Gazzetta Settembre 2011

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La Gazzetta Mensile d’informazione sociale della Cooperativa Itaca - n°9 - Settembre 2011 Al Candussi “cura gentile” per affrontare l’Alzheimer Ben-essere, famiglia e autonomia sono qualità della vita Cresce del 7,6% il fatturato dell’area Disabilità La Responsabilità dell’Operatore Socio Sanitario Belluno 15 ottobre Dall’assistenza domiciliare al sistema domiciliarità Tavola rotonda a Sacile

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La gazzetta della cooperativa Itaca

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La GazzettaMensile d’informazione sociale della Cooperativa Itaca - n°9 - Settembre 2011

Al Candussi “cura gentile” per affrontare l’Alzheimer

Ben-essere, famiglia e autonomia sono qualità della vitaCresce del 7,6% il fatturato dell’area Disabilità

La Responsabilità dell’Operatore Socio SanitarioBelluno 15 ottobre

Dall’assistenza domiciliare al sistema domiciliaritàTavola rotonda a Sacile

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2 La Gazzetta | Settembre 2011ARTICOLO DI FONDO

SOMMARIO

Ben-essere e autonomia sono qualità della vita 2 - 4

La battaglia del cavallo che liberò i malati di mente 5 - 6

Al Candussi “cura gentile” per affrontare l’Alzheimer 7

La Responsabilità dell’Operatore Socio Sanitario 7 - 8

Dall’assistenza domiciliare al sistema domiciliarità 8

ApertaMente a Fossalato 8

Fondo sanitario integrativo 9 - 10

Manovra e armi: “Il male oscuro” 12

Sul “Molaro” soffia E’ Vento Nuovo 22

La “Festa d’estate” della Comunità Alloggio Cisi 23 - 24

Ciacole de casa de riposo 26 - 28

Pordenone

L’area Servizi residenziali e semiresidenziali Disabilità registra un +7,6% nel fatturato 2010 evidenziando un buon consolidamento delle posizioni nei servizi a ge-stione propria, come le Comunità Calicantus di Pasian di Prato e Casa Carli di Maniago. Nonostante la ces-sazione al 31 dicembre 2010 dell’appalto relativo alla gestione del Centro residenziale handicap gravi gra-vissimi di Sacile, a fine anno abbiamo acquisito la gestione della Comunità di Begliano in appalto con il C.I.S.I..e istitu-ito una rete valida di collabo-razione con l’A.I.S.M. che ad aprile 2011 ci hab poi portato all’aggiudicazione del servizio residenziale e semiresidenziale Villa Sartorio a Trieste.Prosegue con l’area Disabilità, nata nel 2008, il focus sui set-tori che compongono i servizi della Cooperativa sociale Ita-ca, il cui fatturato complessivo

ha segnato nel 2010 una crescita che ha permesso alla Coop friulana di toccare i 31,466 milioni di euro con un +12% rispetto al 2009. La Disabilità registra nel 2010 un fatturato pari a 5 milioni 138 mila euro, proseguendo nel trend di crescita (nel 2008 4,157 milioni e nel 2009 invece 4,775 milioni di euro).I servizi residenziali per disabili gestiti da Itaca sono ri-volti a persone adulte di ambo i sessi con una disabilità prevalentemente di tipo psico-fisico e con una limitata

autonomia e autosufficienza. I servizi semi residenziali si caratterizzano per la ricerca e lo sviluppo di percorsi di inte-grazione all’interno di contesti normali di vita, attivando inter-venti mirati al potenziamento delle capacità relazionali e di comunicazione. La filosofia di lavoro, che si concretizza nell’impegno quo-tidiano, è quella di dare rispo-ste diversificate in base ai biso-gni del singolo individuo, intesi non solo come presa in carico

L’area Disabilità acquisisce nuovi servizi

Ben-essere e autonomia sono qualità della vitaRisposte diversificate in base alle necessità della persona

Villa Veroi

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3La Gazzetta | Settembre 2011ARTICOLO DI FONDO

assistenziale o riabilitativa, ma soprattutto come realiz-zazione di una progettualità complessa che coincide con la qualità della vita nel suo significato più ampio.Le comunità per disabili hanno lo scopo di promuovere il benessere di ogni singolo, inteso come attenzione alla sfera affettivo relazionale, senso di appartenenza, rispet-to delle diverse inclinazioni identitarie, cura degli aspetti emotivi e possibilità di crescita verso un’autonomia pos-sibile. Attraverso la progettazione individualizzata, che rappresenta lo strumento operativo sul quale si fonda una valida relazione di aiuto e un accompagnamento co-struttivo della persona disabile, vengono pianificati gli interventi.Tra gli obiettivi principali vi è quello di stimolare e soste-nere l’integrazione sociale e culturale nel territorio e nella comunità locale attraverso ini-ziative mirate; la programma-zione delle stesse tiene conto delle caratteristiche personali degli ospiti e si articolano co-erentemente con i progetti in-dividuali. La partecipazione è definita in base agli interessi e ai desideri di ognuno.La finalità dei diversi servizi residenziali è orientata a ricre-are un contesto di vita il più possibile vicino a quello fami-liare, caratterizzato dai con-sueti aspetti della quotidianità e contraddistinto da una rela-zione accogliente e partecipa-ta. Il rapporto con la famiglia, ove presente, è certamente da considerarsi un obiettivo im-portante: recuperare o mante-nere un livello di relazione con i familiari è essenziale ai fini del programma d’intervento. La relazione con i familiari da parte degli operatori dei servi-zi risulta pertanto una modali-tà di lavoro che sa riconoscere la significatività e l’importanza dei legami affettivi. I familiari infine rappresentano un soste-gno emotivo per la persona disabile e parte attiva nel condividere il progetto individualizzato, le responsabilità delle scelte ed i momenti di verifica degli interventi.Le principali aree di intervento, programmate in sinergia con gli ospiti e le diverse alleanze educative, riguarda-no l’aiuto pratico nella vita quotidiana, la promozione dell’emancipazione attraverso lo stimolo all’autodeter-minazione, la sperimentazione delle regole di conviven-za, la riduzione del rapporto di dipendenza legato all’im-magine di assistito con la restituzione della percezione di sé come persona adulta.I Centri diurni sono strutture integrate che accolgono giornalmente persone disabili in età post scolare che non hanno la possibilità di essere inserite in percorsi lavorativi. Aperti per 220 giorni l’anno con un orario di

funzionamento di massima compreso tra le 8.30 e le 16, organizzano attività di carattere educativo, riabilitativo ed assistenziale con lo scopo di facilitare l’integrazio-ne sociale e promuovere il mantenimento e lo sviluppo dell’autonomia personale, oltre ad una crescita delle potenzialità della persona. Garantiscono prestazioni di assistenza diretta, di cura del contesto di vita, di sup-porto allo svolgimento delle attività quotidiane e di aiuto alla vita di relazione. I Centri diurni costituiscono una risposta a supporto delle famiglie tale da favorire un potenziamento di interventi verso la persona disabile. Al momento dell’ingresso, l’èquipe di riferimento defini-sce il progetto individualizzato rispondente alle esigenze della persona nell’integrazione tra intervento educativo ed assistenziale.

Al 31 dicembre 2010 nell’area operavano 174 addetti pari al 14,4% dei lavoratori della Co-operativa, di cui 141 donne e 33 uomini. Le donne sono una presenza preponderante ed estremamente significativa an-che nell’area Disabilità, dove ri-vestono ruoli di responsabilità, direzione e coordinamento. Il personale per il 76,5% è com-posto da addetti all’assistenza di cui il 62,4% è qualificato.I servizi in capo all’area sono 21, localizzati nelle province di Pordenone, Udine e Gorizia, 8 quelli gestiti da più di 10 anni, 11 da meno di 5, 388 gli utenti la maggior parte dei quali (294) sono non autosufficienti.Nel corso del 2010 sono stati formati 23 operatori (rispet-to ai 15 del 2009) attraverso i corsi da 200 ore per il con-seguimento delle Competen-ze minime nei processi di as-sistenza alla persona, due le giornate formative sul modello ICF (International Classifica-tion of Functioning, Disability and Health).

Per il 97% dei beneficiari dei servizi è stato stilato un progetto individualizzato costantemente verificato e adeguato al mutamento delle situazioni personali. Buoni i risultati in tema di soddisfazione di utenti, soci e committenti. Molto alta la soddisfazione degli utenti dei servizi campionati, con una media di 8,58 punti (in una scala da 1 a 10). La maggiore soddisfazione l’hanno espressa gli ospiti della comunità Calicantus con una media di 9,43. Particolarmente gradita la “possibilità di ricevere visite in struttura e di mantenere legami sociali e familiari”.Soddisfacente anche la media generale di soddisfazione dei soci che ha segnato 3,39 (scala da 1 a 4). Nell’ana-lisi per genere le socie hanno un grado di soddisfazione generale alto pari a 3,4 e i soci un po’ più basso pari a

Calicantus

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4 La Gazzetta | Settembre 2011ARTICOLO DI FONDO

3,33. Livello di soddisfazione massima per la voce “or-ganizzazione” (3,51).Elevata anche la soddisfazione dei committenti con una media complessiva di 8,68, punto di forza dei servizi evidenziato la “qualità dei rapporti con la Cooperativa” e la “Flessibilità nella gestione del servizio” con la media più alta (9,5). Rispetto al 2009, l’utenza servita è piut-tosto stabile, preponderante quella di sesso maschile (53,6%). Nel triennio (l’area Disabilità è nata nel 2008) risulta più che evidente che l’area è a forte presenza femminile. Stabile la percentuale di presenza per gene-re (81%), il numero assoluto del personale dell’area è calato rispetto al 2009 (da 202 a 174).Tra le attività del settore da evidenziare per il Csre di Tarvisio e Pontebba il “Progetto Provincia” che ha finan-ziato anche per il 2010 l’am-pliamento del Centro diurno di Pontebba che fino agli inizi del 2009 aveva un’apertura su quattro giorni a settimana. Per diminuire la sofferenza della distanza territoriale che li se-para dagli altri Centri, i Csre di Tolmezzo, Gemona ed Esemon hanno cercato di coinvolgere il Centro con visite in occasioni particolari, o giornate in cui il gruppo per lo svolgimento di alcune attività si è spostato a Tolmezzo e Gemona. A partire dal 1° luglio 2009 la Cooperativa Itaca ha preso in gestione la parte educativa del progetto “Un giorno dopo l’altro, dalla convivenza alla residenzialità”, appartamento ad Azzano Decimo. Nel pa-norama territoriale il progetto risulta essere innovativo pro-prio nella visione della disabi-lità e di una possibile residen-zialità. La finalità è stimolare gli utenti all’indipendenza abi-tativa grazie alla presenza di un’equipe di educatori in fasce orarie prestabilite. Il progetto appartiene al Piano di zona 2006-2008 dell’Ambito di-strettuale Sud 6.3, Sevizio Sociale dei Comuni di Azzano Decimo, Chions, Fiume Veneto, Pasiano di Pordenone, Prata, Pravisdomini, Zoppola e come finalità è diretto ad accogliere giovani del territorio che vivono in famiglia e che necessitano di sperimentare le proprie autonomie al di fuori del contesto familiare. Un percorso di prepara-zione all’uscita dalla famiglia e di acquisizione di nuove abilità all’interno del quale viene sottolineata l’impor-tanza di creare una realtà che consenta di sperimentare altri programmi di riabilitazione residenziale.Vivere da soli assume nella vita di ogni persona un va-lore simbolico importante, che coinvolge l’individuo ma anche il nucleo familiare dal quale avviene la separazio-ne. Pertanto gli obiettivi principali del progetto mirano

a sviluppare il livello di autonomia delle persone adulte con disabilità medio lieve per una migliore qualità della vita, favorire l’esperienza di una graduale separazione dei componenti dal nucleo familiare, aiutare le persone coinvolte ad esprimere in modo comprensibile ed accet-tabile le proprie soggettività. Ma anche intervenire sulla comunità per modificare l’immaginario collettivo a favo-re di una visione della persona disabile come capace di sviluppare una propria autonomia.Particolarmente efficaci i Laboratori dell’area Disabilità, a Villa Veroi il progetto “Si-Danza” di danzaterapia ba-sato sul metodo proposto dalla maestra Maria Fux, che si distingue per il suo approccio artistico-creativo e che si avvale della musica come elemento fondamentale. In ogni incontro il filo conduttore, che accompagnava la

creatività e l’immaginazione dei partecipanti, era rappre-sentato da una storia fanta-stica: in questo modo, anche le persone con disabilità più grave, erano stimolate a muo-vere il loro corpo ed entrare in relazione con i compagni.Il corso “Alimentazione e tra-dizioni enogastronomiche” con contenuti incentrati sull’educa-zione alimentare, la conoscen-za dei prodotti primari (latte e derivati, formaggi, tipologie di carne, farine, mais, pasta...), la piramide alimentare e i pro-dotti tipici della tradizione friu-lana.Casa Carli si è distinta per la produzione di segnalibri per la libreria di Maniago “La Naf Spazial”, un Laboratorio di atti-vità espressivo-manuale per la produzione di un mosaico di-venuto l’insegna esterna della Comunità, la partecipazione al progetto “Sport e Disabilità” con attività di nuoto, tiro con l’arco, judo e pallacanestro, la collaborazione con l’asso-ciazione l’Atelier dei Sogni di

Frisanco per la manutenzione del Parco Giochi e la co-struzione di alcuni giochi per bambini.Cjase San Gjal ha visto l’attuazione del progetto Stadio, dove abitualmente due ospiti vengono accompagna-ti per seguire le partite in casa dell’Udinese, progetto Onoterapia presso la struttura di Fagagna, Cestinaggio in collaborazione con il Centro diurno di Fagagna, fale-gnameria “Teste di legno” al Dsm di Udine.Onoterapia anche al Calicantus in collaborazione con l’associazione “Gli amici di Totò” e successivamente con la Cooperativa “Ator dal Mus” e poi Adozione a distanza del “Rifugio del cavallo” in collaborazione con l’associa-zione Zedan Ranch.

A cura di Caterina BORIA e Fabio DELLA PIETRA

Cjase San Gjal

Casa Carli

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5La Gazzetta | Settembre 2011EDITORIALE

Smith, Trieste 1973 marzo, Laboratorio “P” - il corteo di Marco Cavallo esce - San Giovanni | Fonte: Dsm Trieste

Trieste

Il 12 giugno 1972, il presidente della Provincia di Trieste riceve una lettera firmata «Marco Cavallo», in cui l’animale, che ha sentito l’odore del mattatoio cui è verosimilmente destinato, rivendica il diritto a un meritato pensionamento, dichiaran-dosi pronto a continuare a svolgere il suo lavoro, documentando la sua capacità di farlo e testimoniando la volontà di molti suoi amici umani, viventi nello stes-so Ospedale psichiatrico di Trieste, di provvedere al suo sostentamento vita natural durante e di pagare alla Pro-vincia la medesima cifra che ricaverebbe dalla sua ven-dita. Il 30 ottobre dello stesso anno la giunta provincia-le di Trieste delibera la vendita del cavallo in dotazione dell’Ospedale psichiatrico dal 1959 e addetto al trasporto di biancheria, rifiuti di cucina e altro materiale, decidendo di sostituirlo con un motocarro.È così che comincia la storia di Marco Cavallo, che non sarà venduto e non morirà, anzi continua a vivere e a ga-loppare per il mondo, portando in groppa il malato che ha scritto per lui quella lettera e molti altri suoi compagni di sventura. Diventerà il simbolo, ilare e picaresco, di quella liberazione che è stata la cosiddetta riforma Basaglia, la legge 180 che ha trasformato l’istituzione manicomiale e soprattutto la condizione di molti dei suoi degenti e che non sarebbe stata possibile senza l’impegno di tanti che hanno lottato per essa e di quel presidente destinatario della lettera di Marco Cavallo, Michele Zanetti.Basaglia e i suoi colleghi che hanno condotto quella bat-taglia non hanno mai negato la malattia mentale né ce-duto ad alcuna «ideologia». Non a caso alcuni rapporti nati, nel fervore della lotta, con l’abborracciato e facilone estremismo movimentista degli anni Settanta sono sfo-ciati nello scontro avvenuto a Trieste nel settembre 1977 nel corso del terzo Reseau di alternativa alla psichiatria. Gli psichiatri basagliani (non solo loro, anche altri pure estranei al gruppo, ma soprattutto loro) hanno costretto a vedere quella realtà che ogni ideologia copre e mistifi-ca: la realtà dell’essere umano e della sua sofferenza. Un malato non cessa di essere una persona, cui la Costitu-zione attribuisce dignità e inalienabili diritti civili. Non si riduce soltanto alla sua malattia; tutti sappiamo che un uomo malato di cancro non è un cancro. Invece il «paz-zo» – parola vaga che indicava confusamente le cose più diverse, dalla malattia mentale al disadattamento sociale – era, per la sensibilità corrente, pressoché solo un’incar-nazione della follia; non una persona, ma una malattia. Pure i fattori sociali chiamati in causa dalla nuova psichia-tria non sono astrazioni ideologiche, bensì elementi che concorrono alla malattia; un cardiopatico è certo malato di cuore, ma se abita al ventesimo piano senza ascensore ciò contribuisce al suo male.A testimoniare il carattere non ideologico della riforma è ad esempio la rivendicazione anche della punibilità del

malato che commetta reati, perché la dignità comporta pure responsa-bilità e doveri. La questione della punibilità rimanda alle angosciose e arcaiche condizioni degli ospedali psichiatrici giudiziari. La commis-sione parlamentare presieduta dal senatore Marino, che ha visitato i sei ospedali psichiatrici che sono attivi e che trattengono ancora 1400 internati, ha riferito al presi-dente Napolitano, che ha pubblica-

mente espresso la sua pena, invitando la commissione e il Parlamento ad arrivare in tempi rapidissimi alla chiusura di questi ospedali.Ma anti-ideologico è anche l’elemento giocoso, la capa-cità di creare momenti di festa e di inventare la vita an-che nella dura guerra contro il dolore. Ne è una prova tangibile pure Marco Cavallo, il destriero azzurro come quelli di Franc Marc costruito da Vittorio Basaglia in un laboratorio corale di degenti, artisti, infermieri, medici e tanti amici. Quel cavallo ha iniziato a girare il mondo il 25 febbraio 1973, quando Franco Basaglia ha spaccato con una panchina di ghisa il muro di cinta dell’Ospedale psichiatrico triestino – il muro della reclusione – perché Marco Cavallo era così grande che non riusciva a passare attraverso l’uscita normale. Da allora sono cominciati i suoi viaggi nei più diversi Paesi, viaggi da cui nasceva-no spettacoli, poesie, incontri in cui i singoli contributi e le storie drammatiche da cui nascevano si fondevano in una creatività diffusa che sarebbe piaciuta a Nova-lis o a Lautréamont. È stato uno scrittore e poeta dalla fantasia metamorfica, Giuliano Scabia, a scrivere questa storia, in un libro affascinante e plurimo – scritto fra il 1973 e il 1976 e ora ripubblicato, Marco Cavallo. Da un ospedale psichiatrico la vera storia che ha cambiato il modo di essere del teatro e della cura (ed. Alphabeta Verlag, Merano, pp. 247, € 20) – che contiene pure te-sti di Franco Basaglia, Umberto Eco, e un racconto dei viaggi del corsiero azzurro, scritto da Peppe Dell’Acqua ed Elisa Frisaldi.È a Peppe Dell’Acqua che chiedo, incontrandolo a Trie-ste, cos’è stato, cos’è, cosa potrà ancora essere Marco Cavallo. Direttore del Dipartimento di salute mentale, Dell’Acqua è stato ed è uno dei protagonisti più con-creti, più vivi di quel percorso di liberazione. Rigoro-so e ironico, autorevole e fraterno, consapevole della complessità di ogni destino che non è mai solo un caso clinico e insieme aperto alla misteriosa semplicità della vita, Dell’Acqua smentisce già con il suo modo di essere ogni «ideologia». Nel suo libro Non ho l’arma che uccide il leone ha raccontato con precisione e felicità narrati-va l’avventura della rivoluzione psichiatrica, ascoltando tante voci prima inascoltate di chi non poteva parlare e cogliendone non solo il dolore o l’infamia che l’ha pro-vocato, ma anche la sorgiva creatività, quella capacità d’infanzia e di favola che talora perfino la sventura e la violenza non riescono a soffocare del tutto.

