con voce infantile. «Non rompere la finestra. È la cosa più magica.Ci può portare quasi ovunque. Ti scongiuro, non la rompere, Shawn, non

lo fare.»Era sconvolta. Le pezze svolazzanti del suo abito improvvisamente sem-

brarono sbiadite e lacere, gli anelli opachi. Era solo una vecchia fuori disenno. Shawn abbassò la pesante statuetta di vetro. «Rivoglio i miei vestiti,la mia spada e i miei sci. E da mangiare. Molto cibo. Portami tutto e forsenon romperò la tua finestra, bugiarda. Mi hai sentito?»

Morgan, senza più le sue magie, annuì e fece come chiedeva la ragazza.Shawn la osservò in silenzio. Non si scambiarono più una parola.

Shawn tornò a Carinhall e là invecchiò.Il suo ritorno fece sensazione. Era scomparsa per oltre un anno standard,

a quanto le dissero, e tutti avevano creduto che fosse morta insieme a La-ne. All'inizio, Creg non volle credere alla sua storia, imitato da tutti gli al-tri, finché Shawn non mostrò una manciata di fioramari che le erano rima-sti fra i capelli.

Nemmeno allora Creg riuscì ad accettare i particolari più fantastici del

suo racconto. «Illusioni» borbottava «sono tutte illusioni. Tesenya avevadetto il vero. Se tornassi laggiù, la tua nave magica non ci sarebbe più: sa-rebbe sparita senza lasciare traccia. Da' retta a me, Shawn.»

Ma la ragazza non era sicura che Creg fosse del tutto convinto della pro-pria affermazione. Aveva dato ordini precisi e nessuno della famiglia, uo-mo o donna, si avventurò mai in quella direzione.

Shawn trovò che molte cose a Carinhall erano cambiate. La famiglia siera ridotta di numero. Il viso di Lane non era l'unico di cui lei sentiva la

mancanza quando si sedevano a tavola. C'era stato pochissimo da mangia-re durante la sua assenza, e Creg, com'era usanza, aveva mandato fuori a

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morire i più deboli e i meno utili. Jon era tra gli scomparsi e anche Leilanon c'era più. Leila, che era tanto giovane e forte. Se l'era presa un vampi-ro tre mesi prima. Ma non c'erano stati solo fatti dolorosi. Il Pieninvernoera alla fine. E per quanto riguardava lei, Shawn si accorse che la sua posi-zione all'interno della famiglia era cambiata. Perfino Creg, ora, la trattavacon un brusco rispetto. L'anno dopo, in pieno disgelo, partorì per la primavolta e fu accolta alla pari nel consiglio di Carinhall. Chiamò la figlia La-ne.

Si adattò facilmente alla vita della famiglia. Quando arrivò per lei ilmomento di scegliere una professione, chiese di fare la mercante, e con suasorpresa Creg non si oppose alla richiesta. Rys la prese come apprendista,e dopo tre anni ebbe un incarico per conto proprio. Il lavoro la fece viag-

giare molto. Quando rientrava a casa, però, si accorgeva con sorpresa diessere diventata la cantastorie preferita dai bambini: tutti le dicevano chenessuno sapeva storie belle come le sue. Creg, sempre attaccato alle cosepratiche, sosteneva che le sue fantasie erano di cattivo esempio per i picco-li e non fornivano i giusti insegnamenti. In quel periodo, però, era moltomalato, l'aveva colpito una febbre di Pienestate, e le sue critiche non con-tavano più come una volta. Morì poco dopo, e Devin gli subentrò: una Vo-ce più gentile e moderata di quella di Creg. La famiglia Carin visse una

generazione di pace con lui, e il suo numero crebbe da quaranta individui aquasi un centinaio.

Shawn fu spesso la sua amante. Era molto migliorata nella lettura graziea lunghe ore di studio, e una volta Devin cedette al suo capriccio e le mo-strò la biblioteca segreta delle Voci, dove ogni Voce da secoli e secoli a-veva tenuto un diario in cui registrava i fatti avvenuti nel corso del proprioservizio. Come Shawn sospettava, uno dei volumi più grossi era intitolato Il Libro di Beth, la Voce di Carin, e risaliva a circa sessant'anni prima.

Lane fu la prima dei nove figli di Shawn. Fu fortunata: sei sopravvisse-ro, due generati con membri della famiglia e quattro nel corso dei Raduni.Devin le rese onore per avere portato tanto sangue fresco a Carinhall, e piùtardi un'altra Voce l'avrebbe citata a esempio per le sue straordinarie capa-cità commerciali. Viaggiò in lungo e in largo, conobbe altre famiglie, videcascate e vulcani, oceani e montagne, attraversò i mari intorno al mondocon un brigantino Crien. Ebbe molti amanti e molto affetto. Jannis succes-se a Devin come Voce, ma fu un periodo sfortunato, e quando morì le ma-

dri e i padri della famiglia Carin offrirono a Shawn quella carica. Ma lei ri-fiutò. Non le avrebbe permesso di raggiungere la felicità. Nonostante tutto

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quello che aveva fatto, non si sentiva una persona felice.Aveva troppi ricordi e spesso non riusciva a dormire la notte.Nel quarto Pieninverno della sua vita, la famiglia ormai ammontava a

duecentotrentasette persone, tra cui un centinaio di bambini. La selvagginaera scarsa anche al terzo anno di gelo e Shawn vedeva avvicinarsi il perio-do più duro e freddo. La Voce era una donna gentile, per la quale era diffi-cile prendere le decisioni che andavano prese, ma Shawn sapeva che ilmomento era vicino. C'era solo una persona più vecchia di lei nella fami-glia. Una notte prese un po' di cibo (appena sufficiente per due settimanedi viaggio), un paio di sci e lasciò Carinhall all'alba risparmiando così allaVoce il peso di quell'ordine infausto.

Non era più così veloce sugli sci com'era stata da giovane. Le ci vollero

quasi tre settimane per quel viaggio, invece delle due previste, ed era sma-grita e debole quando finalmente raggiunse le rovine della città.

La nave era sempre dove l'aveva lasciata.Nel corso degli anni il caldo e il freddo avevano frantumato le pietre

dell'astroporto e i fiori alieni avevano sfruttato ogni fessura disponibile. Lepietre erano tappezzate di fioramari, e i viticci dei fiordigelo intorno allanave erano due volte più fitti di come Shawn li ricordava. I grandi fiori daicolori brillanti si agitavano al vento.

