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GENIO RURALE V ANNO

AGRARIA AGROALIMENTARE E AGROINDUSTRIA

- La Cartografia - Rilevamento Topografico - Fotogrammetria - I Materiali da Costruzione - Le Fondazioni - Fabbricato Rurale - La Ruralità - Agricoltura ed Energia - Gli Impianti per il Risparmio Energetico

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LA CARTOGRAFIA

INTRODUZIONE La cartografia può essere definita come arte e scienza della rappresentazione del territorio. Citiamo queste due significative definizioni: "La cartografia è la più scientifica delle arti e la più artistica delle scienze" (Paul Theroux). "L'uomo ha sviluppato tre grandi forme di comunicazione: il linguaggio, la musica e la cartografia. Quest'ultima è di gran lunga la forma di comunicazione più antica" ("The Times", 14 ottobre 1992). CHE COS'È LA CARTOGRAFIA? Con il termine cartografia si intende tutto ciò che riguarda la realizzazione e lo studio delle carte geografiche. Per creare una carta sono necessari alcuni requisiti: la capacità di trovare e selezionare le informazioni provenienti da varie fonti della geografia per poi sintetizzarle in un corpo informativo organico e compatto; la capacità di illustrare correttamente il messaggio della carta, che deve risultare chiaro a una gamma di utenti che differiscono profondamente nelle loro capacità di leggere la carta stessa; l'abilità grafica nel trasmettere le informazioni attraverso il ricorso a simboli, a linee e a colori, rendendo semplici i messaggi più complessi e assicurando la piena leggibilità della carta geografica. Le carte geografiche non sono soltanto creazioni artistiche che esaltano le capacità dei loro creatori, ma sono soprattutto documenti di carattere storico e sociologico. Nei paesi più avanzati nell'amministrazione dello stato, come la Francia e la Gran Bretagna, il servizio per il rilevamento topografico ha iniziato a produrre delle carte fin dai primi anni del XIX secolo. Esse oggi permettono di seguire gli sviluppi del territorio attraverso i secoli fino ai nostri giorni: ci raccontano di attività industriali chiuse da tempo e di tracciati ferroviari abbandonati da decenni, di insediamenti noti come borghi e divenuti in seguito città popolose ecc. La cartografia è stata spesso impiegata per rappresentare la realtà territoriale in funzione di certi obiettivi, falsandola per ragioni politiche o di propaganda: così fece il regime nazista per dimostrare la "minaccia" rappresentata per il popolo tedesco dalla Polonia e dagli altri paesi dell'Europa orientale. Così fece l'Unione Sovietica falsando la cartografia ufficiale per meglio tener celati i suoi segreti militari. Altro esempio di uso distorto della cartografia: in passato il ricorso alle carte con la proiezione di Mercatore permise di far apparire esageratamente grandi i possedimenti britannici in Canada rispetto alle colonie francesi che si trovavano in prossimità dell'equatore. Proprio per questa capacità di riflettere intendimenti storici e sociali la

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cartografia è diventata oggetto di studi approfonditi, in quanto offre una valida documentazione sulla vita di una società o di uno stato. La realizzazione di una carta geografica non segue una formula rigida, assoluta. Essa dipende dagli strumenti di cui si dispone, dagli scopi della carta e dalle conoscenze generali del realizzatore. Esistono comunque alcune regole generali che possono guidare chi si avvicina a questa professione. I DIVERSI TIPI DI CARTE La suddivisione più comune è quella tra carte topografiche e carte tematiche. Le prime mostrano parti di superficie terrestre in cui sono inserite anche le opere dell'uomo: generalmente sono indicate le principali vie di trasporto (strade, linee ferroviarie, canali navigabili, sentieri, aeroporti), gli insediamenti umani (villaggi, paesi e città) sullo sfondo dello spazio naturale, rappresentato con i fiumi, le coste, i rilievi. Le carte tematiche sviluppano invece temi specifici come, ad esempio, la geologia di una determinata area. Una ulteriore distinzione viene fatta tra le carte a grande o a piccola scala. Le carte a grande scala dell'Europa e di alcune altre parti del mondo arrivano a mostrare le singole costruzioni sul terreno. Di solito le carte più dettagliate sono quelle delle proprietà agrarie: in Svezia vengono aggiornate dall'inizio del XVIII secolo e normalmente hanno una scala compresa tra 1:500 e 1:5000. Le carte geografiche a piccola scala, come le carte murali che si usano nelle scuole, ammettono delle generalizzazioni. Strade e linee ferroviarie, ad esempio, possono essere deviate rispetto al loro percorso reale per ridurre la confusione, a patto che tutti gli elementi rappresentati vengano indicati nella loro corretta interrelazione. Nei casi estremi (carte di scala 1:1.000.000 o anche più piccole), il risultato è quello di un'illustrazione che offre un buon colpo d'occhio d'insieme ma ben poche informazioni affidabili (ad esempio la distanza tra due punti). Il tipo di proiezione scelta per produrre la carta può incidere in maniera determinante sul risultato. La maggior parte di ciò che è stato prodotto dalla cartografia tradizionale è il risultato di un lavoro compiuto per conto di organismi che fanno parte del servizio pubblico. Praticamente ogni paese ha un proprio servizio cartografico che dipende dallo Stato, il quale provvede alla realizzazione delle carte di base del territorio nazionale: ciò a fini amministrativi, statistici, militari ecc. In Italia l'IGM (Istituto geografico militare) sin dagli anni successivi all'unità ha realizzato il rilevamento del territorio, traducendolo in una serie di tavole alla scala 1:25.0000 (e alla scala 1:200.000). Da queste derivano generalmente tutte le carte che usualmente vengono pubblicate per i più vari scopi. Raramente infatti gli editori privati possono permettersi di produrre carte di interesse nazionale, preferendo concentrarsi su quei settori che per ragioni diverse, di carattere o turistico o imprenditoriale, sono in grado di assicurare una ricca clientela ai loro prodotti.

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STORIA DELLA CARTOGRAFIA Le più antiche carte geografiche di cui abbiamo notizia furono realizzate dai babilonesi intorno al 2300 a.C. Disegnate su supporti di terracotta, consistevano essenzialmente in rilevamenti delle proprietà agricole compiuti allo scopo di tassarle. Carte regionali di maggiore dettaglio e completezza furono invece tracciate sulla seta nella Cina del II secolo a.C. La capacità di realizzare carte geografiche si afferma comunque in diverse parti del mondo antico; straordinaria la particolare mappa realizzata fin dai tempi antichi dagli abitanti delle isole Marshall che, utilizzando una corda di fibra vegetale opportunamente annodata, riuscivano a rappresentare la posizione delle isole nell'oceano. L'arte della cartografia era conosciuta e praticata dai maya e dagli inca, che realizzarono carte dei luoghi conquistati fin dal XII secolo d.C. Il primo tentativo di rappresentare il mondo conosciuto risale al VI a.C. ed è attribuito al filosofo greco Anassimandro. La carta che egli disegnò aveva forma circolare e rappresentava le terre allora conosciute che si estendevano intorno al mare Egeo, a loro volta circondate dai misteriosi oceani. Tra le carte più note della classicità vi è quella attribuita a Eratostene (200 ca. a.C.) che rappresenta il mondo conosciuto, i cui margini erano le Isole britanniche a nord-ovest, il fiume Gange (in India) a est, la Libia a sud. Questa fu la prima carta a essere dotata di linee parallele che indicavano la latitudine, oltre ad alcuni meridiani di longitudine che erano però riportati a distanze irregolari. Intorno al 150 d.C. lo studioso egiziano Tolomeo produsse il suo trattato di geografia, che conteneva alcune carte del mondo. In esse veniva utilizzata per la prima volta una forma di proiezione conica basata sui precetti della matematica, facendo uso di un rudimentale reticolo di meridiani e paralleli; gli errori nella descrizione delle dimensioni dell'Asia sono comunque molti. Con la caduta dell'impero romano (la cui produzione di carte culmina nella cosiddetta Tabula Peutingeriana) l'attività cartografica in Europa subì un quasi totale arresto; rimasero le carte prodotte dai monaci, che avevano come unico scopo quello di mostrare la centralità di Gerusalemme nel mondo e che per questo erano disposti a tradire i principi affermati della geografia scientifica. Ai secoli bui dell'Europa si contrappose la vivace produzione cartografica dei naviganti e dei geografi arabi: nel 1154 il geografo Al-Idrisi produsse una particolare carta del mondo. A partire dal XIII secolo i navigatori cominciarono a realizzare accurate carte marittime, note come portolani, che solitamente non avevano meridiani e paralleli ma che usavano come sistema di riferimento un insieme di linee tratteggiate che indicavano le rotte per raggiungere i principali porti. Nel XV secolo furono nuovamente pubblicate le carte tolemaiche, che per molti secoli successivi avrebbero influenzato in maniera determinante i cartografi europei. Nel 1507 la carta di Martin Waldseemüller fu la prima a riportare con il nome di America (in onore di Amerigo Vespucci) la "nuova" terra scoperta in quegli anni a

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occidente dell'oceano Atlantico. L'opera del cartografo tedesco, realizzata su dodici fogli separati, fu inoltre la prima a distinguere con chiarezza i continenti americano e asiatico. Nel 1570 il fiammingo Abramo Ortelio pubblicò il primo atlante moderno, dal titolo Orbis Terrarum, che conteneva 70 carte, dando vita a una scuola fiamminga di cartografia che realizzerà in seguito carte e atlanti (come quello di Blaeu) apprezzati ancora oggi come capolavori dell'arte cartografica. A questa diedero fondamentali contributi anche diversi cartografi italiani. I grandi sviluppi della cartografia si ebbero nel corso del XVI secolo, quando molti cartografi raccolsero nei loro lavori la grande messe di informazioni che navigatori ed esploratori riportavano dai loro viaggi. Fu comunque Gerardo Mercatore che si elevò al di sopra di tutti i suoi contemporanei, mettendo a punto un tipo di proiezione cartografica che si dimostrò di valore inestimabile per tutti i navigatori del suo secolo e di quelli successivi. Con il passare dei secoli le carte del mondo diventavano via via più precise grazie alla determinazione della latitudine e della longitudine e alle maggiori informazioni sulle dimensioni e sulla forma della terra. Le prime carte a mostrare le variazioni dei campi magnetici suscettibili di interessare la bussola apparvero nella prima metà del XVII secolo, mentre nel 1665 fu prodotta la prima carta geografica che forniva indicazioni sulle correnti oceaniche. Con l'inizio del XVIII secolo tutti i principi scientifici che stanno alla base della cartografia moderna erano stati fissati: gli errori nella rappresentazione cartografica riguardavano ormai solamente le zone inesplorate del mondo e in particolare certe zone interne dei continenti. Nella seconda metà del XVIII secolo alcuni paesi europei iniziarono il rilevamento sistematico del proprio territorio. Nel 1793 fu ultimata la prima carta completa della Francia: misurava circa 11 m di lato ed era di forma quadrata. Gran Bretagna, Spagna, Austria, Svizzera e altri paesi fecero lo stesso negli anni immediatamente successivi. Negli Stati Uniti il primo rilevamento geologico del territorio fu avviato nel 1879 e due anni più tardi il Congresso geografico internazionale propose la realizzazione della carta del mondo in scala 1:1.000.000, un progetto che deve ancora essere completato. Nel XX secolo la tecnica cartografica si è arricchita della fotografia aerea, che fu sviluppata nel corso della prima guerra mondiale e fu utilizzata in maniera sistematica in quella successiva. Nel 1966, il lancio del satellite Pageos e, negli anni Settanta, dei tre satelliti Landsat, rappresentarono una svolta ulteriore per la ricerca cartografica, assicurando carte di altissima precisione di molte zone poco conosciute del mondo. Nonostante tutto restano comunque ancora prive di carte dettagliate importanti porzioni della superficie terrestre. LA NASCITA DELLA NUOVA CARTOGRAFIA La cartografia classica si sviluppò dopo l'invenzione della stampa. Da allora i

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cartografi lavorarono sulla carta. Anteriormente erano stati utilizzati i supporti più diversi, quali le pietre e la ceramica. Nel corso degli ultimi trent'anni, e in particolar modo dal 1990, la situazione della cartografia è cambiata radicalmente. Questo è stato possibile grazie all'introduzione del computer che ha modificato il lavoro di creazione delle carte geografiche. I primi tentativi in questa direzione furono fatti dai meteorologi in Svezia, Gran Bretagna e Stati Uniti, ma il grande balzo nella nuova tecnologia fu compiuto tra il 1968 e il 1973 dall'Unità sperimentale di cartografia, in Gran Bretagna, e dai cartografi dell'Università di Harvard. Da allora l'arte e la tecnica di realizzazione delle carte geografiche e topografiche ha subito alcuni cambiamenti irreversibili. Innanzitutto le carte vengono ora realizzate sulla base delle informazioni contenute in un database. Esse sono dei sottoprodotti del database. Il computer non viene più utilizzato solamente per automatizzare le tecniche descrittive dei cartografi ma è diventato lo strumento di valutazione della qualità dei dati, l'elemento che fonde i dati tra loro e ne valuta la compatibilità; viene utilizzato sia dal ricercatore che cerca fonti e materiali interessanti ai fini del lavoro, sia dal cartografo e dal grafico, che riproducono i dati raccolti. Il Servizio di rilevamento, come quello in funzione in Gran Bretagna e altri paesi, consente, attraverso lo schermo di un computer, di crearsi la propria carta geografica selezionando l'area di interesse. Essa viene poi stampata su carta; il tipo e la quantità di informazioni che saranno contenute in questa carta "fai da te" dipenderanno dall'utente, che ne potrà scegliere anche la scala in un ambito compreso tra 1:100 e 1:5000. Le informazioni e i programmi per realizzare delle carte geografiche sono sempre più accessibili e, grazie a questo, non vi sono mai state tante carte geografiche in circolazione come in questi anni. Grazie alle nuove tecnologie informatiche oggi la distorsione geometrica delle fotografie aeree e satellitari, che sono di particolare utilità in zone di difficile accesso come estuari e paludi, può essere rimossa ricorrendo al computer. I SISTEMI INFORMATIVI GEOGRAFICI (GIS) Fino al 1985 la divisione dei ruoli e delle professionalità nel settore della mappatura topografica erano chiari e inequivocabili. I geodeti si occupavano delle prove strumentali e analizzavano i risultati che permettevano di definire con sempre maggior esattezza la forma dell'area studiata. Da queste prime informazioni i topografi, operando sul terreno, iniziavano a colmare gli spazi bianchi con i dettagli, lavoro che in alternativa poteva essere compiuto dai fotogrammetristi anche ricorrendo alla fotografia aerea. Nel corso degli ultimi dieci anni la situazione è però radicalmente cambiata. Gran parte delle professionalità legate alla cartografia è stata eliminata dall'introduzione dei sistemi satellitari del tipo Global Positioning System. I ricercatori hanno la

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possibilità di utilizzare programmi informatici che permettono loro di produrre carte che, per eleganza e leggibilità, competono con quelle realizzate con sistemi tradizionali. D'altra parte è sbagliato pensare di trovarsi di fonte a un settore in declino. La diffusione dell'uso dei computer ha portato allo sviluppo di una nuova serie di strumenti di studio che collettivamente vengono chiamati Sistemi informativi geografici, noti con l'acronimo inglese GIS (Geographic Information System). Il primo di questi sistemi fu costruito in Canada nel 1965 per realizzare l'inventario della fauna e della flora del paese. Oggi ve ne sono decine di migliaia in tutto il mondo. I GIS assicurano poi un altro grande vantaggio: sono infatti gli unici strumenti capaci di intrecciare le informazioni raccolte da diverse organizzazioni di ricerca. Queste possono ad esempio compiere valutazioni sulla produttività agricola di una determinata regione e accantonare i dati raccolti: grazie al GIS milioni di dati possono essere comparati automaticamente con quelli raccolti da un'altra società, per ragioni completamente diverse, sulla medesima area di interesse. In che modo queste nuove tecnologie possono incidere sulla scienza della cartografia? L’ipotesi, prospettata da alcuni, che le nuove tecnologie per la trasmissione delle informazioni geografiche possano cancellare il ricorso alle carte non ha fondamento. Sono infatti due strumenti che convivono e si alimentano reciprocamente perché, se è vero che il supporto cartaceo non è in grado di contenere la complessità delle informazioni di un sistema GIS, d'altra parte questo non è in grado di rappresentare con la chiarezza e l'immediatezza di una carta topografica le variazioni qualitative e quantitative che si verificano sul territorio. Lo sviluppo combinato del GIS e della più recente tecnica cartografica basata sui computer sta provocando una rapida espansione dell'uso delle carte che, come si capisce, non hanno più molto a che spartire con le carte geografiche tradizionali. LE CARTE GEOGRAFICHE INTRODUZIONE Carta geografica Rappresentazione grafica di una sezione della superficie terrestre, ottenuta riproducendo in due dimensioni gli elementi caratterizzanti la superficie stessa. Tali elementi possono essere naturali (fiumi, laghi, montagne, coste ecc.) o artificiali (case, campi, strade, città ecc.), e vengono rappresentati mediante simboli grafici (linee, colori ecc.). Caratteristica fondamentale di ogni rappresentazione cartografica è la scala, cioè la riduzione che la superficie rappresentata subisce nel passaggio dalla realtà alla carta. La riduzione definisce il tipo di carta: a seconda della scala è infatti possibile rappresentare una superficie molto vasta, come un continente, o una molto piccola, come un campo coltivabile. Si hanno così carte di vario tipo: le carte geografiche, regionali e corografiche (che riproducono ampi tratti della superficie terrestre), le carte topografiche (che rappresentano piccole superfici

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in scala relativamente grande) e infine i planisferi, che rappresentano l'intera superficie terrestre. Le carte si caratterizzano anche a seconda degli oggetti cui si vuole dare particolare risalto nella rappresentazione: possono privilegiare, ad esempio, la rete dei fiumi o altri elementi fisici, oppure coltivazioni, insediamenti e strade. Le carte generali forniscono le informazioni fondamentali, dal punto di vista naturale o antropico, per conoscere un paese o un territorio; le carte il cui scopo è quello di rappresentare graficamente determinati fenomeni sono dette carte tematiche. LA REALIZZAZIONE DELLE CARTE La costruzione di una carta comporta una serie complessa di operazioni. Fondamentale è il rilevamento della superficie considerata e la sua rappresentazione fedele, ovvero il rispetto delle distanze tra punti di riferimento; altrettanto importante è il rilevamento dei singoli elementi che la caratterizzano, la loro classificazione in categorie e la loro collocazione gerarchica. I sistemi di rilevamento, molto rudimentali prima che si imponesse la cartografia moderna, si sono affinati a partire dalla seconda metà dell'Ottocento, con il perfezionamento della fotogrammetria e, successivamente, con l'avvento della aerofotogrammetria, basata sul rilevamento da aerei. Oggi un notevole contributo è dato dalle immagini dei satelliti (telerilevamento), che forniscono dati di precisione estrema. TIPI DI CARTE Carte topografiche Vengono utilizzate per rappresentare parti delimitate di territorio. Rappresentano gli elementi naturali e quelli introdotti dall’uomo. Data la varietà e la complessità delle informazioni in esse contenute, le carte topografiche fungono da riferimento per le attività più varie e sono utilizzate da costruttori, pianificatori, amministratori pubblici, militari, geologi, escursionisti ecc.

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Carta topografica Oltre alle principali località e ai confini politici, le carte topografiche riportano le caratteristiche fisiche e geologiche di un territorio. Sono corredate di una legenda che indica la scala di riduzione e spiega i simboli utilizzati, ad esempio, per strade, ponti o ferrovie. I colori vengono usati per indicare l'altitudine sul livello del mare: al bianco corrisponde una depressione, mentre le tonalità dal verde al marrone indicano un'altitudine crescente; i toni dall'azzurro al blu sono usati invece per la profondità delle acque. Carte tematiche Sono destinate a impieghi particolari, nella ricerca scientifica, nella pianificazione territoriale, nell'amministrazione ecc. Esistono diverse categorie di carte tematiche. Particolarmente importanti sono le carte nautiche e quelle aeronautiche. Le prime indicano le rotte delle navi e coprono la superficie degli oceani e degli specchi d'acqua navigabili; indicano inoltre le profondità e le escursioni di marea, le correnti dominanti, le secche, i canali e altri elementi necessari alla sicurezza della navigazione, quali la natura del fondale e l'esatta posizione dei fari e degli scogli affioranti. Le carte aeronautiche rappresentano le aerovie e indicano la posizione dei radiofari. Carte tematiche sono inoltre quelle politiche (che indicano i confini di stato, di regione e di altre circoscrizioni minori), quelle geologiche, quelle agrarie e molte altre carte di carattere scientifico. Tra le carte tematiche rientrano anche quelle che rappresentano fenomeni privi di un impatto diretto sul territorio, come ad esempio la percentuale di lavoratori addetti all'industria o dei malati di AIDS di un paese o di una regione.