La battaglia del cavallo che liberò i malati di mente Claudio Magris a colloquio con Peppe Dell’Acqua

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6 La Gazzetta | Settembre 2011EDITORIALE

Cos’è stato veramente, gli chiedo, Marco Cavallo, quale è stata la sua strada?Dell’Acqua – Marco Cavallo è la storia della libertà ricon-quistata dagli internati. È il testimone di una restituzione: il diritto di cittadinanza a tutti i cittadini, anche se folli. È una grande straordinaria macchina teatrale che la visio-narietà di Giuliano Scabia ha reso capace di testimoniare storie intense, singolari e collettive, felici e drammatiche. Testimone di una svolta epocale, il cavallo è l’evidenza della «possibilità» riaffermata contro il destino segnato e ineluttabile della malattia mentale, come di ogni altra condizione umana di oppressione, di fragilità, di limitazio-ne di libertà. Forse è per questo che non ha smesso mai di viaggiare.

Magris – Quale è stato l’impatto di Marco Cavallo sui ricoverati, sul gruppo che vi ha lavorato, su chi invece se ne è tenuto in disparte? C’è stato qual-che malato che lo ha rifiutato? Talvolta si ha com-prensibilmente paura di uscire da una reclusione; la si desidera come si desidera la tana. Ci si rifugia nel disagio per sentirsi paradossalmente protetti dalla difficoltà di cercare la vita vera e dalla fru-strante amarezza di non poterla raggiungere…Dell’Acqua – Vedi, i matti non hanno costruito Marco Ca-vallo. Solo Dino Tinta, un paziente del reparto sudici, sa-liva sulla pedana e quando fu pronto il corpo del cavallo, non ci fu verso, volle entrare nella sua pancia. I mat-ti hanno costruito qualcosa che faccio fatica a definire. Qualcosa di più duraturo. Hanno riempito la pancia del cavallo di storie e di desideri: l’orologio che Tinta deside-rava più di ogni altra cosa, il porto con le navi e il capita-no della giovinezza di Ondina, le tante agognate Marie, il paio di scarpe nuove… Quel 25 febbraio un corteo di più di 600 matti attraversa con il cavallo le vie della città. L’uscita non può che essere festosa e tuttavia contiene paure profonde. Sembra ora veramente possibile che si potrà andare per il mondo ognuno con la sua storia. Zo-ran Pangher non uscì quel giorno. Poco più di 40 anni, carsolino, colto, orfano, i genitori morti in un campo di concentramento nazista, in collegio prima e in manicomio dopo, si oppose a quella festa. L’ipotesi, soltanto l’idea, che il manicomio potesse finire lo terrorizzava. Nelle lun-ghe e rigorose discussioni cercava di dirci che a San Gio-vanni c’erano i matti veri e che Basaglia era incosciente se solo pensava che potessero vivere altrove. Solo quelli come lui, forse, che matti non erano, avrebbero potuto uscire. Anzi non avrebbero mai dovuto essere rinchiusi. Ma, aggiungeva, lui, perseguitato da sempre e da sem-pre impedito ad una sua normale vita, non poteva che restare in manicomio. Era suo diritto restarci. Quel caval-lo con le sue promesse di libertà per tutti lo disorientava. Comprese che il manicomio veramente poteva sparire. La sua angoscia divenne incontenibile. Il bisogno di «cer-tezza» di Zoran segnerà negli anni a venire il percorso difficile e durissimo del cambiamento.

Magris – Non c’è stato forse, in qualche momento, un pericolo di entusiasmo facile, l’illusione di aver risolto festosamente i problemi? Alcuni degli stessi psichiatri protagonisti della vostra battaglia come

Rotelli, una delle figure guida, e alcuni pazienti si erano opposti alla sortita di Marco Cavallo, teme-vano che quello squarcio nel muro desse la falsa idea di aver creato il mondo nuovo, mentre le cose erano e talora sono ancora terribili.Dell’Acqua – L’opposizione all’uscita del cavallo, quella animatissima e crudele discussione che per quasi tutta la notte del sabato precedente alla festa coinvolse Basaglia, che voleva l’uscita, gli artisti e tutti noi (anch’io, anche se capivo poco, volevo l’uscita) costruì un’altra immagi-ne del cavallo: «l’animale della buona coscienza», così lo chiamò Rotelli. L’animale che avrebbe potuto mettere a tutti l’anima in pace davanti alle orribili condizioni del manicomio invece di denunciarle. Il compromesso fu un volantino che diceva degli internati, del lavoro degli infer-mieri, della lentezza del cambiamento di fronte ai bisogni violenti degli internati di casa, di lavoro, di relazioni.

Magris – Marco Cavallo ha creato spettacoli, po-esie, favole, testi letterari, lirici e teatrali. Pensi che quell’esperimento – a parte il suo valore libe-ratorio terapeutico, che è la cosa più importante – possa incidere direttamente sul linguaggio let-terario o, per poterlo fare, debba essere tradotto, filtrato da una scrittura letteraria, come nel libro di Scabia?Dell’Acqua – Credo che il filtro del linguaggio letterario, della traduzione poetica, come tu dici, sia stato e sia uti-lissimo. È quasi banale citare Alda Merini, John Nash, il premio Nobel, nel racconto di A Beautiful Mind. E tanto altro ancora.

Magris – La storia di Marco Cavallo è finita o con-tinua, e come?Dell’Acqua – Il cavallo continua a correre senza sosta, nei più diversi Paesi, anche oltre oceano. Dovunque va c’è sempre qualcuno che deve dire, denunciare, domandare: …quando ero ricoverato, mi hanno legato per una setti-mana… io ho visto mio figlio dietro una porta chiusa per più di 15 giorni… mio padre è morto dopo una settimana che era legato a letto nel servizio psichiatrico di diagnosi e cura di Cagliari… Viaggia per allontanare la smemora-tezza che rischia di cancellare dal presente ogni traccia del passato profondo; per restituire ai giovani una storia che non hanno potuto sapere. Ha cominciato a fermarsi davanti ai servizi psichiatrici chiusi, vigilati da sgradevoli telecamere, dove le persone sono legate; davanti ai luo-ghi dove le persone muoiono di psichiatria, davanti al dolore degli ospedali psichiatrici giudiziari e delle carceri, davanti ai centri di salute mentale vuoti, sporchi e privi di significato, davanti alle cliniche private, private di senso, che privano le persone di futuro e di storia: cliniche e imprese sempre sostenute dai contribuenti con centinaia di milioni di euro che ogni anno bruciano al di fuori di ogni sensata politica di salute mentale senza produrre un briciolo di salute nel Lazio, in Piemonte, in Sicilia, in Lombardia, in Puglia, in Emilia Romagna.È per questo che vuole continuare a correre.

Corriere della Sera, 30 agosto 2011Il Corriere.it

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7La Gazzetta | Settembre 2011IN PRIMO PIANO

Romans d’Isonzo

Giovedì 1° settembre è iniziata ufficial-mente l’attività del nuovo Centro diur-no “Francesco Candussi” di Romans d’Isonzo. La Cooperativa sociale Itaca, che gestisce il servizio, ha optato per un’apertura graduale di un paio d’ore giornaliere, al fine di consentire agli ospiti un inserimento graduale. Il Cen-tro, che si propone come punto di riferi-mento nella zona di Romans e nel terri-torio circostante per le persone anziane affette da demenza senile e Alzheimer e le loro famiglie, potrà accogliere fino ad un massimo di 10 ospiti.Gli operatori di Itaca si ispireranno nel loro approccio al metodo Gentlecare della terapista canadese Moyra Jo-nes, un modello innovativo elaborato per la cura della persona affetta da demenza o Alzheimer che persegue l’obiettivo della promozione del benessere inteso come migliore livello funzionale possibile in assenza di stress. La “cura gentile” è un approccio rivoluzionario che pro-pone un sistema protesico per compensare il deficit co-gnitivo attraverso l’adattamento dello spazio fisico, delle persone che curano e delle attività proposte.Il modello Gentlecare non rincorre finalità impossibili o idealistiche, ma mira a costruire “progetti personalizzati” dove il benessere è possibile e si concretizza nella rela-zione fra il malato e l’ambiente di vita.La valenza sociale del Centro diurno Candussi è notevole e sarà funzionale al tentativo di dare una risposta con-creta alle famiglie alleviando il carico assistenziale nella

fase in cui la demenza/Alzheimer può di-ventare dirompente per la persona malata e chi se ne prende cura.Nei primi giorni la struttura è stata aper-ta con un orario ridotto di un paio di ore giornaliere. Tale modalità di avvio del ser-vizio ha permesso un inserimento graduale degli ospiti all’interno del Centro Candussi, consentendo loro di potersi ambientare, conoscere la struttura e gli operatori che si prenderanno cura di loro. A partire da lunedì 5 settembre la struttura ha invece iniziato ad osservare l’orario di apertura a pieno regime, dal lunedì al sabato dalle 8 alle 17.

L’importante opera, che è stata finanziata con il contri-buto della Regione Friuli Venezia Giulia, è stata realizzata nei locali dell’ex Casa di riposo per anziani “Pia Fonda-zione Francesco Candussi”. La struttura è stata intera-mente riqualificata, gli arredi sono nuovi e trasmettono una grande cura nei dettagli, con ampi spazi dedicati alle attività quotidiane.La titolarità e la gestione diretta del Centro diurno di Romans è stata interamente assegnata alla Cooperativa Itaca, che da anni opera anche all’interno di strutture dedicate alla cura di persone affette da demenze e dal morbo di Alzheimer. Nello staff di Itaca personale quali-ficato e una gestione che punta sul gruppo degli ospiti, il personale, i rapporti con le famiglie e il territorio, in un’ottica di lavoro di rete con i Servizi sociali, i Comuni, i medici di medicina generale e il Distretto sanitario.

Settore Anziani Territoriale

Operativo dal 1° settembre a Romans il Centro Candussi

La “cura gentile” per affrontare l’AlzheimerUn servizio a favore delle famiglie e del territorio

Belluno

L’area Residenziale Anziani della Cooperativa Itaca sta organizzando il convegno pubblico “La Responsabilità dell’Operatore Socio Sanitario: una libera decisione o una costrizione del ruolo? …tra professione, etica e re-sponsabilità”, che si terrà sabato 15 ottobre dalle 9 alle 13.30 nella Sala Luciani del Centro Congressi di Belluno in piazza Piloni 11.Il termine “responsabilità” deriva dal verbo latino “re-spondire”, che letteralmente significa: “rispondere”. Possiamo chiederci, insieme: rispondere a cosa? Il di-zionario Garzanti, tra le definizioni di “responsabilità”, riporta: “consapevolezza di dover rispondere degli ef-fetti di azioni proprie o altrui;… l’azione concreta, l’im-pegno derivante da tale consapevolezza”.Quindi la responsabilità sembra legata da un lato al

dover rispondere prima a se stessi, poi agli altri, circa le proprie azioni, e circa le azioni compiute da altri, che sono a noi strettamente collegati; così come un datore di lavoro risponde dei suoi impiegati e del buon funzio-namento dell’azienda e del risultato finale.D’altro canto la responsabilità sembra collegata anche alla consapevolezza di avere tale responsabilità, cioè di dover rispondere di se stessi. Non si può prescindere, quindi, dal vedere che le azioni che compiamo hanno un effetto pratico, nella realtà che ci circonda, a più livelli: fisico, emotivo, morale ed etico.È, quindi, ancora più importante nell’ambito di profes-sioni basate su una “relazione d’aiuto” essere coscienti delle proprie responsabilità, per orientare i propri pen-sieri, emozioni ed azioni, sapendo che condizionano i soggetti cui sono destinati i nostri servizi, noi stessi e i nostri colleghi.

Convegno il 15 ottobre a Belluno

La Responsabilità dell’Operatore Socio SanitarioUna decisione libera o una costrizione del ruolo?

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8 La Gazzetta | Settembre 2011IN PRIMO PIANO

Affronteremo il tema grazie all’intervento di docenti esperti nella materia, quali il professor Alessandro Si-cora, il dottor Massimiliano Giocanda e la dottoressa Monica Fratta. Durante la mattinata e al termine del convegno l’area Residenziale Anziani della Cooperativa

Itaca sarà lieta di offrire coffee break e buffet.Informazioni, a partire dal 20 settembre, alla segreteria dell’area Anziani: 0434 366064 (Antonella Negrini).

Anna LA DIEGA

Sacile

L’area Domiciliare Anziani organizza a fine ottobre a Sacile, in collaborazione con l’Ambito di Sacile, una ta-vola rotonda avente come argomento lo sviluppo della domiciliarità. “Dall’assistenza domiciliare al sistema do-miciliarità. Un ponte fra passato e futuro” nasce come idea dal lungo lavoro svolto dall’area che ha visto la responsabile Leopoldina Teston intervistare l’84% dei responsabili di Ambito del Friuli Venezia Giulia e che merita alcune riflessioni sui dati emersi. A ciò va ag-giunto il lavoro che si sta realizzando in regione sul piano dello sviluppo della domiciliarità.Diversi gli spunti di riflessione dell’appuntamento con-vegnistico sacilese, che qui di seguito si riassumono.

Diventare anziani oggi: bisogni, pregiudizi e op-portunitàLa solitudine e le conseguenze dell’emarginazionePensare e progettare servizi, iniziative culturali, strut-ture per persone anziane oggi richiede uno sforzo di approfondimento anche sociologico e una vision proiet-tata verso il futuro.

La vecchiaia come risorsa: il volontariato attivo

Presentazione di una esperienza da parte di una asso-ciazione di volontariato.

La non autosufficienza e la deprivazione socio economica. Lo stato dell’arte in FvgStudi nazionali e internazionali segnalano una relazione tra deprivazione socio economica e rischio di disabilità e non autosufficienza.

Il piano della domiciliarità: l’esperienza dell’Am-bito di SacileL’ambito socio assistenziale, assieme al Comune di Saci-le, ha avviato un lavoro inerente il tema della domicilia-rità che verrà illustrato durante i lavori della giornata.

L’evoluzione delle professioni di cura nei servizi socio assistenzialiDal cambiamento dei bisogni al cambiamento delle ri-sorse e la qualità attesa dell’utente.Modelli a confronto: scambi di esperienze fra le regioni Friuli Venezia Giulia e Veneto.Le carte vincenti sono senza dubbio l’efficienza gestio-nale basata su flessibilità e competenze diversificate nell’erogazione, sotto la stessa unità di direzione, di at-tività svolte in regimi giuridici e organizzativi diversi.

La giornata di lavoro – che sarà dedicata alla discussio-ne del “fenomeno” della popolazione anziana che vive al’interno del proprio domicilio - avrà l’obiettivo di apri-re riflessioni e fare il punto sull’avanzamento relativo alle azioni innovative di sistema, attraverso le quali ci si propone di incrementare l’efficacia delle politiche regio-nali a favore della popolazione tutta.

Tavola rotonda a Sacile

Dall’assistenza domiciliare al sistema domiciliaritàUn ponte fra passato e futuro

E io spettatore sedutoIn una sala vuota,i palchi deserti, le luci spente,resto il solo del mio tempo,davanti al sipario abbassato,con il silenzio e la notteF.R. Chateaubriand

Portogruaro

Festa al Centro polifunzionale psichiatrico di Fossalato di Portogruaro venerdì 16 settembre, dalle 18.30 cena insieme a familiari, ospiti, operatori e amici delle as-sociazioni locali. “ApertaMente” a Fossalato – questo il nome della manifestazione - durante la serata pro-porrà musica con gruppi musicali giovanili del territorio e la presentazione dell’ultima raccolta poetica di Fabio Franzin “Coe man monche”, edizioni Le Voci Della Luna,

curata da Francesco Tomada.Organizzazione a cura di Centro salute mentale di Por-togruaro, AITSaM di Portogruaro, Cooperativa sociale Itaca e Consorzio Insieme, Consiglio comunale Giovani di Portogruaro e associazione culturale Porto dei Be-nandanti di Portogruaro con il Patrocinio dell’Ammini-strazione Comunale di Portogruaro.

La festa è aperta a tutti i cittadini per avvicinarci alla Città e avvicinare la Città.

Per avvicinarci alla Città e avvicinare la Città

ApertaMente a FossalatoFesta il 16 settembre al Centro polifunzionale con musica e poesia

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9La Gazzetta | Settembre 2011IN PRIMO PIANO

Pordenone

Ci muoviamo esattamente nell’ambito del principale obiettivo che Itaca si è dato dalla sua costituzione, ben espresso dall’art. 2 dello Statuto (“oggetto sociale”): “lo scopo mutualistico che i soci lavoratori della Co-operativa intendono perseguire è quello di ottenere, tramite la gestione in forma associata, continuità di occupazione lavorativa e le migliori condizioni sociali, professionali ed economiche”. Così, ad incrementare le forme di mutualità già presenti – a livello di inquadramenti, di tutela della maternità, di prestito sociale, e che già da sole rappresentano un significativo miglioramento delle condizioni economi-che applicate - il CdA della Cooperativa Itaca è al lavoro per implementare ulteriormente il ventaglio di tali interventi: tra i molteplici strumenti presi in considerazione, è ora allo studio l’istituzione di un Fondo sanitario integrativo aziendale.