Tutto il resto era immobile.Girò per tre volte intorno alla nave, aspettando che si aprisse una porta,

che qualcuno la vedesse e comparisse. Ma anche se la parete metallica a-veva avvertito la sua presenza, non arrivò alcun segnale. Poco discostodalla nave vide qualcosa che non aveva notato prima: una lapide con unascritta un po' sbiadita ma ancora leggibile, coperta solo dal ghiaccio e daifiori. Si servì del coltello a lama lunga per rompere il ghiaccio e tagliare iviticci, e riuscì a leggerla. Diceva:

MORGAN LE FAYIMMATRICOLAZIONE: AVALON 476 3319

Shawn sorrise. Così le aveva mentito anche sul nome. Comunque, nonimportava più. Portò le mani a coppa intorno alla bocca. «Morgan» gridò.«Sono Shawn.» Il vento soffiò via le parole. «Fammi entrare, Morgan.Dimmi bugie, Morgan dalle tante magie. Mi dispiace. Raccontami le tue

bugie, fammele credere.»Non ci fu risposta. Shawn si scavò una buca nella neve e si sistemò in at-

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tesa. Era stanca e affamata, e si stava avvicinando il buio. Riusciva già ascorgere gli occhi azzurri del cocchiere del Carro di Ghiaccio tra le nuvoledel tramonto.

Quando finalmente si addormentò, sognò Avalon.

"Bitterblooms" copyright © 1977 by Baronet Publishing Company.From "Cosmos", November 1977.

LE SOLITARIE CANZONI DI LAREN DORR

C'è una ragazza che vaga tra i mondi.Ha gli occhi grigi e la carnagione chiara, almeno così narra la storia, e i

suoi capelli sono una cascata nera come il carbone con qualche striatura dirosso. Sulla fronte porta un cerchietto di metallo brunito, una corona scurache le tiene a posto i capelli e talvolta le ripara gli occhi dalla luce. Sichiama Sharra, e conosce i portali.

L'inizio della sua storia ci è sconosciuto, così come la memoria delmondo da cui proviene. La fine? Non c'è ancora, e quando arriverà noi nonlo sapremo.

Abbiamo solo la parte centrale, o meglio uno stralcio, una piccola parte

della leggenda, solo un frammento della ricerca. Un breve racconto, all'in-terno di una storia più grande, di un mondo dove Sharra fece una sosta, edel solitario cantore Laren Dorr, e di come entrarono per breve tempo incontatto.

Per un attimo ci fu solo la valle, immersa nella luce del crepuscolo. Il so-le pendeva grande e viola sull'alto crinale, e i suoi raggi cadevano obliquisu una fitta foresta dove gli alberi avevano tronchi di un nero brillante ediafane foglie trasparenti. Gli unici suoni erano il verso dolente degli uc-

celli del lutto che escono di notte e lo scroscio impetuoso dell'acqua tra lerocce dell'agile ruscello che attraversava il bosco.

Poi, varcando un portale nascosto, Sharra entrò stanca e sanguinante nelmondo di Laren Dorr. Indossava un semplice abito bianco, ora sporco e in-triso di sudore, e una pesante mantella di pelliccia lacerata sulla schiena; ilbraccio sinistro, nudo e sottile, sanguinava ancora da tre lunghe ferite. Ap-parve sulla riva del ruscello, tremante, e si guardò intorno circospetta pri-ma di inginocchiarsi per medicarsi le ferite. L'acqua, a causa della sua tur-

bolenza, era di un verde scuro e fangoso. Non c'era modo di sapere se fos-se pulita, ma Sharra era sfinita e assetata. Bevve, si lavò il braccio come

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meglio poté in quell'acqua sconosciuta e sospetta, e si fasciò le ferite conbende ricavate dai propri vestiti. Poi, mentre il sole rosso calava lentamen-te dietro il crinale, si allontanò dal ruscello per ripararsi in un angolo ap-partato fra gli alberi e piombò in un sonno esausto.

Si svegliò sentendo delle braccia attorno a sé, braccia forti che la solle-varono senza sforzo per portarla chissà dove. Lei si dibatté, ma quellebraccia si limitavano a reggerla saldamente e a tenerla ferma.

«Piano» disse una voce pacata, e nella foschia che stava salendo lei in-travide la faccia di un uomo, un viso allungato dall'espressione gentile.«Sei debole e sta calando la notte» disse. «Dobbiamo rientrare prima chefaccia buio.»

Sharra smise di opporre resistenza, benché sapesse che avrebbe dovuto.

Era molto tempo che lottava e si sentiva stanca. Lo guardò, confusa. «Per-ché?» chiese. E poi, senza aspettare una risposta: «Chi sei? Dove mi staiportando?».

«Verso la salvezza» rispose.«A casa tua?» domandò lei, mezzo addormentata.«No» disse l'uomo, con voce così sommessa che Sharra riusciva a stento

a udirla. «No, non è casa mia, ma andrà bene lo stesso.» Lei sentì dei tonfinell'acqua, come se la stesse portando al di là del ruscello, e davanti a loro,

sul crinale, scorse la sagoma desolata, sbilenca, di un castello con tre torristagliarsi nera contro il sole. "Strano" pensò "prima non c'era."

Si addormentò.

Quando si svegliò, lui era lì che la guardava. La ragazza era distesa sottouno strato di soffici, calde coperte, su un letto con tende e baldacchino. Letende però erano state tirate, e il suo ospite sedeva dall'altra parte dellastanza, in una grande poltrona immersa nelle ombre. La luce delle candele

tremolava nei suoi occhi, e le sue mani erano elegantemente intrecciatesotto il mento. «Stai meglio?» chiese l'uomo, senza muoversi.

Lei si mise a sedere e si accorse di essere nuda. Rapida come il sospetto,più veloce del pensiero, la sua mano andò alla testa. Ma la corona scura eraancora lì, al suo posto, intatta, il freddo del metallo contro la fronte. Si ri-lassò, sprofondando nei cuscini e tirò su le coltri per coprirsi. «Molto me-glio» rispose, e nel dirlo si rese conto che le ferite erano sparite.

L'uomo le sorrise, un sorriso triste e malinconico. Aveva un viso espres-

sivo, capelli colore del carbone che si arricciavano in soffici boccoli e ri-cadevano sugli occhi scuri, un po' più grandi del normale. Anche da sedu-

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to, si vedeva che era alto e magro. Indossava un abito e una cappa di mor-bida pelle grigia, e sopra la malinconia come mantello. «Segni di artigli sulbraccio» disse sorridendo meditabondo «e i vestiti lacerati sulla schiena.C'è qualcuno cui non vai a genio.»

«Qualcosa» precisò Sharra. «Un guardiano della soglia» e sospirò. «C'èsempre un guardiano a ogni portale. I Sette non vogliono che ci spostiamoda un mondo all'altro. E non mi hanno in particolare simpatia.»

