Francesco petrarca

16
F R A N C E S C O P E T R A R C A La crisi del Trecento ha il suo interprete più sensibile nel nostro maggiore poeta lirico, Francesco Petrarca. Letterato raffinatissimo, profondo conoscitore e ammiratore del classicismo, indagatore sottile del proprio animo, il Petrarca ci appare a prima vista interamente chiuso nell’orizzonte delle sue fantasie liriche, nei miti di una cultura aristocratica e schiva; in realtà quel suo segreto, d’intima riflessione e trasfigurazione poetica, si realizza in un rapporto vitale con l’esterno, con le trepidazioni e le angosce del tempo, con le aspirazioni di un’età che assiste al tramonto della civiltà medievale e al sorgere di una civiltà nuova. Francesco Petrarca nacque ad Arezzo il 20 luglio 1304 da ser Pietro di Parenzo detto Petracco, fiorentino di parte bianca che fu costretto a esulare nel 1302. Nel 1312 si sposterà ad Avignone col padre, che lo inizierà più tardi, agli studi giuridici a Montpellier, studi che tuttavia abbandonerà, per intraprendere gli studi classici, quando si trasferirà col fratello Gherardo a Bologna; soggiorno importante quello bolognese, anche per l’opportunità che offrì al Petrarca di entrare in contatto con la poetica volgare italiana. Fu in questi anni che si verificò l’incontro con Laura, stando a quanto egli stesso ci riferisce , la vide per la prima volta il 6 di aprile del 1327 (venerdì santo), e da allora ebbe inizio il suo amore protrattosi fino alla data di morte di Laura, indicata nel 6 aprile 1348, e poi per tutta l’esistenza del poeta. Si è molto discusso sull’identità della donna, anzi alcuni hanno dubitato persino della sua esistenza storica; ma certamente si tratta di un dato reale della biografia dell’artista, anche se trasfigurato nella posteriore rievocazione. Si può pensare ad un amore acceso e sfortunato, esauritosi tuttavia nel giro di pochi anni e poi assunto a valore emblematico dal Petrarca. Intanto si era avviato alla carriera ecclesiastica per motivi economici, dopo che il suo patrimonio personale si era esaurito nelle spese imposte dalla vita mondana. Sarà anche impegnato politicamente quando nel 1347 darà il suo aperto appoggio al tentativo di Cola di Rienzo. A quegli anni (1333) risale anche la conoscenza con il frate Dionigi di Borgo San Sepolcro che gli donò una copia delle Confessioni di S. Agostino: evento capitale nella storia intellettuale del poeta perché con la lettura dell’opera agostiniana comincia l’assidua frequentazione della letteratura latina cristiana, che si affianca allo studio di quella classica; e affiora anche, drammaticamente, l’intima problematica intellettuale e morale del Petrarca, diviso fra l’esigenza di una solida norma etica cui ancorarsi e il desiderio della gloria e dei piaceri della vita, l’aderenza alle ragioni dell’esistenza terrena vista come sfera di valori per sé significativi e validi. Nel 1340 gli giunse dall’Università di Parigi e dal Senato di Roma l’offerta della laurea poetica, probabilmente dietro sua sollecitazione. Scelse Roma, ma prima volle farsi interrogare per tre giorni a Napoli dal dotto re Roberto d’Angiò. Venne incoronato in Campidoglio l’8 aprile 1341 dal suo amico senatore Orso dell’Anguillara. Nel frattempo si era già stabilito da anni a Valchiusa, in una casa sulle rive del fiume Sorga: sarà questa la dimora a lui più cara e quegli anni in cui si dedicò all’otium letterarium gli resteranno cari nella memoria come periodo di pace laboriosa. In seguito alla repentina conversione del fratello Gherardo, che dopo una vita dedita ai piaceri, aveva deciso di ritirarsi nel monastero a I

description

Appunti scolastici su Petrarca

Transcript of Francesco petrarca

Page 1: Francesco petrarca

F R A N C E S C O P E T R A R C A

La crisi del Trecento ha il suo interprete più sensibile nel nostro maggiore poeta lirico, Francesco Petrarca. Letterato raffinatissimo, profondo conoscitore e ammiratore del classicismo, indagatore sottile del proprio animo, il Petrarca ci appare a prima vista interamente chiuso nell’orizzonte delle sue fantasie liriche, nei miti di una cultura aristocratica e schiva; in realtà quel suo segreto, d’intima riflessione e trasfigurazione poetica, si realizza in un rapporto vitale con l’esterno, con le trepidazioni e le angosce del tempo, con le aspirazioni di un’età che assiste al tramonto della civiltà medievale e al sorgere di una civiltà nuova.