L’ipotesi è quella di un fondo integrativo sanitario con cui garantire agli aderenti prestazioni concordate a fronte di un esborso pro-capite annuo predetermi-nato, tenendo presente le seguenti esigenze:

1) La prima è quella del contenimento del costo ma a fronte di un livello delle prestazioni comunque significativo e soprattutto effet-tivamente utilizzabili da tutti i soci – e non solo da quelli che ne hanno una specifica neces-sità contingente: quindi prestazioni che riguardi-no anche medicina preventiva (leggi check up), o conservativa (pulizia dei denti);

2) Diventa poi importante prevedere una modalità di accesso al Fondo che spinga ad una adesione il più massiccia possibile della base sociale – che non può prescindere da una forte azione di divulgazione (utilizzando gli incontri preparatori

alla consueta assemblea di ottobre/novembre che potrebbe essere incentrata sull’argomento): un preventivo, informato coinvolgimento dell’Assem-blea dei soci diventa un passaggio fondamentale;

3) La scelta di un partner affidabile, abituata alla gestione autonoma delle prestazioni e della liqui-dazione delle somme (senza coinvolgimento della cooperativa) e territorialmente presente per svol-gere correttamente la propria funzione nei con-fronti dei soci. E’ necessario infatti che lo stru-mento venga vissuto per quello che è davvero, cioè un effettivo vantaggio che non può essere poi frustrato da estenuanti aggravi burocratici per ottenere il rimborso;

4) La considerazione del fatto che nella piattaforma del nuovo C.C.N.L. è previsto, tra gli elementi ca-ratterizzanti, anche la tutela integrativa sanitaria – e quindi comunque si dovrà andare in questa di-rezione. Infatti nei recenti rinnovi dei contratti o accordi collettivi, le associazioni datoriali e sindacali hanno disposto, attraverso l`avvio di apposite cas-se, la costituzione di un canale parallelo in grado di fornire prestazioni sanitarie di carattere integrativo rispetto a quelle erogate dal servizio pubblico.

I Fondi sanitari integrativi, per legge, devono necessa-riamente destinare almeno il 20% delle risorse totali impiegate per tutte le prestazioni, per poter fruire del-le agevolazioni fiscali previste. beneficio prevede che i contributi di assistenza sanitaria versati dal datore di lavoro o dal lavoratore ai fondi integrativi non concor-rono a formare il reddito imponibile del lavoratore di-pendente, per un importo massimo di 3.615,20 euro: la forma di agevolazione fiscale scelta dal legislatore è dunque quella della deducibilità, certo la più vantag-giosa avendo come soglia minima quella del 23% del reddito imponibile.

Fondo sanitario integrativoUna nuova forma di mutualità per i soci allo studio del CdA di Itaca

Assistenza sanitaria integrativa, di cosa si tratta?Sono fondi che gestiscono trattamenti sanitari e as-sistenziali supplementari, integrativi delle prestazioni obbligatorie rese dal servizio sanitario pubblico; quin-di sono fondi che ai lavoratori di avere un rimborso anche parziale di alcune spese sanitarie sostenute (e ovviamente non supportate dal Servizio Sanitario Na-zionale).

Posso avere un esempio dei rimborsi?Ogni fondo prevede uno specifico elenco di interventi

assicurati, che possono essere parzialmente personaliz-zati. Per esempio possono essere rimborsati:

il 100% dei ticket delle prestazioni diagnostiche o • con massimali annui prestabiliti per alcuni tipi di prestazione le eventuali spese correlate ad un grande interven-• to chirurgico, le ecografie e le analisi clinico chimiche effettuate • in gravidanzale cure odontoiatriche con massimali annui presta-• biliti

Alcune domande e risposte sull’assistenza sanitaria integrativa

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Come funziona?Ci sono contratti di lavoro che già prevedono la sani-tà integrativa e l’eventuale quota di compartecipazione alla spesa da parte del lavoratore. In ogni caso, quando l’attivazione trae origine da un regolamento ‘aziendale’, il datore di lavoro sottoscri-ve una convenzione, per esempio con una Società di Mutuo Soccorso, valida per la generalità dei lavoratori; successivamente, per beneficiare delle prestazioni pre-viste, è condizione essenziale che il lavoratore sotto-scriva personalmente l’adesione.

Ma per poter beneficiare delle prestazioni, devo andare in posti specifici?Trattandosi di interventi ulteriori (e non sostitutivi del SSN) ciascun fondo, seppur con specifiche differenze, prevede diverse opzioni:

si può andare presso le strutture pubbliche e si • può ottenere quindi il rimborso totale o parziale del ticket pagato; si può andare in strutture private convenzionate • con alcuni Fondi e per alcune tipologie di presta-zioni (per esempio per l’alta diagnostica o per le prestazioni dentistiche) e si può ottenere quindi il rimborso totale o parziale del pagamento della pre-stazione; si può andare in strutture private non convenzio-• nate o in regime privato, pagare la prestazione e ottenerne il rimborso parziale.

Quanto costa effettivamente? Il costo dipende dalla tipologia di fondo attivato e quin-di di prestazioni integrative al servizio pubblico: per costi che variano dai € 70 ai € 300 annui a persona si possono avere fondi già abbastanza adeguati.

Chi paga?Paga il datore di lavoro con eventuale compartecipa-zione del lavoratore. La compartecipazione alla spesa è prevista dai contratti collettivi di lavoro o, in assenza, da accordi aziendali interni.

Qual è il regime fiscale applicato ai fondi?Per legge, le somme pagate per i fondi sanitari integra-tivi non concorrono a formare il reddito di lavoro dipen-dente e sono tassate con un contributo di solidarietà del 10% a carico del datore di lavoro e sono deducibili fiscalmente per i lavoratori.

E’ possibile assicurare i familiari?E’ possibile prevederlo, ma comunque a richiesta del lavoratore (e verosimilmente con oneri a suo carico).

Chi rimborsa le spese?Le spese non sono rimborsate dal datore di lavoro e non vengono rimborsate in busta paga.

Cosa si deve fare – e in che tempi - per chiedere il rimborso delle spese?Si deve compilare uno specifico modulo predisposto dal fondo stesso e spedirlo o consegnarlo presso le sedi territoriali della Mutua gestrice del Fondo entro e non oltre i 12 mesi successivi la spesa sostenuta. Si può fare anche la richiesta in un’unica soluzione; per esem-pio che chi, entro la fine di ogni anno, mette insieme tutte le ricevute e presenta richiesta di rimborso. Soli-tamente le somme vengono accreditate (o rimborsate con assegno) entro poche settimane.Il Fondo ogni anno manda al lavoratore il riepilogo delle spese rimborsate anche per consentire ai lavoratori di scaricare fiscalmente l’eccedenza non rimborsata.

Vuoi contribuire a La Gazzetta?Invia il tuo articolo, meglio se corredato da immagini in allegato jpg, a: [email protected] oppure al fax 0434 253266. Per informazioni chiama il 348 8721497.Il termine ultimo per il numero di ottobre è lunedì 26 settembre alle ore 12.Ricordo a tutti/e che le immagini a corredo dei vostri articoli NON vanno impaginate all’interno del file word, ma devono essere inviate in allegato jpg (via mail) o consegnate a mano.

Il 14 luglio è nata Greta, la bimba della nostra socia Elisabetta Leita (lavora al Gau di Udine).

I colleghi dell ’Ambito di Maniago si congratulano con la mamma Marzia Versolatto e il papà Simone per l ’arrivo di Daniele, nato il 25 luglio!

“Fiocchi blu a Vil la Veroi, in questa calda estate sono venuti alle luce due splendidi fanciull i. Sono nati Matteo, figlio della socia Tamara Venturini, e Jacopo, figlio della coordinatrice Lisa Zambelli. Tante tante tante felicitazioni alle mamme, ai papà ed alle sorell ine da parte di tutta la comunità Vil la Veroi e dall ’ intera area produttiva!

E benvenuti a Greta, Daniele, Matteo e Jacopo!

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Udine 4 luglio 2011

Mercoledì e giovedì scorso sono stato a Napoli, chia-mato dagli amici dell’Airsam di Pd (che dagli anni ‘70 vuol dire Psichiatria Democratica) e del Consorzio Ge-sco, roccaforte di Legacoopsociali campana, per dire quattro parole in un convegno sulla Salute Mentale.Un viaggio “toccata e fuga”, ma allietato dal fatto che mi sono letto un libro intero andata e ritorno sul tre-no. Le uniche soste assurde, come al solito, le ho fatte a Mestre - snodo di quel Nordest dove mezzo secolo fa si invocavano le provvidenze della Cassa del Mezzogiorno, e fra un po’ torneremo a farlo - mentre come al solito la moderna stazione dell’antica capitale borbonica si merita l’eredità dei primi treni che solca-rono la Penisola.L’amico Fedele, psichiatra tra i promotori dell’evento, nell’accompagnarmi nella calda serata partenopea mi faceva notare come, dopo l’elezione di De Magistris a sindaco, si potessero vedere perfino le volanti della polizia fermare e multare qualche automobilista indi-sciplinato.Ma la curiosità, quella vera, era per i mucchi di im-mondizie, quelli che si continuano a vedere in televi-sione. Quasi nessuna traccia. Venerdì, per spiegarne l’entità ai colleghi di Legacoop riuniti in assemblea a Trieste, facevo l’esempio della non esatta igiene ausburgica delle strade interne del porto adriatico. Certo, meglio della Roma veltroniana ed alemanna, da sempre disordinata e lurida oltre ogni dire. Nella notte il caldo mi ha fatto passare qualche tempo ad osservare in diretta il servizio di raccolta rifiuti. Nel viale per Capodimonte, a pochi passi dal ponte che sorvola il quartiere di Sanità, la raccolta avveniva ad-dirittura già con elementi di differenziata: i mucchi di cartoni abbandonati fuori dei bidoni vuoti alle prime ore del nuovo giorno, all’alba erano tutti rigorosa-mente spariti.Chissà se per farmi uno scherzo (anche se giurano di no), i colleghi di Gesco mi hanno fatto dormire in uno splendido villino ottocentesco, proprietà di due insegnanti di educazione artistica in pensione. Abbia-mo finito per argomentare sul fatto se siano più ot-tusi i leghisti varesotti (dove loro avevano lavorato a lungo) o quelli veneto-friulani, ma non siamo riusciti a giungere ad una conclusione unanime: la materia era troppo influenzata da crisi di ribrezzo. Ma fuori, su una stele (che il padrone di casa vorrebbe pre-sto restaurare - e mica è cosa sua: è un monumen-to pubblico, ed è per quello ci tiene!), l’antico motto umbertino mi ammoniva: “A Pordenone si fa festa ed a Napoli si muore: vado a Napoli”. Quando si dice la coincidenza.L’indomani, il convegno viene inaugurato da un pun-tualissimo sindaco. De Magistris riesce a farti sentire

sensazioni strane: come quando, all’incipit, afferma che la Salute Mentale non è un problema specialisti-co, ma generale, e che tutti prima o poi, compreso il sindaco di Napoli, hanno momenti di disperazione. Per cui la pazzia finisce per essere uno dei pochi cri-teri cui ispirarsi, come hanno fatto lui e gli altri che hanno sconfitto un intero sistema politico e liberato la loro città. Come fanno i valsusini che difendono la loro valle (lo ha detto lui, non io, ma modestamen-te mi associo). Lo spirito delle assemblee basagliane non avrebbe potuto aleggiare più vicino.Il resto della giornata è solo la prova generale di un movimento che per lunghi mesi, dalla fine del 2010, ha posto sotto denuncia le politiche di distruzione del Welfare italiano. Che a Napoli hanno portato a chiu-dere strutture di cooperative sociali, per trasferire gli utenti - a costi lievitati a livelli astronomici - nelle cliniche private. I centri diurni chiusi hanno lasciato gli utenti a casa, soggetti al moltiplicarsi dei ricoveri ed alla disperazione delle famiglie. L’inserimento la-vorativo diventa inavvicinabile, in una città angustia-ta dalla disoccupazione di massa, dove i cooperatori sociali attendono la paga da molti mesi, a causa delle irresponsabilità istituzionali.Intanto le esperienze positive stanno lì, a dimostra-re che “un altro mondo è possibile”. Come il gruppo appartamento gestito quasi a costo zero, le cui tre utenti intervengono in assemblea con lucidità. Come gli operatori pubblici che non si rassegnano a diven-tare somministratori di farmaci e ricette per i ricoveri nei nuovi manicomi. Come i cooperatori che costi-tuiscono i principali presidi sociali in quartieri come Secondigliano, dove c’è l’Aquilone, la più grande delle cooperative di Gesco. Ed i ragazzi dei centri estivi che per primi, con gli operatori, sono scesi nelle piazze cittadine per iniziare la raccolta differenziata.All’assessorato ai servizi sociali del Comune ora non c’è più l’esponente di Sel che aveva assistito inerte all’accumularsi di 3 anni di ritardi nei pagamenti alle cooperative sociali. Abbracciato e baciato che neanche la Madonna, ora c’è Sergio D’Angelo, l’ex presiden-te di Gesco ed ex vicepresidente di Legacoopsociali nazionale. Il tempo è poco ma l’impegno è solenne: tornare giù appena possibile, per un viaggio di studio su come “la cooperazione si fa Stato” nelle condizioni più difficili. In fondo il mio primo lavoro sociale l’ho appreso nell’Irpinia del dopo-terremoto, quando le compagne del “manifesto” locale mi dicevano che era “come faceva S. Luigi Gonzaga” (ed infatti...), ed io argomentavo che l’assistenza domiciliare era invece un pezzo dello Stato sociale europeo.

Gigi BETTOLIPresidente Legacoopsociali Fvg

La cooperazione si fa Stato

“A Pordenone si fa festa ed a Napoli si muore: vado a Napoli”

Quando si dice la coincidenza

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Napoli

In tutta la discussione na-zionale in atto sulla manovra finanziaria, che ci costerà 20 miliardi di euro nel 2012 e 25 miliardi nel 2013, quello che più mi lascia esterrefatto è il totale silenzio di destra e si-nistra, dei media e dei vesco-vi italiani sul nostro bilancio della Difesa. E’ mai possibile che in questo paese nel 2010 abbiamo speso per la difesa ben 27 miliardi di euro? Sono dati ufficiali questi, rilasciati lo scorso maggio dall’autorevo-le Istituto Internazionale con sede a Stoccolma (Sipri). Se avessimo un orologio tara-to su questi dati, vedremmo che in Italia spendiamo oltre 50.000 euro al minuto, 3 milioni all’ora e 76 milioni al giorno. Ma neanche se fossimo invasi dagli Ufo, spenderemmo tanti soldi a di-fenderci!!E’ mai possibile che a nessun politico sia venuto in mente di tagliare queste assurde spese militari per ottenere i fondi necessari per la manovra invece di farli pagare ai cittadini? Ma ai 27 miliardi del Bilancio Difesa 2010, dobbiamo aggiungere la decisione del governo, approvata dal Parlamento, di spendere nei prossimi anni, altri 17 miliardi di euro per acquista-re i 131 cacciabombardieri F 35. Se sommiamo que-sti soldi, vediamo che corrispondono alla manovra del 2012 e 2013. Potremmo recuperare buona parte dei soldi per la manovra, semplicemente tagliando le spese militari. A questo dovrebbe spingerci la nostra Costituzione che afferma :”L’Italia ripudia la guerra come strumento per risolvere le controversie interna-zionali…” (art.11) Ed invece siamo coinvolti in ben due guerre di aggressione, in Afghanistan e in Libia. La guerra in Iraq (con la partecipazione anche dell’Italia), le guerre in Afghanistan e in Libia fanno parte delle cosiddette “guerre al terrorismo”, costate solo agli Usa oltre 4.000 miliardi di dollari (dati dell’Istituto di Stu-di Internazionali della Brown University di New York). Questi soldi sono stati presi in buona parte in prestito da banche o da organismi internazionali. Il governo Usa ha dovuto sborsare 200 miliardi di dollari in dieci anni per pagare gli interessi di quel prestito. Non po-trebbe essere, forse, anche questo alla base del crollo delle borse? La corsa alle armi è insostenibile, oltre che essere un investimento in morte: le armi uccidono soprattutto civili.Per questo mi meraviglia molto il silenzio dei nostri ve-scovi, delle nostre comunità cristiane, dei nostri cristiani

impegnati in politica. Il Vangelo di Gesù è la buona novella della pace: è Gesù che ha inventato la via della nonviolenza attiva. Oggi nessuna guerra è giusta, né in Iraq, né in Afghanistan, né in Libia. E le folle somme spese in armi sono pane tolto ai pove-ri, amava dire Paolo VI. E da cri-stiani come possiamo accettare che il governo italiano spenda 27 miliardi di euro in armi, men-tre taglia 8 miliardi alla scuola e ai servizi sociali?Ma perché i nostri pastori non alzano la voce e non gridano che questa è la strada verso la morte?

E come cittadini in questo mo-mento di crisi, perché non gri-

diamo che non possiamo accettare una guerra in Afgha-nistan che ci costa 2 milioni di euro al giorno? Perché non ci facciamo vivi con i nostri parlamentari perché votino contro queste missioni? La guerra in Libia ci è costata 700 milioni di euro!Come cittadini vogliamo sapere che tipo di pressione fanno le industrie militari sul Parlamento per ottenere commesse di armi e di sistemi d’armi. Noi vogliamo sa-pere quanto lucrano su queste guerre aziende come la Fin-Meccanica, l’Iveco-Fiat, la Oto-Melara, l’Alenia Ae-ronautica. Ma anche quanto lucrano le banche in tutto questo.E come cittadini chiediamo di sapere quanto va in tan-genti ai partiti, al governo sulla vendita di armi all’este-ro (ricordiamo che nel 2009 abbiamo esportato armi per un valore di quasi 5 miliardi di euro).E’ un autunno drammatico questo, carico di gravi do-mande. Il 25 settembre abbiamo la 50° Marcia Perugia-Assisi iniziata da Aldo Capitini per promuovere la non-violenza attiva. Come la celebreremo? Deve essere una marcia che contesta un’Italia che spende 27 miliardi di euro per la Difesa.E il 27 ottobre sempre ad Assisi , la città di S. France-sco, uomo di pace, si ritroveranno insieme al Papa, i leader delle grandi religioni del mondo. Ci aspettiamo un grido forte di condanna di tutte le guerre e un invito al disarmo.Mettiamo da parte le nostre divisioni, ricompattiamoci, scendiamo per strada per urlare il nostro no alle spese militari, agli enormi investimenti in armi, in morte.