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GLI ELEMENTI FONDAMENTALI DI UNA CARTA Perché una carta possa contenere un gran numero di informazioni è necessario ricorrere a un sistema di simboli. Quelli utilizzati con maggior frequenza sono stati accettati da tutti i cartografi e si ritrovano sulle carte di tutto il mondo. Il cartografo dispone comunque di una grande varietà di simboli per soddisfare le diverse esigenze: un punto può ad esempio indicare la presenza di 10.000 capi di bestiame mentre una coppia di martelli incrociati può indicare una miniera. I simboli utilizzati vengono solitamente resi espliciti in un’apposita legenda. Il reticolo geografico Per la costruzione di una carta è fondamentale avere un sistema di riferimento a cui riportare gli elementi da rappresentare. Tale sistema, utilizzato per la prima volta da Tolomeo, è quello del reticolo di meridiani e paralleli: linee immaginarie che circondano il globo terrestre in senso tra loro perpendicolare. I meridiani si ricavano immaginando di sezionare il globo verticalmente, da un polo all'altro; i paralleli si ricavano invece immaginando di sezionare la Terra orizzontalmente, ossia trasversalmente ai meridiani. Ai paralleli corrisponde la latitudine, a meridiani la longitudine. Convenzionalmente la longitudine si calcola in 180° est e 180° ovest a partire dal meridiano di Greenwich, in Inghilterra. La latitudine è indicata in 90° nord e 90° sud a partire dall'equatore. Qualsiasi punto della carta può essere definito con precisione esprimendo le coordinate in gradi, minuti e secondi di latitudine e longitudine. Le carte sono generalmente orientate con il nord nella parte superiore. La scala La scala della carta geografica offre la chiave per tradurre la distanza di due punti sulla carta nella distanza reale che sulla superficie terrestre separa tali punti. La scala è solitamente rappresentata da una frazione. Ad esempio, scala 1:100.000 significa che l’unità di misura della carta (per esempio 1 cm) rappresenta 100.000 unità di misura nella realtà (100.000 cm, cioè 1 km). Solitamente la scala è riportata al margine della carta accanto a un segmento di riferimento che corrisponde a una distanza indicata (1, 5, 10 o 100 km). Il rilievo Uno dei maggiori problemi che sin dalle origini si sono imposti ai cartografi è stato la rappresentazione del rilievo, cioè di colline e montagne, valli e gole. Nelle prime carte geografiche i rilievi erano riportati in maniera generica, senza la minima pretesa di precisione. La rappresentazione è divenuta realistica solo con l'introduzione delle

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cosiddette curve di livello, o isoipse. Le curve di livello sono linee che raccordano sulla carta tutti i punti situati a una stessa quota altimetrica: l'intervallo tra una quota e l’altra, o equidistanza, viene scelto in base all’opportunità. Nel caso di un intervallo fissato in 50 m le curve di livello indicheranno tutti i livelli multipli della misura di riferimento (50, 100, 150 m ecc.). Altri metodi per indicare i rilievi del terreno prevedono il ricorso a colori (tinte altimetriche) e ombre, al rilievo a sfumo e al rilievo a tratteggio. Quando vengono utilizzati i colori si ricorre a una scala di intensità decrescente collegata in ciascuna tonalità a un'altezza media; ad esempio, tutto il terreno compreso tra 0 e 100 m viene colorato in verde chiaro, quello tra 100 e 200 m in verde di intensità media e così via. LA PROIEZIONE CARTOGRAFICA Per rappresentare l'intera superficie della Terra senza alcun tipo di distorsione una carta geografica dovrebbe avere una superficie sferica; una carta di questo tipo è il mappamondo o globo, che però è ingombrante, poco pratico, e non riporta molti dettagli. Per questo si preferisce ricorrere a rappresentazioni bidimensionali, le quali però non possono rappresentare in maniera accurata la superficie della Terra se non in sezioni di dimensioni ridotte, in cui l'effetto della curvatura terrestre risulta trascurabile. Per descrivere una porzione importante della superficie terrestre in maniera accurata la carta deve essere disegnata in modo da ottenere un compromesso tra distorsione delle superfici, distanze e angoli. Spesso la precisione di uno di questi parametri va a scapito di quella degli altri. I vari metodi utilizzati per riprodurre la superficie terrestre su una superficie piana sono detti proiezioni; esse vengono classificate come geometriche o analitiche. Le proiezioni geometriche vengono classificate in relazione al tipo di superficie che devono rappresentare e indicate come proiezioni di sviluppo cilindriche, coniche o piane. Le proiezioni piane sono note anche come proiezioni azimutali o zenitali. Le proiezioni analitiche sono sviluppate sulla base di calcoli matematici. Proiezioni cilindriche Nel realizzare una proiezione cilindrica il cartografo immagina la carta come un cilindro tangente la Terra in corrispondenza dell'equatore. I paralleli sono la proiezione sullo stesso cilindro dei piani paralleli che tagliano il globo. A causa della curvatura della Terra, procedendo verso poli i paralleli vanno avvicinandosi progressivamente tra loro, mentre i meridiani vengono rappresentati come linee parallele perpendicolari all'equatore.

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Completata la proiezione, immaginiamo che il cilindro venga “tagliato verticalmente” e srotolato sul piano. Il risultato è quello di una carta che rappresenta la superficie terrestre come un rettangolo con le linee di longitudine parallele ed equidistanti e quelle di latitudine anch'esse parallele ma non equidistanti: per quanto le forme delle superfici siano distorte in maniera crescente via via che ci si avvicina ai poli, le superfici relative tra le diverse aree sono equivalenti a quelle calcolate sul mappamondo. La proiezione di Mercatore, sviluppata dal cartografo fiammingo Gerardo Mercatore è affine, pur con qualche adattamento, alla proiezione cilindrica. Una carta di questo tipo è accurata nelle regioni equatoriali ma notevolmente distorta alle alte latitudini. Gli angoli sono comunque rappresentati fedelmente e per questo le carte costruite mediante proiezioni cilindriche sono utilizzate dai naviganti per la determinazione delle rotte. Ciascuna linea che taglia due o più meridiani con lo stesso angolo è rappresentata nelle carte di Mercatore come una linea retta. Questa linea viene detta lossodromica e rappresenta la rotta ideale di una nave o di un aereo che seguono senza deviazioni una direzione indicata dalla bussola. Proiezione azimutale La proiezione azimutale corrisponde a una proiezione del globo su una superficie piana che può entrare in contatto con il globo in un punto qualsiasi. Le proiezioni azimutali raggruppano le proiezioni piane di tipo gnomonico, ortografico e stereografico. Altre due proiezioni piane sono note come azimutali equivalenti (conservano le proporzioni delle superfici) e azimutali equidistanti (conservano la proporzione delle distanze): non possono essere proiettate ma si sviluppano in una tangente piana. La proiezione gnomonica, o centrografica, è prodotta da una sorgente luminosa immaginaria posta al centro della Terra, mentre in quella ortografica la fonte di proiezione è posta all'infinito. La posizione della fonte luminosa nella proiezione stereografica è quella del punto agli antipodi di quello di tangenza della

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sfera con il foglio.

Esempio di proiezione azimutale Se si immagina di appoggiare un foglio di carta in un punto specifico di un globo luminoso, la proiezione che ne deriva viene definita azimutale. Questo tipo di proiezione viene utilizzato per rappresentare soprattutto le regioni polari che, situate attorno al Polo Nord, appaiono riprodotte senza marcate distorsioni. Notevolmente più precisa ma assai più complessa da realizzare è la proiezione policonica, in cui si immagina una serie di coni, ciascuno dei quali è tangente alla Terra a una diversa latitudine. La carta che ne deriva sarà composta dalla somma dei singoli rilevamenti. Proiezioni matematiche Per realizzare carte di piccola scala di grandi aree della superficie terrestre sono state elaborate proiezioni dette “a sviluppo matematico”. Queste carte, fondate su calcoli matematici, rappresentano l'intera superficie della Terra in forma di cerchi, ovali o altre forme. Chiamate anche carte a proiezione interrotta, includono la proiezione di Goode e la proiezione equivalente di Eckert. I METODI PER REALIZZARE UNA CARTA GEOGRAFICA La cartografia ha avuto enormi sviluppi a partire dalla seconda guerra mondiale. Le nuove tecnologie utilizzate per la raccolta delle informazioni, la fotografia aerea e

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satellitare, le triangolazioni satellitari rese disponibili dal sistema GPS (Global Positioning System) hanno sensibilmente ridotto i margini di errore nel rilevamento dei punti sulla superficie della Terra. Tra le grandi innovazioni di questi anni non va dimenticato il ricorso al computer per il disegno di precisione delle carte. L'osservazione La moderna cartografia si avvale della precisione del rilevamento aereo, che integra le informazioni ottenute dal rilevamento topografico tradizionale. Le fotografie satellitari, oltre a indicare con precisione la posizione relativa degli elementi che costituiscono la superficie terrestre, possono fornire indicazioni accurate sulla posizione dei giacimenti minerali, sullo sviluppo dei centri urbani, sulla distribuzione della vegetazione e anche sulla qualità dei suoli. Compilazione e riproduzione Una volta raccolte le informazioni, è necessario compiere un'attenta pianificazione per assicurarsi che tutte le indicazioni rilevanti siano esposte con chiarezza e precisione. I dati raccolti vengono inseriti in forma di punti in una griglia realizzata sulla base della proiezione piana o di sviluppo che si è adottata. I rilievi sono indicati, quando richiesto, facendo ricorso alle curve di livello che vengono tracciate utilizzando coppie di fotografie stereoscopiche. Nello stesso modo si tracciano le strade, i fiumi e via via tutti gli altri elementi di riferimento. Sempre più diffusa è inoltre la carta ortofotografica, composta da un mosaico di porzioni di fotografie aeree (aerofotogrammetria). Le immagini di queste carte vengono registrate con uno strumento speciale noto come ortofotoscopio, che permette di eliminare le distorsioni di scala e di angolo di ripresa. L'uso massiccio delle banche dati informatiche ha inoltre permesso la realizzazione di carte-video che mostrano sullo schermo del computer i cambiamenti verificatisi in una determinata zona in un certo intervallo di tempo. LA SCALA In cartografia, la scala, indica il rapporto tra la distanza di due punti su una carta geografica e la distanza reale dei due punti considerati sulla superficie terrestre. Sulle carte geografiche la scala viene rappresentata in tre modi: come rapporto o frazione, 1:50.000 o 1/50.000, che significa che una unità di misura sulla carta corrisponde a 50.000 unità della stessa misura sulla superficie terrestre; con una scala grafica, normalmente una linea retta (generalmente calcolata in chilometri o miglia); con una frase come "1 cm rappresenta 100 km" (che significa 1 cm sulla carta geografica corrisponde a 100 km sulla superficie della Terra). Tanto maggiore è la scala della carta, tanto migliore e più dettagliata è la rappresentazione della superficie terrestre.

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La scala di una carta geografica permette di definire la relazione esistente tra le distanze sulla carta e le distanze corrispondenti sulla Terra. In questa illustrazione sono messe a confronto tre carte geografiche con scala diversa. La prima è di 1 a 100.000.000: nella carta, quindi, la distanza di 1 cm corrisponde a 1000 km. La seconda è più dettagliata, perché a ogni centimetro sulla carta corrispondono 100 km. Infine, nella terza carta la precisione è altissima perché a ogni centimetro corrispondono solo 10 km.

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RILEVAMENTO TOPOGRAFICO

Il rilevamento topografico ha lo scopo di determinare le misure di aree di vaste proporzioni con elevatissima accuratezza, o di misurare le posizioni relative di determinati punti (rilievo preliminare), o di fornire i dati necessari per costruire secondo i piani dei progettisti (picchettatura o palinatura).

Il rilievo preliminare è necessario per ottenere informazioni per qualunque rappresentazione cartografica; la picchettatura è necessaria per determinare l'ubicazione esatta anche della più piccola o meno importante futura costruzione.

Gli Egizi usavano metodi di rilevamento topografico già nel 1400 a.C. per rintracciare i termini di confine dopo le inondazioni del Nilo. La precisione con cui sono costruite le piramidi indica che già nel 2900 a.C. erano in uso metodi di rilevamento topografico, impiegati per la loro costruzione.

I Babilonesi, nel 3500 a.C. circa, disegnavano mappe in scala abbastanza precise, il che indica che le informazioni sul terreno erano ottenute applicando i rudimenti dei principi del rilevamento topografico.

La topografia è basata, da un punto di vista teorico, su principi geometrici e trigonometrici, e i metodi pratici di rilevamento sfruttano principi della fisica. Certi dati devono essere registrati sul campo e occorre contrassegnare sul terreno determinati punti di riferimento; dati o contrassegni non necessari, tuttavia, si traducono in costi eccessivi. Dati e punti devono risultare utilizzabili da parte di persone che possono anche non avere familiarità con le procedure topografiche. Il rilievo si compie sia verticalmente, su una linea a piombo diretta verso il centro della Terra, che orizzontalmente, cioè lungo una direzione ortogonale alla linea a piombo.

Tutti gli oggetti sono in relazione tra loro in virtù delle loro posizioni reciproche, che possono essere espresse come direzione di una retta orizzontale, distanza sulla stessa linea e differenza di quota; il rilevamento topografico è una tecnica di misura e di rappresentazione di queste tre grandezze. Le tre coordinate che determinano le posizioni relative tra gli oggetti solo raramente possono essere misurate direttamente. Normalmente si procede fissando una rete di punti dei quali si determinano con precisione le posizioni mutue, e cioè la loro distanza orizzontale e la direzione (rilievo planimetrico), oppure solo la quota (rilievo altimetrico), o tutte e tre queste grandezze. Tale rete costituisce un riferimento. Una volta misurata la posizione degli oggetti relativa al riferimento, si possono determinare con metodi matematici o grafici le posizioni relative tra gli oggetti.

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Metodi

Una poligonale, il riferimento orizzontale più usato, consiste in una serie di punti, detti stazioni, ognuno dei quali è riferito alle stazioni adiacenti da una coordinata angolare e dalla distanza. Ogni stazione viene scelta in base a criteri di convenienza e contrassegnata sul terreno da un chiodo su un picchetto. La poligonale si richiude sulla stazione di partenza.

Poiché le misure fatte sul terreno sono affette da errori, gli angoli e le distanze tra le stazioni devono essere corretti per renderli matematicamente consistenti. L'errore totale (errore di chiusura) si trova calcolando la posizione di ogni stazione rispetto alla precedente lungo la poligonale partendo dalla stazione iniziale e procedendo fino a ritornarvi: la differenza tra la posizione iniziale e quella finale trovata matematicamente costituisce l'errore di chiusura. La posizione delle stazioni, gli angoli e le distanze vengono corretti distribuendo in modo opportuno e logico l'errore di chiusura tra loro.

La triangolazione è usata per ottenere il più accurato riferimento orizzontale su grandi distanze, ma può anche essere usata come riferimento ogni volta che sia più conveniente di una poligonale. Un sistema di triangolazioni consiste in una serie di triangoli adiacenti con i lati in comune; i vertici dei triangoli sono le stazioni. E' sufficiente misurare un lato di un solo triangolo detto base, e i tre angoli di ogni triangolo per ricavare mediante la trigonometria tutte le distanze tra le stazioni. Di quando in quando si misurano anche altri lati di triangoli, anch'essi detti basi, a scopo di controllo delle distanze calcolate. Gli angoli misurati vengono corretti in modo che la somma degli angoli interni di ogni triangolo abbia il valore corretto di 180°; anche le distanze vengono corrette matematicamente.

Anche nella trilaterazione, un'altra tecnica di rilevamento topografico, si usa un sistema di triangoli con i lati in comune due a due, ma in questa tecnica si misurano le lunghezze dei lati dei triangoli, anziché gli angoli. La posizione verticale viene stabilita facendo riferimento a un percorso chiuso di livellazione che inizia e termina in un punto a quota nota, detto caposaldo, con altri capisaldi posti lungo il percorso chiuso. La differenza tra la quota nota del punto di partenza e la quota calcolata al termine del percorso chiuso costituisce l'errore di chiusura. La quota dei nuovi capisaldi misurata sul campo viene corretta con procedimenti matematici sulla base dell'errore di chiusura e della loro posizione lungo il percorso chiuso.

Picchettatura

Per la picchettatura vengono individuati sul terreno determinati punti mediante misure di angoli, distanza e livello relativamente a una rete di riferimento. Le misure vengono registrate su appositi moduli per il rilevamento in campo e affidate a un apposito ufficio per i calcoli e la rappresentazione grafica. Il rilevatore pianta dei picchetti di legno in determinati punti per segnare i confini, o, nel caso di rilevamenti

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a scopo edilizio, per indicare con esattezza al costruttore dove edificare secondo gli intenti dei progettisti. L'interpretazione dei piani dei progettisti e il calcolo degli angoli e delle distanze richiesti per la posa dei picchetti è compito del rilevatore; i dati necessari a questo fine vengono segnati sul taccuino di campo e portati sul posto come guida per la picchettatura per costruzioni. La maggior parte dei rilevamenti si basa su metodi di rilevamento su un piano, ignorando la curvatura terrestre. Le linee a piombo sono considerate parallele tra loro, sebbene, in realtà, ognuna di esse abbia direzione pressappoco radiale verso il centro della Terra e non ne esistano due parallele tra loro. Una linea retta di mira è considerata una linea di livello, mentre in realtà le linee di livello seguono la superficie media della Terra. Queste approssimazioni non sono fonte di errori apprezzabili nei rilevamenti su medie distanze. Nei rilevamenti effettuati su grandi distanze, invece, occorre tenere conto della curvatura terrestre, ed è richiesta l'applicazione di un metodo speciale, detto rilevamento geodetico. Si tiene conto, in questo caso, di latitudine e longitudine, e il metodo di misura più usato ricorre alla triangolazione.

Strumentazione

Gli angoli su un piano orizzontale sono misurati con il teodolite o il tacheometro, strumenti forniti di cannocchiale, livelle a bolla e viti di livellamento. Per lavori ordinari le distanze sono misurate mediante rotelle a nastro di stoffa (per misure grossolane) o di acciaio (per misure di precisione). Apparecchi elettronici per la misura delle distanze che trasmettono impulsi di energia elettromagnetica da un punto a un altro, da dove sono riflessi al punto di partenza, permettono di ottenere elevata precisione sia a breve che a grande distanza. Lo strumento elabora dati di tempo di volo e velocità traducendoli in distanze tra punti. Per la misura delle distanze si ricorre anche al principio del triangolo ottico: le misure con la stadia si effettuano leggendo la lunghezza del tratto di un'asta verticale graduata (stadia) compreso nell'angolo tra due linee di mira. Le linee di mira sono determinate da due fili tesi all'interno del cannocchiale del teodolite in modo che la lunghezza del tratto di stadia visto tra i due fili sia sempre un centesimo della distanza tra il centro dello strumento e la stadia stessa. In questo modo, con un solo puntamento, si rilevano angoli e distanze, ma queste ultime non con grande precisione. Per misurare distanze si usa anche un'asta di lunghezza fissa disposta orizzontalmente, detta barra sottesa. L'asta viene disposta perpendicolarmente alla linea di mira del tacheometro o del teodolite. L'angolo orizzontale sotteso dalla barra, insieme alla lunghezza della barra, fornisce la distanza tra il centro dello strumento e la barra stessa. Sono necessarie tre letture angolari per determinare direzione e distanza: una al centro della barra per la direzione e due ai due estremi di essa per la distanza. Questo metodo è molto preciso, ma lungo nell'esecuzione. Tutti questi metodi servono unicamente per misurare distanze lungo una linea orizzontale o lungo una linea inclinata rispetto al piano orizzontale. Una distanza misurata lungo una linea che segua il pendio di una collina, a esempio, è poi trasformata con procedimenti matematici in una distanza su una linea orizzontale e in una distanza su una linea verticale. La distanza verticale di due

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punti si determina misurando le quote dei due punti e sottraendo la quota minore da quella maggiore; per questo si usa la livella a cannocchiale, uno strumento che può essere esattamente livellato e ruotato in ogni direzione: comunque si ruoti lo strumento la linea di mira attraverso il cannocchiale rimane orizzontale. Si usa anche un'asta graduata in centimetri dal basso verso l'alto, con la quale si determina la quota della linea di mira effettuando la lettura sull'asta quando questa è posata su un caposaldo. La quota della linea di mira supera quella del caposaldo della quantità letta sull'asta graduata. Si ricava la quota di altri punti posandovi sopra l'asta ed effettuando la lettura con la stessa linea di mira: la quota di questi punti differisce da quella della linea di mira della quantità letta sull'asta.

Tipi di rilevamento

Accanto al rilevamento topografico ne esistono altri tipi, che utilizzano gli stessi metodi e sono classificati con nomi diversi a seconda dello scopo. Il rilevamento topografico si occupa specificamente della forma della superficie del terreno, ma con questa denominazione si intende in genere il rilevamento destinato a fornire informazioni per la rappresentazione cartografica. Il materiale per la rappresentazione cartografica di zone della dimensione di diversi ettari si ottiene mediante il rilevamento piano o geodetico, mentre il materiale per superfici più vaste si ottiene mediante fotografia aerea: di alcuni oggetti piccoli, ma importanti, visibili nelle fotografie aeree, si determina con esattezza la posizione e questi fanno parte di un riferimento per il rilevamento, rispetto al quale si determina la posizione di tutti gli altri oggetti sulla mappa. Il rilevamento destinato all'individuazione sulla mappa del fondo di bacini idrici è detto rilevamento idrografico. Il rilevamento viario si effettua per la preparazione di mappe destinate ai progettisti di strade, autostrade, acquedotti, gasdotti, oleodotti ecc. Il rilevamento catastale consiste nella individuazione e segnalazione sul terreno dei confini delle proprietà fondiarie e nella determinazione delle superfici delle proprietà. Questo richiede la conoscenza sia dei metodi di rilevamento che dei fondamenti del diritto. Metodi di rilevamento sono impiegati anche per la costruzione di edifici, ponti, strade, condotte, nonché nella determinazione precisa della direzione in cui si debbono propagare le onde elettromagnetiche o nella quale debbono avvenire lanci di veicoli spaziali. Rilievi tecnici occorrono, inoltre, per il controllo della escavazione di gallerie sotterranee e di miniere, per il controllo del drenaggio di acque sotterranee e per il posizionamento di dispositivi di ausilio alla navigazione.