Francesco Petrarca nacque ad Arezzo il 20 luglio 1304 da ser Pietro di Parenzo detto Petracco, fiorentino di parte bianca che fu costretto a esulare nel 1302. Nel 1312 si sposterà ad Avignone col padre, che lo inizierà più tardi, agli studi giuridici a Montpellier, studi che tuttavia abbandonerà, per intraprendere gli studi classici, quando si trasferirà col fratello Gherardo a Bologna; soggiorno importante quello bolognese, anche per l’opportunità che offrì al Petrarca di entrare in contatto con la poetica volgare italiana. Fu in questi anni che si verificò l’incontro con Laura, stando a quanto egli stesso ci riferisce , la vide per la prima volta il 6 di aprile del 1327 (venerdì santo), e da allora ebbe inizio il suo amore protrattosi fino alla data di morte di Laura, indicata nel 6 aprile 1348, e poi per tutta l’esistenza del poeta. Si è molto discusso sull’identità della donna, anzi alcuni hanno dubitato persino della sua esistenza storica; ma certamente si tratta di un dato reale della biografia dell’artista, anche se trasfigurato nella posteriore rievocazione. Si può pensare ad un amore acceso e sfortunato, esauritosi tuttavia nel giro di pochi anni e poi assunto a valore emblematico dal Petrarca. Intanto si era avviato alla carriera ecclesiastica per motivi economici, dopo che il suo patrimonio personale si era esaurito nelle spese imposte dalla vita mondana. Sarà anche impegnato politicamente quando nel 1347 darà il suo aperto appoggio al tentativo di Cola di Rienzo. A quegli anni (1333) risale anche la conoscenza con il frate Dionigi di Borgo San Sepolcro che gli donò una copia delle Confessioni di S. Agostino: evento capitale nella storia intellettuale del poeta perché con la lettura dell’opera agostiniana comincia l’assidua frequentazione della letteratura latina cristiana, che si affianca allo studio di quella classica; e affiora anche, drammaticamente, l’intima problematica intellettuale e morale del Petrarca, diviso fra l’esigenza di una solida norma etica cui ancorarsi e il desiderio della gloria e dei piaceri della vita, l’aderenza alle ragioni dell’esistenza terrena vista come sfera di valori per sé significativi e validi.

Nel 1340 gli giunse dall’Università di Parigi e dal Senato di Roma l’offerta della laurea poetica, probabilmente dietro sua sollecitazione. Scelse Roma, ma prima volle farsi interrogare per tre giorni a Napoli dal dotto re Roberto d’Angiò. Venne incoronato in Campidoglio l’8 aprile 1341 dal suo amico senatore Orso dell’Anguillara. Nel frattempo si era già stabilito da anni a Valchiusa, in una casa sulle rive del fiume Sorga: sarà questa la dimora a lui più cara e quegli anni in cui si dedicò all’otium letterarium gli resteranno cari nella memoria come periodo di pace laboriosa.

In seguito alla repentina conversione del fratello Gherardo, che dopo una vita dedita ai piaceri, aveva deciso di ritirarsi nel monastero a Montrieux, si manifestano con più urgenza i sintomi della crisi religiosa e morale che ormai da tempo lo travagliava. Questo evento, cui se ne accompagnarono altri quali la morte di Roberto d’Angiò e di Dionigi di Borgo San Sepolcro, io la nascita della figlia illegittima Francesca ― prova vivente delle sue debolezze ―, riproponeva a Petrarca la dicotomia fra i valori profani della vita e la prospettiva trascendente cristiana, ed acuiva il suo dramma intimo: sono gli anni del Secretum, del De vita solitaria, del De otio religioso

LATINO E UMANESIMO IN PETRARCA ― Il recupero della lingua latina classica

per esprimere una sensibilità nuova ―

Con Petrarca torna a imporsi nella cultura del tempo quel bilinguismo che Dante sembrava aver risolto dal punto di vista teorico nel De vulgari eloquentia e dal punto di vista poetico con la Commedia. Per Petrarca, invece, l’uso del latino è la manifestazione più appariscente e meno rinunciabile della superiorità della cultura antica su quella moderna. Coerentemente, del resto, con i capisaldi della tradizione precedente al volgare tornò a essere attribuito il dominio della poesia: tutto il resto Petrarca lo scrisse in latino.