Che vinca la Vita!Alex ZANOTELLI

PER ADERIRE ALL’APPELLO www.ildialogo.org

L’appello di padre Alex Zanotelli

Manovra e armi: “Il male oscuro” Dal sito www.ildialogo.org

www.fuorilemura.com

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13La Gazzetta | Settembre 2011ATTuALITà

Perugia – New York

A dieci anni dall’attentato che l’11 settem-bre 2001 distrusse le torri gemelle di New York e dall’inizio della guerra in Afghani-stan, la Tavola della pace e l’associazione americana dei familiari delle vittime dell’11 settembre Peaceful Tomorrows hanno deciso di andare insieme a Kabul per dire basta alla violenza, alla guerra e al terrorismo. Una delegazione italo-americana si è recata a Kabul dal 31 agosto al 5 settembre 2011 per incontrare i familia-ri delle vittime del terrorismo e della guerra, le orga-nizzazioni della società civile afgana e i rappresentanti delle principali organizzazioni internazionali presenti in Afghanistan.La missione di pace, organizzata grazie alla collabora-zione di Afgana e del Coordinamento Nazionale degli Enti Locali per la Pace e i Diritti Umani, si svolge alla vigilia della Marcia Perugia-Assisi per la pace e la fratel-lanza dei popoli del 25 settembre 2011.La delegazione era composta da Arpaia, September 11th Families for Peaceful Tomorrows, Lotti, Coordina-tore nazionale della Tavola della pace, Giordana, Coor-dinatore di Afgana,Mario Galasso, Assessore alla pace e alla cooperazione internazionale della Provincia di Ri-mini, Ferrari, Assessore alla pace e cooperazione Inter-nazionale del Comune di Lodi, Dell’Olio, Responsabile Internazionale di Libera, Morgantini dell’Associazione per la pace, Sacco di Pax Christi.

Una delegazione italo-americana in AfghanistanContro la violenza, la guerra e il terrorismo

La Tavola della pace e i familiari delle vittime dell’11 settembre vanno a Kabul

Dopo dieci anni di “guerra al terrorismo”, la violenza, la miseria e l’insicurezza con-tinuano a dominare la vita quotidiana del popolo afgano e dell’intera regione. Osama Bin Laden è stato ammazzato ma noi siamo ancora profondamente coinvolti in questa tragedia senza sapere come uscirne. Se ne

parla malamente solo quando muore qualcuno dei no-stri soldati. Poi nulla più. Eppure non possiamo smette-re di porci alcune domande: a cosa è servito scatenare una simile guerra? Davvero non si poteva fare diversa-mente? E ora, cosa dobbiamo fare?La missione della Tavola della pace e di Peaceful To-morrows ha voluto innanzitutto essere un forte gesto di solidarietà con il popolo afgano e rendere omaggio a tutte le vittime della guerra e del terrorismo. A loro è stata consegnata la “Luce di Assisi”, la lampada ideata dai francescani a simbolo della pace che dobbiamo im-pegnarci a costruire.Allo stesso tempo la delegazione intendeva raccogliere valutazioni e proposte per uscire da questa dramma-tica situazione ascoltando le diverse espressioni della società civile afgana e i rappresentanti delle principali istituzioni internazionali presenti a Kabul.La missione ha voluto dare seguito agli impegni assunti dalla società civile italiana in occasione delle Conferen-ze della società civile afgana di Kabul (marzo 2011) e di Roma (maggio 2011) organizzate da Afgana.

www.perlapace.it

Rovereto

Il fallimento della comunità internazionale durante la guerra in Bosnia Erzegovina è stato utilizzato negli anni successivi per giustificare interventi armati in situazioni di crisi. La vicenda libica ne è l’ultimo esempio. Note a margine di un articolo di Adriano Sofri.

Strano destino, quello di Srebrenica. Le sue vittime, di-menticate per anni, sono tornate alla ribalta. Mai più Srebrenica. Vuol dire mai più massacri di civili nell’in-differenza della comunità internazionale. Giusto. Dietro questo slogan, però, troppo spesso si nascondono altre ingiustizie, altri massacri. Adriano Sofri, in un editoriale di sostegno all’intervento della Nato e degli altri alleati in Libia, scrive sul quotidiano la Repubblica: “Che cosa sa-rebbe accaduto della popolazione indifesa di una grande città come Bengasi [...]? Sarebbe accaduto o no quello che Gheddafi e i suoi ferocemente giuravano? Non si sarebbe parlato di Srebrenica se Srebrenica fosse stata prevenuta...”.

Già, ma il problema sta nelle forme della prevenzione. A Srebrenica c’era un esiguo contingente di olandesi, con armi leggere, assolutamente inadeguato per affrontare l’esercito serbo bosniaco. L’enclave, di fatto, non era di-fesa. Nessuno era interessato alla sorte dei bosniaci, e i macellai aspettavano solo il segnale di via libera, pun-tualmente arrivato alla fine di giugno di quella tragica estate. Se avesse avuto di fronte un esercito di caschi blu, Mladić non avrebbe potuto attaccare. Il fatto che allora non ci sia stata interposizione, però, non può ser-vire oggi per giustificare la guerra come strumento di soluzione delle controversie internazionali. Bisognerebbe piuttosto discutere di come dotarsi di strumenti efficaci per il mantenimento della pace.

Il mantenimento della paceGuerra e interposizione, guerra e mantenimento della pace sono categorie differenti. Vale la pena ricordarlo. Sofri scrive che “la contraddizione è largamente ine-vitabile nel sistema di relazioni internazionali”. È vero. Questa però vale come constatazione, non come pro-

(La Libia) Non è Srebrenica(ma la guerra è la stessa)

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gramma. Eccessive iniezioni di realismo portano a perdere la bussola. In una situazione di conflitto aperto, la comu-nità internazionale deve intervenire a protezione dei civili. Ma l’intervento non può che avvenire per il mantenimento della pace, non per creare altre vittime e altri lutti. Dopo Srebrenica, invece, il massacro dei bosniaci è stato utilizzato per giu-stificare nuove guerre, condotte da autoproclamate “polizie internazionali”. Gli interventi di queste forze (1999 Kosovo, 2001 Afgha-nistan, 2003 seconda guerra del Golfo, 2011 guerra di Libia) hanno però lasciato alle loro spalle, oltre ad una lunga scia di morti, una lunga scia di problemi irrisolti. Non ci sono i buoni da una parte e i cattivi dall’altra. Dopo l’intervento Nato in Kosovo, i serbi sono dovu-ti fuggire, come prima fuggivano gli albanesi. La crisi di quest’estate a Mitrovica nord, gli scontri a Jarinje e Brnjak, mostrano che, dieci anni dopo, la situazione è tutt’altro che risolta.

Il feticcio della guerraUn conto è mettersi in mezzo, altro è schierarsi con una parte contro l’altra. Dal punto di vista delle possibilità reali di elaborazione di un conflitto, di costruzione di una società accogliente per le sue diverse componenti,

cambia molto. Nessuno piange per la scomparsa di Gheddafi dalla scena po-litica. Ma su quali basi si fonda la nuo-va Libia? In questi mesi, purtroppo, non abbiamo assistito alla rappresen-tazione della giustizia internazionale, della protezione dei diritti umani. Se le navi e gli aerei della Nato fossero stati nel Mediterraneo per difendere i diritti umani, non avrebbero lascia-to morire decine di profughi sulle loro barche, violando oscenamente il dirit-

to del mare oltre che le più elementari norme del diritto internazionale umanitario, secondo quanto denunciato dai pochi sopravvissuti e dall’inchiesta del quotidiano bri-tannico The Guardian. La nuova Libia, purtroppo, nasce sulle stragi dei migran-ti, così come 15 anni fa la Bosnia Erzegovina nasceva sulle fosse comuni. La comunità internazionale ha fallito in entrambi i casi. Discutiamo di come creare meccani-smi efficaci di interposizione, torniamo a chiedere una Organizzazione delle Nazioni Unite che sia coerente con il suo patto fondativo. Il feticcio della guerra ha già trop-pi adepti.

Andrea ROSSINIOsservatorio Balcani e Caucaso

www.balcanicaucaso.org

Foto Reuters Suhaib Salem

New York

Diciotto mesi prima della strage dell’11 settembre la Cia era sulle tracce di due dei 19 futuri dirottatori, i sauditi Khaled al-Mihdhar e Nawaf al-Hamzi. Sapeva che era-no negli Stati Uniti e ha impedito all’Fbi di scoprirlo. A distanza di dieci anni dagli attacchi alle Torri Gemelle di New York e al Pentagono di Washington, Richard Clarke, zar dell’antiterrorismo alla Casa Bianca, intervistato dalla tv franco-tedesca Arte, lancia il suo j’accuse: “Perché la Cia non ha avvertito il governo americano sulla presen-za, nel nostro suolo, di due uomini di Al Qaeda? È uno dei grandi misteri dell’11 settembre”.La commissione d’inchiesta del Congresso, creata per risolverli, non ha approfondito la questione. Nelle sue memorie pubblicate sei anni fa, Richard Clarke dedica solo poche righe a quell’episodio. Oggi, però, per la pri-ma volta, chiama in causa il ruolo dell’”agenzia”. Nuovi elementi, raccolti da Arte per un documentario, porta-no a un’ipotesi sconcertante: la “sorveglianza” sui due sauditi si sarebbe inserita in un’operazione, poi fallita, di grande portata della Cia contro Al Qaeda.

Yemen, la centrale del terroreTutto comincia nel ’98 quando i servizi Usa intercetta-no alcune conversazioni in una casa di Sanaa, capitale dello Yemen: è la “centrale del terrore”di Al Qaeda. Qui

i jihadisti ricevono istruzioni e lasciano messaggi. Tra il ’96 e il ’98 quel numero è stato chiamato più di 200 volte da Osama Bin Laden e dai suoi fedelissimi. E alla fine di dicembre ’99 scatta l’allarme, grazie a una telefonata dall’Afghanistan. Bin Laden ordina a Khaled e Nawaf di recarsi subito a Kuala Lumpur, Malesia. Qui è previsto il meeting preparatorio per la missione dell’11 settembre. Ma la Cia è all’erta. La “Alec Station”, l’unità speciale co-stituita al suo interno per occuparsi di Bin Laden, identi-fica Khaled al-Mihdhar e Nawafal-Hazmi. La caccia inizia. Il 5 gennaio 2000, in viaggio verso Kuala Lumpur, Khaled viene rintracciato in transito a Dubai. Il suo passaporto, con visto d’ingresso negli Usa, verrà fotocopiato e spedi-to al quartier generale della Alec Station. Dove lo riceve-ranno anche due agenti dell’Fbi, lì distaccati come liaison officers, Mark Rossini e Doug Miller. Stanno per mandare un rapporto in materia ai loro superiori di Washington quando il numero due della Alec Station, Tom Wilshi-re, dal quale ora dipendono gerarchicamente, li blocca. Rossini però protesta, esige un motivo. Wilshire lo gela: “Quando vorremo informare l’Fbi, lo faremo noi”.

La riunione di Kuala LumpurIl 5 gennaio, a Kuala Lumpur, agenti della “Special Branch” malese controllano il rendez-vous di Al Qaeda per conto della Cia. E pedinano Khaled fino a un lussuo-so appartamento di proprietà di un ricco uomo d’affari malese simpatizzante di Al Qaeda. Presiede il summit

11 settembre 2001-2011

La Cia sapeva tutto e non informò l’Fbi

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di dodici persone Khaled Sheik Mohammed, il cervel-lo dell’11 settembre. Scopo: organizzare due attentati: quello dell’ottobre 2000 al cacciatorpediniere Uss Cole nel porto di Aden e, appunto, quello delle Torri Gemelle. Ma gli agenti malesi non riescono a piazzare le cimici. Si limitano a stare alle costole di Mihdhar e Hamzi, per poi vedere il loro aereo decollare verso Bangkok. L’8 genna-io i due sauditi atterrano all’aeroporto tailandese, spiati dalla Cia, che li perde di vista.Mark Rossini, intervistato da Arte, commenta: “Ero molto preoccupato. Quei due stavano per giungere qui, e non certo in visita turistica. Avevo capito che il loro viaggio faceva parte di un piano. Mi chiedevo: ‘Che cosa vengo-no a fare da noi? Che cosa vogliono?’”. Percezione esat-ta. Il 15 gennaio 2000 Khaled e Nawaf sbarcano proprio a Los Angeles. Qui vengono accolti dal saudita Omar al-Bayoumi, ex impiegato al ministero della Difesa, vicino all’intelligence del regno arabo. E vanno a vivere a San Diego, dove seguono corsi d’inglese e di pilotaggio.Primi di marzo. Alla Alec Station ricevono posta dalla Cia di Bangkok. Con due mesi di ritardo apprendono che Khaled e Nawaf sono partiti per l’America. Da questo momento l’“agenzia” sa che i due jihadisti sono negli Usa. Ma continua a tagliar fuori l’Fbi.

Visti per l’11 settembreFine maggio 2000. Khaled al-Mihdhar vuole rimpatria-re nello Yemen: è appena diventato padre, ci tiene a vedere sua figlia. Il 9 giugno Khaled salta su un aereo e raggiunge Sanaa. Nei mesi successivi andrà in Afgha-nistan e prenderà parte all’assalto alla Uss Cole di sei mesi dopo. A San Diego è rimasto l’amico Nawaf, tut-to il giorno a navigare su Internet, leggere bollettini su Bosnia e Cecenia, ricevere messaggi da Khaled Sheik Mohammed. Il tempo passa.Nel maggio 2001 Khaled si sposta ancora, destinazione Arabia Saudita. Viaggia con un documento a suo nome, che riporta un segno distintivo invisibile ad occhio nudo, ma che lo qualifica come sospetto terrorista. I servizi sauditi lo segnalano subito agli americani. Per parte sua Khaled ha un problema. Deve ritornare negli Stati Uniti, ma ha un passaporto “pericoloso”, tutti quei timbri afga-ni e yemeniti, in grado di allertare i doganieri Usa. Studia il rimedio. Sosterrà che “quel” documento gli è stato ru-bato. Il primo giugno ne ottiene uno nuovo, sempre do-tato della solita “stampigliatura”, ma che, per una ragio-ne incomprensibile, non ha data di scadenza. Nessuno se ne accorge, nemmeno il consolato Usa di Gedda che appone il visto il 13 giugno. Una firma illegittima. Perché Khaled ha mentito scrivendo, nell’apposito formulario, di non aver mai messo piede negli Usa. Paradossale. Era stato quello stesso consolato a concedergli il visto in pre-cedenza, nel dicembre ’99. Il 4 luglio, giorno della festa nazionale Usa, due mesi prima dell’11 settembre, Khaled rientra in America, con un passaporto pieno di “buchi”, bollato come terrorista, dopo essere stato monitorato dai servizi americani, malesi, tailandesi e sauditi.

L’allarme dell’intelligenceIn tutto questo periodo la Cia lancia l’allarme: è in vista un attentato. Il 10 luglio 2011 il suo direttore George

Tenet incontra Condoleezza Rice, consigliere per la si-curezza del presidente George W. Bush. Lo accompa-gna il responsabile della Alec Station, Richard Blee, che annuncia: “Ci saranno azioni spettacolari nelle prossime settimane o mesi.Avranno luogo simultaneamente contro interessi ameri-cani, forse all’interno degli Stati Uniti, e provocheranno danni gravissimi”. Il numero 2 della stessa Alec Station, Wilshire, è stato intanto trasferito al quartier generale dell’Fbi, come ufficiale di collegamento. Forse per assi-curare che non vi siano fughe di notizie riguardanti Kua-laLumpur? Quel summit lo assilla. A fine maggio chiede a Margaret Gillespie, un’analista dell’Fbi, di passare in rassegna, ma “senza urgenza”, e nel tempo libero, tutti i fatti di Kuala Lumpur. Omette di aggiungere che alme-no due dei presenti a quell’appuntamento, Khaled al-Mihdhar e Nawaf al-Hazmi, sono arrivati negli Stati Uniti il 15 gennaio 2000.

L’ultima chanceIl 21 agosto, a venti giorni dalla strage, miss Gillespie ritorna dalle vacanze e finalmente riesce ad esaminare il memo della Alec Station dal quale risulta che “due saudi-ti di San Diego ”sono in America da tempo. Subito scopre che: al-Hazmi è sempre lì, dove ha preso lezioni di volo; al-Mihdhar è rientrato il 4 luglio e non si è più mosso. “Mi si è accesa una lampadina”, ammetterà in seguito.Il giorno dopo la Gillespie riferisce l’esito delle sue ricer-che a Wilshire. Che questa volta non può più mettere i bastoni tra le ruote. L’Fbi apre infine un’inchiesta, ma di routine, cioè ancora senza fretta. Nawaf e Khaled vengo-no messi sulla lista dei terroristi da fermare alle frontiere. Ma nessuno allerta le autorità aeree civili, le sole prepo-ste alla sorveglianza dei voli interni. Il 23 agosto l’Fbi di New York, incaricata di localizzare i due sauditi, affida l’incombenza a un novellino appena uscito dalla Scuola di Quantico. Il quale viene investito del compito il 28 agosto, sempre come routine. Dal 4 settembre ci lavora. Ma lui di Bin Laden non sa nulla. E a nulla approderà. Cronaca di un disastro annunciato.

I dubbi del capo della sicurezzaChe cosa è successo? Perché la Cia non ha permesso all’Fbi di individuare i due sauditi negli Usa? La Cia avreb-be agito per proteggere un suo informatore all’interno di Al Qaeda? Il fatto che Khaled e Nawaf siano stati “curati” da al-Bayoumi, accrediterebbe la tesi di una manovra americano-saudita e giustificherebbe il silenzio della Cia. Una fonte dentro Al Qaeda poi farebbe capire perché all’“agenzia” l’aggressione agli Usa fosse prevista. Tutte le testimonianze concordano: se la Cia lo aveva “intui-to”, ignorava però data e obiettivi dell’evento. Era forse stata vittima di un agente “triplo”? Non sarebbe la prima volta.

Richard Clarke sovrintendeva tutte le iniziative antiterro-rismo della Casa Bianca. Avrebbe dovuto essere avvisato sulle mosse di Khaled e Nawaf. Ha dichiarato ad Arte: “La Cia sapeva e non l’ha comunicato né a me né all’Fbi. Quando dopo l’11 settembre tutto questo è venuto fuori, ero indignato, pazzo di rabbia, ho cercato delle scuse”.