Le mani dell'uomo si sciolsero da sotto il mento, per andarsi a posare suibraccioli di legno intarsiato della poltrona. Annuì, sempre con il suo ma-linconico sorriso. «Dunque, conosci i Sette e anche i portali» replicò, men-tre gli occhi si spostavano sulla fronte della ragazza. «Certo, la corona. A-vrei dovuto immaginarlo.»

Sharra gli sorrise. «Non lo hai immaginato, lo sapevi. E tu chi sei? Inche mondo siamo?»

«Nel mio mondo» rispose lui pacatamente. «Gli ho cambiato nome millevolte, ma non ho ancora trovato quello giusto. Una volta ce n'era uno chemi piaceva, che andava bene, ma l'ho dimenticato. È stato tanto tempo fa.Io mi chiamo Laren Dorr, ossia questo un tempo era il mio nome, quandomi serviva averlo. Adesso, qui, sembra un po' sciocco, ma almeno non l'hoscordato.»

«Il tuo mondo» ripeté Sharra. «Allora sei un re? Un dio?»«Sì» replicò Laren Dorr, con una risata disinvolta. «E non solo: io sono

qualsiasi cosa voglio essere. Non c'è nessuno qui intorno a contestarmi.»«Che cosa hai fatto alle mie ferite?» chiese lei.«Le ho guarite» rispose stringendosi nelle spalle come per scusarsi. «È il

mio mondo, ho dei poteri; forse non quelli che vorrei, ma sono comunquedei poteri.»

«Oh» fece Sharra, ma non sembrava convinta.

Laren agitò una mano con impazienza. «Pensi che sia impossibile. Cer-to, la tua corona. Be', è una mezza verità. Non potrei nuocerti con i miei...mmm, poteri, mentre la indossi, però posso aiutarti.» Sorrise di nuovo, e ilsuo sguardo si fece più dolce e trasognato. «Ma non importa, anche se po-tessi non ti farei mai del male, Sharra. Credimi. È passato così tanto tem-po.»

Sharra lo guardò allarmata. «Come fai a conoscere il mio nome?»L'uomo si alzò sorridendo e attraversò la stanza per sedersi accanto a lei;

poi le prese una mano prima di rispondere, stringendola delicatamente nel-la sua e carezzandola con il pollice. «Sì, so come ti chiami. Sei Sharra, che

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passa da un mondo all'altro. Secoli fa, quando le colline avevano un'altraforma e il sole viola ardeva scarlatto all'inizio del suo ciclo, vennero da mee mi annunciarono il tuo arrivo. Odiavo i Sette, e li odierò sempre, maquella notte accolsi con gioia la visione che mi avevano donato. Mi disserosoltanto il tuo nome, e che saresti arrivata qui, nel mio mondo. E un'altracosa, ma questo era più che sufficiente. Era una promessa, la promessa diuna fine o di un inizio, di un cambiamento; e qualsiasi cambiamento è gra-dito in questo mondo. Sono stato solo per mille cicli solari, Sharra, e ogniciclo dura secoli. Qui pochi eventi scandiscono il passare del tempo.»

Sharra, accigliata, scosse i lunghi capelli neri e la fioca luce della cande-la fece risplendere le ciocche rosse. «Mi precedono, dunque, di così tan-to?» chiese. «Conoscono il futuro?» aggiunse poi in tono preoccupato, e lo

guardò. «E l'altra cosa che ti hanno detto?»Lui le strinse più forte la mano, con grande delicatezza. «Mi hanno detto

che ti avrei amata» rispose Laren. La sua voce continuava a suonare triste.«Ma non era granché come profezia, avrei potuto farla anch'io. Tanto tem-po fa - penso che allora il sole fosse giallo - mi resi conto che avrei amatoqualsiasi voce che non fosse l'eco della mia.»

Sharra si svegliò all'alba, quando raggi di luce rosso porpora filtrarononella stanza attraverso un'alta finestra ad arco che la notte prima non c'era.

Erano stati preparati dei vestiti per lei: un'ampia tunica gialla, un abitocremisi ornato di pietre preziose, un completo verde bosco. Scelse quelloverde, e si vestì rapidamente. Prima di uscire, si fermò a guardare fuoridalla finestra.

Era in una torre che dava sui bastioni di pietra in rovina e su un polvero-so cortile triangolare. Agli altri due angoli del cortile si ergevano due torricilindriche a torciglione che ricordavano dei fiammiferi, con la punta a co-no. C'era un forte vento che sferzava le file di stendardi grigi allineati lun-

go i muri, ma oltre a questo non vide alcun movimento.Al di là delle mura del castello, nessuna traccia della valle. Il castello

con il suo cortile e le torri ritorte si trovava sulla sommità di una monta-gna, e in lontananza, in tutte le direzioni, si profilavano cime più alte, of-frendo un panorama di scarpate di pietre nere, pareti rocciose frastagliate eguglie di ghiaccio luccicanti dai riflessi violacei. La finestra era chiusa esenza spifferi, ma il vento dava l'impressione di essere freddo.

La porta della camera era aperta. Sharra scese di corsa una scalinata di

pietra ricurva, attraversò il cortile ed entrò nell'edificio principale, una bas-sa struttura di legno a ridosso del muro. Oltrepassò innumerevoli stanze,

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alcune fredde e vuote, a parte la polvere, e altre riccamente arredate, primadi trovare Laren Dorr, che stava facendo colazione.

C'era un posto vuoto accanto a lui; la tavola era stracolma di cibi e be-vande. Sharra si sedette e prese un biscotto caldo, sorridendo senza volere.Laren ricambiò il suo sorriso.

«Oggi me ne vado» disse lei, tra un morso e l'altro. «Mi dispiace, Laren.Devo trovare il portale.»

Dorr aveva l'espressione di disperata malinconia che non l'avrebbe ab-bandonato mai. «Lo dicevi anche stanotte» replicò con un sospiro. «Aquanto pare, ho aspettato invano.»

C'erano carne, vari tipi di biscotti, frutta, formaggio, latte. Sharra siriempì il piatto, un po' rattristata, evitando lo sguardo di Laren. «Mi di-

spiace» ripeté.«Aspetta un po'» disse lui. «Solo un poco. Penso che tu possa. Lascia

che ti mostri quello che posso del mio mondo. Permettimi di cantarti qual-cosa.» I suoi occhi, grandi, scuri e molto stanchi, attendevano una risposta.

Lei esitò. «Be'... ci vuole tempo per trovare il portale.»«Resta con me almeno per quel tempo.»«Ma, Laren, prima o poi dovrò andare. Ho fatto delle promesse, capi-

sci?»