Il latino di Petrarca si distingue da ogni modello linguistico precedente, la sua ambizione fu quella di avvicinarsi il più possibile agli esempi dei grandi classici, in modo particolare Virgilio nella poesia e Cicerone e Livio nella prosa. Nonostante il suo netto allontanamento dall’esperienza del latino medievale soggetto ai modelli ecclesiastici, l’eleganza e l’armonia del suo latino seppero esprimere al tempo stesso le fragilità e le sfumature della condizione spirituale moderna. Ci troviamo di fronte a un risultato unico al mondo: pur trattando uno strumento che a noi, a posteriori, sembrerebbe ormai al tramonto, Petrarca lo fa con una duttilità e una sapienza che ci restituiscono tutte le cadenze e le tonalità del mutamento in atto. Egli consacrò il meglio del suo tempo e delle sue sostanze a raccogliere gli avanzi (P. De Nolhac).

Questo ritorno al latino classico è la prima vera manifestazione di un movimento durevole e un intelligente ritorno verso gli antichi. Della scienza del suo tempo il Petrarca fa tabula rasa o poco meno, sostituendovi lo studio

I

Page 2: Francesco petrarca

puro e semplice dell’antichità. Gli uomini del medio evo lessero senza dubbio e trascrissero copiosamente le opere pagane; ma ciascuno di essi non ne conobbe che un piccolo numero, e nessuno le intese interamente. Petrarca abbraccia la letteratura classica nel suo complesso, come nessun altro aveva fatto prima di lui, dal tempo dei Padri della Chiesa in poi. Egli non celebra l’antichità tutta in un fascio, mettendo tutti gli autori sopra una stessa linea, egli, infatti, solo un piccolo numero di essi lesse a fondo e rilesse di continuo: Virgilio, Cicerone, Orazio, Tito Livio, soprattutto i primi due, per i quali l’ammirazione l’aveva condotto all’amore. Ciò che nella letteratura antica valse ad affascinarlo fu il suo carattere di opera d’arte. Per la prima volta, dopo secoli, la perfezione della forma determinava le predilezioni di un intelletto. Quella ricerca del bello per se stesso, quella distinzione fra le produzioni che lo rivelano in modo diverso, costituiscono una delle iniziative del Petrarca più feconde e restaurano al tempo stesso la critica letteraria, alla fine di quel medio evo a cui rimase ignota.

Il Petrarca sogna e compone da poeta anche quando egli si crede destinato a restaurare e riprodurre nei suoi libri la scienza degli antichi. La ricchezza dell’immaginazione, più ancora , del sentimento vivifica in lui l’indagine, sostiene il suo coraggio fra le difficoltà dello studio, e conferisce al suo ufficio quell’ardore di attività e quella continuità di sforzi che ne determinarono il felice successo. La trasformazione del pensiero scientifico arrecata dal Rinascimento s’iniziò con la rinnovazione della forma, e tale rinnovazione scaturì dall’entusiasmo provato da un poeta d’Italia. Al suo intimo genio questi va debitore dell’essere stato il primo di coloro che, come dice Anatole France, «amarono le lettere morte d’un vivente amore, e ritrovarono nella polvere antica la scintilla dell’eterna bellezza».

Petrarca scuote il torpore dei suoi contemporanei, li richiama al dovere che incombe su di essi, di salvare gli ultimi avanzi di una civiltà piena di grandi esempi e di insegnamenti fecondi. Con una frase singolarmente cosciente, egli dice: «Io mi trovo al confine tra due popoli diversi, e di là guardo al tempo stesso quello del passato e quello dell’avvenire, e le lagnanze che i nostri padri non mi han fatto sentire, voglio almeno trasmetterle ai nostri discendenti»

(P. De Nolhac)

MEDITAZIONE RELIGIOSA E RIFLESSIONE ESISTENZIALE

La complessità , la ricchezza del mondo intellettuale petrarchesco si avvertono ancora di più studiando le sue opere di meditazione religiosa e di riflessione esistenziale, nelle quali il forte e autentico sentimento religioso e la riscoperta della cultura classica, sono contraddistinti da una vera e propria rivoluzione e trasformazione delle categorie tradizionali.

Prendiamo per esempio il concetto dell’otium, che non perde il suo valore classico e allo stesso tempo diventa occasione e condizione privilegiata per riflettere sulla propria condizione umana e sul proprio destino mondano e ultramondano. In Petrarca questi due atteggiamenti sono come due facce della stessa medaglia: l’intellettuale umanista, colto e raffinato si cala spesso, e si fonde, nell’asceta e nel mistico, che cerca nei valori della rinuncia e della riflessione interiore la risposta ai propri dubbi e alle proprie domande di fondo.