Tendenze

Nelle tecniche di rilevamento stanno avvenendo dei cambiamenti, soprattutto grazie agli sviluppi dell'elettronica. Tradizionalmente, il rilevatore si serviva di annotazioni prese a mano sia al momento dell'ispezione preliminare che quando poneva i picchetti. Adesso i rilevatori possono giungere sul campo con dati stampati da un calcolatore elettronico che forniscono ogni informazione relativa, a esempio, alla

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picchettatura di un edificio in progetto, e potrebbero anche essere in grado di riportare dal campo per l'elaborazione in ufficio i dati stampati da un calcolatore, contenenti la registrazione completa del lavoro svolto sul campo. Fino a oggi i rilevatori potevano misurare angoli con il tacheometro o il teodolite con una precisione maggiore di quella conseguita nella misura di distanze con rotelle metriche di acciaio. Attualmente gli strumenti elettronici per la misura delle distanze sono in grado di fornire misure di distanza con una precisione molto maggiore di quella con cui si possono leggere gli angoli.

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FOTOGRAMMETRIA

La fotogrammetria è una tecnica di rilievo che permette di acquisire dei dati metrici di un oggetto (forma e posizione) tramite l'acquisizione e l'analisi di una coppia di fotogrammi stereometrici.

Questa tecnica viene utilizzata in cartografia, topografia e in architettura. La branca della fotogrammetria che riguarda il rilievo dell'architettura prende il nome di fotogrammetria architettonica

Generalità

La fotogrammetria, dunque, permette di identificare la posizione spaziale di tutti i punti d'interesse dell'oggetto considerato. Questa tecnica, per quanto originariamente nata per essere utilizzata nel rilievo architettonico, è attualmente utilizzata in massima parte per il rilevamento topografico del territorio, sviluppandosi principalmente nella forma della fotogrammetria aerea.

Uno dei maggiori ostacoli che fino a poco tempo fa non ne hanno permesso il pieno utilizzo è stato sicuramente l'elevato costo delle attrezzature necessarie alla fotogrammetria. In seguito lo sviluppo di calcolatori in grado di gestire una grande quantità di dati e della grafica computerizzata ne hanno permesso un utilizzo più semplice e rapido e con costi minori. L'avvento di queste tecnologie, infatti, ha reso obsolete le vecchie apparecchiature ottiche. In seguito a questi cambiamenti, la fotogrammetria è ora utilizzata anche in ambiti dove raramente era utilizzata in passato.

Attualmente la fotogrammetria rappresenta una delle tecniche di acquisizione dei dati del territorio tra le più affidabili, economiche e precise. Essa è molto utile nell'analisi dei cambiamenti del territorio. La tecnica della fotogrammetria è stata utilizzata in vari ambiti: in passato, soprattutto alle origini, era utilizzata principalmente in ambito bellico e nella cartografia, ma i settori in cui è ora utilizzata sono molteplici: dall'architettura all'ingegneria, dalla geologia all'archeologia, dall'utilizzo per operazioni di polizia alla cinematografia (esempio di questo utilizzo può essere Fight Club) e anche per individuare petrolio nel sottosuolo.

Cenni storici

La storia della fotogrammetria è molto legata alla storia della geometria descrittiva, che ne ha determinato i principi teorici, e naturalmente all'ottica e alla fotografia. L'immagine fotografica, infatti, è assimilabile al concetto di prospettiva centrale. La

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tecnica della fotogrammetria, quindi, ha sfruttato le conoscenze di queste due discipline sintetizzandole in una tecnica che ci permette l'analisi del territorio con buona approssimazione.

Le basi per la nascita della futura fotogrammetria, dunque, furono gettate con la scoperta della prospettiva e delle sue leggi per legare la posizione spaziale di un punto alla sua posizione in un'immagine: nel 1759 Johann Heinrich Lambert, nella sua opera Perspectiva liber, definì le leggi matematiche su cui si basa la fotogrammetria, ma bisogna aspettare il 1883 per avere il primo studio sulle relazioni tra geometria proiettiva e fotogrammetria.

Nel 1837 si ebbero i primi sviluppi nel campo della fotografia: Louis Daguerre realizzò la prima immagine fotografica con quello che può essere considerato il progenitore della fotografia: il dagherrotipo.

Nel 1849 si ha il primo esempio di fotogrammetria, cioè di analisi di immagini fotografiche per la realizzazione di mappe topografiche. Aimé Laussedat, che usò un processo definito "iconometria", viene considerato il fondatore della fotogrammetria. Nove anni dopo, nel 1858, sperimentò perfino la fotogrammetria aerea, tecnica che consiste nel fotografare l'area interessata dall'alto. La sua tecnica venne ufficialmente accettata dalla Reale Accademia delle Scienze esatte, fisiche e naturali di Madrid nel 1862, primo riconoscimento di una tecnica fondamentale ai giorni nostri. In Italia il primo a studiarla fu Porro nel 1855; più tardi l'ing. Paganini dell'I.G.M. usò un sistema di fotografia presa da terra per il Monte Rosa e le Alpi Apuane.

In seguito si perfezionò la tecnica della fotogrammetria aerea, realizzata soprattutto dall'alto di mongolfiere, molto utile per scopi militari. Un esempio di questo utilizzo può essere la Battaglia di Solferino, in cui Napoleone III ordinò che fosse compiuta una ricognizione con questa tecnica. Ma il termine "fotogrammetria" è stato utilizzato per la prima volta nel 1893 da Albrecht Meydenbauer, fondatore e direttore fino al 1909 dell'Istituto Reale Prussiano di Fotogrammetria.

Nel 1924 Otto von Gruber perfezionò le leggi matematiche applicate alla fotogrammetria dando origine alla fotogrammetria analitica, cioè quel tipo di fotogrammetria che utilizza principalmente un metodo analitico, e rendendo più veloce il processo.

In seguito la fotogrammetria ebbe numerosi passi avanti: si tennero addirittura dei congressi in proposito a Zurigo nel 1930, Parigi nel 1934, Roma nel 1938 e vennero inventati gli apparecchi Nistri per la fotocartografia, ma questa tecnica rimaneva molto costosa a causa della complessità delle apparecchiature utilizzate. Il progresso tecnologico permise l'utilizzo di macchinari digitali, che abbassarono notevolmente i tempi necessari alle operazioni e i costi.

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La fotogrammetria aerea fu utilizzata anche nel Programma Apollo per mappare la superficie lunare. Questa tecnica viene utilizzata anche per la mappatura dei pianeti da parte delle sonde spaziali.

Tipi di fotogrammetria

È possibile differenziare i diversi tipi di fotogrammetria secondo due criteri fondamentali.

Differenziazione in base alla distanza della ripresa

A seconda degli strumenti (fotocamere classiche o digitali "a pixel", normali, metriche singole, metriche accoppiate) utilizzati nella fotogrammetria, le immagini fotografiche possono essere ottenute da distanze differenti. In base a questo criterio la fotogrammetria si divide in:

1 - Microfotogrammetria. Trova applicazione in laboratorio, mediante utilizzo di stereoimmagini (foto classiche o digitali) ricavate con stereomicroscopi di base 6 cm. Campi d'impiego: medicina, chirurgia, scienze naturali (es. paleontologia), scienze fisiche (es. provini di fonderia spezzati), ecc.

2 - Fotogrammetria "degli Oggetti vicini" (In inglese, Close Range Photogrammetry). Molto utilizzata per il rilevamento su distanze da 1m a 30m, con basi stereometriche da 0,30m, 1,20m ed oltre. Campi d'impiego: studi per lo sviluppo urbanistico di aree dismesse o da riqualificare, indagini strutturali e creazione di modelli 3D di edifici ed infrastrutture, studi antropologici e zootecnici, indagini giudiziarie, restauro artistico di sculture e monumenti, rilievo di incidenti stradali, misurazioni d'alta precisione in officina, ecc.

3 - Fotogrammetria Architettonica.

4 - Fotogrammetria Terrestre. La Fgm Terrestre vera e propria è stata all'origine dei rilevamenti topografici accurati, a differenza dei precedenti, classici della celerimensura, che erano ottenuti con interpolazione fra punti del terreno, più o meno equamente distribuiti per rappresentare la morfologia del territorio.

Il primo esperimento di questa procedura in Italia avvenne sulle Alpi Apuane poco dopo il 1880, a cura del Capitano Ing. Paganini, dell'I.G.M. di Firenze. Dopo un periodo di grande utilizzo per la cartografia di terreni molto accidentati, a partire dal 1950 circa, la fotogrammetria terrestre è stata in gran parte soppiantata dalla fotogrammetria aerea. Tuttavia la fotogrammetria terrestre rimane metodo insostituibile, per accuratezza di dettaglio e precisione conseguibile, quando si debbano rilevare pareti rocciose a picco od a strapiombo magari entro forre, là dove nessun aeroplano potrebbe operare. Le basi stereometriche in tal caso variano dai 5 m ai 100 m ed oltre; le distanze fra le camere ed il terreno sono comprese fra 50 m ed

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un kilometro ed oltre; gli strumenti sono fototeodoliti o camere metriche montate su treppiedi; la lunghezza delle basi deve essere conosciuta al millimetro. Gli assi ottici delle camere di ripresa possono essere paralleli o convergenti; inclinati di pari entità verso il basso di 5, 10, 15 o 20 gradi oppure di 7, 14, 21, 28 gradi; obliqui verso destra o verso sinistra, tutto ciò per riuscire a fotografare il terreno in modo completo.

Campi d'impiego: rilievi geo-stratigrafici strutturali di pareti a picco; mappature di alta precisione per lo studio dell'imposta delle dighe, degli sbarramenti, dei ponti, ma anche il controllo della variazione della freccia d'incurvamento dei grandi ponti sospesi, nonché la posizione delle funi in occasione dei collaudi, nelle successive posizioni del treno di veicoli sovraccaricati.

Altro impiego, più recente e sofisticato, che si avvicina alla fotogrammetria industriale (vedere testo apposito), è quello dei controlli dimensionali di tipo ingegneristico strutturale su grandi fabbricati (prima, durante e dopo il raddrizzamento di antiche torri o chiese lesionati a seguito di cedimenti differenziali, ovvero accertamento della vera forma e dimensioni di monumenti problematici in assetto inconsueto). Nel primo caso, Cattedrale di York (Newton, anni '60); nel secondo, Torre Pendente di Pisa (Baj & Bozzolato, 1984, 1991).

• Fotogrammetria architettonica, caratterizzata da una distanza tra il sensore e l'oggetto da osservare al massimo di qualche decina di metri. Questa tecnica viene utilizzata principalmente per il rilievo architettonico (rilievo che, comunque, è possibile integrare anche con il Laser Scanner) e per la taratura e la calibrazione degli strumenti per le riprese da aereo o da satellite, soprattutto per correggere l'effetto di distorsione dell'atmosfera.

• Fotogrammetria aerea, che viene realizzata montando delle apparecchiature fotografiche su aerei che volano al di sopra del territorio da osservare. A seconda dell'estensione dell'area da rilevare e della scala di rappresentazione richiesta si passa da altezze di 300 metri ad un massimo di 20.000 metri.

• Fotogrammetria satellitare, realizzata da Space Shuttle, satelliti meteorologici o per lo studio delle risorse terrestri. Questa tecnica è utilizzata principalmente per aree estese da rilevare.

• Fotogrammetria da UAV (anche detto Aeromobile a pilotaggio remoto o UAV), che viene realizzata montando differenti sensori (camere ottiche, termocamere, sensore multi spettrale, ...) di dimensioni ridotte sui sistemi utilizzati. Per garantire un buon livello qualitativo del prodotto finale, sarà necessario seguire una procedura di calibrazione del sensore per tenere in conto, durante l'elaborazione dei dati, di eventuali correzioni geometriche. Questa tecnica è utilizzata principalmente per aree non particolarmente estese e può affiancare la fotogrammetria architettonica per il rilievo di edifici ed infrastrutture. Inoltre gli Aeromobili a pilotaggio remoto (APR) permettono di

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acquisire dati in scenari applicativi quali l'agricoltura, il monitoraggio di impianti industriali, il telerilevamento e altri ancora.

Differenziazione in base al tipo di dato in output

In funzione delle attrezzature utilizzate è possibile anche differenziare i diversi tipi di fotogrammetria in base ai dati in uscita, i dati che il processo ci fornisce in output. Sulla base di questo criterio la fotogrammetria si divide in:

• Fotogrammetria tradizionale, tecnica che fornisce in output un dato disponibile su un supporto fotografico tradizionale.

• Fotogrammetria digitale, tecnica il cui dato in uscita è digitalizzato. In questo tipo di fotogrammetria le immagini sono gestibili attraverso il calcolatore.

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I MATERIALI DA COSTRUZIONE

I materiali da costruzione sono tutti i materiali, naturali e artificiali, normalmente impiegati per realizzare costruzioni edilizie e opere d'ingegneria civile (strade, ponti, canali, dighe, gallerie).

Esistono vari tipi di materiali da costruzione, sia naturali sia artificiali, a cui nel tempo se ne sono aggiunti sempre di nuovi. Il numero di questi materiali, in passato relativamente limitato, va continuamente aumentando col progredire della tecnica, mentre allo stesso tempo si è avuta una differenziazione dei sistemi impiegati per la loro produzione. L'elevato numero di materiali da costruzione dipende dal fatto che ognuno di essi presenta delle particolari proprietà, che lo fanno preferire agli altri a seconda degli scopi per i quali deve essere utilizzato.

Cenni storici

Storicamente, i primi materiali utilizzati per la costruzione sono stati pelli animali (nella costruzione di tende), fango, argilla grezza, paglia (nella costruzione di capanne), e rocce di varia natura. Molti di questi materiali vengono ancora oggi utilizzati in alcune parti del mondo da popolazioni nomadi o aborigene, mentre sono stati quasi completamente rimpiazzati dagli altri materiali nel contesto tecnologico dei paesi industrializzati.

Il muro a secco è una delle più antiche tecniche di costruzione: esso è realizzato da blocchi di pietra opportunamente disposti in modo da autosostenersi, senza rendere necessario l'uso di leganti. Esempi di antiche costruzioni realizzate in pietra sono i nuraghe della Sardegna (risalenti al II millennio a.C.), le piramidi a gradini dell'America Latina, e le costruzioni degli antichi greci e romani.

Il granito era già utilizzato nel 2600 a.C. dagli antichi egizi, che se ne servirono per costruire il rivestimento superficiale della piramide rossa, mentre la piramide di Micerino è costruita con blocchi di granito e calcare.

Presso i nativi americani delle Grandi Pianure era comune l'utilizzo di pelli o corteccia di betulla per la fabbricazione dei "tipi" (in inglese teepee), tende di forma conica che avevano il vantaggio di potere essere trasportate.

In Mongolia una parte della popolazione vive ancora nelle iurte, abitazioni costituite da una struttura portante in legno e una copertura fatta di tappeti di feltro (una stoffa in pelo animale). Questo tipo di abitazioni è richiamato nelle tensostrutture, applicate su vasta scala nella seconda metà del Novecento. Per la costruzione delle

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tensostrutture vengono in genere impiegate travature costituite da fibra di vetro rivestita in politetrafluoroetilene e tele in poliestere e polivinilcloruro.

In ambito edilizio è stato ed ha trovato utilizzo come materiale da costruzione anche l'amianto (nella forma commerciale dell'Eternit), usato per la coibentazione di edifici e mezzi di trasporto, fino a quando, negli anni ottanta, ne è stata accertata la cancerogenicità.

Struttura e proprietà dei materiali

A ciascun materiale è richiesto di possedere determinate proprietà e di conservarle nel tempo. Le proprietà meccaniche riflettono il comportamento del materiale sollecitato all'applicazione di un sistema di forze; quelle fisiche misurano il comportamento sotto l'azione della temperatura, dei campi elettrici o magnetici, della luce, del fuoco; le proprietà chimiche caratterizzano la capacità di conservare le proprie caratteristiche nell'ambiente in cui il materiale opera.

Struttura dei materiali

Un qualsiasi aggregato di atomi costituisce la materia, che può presentarsi in diversi stati. Le due situazioni estreme sono rappresentate dai fluidi (gas e liquidi) e dai solidi. Parlando di materiali da costruzione, si fa sempre riferimento a materiali solidi. I solidi possono essere di tipo cristallino, cioè caratterizzati da una struttura ordinata a livello atomico e molecolare (come nel caso dei metalli o di molti materiali ceramici), amorfo, nel caso in cui assumano una struttura disordinata simile a quella dei liquidi (come nei vetri, dove un raffreddamento "congela" la struttura amorfa del liquido) o semicristallino (come molti materiali polimerici).

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La scelta del materiale

La costruzione di un oggetto, di un utensile e di addirittura un edificio, quindi la sua forma, le sue proprietà meccaniche e strutturali, il suo peso e le sue proprietà termiche, sono condizionati dai materiali con i quali questi vengono realizzati. La scelta di un materiale rispetto ad un altro non è mai casuale, poiché i materiali (anche all'interno della stessa famiglia), presentano proprietà molto diverse fra loro, che condizionano sensibilmente la produzione di un manufatto, o di un'infrastruttura.

In passato la maggior parte dei materiali usati per l'edilizia era presente in natura (legno, argilla o sabbia) e veniva utilizzata senza particolari lavorazioni aggiuntive. Con il passare del tempo, a questi materiali se ne sono aggiunti altri, artificiali (come il calcestruzzo, vetro, materie plastiche, e i metalli), che vengono realizzati a partire da materie prime presenti in natura, che per l'utilizzo industriale vengono sottoposte a diversi processi di lavorazione e trattamento delle superfici. Anche i materiali naturali, che una volta venivano impiegati allo stato grezzo, ora vengono sottoposti a diversi processi di lavorazione; ad esempio il legno subisce diversi trattamenti di superficie (come la sabbiatura), mentre l'argilla viene cotta al forno (diventando terracotta).

Oggi, la scelta del materiale da adottare per una particolare applicazione dipende dalle sue caratteristiche (tra cui: proprietà meccaniche, proprietà fisiche, proprietà chimiche, proprietà ottiche e traspirabilità) ma anche dalla sua disponibilità nel luogo di utilizzo, dall'impatto ambientale del materiale stesso, dal suo effetto estetico e, soprattutto, dal suo prezzo. Tra i vari fattori di risparmio che possono influenzare la scelta dei materiali alcuni sono direttamente legati al materiale stesso, come il costo di produzione unitario o la reperibilità in loco, ma altri dipendono dalle tecnologie utilizzate in cantiere e/o al ciclo di vita previsto per l'edificio (es. modularità dei componenti nel caso di prefabbricazione, facilità di utilizzo da parte di manodopera non specializzata nel caso dell'autocostruzione, possibilità di un riutilizzo dopo la demolizione dell'edificio....).

Legno

Il legno è il materiale organico più diffuso e il suo utilizzo risale all'antichità (basti pensare alle capanne del Paleolitico o alle palafitte del Neolitico). Esistono diversi tipi di legni, che si differenziano, oltre che per la specie arboricola da cui sono prodotti, dal tipo di crescita che ha avuto l'albero.

Il legno strutturale è un materiale da costruzione piuttosto versatile e facilmente lavorabile, che viene impiegato in ambito edilizio per la costruzione di diverse strutture; in particolare può essere utilizzato sia per la realizzazione di telai portanti sia come rivestimento.

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A partire dal fusto possono essere ricavati elementi a sezione rettangolare con diversi rapporti di larghezza/altezza. Il collegamento dei vari elementi avviene a mezzo di colle, con viti o con collegamenti realizzati in acciaio da carpenteria. Il vantaggio delle strutture in legno lo si riscontra particolarmente nelle strutture lamellari, costituite cioè da una serie di assi di legno sottili saldamente collegate tra loro. Una struttura in legno lamellare presenta notevoli valori di resistenza agli sforzi e può benissimo essere utilizzata per la realizzazione di opere come travi portanti per solai o travature di tetti in legno. Il principale svantaggio del legno è la sua facilità ad incendiarsi. Oggi comunque esistono numerosi trattamenti che possono rendere abbastanza ignifugo un elemento in legno in modo da permettere una maggiore resistenza al fuoco.

Leganti  I leganti sono materiali costituiti da polveri finissimi che, se impastati con acqua, dànno origine a una massa plastica che, una volta indurita, raggiunge una elevata resistenza meccanica. I leganti, quando impastati con acqua, diventano malte e calcestruzzi.