Lui sorrise stringendosi nelle spalle, scoraggiato. «Sì, ma ascolta: io sodov'è il portale. Te lo posso indicare, senza che tu debba cercare. Resta conme, diciamo, un mese, secondo il tuo modo di misurare il tempo. Poi ticondurrò al portale.» Scrutò Sharra. «Hai cercato per così tanto tempo, for-se dovresti riposare.»

La ragazza mangiò lentamente un frutto, pensierosa, lanciando di tantoin tanto un'occhiata a Laren. «Forse è vero» dichiarò alla fine, soppesandole parole. «Naturalmente ci sarà un guardiano. E tu mi potresti aiutare, al-

lora. Un mese... non è tanto. In altri mondi mi sono fermata di più.» Quindifece cenno di sì con la testa, e pian piano un sorriso le illuminò il viso.«Sì» disse, continuando ad annuire. «D'accordo.»

Laren le sfiorò la mano. Dopo colazione le mostrò il mondo che gli ave-vano affidato.

Si misero l'uno accanto all'altra su un piccolo balcone in cima alla più al-ta delle tre torri, Sharra in verde scuro e Laren, alto e snello, in grigio. Re-starono fermi, e Laren fece muovere il mondo attorno a loro. Fece volare il

castello sopra mari perennemente agitati, dove lunghe teste nere di serpen-te sbucavano dall'acqua per guardarli passare; lo trasportò in una grande

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caverna sotterranea piena di echi, illuminata da una verde luce soffusa, constalattiti gocciolanti che scendevano a sfiorare torri e le greggi belanti dicapre di un bianco accecante al di là dei bastioni. Laren batté le mani e sor-rise, e una giungla avvolta da un denso vapore li circondò, con alberi che siarrampicavano l'uno sull'altro formando scale di caucciù che salivano finoal cielo, giganteschi fiori di una decina di colori diversi, scimmie con lezanne che emettevano i loro strilli dalle mura. Batté di nuovo le mani, lemura sparirono, e improvvisamente la polvere del cortile era diventatasabbia: si trovavano su una spiaggia sconfinata lambita da un oceano tristee grigio, dove l'unico movimento visibile era il lento roteare sopra le loroteste di un grande uccello blu dalle ali di carta velina. Le mostrò questo emolto altro ancora, e alla fine, quando in un posto dopo l'altro sembrò in-

combere il crepuscolo, la riportò sul crinale sopra la valle. E Sharra guardògiù la foresta di alberi con la corteccia nera dove lui l'aveva trovata, e udìgli uccelli del lutto lamentarsi e piangere tra le foglie trasparenti.

«Non è un brutto mondo» disse, voltandosi verso di lui sul piccolo bal-cone.

«No, non è male» convenne Laren, con una mano sulla fredda balaustradi pietra e gli occhi puntati sulla valle sottostante. «Una volta l'ho esplora-to a piedi, armato di spada e bastone da passeggio. C'era molta gioia, una

vera eccitazione, un nuovo mistero dietro ogni collina.» Fece una risatina.«Ma anche questo è successo tantissimo tempo fa. Adesso so che cosa c'èdietro ogni collina: l'ennesimo vuoto orizzonte.»

Laren la guardò, stringendosi nelle spalle nel suo abituale gesto di rasse-gnazione.

«Suppongo che esistano inferni peggiori: questo è il mio» aggiunse.«Vieni con me, allora» propose Sharra. «Cerca il portale insieme a me e

lascia tutto. Ci sono altri mondi, forse meno insoliti e non altrettanto belli,

però non sarai solo.»Laren alzò di nuovo le spalle. «Lo fai sembrare così facile» disse in tono

apatico. «Conosco il portale, Sharra. Ci ho provato migliaia di volte. Ilguardiano non mi ferma. Lo attraverso, do un'occhiata in un altro mondo edi colpo mi ritrovo di nuovo in questo cortile. No, non mi è possibile anda-re via.»

Lei gli prese le mani tra le sue. «Che tristezza. Stare così tanto tempo dasolo. Devi avere un carattere molto forte, Laren. Io dopo qualche anno sa-

rei impazzita.»L'uomo rise, con un po' di amarezza. «Oh, Sharra, sono impazzito mi-

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gliaia di volte. Mi curano, amore, mi curano sempre.» Un'altra alzata dispalle, poi la circondò con il braccio. Il vento era freddo e soffiava semprepiù forte. «Vieni» le disse. «Dobbiamo rientrare prima che faccia buio.»

Salirono nella torre dove c'era la camera della ragazza, si sedettero tutti edue sul letto e Laren portò del cibo: carne alla brace, nera fuori e rossadentro, pane caldo e vino. Mangiarono e chiacchierarono.

«Perché sei qui?» chiese Sharra, tra un boccone e l'altro, annaffiando leparole con il vino. «In che modo li hai offesi? Chi eri, prima?»

«Lo ricordo a stento, tranne che nei sogni» rispose lui. «E i sogni... èpassato così tanto tempo, non riesco più nemmeno a distinguere quelli veridalle visioni frutto della mia follia.» E sospirò. «A volte sogno che ero unre, un grande re in un mondo diverso da questo; il mio delitto era stato aver

reso felici i miei sudditi, e nella felicità questi si rivoltarono contro i Sette,e i templi caddero in disuso. Un giorno mi svegliai nella mia stanza, nelmio castello, e mi accorsi che i servi erano spariti e, quando uscii, anche ilmio popolo e il mio mondo non c'erano più, e neppure la donna che dor-miva al mio fianco.

«Ma ci sono anche altri sogni. Spesso ricordo vagamente che ero un dio,anzi un semidio. Avevo dei poteri, e conoscenze diverse da quelle dei Set-te. Mi temevano, perché ero un degno avversario per ognuno di loro, e af-

frontandoli a uno a uno avrei vinto, ma non ero abbastanza potente per in-contrarli tutti e sette insieme, e fu ciò che mi costrinsero a fare. Poi mi tol-sero quasi tutto il mio potere e mi abbandonarono qui. Fu una crudele iro-nia: come dio avevo insegnato che ci si deve aiutare a vicenda, che si pos-sono allontanare le tenebre amando, ridendo e parlando, e così i Sette miprivarono di tutto questo.

«Ma c'è di peggio, perché ci sono anche momenti in cui penso di averesempre vissuto qui, di essere nato qui un'eternità di tempo fa. E questi sono

ricordi falsi, mandati per farmi soffrire ancora di più.»Mentre lui parlava, Sharra lo guardava. Laren teneva gli occhi puntati

verso il lontano orizzonte, pieni di una nebbia di sogni e rimembranzesbiadite. Parlava molto lentamente e anche la sua voce ricordava la nebbia:scorreva, si addensava, nascondeva, e sapevi che c'erano misteri e cose lìdietro, però impercettibili e lontani dalle luci, che tu non avresti mai visto.