Perché questa nuova sintesi avvenisse , era necessario che cambiasse le coordinate fondamentali e dominanti del sentimento religioso, nel mondo medievale, fino a Dante, la dottrina cristiana tendeva a coincidere con un sistema universale di interpretazione del mondo, che nella fattispecie assumeva le vesti del tomismo: ossia, quell’amplissima e articolatissime visione ideologica-filosofica incarnata nella maniera più completa possibile dalla Summa di san Tommaso d’Aquino, che prendeva le mosse dal pensiero di Aristotele. Petrarca fu tanto ostile al tomismo quanto a quella mentalità sistematica e onnicomprensiva, l’universalismo ontologico e cosmologico , di cui tutta la cultura precedente era intrisa e di cui la stessa Commedia di Dante era sta una testimonianza. Invece il suo sguardo si volgeva a una, forse più alta, esperienza cristiana che nasce e si coltiva passando attraverso tutti i tormenti e tutti i dubbi della scoperta interiore (cfr. Confessioni, sant’Agostino).

Espressione massima di questa nuova coscienza è certamente il Secretum, testimonianza di quel conflitto interno che raggiunse l’acme negli anni successivi all’incoronazione poetica. In questo capolavoro dell’introspezione petrarchesco il protagonista fondamentale è l’anima stessa dello scrittore divisa fra allettamenti mondani e istanze religiose, fra terra e cielo, che prende coscienza dell’insanabile frattura che è in lui.

Scritto fra il 1342 e il 1343 (secondo altri fra il 1347 e il 1348) il Secretum — o più esattamente De secreto conflictu curarum mearum (ossia: il conflitto segreto dei miei affanni interiori) ― si presenta sotto forma di dialogo in tre libri , di cui sono interlocutori lo stesso Francesco e Agostino, alla presenza di una donna, che assiste in silenzio, in cui è lecito identificare la Verità. L’opera si inserisce così nel filone della tradizione allegorica medievale: tuttavia sono dichiarati anche gli influssi classici, segnatamente quello del De amicitia di Cicerone. Il dialogo ha il tono di una confessione, durante il quale Agostino muove critiche e rimproveri a Francesco che ora ammette i suoi torti ora tenta di giustificarsi. Nel I libro Agostino, alla lamentela sulla propria incapacità di liberarsi dai legami terreni, risponde a Francesco che non può perché non lo vuole con sufficiente energia. Per Agostino «non potere» e «non volere» tendono a coincidere: se non si può, vuol dire che non si vuole. L’accusa a Francesco si precisa : il non potere rileva chiaramente in lui l’assenza o per lo meno una debolezza, grave e forse

II

Page 3: Francesco petrarca

irrimediabile, della volontà. Nel libro seguente Francesco viene esaminato secondo i sette vizi capitali, che gli possono essere attribuiti tutti fuorché l’invidia.. particolarmente notevoli , anche in relazione ai tratti realistici della storia e della personalità petrarchesco, i ragionamenti sull’avarizia , l’ambizione e l’accidia (aegritudo), quest’ultima in modo particolare intesa come apatia o incapacità di superare attivamente la propria crisi spirituale. Nel III libro Agostino discute le due colpe più radicate nell’animo di Francesco: l’amore per Laura e quello per la gloria (Amor et gloria, dice icasticamente Agostino). Qui però la situazione fra i due protagonisti si rovescia rispetto all’andamento precedente del dialogo. Francesco, infatti, si riconosce apertamente affetto da quelle due inclinazione ma, diversamente dal suo accusatore, le chiama speciosissimas … curas, ossia ideali affanni luminosissimi e dunque non da lui rinunciabili. Agostino induce Francesco a riconoscere la natura peccaminosa del suo amore (e la responsabilità non è certo da attribuire a Laura) in cui anzi rintraccia l’origine del suo traviamento. Oltre che notazioni di natura psicologica, c’è qui una polemica contro la concezione dell’amore della tradizione poetica volgare, cortese o stilnovistica. Pure il desiderio di gloria è ricondotto da Agostino alla mera bramosia della fama terrena, e in ogni caso — chiede a Francesco — val la pena rischiare di perdersi nell’eternità per realizzare qualcosa di eccelso nel mondo terreno? La conclusione è aperta e la sua interpretazione è problematica: Francesco manifesta ancora il proposito di continuare a occuparsi di «mortalia negotia», Agostino si accomiata invocando per lui la guida di Dio. Non vi è dunque nel Secretum una via d’uscita che consenta di sottrarsi alle difficoltà della vita pratica, pare anzi che non a ciò miri il Petrarca: quello che conta è essere giunti ad avere la chiara consapevolezza di una dicotomia insita nel proprio animo; e se la terminologia è sovente ancora quella medievale, l’analisi psicologica ha degli squarci di sorprendente modernità.