Gesso

Il gesso utilizzato in edilizia è un legante aereo costituito da solfato di calcio semidrato (CaSO4·½H2O), da anidrite (CaSO4) o da una miscela dei due composti. È un materiale leggero e resistente al fuoco, isolante termico e acustico. Viene prodotto a partire dalla pietra di gesso, un materiale molto tenero che contiene (per un valore solitamente inferiore al 10%) impurezze di silicati, alluminati, quarzo e ossido di ferro). Il gesso non può operare all'aperto o a contatto con ambienti umidi (in quanto non sufficientemente insolubile). Inoltre, il gesso umido è aggressivo nei confronti dei materiali metallici che non resistono in condizioni di umidità. Infine, il gesso non può essere utilizzato a contatto con atmosfere contenenti ammoniaca.

Calce aerea

Con il termine calce si intendono sia l'ossido di calcio (CaO) ottenuto per cottura ad alta temperatura di rocce calcaree (calce viva) oche il suo idrato (Ca(OH)2, detto anche calce spenta). La calce è utilizzata impastata con sabbia e acqua, diventando così malta, per il collegamento di pietre e mattoni o per la realizzazione di intonaci.

Calce idraulica

La calce idraulica è stata largamente usata in passato, ma oggi viene prodotta in quantità modeste e solo in alcuni paesi. Questo legante viene spesso considerato come il precursore del moderno cemento Portland. A differenza della calce aerea,

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quella idraulica può far presa e resistere anche in acqua e in ambienti umidi. Si possono distinguere tre tipi di calce idraulica:

• calci idrauliche vere e proprie, ottenute per cottura di calcari argillosi o di miscele di calcari e argille;

• calci idrauliche attualmente in commercio che sono costituite da cemento Portland opportunamente diluito;

• calci idrauliche ottenute per aggiunta alla calce aerea di materiali pozzolanici.

Cementi

La norma europea EN 197 definisce cemento: "un materiale inorganico finemente macinato che, mescolato con acqua, forma una pasta che rapprende e indurisce a seguito di reazioni e processi di idratazione e che una volta indurita mantiene la sua resistenza e stabilità anche sott'acqua".

Tra i cementi, il cemento Portland è il più importante e diffuso. Si ottiene attraverso la macinazione del prodotto di cottura di una miscela di argilla, calcare e sabbia (clinker) con piccole aggiunte di gesso ed, eventualmente, di altri materiali quali pozzolane, fumo di silice, ceneri volanti, loppa di altoforno, eccetera. Esistono però anche cementi speciali per usi particolari: cementi alluminosi, cementi soprasolfatati, cementi ferrici, cementi espansivi, cementi bianchi o colorati. Il principale impiego del cemento è connesso con la costruzione di opere in calcestruzzo, in particolar modo armato e precompresso, ma può anche essere usato per la giunzione di altri materiali da costruzione, come pietre e mattoni, per la realizzazione di murature.

Malte e calcestruzzi

Malte e calcestruzzi sono ottenuti miscelando, secondo opportuni rapporti, cemento, acqua e aggregati. Possono anche contenere additivi e aggiunte specifiche per modificarne alcune proprietà.

La malta è un conglomerato costituito da una miscela di legante (ad esempio cemento e/o calce), acqua e inerte fine (sabbia).

Viene utilizzata in edilizia per realizzare intonaci o per collegare e tenere uniti altri materiali da costruzione, cui la malta fluida si adatta aderendovi tenacemente fino a dare una struttura monolitica ad indurimento avvenuto (malta di allettamento), o almeno ciò è quanto potrebbe avvenire con una malta cementizia nella costruzione di murature nuove. Nelle murature antiche e in generale quelle con malte a base di calce, la funzione della malta è principalmente quella di compensare le asperità dei blocchi (pietre o laterizi) e quindi quella di distribuire il carico su l'intera superficie d'appoggio reciproco. La malta non ha quindi la funzione preminente di "incollare" i blocchi, come si potrebbe pensare, soprattutto quella tradizionale.

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Il largo impiego del calcestruzzo è dovuto a diversi fattori:

• ha buone caratteristiche di resistenza a compressione, all'acqua e agli agenti atmosferici, e per questo è perfetto per la realizzazione di dighe, canali e strutture a stretto contatto con il terreno o esposte all'atmosfera;

• è compatibile con le armature in acciaio che consentono di porre rimedio alla sua bassa resistenza a trazione e flessione;

• può essere prodotto facilmente e messo in opera nelle più svariate forme; • è economico e prodotto con materiali facilmente reperibili.

Le diverse caratteristiche del calcestruzzo, sia fresco che indurito, dipendono dalla presenza o mancanza di aggregati (naturali o artificiali) e dalle caratteristiche dell'acqua e degli additivi (come per esempio quelli fluidificanti e superfluidificanti, che sono i più utilizzati e servono a rendere più lavorabile il calcestruzzo o a ridurre la quantità di acqua necessaria nell'impasto).

Materiali lapidei

I materiali lapidei sono essenzialmente le rocce. Esse si suddividono in tre categorie: rocce vulcaniche, rocce sedimentarie e rocce metamorfiche, ognuna con diverse caratteristiche meccaniche, fisiche e chimiche.

Granito

Il granito ha una struttura cristallina, spesso con cristalli di grosse dimensioni, in quanto si tratta di una roccia intrusiva formatasi a grandi profondità dalla crosta terrestre. Esso presenta un'ottima resistenza agli acidi. Viene utilizzato soprattutto nelle pavimentazioni, nei rivestimenti esterni (soprattutto in passato per il bugnato) e nei ripiani delle cucine.

Tufo

Il tufo è una roccia vulcanica di tipo piroclastica. Esso può essere impiegato in edilizia in blocchetti per la costruzione delle pareti portanti in sostituzione di altri materiali quali blocchetti di cemento, pietra da taglio eccetera.

Marmo

Il marmo è una roccia metamorfica creatasi in seguito alla trasformazione di rocce sedimentarie mediante ricristallizzazione del carbonato di calcio di cui sono in prevalenza composte. Come tutte le rocce metamorfiche, anche il marmo può essere suddiviso in lamine secondo specifiche direzioni (scistosità). Viene spesso usato nella scultura, ma anche per rivestimenti esterni degli edifici, per le pavimentazioni e per i ripiani pregiati dei mobili da bagno.

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Il Taj Mahal, un'imponente costruzione architettonica in marmo.

Porfido

Il porfido è una roccia vulcanica effusiva (formatasi quindi in prossimità della crosta terrestre) con una struttura cristallina a grana fine. È molto resistente agli sbalzi di temperatura, ed è per questo che viene spesso utilizzato per pavimentazioni esterne (dai bolognini ai sampietrini fino a lastre di dimensioni maggiori), ma anche per rivestimenti e pareti ventilate.

Ardesia

L'ardesia è una roccia metamorfica da cui si possono ottenere facilmente lastre sottili, piane, leggere, impermeabili e resistenti agli agenti atmosferici. Viene principalmente impiegata per la costruzione delle coperture, ma anche nelle pavimentazioni e per la costruzione di gradoni di scale.

Altre rocce utilizzate in edilizia

Esistono molti altri materiali lapidei utilizzati in edilizia. Tra questi, ci sono delle rocce vulcaniche (come sienite, diorite, gabbro e basalto), rocce sedimentarie (come dolomite, calcare e arenaria) e rocce metamorfiche (come, per esempio, gli gneiss).

Materiali ceramici

I materiali ceramici sono materiali ottenuti da materie prime inorganiche mediante formatura e successiva cottura. La struttura dei materiali ceramici è caratterizzata dalla presenza di elementi metallici e non metallici legati da legami forti. Hanno buone caratteristiche di resistenza al calore e all'attacco degli agenti chimici, nonché un buon isolamento elettrico. Il comportamento meccanico è caratterizzato da fragilità, elevata durezza, rigidità e buona resistenza a compressione. I materiali ceramici sono utilizzati in ambito edilizio per realizzare coperture, pareti (laterizi),

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piastrelle (per rivestire le pareti e per pavimentare i locali) e nella creazione di sanitari (ad esempio WC, bidet, lavabi e piatti doccia).

Laterizi

I laterizi sono materiali da costruzione di vasto uso caratterizzati da una forma regolare e da dimensioni e peso tali da consentirne una agevole posa manuale. Vengono impiegati per la realizzazione di murature, solai, coperture e rivestimenti. Sono costituiti da argilla (solitamente argille impure, contenenti ossido di ferro, responsabile della colorazione rossastra). Tra i laterizi, vi sono mattoni pieni, mattoni semipieni, tavelline, tavelle e tavelloni, pianelle e tegole di vario tipo (embrice, coppo, marsigliese, portoghese, olandese).

Ceramici a pasta compatta

I materiali ceramici a pasta compatta sono caratterizzati da una struttura vetrosa. Rientrano in questa categoria i grès e le più pregiate porcellane.

I grès sono prodotti ceramici realizzati con argille che durante la cottura danno luogo alla graduale formazione di una fase liquida, per cui si ottiene un prodotto impermeabile con elevata resistenza meccanica. Questo fenomeno è detto greificazione. I grès sono utilizzati per realizzare condutture per soluzioni acide o acque di scarico e piastrelle.

Le porcellane sono prodotti ceramici a pasta bianca, compatta e vetrificata, ottenuti da miscele di caolino (argilla pura), quarzo macinato finemente e feldspati. Le porcellane, a seconda della temperatura di cottura, vengono divise in porcellane tenere (che hanno traslucidità accentuata) e dure (con prevalenza della fase cristallina). Queste ultime porcellane, hanno elevata resistenza chimica, resistenza meccanica (che è maggiore all'aumentare della quantità di quarzo presente nell'impasto) e refrattarietà. Solitamente, le porcellane dure vengono utilizzate (per la loro resistenza chimica) per la produzione di crogioli per laboratori chimici e per la realizzazione di isolanti elettrici. Le porcellane tenere, invece, vengono utilizzate per ceramiche ornamentali.

Piastrelle ceramiche

Le piastrelle ceramiche vengono prodotte mediante pressatura o estrusione. Vengono successivamente cotte con il processo della monocottura (oggi sempre più diffuso) con cui si ottengono materiali ceramici a pasta greificata con elevata compenetrazione tra smalto e supporto. Le piastrelle devono soddisfare requisiti di impermeabilità all'acqua, resistenza all'abrasione, agli urti, agli attacchi chimici, alle macchie e al gelo. Le piastrelle ceramiche, esistenti sul mercato in varie forme, colori

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e dimensioni, vengono utilizzate per rivestimenti di pavimenti o di pareti di stanze da bagno e cucine. L'Italia è il primo produttore mondiale di piastrelle ceramiche, la maggior parte delle quali viene esportata).

Materiali metallici

Acciai e ghise

Le leghe di ferro si dividono in acciai e ghise in base al tenore di carbonio (maggiore o minore del 2,06%). In realtà, negli acciai e nelle ghise sono sempre presenti altri elementi di lega.

Acciai

Esistono diversi modi per classificare i vari tipi di acciai. In base ai requisiti qualitativi, per esempio, si suddividono in acciai di base (per i quali vengono garantite solo certe caratteristiche resistenziali), acciai di qualità (per i quali, oltre a quelle di resistenza meccanica, è possibile garantire altre determinate proprietà) e acciai speciali (destinati ad applicazioni o trattamenti particolari). In base alla composizione chimica, invece, si possono suddividere in acciai al carbonio, acciai basso legati e acciai legati. Infine, sulla base delle applicazione, gli acciai si possono raggruppare in: acciai da costruzione di uso generale, acciai speciali da costruzione, acciai inossidabili, acciai da utensili e acciai per usi particolari.

La produzione dell'acciaio può avvenire in due modi: siderurgia primaria e siderurgia secondaria. Nella siderurgia primaria, si parte da minerale di ferro, carbone (che viene trasformato in coke) e calcare. Queste materie prime vengono inserite in un altoforno da cui escono ghisa e scorie. La ghisa viene quindi introdotta in un convertitore a ossigeno insieme a rottami di ferro e calce viva, dove viene convertita in acciaio mediante aggiunta di ossigeno. L'acciaio viene dunque inviato all'impianto di colata. Nella siderurgia secondaria, invece, si usano forni elettrici ad arco alimentati con rottame, che viene fuso. Al rottame fuso vengono poi aggiunti additivi e ferroleghe per raggiungere le qualità richieste. Poi passa all'impianto di colata. L'acciaio presenta una elevata resistenza meccanica ed elevata flessibilità. La longevità dell'acciaio può essere compromessa da fenomeni di corrosione; oggi tuttavia l'acciaio utilizzato per elementi strutturali subisce una serie di lavorazioni che lo proteggono dall'eventuale corrosione.

I tipi di acciaio maggiormente utilizzati in edilizia sono: acciai da costruzione, acciai patinabili e acciai inossidabili. Trova impiego nella produzione delle armature del calcestruzzo armato e nella realizzazione di telai, ma anche per cancellate, balaustre, cavi per tensostrutture, eccetera.

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Ghise

Le ghise hanno un tenore di carbonio compreso tra il 2,5 e il 4% e contengono anche silicio. Le ghise sono facilmente colabili, fondono con maggiore facilità rispetto agli acciai e possono essere colate anche in forme complesse. Hanno però una modesta resistenza meccanica e sono fragili: è per questo che non sono lavorate per deformazione plastica.

Materiali metallici non ferrosi

Tra i materiali metallici non ferrosi, i più utilizzati in edilizia sono il rame e l'alluminio (e le loro rispettive leghe) e il titanio.

Rame e leghe di rame

Il rivestimento della cupola del Tempio Maggiore Israelitico di Firenze è in rame. La tipica

colorazione verde, è dovuta alla naturale ossidazione del materiale.

Il rame è un materiale che presenta elevata conducibilità elettrica e termica, è facilmente deformabile plasticamente, forma facilmente leghe con altri metalli, ha una buona resistenza alla corrosione atmosferica e ha discrete caratteristiche meccaniche. Il rame, e in generale le sue leghe, ovvero bronzi (rame-stagno) e ottoni (rame-zinco), trova ampio utilizzo nell'impiantistica (cavi elettrici, tubazioni per l'acqua, gas metano, combustibili liquidi, eccetera), nella produzione di maniglie e pomelli, ma anche per le coperture (soprattutto per i rivestimenti delle cupole) o per parti di esse (pluviali, grondaie, doccioni, grembiuli e converse). Esistono poi i cuproallumini, che sono leghe rame-alluminio (con tenore di alluminio fino al 13%) che hanno elevata resistenza alla corrosione in acqua di mare.

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Alluminio e leghe di alluminio

L'alluminio e le sue leghe sono caratterizzati da una bassa densità (più o meno un terzo di quella degli acciai. Inoltre, l'alluminio è un materiale estremamente leggero e resistente alla corrosione in ambienti neutri (in assenza di cloruri). Ha elevata conducibilità elettrica (di poco inferiore a quella del rame) e una buona duttilità. Per migliorare le proprietà meccaniche, le leghe di alluminio possono essere sottoposte a trattamenti termici specifici oppure a incrudimento.

Nell'edilizia si sfrutta la combinazione di buona resistenza alla corrosione, bassa densità e facilità di lavorazione: le applicazioni principali delle leghe di alluminio riguardano la realizzazione di serramenti e facciate continue.

Titanio

Il titanio non è un elemento raro (è più diffuso, per esempio, del rame e dello zinco); tuttavia è un materiale molto costoso. Ha un elevato punto di fusione (1660 °C), un basso coefficiente di dilatazione termica, non è magnetico, non infragilisce a basse temperature, è ipoallergenico, leggero e inossidabile. Si può produrre in getti, è forgiabile, lo si può saldare e lavorare con macchine utensili. Per applicazioni architettoniche, solitamente si ricorre al titanio nella sua colorazione naturale, simile, a prima vista, a quella dell'acciaio inossidabile. In questo caso, la superficie del metallo dà riflessi colorati con tonalità che cambiano al variare dell'angolo di osservazione e del tipo di illuminazione. Un tipico esempio di utilizzo di questo materiale è il Guggenheim Museum di Bilbao, opera di Frank O. Gehry completamente rivestita in titanio.

Il Guggenheim Museum di Bilbao, rivestito interamente in titanio.

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Piombo

Il piombo viene usato nell'edilizia, nella produzione di batterie per autotrazione e di proiettili per armi da fuoco e, allo stato liquido, come refrigerante nei reattori nucleari, a volte in lega eutettica con il bismuto. Il piombo è un componente del peltro e di leghe metalliche usate per la saldatura.

Oro

Esistono rari casi, in edilizia, di utilizzo dell'oro. Un esempio dell'utilizzo di questo metallo in architettura è la Cupola della Roccia che sovrasta la città di Gerusalemme. Essa è esternamente rivestita di lamine d'oro, materiale molto duttile, riflettente e ottimo conduttore elettrico e termico.

La Cupola della Roccia a Gerusalemme: è completamente rivestita d'oro.

Vetri

Il vetro è un materiale fragile, che trova impiego sotto forma di lastre nella realizzazione degli infissi (finestre) o di facciate continue. Il vetro permette alla luce di entrare negli ambienti interni, e al tempo stesso isola l'edificio dagli agenti atmosferici (vento, neve, e pioggia). Può essere utilizzato anche a scopo decorativo, realizzando ad esempio delle vetrate a mosaico (questa tecnica è stata spesso utilizzata nelle chiese).

Le lastre di vetro possono essere assemblate in strati tra cui viene lasciata un'intercapedine; si parla in questo caso di vetrocamera. L'utilizzo di vetrocamera permette un buon isolamento termico e acustico. Esiste anche la possibilità di creare dei "mattoni" in vetro. Si parla in questo caso di vetrocemento. È possibile realizzare pareti divisorie in vetrocemento, che permettono il passaggio della luce mantenendo allo stesso tempo una certa privacy.

Per porre rimedio alla fragilità del vetro, è possibile utilizzare alcuni accorgimenti. Si possono così ottenere tre tipi di sicurezza:

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• vetri armati (o retinati): sono quei vetri che vengono prodotti inserendo, in fase di laminazione, quando il vetro è ancora fluido, una rete metallica che ha la funzione di trattenere i frammenti in caso di urto;

• vetri temprati: sono quelli soggetti a trattamenti termici atti ad aumentarne la resistenza all'urto. Quando si rompono, questi particolari vetri si frantumano in piccoli frammenti con spigoli arrotondati;

• vetri stratificati: si ottengono interponendo tra due lastre di vetro, solitamente temprate, un foglio di materiale plastico. Questi vetri sono usati soprattutto per i parabrezza delle automobili (in molti paesi, tra cui l'Italia, sono obbligatori).

Il vetro può essere anche utilizzato come materiale per strutture portanti, in questo caso si parla di vetro strutturale.

Materiali polimerici

I materiali polimerici (o "materie plastiche") sono materiali molto leggeri composti da macromolecole. La maggior parte dei materiali polimerici oggi in commercio, viene prodotta per via sintetica a partire da piccole molecole derivate dal petrolio (polimeri sintetici). Solo una minima parte dei polimeri è derivata, invece, da sostanze naturali attraverso trasformazioni chimiche (polimeri semisintetici). In questa categoria di materiali rientrano:

• termoplastici (flessibili e resistenti a temperatura ambiente, ma rammolliscono ad alte temperature);

• termoindurenti (più rigidi e resistenti ai termoplastici); • gomme (possono subire grandi allungamenti per poi riprendere la forma

originale).

I materiali polimerici sono impiegati per realizzare tubazioni idrauliche, vasche e tapparelle.

Polistirene

Il polistirene (o polistirolo) viene impiegato, in edilizia, principalmente nella realizzazione dei cappotti. Esso è un buon isolante termico e allo stesso tempo è economico e leggero.

Materiali compositi

I cosiddetti materiali compositi sono quei materiali costituiti da una miscela, naturale o artificiale, di materiali diversi. Fanno parte di questa categoria anche il legno (che è costituito infatti da cellulosa inserita in una matrice di lignina)[11] e alcuni materiali di uso tradizionale (come i conglomerati cementizi), ma solitamente il termine di "compositi" viene utilizzato in senso più stretto, per indicare una categoria di materiali non naturali, che rispondono a tre requisiti:

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• consistono di due o più materiali fisicamente distinti; • questi materiali sono dispersi l'uno nell'altro in modo controllato; • il materiale risultante presenta una combinazione di proprietà che non si può

ottenere nei singoli materiali componenti.

I materiali compositi possono essere distinti in:

• particellari: sono ottenuti aggiungendo particelle a una matrice polimerica, metallica o ceramica con lo scopo di migliorare le caratteristiche elettriche, termiche, magnetiche, di resistenza all'abrasione, all'usura o all'urto;

• rinforzati con fibre: sono i materiali compositi più diffusi; consentono di ottenere elevate resistenze e rigidità specifiche (ovvero riferite al peso) inserendo fibre resistenti e rigide, ma fragili, in una matrice polimerica, più duttile

• strutturati: a questa categoria appartengono i compositi laminati e a nido d'ape.