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Così mister Clarke ha condotto la sua personale indagi-ne e oggi afferma: “Da più di un anno tutte le persone dell’antiterrorismo alla Cia erano al corrente, direttore in testa: 50 persone, che sono state zitte. È più di una coin-cidenza. Non amo le teorie cospirazioniste, ma voglio una spiegazione. La commissione d’inchiesta non l’ha trovata. Tra l’altro il direttore della Cia mi chiamava con regolarità per notizie banali”.Dopo l’11 settembre Clarke ha tentato di avere chiari-menti dal grande boss, Tenet, invano. Ha domandato a Dale Watson, capo dell’antiterrorismo Fbi, come avreb-

be reagito il bureau se avesse saputo dei due perico-losi sauditi in giro per gli Usa, sentendosi rispondere: “Avremmo piazzato le loro foto dappertutto, le avremmo messe su internet”. Ancora Clarke: “Ho chiesto a Dale: ‘Quante possibilità avreste avuto di arrestare quei due tipi?’ Mi ha detto: 100 per cento”. E il massacro dell’11 settembre non ci sarebbe mai stato.

Fabrizio CALVI e Leo SISTI30-08-2011 - Il Fatto Quotidiano

Domenica 25 settembre 2011 la Marcia Perugia-Assisi per la pace e la fratellanza dei popoli compirà 50 anni dalla prima Perugia-Assisi organizzata, con lo stesso slogan, da Aldo Capitini il 24 settembre 1961. La Marcia partirà dai Giar-dini del Frontone di Perugia alle 9 e arriverà alla Rocca Maggiore di Assisi alle 15 dove si svolgerà la manifestazione conclusiva (chi non può percorrere l’intero itine-rario potrà unirsi al corteo par-tendo da Santa Maria degli Angeli o raggiungendo direttamente la Rocca di Assisi). Un anniversario im-portante per un evento multiforme che unirà assieme giovani, scuole, città, ma soprattutto persone.

La marcia dei giovaniProtagonisti della Marcia saranno i giovani che stan-no cercando di costruire un futuro migliore. Il pro-getto “1000 giovani per la pace” è uno strumento per consentire ai giovani di essere protagonisti di una grande iniziativa di pace. Un’occasione unica per vi-vere un’esperienza straordinaria, per incontrare altri giovani, per confrontarsi e per progettare insieme nuovi percorsi di pace.

La marcia delle scuoleLa Marcia segnerà il culmine dell’Anno dei valori (av-viato il 21 settembre 2010) e dei tanti percorsi edu-cativi che si stanno realizzando nelle città. Un ruolo particolarmente importante sarà svolto dagli studenti e dagli insegnanti che hanno aderito al programma “La mia scuola per la pace” e al progetto “Ogni scuola un grande Laboratorio dei Valori”. Le scuole e le classi partecipanti ri-animeranno i sette valori costituziona-li della nonviolenza, della giustizia, della libertà, del-la pace, dei diritti umani, della responsabilità e della speranza. I 24 chilometri del percorso da Perugia ad Assisi prenderanno l’aspetto di una lunghissima aula didattica che ciascuno potrà percorrere, in tutto o in parte, raccogliendo idee, proposte e riflessioni utili.

25 settembre: 50^ Marcia Perugia-AssisiMarcia per la pace e la fratellanza dei popoli

Nonviolenza, giustizia, libertà, pace, diritti umani, responsabilità, speranza

La marcia delle cittàLe città sono i luoghi dove la gen-te vive e s’impegna a cercare le risposte più concrete alle tan-te crisi che si stanno vivendo. E’ quindi da ciascuna città che deve prendere vita l’impegno per la pace. Il 50° della Perugia-Assisi e la Marcia del 25 settembre 2011 sono l’occasione per ripensare e riprogettare l’impegno per la pace in ciascuna di esse. Due sono le domande che debbono guidare la

riflessione: cosa possiamo/dobbiamo fare per costruire la pace nella nostra città? (la pace a casa nostra), cosa possiamo/dobbiamo fare nella nostra città per la pace? (la pace nel mondo).Un compito speciale spetta ai Comuni, alle Province e alle Regioni che hanno la responsabilità di dare voce alla domanda di pace e di giustizia dei propri cittadi-ni, di promuovere il rispetto dei diritti fondamentali di ciascuno e di proteggere le persone più deboli e vulne-rabili. La partecipazione alla Marcia dei gonfaloni, dei sindaci, presidenti di Provincia e di Regione, assessori e consiglieri deve essere parte dell’impegno quotidiano a costruire le città della pace e dei diritti umani.Il 50° anniversario della Marcia per la pace Perugia-Assisi consentirà di promuovere una riflessione aperta sulla Marcia, sui suoi 50 anni di storia e sui suoi molte-plici significati, ma anche promuovere la conoscenza di Aldo Capitini, ideatore della Perugia-Assisi, e il dibattito sulla nonviolenza posta al centro della prima Marcia. Inoltre sarà anche partecipare in modo originale alle celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia con un con-tributo di riflessioni sugli ultimi cinquant’anni, nonché promuovere una riflessione sull’attualità e le prospetti-ve dell’impegno per la pace in Italia e nel mondo.La Marcia per la pace e la fratellanza dei popoli è pro-mossa dalla Tavola della pace e dal Coordinamento Na-zionale degli Enti Locali per la Pace e i Diritti Umani insieme a tutte le persone, i gruppi, le associazioni e gli Enti Locali che ne condividono lo spirito e le finalità.

Info e contatti: www.perlapace.it - www.entilocalipace.it.

www.umbria-verde.net

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Il mondo non può più attendere. Diamogli una mano a cambiare

Domenica 25 settembre 2011Marcia Perugia-AssisiPerugia ore 9.00 - Giardini del FrontoneAssisi ore 15.00 - Rocca Maggiore

Camminiamo insieme contro la morte per fame, la corruzione, l’illegalità, le mafie, le dittature, la censura, le guerre, il commercio delle armi, il terrorismo, la vio-lenza, il razzismo, lo sfruttamento, l’indifferenza, l’indi-vidualismo, il consumismo…

Camminiamo insieme a chi sta lottando per la liber-tà e la democrazia, la dignità e la giustizia in Siria e in ogni altra parte del mondo, a chi sta spendendo il suo tempo per gli altri e per il bene comune…

Camminiamo insieme perrimettere al centro le persone, i popoli e i loro dirittisostituire l’io con il noitagliare le spese militari e investire sulla sicurezza umanasalvare la vita di chi sta morendo di fame e di setedisarmare la finanza

difendere e promuovere il diritto al lavorodifendere i beni comunipromuovere un’economia di giustiziapromuovere uno sviluppo equo e sostenibilepromuovere un’informazione libera e pluralistadifendere i diritti umaniriconoscere lo Stato di Palestina e costruire la pace in Medio Orientemettere fine alla guerra in Libia, in Afghanistan, in So-malia, in Sudan…costruire una politica nuova fondata sui diritti umanisalvare, rafforzare e democratizzare l’Onucostruire una nuova Europa solidale e nonviolentacostruire la Comunità del Mediterraneodifendere la democraziariconoscere i diritti dei migrantipromuovere il rispetto e il dialogo tra le culturecambiare il nostro modo di guardare agli altri e al mondoriscoprire il valore della solidarietà e della condivisione

www.perlapace.it

Testimoni ed operatori di solidarietàIl miglior modo per dire è il fare

Perché la mancanza di cultura non crei più povertà*

Pordenone

Amori boliviani, titolo e chiave di lettura del libro che Letterio Scopelliti ha pensato e creato con la sua penna consegnandoci un messaggio di amore per una terra ed un popolo e proponendoci attenzione e partecipazione.E’ un autore che ha concesso se stesso, attraverso l’im-pegno, la volontà, la ricerca e soprattutto l’umanità, per insegnare a noi tutti che il miglior modo per dire è il fare.Il suo progetto finalizzato al fare lo ha portato a coinvol-gerci come persone e come associazione. Ci ha scritto e ci sta invitando a porci sempre più parte attiva nel ruolo di testimoni ed operatori di solidarietà.Il libro si legge in silenzio perché è lo stesso libro che parla. Ti racconta, si propone come materia di storia, di geografia, di sociologia e psicologia.Ti porta dove il cielo abbraccia la madre terra, dove la natura è vita e dove la vita figlia di questa natura in al-cuni casi si trova ad essere l vittima.Questa è la pachamama, la madre terra che in alcuni casi si ribella soprattutto quando l’arroganza dell’uomo la vuole sua schiava, quando l’uomo non la rispetta e quando l’uomo altera l’equilibrio che altri hanno saputo creare con lei.Equilibrio e rispetto, abitudini e tradizioni che il nativo ha ben radicato nel suo io.Ecco che ancora il libro ci porta a pensare obbligandoci ad una riflessione ed aiutandoci ad avere una risposta.

Amori boliviani ci regala questo ed altro. Suddiviso in capitoli che ti prendono e trasportano durante la lettura, ci racconta la vita di persone e fatti.Antonio e Valeria una storia nella storia tutta da scoprire.Padre Longo, padre Corona, come altri missionari giunti in Bolivia con al collo una croce e le mani nude ormai nere e piene di calli, a differenza di quei primi missionari che 500 anni fa si recarono con la spada tra le mani.Tante altre figure vengono citate nel libro, tra queste l’associazione Braccia Aperte con il suo progetto Monte-agudo, con il suo impegno di solidarietà ma soprattutto con il suo messaggio di fratellanza.L’ultimo capitolo racconta il Che Guevara, in un modo inedito, approfondendo nei dettagli i momenti successivi la sua morte.Un racconto nella storia e nella civiltà, la vita e la morte ma soprattutto l’uomo e la sua madre terra.Ribadisco però che il libro si racconta solo quando non sta chiuso in un cassetto, diventa messaggio e sostegno nel momento in cui, come questa sera, vi è un incontro di movimento e di pensiero.Quando il Comune di Pordenone, la Cooperativa Itaca, la Cooperativa Fai, Donando, Amici della Bolivia, circolo della stampa e l’associazione Braccia Aperte si uniscono creando sinergia.La partecipazione in questo caso diventa lo spirito che accompagna il dare ed il fare.Monteagudo, Bolivia, Italia, Pordenone, Treviso, Zero Branco, intrecci di realtà regionali ed internazionali che si

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parlano, raccontano con Amori boliviani e concretizzano con la realizzazione di una scuola per 900 ragazzi.Proprio questo è ciò che con fermezza e volontà vuole l’autore Letterio Scopelliti. Terminare la scuola e creare le condizioni che al più presto non si debba più dire: la mancanza di cultura crea povertà.Quale presidente dell’associazione Braccia Aperte vi chiedo di acquistare questo libro e di essere propositivi assieme a noi verso altre persone di questo invito.Questa serata è momento integrante di una manifesta-zione che per due settimane coinvolge materialmente

Pordenone e mediaticamente l’Italia ed il mondo.Una manifestazione unica che si realizza per volontà di chi in questo momento sa di essere tra di noi senza ap-parire.

Sergio BONATOPresidente Braccia Aperte Onlus

* Intervento presentato il 13 aprile nella sala convegni della Biblioteca di Pordenone in occasione della presen-tazione del libro di Letterio Scopelliti

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Il privato sociale oggi in BoliviaLavoro minorile, sfruttamento, abusi, narcotraffico…

Spilimbergo

La Bolivia è una tra le nazioni al mondo con il più elevato tasso di mortalità infantile ed è considerata di fatto Terzo Mondo.Indubbiamente la condizione minorile presenta elementi di criticità e drammaticità di esplicita evidenza, anche se con connotazioni differenti nella distinzione tra città e re-altà di campagna. Chi vive, ad esempio, nei grossi centri urbani è più soggetto in condizioni di povertà ed abban-dono a condurre vita di strada col rischio di cadere nella rete delinquenziale del narcotraffico.Nelle aree rurali infatti la povertà e l’estrema arretratezza delle condizioni di vita si coniugano spesso con scenari di mutuo aiuto tra nuclei familiari (nelle realtà di paese infatti tutti si conoscono) o con interventi della parrocchia in supporto a minori in condizioni di disagio o a donne con figli abbandonate dal marito. Questo di fatto riduce di molto il rischio di vagabondaggio e le forme delinquenziali di sopravvivenza. In ogni caso ci sono degli elementi di trasversalità che caratterizzano la difficile condizione minorile all’interno del Paese e che trovano la loro più drammatica espressione in particolare nelle periferie dei grossi nuclei urbani, come ad esempio Santa Cruz, considerata la capitale economica della Bolivia odierna.In uno degli anelli periferici della città ho avuto modo di visitare alcune strutture salesiane per l’accoglienza dei bambini e ragazzi di strada e le criticità perspicue riscon-trate sono diverse.

Persone che per lo Stato non esistonoMolti dei ragazzi che accedono alle strutture di accoglien-za risultano inesistenti per l’anagrafe per cui non si riesce nemmeno a definirne con certezza l’età; molti non han-no mai avuto alcun accesso scolastico per cui non sanno leggere né scrivere e come unico bagaglio “formativo” posseggono quello dettato dalle leggi della Strada. Alcuni arrivano in gravi condizioni di debilitazione fisica, legata alla denutrizione o malnutrizione e alle dure condizioni la-vorative con evidente compromissione delle normali fasi della crescita e dello sviluppo psico-fisico. Sono persone queste che agli occhi dello Stato non hanno identità né di-ritti e che purtroppo a loro volta sono cresciuti con questa convinzione.

Mancanza della diade genitoriale e di punti di rife-rimento affettivoSpesso il nucleo familiare che già vive in condizioni di gra-ve precarietà, subisce il tracollo economico nel momento in cui la madre rimane sola a doversi occupare dei figli, perché rimasta vedova o perché abbandonata dal mari-to che, unico in famiglia, possedeva un lavoro retribuito. L’abbandono del nucleo familiare da parte dell’uomo è un fenomeno assai frequente in Bolivia, soprattutto tra gli strati culturalmente più poveri della popolazione nella parte meridionale del Paese. Tuttavia mentre nelle realtà di campagna si crea una rete amicale ed affettiva di mu-

tuo aiuto tra famiglie, per cui in qualche modo chi vive la condizione di disagio non si trova solo, nella periferia di Santa Cruz come di altre grandi realtà urbane (questo è un problema di tutte le banlieu del mondo), i rapporti interpersonali non sono spesso così sviluppati da divenire risorsa nei momenti di difficoltà, per cui molte donne si rivolgono alle missioni religiose affidando i figli più piccoli, altre cercano di sopravvivere come possono utilizzando anche la forza lavoro della prole.

Condizione femminileNella società attuale in Bolivia una donna inizia ad avere figli in media a tredici anni ed in base alla convinzione che tanta prole significa benedizione divina, i nuclei familiari sono spesso composti da almeno 10 figli. La donna, so-prattutto nelle realtà di periferia e nelle vaste aree di cam-pagna, viene riconosciuta quasi esclusivamente nel ruolo sociale di madre quindi, da un punto di vista antropologi-co, solo in funzione della procreazione e dell’occupazione domestica.Negli ultimi anni e nelle principali zone urbane del Paese le donne iniziano ad avere accesso agli studi superiori ed universitari cercando di farsi spazio anche all’interno di contesti lavorativi di monopolio maschile come la Pubbli-ca Amministrazione, la Politica, il mondo accademico, il Commercio di qualità. Bisogna però sottolineare che di fatto, nelle realtà rurali e non solo, sono le donne a far muovere l’economia ovviamente con i mezzi e le risorse che sono loro accessibili: ovunque lungo le strade si tro-vano donne, spesso con bambini a seguito, che vendono i loro manufatti, dal pane ai prodotti agricoli, dai maglioni di lana grezza fatti a mano a mercanzie di uso domestico quotidiano.La donna costituisce la forza morale e materiale su cui si fondano le società rurali delle vaste zone di periferia e dell’Altopiano, là dove per contro è elevatissimo il tasso di alcolismo tra la popolazione maschile.Durante il mio viaggio tra Santa Cruz e La Paz era diventa-ta una consuetudine vedere uomini anche giovani, senza lavoro, a qualsiasi ora del giorno ciondolare per strada da soli o in piccoli gruppi col bolo di foglie di coca all’interno della guancia e la bottiglia in mano, al pari della consuetu-dine di vedere donne cariche di mercanzie, con bimbi per mano o dentro all’awayo (pezzo di tessuto che la donna porta sulla schiena legato al collo e che funge da conteni-tore per il trasporto di oggetti e bambini), che nottetempo si posizionavano nei luoghi dei mercati di paese per ven-dere quello che esse stesse e le figlie producevano.Una delle immagini della Bolivia odierna che ho porta-to con me da questo viaggio è lo sguardo fiero di molte donne campesine che, nei loro abiti tradizionali e coi ca-pelli neri corvini raccolti in lunghe trecce, orgogliosamente sostenevano un personale sacrificio per dare alle figlie la possibilità di studiare e scegliere per il proprio futuro con-testi di maggiore emancipazione.

Perché è meno frequente incontrare ragazze che conducono vita di strada?

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La risposta a questa domanda è insita in quanto appena detto: è più difficile trovare bambine o ragazzine a con-durre vita di strada perché là dove vengano allontana-te dalla famiglia arrivano generalmente entro i 10 anni d’età agli hogar (strutture di accoglienza per bambini) e lì dimostrano maggiore capacità di adattamento rispetto ai coetanei maschi, più insofferenti alle regole, eviden-ziando maggiore propensione ad utilizzare proficuamente le risorse che il Servizio offre loro, accettando anche di proseguire gli studi all’interno di contesti strutturati e pro-tetti come nel caso del Progetto Don Bosco (che include 8 differenti strutture educative). Ecco dunque che il mar-gine di successo nel recupero del disagio minorile per la componente femminile risulta essere più elevato.Nella periferia di Santa Cruz molte ragazze che vivono in condizioni di miseria vengono tenute in casa perché im-piegate come forza lavoro, come manovalanza adattabile a basso costo nella gestione di un’economia domestica di sopravvivenza. Nelle situazioni di maggiore depaupera-mento morale e sociale alle giovani donne viene imposta la prostituzione che è comunque fonte di guadagno per la famiglia.

Concetto di famigliaIn contesti di grave immiserimento culturale anche il con-cetto di famiglia viene ad essere alterato così come la sua struttura valoriale e la rete di relazioni all’interno della stessa. Ecco che figli nati da relazioni occasionali o da madri che per sopravvivere sono costrette a prostituirsi, vengono messi al mondo e lasciati a se stessi e anche là dove abbiano un tetto sotto cui vivere e dei genitori, o una figura parentale che li abbia accettati, i mezzi e le risorse sono così limitati da costringerli al precoce avviamento al lavoro. Là dove alla precarietà economica si somma il disa-gio socio-culturale i bambini crescono soffrendo privazioni materiali, affettive, valoriali ed educative e diventeranno a loro volta adulti che metteranno al modo figli senza poter offrire loro altro rispetto a quello che hanno ricevuto. Se il vuoto educativo ed il depauperamento morale ed affetti-vo non trovano risposte socialmente adeguate, la catena della miseria continuerà a perpetuarsi riproponendo nelle generazioni a venire le stesse dinamiche perverse.