PROBLEMATICA CRITICA: La cultura filosofica del Petrarca

Vano sarebbe ricercare nel Petrarca, come si fa per Dante, una salda e vigorosa inquadratura teorica, una visione razionale che includa tutte le manifestazioni della realtà e le armonizzi in rapporto a una norma coerente di condotta morale. Le sue speculazioni di esauriscono nell’esame di problemi legati ad una vicenda personale; […]la filosofia si restringe in un ambito di psicologia, anzi di autobiografia; la religione s’arresta all’esame di coscienza. La sostanza del suo spirito è costituita da una folla di spunti intellettuali, che l’immaginazione, la sensibilità, le innumerevoli letture gli offrono, ma che non giungono a chiarirsi e a diventare un complesso ordinato di idee. […] nell’assenza di un’ideale, che si imponga come il fulcro dell’esistenza, questa è divisa e dilaniata fra gli stimoli insorgenti delle più chiare passioni e sembra svolgersi in una contraddizione costante, in un’alternativa senza pace […] fra un torbido fondo di angoscia e di perplessità e un’ansia sempre inappagata di purità e di saggezza. Nel senso di questa radicale infermità, che è al tempo stesso specchio e la coscienza della crisi ideale di tutta un’epoca e una società, si spiegano il tono intenso di certe confessioni accorate e dolenti, l’inquietudine, la stanchezza, l’accidia dell’uomo: quella «voluptas dolendi» […] in cui ha potuto riconoscersi l’irrequieta sensibilità dei romantici, e persino l’angoscia delle più tarde generazioni, cresciute in un mondo squallido e desolato, senza luce di fede né di direttive morali […].

Quando si dice che la letteratura italiana sta al centro della personalità petrarchesco si vuol soltanto mettere in rilievo la ferma fiducia che il Petrarca nella letteratura riponeva come nello strumento migliore di comprensione e di rappresentazione della vita psicologica, e quindi parziale superamento e di relativa vittoria sulle forze irrazionali e impulsive che affiorano dal fondo oscuro e torbido della coscienza. I libri dei poeti dei filosofi e degli storici antichi, la Bibbia e i Padri, diventano per lui uno specchio, in cui vedeva via via riflettersi e illuminarsi i momenti e gli aspetti della sua anima; […] le forme dello scrivere consacrate dalla tradizione e dall’arte diventano anch’esse un mezzo per meglio rendersi conto di sé e chiarificare fissandola in parole e periodi armoniosi la sua angoscia e la sua debolezza: insomma una via, se non di perfezionamento, almeno di consapevolezza morale.

N. SAPEGNO(da “Storia della letteratura italiana”, a cura di

E.Cecchi-N.Sapegno, Garzanti, Milano, 1965, p. 258 sgg.)

LE OPERE IN VOLGARE

Nella produzione letteraria culturale del Petrarca, e nella stessa coscienza soggettiva che lui ne ebbe, il posto di gran lunga più rilevante p occupato dagli studi e dalle scritture in latino. Ceto lui stesso pensò che fama e gloria non gli fossero derivati che dall’esercizio della lingua superiore per eccellenza , il latino. In realtà le cose andarono diversamente e, soprattutto nella prospettiva storica più lunga, si presentarono alla fine rovesciate per cui la produzione in latino prevalse su quella volgare solo sulla breve distanza. È curioso per noi, oggi, infatti constatare che Petrarca si attendesse la fama presso i posteri non da quello che noi unanimemente consideriamo il suo capolavoro, il Canzoniere, al quale, in maniera apparentemente contraddittoria, dedicò gran parte del suo lavoro per

III

Page 4: Francesco petrarca

tutta la vita. Petrarca, nonostante fosse convinto della superiorità del latino sul volgare, era persuaso che la letteratura latina avesse raggiunto ormai una perfezione che non poteva più essere superata, per cui non restava che imitare gli antichi, riprodurre i loro temi e le loro forme. La lingua volgare invece offriva possibilità di cimentarsi in esperienze poetiche nuove per raggiungere l’eccellenza poetica. Ciò spiega l’accanito impegno a perfezionare i suoi versi volgari.

Fin quasi alla fine del XV sec. si mantenne pressoché inalterata la situazione genialmente codificata dal Petrarca, che solo Dante con la Commedia , poema di respiro universale, aveva saputo mettere in discussione. E cioè al latino fu consegnata pressoché esclusivamente la riflessione più colta, filosofica, religiosa, esistenziale, epistolare, al volgare la poesia, ma più precisamente quella erotica, oppure la narrazione apparentemente più modesta e quotidiana e la novellistica. Tuttavia anche l’uso letterario del volgare fu investito dalla rivoluzione umanistica, di cui Petrarca e Boccaccia erano i veri grandi iniziatori. Questa rivoluzione consistette essenzialmente in due punti fondamentali.