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LE FONDAZIONI

Le fondazioni hanno il compito di distribuire il peso dell’edificio sul terreno in modo da evitare assestamenti che possano causare lesioni alla struttura sovrastante. Solitamente queste vengono realizzate in calcestruzzo o più raramente in pietrame. Il tipo di fondazioni (continua o puntiforme) e le loro dimensioni dipendono dalla struttura sovrastante e dalle caratteristiche del terreno, in ogni caso devono essere costruite ad una profondità tale da non essere raggiungibili dal gelo. Nella bioedilizia si consiglia solitamente di ridurre al minimo l'uso del calcestruzzo in quanto mantiene a lungo l'umidità, ha scarsa traspirabilità, elevata conducibilità ed è facilmente aggredibile dagli agenti atmosferici, richiede, pertanto, complesse opere di isolamento termoacustico e l'utilizzo di additivi chimici specifici di forte impatto ambientale. Tuttavia, il calcestruzzo armato, per motivi normativi e pratici, è la soluzione più consigliata per realizzare fondazioni. Si consiglia quindi l'utilizzo di cemento puro, assicurandosi l'assenza di radioattività e che non contenga additivi provenienti da scarti di altre lavorazioni industriali o prodotti chimici di sintesi. Questi requisiti si trovano più facilmente nel cemento bianco che è quindi preferibile. L’acqua che si accumula nella terra smossa attorno alla casa esercita una pressione contro i muri ed i pavimenti, tende a risalire per capillarità nei muri e può compromettere la struttura e il benessere ambientale all’interno. Per evitare la risalita capillare è necessario prevedere un sistema di drenaggio perimetrale in grado di raccogliere ed espellere l’acqua accumulata. Si tratta di riempire con un materiale poco capillare (per esempio pietrisco di calcare) lo spazio tra il muro perimetrale ed il terreno all’interno del quale si posano tubi drenanti forati con una pendenza di circa 1,5%. L’acqua superficiale percola facilmente fino ai tubi per essere convogliata e allontanata oppure accumulata in cisterne apposite e utilizzata per la coltivazione del giardino o dell’orto. Normalmente, i tubi di drenaggio sono realizzati in PVC perchè economici, per la produzione di questo materiale a base petrolchimica vengono emesse in ambiente enormi quantitativi di CO2 ed è inoltre un materiale difficilmente riciclabile. In alternativa si possono utilizzare tubi in polietilene, in laterizio o in cemento. I tubi in laterizio o cemento disponibili in commercio sono corti e meno maneggevoli. La loro posa in opera risulta più complessa e il sistema di drenaggio deve essere progettato con maggiore attenzione. È buona regola inserire nelle fondazioni perimetrali un nastro d’acciaio che funga da dispersore al quale possono essere collegate tutte le strutture metalliche degli impianti e la rete elettrica. In questo modo si riduce l’intensità dei campi elettrici che si formano in prossimità della rete e si deviano le correnti vaganti. Scavi e rinterri Per realizzare le fondazioni si esegue uno scavo di profondità idonea per contenere le

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fondazioni stesse e lo scantinato se previsto. Il primo strato asportato (10-40 cm) contiene terra fertile che può essere utilizzata a fine lavori per la sistemazione del verde intorno all’edificio. Per poter riutilizzare il terreno fertile asportato è necessario accumularlo, dove possa non ingombrare ed evitando di mischiarlo con terra sterile, in cumuli non più alti di 1-2 m in modo che la pressione e la scarsa ventilazione non la rendano sterile. Nel caso di accatastamento per periodi lunghi (oltre 3 mesi) è preferibile coprire la terra con zolle erbose. Anche il terreno sterile asportato può essere riutilizzato per la modellazione del terreno e per la creazione di terrapieni antirumore, terrazzamenti ecc. E’ buona norma prevedere il riutilizzo del materiale di riporto fin dalle prime fasi della progettazione, ciò consente di razionalizzare il trasporto alla discarica ed è preferibile dal punto di vista ambientale. Gli scantinati e le altre parti interrate dell’edificio sono a contatto con il terreno e quindi maggiormente esposti ad infiltrazioni d’acqua e di gas radon. Le stesse tecniche di isolamento con membrane per la protezione dalle infiltrazioni di umidità sono adatte anche per bloccare le infiltrazioni di radon. Per la protezione dal radon tuttavia è necessario rafforzare le misure normalmente sufficienti per una buona protezione contro le infiltrazioni di umidità: sigillare con cura le cuciture, incollare o saldare le membrane senza lasciare fessure, sigillare accuratamente tutti i punti di perforazione (elementi della costruzione, condutture ecc.). Le membrane in polietilene hanno una buona tenuta stagna e insieme ad una buona ventilazione del vespaio garantiscono un’adeguate protezione contro il gas che penetra gli ambienti per infiltrazione. In località in cui è presente un’elevata concentrazione di radon, il quale può penetrare negli ambienti anche per diffusione attraverso gli elementi costruttivi, è consigliabile realizzare una piastra di fondazioni in calcestruzzo (che è parzialmente impermeabile al radon) e provvedere all’impermeabilizzazione con una guaina posata sul ripiano dello scavo di fondazione e una volta costruita la cantina va tirata su lungo le pareti. Le placche ed i condotti di drenaggio dovranno essere posti all’esterno di tale membrana. Fondazioni in pietrame Le fondazioni in pietrame sono il sistema più antico utilizzato per creare la base per la struttura di un edificio indicato soprattutto in legno o in terra cruda. Il pietrame distribuisce uniformemente i carichi della struttura costituendo una barriera per la risalita capillare dell’umidità dal terreno. È preferibile utilizzare pietra locale, ma alcuni tipi di pietrame possono emettere gas radioattivi (tufo, pozzolana) o radon (granito) ed è consigliabile eseguire dei controlli su un campione di materiale prima di utilizzarlo.

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Informazioni tecnico-descrittive Le fondazioni possono essere realizzate in due modalità: 1. con muratura di pietrame poggiate direttamente nello scavo 2. a sacco con scapoli di pietra mescolati con cemento La grande quantità di scarto di lavorazione della pietra può essere in parte riutilizzata per piastrelle e graniglia. Informazioni sulle prestazioni Il pietrame è il collegamento naturale tra l’edificio e il terreno. Distribuendo i carichi sul terreno, evita le lesioni alle pareti perimetrali dovuti ad eventuali assestamenti; contrasta in modo efficacie la risalita capillare e funge da plinto per i pilastri in legno. Informazioni sulla posa in opera e sulla manutenzione La posa in opera consiste nell’eseguire lo scavo a partire dal piano di sbancamento per accogliere la muratura in pietrame. Quest’ultima riempie lo scavo fino al piano dello sbancamento ed i muri dell’edificio poggiano direttamente su di essa.

Solaio rialzato con cupole in plastica rigenerata Per la creazione dell’intercapedine sotto il solaio possono essere impiegate cupole in plastica riciclata disponibili in commercio in diverse dimensioni. Questi elementi sono sagomati in modo da essere facilmente collegati tra loro per formare una struttura autoportante puntiforme e ricevere il getto (in c.l.s. o altro) che costituisce la soletta. Sotto le cupolette si crea un vano libero che consente la circolazione d’aria in

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tutte le direzioni e il passaggio delle tubazioni degli impianti, le condotte e i cavi. Gli elementi a cupola sono realizzati in plastica riciclata e riciclabile e costituiscono un alternativo cassero a perdere in grado di contribuire al fonoisolamento e all’impermeabilizzazione del solaio. Informazioni tecnico-descrittive Le cupole di plastica (normalmente di dimensioni 50X50 cm) sono disponibili in diverse altezze (da 12 a 80 cm) da scegliere a seconda dell’entità del rialzo desiderato. Le case produttrici offrono elementi predisposti per essere collegati ermeticamente tra loro, modellati con nervature di irrigidimento diagonali e scanalature incrociate per contenere i ferri dell’armatura. La superficie inferiore diseguale e i pilastrini rastremati verso il basso spezzano le vibrazioni sonore per evitare un’eventuale effetto di cassa di risonanza che si può creare all’interno dell’intercapedine.

Informazioni sulle prestazioni Le cupole in plastica riciclata costituiscono un prodotto a basso impatto ambientale resistente e duraturo. Possono essere impiegate in ambienti con un alto tasso di umidità specialmente se modellati con incastro ermetico. Rendono la realizzazione del solaio estremamente semplice e veloce garantendo un’intercapedine aerata idonea per il passaggio delle tubazioni. Informazioni sulla posa in opera e sulla manutenzione Per la posa in opera: 1. creare un piano di base in magrone, cemento e ghiaia, livellandolo il più possibile. 2. posare tutte le eventuali tubature per gli impianti avendo cura che i fori di aerazione restino liberi;

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3. posizionare le cupole di plastica e verificare il loro corretto aggancio prima di procedere con il getto; 4. effettuare il getto del solaio in calcestruzzo; 5. completare il solaio con il massetto e il pavimento. Esempi di posa in opera

Murature perimetrali I muri perimetrali assolvere funzione portante o solo di tamponamento., ma devono comunque proteggere acusticamente e termicamente l’interno dell’edificio. Le murature, così come tutte le grandi superfici, hanno una grossa responsabilità nel determinare le condizioni climatiche interne e quindi il benessere abitativo. Esse devono avere: • capacita igrometriche: la capacità di assorbire, temporaneamente, l’umidità in eccesso dell’aria e di restituirla all’aria quando questa lo necessiti. Questa capacità è posseduta dai materiali porosi come il laterizio e il legno e l’intonaco realizzato con calce.

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• inerzia termica: la capacità di assumere calore e mantenerlo a lungo, regolando quindi la temperatura interna sia d’estate che d’inverno. • capacità termoisolante: solitamente i materiali per murature possiedono una conduttività termica troppo elevata per poter conferire ala muro una buona capacità isolante. Si utilizzano a questo scopo laterizi porizzati e strati di materiali con una bassa conduttività termica. • capacità fonoisolante: la massima capacità di abbattimento acustico è propria dei muri pesanti. Perciò le murature leggere (in laterizio forato o in legno) devono essere composte da diversi strati ognuno dei quali contribuisce all’abbattimento del suono. Bisogna inoltre realizzare accuratamente tutti i punti di discontinuità della muratura (porte e finestre, giunti, fessure) che sotto punti deboli sotto il profilo acustico. Tipologie I muri perimetrali possono essere omogenei o stratificati, portanti e solo di tamponamento. Muri in blocchi di laterizio

Muratura massiccia in laterizio porizzato La muratura massiccia in laterizio porizzato è un sistema per la costruzione di murature che risponde all'esigenza di migliorare il livello delle prestazioni termiche senza ridurre quello della statica, acustica e resistenza al fuoco, attraverso l’alleggerimento dell’impasto cotto dei blocchi mediante macropori sferici, da cui la denominazione "porizzato". La muratura può assolvere ala funzione portante e/o di

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tamponamento. Per assolvere alla funzione portante lo spessore deve essere almeno di 25 cm. I blocchi costituenti la muratura sono in pasta a fori verticali posati su letti di malta cementizia. Le materie prime utilizzate nella realizzazione dei blocchi in laterizio alleggeriti in pasta non presentano, al termine del ciclo produttivo e in condizioni di permanenza in opera, particolari rischi per la salubrità degli ambienti interni. Come per i laterizi tradizionali, il contenuto radioattivo, per quanto variabile, risulta essere tendenzialmente contenuto, mentre altre impurità possono essere costituite da ossidi di ferro, residui oleosi oppure essere associate alla qualità del combustibile utilizzato nei processi di cottura. Informazioni tecnico-descrittive Rispetto alla produzione di laterizi di tipo tradizionale il processo produttivo dei blocchi di laterizio porizzato (o alveolato) prevede l’aggiunta all’argilla cruda di una determinata quantità di materiali combustibili di varia natura (quali perle di polistirene espanso, segatura di legno, sansa di olive) che durante la cottura lasciano cavità vuote (alveoli), tra loro non comunicanti, che alleggeriscono il manufatto e ne migliorano le prestazioni termocoibenti. Le proprietà termocoibenti dipendono, oltre che dal tipo di materiale anche dallo spessore della muratura. Un contributo alla capacità di isolamento dei blocchi può essere dato anche dal disegno della foratura, che, presentando un elevato numero di file di fori molto stretti nella direzione perpendicolare alla direzione del flusso termico, impedisce moti convettivi dell’aria all’interno del blocco o della muratura. Il potere fonoisolante della muratura è alto per il maggior peso del blocco in laterizio termoisolante. In alternativa vengono miscelate anche sostanze inorganiche quali la perlite espansa, nel qual caso non si hanno più alveoli, ma inclusione di materiali leggeri Le murature realizzate con blocchi in laterizio alveolato conservano le buone caratteristiche di permeabilità al passaggio del vapore acqueo dei laterizi tradizionali, nei confronti dei quali presentano inoltre un vantaggio dato dalla migliore resistenza termica (con ricadute positive sul controllo dell’umidità di condensa e quindi della proliferazione di inquinanti di natura biologica). In caso di incendio la natura del materiale in sé non dà luogo a esalazioni potenzialmente pericolose. Il laterizio oltre ad essere facilmente reperibile in natura, mantiene le sue caratteristiche prestazionali sempre elevate nel tempo. E’ facilmente recuperabile o riciclabile; una buona applicazione per intonaci e pavimenti è, ad esempio, il cocciopesto realizzato con argilla cotta frantumata.

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Muri in blocchi di laterizio

Pareti con isolamento termico esterno con pannelli di fibre di legno mineralizzate Il sistema di isolamento termico dall’esterno ad intonaco sottile, (detto anche sistema a cappotto), consiste nell’applicazione, sull’intera superficie esterna verticale dell’edificio, di pannelli isolanti che vengono poi coperti da uno spessore sottile, protettivo, di finitura realizzato con particolari intonaci. Si tratta di un sistema di isolamento che ha preso piede in Europa negli ultimi 30 anni. La coibentazione dall'esterno non altera i volumi interni degli ambienti e diminuisce l'effetto dei "ponti termici" (per esempio, causati da travi o pilastri su muri esposti a nord) evitando così il formarsi di muffe da condensa del vapore. E’ una soluzione particolarmente indicata nel caso di ripristino di superfici verticali, il cui rivestimento sia in fase di avanzato degrado, ma anche per interventi exnovo. Per ottenere un sistema a cappotto efficace, bisogna prestare la massima attenzione alle caratteristiche dei singoli componenti, in particolare del materiale isolante. La coibentazione risulta economicamente conveniente e rallenta il naturale processo di

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degrado degli edifici. Informazioni tecnico-descrittive La coibentazione può essere realizzata incollando e/o fissando con tasselli lastre d'isolante, senza rimuovere il vecchio intonaco, oppure aggiungendo uno strato (3 - 5 cm) d'intonaco isolante, operazione che riduce le oscillazioni di temperatura accrescendo anche la capacità termica dell'edificio. Molto adatti ad essere intonacati sono i pannelli in trucioli di legno mineralizzati, ancorati a secco, in quanto costituiscono un eccellente supporto per l’intonaco. L’ancoraggio a secco è preferibile per evitare che l’applicazione degli stessi con colle sintetiche, successivamente coperti con intonaco aggrappato su rete di armatura, e rivestito da uno strato di finitura, impedisca alla superficie muraria di traspirare. Questa soluzione è possibile se si dispone di materiali isolanti aventi ottime caratteristiche meccaniche e tecniche per resistere agli agenti atmosferici e per consentire una posa adeguata. Informazioni sulle prestazioni I vantaggi principali dell’isolamento esterno sono: - isolamento continuo e uniforme, che consente l’eliminazione totale dei “ponti termici” ovvero quei punti che favoriscono la dispersione del calore. Si possono così conseguire un maggiore risparmio energetico (legato anche alla maggiore capacità dell’edificio di trattenere il calore), un maggiore comfort termico e l’eliminazione di muffe sulle superfici interne delle abitazioni, originate dalla condensa in corrispondenza dei ponti termici; - protezione delle pareti esterne dagli agenti atmosferici; - stabilità delle condizioni termo-igrometriche della struttura degli edifici; - riduzione dello spessore delle pareti perimetrali con il conseguente aumento delle aree abitative. Nel caso di interventi di ripristino, il sistema comporta una serie di vantaggi non indifferenti, dal lato organizzativo e del risparmio: - non richiede l’allontanamento degli inquilini durante l’esecuzione dei lavori; - rallenta il processo di degrado degli edifici offrendo una protezione totale; - risolve il problema delle crepe e delle infiltrazioni di acqua meteorica; - permette la realizzazione, in un’unica fase, dell’isolamento e della finitura con evidenti risparmi. Informazioni sulla posa in opera e sulla manutenzione La superficie da coibentare deve essere esente da polvere e/o sporco. Eventuali tracce

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di oli, grassi, cere, ecc. devono essere rimosse preventivamente. Per quanto riguarda le operazioni di fissaggio possono essere utilizzati collanti di diversa natura, sistemi a base di adesivi cementiti oppure elementi di fissaggio meccanico. I sistemi di ancoraggio a secco risultano sempre preferibili dal momento che non comportano alcun contributo in termini di potenziale emissione di inquinanti, cosa che diviene invece possibile in funzione del tipo di adesivo utilizzato. I tasselli di ancoraggio sono costituiti da un disco e da una gamba: il disco ha lo scopo di pressare per punzonamento, l’isolante contro il supporto. Ogni tassello viene inserito in vicinanza degli angoli dei singoli pannelli, quattro per ogni pannello. I pannelli in fibra di legno mineralizzata non richiedono, in normali condizioni applicative, particolari interventi di manutenzione. I principali rischi possono essere associati, durante le operazioni di rimozione, alla dispersione in ambiente di particelle respirabili. Solitamente la posa del cappotto è effettuata a circa 2 m sopra il piano di calpestio per evitare danni da urti. Pareti in legno

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Pareti in legno massiccio esterne La costruzione di case con pareti in legno massiccio, come il “blockbau” o il “fachwerk”, riprende una tradizione edilizia diffusa in Europa, soprattutto nelle regioni alpine e nei paesi nordici. Queste tipologie, sia per stretti motivi di manutenzione conservativa che per nuove esigenze costruttive, hanno subito notevoli migliorie tecniche, soprattutto in rapporto al problema del ritiro del legno in opera e le sue indesiderabili conseguenze (crepe nell’intonaco, fenditure, ecc.). Il sistema prevede essenzialmente l’impiego di tronchetti in legno massiccio o lamellare di varie essenze e dimensioni, squadrati o stondati, con doppia o tripla lavorazione a maschio e femmina, i quali vengono sovrapposti verticalmente tra loro fino a formare la parete divisoria o portante. Tali sistemi sono stati adottati dalla produzione industriale di case prefabbricate, disponibili in varie dimensioni standardizzate. Il legno in quanto materiale naturale, compatto ed omogeneo, riesce a fornire prestazioni elevate di isolamento termico ed acustico, oltre a saper regolare l’umidità interna dei locali portando il comfort ad alti livelli. Il legno è un materiale ecologico non solo perchè è una materia prima rinnovabile, ma anche perchè produce residui di lavorazioni degradabili o riutilizzabili, ma anche e soprattutto perchè il suo utilizzo dalla foresta alla fabbrica al cantiere, richiede un impiego di energia di gran lunga inferiore rispetto a tutti gli altri materiali impiegati nelle costruzioni, da qui ne deriva un minor inquinamento. Informazioni tecnico-descrittive Le pareti di queste case sono composte da tronchi d’albero (normalmente abete rosso), squadrati o lasciati leggermente tondi i quali,opportunamente ammorsati nelle tre direzioni spaziali, rendono la struttura staticamente efficiente, specialmente nei confronti delle azioni orizzontali come quelle esercitate dal vento e dal sisma. Questi elementi, opportunamente scanalati, vengono montati l’uno sull’altro e, agli angoli, uniti ad incastro. Lo spessore delle pareti varia da 6 a 20 cm. Quelle con spessori inferiori a 14/16 cm sono troppo leggere per soddisfare i requisiti termoacustici richiesti per una normale abitazione e richiedono un ulteriore rivestimento. Gli elementi strutturali in legno massello sono completamente riutilizzabli o riciclabili in nuove strutture. Pareti in legno massiccio esterne con isolamento interno Il rivestimento di una parete in legno massiccio consiste normalmente in uno strato di materiale termoisolante e un tavolato in legno. Inoltre conviene l’inserimento di una barriera al vento(carta kraft). I materiali termoisolanti più adatti sono i pannelli teneri

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in fibre di legno, i materassini in fibra di cocco e i pannelli in trucioli di legno mineralizzati. Il principale inconveniente di queste pareti, con o senza isolamento, consiste nel ritiro del legno massiccio. Il ritiro in asse perpendicolare alle fibre è molto più elevato rispetto a quello in asse del tronco, infatti, il ritiro di un elemento orizzontale dell’altezza di 20cm è di 2-3 mm, il ritiro dei pilastri è invece molto inferiore, cioè 2-3mm su una lunghezza di 3 m. Di questo ritiro si deve tenere conto nella costruzione di porte, finestre, scale, canne fumarie ed installazioni. Sopra le finestre e le porte deve rimanere un adeguato spazio, riempito con fibre di cocco o con un altro materiale fibroso, per consentire l’assestamento, altrimenti le pareti non risultano più a camera d’aria. Informazioni sulla posa in opera e sulla manutenzione Rispetto alla posa in opera grande attenzione si dovrà prestare ai particolari costruttivi dei bagni e degli altri locali umidi dove i blocchetti dovranno essere opportunatamente isolati distaccati dal terreno tramite un massetto dimensionato. È consigliabile evitare il montaggio con collanti e la sigillatura degli interstizi con schiume, resine, mastici e siliconi. Nel caso di rivestimento delle pareti interne con materiale isolante o di protezione nei confronti dell’umidità (barriera al vapore) si dovrà prestare attenzione al possibile effetto di “incapsulamento” dell’ambiente confinato. Tale effetto comporta che le sostanze inquinanti eventualmente presenti nell’aria interna non possono traspirare verso l’esterno attraverso le pareti, mentre l’effetto di assorbimento e depurazione dell’aria può essere svolto esclusivamente dallo strato di finitura interna superficiale (perline, pannelli). Per la protezione al fuoco il rivestimento interno con gesso offre garanzie molto superiori ai trattamenti ignifuganti con prodotti chimici, anche se non permette di mantenere il legno a vista. È bene limitare il più possibile la manutenzione con vernici poliuretaniche o epossidiche in interni in quanto producono forti e prolungate emissioni inquinanti. Da evitare anche il trattamento periodico in ambienti confinati con conservanti e coloranti a impregnazione: essi non formano un film protettivo superficiale e possono rilasciare in modo continuato inquinanti nell’ambiente. La tecnica di assemblaggio a secco permette di velocizzare i tempi di cantiere e minimizza i rischi di impatto sulla qualità dell’aria interna.