Laren si fermò, e i suoi occhi si rianimarono. «Ah, Sharra» esclamò.«Stai attenta a come ti muovi. Neppure la tua corona ti sarà d'aiuto se do-

vessero schierarsi contro di te. E il pallido fanciullo Bakkalon ti farà a pez-zi, Naa-Slas si nutrirà del tuo patimento e Saagael della tua anima.»

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Lei rabbrividì e tagliò un altro boccone di carne, ma la sentì fredda e du-ra in bocca, e di colpo si rese conto che le candele si erano lentamente con-sumate. Da quanto tempo lo stava ascoltando?

«Aspetta» disse Laren, si alzò e uscì dalla porta che si apriva dove primac'era la finestra. Adesso non c'era più, solo pietra grigia irregolare; al cala-re degli ultimi raggi di sole tutte le finestre si erano trasformate in solidaroccia. Laren ritornò poco dopo, con uno strumento musicale di legno neroscuro che emanava tenui bagliori, appeso al collo con una cinghia di cuoio.Sharra non aveva mai visto niente di simile. Aveva sedici corde, ognuna didifferente colore, e barre di luce risplendente intarsiate nel lucido legno pertutta la sua lunghezza. Laren si sedette e appoggiò la base dello strumentosul pavimento: la parte superiore superava di poco la sua spalla. Lo acca-

rezzò delicatamente, concentrato; le luci si accesero e di colpo la stanza fupiena di una musica effimera.

«Il mio compagno» disse Laren sorridendo. Lo sfiorò ancora, e la musi-ca sorse e morì, le ultime note senza una melodia. Poi accarezzò le barre diluce e tutta l'aria scintillò e cambiò colore. Laren cominciò a cantare.

 Io sono il signore della solitudine,

vuoto è il mio regno... 

... Le prime parole si diffusero, nel canto dolce e lento della voce calda,distante e nebbiosa di Laren. Il resto della canzone... Sharra ascoltò ogniparola, cercando di ricordarsene, ma poi le dimenticò. La sfiorarono, la ca-rezzarono, e si dileguarono di nuovo nella foschia: andavano e venivanocosì rapidamente che non riusciva a fissarle. Insieme alle parole, anche lamusica; triste, malinconica e piena di segreti, la attirava, piangendo, sus-surrando promesse di mille storie sconosciute. Nella stanza le candele bru-

ciavano più vivide, e palle di luce si formavano e danzavano, fluttuandoinsieme, finché l'aria fu satura di colori.

Parole, musica, luce: Laren Dorr intrecciò tutto insieme creando per leiuna visione.

Lo vide come lui vedeva se stesso nei sogni: un re, alto, forte e fiero, coni capelli neri come i suoi e gli occhi vivaci. Gli abiti erano di un biancoabbagliante: pantaloni aderenti, camicia con maniche a sbuffo e un grandemantello che ondeggiava e si increspava al vento come un foglio di neve

compatta. Sulla sua fronte sfavillava una corona d'argento, e una piccolaspada dritta gli luccicava al fianco. Questo Laren più giovane, questa vi-

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sione onirica, si muoveva senza malinconia su uno sfondo di dolci minaretiavorio e languidi canali azzurri. E tutto un mondo si muoveva attorno a lui:amici e amanti, e una donna speciale che Laren dipinse con parole e luci difuoco, e c'era un'infinità di bei giorni e di risate.

Poi, di colpo, l'oscurità. Lui era di nuovo lì.La musica diventò un lamento, le luci si affievolirono, le parole diventa-

rono più tristi e perdute. Sharra assistette al risveglio di Laren in un castel-lo a lui familiare, ora deserto; lo vide cercare di stanza in stanza, e uscireall'esterno ad affrontare un mondo che non aveva mai visto prima. Lo videlasciare il castello, incamminarsi verso le nebbie di un orizzonte lontano,nella speranza che quella caligine fosse fumo. Camminò e camminò, e o-gni giorno nuovi orizzonti gli scivolavano sotto i piedi, e il grande sole

cresceva, rosso, arancione e giallo, ma il mondo di Laren continuava a es-sere vuoto. Andò in tutti i posti che le aveva mostrato, e in altri ancora, ealla fine, sempre sperduto, desiderò tornare a casa, e il castello andò da lui.

Nel frattempo il bianco dei suoi abiti si era trasformato in grigio. E lacanzone continuò. Passarono giorni, anni, secoli, e Laren diventò semprepiù stanco e folle, però non vecchio. Il sole brillava verde e viola, e di unbiancazzurro duro e spietato, ma a ogni ciclo nel suo mondo c'era menocolore. Di questo cantò Laren, e dei giorni e delle notti infiniti e vuoti,

quando la musica e i ricordi erano la sua unica ancora di salvezza. Attra-verso le sue canzoni, anche Sharra vide e sentì.

Quando la visione svanì, la musica cessò, la voce calda per l'ultima voltasi dileguò e Laren si fermò, sorrise e la guardò, Sharra stava tremando.

«Grazie» le disse dolcemente, stringendosi nelle spalle. Prese il suostrumento e la lasciò per la notte.

Il giorno dopo, l'alba fu fredda e nuvolosa, ma Laren la portò a caccianella foresta. La loro preda era un animale bianco e magro, a metà fra un

gatto e una gazzella: troppo veloce per poterlo catturare facilmente e trop-po adulto per poterlo uccidere. A Sharra non importava: cacciare era me-glio che uccidere. Provava una gioia insolita e sorprendente in quella corsanella scura foresta, reggendo un arco che non usò mai e portando una fare-tra con frecce di legno nero ricavate dagli stessi alberi cupi attorno a loro.Erano tutti e due avvolti in pellicce grigie e Laren le sorrideva da sotto ilcappuccio ricavato dalla testa di un lupo. Le foglie, chiare e fragili comevetro, scricchiolavano sotto gli stivali e si scheggiavano mentre loro corre-

vano.Poi, senza aver sparso sangue ma esausti, tornarono al castello e Laren

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imbandì un grande festino nella sala da pranzo principale. Si sorrisero l'unl'altra dalle opposte estremità del tavolo lungo quindici metri; Sharra guar-dò le nuvole scorrere dietro la testa di Laren e poi la finestra diventare pie-tra.