Innanzitutto l’uso del volgare venne sottoposto al medesimo processo di raffinamento linguistico e stilistico, al medesimo innalzamento retorico e semantico, di cui erano oggetto e al tempo stesso scuola di formazione ed educazione i testi degli antihi. La sapienza antica si irradiò sulla produzione moderna e la compenetrò profondamente.

In secondo luogo il complesso dei valori di cui era portatrice la rivoluzione umanistica, si incontrava perfettamente con il complesso di valori di cui era stata portatrice ormai da più di un secolo la rivoluzione del volgare. Per esempio, l’affermazione dell’individualismo e della soggettività ― individualismo e soggettività che si incarnavano nella maniera più immediata possibile nell’uso della lingua quotidiana, ‘volgarmente parlata’. Per quanto forte fosse il pregiudizio culturale, la tradizione volgare era ormai autonomamente così forte da impedire un ritorno all’indietro, e cioè, per esempio, a pensare di poter scrivere poesia d’amore in latino. La poesia volgare restò dominio dell’eros e l’eros diventò il dominio della nuova individualità creatrice, umanistica e volgare al tempo stesso.

IL CANZONIERE: COMPOSIZIONE E STRUTTURA

In apparenza il Petrarca mostra un certo distacco, se non una punta di aristocratica sufficienza, verso le sue rime volgari, che amava chiamare nuge, nugellae: alla lettera scherzi, sciocchezze. Ma, a parte il fatto che così il poeta ricalcava “un atto di modestia retorica” (Ettore Bonora) esemplato sui classici, non si deve dare troppo credito a codesto disprezzo, se è vero che alle nuge egli dedicò una grandissima cura, tant’è che, come mostrano gli autografi petrarcheschi (soprattutto il Codice Vaticano Latino 3196, il cosiddetto «codice degli abbozzi»), le edizioni del Canzoniere furono ben nove. L’ultima edizione porta come titolo Francisci Petrarche laureati poetae Rerum vulgarium fragmenta [Frammenti di componimenti scritti in lingua volgare del poeta Francesco Petrarca] e consta di 366 componimenti (317 sonetti, 29 canzoni, 9 sestine, 7 ballate e 4 madrigali). Fragmenta esprime l’idea che sia abbandonata una struttura unitaria della materia, e a questi frammenti sia affiancano, in un certo senso precedendoli e motivandoli , gli sparsa anime fragmenta1: la poesia formalmente frammentaria esprime la condizione frammentaria dello spirito (Marco Santagata). «Rime sparse» è come dire che l’opera raccoglie a posteriori ciò che è nato seguendo di volta in volta un’ispirazione manifestatasi in modo particolare, “sparsamente”, appunto. Si potrebbe dire: il Canzoniere ci presenta di Petrarca la sua individualità, il grande uomo restituito alle passioni, ai sentimenti, ai turbamenti, alle debolezze , ai tremori, ai conflitti di un qualunque debole uomo. Attraverso questa frammentarietà il poeta si confessa, raccontando in ogni lirica una diversa sfaccettatura di sé. L’unità dell’opera si ricercherà e ritroverà altrove.

Tuttavia, com’è stato persuasivamente osservato (R. Antonelli), il carattere spontaneamente frammentario del Canzoniere è stato opportunamente corretto dall’autore in maniera da dare un senso e un ordine alla raccolta: sicchè l’andamento sparso e casuale di molti canzonieri precedenti (si pensi a Guittone o a Guido Cavalcanti) tende ad assumere qui la sua forma organica di un vero e proprio libro unitario, con una logica intrinseca e uno sviluppo, certo non narrativo, ma non per questo meno coerente, nel quale ogni sonetto o ogni canzone o altra forma espressiva occupi un posto ben preciso nell’economia dell’insieme.

Varie partizioni interne della materia del Canzoniere sono state effettuate da critici, che hanno individuato diverse serie di rime riconducibili a motivi biografici, morali, di poetica. La distinzione più corrente è fra versi in vita (I - CCLVIII) ed in morte di madonna Laura (CCLIX - CCCLXVI), che corrisponde ad una effettiva volontà di Petrarca di segnare una cesura tra l’una e l’altra parte delle sue rime, ma che non esaurisce il suo significato in un riferimento alle vicende dell’amore per Laura, ma coinvolge direttamente la sua vita interiore individuando un momento fondamentale nella crisi che lo travagliò.