Lavoro minorilePercorrendo le strade di Santa Cruz ma anche nelle zone di campagna circostanti, impressiona il numero di bambi-ni che lungo le strade sono appostati a cercar di vendere i prodotti più disparati; all’interno di piccole rivendite, ai distributori di carburante, nei mercati di quartiere e più in generale in ogni attività commerciale ufficiale o improvvi-sata è normalità trovare bambini e ragazzini che servono i clienti, trasportano a spalla merci. Una psicologa locale mi spiegava che nei cantieri edili, nelle officine meccaniche, nelle miniere e persino in molti stabilimenti industriali di Santa Cruz sono impiegati abusivamente un gran numero di bambini e ragazzini costretti a svolgere lavori pesanti per molte ore al giorno, senza alcuna forma di tutela per la sicurezza e con salari bassissimi. Alcuni di questi ragaz-zini dopo una giornata di 12 ore di lavoro accedono al Te-cho Pinardi (struttura salesiana per l’accoglienza notturna dei ragazzi di strada) per un pasto caldo e un letto sicuro;

la mattina dopo ricominciano meccanicamente lo stesso calvario ringraziando anche di avere un lavoro.

Abusi e maltrattamentiMolti ragazzi hanno subìto ripetutamente sin dall’infanzia abusi sessuali già in famiglia da parte del padre o di un membro della cerchia parentale stretta, per cui una volta abbandonati sulla strada hanno continuato a mercificare il proprio corpo in cambio di pochi spiccioli o di cibo. La prostituzione minorile, soprattutto nelle città principali, è molto diffusa e costituisce una piaga per il Paese.Coloro che sin da bambini sono stati abusati all’interno della famiglia ed hanno visto anche i fratelli essere vit-time di tali condotte, non hanno conosciuto forme sane di amore e di affetto genitoriale per cui sono cresciuti nell’accettazione passiva di uno status quo che per molti è divenuto “normalità” quotidiana o, per meglio dire, l’uni-co modo di avere una relazione con le figure genitoriali, seppur abusanti e di trovare considerazione all’interno della dimensione familiare. Nelle situazioni peggiori tale considerazione genitoriale si traduce anche nell’obbligo per il bambino/a di prostituirsi con conoscenti o estranei disposti a pagare. I bambini che hanno subito questo vivono il proprio corpo come un contenitore, un oggetto che a seconda del biso-gno può divenire utile merce di scambio, corpo che non è stato nutrito da carezze, tenerezza né piacere.Per molti la strada è la madre, l’unica madre che li abbia accolti permettendo loro di sopravvivere.

NarcotrafficoLa Strada insegna e ciò che da essa si può apprendere è molto più impressivo di qualsiasi altra agenzia educa-tiva, perché è strettamente legato alla sopravvivenza. Per strada i broker del narcotraffico vanno ad assoldare bambini e ragazzini da impiegare nello spaccio in quanto corrieri insospettabili, agili, affidabili perché inconsapevoli dei pericoli e soprattutto “materiale umano” che nessuno reclamerebbe in caso di scomparsa. I bambini vengono impiegati molto anche nei laboratori clandestini di raffi-nazione della cocaina, numerosi nella periferia di Santa Cruz, perché con le mani piccole e le dita sottili riescono a raggiungere tutti i punti dei cestelli delle lavatrici utilizza-te per accelerare il processo di essicazione delle foglie di coca. Come ricompensa per le prestazioni fornite i bambi-ni ricevono pochi spiccioli e manciate di foglie di coca che poi consumano con l’alcol o masticano assieme ad additivi chimici, come il bicarbonato o la colla sintetica, che ne favoriscono l’effetto di alterazione senso-percettiva. Ecco che al Techo a volte si presentano giovani in condizioni di alterata percezione della realtà simile all’effetto stupefa-cente provocato della coca raffinata. Anche in questo caso il Techo risponde fornendo spazi idonei appartati rispetto al resto de gruppo e, nei limiti del possibile, assistenza medica.

Cenni sul contesto socio-culturale della Bolivia odiernaLa presenza di numerose Organizzazioni Non Governative distribuite su tutto il territorio boliviano che da decenni operano, spesso solo col volontariato, a favore dei bam-

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21La Gazzetta | Settembre 2011AMORI bOLIvIANI

bini e di coloro che vivono situazioni di disagio sociale è motivata dal fatto che l’instabilità politica dei Governi che si sono succeduti in Bolivia negli ultimi 50 anni non ha favorito condizioni di stabilità e sicurezza sociale e di conseguenza lo sviluppo di un solido apparato di infra-strutture e Servizi.Attualmente il Governo socialista del presidente Evo Mo-rales, insediatosi pacificamente nel 2006 con l’appoggio politico ed il sostegno economico di Cuba e Venezuela, sta operando una lenta azione di ricognizione dei bisogni e delle priorità nella volontà però di preservare la Tradizione e di attuare una “decolonizzazione” (termine molto utiliz-zato nei giornali locali per definire la politica di Morales) rispetto all’influenza culturale europea (dei Conquistado-res) e politico-economica statunitense.La volontà e lo spirito del cambiamento sono rappresen-tati da nuovi simboli come la Whipala, la nuova bandiera multicolore nazionale voluta da Morales (che racchiude e simboleggia la grande eterogeneità culturale ed ambien-tale della Nazione), dalla rivalutazione di carismatiche fi-gure del passato come il Che Guevara e del suo ideale di guerriglia armata per la liberazione da ogni forma di ca-pitalismo e colonialismo straniero, o più concretamente e socialmente contestualizzato da cartelli pubblicitari lungo le strade che dall’anno scorso promuovono l’utilizzo del preservativo per favorire il controllo delle nascite.A tal proposito però, se da un lato vi è la legittima volontà di affermare una propria identità nazionale, dall’altro bi-sogna anche rilevare a rigor di verità che manca un soli-do fondamento culturale ed ideologico attraverso il quale operare un reale cambiamento. I processi di trasforma-zione sociale passano anzitutto attraverso l’Università ed il mondo accademico che però è quasi esclusivamente appannaggio di Enti privati, nella maggior parte dei casi Confraternite religiose provenienti da altre Nazioni, che hanno provveduto a colmare le lacune statali con forti contaminazioni culturali.Attualmente l’istruzione pubblica, inclusa l’Università, è per tutti gratuita ma decisamente di scarso livello ed i ti-toli spesso non vengono riconosciuti nel mondo del lavoro perché considerati di “serie B” rispetto a quelli conseguiti presso Enti religiosi con maggiore prestigio e credibilità. A detta di chi lavora in ambito accademico pubblico, lo Stato non eroga fondi sufficienti per la formazione del perso-nale docente e non investe su una formazione scolastica di qualità, quindi inneggiando allo slogan dell’“istruzione per tutti” in realtà si provvede per lo più a combattere la piaga dell’analfabetismo nelle realtà rurali. Paradossal-mente nella Pubblica Amministrazione vengono scelti di preferenza titoli conseguiti presso la Salesiana o altri Enti privati, anziché quelli della Statale.Allo stesso modo per quel che riguarda la presenza di infrastrutture e servizi alla cittadinanza, solo di recente il Governo ha iniziato ad investire sulla creazione di servizi di assistenza e previdenza sociale che lavorino sulla preven-zione educativa delle forme di disagio sociale valorizzando anche figure professionali come l’educatore, il pedagogi-sta e lo psicologo ed accettando di consentire alle Ammi-nistrazioni Comunali di stipulare convenzioni con Enti del Privato sociale che gestiscono servizi sul territorio.Si pensi che in una città come Santa Cruz di circa 1 milione

e mezzo di abitanti, considerata la più ricca della Bolivia, esistono come statali solo un ospedale, una Casa di acco-glienza per anziani ed una struttura psichiatrica, per altro con caratteristiche manicomiali in cui convergono persone affette sia da disagio psichico che da disabilità fisica ed in-tellettiva, e dove si provvede in via esclusiva all’assistenza in caso di malattia conclamata ed evidente.Solo nel 2003 lo Stato ha iniziato a stanziare fondi di pre-videnza a favore delle categorie socialmente più svantag-giate riconoscendo a tutti un livello minimo pensionistico (del tutto inadeguato alla sussistenza) ed una sorta di sussidio di disoccupazione (anch’esso irrisorio e tempo-raneo).In questo contesto si comprende come la rete di servizi creata dal Privato Sociale sia estremamente importante perché tende a colmare le lacune del Pubblico con un livello qualitativo erogato che si riferisce spesso agli stan-dard dei Paesi di provenienza più sviluppati. In generale questi Servizi, in particolare quelli dell’Opera Salesiana nelle città di Santa Cruz e La Paz, col tempo sono divenuti dei punti di riferimento per le fasce di popolazione più povere che nel momento del bisogno cercano fisicamente accoglienza presso gli stessi. Ecco che in paesi periferi-ci come Monteagudo, sempre nel comprensorio di Santa Cruz de la Sierra, molte donne e ragazze madri rimaste sole a dover provvedere ai figli si appoggiano al collegio gestito dalle suore mariane che provvedono a fornire loro un pasto al giorno e l’accoglienza dei bambini orfani.A completare questa parziale cornice all’interno della quale si colloca la Bolivia odierna e quindi anche l’Opera Salesiana, è doveroso fare riferimento agli aspetti relativi alla religione cristiana e alla sua convivenza con i riti del-la Tradizione pagana alla Madre Terra delle popolazioni indigene. Il 90% della popolazione in Bolivia è di culto cristiano cattolico tanto che nella cittadina di Copacabana al confine col Perù c’è uno dei santuari del culto mariano più importanti dell’America Latina. La religiosità viene vis-suta dalla maggior parte della popolazione, in particolare dalla componente femminile, con grande devozione ed osservanza dei precetti e delle ritualità; parallelamente alla religione ufficiale portata a suo tempo dai Conqui-stadores, è a tutt’oggi presente e molto praticato il culto pagano alla Madre Terra (Pachamama) risalente ai tempi antichissimi delle civiltà pre-incaiche, con propri rituali che si perpetuano da millenni di generazione in generazione seguendo il calendario cosmico e i cicli lunari. Religione e Tradizione sembrano aver trovato nel tempo forme pacifiche di convivenza e di fatto permeano in maniera determinante la cultura popolare, soprattutto delle fasce più povere, con forme di devozione individuali e collettive che investono e ne condizionano tutta la quotidianità e la visione stessa del mondo.

Federica DAL MASPedagogista Clinica

* Testo dell’intervento in occasione della presentazione del libro Amori boliviani del 2 luglio al teatro Miotto di Spi-limbergo in occasione di Folkest.Si ringrazia la dott.ssa Dal Mas per la disponibilità alla pubblicazione di un estratto dalla sua Tesi di dottorato.

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22 La Gazzetta | Settembre 2011EvENTI

Udine

Il Parco di Sant’Osvaldo ha ospi-tato anche quest’anno, dal 1° al 3 luglio, la Festa d’Estate, ma-nifestazione che le associazioni È Vento Nuovo e organizzano in collaborazione e con il sostegno delle Cooperative sociali Itaca e 2001 Agenzia Sociale. Come da tradizione, negli stessi giorni si è svolto il Torneo di calcio a 7 “Giorgio Molaro”, giunto alla sua settima edizione, che ha visto incontrarsi sul campo otto squa-dre provenienti dal territorio re-gionale ed extra regionale.L’associazione polisportiva È Vento Nuovo, che promuove l’integrazione sociale attraver-so lo sport (www.anpis.it), ha organizzato e ospitato l’evento accogliendo gruppi di diversa provenienza e origine: la polisportiva di Pon-tedera (Pi) e la polisportiva di Gorizia, amici ormai di vecchia data per la consolidata partecipazione al tor-neo, nate come È Vento Nuovo (che quest’anno si è aggiudicata il torneo, ndr) all’interno dei percorsi di promozione di salute mentale; la Afghanistan, ovvero un gruppo di giovanissimi afghani, arrivati a Udine negli ultimi dieci anni di nota storia, che attraverso il calcio hanno trovato il modo di mantenere uno stretto contat-to tra loro, oltre che di farsi conoscere attivando nuove relazioni; il ntro Balducci di Zugliano, conosciutissima realtà di accoglienza per immigrati e rifugiati politici; un Scout di Udine; il collettivo Aperta, squadra nata pochi giorni prima dell’inizio del torneo per volontà di un gruppo di amici che hanno accettato la sfida calci-stica dimostrando l’ottima capacità di mettersi in gioco con tutte le diversità presenti al torneo; infine il 105, gruppo appartamento che ha scelto di diventare anche squadra sportiva.Oltre al calcio, si sono misurate sull’erba anche tre squadre di pallavolo, per un triangolare di green volley che ha visto l’incontro tra due formazioni di È Vento Nuovo (dallo scorso anno impegnata anche nella nuo-va avventura del campionato provinciale amatoriale di pallavolo) e una di Martignacco.L’agone sportiva, seppur autentica, è mezzo, più che fine. La percezione è che quest’anno tutte le squadre lo abbiano compreso e insegnato alle altre. Il tempo è stato scandito dal misurarsi sul campo e nei momenti conviviali, e tutti hanno dimostrato, in entrambi, gene-rosità e altissimo livello tecnico.Il ripetersi di questo evento fa sì che l’organizzazione sia meno complessa, per certi aspetti abitudinaria. Ri-sulta più semplice anche potersi concentrare sul senso

di una simile manifestazione, dedicarsi all’ospitalità, in-contrarsi attraverso lo scontro alla pari, riscoprire il va-lore e il tempo del gioco, azzerare le assurde diversità etichettate dalla provenienza o dallo stato di salute. Per tutti, indistintamente.

Davide CICUTTIN

Settima edizione della festa d’estate

Sul “Molaro” soffia E’ Vento NuovoAll’interno del campo da gioco le diversità sono pari a zero

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San Canzian d’Isonzo

25 agosto 2011, in una calda giornata d’estate nella piccola frazione di Begliano, la Comunità alloggio Cisi gestita dalla Cooperativa Itaca, ha aperto le porte ai compaesani creando un pomeriggio di divertimento, musica, condivisione e reciproca conoscenza chiamato appunto “Festa d’estate”.Tutto è iniziato alle 18 con l’arrivo del primo bambino beglianese che si è accomodato assieme agli ospiti del-la Comunità nella “Tavola rotonda” creata apposta per i bambini dove io, Suna, animatrice della Comunità, e Erica Gasparinic (educatrice Cisi) li abbiamo intratte-nuti con i palloncini animati e il trucca bimbi. Da qui il nostro cuore e quello degli ospiti si è riempito di gioia nel vedere la grande partecipazione del paese a questo avvenimento, il giardino ad un certo punto si è riempito di famiglie e di bambini che giocavano spensierati.Nel frattempo, come da programma, sono arrivati i componenti del mitico gruppo tradizionale Costumi Bi-siachi che ha coinvolto i partecipanti in canzoni e balli tradizionali della nostra cara Bisiacheria.Alla fine del concerto il vice sindaco e assessore a Assi-stenza, sanità e associazionismo di San Canzian d’Ison-

zo, Cristina Benes, il direttore del Cisi, Annamaria Or-lando, la responsabile di Servizio per il Basso Isontino del Cisi, Mariagrazia Zotti e il parroco hanno tenuto un discorso nel quale hanno ringraziato tutti coloro che hanno reso possibile l’apertura di questa Comunità. Ringraziamenti anche per chi ha reso possibile questa festa e per tutti i partecipanti, inoltre la nostra Rap Ca-terina Boria ha portato i saluti del presidente di Itaca, Leo Tomarchio, e ha inserito nei ringraziamenti un apo-strofo arcobaleno riguardante la meravigliosa e nume-rosa partecipazione dei bambini.All’evento ha partecipato anche il giovanissimo consi-gliere provinciale nonché vice sindaco del Comune di Turriaco con deleghe ai Servizi educativi e alla pubbli-ca istruzione, Enrico Bullian. Alla fine dei discorsi delle autorità, Erica ha richiamato i bambini per la più bella sorpresa della giornata cioè il volo dei palloncini… Ab-biamo consegnato loro dei palloncini colorati da libe-rare nell’aria come messaggio di unione, libertà, com-prensione e collaborazione tra noi e la Comunità che ci circonda, è stato un momento davvero emozionante.Alla fine il momento conviviale con rinfresco e un po’ di chiacchiere per arrivare all’ultimo momento, etni-co, della serata pieno di energia e vibrazioni positive

Palloncini colorati come l’arcobaleno

La “Festa d’estate” della Comunità Alloggio CisiDa Begliano un messaggio di unione, libertà, comprensione e collaborazione

Il vice sindaco Cristina Benes

Il parroco di Begliano

La dott.ssa Annamaria Orlando con l’educatrice C.I.S.I Erica Gasparinic

La Rap di Itaca Caterina Boria

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date dall’associazione Ritmi Urbani (di Lucio Cosentino e Oussmane) che con le loro musiche africane hanno fatto scatenare il pubblico in frenetiche danze. Per quanto ci riguarda (operatori e ospiti) la giornata è stata meravigliosa, piena di gioia e serenità, speria-mo vivamente che queste occasioni possano ripetersi numerose. Io personalmente volevo ringraziare tutti i nostri operatori che hanno fatto in modo di rendere questo evento perfetto senza nessuna sbavatura e la nostra coordinatrice Stefania Cavallari che, oltre a di-rigere in maniera egregia tutti i preparativi, ha dovuto gestire le nostre paure e tensioni al pensiero che le cose non andassero bene, grazie di cuore.