«Perché fa così?» chiese la ragazza. «E perché tu non esci mai la notte?»Laren si strinse nelle spalle. «Be', ho le mie ragioni. Le notti non sono,

diciamo, buone da queste parti.» Bevve un sorso di vino caldo speziato dauna grande coppa tempestata di pietre preziose. «Dimmi un po', Sharra, ilmondo da cui vieni, quello da cui sei partita, ha le stelle?»

Lei fece cenno di sì con la testa. «Sì, è passato molto tempo, però lo ri-cordo ancora. Le notti erano buie e nere, e le stelle erano piccoli puntiniluminosi, fredde, dure e lontane. A volte potevi riconoscere delle forme;

gli uomini del mio mondo, da ragazzi, davano dei nomi a quelle forme enarravano storie fantastiche su di esse.»

Laren annuì. «Penso che il tuo mondo mi sarebbe piaciuto» disse. «An-che il mio era più o meno così, ma le nostre stelle avevano mille colori e simuovevano nella notte come lanterne fantasma. A volte si avvolgevano insottili velature per attenuare il loro splendore. E così le nostre notti eranotutto un alternarsi di luci tremolanti e sfavillìi. Spesso, allo spuntare dellestelle, andavo in barca con la donna che amavo. Così potevamo ammirarle

insieme. Ed era un buon momento per cantare.» La sua voce esprimeva dinuovo una grande tristezza.

L'oscurità era penetrata nella stanza, insieme al silenzio; il cibo era di-ventato freddo e Sharra riusciva a malapena a distinguere il viso di Laren aquella distanza. Allora si alzò e si avvicinò a lui, sedendosi con disinvoltu-ra sul grande tavolo, accanto alla sua sedia. Laren annuì e sorrise, e di col-po arrivò una folata di vento, e tutte le torce alle pareti arsero di una vitaimprovvisa nella lunga sala da pranzo. Le versò altro vino, e le dita di

Sharra indugiarono sulle sue quando prese il bicchiere.«Anche noi facevamo così» disse la ragazza. «Se il vento era abbastanza

caldo e gli altri erano lontani, Kaydar e io amavamo sdraiarci insiemeall'aperto.» Esitante lo guardò.

Gli occhi di Laren la scrutavano. «Kaydar?»«Ti sarebbe piaciuto, e penso che anche tu saresti piaciuto a lui. Era alto,

con i capelli rossi e aveva il fuoco negli occhi. Kaydar aveva dei poteri,come me, ma i suoi erano superiori. E aveva una tale forza di volontà. Lo

presero una notte, non lo uccisero, lo portarono solo via da me e dal nostromondo. Lo sto cercando da allora. Conosco i portali, indosso la corona

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scura e non mi fermeranno facilmente.»Laren bevve un sorso di vino e guardò la luce delle fiaccole riflessa sulla

coppa. «Esistono infiniti mondi, Sharra.»«Ho tutto il tempo che occorre. Io non ho età, Laren, come te, del resto.

Lo troverò.»«Lo ami così tanto?»Sharra bloccò un sorriso appassionato, tremulo e perduto. «Sì, tantissi-

mo» disse, e anche la sua voce sembrò perdersi nel ricordo. «Mi ha resofelice. Siamo stati insieme poco, ma mi ha reso felice. Questo i Sette nonpossono togliermelo. Era una gioia anche solo vederlo, sentire le sue brac-cia intorno a me e guardare il suo modo di sorridere.»

«Ah» fece Laren, e sorrise, lasciando però trapelare uno stato d'animo

molto abbattuto. Il silenzio si fece pesante.Alla fine Sharra si voltò verso di lui. «Ma abbiamo divagato molto dal

punto da cui eravamo partiti. Non mi hai ancora detto perché le tue finestresi chiudono da sole la notte.»

«Arrivi da molto lontano, Sharra, e hai attraversato numerosi mondi. Haimai visto mondi senza stelle?»

«Sì, Laren, tanti. Ho visto un universo dove il sole è un tizzone incande-scente con un unico mondo, e di notte i cieli sono grandi e vuoti. Ho visto

la terra dei burloni accigliati, dove non esiste cielo e sibilanti soli brucianosotto l'oceano. Ho attraversato le brughiere di Carradyne e ho visto strego-ni neri accendere un arcobaleno per illuminare quella terra senza sole.»

«Questo mondo è privo di stelle» disse Laren.«E ti spaventa così tanto che ti chiudi dentro?»«No, ma al posto delle stelle c'è qualcos'altro.» La guardò. «Lo vuoi ve-

dere?»Lei annuì.

Di colpo, così come si erano accese, le torce si spensero. La stanza fusommersa dall'oscurità, e Sharra scivolò sul tavolo per guardare oltre laspalla di Laren. Lui non si mosse, ma le pietre che avevano sostituito la fi-nestra si dissolsero in polvere e la luce filtrò dall'esterno.

Il cielo era nerissimo, ma lei riusciva a vedere distintamente, perché nel-le tenebre c'era qualcosa che si muoveva. Emanava luce, e la terra del cor-tile, le pietre dei bastioni e il grigio degli stendardi riflettevano il suo ba-gliore. Perplessa, Sharra guardò in alto.

Qualcosa lassù guardò lei. Era più grande delle montagne e occupavametà del cielo e, anche se faceva abbastanza luce per vedere il castello,

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Sharra sapeva che era più buio del buio. Aveva una forma grosso modoumana, indossava un lungo mantello e un cappuccio, sotto cui l'oscuritàera ancora più accentuata. Gli unici suoni erano il respiro leggero di Laren,il battere del proprio cuore e il lontano lamento di un uccello del lutto, tut-tavia Sharra udiva una risata satanica riecheggiarle nella testa.

La forma nel cielo guardò giù verso di lei, dentro di lei, e Sharra sentìnell'anima quella fredda oscurità. Congelata, non riusciva a muovere gliocchi, ma la figura si spostò, si voltò, sollevò una mano, e allora apparvequalcos'altro lassù al suo fianco, una minuscola sagoma umana con occhidi fuoco che si contorceva, urlava e la chiamava.

Sharra emise un grido acuto e distolse gli occhi. Quando guardò di nuo-vo, la finestra non c'era più. Solo un muro di solida pietra e una fila di tor-

ce accese, e Laren che la teneva tra le sue forti braccia.«Era solo una visione.» La strinse a sé, carezzandole i capelli. «Un tem-

po la notte mi mettevo alla prova» disse, più a se stesso che a lei. «Ma nonce n'era bisogno. Lassù i Sette fanno a turno per guardarmi, uno alla volta.Li ho visti fin troppo spesso, ardenti di luce nera contro il buio vuoto delcielo, tenere prigioniere le persone che amavo. Adesso non guardo più.Resto in casa e canto, e le mie finestre sono fatte di pietra-notte.»