1 Adero michi ipse quantum potero, et sparsa anime fragmenta recolligam, moraborque mecum sedulo («Sarò presente a me stesso quanto potrò e raccoglierò gli sparsi frammenti dell’anima mia e vigilerò diligente su di me») dal “Secretum,III”

IV

Page 5: Francesco petrarca

Voi ch'ascoltate in rime sparse il suonoCanzoniere, I Metro: sonetto con schema ABBA ABBA CDE CDE

V

Page 6: Francesco petrarca

Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono di quei sospiri ond’io nutriva ‘l core in sul mio primo giovanile errore quand’era in parte altr’uom da quel ch’i’ sono:

5 del vario stile in ch’io piango et ragiono, fra le vane speranze e ‘l van dolore, ove sia chi per prova intenda amore, spero trovar pietà, nonchè perdono.

Ma ben veggio or sì come al popol tutto 10 favola fui gran tempo, onde sovente di me medesimo meco mi vergogno;

e del mio vaneggiar vergogna è ‘l frutto e ‘l pentersi, e ‘l conoscer chiaramente che quando piace al mondo è breve sogno

o voi tutti, che state ascoltando in poesie staccate fra di loro il suono / di quei sospiri di cui io nutrivo il cuore / al tempo del mio primo errore di gioventù / quando ero in parte un uomo diverso da quel che sono (adesso):

spero di trovare compassione e perdono (v.8) / per questo mio poetare vario in cui mi dolgo e parlo (v.5) / fra le inutili speranza e l’inutile dolore / presso colui il quale comprende che cosa sia l’amore per averlo provato in prima persona.

Ma con chiarezza adesso posso vedere come / per molto tempo fui per tutta la gente oggetto di scherno e di pettegolezzi, motivo per cui spesso / mi vergogno di me stesso fra me e me;

VI

Page 7: Francesco petrarca

e il risultato di quel mio vaneggiare (riprovevole) sono / la vergogna e il pentimento, e il riconoscere chiaramente che tutto ciò che agli uomini appare bello costituisce (in realtà) un’illusione effimera

VII

Page 8: Francesco petrarca

Questo componimento è stato definito un sonetto di invocazione e di confessione, poiché analizza lucidamente un passo pieno di errori el’itinerario psicologico e interiore e necessario per arrivare a tale consapevolezza. Eppure esso è al contempo anche la tenera rievocazione di un sentimento che, per quanto sbagliato, è stato per lunghi anni al centro dell’esistenza del poeta. Petrarca offre così ai suoi lettori un chiave interpretativa dell’intera esperienza lirica che segue, segnando sin dall’inizio che la passione narrata è stata una condizione di vita temporanea, ormai superata grazie alla consapevolezza dell’errore. Fu composto certamente prima della morte di Laura, intorno al 1347, e collocato in funzione premiale nella seconda redazione. Altri fanno risalire la sua ideazione al 1343, come sembra attestare una frase pronunciata da Francesco ad Agostino verso al fine del Secretum (vd. nota 1). Si manifesta, dunque, subito l’attitudine introspettiva della poesia petrarchesco, la volontà di scrutarsi, che ha in sé qualcosa di amaramente compiaciuto, quasi una voluttà di mettere a nudo senza pietà colpe e vergogne. Il bilancio è infatti severamente negativo, e la condanna del suo «errore» non colpisce solo moralmente il comportamento, ma anche il frutto letterario di quello: cioè il «vario stile», l’oscillare tra temi diversi, senza coerenza e organicità. Questa severità di giudizio sulla poesia è già anticipata nel primo verso, nella formula «rime sparse», che restano tali proprio a causa di quell’incoerente oscillare. Esperienza morale ed esperienza letteraria si fondono, e sono coinvolte nello stesso giudizio.

L’architettura del sonetto si fonda su una struttura bipartita. Dal punto di vista contenutistico, le prime due quartine descrivono l’«errore», in parte scusandolo in quanto giovanile, ed esplicitano la richiesta di perdono, mentre le terzine parlano della vergogna e della consapevolezza della vanità del tutto. Nelle quartine prevale la subordinazione, anche se nella prima strofa il centro di irradiazione è posto all’inizio (v.1), nella seconda alla fine (v.8). la medesima struttura a chiasmo è ripresa nella disposizione degli aggettivi ai vv. 6 e 8, per cui «speranze» si incrocia con «perdono» e «dolore» con «pietà». Sempre sul piano sintattico è da notare, nella seconda quartina, la forte anticipazione del complemento di specificazione «del vario stile» (v.5) rispetto al sostantivo da cui dipende, «pietà» (v.8): è una costruzione alla latina, ma ha una funzione significativa, vale cioè ammettere in piena evidenza quell’incoerenza oscillante di cui il poeta si vergogna e per cui spera di trovar pietà. Nulla è casuale nel linguaggio poetico, ma tutto assume un valore espressivo: ogni elemento viene in poesia semantizzato. «Ma» del v. 9 segna il passaggio a un sistema completamente diverso: la struttura sintattica crea un andamento meno melodioso, caratterizzato da passaggi brevi, da un punto di vista logico piuttosto rigidi.