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Pareti in terra cruda

Muri in terra cruda leggera (pisè) La terra cruda è il materiale da costruzione utilizzato in tutto il mondo sin dall'antichità. Può essere impiegata per murature, tamponamenti, tetti, solai, intonaci. Può essere formata in blocchi, eventualmente essiccati al sole, impastata e modellata con le mani, tenuta in forma con l'ausilio di casseri, impastata insieme con qualsiasi fibra naturale: paglia, legno, trucioli, sughero, fibre vegetali , ecc.. In tutta Europa si trovano edifici in terra, e, contrariamente a quanto si può pensare, soprattutto in paesi del nord e del centro Europa. Quindi paesi molto piovosi e molto freddi, contano tradizioni costruttive in terra piuttosto rilevanti, come anche in paesi molto caldi e desertici. In Italia si è costruito in terra fino agli anni '60/'70; case in terra sono sparse su tutto il territorio nazionale, a partire dai Casoni veneti, fino alle case in pisè del Piemonte, attraverso la Toscana, le Marche, la Basilicata, la Calabria e la Sardegna: ogni regione sviluppando un particolare caratteristica costruttiva. Vi sono diverse tecniche costruttive che si possono utilizzare; in tutto il mondo ne sono state classificate ben 18. Il Pisè è una tra le tecniche costruttive per la lavorazione della terra, consente la edificazione di muri monolitici e consiste nel costipare, con l'aiuto di un "piseur", della terra leggermente umida, all'interno di casseformi; era una tecnica molto diffusa nell’architettura rurale dell’ottocento. Tale tecnica non richiede energia né macchine per la lavorazione, riduce le spese di trasporto e consumo di materie prime non rinnovabili, è adatta per l'auto-costruzione. Informazioni tecnico-descrittive Per la tecnica del Pisè, utilizzata per murature portanti e non, si usa una terra piuttosto magra (sabbiosa) e poco umida. Alle terre troppo grasse viene aggiunta

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sabbia per ottenere una granulometria più adatta e per evitarne la fessurazione durante il processo di essiccazione. I lavori cominciano con l’estrazione della terra argillosa, sempre reperibile direttamente sull’area di costruzione, e la sua stagionatura durante la quale le zolle si sbriciolano. Il materiale accumulato deve conservare la sua plasticità e quindi conviene coprirlo con teli bagnati per evitare l’essiccazione e per proteggerlo contro le piogge. Per renderla meglio lavorabile, la terra viene impastata ed è pronta all’uso quando tutti i suoi componenti sono ben amalgamati e l’impasto diventa plasmabile. Il materiale viene inserito nelle casseforme in strati di 5-12 cm e battuto (a mano o con l’ausilio di una macchina) fino ad arrivare a strati alti di circa 80 cm (si possono costruire tre strati al giorno). Agli angoli, gli strati vengono uniti per dentatura; lo spessore minimo dei muri portanti è di 50 cm. Le aperture delle finestre e delle porte si ottengono tramite apposite controintelaiature, le architravi sono da rinforzare con listelli di legno. La tecnica consente la costruzione di edifici alti fino a due o tre piani. E’ buona regola erigere i muri in terra cruda su uno zoccolo di pietra e proteggerli contro l’umidità ascendente; i muri esterni devono essere protetti da un intonaco contro la pioggia. Le principali caratteristiche riconosciute alla terra cruda sono: - la reperibilità del materiale; - la lavorabilità; - il livello di risparmio energetico nella sua elaborazione; - l’alto livello di isolamento termico e acustico; - la facilità di dismissione e di riciclo dei materiali alla fine della vita utile dell’edificio; - la capacità di regolare il livello di umidità all’interno degli ambienti; - la facilità di apprendimento delle tecniche costruttive da parte di chiunque. Le principali controindicazioni imputate sono legate, ad esempio, allo spessore dei muri, che riduce sensibilmente la metratura utile degli edifici, aspetto non trascurabile nelle aree urbane, oppure alla necessaria protezione dei muri dalla pioggia e dall’umidità proveniente dal terreno.

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Muri in pietrame

I muri in pietrame rappresentano la prima categoria di murature con elementi naturali previste oggi dalle Norme D.M. 20/11/ 1987 che distinguono: 1) muratura di pietra non squadrata; 2) muratura di pietra listata; 3) muratura di pietra squadrata. Il primo tipo di muratura (pietra non squadrata) è quella realizzata con materiale di cava lavorato solo grossolanamente, posto in opera in strati sufficientemente regolari. Agli incroci dei muri ed agli angoli vanno posti elementi lapidei più regolari e meglio squadrati. Lo spessore minimo delle murature in pietrame irregolare sono le più penalizzate dalle norme dato che lo spessore minimo deve essere di 50 cm, spessore che diminuisce a 40 cm per le murature in pietrame e listatura in conglomerato cementizio semplice o armato e a 24 cm per le murature a conci lapidei squadrati. Informazioni tecnico-descrittive Le rocce possono essere raggruppate in tre categorie ben distinte a seconda della loro genesi:

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• rocce ignee o magmatiche quali graniti, porfidi, basalti, tufi vulcanici, ecc. • rocce sedimentarie a loro volta classificate in: rocce clastiche o detritiche: arenarie, argille, marne, ecc. rocce organogene: come calcari e dolomie rocce di origine chimica: come travertini, gessi, caolini • rocce metamorfiche derivate dalla trasformazione di altre rocce (ignee o sedimentarie) che originano marmi e gneiss. I muri in pietrame vanno costruiti selezionando rocce con caratteristiche idonee, data l’estrema variabilità delle rocce stesse. Le pietre vive utilizzabili per questo tipo di muratura provengono dal gruppo delle rocce sedimentarie e metamorfiche. Risultano infatti essere meno adatte le rocce ignee perché dure fragili perché dure e fragili, ma soprattutto per la modesta capacità di legarsi alle malte. La struttura muraria in pietra viva, come qualsiasi altro tipo di muratura, va difesa dall’umidità capillare ed esterna (per rendere più semplice la scelta del tipo di pietra viva è bene determinare la sua resistenza agli agenti atmosferici e il mantenimento del suo colore originario). Gli elementi lapidei costituenti la muratura devono soddisfare i seguenti requisiti: - provenire di norma da abbattimenti di rocce; - essere resistenti al gelo; - non contenere sostanze in soluzione o residui organici; - non presentare parti alterate o facilmente rimovibili; - avere sufficiente resistenza sia all’acqua che al secco; - avere buona adesività alle malte. Il riuso di elementi lapidei provenienti da vecchie murature è subordinato ai requisiti sopra indicati ed alla pulitura e lavaggio delle superfici. Osservazioni ambientali e precauzioni Le condizioni di rischio per la salute dovute all’impiego di pietre naturali per la realizzazione di murature sono sostanzialmente associate al potenziale contenuto radioattivo d’ origine; è questo il caso, ad esempio, del tufo di origine vulcanica, il cui uso è vietato per la possibile emissione di radon mentre il tufo marino e sedimentario non mostra segni di radioattività.

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Ulteriore elemento da valutare è dato dal potenziale di rilascio di polveri a seguito di usura nel caso che la muratura sia lasciata a vista. In caso di incendio la natura del materiale in sé non dà luogo a esalazioni potenzialmente pericolose. L’utilizzo di pietre naturali per la realizzazione di murature portanti non comporta un costo energetico elevato per le fasi di prima lavorazione del materiale. Da valutare tuttavia, in relazione al luogo di provenienza del materiale, l’incidenza delle fasi di trasporto e movimentazione. Il materiale al termine della vita utile si presta a essere reimpiegato in modo diretto o frantumato. Informazioni sulle prestazioni I muri in pietra viva hanno una capacità isolante ridotta: i locali risultano o troppo caldi d’estate o troppo freddi d’inverno. Anche laddove la pietra è resistente agli agenti atmosferici (pregio non accomunabile a tutti i tipi di pietra), potrebbe assorbire facilmente l’umidità e creare seri problemi legati alla possibile gelività del materiale. Volendo comunque mantenere le peculiarità estetiche del muro in pietra, per ovviare al rischio della presenza di umidità, un tempo si costruivano i muri con mattoni verso l’interno, raddoppiandoli poi in pietra, nella parte esterna, assicurando così un miglioramento prestazionale della struttura. Coperture

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Tetto ventilato in legno con tavolato e isolamento termico Questo tipo di copertura, coibentato all’esterno, è detta “tetto caldo” in quanto la sua struttura rimane in zona temperata in inverno. La quantità di materiale isolante impiegato nella realizzazione di questi tetti è relativamente elevata, ma la struttura portante risulta meno soggetta ai danni che possono recarle le elevate escursioni termiche. La ventilazione si ottiene normalmente tramite una doppia listellatura sulla quale si posano le tegole, oppure tramite l’uso di pannelli termoisolanti preformati dotati di distanziatori per la posa delle tegole. Il movimento d’aria è direttamente proporzionale alla temperatura esterna, alla pendenza della falda e allo spessore dell’intercapedine di ventilazione. Informazioni tecnico-descrittive Le travi e il tavolato di legno, inchiodato o avvitato su di esse, rimangono a vista e sono piallati. L’isolamento termico viene steso direttamente sul tavolato di legno. Sono diversi i materiali isolanti che possono essere utilizzati come pannelli in sughero o pannelli di canna. Questi isolanti di origine vegetale sono buoni isolanti termici e sono in grado di incrementare la capacità fonoisolante della copertura. Sono resistenti all’acqua e traspiranti al vapore, leggeri e facili da maneggiare. Il sughero ha anche la qualità di essere resistente al fuoco ed in caso di incendio si autoestingue, non cola e non produce gas tossici. Il telo di polietilene o polipropilene realizzato in filato di fibre sottilissime conferisce allo strato isolante la protezione necessaria in sostituzione al PVC. La rigidezza del tetto può essere aumentata con un doppio tavolato uno dei quali messo in diagonale. Informazioni sulle prestazioni Questo tipo di costruzione garantisce buone prestazioni termiche che nascono dalla combinazione di coibentazione e aerazione, ma allo stesso tempo risulta carente il suo potere fonoisolante in quanto costituito da una struttura molto leggera. Informazioni sulla posa in opera e sulla manutenzione La realizzazione della copertura procede in questo ordine: 1. posa e fissaggio del tavolato in legno sulla struttura portante; 2. posa del materiale isolante, compreso di telo protettivo, sul tavolato di legno; 3. posa della prima listellatura ortogonalmente alla linea di gronda per la creazione dell’intercapedine di ventilazione e adeguatamente fissata alla struttura sottostante per il contenimento dello strato isolante; 4. posa della seconda listellatura parallelamente alla linea di gronda per accogliere gli

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elementi del manto di copertura; 5. posa dell’elemento parapasseri sulla linea di gronda per evitare l’ingresso di insetti, roditori o piccoli volatili; 6. realizzazione delle grondaie. Durante la posa della grondaia è necessario prestare attenzione affinchè non ostruisca l’apertura dell’intercapedine di ventilazione ostacolando cosi il deflusso dell’aria; 7. realizzazione del manto di copertura in coppi. Tetto ventilato in legno con isolamento termico intermedio

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In questa tipologia di tetto ventilato il materiale isolante è contenuto nell’intercapedine, ottenuto tra il tavolato superiore in legno grezzo che sostiene la listellatura per le tegole e un secondo tavolato piallato posato su listelli montati ai lati delle travi. Si creano così due zone di aerazione; la prima sottotegola, creata tramite la doppia listellatura come nel caso precedente, ed una aggiuntiva tra il tavolato superiore e l’isolante. Informazioni tecnico-descrittive Lo strato isolante può essere realizzato con uno strato di fiocchi di cellulosa oppure tramite materassini in fibra di cocco o di cotone. Questi materiali sono buoni termoisolanti e possono svolgere un ruolo importante nella regolazione dell’umidità assorbendola e rilasciandola per equilibrare le condizioni igrometriche nell’ambiente. Essi offrono buone capacità fonoisolanti (nella fattispecie il cocco) ma non sono resistenti all’acqua e necessitano un telo impermeabilizzante protettivo. Per incrementare la loro scarsa resistenza al fuoco (classe B1 per la cellulosa e B2 per il cocco) questi isolanti devono essere trattati con sali borici. Tra l’isolamento termico e il tavolato in legno viene posto uno strato di membrana antipolvere traspirante (carta Kraft) che funge da barriera al vento e da freno al vapore e impedisce la fuoriuscita di polvere e di fibra. La membrana non risulta impermeabile all’acqua. È necessario pertanto posizionare uno strato impermeabilizzante sotto il manto di copertura. Le superfici in legno che rimangono a vista vengono piallate. Informazioni sulle prestazioni La ventilazione aggiuntiva tra il tavolato di chiusura e lo strato isolante, oltre a collaborare con quella sottotegola, svolge un’azione particolare in rapporto alle diverse condizioni climatiche. In estate l’aria si riscalda per l’effetto dell’irraggiamento solare e crea una corrente ascensionale che sfiata dalle aperture apposite sulla linea di colmo, richiamando aria più fresca dalle aperture di gronda. In questo modo il soffitto mantiene una temperatura uguale o di poco superiore a quella esterna. In inverno, la camera di ventilazione costituisce un efficace intercapedine tra interno ed esterno mantenendo il materiale isolante arieggiato e asciutto evitando cosi la formazione di condense, gocciolamenti e muffe.

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FABBRICATO RURALE

I fabbricati per essere considerati rurali devono soddisfare contemporaneamente le seguenti condizioni: • il fabbricato deve essere posseduto dal titolare del diritto di proprietà o di altro diritto reale sul terreno, ovvero dall'affittuario, o dal soggetto che conduce il terreno cui l'immobile è asservito o dai familiari conviventi a loro carico o da soggetti titolari di trattamenti pensionistici corrisposti a seguito di attività svolta in agricoltura; • l'immobile deve essere utilizzato quale abitazione dai soggetti di cui sopra sulla base di un titolo idoneo ovvero da dipendenti esercitanti attività agricole nell'azienda • il terreno cui il fabbricato si riferisce deve essere situato nello stesso Comune o in Comuni confinanti e deve avere una superficie non inferiore a 10.000 mq. Se sul terreno sono praticate colture intensive ovvero il terreno è ubicato in comune considerato montano, la superficie del terreno deve essere almeno di 3.000 mq; • il volume d'affari da attività agricole del soggetto deve essere superiore alla metà del suo reddito complessivo, determinato senza far confluire i trattamenti pensionistici corrisposti a seguito di attività svolta in agricoltura. Se il terreno è ubicato in comune considerato montano, tale volume di affari deve risultare superiore ad 1/4 del reddito complessivo; • il volume d'affari dei soggetti che non presentano la dichiarazione IVA si presume pari al limite massimo previsto per l'esonero dall'obbligo di presentazione della dichiarazione. Tale requisito è riferito al soggetto che conduce il fondo e che può essere diverso da quello che utilizza l'immobile ad uso abitativo; In caso di unità immobiliari utilizzate congiuntamente da più persone, i requisiti devono essere posseduti da almeno una di esse. Se sul terreno esistono più unità immobiliari ad uso abitativo i requisiti di ruralità devono essere soddisfatti distintamente per ciascuna di esse. Nel caso che più unità abitative siano utilizzate da più persone dello stesso nucleo familiare, è necessario che sia rispettato anche il limite massimo di cinque vani catastali o di 80 mq per un abitante e di un vano catastale o di 20 mq per ogni abitante oltre il primo. Le costruzioni non utilizzate, che hanno i requisiti per essere considerate rurali, non si considerano produttive di reddito di fabbricati.

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LA RURALITA’

Fino al 1993, secondo la normativa fiscale italiana, i fabbricati rurali venivano

considerati pertinenze del fondo agricolo essendo strumentali allo svolgimento delle

attività di coltivazione e allevamento; non erano, quindi, in grado di generare reddito

proprio né potevano essere oggetto di tassazione.

Lo sviluppo economico accompagnato da un susseguirsi di novelle in ordine

all’accatastamento dei fabbricati rurali ha portato radicali cambiamenti. In

particolare, la situazione è variata nel momento in cui, “complice” l’ICI, i fabbricati

sono divenuti oggetto di imposizione fiscale autonoma. Nonostante quanto sopra,

oggi, pur essendo necessario assegnare una rendita ai fabbricati, la stessa è

fiscalmente rilevante solo quando vengano meno i requisiti della c.d. ruralità.

Il Catasto Terreni ed il Catasto dei Fabbricati costituiscono, oggi, un

“inventario” dei beni immobili siti sul territorio nazionale. Il loro scopo, che in

origine era principalmente di mero censimento, è attualmente mutuato. Il Catasto

Terreni e il Catasto fabbricati servono oggi a rilevare la base imponibile per la

tassazione del reddito derivante dai fabbricati rurali (ivi compresi quelli strumentali)

e dai fabbricati urbani.

Inizialmente, la denuncia di un fabbricato rurale, trattandosi di una mera

variazione nello stato dei terreni, rientrava tra le incombenze affidate al proprietario e

andava presentata in catasto a norma dell’art. 114 del Regolamento per la

conservazione del nuovo catasto utilizzando il mod. 26. A tali adempimenti poteva

provvedere direttamente la parte interessata senza ricorrere nell’ausilio di liberi

professionisti. Per contro, le costruzioni urbane dovevano essere denunciate a cura

dei cittadini sui cui incombeva anche l’obbligo di corredare la denuncia, sin

dall’origine, con elaborati grafici da redigersi esclusivamente da parte di liberi

professionisti. Le stesse costruzioni, al pari di quelle rurali, venivano inserite nelle

mappe catastali a cura dell’Amministrazione.

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A seguito di numerosi interventi del legislatore, l’art. 9 della L. 133/94,

tornando sulla materia, ha disposto l’inserimento nel catasto edilizio urbano, insieme

con le abitazioni, anche delle costruzioni rurali (così art. 9 L. 133/94 “al fine di

realizzare un inventario completo ed uniforme del patrimonio edilizio il Ministero

delle Finanze provvede al censimento di tutti i fabbricati o porzioni di fabbricati

rurali ed alla loro iscrizione mantenendo tale qualificazione nel catasto Urbano, che

assumerà la denominazione di Catasto dei Fabbricati […]”).

In conseguenza di quanto sopra, il Catasto Edilizio Urbano ha assunto la nuova

denominazione di Catasto dei Fabbricati.

LA FORMAZIONE DEL CATASTO FABBRICATI

L’Amministrazione, nel sostituire il Nuovo Catasto Edilizio Urbano (in sigla

NCEU), ha assunto l’obbligo di formare il Catasto Fabbricati provvedendo, rectius,

dovendo provvedere all’aggiornamento delle mappe e all’identificazione dei

possessori dei fabbricati. In punto, il completamento della procedura di traslazione

dei dati dal Catasto Terreni al Catasto Fabbricati, ovverosia, per esempio, il deposito

degli atti documentali quali, le planimetrie, è stato posto in capo agli interessati che vi

dovranno provvedere per mezzo del DOCFA e dei relativi elaborati.

Per l’effetto, anche i fabbricati riconosciuti rurali ai fini fiscali, anche se

strumentali, devono obbligatoriamente essere iscritti, con attribuzione di rendita, al

Catasto Fabbricati, al pari di ogni altro fabbricato strumentale all’esercizio di una

qualsiasi attività, quale, per esempio, quella artigianale, industriale, ect.

Con il D.M. 28/98 sono stati individuati i soggetti coinvolti nell’attività di

formazione del catasto dei fabbricati ed i relativi ruoli.

Allo scopo di non aggravare di ulteriori oneri economici i proprietari di

fabbricati rurali (i quali, di norma, hanno già assolto tutti gli obblighi loro imposti

dalla previgente normativa catastale), il Regolamento dispone, in una prima fase,

l’iscrizione d’ufficio, nel Catasto Fabbricati, delle costruzioni attualmente iscritte o

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denunciate al Catasto Terreni e, in una seconda fase, il completamento del

censimento attraverso la produzione, a cura questa volta dell’interessato, degli usuali

elaborati prodotti per il Catasto Edilizio Urbano.