Suna LEGHISSA

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Cervignano del Friuli

Eccomi qua! Sono AnnaMaria, la coordinatrice-educatrice del nido di Cervignano, una coordinatrice come ce ne sono tante: appassionate e curiose. La mia avventura con Itaca è iniziata nell’agosto 2009, ricordo ancora, il piacere e l’entusiasmo per avviare la nuova “nave”, partendo con un bagaglio di tante “domande”, e ancor di più di “dubbi”. Una cosa era assolutamen-te certa: lavorare stanca!Stanca mantenere sempre alto il senso di sé profes-sionale, lo stare dentro le cose, decidere se agire o non agire, se dire o non dire o come dire o come agire. Stanca che per entrare nel mondo dell’altro sia bambino che adulto, occorre un lavoro di presa di coscienza e consapevolezza sul proprio essere e sulle proprie idee e azioni. Ma ora che la nave per il secondo anno è approdata al porto, mi trovo a rac-cogliere le meraviglie trovate lungo il percorso.Come il viaggiatore sceglie che cosa vedere, che cosa raccontare del suo viaggio, mi è venuta voglia di raccontarvi come io e il mio equipaggiamento ab-

biamo vissuto questa traversata.Innanzi tutto, il capitano prima di salpare ha riunito l’equipaggio che insieme ha deciso la rotta, stabili-to quali tappe raggiungere, su quali isole fermarsi verificando i vari stru-menti, che devono essere sufficienti e sufficientemente flessibili per af-frontare le possibili tempeste, onde anomale o eventi critici. Senza do-ver navigare con il pilota automati-

co dell’abitudine, ma consultando la nostra capitana “riccioli d’oro ” Laura, che con i suoi saperi ci ha sostenuto e facilitato a navigare per i mari aperti della professionalità educativa, la quale ci ha inco-raggiate a “sporcarci le mani” e lasciarci prendere dalle passioni.La nave ha fatto ancora una volta rientro al por-to, l’equipaggio ha visto scendere i suoi passeggeri che cercheranno nuove meraviglie, nuovi percorsi, incontreranno nuovi equipaggi, ma sicuramente re-sterà nei nostri cuori il ricordo con tenerezza dei loro capricci, le scoperte e le loro vittorie!

Tutto l’equipaggio di Cervignano

Dal Nido di Cervignano si parte

Per mari apertiPronti ora alla terza traversata

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Lignano

La prima settimana di luglio gli ospiti di Cjase Nestre sono andati in soggiorno a Lignano Riviera presso l’Al-bergo Old River. Molto apprezzata la cucina casalinga a cui sono seguiti piacevoli momenti di svago e relax in piscina, mentre le passeggiate rilassanti e l’attività di ac-quagym hanno avuto luogo in riva al mare. La sera non potevano mancare i divertimenti della movida lignanese, al Luna Park tutti si sono scatenati sugli autoscontri e sulle altre giostre, mentre Flavia si è esibita cantando Piccola Ketty al Karaoke di Lignano City.L’ultima sera al rientro da uno spettacolo di ballo e musi-ca in spiaggia, passando in piazza Fontana hanno canta-to Pavarotti, Celentano, Liza Minelli e Vasco Rossi.Naturalmente si trattava della serata dei sosia, ma non

si poteva perdere l’occasione di fare una foto con perso-naggi così famosi e simpatici. Al rientro in albergo tutti stanchi continuavano a cantare anche se con un velo di malinconia per la fine della vacanza.

Manuela FONTANINI

Vasco Rossi a Lignano con Cjase Nestre

Muggia

L’ingresso di un anziano in una casa di riposo è uno degli eventi più delicati e difficili dell’intera vita, sia per le ripercussioni sull’equilibrio psicofisico della persona, chi ricorre a questa soluzione per fronteg-giare una situazione di bisogno spesso non lo fa per una scelta personale, e sia perché rappresenta un cambiamento radicale di vita che interviene a modi-ficare completamente tutte le principali coordinate di spazio, di tempo e di abitudini a cui ciascuno fa riferimento nella quotidianità. Quello che vogliamo brevemente affrontare è inve-ce il quadro delle conseguenze psico-fisiche di tale evento, conseguenze che in qualche modo diventa-no il “terreno di lavoro” di tutti i vari interventi tesi al miglioramento della qualità di vita della persona che è entrata a fare parte della casa di riposo.Occorre precisare subito però che tali conseguenze non sono solo di carattere negativo, come troppo spesso viene immaginato da chi è al di fuori del-

la situazione: qualora ci siano condizioni favorevo-li, sia da parte della persona anziana che da parte dell’ambiente che la accoglie, è piuttosto facile ve-rificare tanti aspetti positivi soprattutto a medio e lungo termine.In questa casa di riposo si e creato l’ambiente idea-le che ha portato gli ospiti a definirla “casa”, poiché l’anziano viene considerato nella sua unicità ed’in-dividualità, consentendogli di riscoprire e potenzia-re le proprie capacità residue, condizione che non sempre è possibile sviluppare nel proprio ambiente domestico quando gli eventi fisici sconvolgono la vita, tanto da costringere ad un isolamento forza-to.Il nostro obiettivo è continuare a lavorare per il be-nessere dei nostri anziani prendendoci cura di tutti gli aspetti (fisici, psichici, religiosi e relazionali) nel loro contesto di vita, curando i rapporti con il terri-torio e la rete sociale e affettiva.

Tonino

Muggia (1)

Ciacole de casa de riposoQuando la “casa” diventa famiglia

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27La Gazzetta | Settembre 2011EvENTI

Muggia

I progetti proposti alla Casa di riposo di Muggia sono elaborati in base alla storia vissuta, alle attitudini, interessi e capacità degli anziani e sono volti a stimolare le aree cognitiva, funzionale, fisica, sensoriale e sociale. Ciò avviene attraverso attività di vita quotidiana, di cura del sé e attraverso dei veri e propri “laboratori” che prevedono attività di cucina, cartapesta, taglio e cucito, pittura, giardinag-gio, animazione teatrale-musicale e partecipazione at-tiva alla creazione del giornalino “Ciacole de casa de riposo”. Cercando assieme al personale l’appoggio di parenti e volontari, utilizzando ausili e supporti che permettano di manipolare facilmente gli strumenti di lavoro.

Le ricette possono essere le più varie; è molto impor-tante creare un’atmosfera di festa e coinvolgere anche chi non può collaborare attivamente. Gli ospiti sono guidati a realizzare dei dolci, un antipasto, la pasta fat-ta in casa, le focacce, il pesce marinato, le marmellate, le grappe e i liquori. Rispettando per quanto possibile le tradizioni culinarie dei luoghi di provenienza, delle varietà di stagione e delle feste tradizionali. In questo modo si è creato un clima di piacevole armonia dove

è possibile anche stimolare le persone a livello cognitivo attraverso la rievo-cazione di ricordi e la formulazione di correlazioni con le tradizioni familiari e il confronto con gli altri. Sono stati introdotti, come strumenti di lavoro, oggetti ed ingredienti che permettono una stimolazione significativa grazie al riconoscimento e alla stimolazione sen-soriale dal punto di vista tattile, visivo,

olfattivo e gustativo.Nel mese di maggio, in occasione della Festa della Mam-ma, nel laboratorio di cucina abbiamo fatto dei biscotti e delle crostate a forma di cuore, ed è proprio in questo laboratorio che anche le persone con disturbi cognitivi esprimono grande interesse e voglia di partecipazione. Infatti la signora Lidia, all’inizio ostile e aggressiva, di-ventava collaborativa incominciando a tagliare il burro a pezzetti e poi con la stampino fare i biscotti, tanto da ricevere i complimenti dalle altre anziane che partecipa-vano al laboratorio. Durante il mese di maggio ci sono stati 5 incontri in cucina dove sono state preparate, oltre alla torta di amaretti e pomi, anche tanti vasetti di squisita marmellata di ciliegie, albicocche e fragole e ciliegie che saranno offerte nel mese di novembre in occasione della Festa dell’agricoltura.

Tonino

Muggia (2)

Il Laboratorio di cucina

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Muggia

Il 31 luglio Rosina Zecchin ha compiuto 100 anni. Terza di 12 figli, 8 femmine e 4 maschi, a tutt’oggi sono vivi, oltre a lei, Emma, Pierina, Erminia e Mario. Il marito, anche lui di Pieve di Sacco, proviene da una famiglia contadina e numerosa, pensate erano 16 figli.Rosina proviene da una famiglia di contadini, fin da bambina ha sempre lavorato la terra, e pensate che per un periodo, quand’era ragazza, da Pieve di Sacco nel padovano si è tra-sferita fino a Maccarese nelle campa-gne romane. A Pieve di Sacco si sposa e mette alla luce due splendidi gemelli. La sera, finito il duro lavoro nei campi, si dedi-cava all’arte del ricamo facendo anche delle tovaglie per la chiesa, ricamava lenzuola e copriletti di cui faceva lei il disegno sviluppandolo poi su telai di 4-5 metri, facendosi aiutare dai due gemelli che cosi stavano buoni. Nascono poi altri due figli un maschio e una femmina.Il marito emigra per lavoro in Francia, dove subisce an-che un grave infortunio. Ritornato in Italia si stabilisce a Muggia dove viene raggiunto dalla famiglia nel maggio

1953. Lavorano insieme come coloni nell’appezzamento di terreno della fa-miglia Milo, dove ora sorge il campeg-gio San Bartolomeo di Lazzaretto.Un aneddoto che ci racconta il figlio: Rosina nel 1949 si è ammalata e ha dovuto affidare i figli ai parenti, lei ave-va dei capelli lunghi fino alla schiena e per grazia ricevuta dalla Madonna Pellegrina se li è tagliati corti corti.Nel febbraio del 2005 all’età di 94 anni viene in casa di riposo dove partecipa attivamente alle uscite, al progetto di erbe aromatiche e alle semine ortico-le e floreali.Domenica 31 luglio è stata festeggia-ta attorniata dai suoi cari nella “cu-sina de Eta” in casa di riposo, lunedì 1° agosto gli operatori della casa di riposo hanno voluto festeggiarla or-ganizzando una festa in suo onore. L’Amministrazione comunale le ha

consegnato per mano dell’assessore Valentina Parapat un mazzo di fiori e una targa ricordo. La Cooperativa Itaca le ha offerto una magnifica torta, gustata in com-pagnia con gli altri anziani della struttura.

Tonino

Muggia (3)

Rosina 100 anni dedicati alla coltivazione della terra

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Merano

Musica e solidarietà. Buon cibo e riflessione. Diverti-mento e impegno.E’ da nove anni che Mera-no, grazie al lavoro di un gruppo di volontari che ogni anno mettono in moto una macchina organizzativa ben rodata, diventa una piccola Woodstock. Scopo, racco-gliere fondi da destinare all’organizzazione di Gino Stra-da e ad altre associazioni umanitarie. Il festival si è te-nuto per cinque giorni a cavallo di ferragosto, nell’area del campo sportivo “Foro Boario” e ha definitivamente conquistato gli amanti della musica.Il luogo si è rivelato ideale, grazie ai suoi ampi spazi, per un grande evento di spettacoli e gastronomia sotto

la bandiera della solidarietà e dell’inclusione. E la città ha risposto alla grande a quel-lo che è uno degli eventi più attesi dell’estate, almeno mil-le persone ogni sera hanno cenato in compagnia assag-giando anche diverse specia-lità etniche. In molti hanno ballato davanti al grande pal-co sul quale si sono alternate più di venti band, che hanno

suonato, come da tradizione, senza compenso.Una passerella ambita per i più noti gruppi del pano-rama altoatesino ma anche per le novità da lontano: il rock balcanico da Belgrado, lo ska-reggae da Venezia e un viaggio nella musica folk con un gruppo di Parma. Il pubblico ha visitato l’affollato mercatino di prodotti arti-gianali e gli stand informativi delle Ong e i bimbi si sono

Musica e solidarietà

Music Aid for EmergencyBuon cibo e riflessione. Divertimento e impegno

Ragogna

Che fare quando la canicola ci oppri-me? Noi a Cjase San Gjal abbiamo optato per una fuga nel verde dei boschi, un’occasione per conoscere il nostro territorio e trovare un po’ di refrigerio. La prima uscita è stata or-ganizzata al bellissimo Bosco Roma-gno, un parco naturale nel cividalese, dove tra un sentiero e l’altro abbiamo condiviso un fantastico paesaggio e un allegro pic-nic (qualcuno si è pure dedicato ai giochi in sabbionaia…). E’ stata poi la volta delle grotte di Pradis dove, dopo aver visitato la Grotta Verde, siamo stato attenti osservatori del Museo della Preistoria. Alla fine un breve rinfresco nel locale “Tra Ombre”. Per chi non ci fosse già stato: fateci un pensierino!

In cerca di fresco

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divertiti negli spazi a loro dedicati.Nell’ambito della cinque giorni c’è stato anche il tempo per l’approfondimento e l’indignazione: Giulio Cristofa-nini, co-fondatore di Emergency, ha descritto al pubbli-co presente l’attività della Ong che offre cure medico-chirurgiche gratuite alle vittime delle guerre, delle mine antiuomo e della povertà. Ha ricordato le difficoltà ad operare nelle zone di guerra e di grande povertà spro-nando i presenti a diffondere, nello spirito di Emergency, la cultura della pace, della solidarietà e del rispetto dei diritti dell’uomo.Ma ha anche denunciato come il nostro paese e le or-ganizzazione internazionali non operino a garanzia dell’eguaglianza di tutti davanti al diritto di cure mediche di elevata qualità, come il nostro governo non contribui-sca a demolire un sistema di privilegi e di discriminazione ma invece costru-isca barriere nei confronti di chi è venuto in Italia per sopravvivere. Emergency consi-dera, infatti, vera-mente democratico un sistema politico che privilegia, nel proprio agire, i bi-sogni dei più deboli

e che ne migliora le condizioni di vita.Molti i sostenitori esterni, singoli cittadini e ditte, all’or-ganizzazione del festival meranese, fra questi anche la Cooperativa Itaca che, a Merano, collabora da anni con l’Azienda sanitaria nell’area dei servizi per la salute men-tale di “Casa Basaglia”.Nelle prossime settimane il Comitato organizzatore si riu-nirà per fare il bilancio definitivo del festival e per devol-vere l’intero ricavato del Music Aid a favore dell’ospedale cardiochirurgico “Salam” in Sudan, alle iniziative a soste-gno dei bambini di strada dell’associazione Los Quinchos e a Casa Romagna che cura bambini in Etiopia.Se un mondo migliore è davvero possibile, un piccolo contributo viene anche dall’impegno di questi ragazzi di Merano.

Stefano DAL FARRA

COMITATO ORGANIZZATORE EVENTI PRO EMERGENCYVia O. Huber, 54 – 39012 Merano - Cod. Fisc. 91038530217

Merano, 20 agosto 2010

Spett.leCoop. Sociale Onlus Itaca

Vicolo R. Selvatico 1633170 Pordenone

Oggetto: sponsorizzazione/donazione

Il Comitato organizzatore eventi pro Emergency ti ringrazia per la tua sponsorizzazione dell’evento “Music Aid for Emergency e Los Quinchos”. Ci hai dato, in questo modo, un importante aiuto per sostenere il fine benefico delle nostre iniziative. Come noto, il ricavato delle nostre attività viene devoluto in beneficenza ad Emergency - in particolare all’ospedale cardiochirurgico “Salam” in Sudan - ed inoltre ai progetti umanitari delle associazioni LosQuinchos e Casa Romagna.

Un grazie di cuore per la tua generosità!A nome del COMITATO ORGANIZZATORE EVENTI PRO EMERGENCY

Stefano Dal Farra

Giulio Cristofanini co-fondatore di Emergency

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E’ l’ora dell’addiosorella e’ l’ora di partir,il canto si fa triste,perche partir è un po’ morir.Ma noi ci rivediamo, ancor ci rivedremo un dì,arrivederci a lor sorellearrivederci un dì.Facciamo una catena con le mani nelle mani,stringiamoci l’un l’altro prima di tornar lontan.Ma poi ci rivedremo qui il 5 di settembreriunite come semprenoi ci vogliamo tanto ben.Arrivederci con le nostre amate assistentiArrivederci a tutti quiil 5 di settembre.

EVVIVA IL CENTRO ANZIANIBATTUTA DI MANI

Maria GIUSTICentro Anziani di Cordovado

Encia par chist’an, a malincor, a le rivat chel brut mo-ment indesiderat,al centro i stevin cusin ben in compagnia,mentre la chiusura a ni lasarà tanta malinconia.Encia se no sarà lungia la vacanzasempri i sintarin la manciansa.Il centro, par nu, a le come la seconda famea,come quant chi erin in tanciu e i mangiavin la polenta ribaltada sul tauler di brea.Una consolasion sola a ni resterà:che a settembre a si tornarà a scuminsià.La buna volontat a no ni mancia,e la voia di tornà a è simpri tanta.Se ca fasin par nu del centro,tantis bravis personis,i vin soltant di savè apprezàe mai dismintiasi di ringrazià.

La chiusura di chel benedet centroUn grasis di cor a duciu!Bunis vacansis e mandi da Rina Sedran!

Rina SEDRANCentro Anziani di San Martino al Tagliamento

A Cetona la 4^ edizionePremio Cetonaverde Poesia 2011

A Piero Simon Ostan il “Certame” Poesia GiovaniCetona (Siena)

Lo scorso 16 luglio si è concluso il Cetonaverde Poesia. L’appuntamento si è svolto nella splendida cornice della piazzetta della Collegiata. L’emozione, palpabile, si è vissuta con la poesia “giovane”. Il tema assegnato il giorno prima dal presidente Maurizio Cucchi era “auto-ritratto”. Nella notte i dieci giovani poeti hanno cercato

qualcosa che li descrivesse, pennellando con la parola il loro di “autoritratto”.Vincitore è stato proclamato Piero Simon Ostan (classe 1979), giovane poeta di Portogruaro, che ha raffigurato con delicatezza e intensità il ritratto di suo padre e, ritrovandosi nelle sue abitudini, ha tratteggiato un “sé” nuovo, maturo, amato e fortemente consapevole delle sue radici.

E’ l’ora dell’addioPrecise Parole

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32 La Gazzetta | Settembre 2011PRECISE PAROLE

In attesa del suo primo figlio, si è calato quindi nel dop-pio ruolo di figlio e di padre, in un emozionante gioco di specchi.Ma tutti e dieci i giovanissimi poeti che hanno vissuto la notte tra il 15 e il 16 luglio scrivendo, hanno saputo donare un iofragile, forse tipico dei poeti, ma allo stes-so tempo adulto e consapevole, sia dei propri limiti sia delle proprie capacità.Si è completata così la 4^ edizione del Premio Cetona-verde Poesia, con i prestigiosi riconoscimenti assegnati a Corrado Calabrò (Premio in memoria di Luigi e Tere Cerutti), Milo De Angelis (Premio poesia edita), Micael Kruger (Premio alla carriera).Nel Comitato d’Onore nomi come Allegra Agnelli, Tom-maso Addario, Fabio Di Meo, Giancarlo Cerutti, Davide Croff, Ferruccio De Bortoli, Gian Arturo Ferrari, Ernesto Ferrero, Federico Forquet, Gianluigi Gabetti, Fiorella Kostoris, Ezio Mauro, Roberto Napoletano, Gianni Riot-ta, Marcello Sorgi, Rosario Villari.Piero Simon Ostan vive a Portogruaro, dove lavora come docente di Lettere. Ha pubblicato Il salto del sal-vavita (Campanotto, 2006) e Pieghevole per pendolare precario (Le Voci della Luna, 2011, con prefazione di Gian Mario Villalta). Opera altresì nel settore culturale collaborando a diversi eventi come Pordenonelegge.it e il Festival Notturni Di_Versi ed è consigliere dell’asso-ciazione culturale Porto dei Benandanti di Portogruaro.