«Mi sento... sporca» disse lei, ancora un po' tremante.

«Vieni di sopra, c'è dell'acqua, così puoi lavare via il gelo. E io canteròper te.» La prese per mano e la guidò alla stanza in cima alla torre.

Sharra fece un bagno caldo, mentre Laren preparava lo strumento e loaccordava nella camera da letto. Era pronto, quando lei arrivò, avvolta dal-la testa ai piedi in un grande e soffice asciugamano marrone. Sharra sedettesul letto, frizionandosi i capelli e aspettando.

Laren fece apparire per lei delle visioni.Questa volta cantò un altro sogno, quello in cui era un dio e nemico dei

Sette. La musica era martellante, accompagnata da lampi e tremiti di pau-ra, e le luci si fusero insieme a formare un campo di battaglia scarlatto, do-ve un Laren bianco accecante lottava contro le ombre e le figure dell'incu-bo. Erano sette, formavano un cerchio intorno a lui e attaccavano a turnocolpendolo con lance di un nero assoluto, e Laren rispondeva con fuoco etempesta. Ma alla fine loro ebbero la meglio. La luce scemò e la musica sifece più morbida e di nuovo triste, e l'immagine si offuscò mentre scorre-vano come un lampo secoli di sogni solitari.

Quando le ultime note finirono di riecheggiare nell'aria e i bagliori sbia-dirono, Laren ricominciò. Questa volta era una canzone nuova, che non

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conosceva bene. Le sue dita, sottili e aggraziate, esitavano e tornarono in-dietro più volte, e anche la voce era incerta, perché componeva al momen-to parte del testo. Sharra sapeva perché: stava cantando di lei, era la ballatadella sua avventura. Parlava di un amore ardente e di una ricerca senza fi-ne, di mondi oltre i mondi, di corone scure e guardiani in attesa che lottanocon artigli, inganni e bugie. Prese tutte le parole che lei aveva pronunciatoe le usò, trasformandole. Nella camera da letto si formarono panoramisplendenti dove caldi soli bianchi bruciavano sotto oceani perenni sibilan-do in nuvole di vapore, e uomini antichi fuori dal tempo accendevano ar-cobaleni per scacciare le tenebre. Cantò di Kaydar, e lo cantò com'era dav-vero, seppe catturare ed estrarre quel fuoco che era stato l'amore di Sharrae glielo fece provare di nuovo.

Ma la canzone si chiuse con una domanda, il finale indugiava nell'aria,continuando a riecheggiare. Entrambi avrebbero voluto riposare, ma sape-vano che per il momento non c'era requie.

Sharra piangeva. «Ora tocca a me, Laren» disse, e poi aggiunse: «Grazieper avermi ridato Kaydar».

«Era solo una canzone» rispose, stringendosi nelle spalle. «È da tantotempo che non avevo una canzone nuova da cantare.»

E ancora una volta la lasciò, sfiorandole con delicatezza la guancia sulla

soglia, mentre lei era in piedi avvolta nell'asciugamano. Quando fu uscitoSharra chiuse a chiave la porta e passò da una candela all'altra, trasfor-mando con un soffio la luce in oscurità. Poi lanciò l'asciugamano sulla pol-trona e si infilò sotto le coperte, aspettando a lungo prima di scivolare nelsonno.

Era ancora buio quando si svegliò, senza sapere perché. Aprì gli occhitranquilla, si guardò intorno nella stanza, ma non c'era niente di nuovo.Oppure sì?

Poi lo vide, seduto nella poltrona dall'altra parte della stanza con le maniintrecciate sotto il mento, come la prima volta. Gli occhi dell'uomo eranocalmi e immobili, molto aperti e scuri in una stanza piena della notte. Pa-reva molto tranquillo. «Laren?» chiamò piano, ancora incerta se quellaforma scura fosse lui.

«Sì» rispose, ma non si mosse. «Ti ho guardato dormire anche la nottescorsa. Sono stato qui da solo più a lungo di quanto puoi immaginare, eben presto lo sarò di nuovo. Anche quando dormi, la tua presenza è un mi-

racolo.»«Oh, Laren» esclamò lei. Ci fu un silenzio, una pausa, un soppesare e

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una conversazione muta. Poi lei scostò la coperta, e Laren la raggiunse.

Entrambi avevano visto avvicendarsi i secoli. Un mese, un attimo eranopiù o meno la stessa cosa.

Dormirono insieme ogni notte, e ogni notte Laren cantava le sue canzonimentre Sharra ascoltava. Conversarono durante le ore buie, e di giornonuotarono nudi in acque cristalline che catturavano la gloria purpurea delcielo. Fecero l'amore su spiagge bianche di sabbia fine, e parlarono moltodell'amore.

Ma niente cambiò. E alla fine il tempo si avvicinò. Alla vigilia della not-te prima del giorno che sarebbe stato l'ultimo, al crepuscolo, camminaronoinsieme nella foresta scura dove lui l'aveva trovata.

Laren, in quel mese con Sharra, aveva imparato a ridere, ma adesso siera fatto di nuovo silenzioso. Camminava piano, tenendola stretta per ma-no, e il suo umore era più grigio della morbida camicia di seta che indos-sava. Alla fine, in riva al ruscello che scorreva nella valle, sedette e la tiròvicino a sé. Si tolsero gli stivali e lasciarono che l'acqua rinfrescasse i loropiedi. Era una serata calda, con un vento solitario e agitato e si comincia-vano già a sentire i primi uccelli del lutto.

«Devi andare» le disse, tenendole ancora la mano senza però guardarla

negli occhi. Non era una domanda, ma un'affermazione.«Sì» rispose la ragazza. La malinconia aveva contagiato anche lei, e c'e-

rano note plumbee nella sua voce.«Tutte le parole mi hanno abbandonato, Sharra» disse Laren. «Se potessi

cantarti una visione, lo farei. La visione di un mondo un tempo vuoto,riempito da noi e dai nostri figli. Potrei offrirtelo. Il mio mondo possiedeabbastanza bellezza, meraviglia e mistero, se solo ci fossero occhi per ve-derli. E se le notti sono abitate da demoni, be', gli uomini hanno già affron-

tato notti buie, su altri mondi in altri tempi. Ti vorrei amare, Sharra, perquanto sono capace. Vorrei provare a renderti felice.»