Più precisamente, nella prima fase, l’Amministrazione provvederà con

procedure d’ufficio, all’integrazione nel nuovo Catasto Fabbricati con le informazioni

già conservate al Catasto Terreni. La seconda fase, riguardamene la perfezione

dell’accatastamento da parte dei proprietari delle costruzioni rurali, è rinviata nel

tempo al verificarsi del c.d. “caso d’uso” intendendosi con tale espressione il

trasferimento di diritti reali, la mutazione nello stato giuridico dei beni ovvero la

perdita dei requisiti di ruralità ai fini fiscali. Attualmente la P.A. non ha ancora dato

attuazione ai propri adempimenti traslando, di fatto, i suoi obblighi in capo al

possessore.

In altri termini, il proprietario che incorre nel c.d. “caso d’uso” è obbligato non

solo a completare l’accatastamento ma anche a provvedere all’esecuzione degli

obblighi che sono, in diritto, in capo alla P.A. Evidente, invece, che l’interessato che

non incorra nel c.d. “caso d’uso” continuerà a rinvenire il proprio fabbricato nel

Catasto Terreni almeno fino a quando la P.A. non deciderà di dare attuazione ai

propri obblighi.

GLI ADEMPIMENTI A CARICO DEI POSSESSORI DI FABBRICATI

RURALI

Sembra utile raggruppare l’insieme di tutti i possessori dei fabbricati rurali in

quattro grandi categorie:

a) i possessori dei fabbricati già regolarmente censiti o denunciati. Questi

sono già iscritti al Catasto Fabbricati e, quindi, hanno già avuto l’attribuzione

di rendita (necessariamente, anche se in un futuro prossimo, tutti i fabbricati

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dovranno confluire in questa categoria; evidente che gli stessi saranno

assoggettati a tassazione se mancanti dei requisiti della ruralità).

b) i possessori dei fabbricati regolarmente censiti o denunciati al Catasto

Terreni i quali, se non incorrono nel c.d. “caso d’uso” o i cui requisiti della

ruralità in termini fiscali non sono venuti meno, non hanno nessun obbligo

immediato.

c) i possessori di nuovi fabbricati che non hanno provveduto a presentare la

denuncia della costruzione né al catasto terreni né a quello fabbricati:

costoro hanno l’obbligo immediato di iscriversi al Catasto dei Fabbricati (si

rendono applicabili sanzioni). Ove sussistano le caratteristiche di ruralità la

rendita verrà assorbita dai terreni.

d) i possessori di nuove costruzioni: costoro sono tenuti ad iscrivere le nuove

costruzioni al Catasto Fabbricati secondo le procedure stabilite.

Da rilevare che per i fabbricati ad uso abitativo che hanno perso i requisiti della

ruralità per l’effetto dell’introduzione del nuovo requisito introdotto dall’art. 1,

comma 339 L. 296/06 (iscrizione presso il Registro delle Imprese da parte del

soggetto conduttore del fondo cui l’immobile è asservito) e per gli immobili che non

risultano dichiarati, in tutto o in parte, al catasto, ovvero che pur essendo “censiti

catastalmente” hanno perso il requisito della ruralità per una motivazione diversa da

quella di cui sopra, è intervenuto un provvedimento del Direttore dell’Agenzia del

Territorio pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 42 del 20 febbraio 2007. Preso atto

che tutte le costruzioni rurali o sono già state iscritte al Catasto dei Fabbricati o lo

dovranno essere è importante soffermarsi brevemente sul trattamento che verrà

riservato alle costruzioni rurali o ex rurali.

Le considerazioni sin qui svolte sono valide per tutte le tipologie di fabbricati

(abitazioni, fabbricati rurali e fabbricati strumentali).

Le costruzioni concernenti il mondo agricolo saranno censite catastalmente se

già non lo sono come segue:

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- unità a destinazione abitativa;

- unità destinate ad attività produttive agricole.

Le prime saranno inserite nella categoria ordinaria più rispondente tra quelle

presenti nei quadri di qualificazione vigenti (cat. A).

Le seconde, per contro, saranno censite nella categoria D/10 “fabbricati per

funzioni produttive connesse all’attività agricola” nel caso in cui le caratteristiche di

destinazione e tipologiche siano tali da non consentire, senza radicali trasformazioni,

una destinazione diversa da quella per la quale sono state originariamente costruite.

In caso contrario potranno essere censite nelle categorie ordinarie più consone (C/2,

C/3, C/6, ecc.). Con l’applicazione delle norme sopra richiamate si è venuta a

delineare in forma più esplicita l’autonomia tra i profili tecnico-catastali di

censimento delle costruzioni e quello fiscale di applicazione delle imposte

(l’iscrizione in catasto di una particella con la denominazione di fabbricato rurale non

comporta automaticamente l’esclusione per la stessa dal reddito di fabbricati, né

viceversa per l’unità immobiliare censita al Catasto Fabbricati con attribuzione di

rendita è necessariamente dovuto l’assoggettamento all’imposta sul reddito

medesimo).

Il primo profilo è di competenza degli Uffici dell’Agenzia del Territorio

(ex Catasto), il secondo è invece prerogativa degli uffici preposti

all’accertamento delle imposte (Agenzia delle Entrate).

In particolare a questi ultimi compete il riconoscimento delle agevolazioni

fiscali per le costruzioni che soddisfano i requisiti di ruralità. Gli Uffici fiscali

potranno, quindi, avvalersi della consulenza degli Uffici dell’Agenzia del Territorio

per l’individuazione dei caratteri oggettivi sia delle costruzioni rurali sia dei terreni

asserviti.

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AGRICOLTURA ED ENERGIA

Con il protocollo di Kyoto e la necessità di ridurre le emissioni, l’agricoltura ha acquisito un ruolo nel ramo energetico. Potrebbe essere la soluzione di molti problemi del settore, a cominciare da quelli di bilancio. Ma è un processo che va governato. Cosa c’entra l’agricoltura con l’energia? Poco e niente, si sarebbe detto dieci anni fa. Parecchio, viene naturale rispondere oggi. Dieci anni hanno cambiato un sacco di cose, anche in un contesto tradizionalmente allergico ai cambiamenti repentini. Ma che ha conosciuto anni di sconvolgimenti – emergenze prezzi, speculazioni sulle materie prime, nuove regole comunitarie, contraccolpi del crack finanziario – che lo hanno profondamente modificato. E che spiegano per che motivo l’agricoltura oggi è legata a filo doppio con la questione energetica. Vediamo dunque alcuni di questi motivi. Per cominciare, la necessità di ridurre la dipendenza dai combustibili fossili e, naturalmente, Kyoto. Per l’Italia, l’impegno imposto dal protocollo internazionale è una riduzione del 6,5%. Di conseguenza, dobbiamo limitare l’uso di combustibili fossili: da un lato risparmiando energia e dall’altro trovando fonti alternative. Le cosiddette energie rinnovabili, ovvero quelle che provengono da combustibili che possono essere ricreati. Il ruolo dell’agricoltura Il ruolo dell’agricoltura, a questo punto, diventa chiaro. La definizione “energie rinnovabili” rimanda direttamente a qualcosa che può essere ciclicamente riprodotto, oppure coltivato. Per esempio il legno. Inoltre, l’agricoltura può produrre il bioetanolo e il biodiesel, due carburanti per i motori a scoppio. A questo punto, dunque, la domanda non è “se” il settore può aiutare la lotta all’inquinamento, ma fino a che punto può arrivare. Domanda che, al momento, non ha risposta, perché il cammino dell’agricoltura in questo nuovo ruolo è soltanto agli inizi. Ma procede a passi spediti, sostenuto dagli incentivi messi in campo dai governi e spronato dalla difficile situazione delle coltivazioni tradizionali. Un processo da guidare Quando la crescita è veloce rischia di essere caotica. Nel caso specifico, per le ragioni appena citate c’è il pericolo che in molti si convertano alle coltivazioni energetiche, riducendo le produzioni tradizionali. La superficie coltivabile non è illimitata, soprattutto nel nostro paese, dove le pianure sono poche, in rapporto all’intero territorio. Se i terreni migliori fossero usati per

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produrre biomassa e biocarburanti non ci sarebbero abbastanza alimenti per gli animali – né per l’uomo – e dovremmo importarli. Insomma, una questione delicata, per questo occorre un attento lavoro di pianificazione prima e di indirizzo poi delle tendenze di mercato. Un compito che spetta al pubblico, inteso come governo pubblico. Un ruolo importante, a dispetto della dimensione territoriale contenuta, può essere svolto dalle regioni, attraverso l’autonomia legislativa in materia. agricola e, in primis, i Programmi di sviluppo rurale. Questo documento, fondamentale per la pianificazione agricola, è in molta parte vincolato dalle norme europee e nazionali, ma lascia anche un certo margine di discrezionalità alla Giunta regionale. Sufficiente per dare un indirizzo di massima alla politica agricola del territorio. Il protocollo di Kyoto Firmato l’11 dicembre 1997, il protocollo di Kyoto è entrato in vigore nel febbraio del 2005, con l’adesione della Russia. Condizione essenziale perché il trattato fosse operativo, infatti, era la partecipazione di almeno 55 paesi che fossero produttori di almeno il 55% dei gas-serra immessi annualmente nell’atmosfera (6.000 megatonnellate di CO2). Una situazione che si è ottenuta soltanto dopo la firma del paese euro-asiatico. Ad oggi hanno aderito quasi 180 nazioni. Restano fuori da Kyoto, come noto, gli Stati Uniti e la Cina, responsabili, da soli, di oltre il 40% dell’inquinamento mondiale. Fortunatamente, anche Usa e Cina stanno facendo qualche passo nella giusta direzione. Lo si è visto alla conferenza di Copenhagen, che nelle premesse poteva essere una nuova Kyoto e invece si è conclusa con un sostanziale insuccesso. Tuttavia si è registrato il cambio di direzione degli Usa – grazie alla politica di Obama – e la Cina si è impegnata a ridurre le emissioni di carbonio in rapporto al proprio prodotto interno lordo. Timidi segnali di quella che potrebbe essere una nuova linea politica dei due colossi mondiali. Risparmio energetico: ricetta senza controindicazioni L’agricoltura è un’attività produttiva al pari di molte altre. E, come esse, può contribuire all’abbattimento dei gas serra razionalizzando i propri consumi energetici. Per decenni l’obiettivo è stato quello di massimizzare la produzione, riducendo la manodopera. Obiettivo pienamente logico date le condizioni del tempo: risorse energetiche a buon mercato e abbondanti, manodopera in forte riduzione causa l’inurbamento e molto costosa. Oggi le cose sono cambiate. La manodopera continua a essere uno dei fattori produttivi più cari, ma anche il costo energetico è aumentato in maniera esponenziale. E, cosa ancor più importante, non è più possibile sprecare energia, per questioni

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economiche ma soprattutto ambientali. Dunque, si deve arrivare a una nuova organizzazione del lavoro agricolo e ridefinire l’equilibrio tra massimizzazione della resa per ettaro e impiego di materie prime con cui ottenerla. Secondo il nuovo modello, non è scontato che massimizzare la produzione sia sempre e comunque auspicabile, anche dal punto di vista economico. Potrebbe essere preferibile, per esempio, produrre un po’ meno se questo determina un forte risparmio sui mezzi di produzione. Qualcosa del genere accade già. Il costo dei prodotti di origine petrolifera – dal gasolio ai fertilizzanti – ha toccato picchi tali da rendere la coltivazione dei cereali scarsamente remunerativa, nonostante il parziale adeguamento del prezzo dei cereali a queste impennate. Va da sé che se fosse possibile ridurre di molto la quantità di materie prime impiegate, l’equilibrio sarebbe ristabilito. Quello di cui si parla è, chiaramente, un nuovo modo di interpretare l’agricoltura e i suoi obiettivi. Ma del resto, in un mondo in radicale trasformazione, nemmeno il settore primario può permettersi di restare uguale a se stesso. Non più scarti ma risorse Paglia, stocchi di mais, potature degli alberi, gusci di nocciole: quel che l’agricoltura non usa può diventare combustibile per produrre calore ed energia elettrica. Quel che l’agricoltura non usa Sottoprodotti e scarti sono una costante nella produzione agricola. Come, del resto, di tutte le produzioni: si pensi per esempio a quella industriale. Ma mentre il settore manifatturiero si è da tempo attrezzato per reimpiegare utilmente quel che avanza dal processo principale, in agricoltura questo passaggio deve ancora compiersi appieno. In realtà, il ciclo agricolo completo esiste da sempre e per secoli ha rappresentato un perfetto esempio di ottimizzazione delle risorse, riciclo delle materie prime, integrazione di filiera. Basta dare un’occhiata allo schema che pubblichiamo per rendersi conto del livello di efficienza e complessità raggiunto. Ma questo modello bilanciato ed eco-sostenibile è stato accantonato dall’agricoltura intensiva, quando la priorità numero uno era massimizzare la produzione. Nel periodo del boom nessuno aveva il tempo e la voglia di curarsi del reimpiego dei sottoprodotti, che divennero così scarti di cui liberarsi. Spesso, bruciandoli a margine dei campi, oppure interrandoli e trasformandoli in fertilizzante organico. Oggi è tempo di tornare al passato, ovviamente rileggendo il vecchio modello contadino alla luce delle nuove tecnologie. Le colture annuali Il grano e l’orzo lasciano la paglia, il riso anche la lolla, il mais gli stocchi e i tutoli. In tutte le colture annuali, la parte utile della pianta è molto piccola, in proporzione

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alla pianta stessa. Vale a dire che ne resta una grossa percentuale inutilizzata. Che farne? Nel tempo gli impieghi sono stati disparati. Prendiamo la paglia: impastata con la terra per farne mattoni, usata nella stalla come lettiera, mescolata ai foraggi, bruciata o interrata nei campi. Oggi, si fa avanti una nuova prospettiva: usarla come combustibile in centrali per la produzione di energia termica ed elettrica. Nello scenario potenziale – ovvero quello con più probabilità di realizzarsi nei fatti – si ipotizza di sfruttare in questo modo il 10% della paglia di riso e dei tutoli di mais e l’80% della lolla. Potrebbero essere riutilizzate 12mila tonnellate di tutoli e stocchi di mais, 29mila di paglia e 95mila di lolla di riso, con un risparmio annuo di circa 50mila tonnellate di petrolio. La scelta di bruciare i sottoprodotti della cerealicoltura ha però una controindicazione: facendolo, si toglie sostanza organica al terreno. Inoltre è necessario abbattere efficacemente l’emissione di particolati prodotti dalla combustione. Discorso del tutto analogo per le coltivazioni perenni, vite e frutteti in primo luogo. I sottoprodotti di queste colture utilizzabili a fine energetico sono sia i sarmenti e le potature sia gli scarti della lavorazione, come vinacce e graspi per la vite, gusci di nocciolo e via dicendo. Gli scarti dell’uva La vite lascia i sarmenti di potatura, ma anche gli scarti della vinificazione. Raspi, vinacce e vinaccioli sono un ottimo combustibile – una volta essiccati – e in più sono facilissimi da raccogliere, dal momento che escono dalle pigiatrici e devono soltanto essere ammucchiati e portati al luogo di utilizzo. Mediamente, dal 3 al 5% del peso di un grappolo è costituito dal raspo; lo stesso vale per i vinaccioli, mentre la buccia può arrivare al 10%. In totale, quindi, tra il 14 e il 17% dei circa 4 milioni e mezzo di quintali di uve può trasformarsi in carburante per centrali a biomassa. Vale a dire circa 70mila tonnellate di materiale, se si dovesse fare una raccolta capillare. Dai reflui al metano Quasi un milione di tonnellate di deiezioni suine e oltre due milioni e mezzo di reflui bovini. Tutte trasformabili in biogas con il quale alimentare centrali termoelettriche. Le potenzialità sono enormi e potrebbero contribuire in misura significativa ai precari bilanci degli allevatori.

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GLI IMPIANTI PER IL RISPARMIO ENERGETICO

L’aumento del costo dell’energia di origine fossile e i black-out nell’approvvigionamento di energia elettrica che si hanno sempre più spesso durante le stagioni estive stanno riproponendo all’attenzione dei mass media le energie alternative. Per la verità si parla sempre in positivo dell’energia solare, soprattutto fotovoltaica e della digestione anaerobica, mentre si formulano anche valutazioni negative per l’inserimento delle torri eoliche sotto l’aspetto paesaggistico-ambientale. La liberalizzazione della produzione di energia elettrica è, d’altra parte, un fatto importante, perché consente al cittadino di auto approvvigionarsi energeticamente ed anche di cedere in rete il surplus di produzione. Per la verità la cessione in rete di energia elettrica è possibile solo con produzioni continue minime dell’ordine di qualche decina di kWh, cosa possibile in ambito rurale solo con i salti d’acqua e con la digestione anaerobica. In questo capitolo forniremo un quadro delle tecnologie disponibili, non limitandoci solo a quelle di immediata applicabilità nell’abitazione rurale. L’energia solare La disponibilità di radiazione solare sulla superficie terrestre La quantità di energia solare che raggiunge gli strati bassi dell’atmosfera è valutata in circa 4900 kJ/m2; di questa solo una parte raggiunge la superficie terrestre per i fenomeni di riflessione che si hanno negli strati più alti dell’atmosfera e per i fenomeni diffusivi dovuti ai gas e alle particelle solide e liquide sospese nell’aria. Sulla superficie terrestre si rende disponibile una potenza di non più di 3600 kJ/m2 che si distribuisce in modo non uniforme dall’equatore ai poli a causa dell’obliquità dell’asse terrestre rispetto al piano dell’eclittica e del suo orientamento che varia secondo le stagioni. Oltre alla variazione di intensità nei diversi mesi, anche l’angolo di incidenza della radiazione ha una notevole importanza, dato che le condizioni di massima concentrazione si hanno con un’incidenza ortogonale alla superficie captante. In definitiva la radiazione incidente nelle 24 ore è pari a 19000-22000 kJ/m2 giorno. Di questa energia solo una parte può essere captata per la produzione di energia termica o elettrica dai sistemi solari, che sono: – collettori solari piani; – collettori a concentrazione; – celle fotovoltaiche.

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I collettori solari piani I collettori solari piani sono realizzati nelle due tipologie ad acqua e ad aria, a seconda del fluido termovettore usato; in entrambi i casi nella loro configurazione normale sono costituiti da una copertura trasparente, da una piastra assorbente, da tubazioni o canali (nel caso di collettori ad aria) di circolazione del fluido termovettore e da una struttura di contenimento (Fig. 2 e 3). La copertura trasparente ha la funzione di realizzare il migliore effetto serra possibile: deve, cioè, essere trasparente alla radiazione solare e opaca alle radiazioni infrarosse emesse dalla piastra captante, quale reazione al suo surriscaldamento ad opera della radiazione incidente. Il materiale normalmente utilizzato per i collettori solari ad acqua è il vetro temperato per la sua resistenza meccanica alla grandine. La piastra assorbente è costituita da una lamiera metallica in acciaio inox, alluminio o rame sulla quale sono fissate, o comunque integrate, le tubazioni di circolazione dell’acqua. Per ottenere il massimo assorbimento dell’energia incidente la piastra captante è verniciata in nero con vernici speciali. Nei collettori solari piani ad acqua la piastra captante può essere realizzata con tubazioni applicate o ricavate nello stampaggio (sistema rollbond). La prima tecnica costruttiva è tipica del collettore in rame, per il quale il ridotto diametro delle tubazioni facilita il loro inserimento nella piastra, garantendo una superficie di contatto piastra- tubazioni ottimale; la seconda è usata soprattutto con l’alluminio.

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Fig. 2 Sezione di un collettore solare piano ad acqua del tipo “roll-bond” nel quale le tubazioni vengono ricavate nello stampaggio della piastra assorbente.

Fig. 3 Spaccato di un collettore solare piano ad acqua con tubazioni inserite nella piastra captante.

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Il telaio del collettore non ha solo funzione meccanica, ma anche quella di isolamento del sistema dall’ambiente circostante. Sul fondo del telaio è montato, allo scopo, un pannello di materiale isolante, generalmente realizzato con lana di roccia, lana di vetro, schiuma poliuretanica o sughero. I materiali migliori per la realizzazione del telaio ai fini della loro resistenza alla corrosione atmosferica sono l’acciaio inox, il rame e l’alluminio; meno adatte sono le materie plastiche, per la loro deformabilità alle alte temperature raggiungibili. I collettori solari piani ad aria (per la verità ormai di scarso interesse) sono sostanzialmente simili a quelli ad acqua; differiscono essenzialmente per il sistema di canalizzazione del fluido termovettore. Infatti, mentre nel collettore ad acqua il materiale isolante viene sistemato subito sotto la piastra captante, nei collettori ad aria sotto la piastra viene ricavato il canale attraverso il quale viene fatta circolare l’aria da riscaldare.

Fig. 4 Batteria di collettori solari ad acqua installati in un’azienda zootecnica per la produzione di acqua sanitaria

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Fig. 5 Batterie di pannelli solari installati in una stalla in zona montana.

Fig. 6 Pannelli solari ad aria in un impianto di essiccazione artificiale dei foraggi: ha costituito

un’applicazione tipica del solare ad aria degli anni ’80.