A seguire la sua poesia che si è aggiudicata il Cetona.

Autoritratto

È il taglio degli occhi di mio padrenon il suo colorel’attaccatura bassa dei capelliquasi piatti i piedi e lo stesso stampo delle manio forse è lo stare scorretto della schiena

ma più che altro è la stessa la mandibola che ballaquando la cena sa di poco e la camicia non stiratal’apprensione dei giorni che fa lo stomaco compressocon la tensione continua dei nervi raccolta nelle giun-tureè la sua sintassi quando dico le frasi che non vengonopreciso il lampo nello sguardo che ricuce le coserifà buono il tempo

la solitudine lui dei boschi io delle parole

Sarà poi un giorno mio figlioe il figlio di mio figliosarà l’aggirarsi nell’identico buio delle stradead aspettare che venga il vento giusto.

Il 29 agosto 1980 si spegneva Franco BasagliaMarta che aspetta l’alba

La storia di un’alba che arriva quando sembra ormai perduta

Trieste, 15 agosto 2011

Marta, un manicomio e uno psichiatra illuminato: la fe-licità può arrivare quando non l’aspetti più.

Franco Basaglia, il riformatore dell’approccio alla psichia-tria, moriva il 29 agosto 1980. Ma il suo essere un medico diverso, decidere di curare lo spirito e non i sintomi, ha reso giustizia - forse tardiva - ai soprusi degli internati.

Il prossimo 29 agosto saranno trascorsi 31 anni da quando morì Franco Basaglia, l’anima della legge 180 con cui si riformava la psichiatria in Italia e si chiu-devano i manicomi. Ci sono due storie che possono rievocarla in termini efficaci, la figura del riformatore dell’approccio e della cura della “pazzia”. Sono le storie di una paziente e di un’infermiera, raccontate nel libro appena uscito per Piemme Marta che aspetta l’alba, scritto dal saggista e divulgatore Massimo Polidoro.Si inizia nel 1967, 15 luglio per la precisione, a Trieste, dove Marta sta per festeggiare il suo diploma di ma-turità e fantastica del futuro – rimpiangendolo quasi in anticipo – con la sorella maggiore, Giuliana. Sarà l’ultimo scorcio di felicità per la ragazza perché, appena partita per la Gran Bretagna alla ricerca della libertà e della vita adulta, torna a casa a causa di un incidente in cui muoiono entrambi i genitori. E la sorella, neosposa

di un buon partito del posto, non potrà fare nulla per salvarla dall’alcolismo e poi dall’internamento al San Giovanni, il manicomio di Trieste, dove Marta sprofon-derà nel girone dei “sommersi”, come li intendeva Pri-mo Levi, e poi nella lobotomia.La seconda storia, invece, è quella di Mariuccia Giaco-mini, andata in moglie a 19 anni all’uomo che pensava quello giusto, e che poi sfida i preconcetti pre-legge sul divorzio lasciandolo e seguendo il suo istinto vitale. Però deve trovarsi un modo per mantenere se stessa e la sua bambina. Lo trova cominciando a fare l’infer-miera proprio al San Giovanni. Un lavoro che significa a lungo sgrassare pavimenti, lavare i pazienti, passare i vetri. Fare la sguattera, insomma.

Fino a quando, in anticipo sulla sua nomina a direttore, non iniziano a entrare anche qui le idee di Franco Basa-glia, che intanto era a Gorizia e poi a Colorno, provincia di Parma. Sono idee che abbattono prima inferiate e reti di contenimento, poi le porte con le chiavi inserite nelle toppe. Sono idee che raccomandano di parlare con i pazienti, da non considerare più dei folli, ma dei malati nello spirito.Gli anni Settanta, in questo libro, non accennano mai al travaglio degli anni di piombo, ma declinano una libertà crescente. Ospedaliera come personale. Una crescita degli adulti che diventano adulti più consapevoli e più

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Trentuno anni ieri se ne andava un eroe moderno, un uomo che è stato in grado di restituire digni-tà di persone a chi “persone” non era-no più considerate: i matti. Si tratta di Franco Basaglia, ve-

neziano nato nel 1924 ed è sua la frase che dà il titolo a questo post. Convinto già da studente che la malattia mentale non fosse curabile solo con la farmacologia, ma fosse importante instaurare un rapporto con il pa-ziente psichiatrico, Basaglia si rese presto conto che le sue idee non erano ben viste in ambito accademico.Quando vinse una cattedra di psichiatria all’Università di Padova, preferì rinunciare alla carriera universitaria per dirigere l’ospedale psichiatrico di Gorizia. Fu qui e poi a Trieste che diede l’avvio a una riflessione socio-politica sulla trasformazione dell’ospedale psichiatrico. Scrisse libri di successo e aprì i cancelli dei manicomi per aiutare i cittadini a comprendere che i malati men-tali non sono “pazzi” irrecuperabili, come si riteneva generalmente, ma esseri umani, persone in crisi che possono essere aiutate. Nonostante ostilità diffuse e pregiudizi, riuscì a fare introdurre in Italia una legge, la 180/78, chiamata anche “legge Basaglia” (purtroppo

Visto da vicino nessuno è normalemai applicata fino in fondo), che portò alla chiusura dei manicomi e promosse la trasformazione del trattamen-to psichiatrico sul territorio.Alla vicenda di Basaglia ho dedicato il mio ultimo libro, Marta che aspetta l’alba, dove lo straordinario cambia-mento da lui ideato e promosso a Trieste è visto attra-verso gli occhi di una infermiera, Mariuccia Giacomini, e di una paziente, Marta.Nella foto qui sotto Mariuccia (a destra) è seduta oggi al tavolo de “Il posto delle fragole” (il bar-ristorante che si trova a San Giovanni, all’interno del Dipartimento di salute mentale) con una paziente che potrebbe benis-simo essere Marta.

http://www.massimopolidoro.com

Marta che aspetta l’albadi Massimo Polidoro

La schedaSola e con una figlia, Mariuccia accetta di fare domanda come infermiera all’ospedale psi-chiatrico di Trieste. È magliaia, non sa nulla di malati psichiatrici, decide comunque di pro-varci. Quello è un lavoro sicuro, e Mariuccia ha una disperata necessità di mantenersi. Ma il mondo che le si spalanca di fronte è comple-tamente diverso da ciò che immaginava. Gli infermieri sono secondini, devono pensare a spazzare, non a prendersi cura dei pazienti. A loro si dedica la signora Pasin, la terribile caposala dagli occhi gelidi, mentre il medico è una presenza invisibile e distante.

A Mariuccia si presenta una quotidianità fat-ta di trattamenti inumani, camicie di forza, bagni gelati, elettroshock, stanzini d’isola-mento, e guai a chi fiata. Tutto le appare assurdo, anche se giorno dopo giorno vi si adatta come fosse normale: dopotutto è solo un’infermiera, e deve obbedire agli ordini. C’è anche una ragazza tra quei muri. Una ragazzina senza nome e senza diritti, come tutti lì dentro. Mariuccia scoprirà solo dopo alcuni anni che si chiama Marta.Marta è entrata all’ospedale dei matti per un’ubriacatura, una semplice sbronza, i ge-

aperti. E di persone che si consideravano perse in una via senza ritorno e che invece, più o meno lentamen-te, tornano alla quasi normalità, fatta di lavoro, uscite dall’ospedale, case costruite con fatica e con orgoglio.Gli anni Ottanta, con il loro riflusso, travolgeranno il dopo Basaglia, ucciso da un tumore al cervello. Ma la strada sarà stata comunque segnalata. E quando Marta e Mariuccia si incontreranno, ormai anziane – la pri-ma che poco ha recuperato, ma è quanto basta per riprendere un minimo controllo del suo corpo e della

sua quotidianità, la seconda che continua a costruire alternative a ciò che la società vorrebbe imporre –, avranno comunque il fiato per dirsi che la felicità esi-ste. Nonostante le umiliazioni, l’alienazione, la prigio-nia, l’obnubilamento dei farmaci e delle terapie, esiste. E per comprenderlo, tutto quello che è stato vissuto in precedenza è valso la pena attraversarlo.

Antonella BECCARIAFonte: Domani http://domani.arcoiris.tv

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Trieste

Di lavoro faceva la magliaia. Di psichiatria, malattie men-tali, di quelli che allora veni-vano chiamati matti, lei non sapeva proprio niente. Poi un giorno, spinta dal bisogno di lavorare, Mariuccia Giacomi-ni si è trovata faccia a faccia con uno degli inferni legaliz-zati del Ventesimo secolo: il manicomio di San Giovanni, a Trieste. E lì, in mezzo a cre-ature senza più diritti umani, isolate come se il loro malsta-re fosse contagioso, irrecu-perabile, chiuse dentro le camicie di forza, sottoposte a pratiche barbare come l’elettroshock e la lobotomia, ha iniziato ad aprire gli occhi. A capire il mondo e se stessa.Mariuccia Giacomini è stata, per anni, testimone di una delle grandi utopie del secolo breve. Quella che ha por-tato Franco Basaglia e il suo staff, prima a Gorizia ma soprattutto a Trieste, a spezzare le catene che tenevano imprigionati i matti. Che ha spinto un medico fino ad al-lora semisconosciuto a sfidare la società, a costringerla ad accettare di nuovo dentro di sé persone che fino ad allora erano esorcizzate come fossero dei mostri. Che ha convinto la giunta provinciale triestina, guidata dal democristiano Michele Zanetti, ad appoggiare sen-za tentennamenti quel cambiamento epocale che molti notabili del Pci guardavano con diffidenza estrema.A questa donna, al suo coraggio di vivere senza farsi condizionare da nessuno, alla rivoluzione senza armi e senza violenza che Franco Basaglia portò nel mani-comio di San Giovanni, è dedicato un libro che sta a metà tra la testimonianza narrativa e il romanzo bio-grafico. Si intitola “Marta che aspetta l’alba”, l’ha scritto Massimo Polidoro, lo pubblica la casa editrice Piemme (pagg. 187, euro 14.50). Una grande passione per la scrittura, fin da quando era bambino, Massimo Polidoro ha esordito nell’editoria negli anni Novanta. «Allora mi interessavo soprattutto del mondo del mistero - spiega -. Di quello che viene chiamato paranormale. Con Piero Angela, altri scienziati, giornalisti e divulgatori, aveva-mo creato il Cicap che si proponeva di smascherare

La storia di Mariuccia che attraversò l’inferno negli anni di Basaglia

tutti i fenomeni apparente-mente inspiegabili. Che in realtà, quasi sempre, na-scondono truffe, imbrogli». Docente per alcuni anni di Metodo scientifico e psicolo-gia dell’insolito all’Università di Milano-Bicocca, Polidoro ha iniziato pian piano ad av-vicinarsi ad altri temi. «Ho scritto un libro sulla banda Vallanzasca. Ma ho recupe-rato dalla memoria dimen-ticata anche la storia di un istituto per bambini che, in realtà, era una sorta di la-ger. Nel libro “Eravamo solo

bambini”, infatti ho recuperato dal silenzio le vicende raggelanti dell’Istituto Santa Rita di Grottaferrata gui-dato da un ex suora, Maria Diletta Pagliuca. Ripetute violenze, ragazzini legati con le catene. Ecco, il libro l’ho scritto quando stavo già raccogliendo materiale per “Marta che aspetta l’alba”».Dopo la storia dell’inferno di Grottaferrata, Polidoro ha voluto concentrarsi sulla piccola grande rivoluzione che ha spazzato via dalla faccia dell’Italia altri lager: i mani-comi. «Da tempo - dice - cercavo un modo per raccon-tare quel cambiamento epocale che Franco Basaglia ha portato all’interno del manicomio di Trieste. E non solo lì, ovviamente. Perché, poi, tutto il mondo in qualche maniera è stato influenzato da quell’esperienza. Però non volevo scrivere l’ennesima biografia. Cercavo la storia di una persona che avesse vissuto sulla propria pelle la rivoluzione basagliana. Che fosse entrata in contatto con le idee dello psichiatra da profana, senza conoscerlo prima».Quell’idea è arrivata da “Muri”, lo spettacolo di Renato Sarti passato anche sul palcoscenico del Mittelfest a Cividale. Un testo in cui l’autore, attore e regista triesti-no ha voluto raccontare il manicomio di Trieste “Prima e dopo Basaglia”, come recita il sottotitolo, attraverso gli occhi di una donna. «Ecco, proprio in quella pièce - dice Massimo Polidoro - ho scoperto per la prima volta la figura di Mariuccia Giacomini. Ed è stato immediato il desiderio di conoscerla, di parlarle. Di ascoltare dalla sua voce il racconto di una vita difficile e straordinaria. Ecco, proprio questo mi serviva per il libro che avevo

nitori benestanti sono morti in un incidente e il cognato ha fatto di tutto per farla internare. Lo shock per la perdita dei genitori l’ha resa instabile, dice l’uomo, può essere pericolosa per sé e per gli altri. Ma la verità che traspare è del tutto diversa. Una realtà sordida. Fatta di interesse. Di cupidigia. Di brama di denaro.Quando un giovane e coraggioso medico che si chiama Franco Basaglia inizia a denunciare con forza i tratta-menti a cui sono sottoposti i pazienti psichiatrici e a

lottare caparbiamente per una nuova realtà, Mariuccia entra in crisi. Riuscirà a crescere, a diventare una don-na consapevole, a guadagnare la propria indipendenza combattendo per l’indipendenza e la dignità dei suoi pazienti. Anche se non tutti ce la fanno. Anche se per qualcuno l’alba di una nuova era è sorta troppo tardi.

www.massimopolidoro.com

Trieste 2003, La maglieria - laboratorio Visibilia, il gruppo - in fondo la magliaia Mariuccia Giacomini.

Fonte Dsm Trieste

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RICERCA PERSONALEAREA DOMICILIARE ANZIANIRicerchiamo per Servizio di Assistenza Domiciliare Caorle (VE)Addetta/o all’Assistenza

Si richiede:• Qualifica Operatore Socio Sanitario o equi-pollenti; esperienza nei servizi di assistenza alla perso-na; possesso di patente B, auto propria.Si offre:• contratto a tempo determinato; part time; applicazione completa del Contratto Nazionale delle Cooperative Sociali.

AREA DISAbILITàRicerchiamo per Comunità per Disabili GoriziaAddetta/o all’Assistenza

Si richiede:• Qualifica Operatore Socio Sanitario; esperienza minima nei servizi di assistenza alla per-sona; possesso di patente B, auto propria.Si offre:• contratto a tempo determinato; part time su turni; applicazione completa del Contratto Nazionale delle Cooperative Sociali.

Ricerchiamo per Comunità per Disabili TriesteEducatrice/ore

Si richiede:• Laurea Scienze dell’Educazione; espe-rienza nei servizi alla disabilità; possesso di patente B, auto propria.

Redazione:Fabio Della Pietra - Cooperativa sociale ItacaIn copertina: Calicantus, foto di Francesca Schiavon Impaginazione / Grafica: La Piazzetta Cooperativa Sociale - TriesteStampa: Rosso Grafica&Stampa - Gemona del Friuli (Ud)Numero chiuso il 9 settembre alle ore 12.30 e stampato in 1250 copie

Si offre:• contratto a tempo indeterminato; part time; applicazione completa del Contratto Nazionale delle Cooperative Sociali, incentivi non contemplati nel contratto nazionale.

Le domande di lavoro vanno inviate ad uno dei seguenti recapiti: Cooperativa Itaca - Ufficio Personale

Vicolo Selvatico n. 16 - 33170 Pordenone 1. e-mail: [email protected]. Telefono: 0434-366064; 3. Fax: 0434-2532664.

in testa». Non si può raccontare una storia vera se non si rispettano fino in fondo i suoi punti cardinali. E Mas-simo Polidoro, per non tradire Mariuccia Giacomini, s’è fatto ripetere più volte le tappe salienti della sua vita.«Ci siamo incontrati spesso. Abbiamo dialogato anche al telefono. E ogni volta cercavo di approfondire un aspetto piuttosto di un altro, questo o quel dettaglio che mi poteva servire durante la fase della scrittura del libro. Poi, ovviamente, nel corso della stesura si sono aggiunti tutti quei dettagli che ho raccolto da tante let-ture e testimonianze sugli anni di Basaglia. Ma anche su com’era prima il manicomio di Trieste. Quando an-cora era inimmaginabile che i cancelli di San Giovanni potessero rimanere aperti. Che ai matti venisse data la possibilità di uscire nel parco e dal parco».Ma come ha reagito Mariuccia Giacomini all’idea di ve-dere la propria vita trasformarsi in un racconto, seppure molto circostanziato? In un libro messo assieme dalla fantasia di uno scrittore? «Credo che fosse preparata - ammette Massimo Polidoro -, In fondo era già stata al centro dello spettacolo di Sarti. La gente lo aveva visto, ne aveva parlato. Certo, una pièce teatrale è qualcosa che trasmette emozioni immediate. Mentre un libro fil-tra pur sempre la storia attraverso la mente di un altro,

di chi la scrive. Però Mariuccia era entusiasta del pro-getto. Ha partecipato subito, ha letto il testo. Insomma, mi è stata di grande aiuto».Per mettere a fuoco l’immagine nitida di com’era il ma-nicomio prima e dopo Basaglia, Polidoro si è servito di tante testimonianze. «Mi hanno aiutato medici e infer-mieri, gente che ci aveva lavorato dentro a lungo. Ma anche sul sito del Dipartimento di salute mentale c’è tanto materiale prezioso. Non solo testimonianze scrit-te, ma anche immagini, filmati in cui si vedono le per-sone, si sentono le voci. Solo così mi è stato possibile raccontare l’ospedale psichiatrico come se io, in quegli anni, fossi stato davvero presente». Una sola storia è inventata. «Quella di Marta, la ragazza internata in ma-nicomio senza essere matta - confessa Polidoro -. In realtà, inventato è solo il personaggio di Marta Alberti, che non esiste ma assomma in sé tante vicende che ho sentito raccontare. Da persone realmente rinchiuse nell’ospedale psichiatrico di San Giovanni».

Alessandro MEZZENA LONAIl Piccolo, Trieste

28 luglio 2011

Il 27 luglio è nato Emil, i l bimbo del nostro socio Enrico Feruglio (lavora al Gau di Udine).

Il 25 agosto è nata Emma, la bimba della nostra socia Federica Serafino (lavora agli appartamenti di via Garibaldi a San Daniele).

Benvenuti a Emil e a Emma!

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Il Nido di Cervignanonaviga “per mari aperti”