«Laren...» iniziò, ma lui la zittì con un'occhiata.«No, potrei dire così, ma non voglio. Non ne ho il diritto. Kaydar ti ren-

de felice. Solo un pazzo egoista ti chiederebbe di rinunciare a quella felici-tà per condividere la mia miseria. Kaydar è tutto fuoco e risate, mentre iosono fumo, canzoni e tristezza. Sono stato solo troppo a lungo, Sharra. Ilgrigio adesso fa parte della mia anima, e non vorrei averti rattristato. Eppu-

re...»Lei gli prese una mano tra le sue, la sollevò e la sfiorò con un rapido ba-

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cio. Poi la lasciò andare, e appoggiò la testa sulla sua spalla immobile.«Prova a venire con me, Laren» disse. «Prendi la mia mano quando var-chiamo la soglia, forse la corona scura ti proteggerà.»

«Proverò a fare qualsiasi cosa tu voglia, ma non chiedermi di credereche funzionerà.» Sospirò. «Hai infiniti mondi che ti aspettano, Sharra, enon riesco a vedere la tua fine, ma non è qui. Questo lo so, e forse è megliocosì. Non ho più certezze, se mai ne avevo. Ho un vago ricordo dell'amore,credo che potrei richiamare alla mente a che cosa assomiglia, ma rammen-to che non dura mai. Essendo entrambi immutabili e immortali, come po-tremmo non finire per annoiarci? Allora ci odieremmo? Non voglio chequesto accada.» A quel punto la guardò, con un dolente, malinconico sorri-so. «Penso che tu abbia conosciuto Kaydar solo per poco, per esserne così

innamorata. Forse sono troppo contorto, ma cercando Kaydar, potresti per-derlo. Il fuoco un giorno si estinguerà, amore mio, la magia sparirà, e allo-ra magari ti ricorderai di Laren Dorr.»

Sharra cominciò a piangere, sommessamente.Laren l'attirò a sé, la baciò e le sussurrò dolcemente. «No.» Anche lei lo

baciò, e si strinsero l'un l'altra senza parlare.Quando alla fine il porpora era quasi virato al nero, si rimisero gli stivali

e si alzarono. Laren l'abbracciò e sorrise.

«Devo andare» disse Sharra. «Ma non è facile partire, Laren, credimi.»«Ti credo» rispose lui. «E ti amo proprio perché partirai, perché non

puoi dimenticare Kaydar e non dimenticherai la tua promessa. Tu sei Shar-ra che vaga tra i mondi, e penso che i Sette ti debbano temere molto più diqualsiasi divinità io sia mai stato. Se tu non fossi come sei, non pensereicosì tanto a te.»

«Ah, una volta hai detto che avresti amato qualsiasi voce che non fossestata l'eco della tua.»

Laren si strinse nelle spalle. «Come ho spesso ripetuto, amore mio, que-sto succedeva moltissimo tempo fa.»

Erano tornati al castello prima che facesse buio, per un ultimo pasto,un'ultima notte, un'ultima canzone. Non andarono a dormire quella notte, eLaren cantò per lei quasi fino all'alba. Non era una canzone particolarmen-te bella; una storia sconnessa, su un menestrello errante in un mondo im-precisato, ed era poco interessante anche quello che gli accadeva. Sharranon riusciva ad afferrarne bene il senso e Laren cantava senza partecipa-

zione. Sembrava uno strano addio, ma entrambi erano turbati.Lui la lasciò al sorgere del sole, dicendo che si sarebbe cambiato d'abito

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e l'avrebbe raggiunta nel cortile. E in effetti la stava aspettando quando leiarrivò, e le sorrise, calmo e fiducioso. Era tutto vestito di bianco: pantaloniaderenti, una camicia con le maniche a sbuffo e un pesante mantello cheschioccava e ondeggiava al vento. Ma il sole purpureo lo striava con l'om-bra dei suoi raggi.

Sharra andò verso di lui e gli prese una mano. Era tutta coperta di cuoioresistente e alla cintura portava un coltello, per affrontare il guardiano. Isuoi capelli neri come il giaietto con qualche luccichio rosso e porporasventolavano liberi come il mantello, ma la corona scura era al suo posto.«Addio, Laren» disse. «Avrei voluto darti di più.»

«Mi hai dato abbastanza. In tutti i secoli che verranno, in tutti i cicli so-lari che ci aspettano, mi ricorderò. Misurerò il tempo basandomi su di te,

Sharra. Quando un giorno il sole sorgerà e il suo colore sarà blu come ilfuoco, lo guarderò e dirò: "Questo è il primo sole blu dopo l'arrivo di Shar-ra".»

Lei annuì. «Adesso faccio una nuova promessa. Prima o poi troverò Ka-ydar. E, se riesco a liberarlo, torneremo insieme da te, per opporre la miacorona e i fuochi di Kaydar all'oscurità dei Sette.»

Laren si strinse nelle spalle. «Bene. Se non mi trovi, lasciami un mes-saggio» replicò, e poi sorrise.

«Andiamo al portale. Hai detto che mi avresti mostrato la soglia.»Laren si voltò e indicò la più bassa delle tre torri, una struttura fuliggino-

sa in pietra in cui Sharra non era mai entrata. Alla base c'era una grandeporta di legno. Laren tirò fuori una chiave.

«Qui?» chiese lei, guardandolo esterrefatta. «Nel castello?»«Già» rispose Laren. Attraversarono il cortile, fino alla porta. Laren in-

serì la pesante chiave di metallo e cominciò ad armeggiare con la serratura.Intanto Sharra diede un'ultima occhiata intorno e sentì la tristezza opprime-

re la sua anima. Le altre torri sembravano spoglie e abbandonate, il cortileera trascurato e dietro le alte montagne di ghiaccio c'era solo un orizzontevuoto. Non c'erano altri rumori, a parte quelli che faceva Laren con la ser-ratura, e nessun movimento se non il vento costante che sollevava la pol-vere del cortile e faceva sbattere i sette stendardi grigi allineati lungo ognimuro. Sharra rabbrividì con un senso di solitudine improvvisa.

Laren aprì la porta. Nessuno spazio, solo un muro di nebbia in movi-mento, senza suoni, né luci, né colori. «Il tuo portale, mia signora» annun-

ciò il cantore.Sharra guardò davanti a sé, come aveva fatto tante volte in passato.

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"Quale mondo troverò ad aspettarmi?" si chiese. Non lo sapeva mai, maforse nel prossimo avrebbe rivisto Kaydar.

Sentì la mano di Laren posarsi sulla sua spalla. «Stai esitando» le sussur-rò dolcemente.

La mano di Sharra andò al coltello. «Il guardiano» disse d'un tratto. «C'èsempre un guardiano.» I suoi occhi lanciarono un rapido sguardo al cortile.

Laren sospirò. «Sì, sempre. Certi tentano di farti a pezzi con gli artigli,altri di farti perdere l'orientamento oppure di ingannarti facendoti varcare