L’efficienza di un collettore solare L’efficienza del collettore è strettamente dipendente da numerosi fattori intrinseci (materiali usati, fattore di assorbimento della piastra, isolamento, ecc.) e dalle condizioni di esercizio. Il risultato è inversamente proporzionale alla temperatura di esercizio, per cui è buona norma limitarsi ad operare con acqua a 60 °C, anche se si potrebbero raggiungere gli 80 °C.

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Le applicazioni dei pannelli solari piani ad acqua per l’abitazione e l’azienda agricola sono riconducibili essenzialmente alla produzione di acqua calda sanitaria. Nel primo schema di figura 8 l’acqua riscaldata dal collettore solare viene trasferita al serbatoio di accumulo; quando l’energia solare non è più sufficiente per raggiungere la temperatura prevista interviene una resistenza elettrica comandata da un termostato. Nel secondo schema di figura è indicata anche l’integrazione termica da parte di una caldaia per il periodo invernale; nella stagione estiva, invece l’integrazione è solo elettrica come nel primo caso.

Fig. 8 Schemi di impianti di produzione di acqua sanitaria con collettori solari: a sinistra impianto autonomo con

integrazione elettrica; a destra impianto con integrazione elettrica e caldaia I collettori solari a concentrazione I collettori a concentrazione (o a focheggiamento) usano sistemi ottici per aumentare l’intensità della radiazione incidente sulla superficie assorbente. Un più elevato flusso di energia consente, infatti, di raggiungere temperature molto più elevate di quelle ottenibili con i collettori solari piani. Il rapporto di concentrazione, che costituisce l’elemento caratterizzante del collettore, è estremamente variabile, potendo passare da minimi di qualche unità a valori di qualche migliaia. Al crescere di questo parametro aumenta la temperatura di esercizio al pari della complessità costruttiva dell’impianto, potendosi arrivare fino a

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temperature di diverse centinaia di gradi centigradi. Per il settore agricolo possono essere considerati solo gli impianti a bassa o media concentrazione (a tipologia cilindrica), adatti alla produzione di acqua ad alta temperatura o vapore a bassa pressione. Per gli impianti funzionanti fino a 100 °C si utilizza come fluido termovettore l’acqua; oltre tale temperatura si utilizzano oli minerali. In questi impianti, soprattutto per quelli a maggior concentrazione, appare indispensabile ricorrere ad un sistema di “inseguimento solare”, cioè di un sistema meccanico a regolazione elettronica in grado di modificare l’orientamento del collettore al variare delle ore del giorno e delle stagioni. Le celle fotovoltaiche Le celle fotovoltaiche assorbono l’energia elettromagnetica della luce convertendola direttamente in energia elettrica; alla base del processo vi è la proprietà di alcuni semiconduttori opportunamente trattati (“drogati”) di assorbire fotoni provocando uno spostamento di cariche elettriche. La corrente e la differenza di potenziale agli elettrodi che ne derivano si possono, così, sfruttare per alimentare un circuito elettrico esterno. Il materiale che si utilizza generalmente per le celle fotovoltaiche è il silicio; la tecnica di fabbricazione più comune è quella della sovrapposizione ad una lamina di silicio [–P] (addittivato con una piccola quantità di arsenico), tagliata dello spessore di 200-600 micron, di una lamina di silicio [+N] (trattato con boro), dello spessore di 0,3-3 micron, che è quella rivolta verso la luce. Quando i fotoni incidenti (particelle elementari di energia che compongono la luce) raggiungono la zona di contatto Silicio [+N] – Silicio [–P], si creano coppie di elettrone-lacuna: gli elettroni tendono a dirigersi verso la superficie del Silicio [+N], mentre le lacune si spostano verso la superficie del silicio [–P]. Collegando queste due superfici con un circuito esterno si genera una corrente elettrica (FIG. 11). Nei pannelli le celle fotovoltaiche sono montate in serie ed in parallelo; questi sono collegati ad un sistema di controllo (chopper) in grado di adattare la tensione-corrente del sistema alle esigenze dell’utenza. Se l’utenza è a corrente continua e la tensione è sufficiente si può avere l’alimentazione diretta; in alternativa il pannello alimenta una batteria (è la soluzione più comune) che a sua volta alimenta l’utente se questo lavora in corrente continua, altrimenti è necessario disporre di un invertitore di corrente. La potenza elettrica “di picco” (prodotta con un irraggiamento di 1 kW/m2) di una cella solare del diametro normale di 56 mm si aggira su 0,45 W. Nel settore agricolo i pannelli fotovoltaici sono stati utilizzati soprattutto per le recinzioni elettriche e per l’approvvigionamento energetico delle malghe, limitatamente, però, alle utenze domestiche minimali.

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Fig. 11 Schematizzazione di una cella fotovoltaica al silicio L’energia da salti d’acqua L’utilizzazione dell’acqua a fini energetici non è certo una novità del nostro secolo, basti pensare alla produzione di energia meccanica le cui origini sono difficilmente fissabili nel tempo. Più recente è, certo, lo sfruttamento dell’acqua per la produzione di energia elettrica, processo di notevole interesse soprattutto nei bacini montani, in cui ancora oggi alcune aziende non sono allacciate alla rete elettrica nazionale. Il sistema tradizionale di utilizzazione dell’energia di un corso d’acqua è quello delle ruote idrauliche (FIG. 15) il cui funzionamento si basa sulla trasformazione dell’energia potenziale in energia meccanica; la bassa velocità di rotazione che le caratterizza (6-20 giri/min) rende indispensabile l’adozione di un sistema di moltiplicazione dei giri per raggiungere la velocità minima di eccitazione di un normale alternatore (1500 giri/min). Le turbine, al contrario, sono caratterizzate da regimi di rotazione nettamente più elevati (40-400 giri/min): ciò consente di adottare sistemi di moltiplicazione dei giri più semplici e meno costosi. Per la “microidraulica” (così viene chiamata la classe di impianti idroelettrici fino a 100 kW) si adotta generalmente la turbina Pelton, che basa il suo funzionamento sull’impatto che uno o più getti d’acqua esercitano sulle pale della girante. Le altre tipologie di turbina sono meno adatte agli impieghi di microidraulica per motivi legati all’elevato costo di acquisto e gestione, alla richiesta di tolleranze di installazione molto più rigorose, al loro rendimento praticamente nullo con portate fluttuanti o, comunque, al di sotto della portata di regime, come invece spesso accade nelle realizzazioni di carattere aziendale. I problemi che caratterizzano questa tecnologia, quale che sia il tipo di attrezzatura impiegato, sono essenzialmente riconducibili alla necessità di disponibilità di acqua nel corso di tutto l’anno. Il congelamento delle sorgenti durante il periodo invernale

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ed i periodi di siccità estivi sono due fatti da valutare, quindi, con estrema attenzione, dato che le opere di sbarramento per l’accumulo dell’acqua, se da un punto di vista tecnico rappresentano la soluzione ideale, risultano molto spesso improponibili per motivi legati all’elevato costo di realizzazione.

Fig. 15 Il principio di funzionamento delle ruote idrauliche si basa sul peso dell’acqua che riempie le cassette della ruota facendola quindi ruotare; nella figura è rappresentata una ruota colpita al vertice; tale macchina consente di operare con cadute superiori ai 2-3 metri e può raggiungere rendimenti fino al 65%. Le ruote idrauliche sono state recentemente rivalutate ricorrendo all’uso di materiali leggeri (vetroresina) in modo da ovviare ad uno dei loro maggiori inconvenienti, l’elevato peso. La digestione anaerobica La trasformazione per via anaerobica delle biomasse in biogas è un processo che avviene anche in natura ed è conosciuto dall’uomo da secoli anche se il suo sfruttamento per la produzione di gas combustibile per le utenze domestiche – utilizzato ancora oggi in piccoli villaggi privi di energia – è piuttosto recente. Il biogas è caratterizzato da un contenuto in metano variabile dal 50 al 75%, dal 25 40% di anidride carbonica e dallo 0,09-0,20% di idrogeno solforato, indesiderato perché fonte di problemi di corrosione. La quantità di biogas ottenibile può essere indicata mediamente pari a 0,35 m3/kg di sostanza organica introdotta.

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Un impianto di digestione anaerobica è essenzialmente costituito da: – digestore; – impianto di termostatazione; – impianto di miscelazione; – gasometro. Il digestore L’unità base del processo è il digestore, all’interno del quale avvengono i processi fermentativi (ai quali si farà cenno anche nella gestione dei liquami zootecnici) e dalla cui tipologia dipende lo schema funzionale dell’impianto. La prima distinzione può essere fatta tra: – impianti discontinui, nei quali al riempimento dell’impianto segue una fase di digestione che può protrarsi fino a 3-4 mesi, dopo i quali avviene lo scarico. Questo fatto si riflette sulla produzione di biogas che, insignificante nel periodo di avviamento del processo, raggiunge i massimi livelli a 20-30 giorni dal carico per poi iniziare progressivamente a decrescere. È evidente come, in tali condizioni, l’utilizzo del biogas divenga possibile solo disponendo di più impianti a carico sfasato in modo da ottenere una produzione pressoché costante nel tempo; – impianti continui, sono gli impianti attuali, nei quali il carico e lo scarico sono continui e la produzione di biogas è pressoché costante. Una seconda distinzione va ricondotta alla temperatura di processo, con: – impianti termofili, operanti a temperatura dell’ordine di 50-55 °C. Sono impianti che consentono di ridurre i tempi di processo, ma non sono generalmente considerati adatti al nostro clima per l’elevata differenza di temperatura interno/esterno; – impianti mesofili, operanti a temperature dell’ordine di 35 °C: sono quelli oggi normalmente utilizzati nel nostro Paese, perché consentono ad un tempo di produrre energia (valenza energetica) e di stabilizzare i liquami (valenza ambientale); – impianti psicrofili, operanti a temperatura ambiente: sono impianti più semplici, ma la loro produzione è aleatoria, dipendendo dalla temperatura di processo. Tra gli impianti continui il più comune è il digestore high rate monostadio caratterizzato da una completa miscelazione e da processo condotto in mesofilia (35-37 °C) con un tempo di ritenzione (tempo medio di permanenza dei liquami nell’impianto) dell’ordine di 15-30 giorni, a seconda del tipo di substrato e del grado di stabilizzazione richiesto.

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Nei digestori high rate a due stadi (FIG. 20) al digestore propriamente detto segue un secondo reattore, generalmente non termostatato e dimensionato per un tempo di ritenzione di 10-20 giorni, avente funzione di stadio di sedimentazione e accumulo del biogas.

Fig. 20 Digestore continuo a doppio stadio con stadio di sedimentazione-stoccaggio del biogas. In evidenza anche il separatore liquido/solido per i liquami digeriti con sottostante rimorchio per la raccolta dei solidi separati. Negli impianti operanti con reflui molto diluiti (non certo per i liquami zootecnici) si possono utilizzare i cosiddetti impianti a biomassa ritenuta caratterizzati dal riempimento di parte del reattore con un supporto fisso ed inerte (elementi modulari a forma definita, generalmente in plastica, sul quale le colonie batteriche si sviluppano sotto forma di una pellicola adesa dello spessore di 1-4 mm): sono realizzati con flusso ascendente dei liquami – upflow – o discendente – downflow (FIG. 21).

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Fig. 21 Digestori a letto fisso del tipo a flusso ascendente (o upflow), (a sinistra) e a flusso discendente (o downflow) (a destra). In evidenza: 1) liquami affluenti; 2) scambiatore di calore per il riscaldamento dei liquami; 3) zona riempita con il materiale di riempimento per l’adesione dei batteri; 4) biogas; 5) liquami effluenti. I vantaggi che si accreditano alla tecnologia a biomassa ritenuta possono essere ricondotti al maggiore sfruttamento della sostanza organica affluente, alla riduzione del tempo di ritenzione, e, infine, alla possibilità di operare con reflui disponibili per limitati periodi dell’anno, come accade per gran parte degli scarichi agroindustriali. La capacità di operare con reflui diluiti colloca tali impianti più nel settore della depurazione che in quello del recupero energetico, anche se recenti esperienze hanno dimostrato la possibilità di utilizzare alcuni degli schemi impiantistici sotto descritti con liquami a concentrazione di solidi del 3-5%. La termostatazione dell’impianto Per il riscaldamento dei liquami le tecnologie adottabili sono quelle del: – preriscaldamento esterno: si utilizza uno scambiatore di calore esterno (FIG. 22); lo stesso scambiatore viene utilizzato per la termostatazione del digestore richiamando i liquami quando la temperatura interna scende al di sotto di quella prefissata; – riscaldamento interno: è la soluzione oggi maggiormente adottata negli impianti zootecnici ed è realizzata con tubazioni in acciaio inox fissate alla parete del digestore in cui viene fatta circolare l’acqua calda prodotta dal gruppo caldaia o cogeneratore.

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– riscaldamento esterno a parete: prevede l’installazione esterna di tubazioni, generalmente in materiale plastico (FIG. 22). Questa soluzione appare interessante perché elimina i problemi di incrostazioni tipica degli scambiatori interni, da cui deriva una riduzione di rendimento di scambio termico, ma richiede un isolamento esterno molto accurato.

Fig. 22 Scambiatore di calore esterno utilizzato per il preriscaldamento dei liquami prima di immetterli nel digestore (a sinistra) e scambiatore interno costituito da due anelli di tubazione in acciaio inox a parete. In evidenza in figura anche il raschiatore di fondo utile per materiali altamente sedimentabili. La miscelazione dell’impianto Per il comparto zootecnico la miscelazione risulta di grande importanza per i liquami suinicoli essendo caratterizzati da facile sedimentabilità. Oltre che al già ricordato sistema di ricircolo idraulico dei liquami, la miscelazione della massa in digestione può essere attuata meccanicamente o insufflando il biogas con un compressore. La miscelazione meccanica costituisce oggi il sistema più usato perché energeticamente meno impegnativo degli altri; può essere attuato con macchine analoghe a quelle descritte nel capitolo del trattamento dei reflui zootecnici per la loro miscelazione, cioè con miscelatori a motore sommerso (qualora sia possibile il loro sollevamento dall’alto) o con miscelatori installati sulla parete con motore esterno (FIG. 23).

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Fig. 23 Riscaldamento esterno a parete: in evidenza in figura le tubazioni di riscaldamento in PE coperte dal manto di isolamento in materassini di lana di vetro e il rivestimento esterno in alluminio In ogni caso nella scelta deve essere attentamente analizzato l’aspetto energetico, trovandosi sul mercato tipologie di macchine con rendimenti molto diversi a parità di prestazioni. L’accumulo del biogas Considerato l’elevato volume occupato dal biogas (2000 volte superiore a quello del gasolio a parità di contenuto energetico) appare evidente l’importanza di limitare al massimo i tempi di stoccaggio e di favorirne, invece, l’utilizzo all’atto della produzione. È comunque necessario un accumulo parziale, attuabile con i tradizionali gasometri a campana o con le calotte gasometriche in materiale plastomerico. La cogenerazione La combustione del gas prodotto in caldaia costituisce la soluzione meno impegnativa in ordine agli investimenti, ma limita la possibilità di sfruttamento del biogas, rendendo di fatto la cogenerazione, cioè la produzione congiunta di energia elettrica (prodotto principale del processo) ed energia termica (sottoprodotto di

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recupero) la soluzione da privilegiarsi. Gli impianti di cogenerazione presenti sul mercato sono oggi di buona affidabilità, ma la presenza di seppur limitate quantità di idrogeno solforato obbliga l’utente a prevedere dei trattamenti di desolforazione. Se nei grandi impianti è possibile adottare costose attrezzature specifiche, negli impianti aziendali oggi ci si limita sostanzialmente a garantire una buona deumidificazione del gas, eventualmente ricorrendo al suo raffreddamento con macchina frigorifera, dato che con tale operazione una buona parte dell’idrogeno solforato viene eliminata. La desolforazione può anche essere ottenuta introducendo con regolarità nel digestore aria nella misura del 2-4% in volume: si ha la precipitazione dell’H2S come cristalli di zolfo. A garanzia della durata dei motori, inoltre, occorre eliminarne ogni componente in rame, materiale che viene aggredito dall’idrogeno solforato. Un ulteriore problema è quello della scelta del gruppo di co-generazione più adatto alla realtà aziendale: per i piccoli impianti, con potenze inferiori ai 50 kW, non sono molti i cogeneratori disponibili sul mercato, mentre nelle taglie più grandi l’offerta è maggiore ed anche gli investimenti richiesti per kW di potenza si riducono. La scelta di macchine di potenza superiore a quella garantibile in continuo dall’impianto può essere giustificabile, considerato che molto spesso le utenze aziendali sono concentrate in un periodo massimo di dodici ore, ma ciò comporta un dimensionamento consistente dello stoccaggio del biogas ed un funzionamento discontinuo del gruppo di cogenerazione. Ogni disattivazione, però, comporta il raffreddamento del motore e, conseguentemente, l’effetto negativo della condensazione del vapore. Per gli impianti di medio-grandi dimensioni può essere preferibile il ricorso a più unità di cogenerazione: questa scelta è più impegnativa economicamente, ma offre una maggiore affidabilità. Gli impianti eolici I generatori eolici, o aeromotori, sono macchine in grado di trasformare l’energia cinetica del vento in energia meccanica che, a sua volta, può essere trasformata in energia elettrica. Ciò è ottenuto rallentando la velocità dell’aria con la propria meccanica. La scelta dell’installazione di un aeromotore presuppone in primo luogo la conoscenza dei dati relativi alla ventosità della zona e, in particolare, delle curve “velocità-durata”, le quali esprimono il numero di ore/anno in cui viene raggiunta una determinata velocità del vento. L’impossibilità di reperire con facilità tali informazioni spesso limita i criteri di scelta ad una valutazione empirica della velocità del vento, la quale non deve in ogni caso risultare inferiore a 15-18 km/h. Una volta accertata la presenza di una adeguata ventosità si deve procedere alla scelta

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del luogo nel quale collocare l’aeromotore; essa deve rispondere a criteri legati ad un razionale sfruttamento del vento (massima esposizione, assenza di ostacoli, ecc.) e alla vicinanza delle utenze per le quali l’aeromotore è stato predisposto. Le tipologie di generatori eolici sono essenzialmente riconducibili a: – macchine ad asse verticale; – macchine ad asse orizzontale. Gli aeromotori ad asse di rotazione verticale o panemoni sono macchine la cui rotazione, come lo stesso nome indica, è indipendente dalla direzione del vento. Pur essendo semplici da realizzare, sono pesanti, di difficile protezione dai venti forti e presentano, inoltre, rendimenti non elevati (< 30%). Un tipico esempio di panemone è quello ideato dal finlandese Savonius, dal quale prende il nome: esso è costituito da due superfici semicilindriche rotanti solidalmente intorno ad un asse verticale (FIG. 27).

Fig. 27 L’aeromotore Savonius ad asse di rotazione verticale. Alla semplicità costruttiva e alla possibilità di non richiedere alcun orientamento al vento si contrappongono il peso elevato e l’impossibilità di raggiungere elevate velocità di rotazione.

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L’impossibilità di raggiungere elevate velocità di rotazione (il rotore presenta una velocità di bordo di 0,8 volte quella del vento) e l’elevata coppia motrice rendono il rotore Savonius idoneo ad essere collegato con pompe alternative; risulta, invece, sconsigliato l’abbinamento con un generatore di corrente elettrica. Altro esempio di aeromotore ad asse verticale è il rotore Darrieus che nella sua forma classica è formato da 2-3 pale incurvate ad arco ed incernierate all’asse di rotazione (FIG. 28): la velocità di rotazione è superiore di 5-8 volte a quella del vento ed i rendimenti sono nettamente più elevati rispetto al Savonius. Ciò permette a questa macchina di essere utilizzata anche per l’azionamento di generatori di energia elettrica.

Fig. 28 Il rotore Darrieus nella sua conformazione più classica a pale incurvate e incernierate all’asse di rotazione. L’impossibilità di avviamento autonomo, dovuta alla simmetria delle pale, viene ovviata adottando pale a profilo asimmetrico oppure montando un motore elettrico il cui avviamento è comandato da un anemometro. Le macchine ad asse di rotazione orizzontale, cioè i generatori eolici ad elica, sono senza alcun dubbio quelle più diffuse e più conosciute. Un primo gruppo di macchine – caratterizzato da un elevato numero di pale, da basse velocità di rotazione e da elevate coppie motrici – viene impiegato per l’azionamento di pompe alternative. Tipici esempi sono i mulini a vento e tutti gli aeromotori di vecchia concezione. Ad essi si contrappone la nuova generazione di aeromotori che dispongono di un numero limitato di pale (da 1 a 4) (FIG. 29) che, grazie al loro profilo aerodinamico e all’impiego di materiali leggeri derivati dal settore aeronautico, consentono di raggiungere velocità di rotazione tali da rendere possibile l’impiego di generatori elettrici.

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Con tali macchine diviene indispensabile l’adozione di limitatori di velocità del rotore i quali, oltre che garantire l’integrità di quest’ultimo e della struttura di sostegno, assicurano anche un corretto funzionamento del generatore di corrente. Per quanto riguarda quest’ultimo la scelta tecnicamente ottimale prevede l’abbinamento di un generatore di corrente continua con un sistema di accumulo e con un dispositivo di conversione corrente continua/corrente alternata.

Fig. 29 Generatori eolici tripale ad asse orizzontale.