Lo stile è caratterizzato da frequenti allitterazioni: si noti la «f» del v. 10 («favola fui»), la «m»del v.11 («me medesimo meco»)che focalizza l’attenzione sul pronome di prima persona, la «v» disseminata un po’ in tutto il componimento («vaneggiar vergogna», v.12).

Il termine «favola » (v.10) testimonia una ripresa dello scrittore latino Orazio, che negli Epodi aveva scritto (XI, vv.7-8): «Povero me, quanto grande favola fui per tutta la città» (Heu me, per urbem […] fabula quanta fui). Tutto petrarchesco è invece l’«errore» del v.3, parola-chiave che nell’opera di Petrarca allude quasi sempre alla sua passione per Laura, considerata vana e pericolosa per l’anima, quindi moralmente sbagliata. Il sistema dei tempi verbali è estremamente raffinato: al passato (vv.2, 4, 10) è infatti affidato il compito di ricondurre al periodo del peccato, mentre il presente (vv. 1, 4, 5, 8, 9, 11, 12, 14) è il tempo in cui si verifica la presa di coscienza. Petrarca prende così le distanze dal se stesso di un tempo, e dimostra al suo pubblico ― forse con una punta di nostalgia ― il proprio definitivo allontanamento da quelle passioni.

La compresenza si valori cristiani e cortesi raggiunge in questi versi un raro equilibrio. Alla tradizione poetica precedente fanno riferimento alcuni termini — «sospiri» e «core» (v.2), «piango et ragiono» (v.5), «amore» (v.7) — e il riferimento a un pubblico esperto in questioni amorose (v.7). Al sistema di valori cristiano si riferiscono l’«errore» (v.3), la «pietà» e il «perdono» del v.8, l’intero campo semantico della vergogna e della vanità (che si riallaccia direttamente a una particolare linea di riflessione del pensiero cristiano che ha le sue radici nel libro Qohelet: Vanitas vanitatum et omnia vanitas «vanità delle vanità, tutto è vanità» 1,2; 12, 8)

A partire dal sonetto premiale Marco Santanga ha analizzato al significativa apertura di Petrarca verso un pubblico non più definito, ma illimitato, a riprova della modernità della sua produzione lirica (Dal sonetto al Canzoniere, Padova, Liviana, 1979, pp. 150-151): «Nel rapporto col pubblico sta […] una delle maggiori innovazioni della poesia petrarchesco, una di quelle che hanno segnato il corso della lirica europea. Il testo petrarchesco si rivolge a un uditorio privo di caratterizzazioni sociali o culturali o ideologiche: non p una cerchia aristocratica né un pubblico borghese, non un gruppo di “scuola […]. L’unico requisito che il testo sembra richiedere al proprio lettore è quello di essere tale, di “ascoltare”. È forse la prima volta nell’epoca moderna che la poesia lirica si rivolge a un pubblico non preselezionato […]. A questo pubblico indifferente Petrarca propone una storia d’amore, la sua personale storia d’amore. Una storia però che è anche un itinerario spirituale e in quanto tale un itinerario simbolico, suo e di tutti, individuale ed esemplare».

Il superamento dei conflitti nella forma

Page 9: Francesco petrarca

Poiché la materia petrarchesco è un groviglio di contraddizioni e di inquietudini senza soluzione, sarebbe lecito aspettarsi che le tensioni si esprimessero in un forma tormentata e involuta. Invece la dizione poetica del Canzoniere è limpida, equilibrata, armoniosamente perfetta dotata di una miracolosa musicalità. Tutto quel suo mondo tormentato, mosso dall’angoscia ricerca di una superiore sintesi etico-intellettuale, il Petrarca ce lo rende attraverso una poesia tra le più studiate e raffinate della nostra letteratura. Non uno scatto espressivo, non un cedimento emotivo, non un impeto scomposto traspare dalla lirica petrarchesca. Quell’universo di dolore, che il poeta individualizza nel mito dell’amore per Laura, e che è indubbiamente al fondo della sua ispirazione, si offre al lettore talmente filtrato attraverso uno schermo stilistico-espressivo intessuto di reminiscenze letterarie, soluzioni stilistiche tratte da altri poeti, e non solo dai prediletti autori latini, ma anche dai testi biblici, dagli scrittori cristiani e persino dai moderni. Il fatto p che la poesia del Petrarca non nasce dall’immediato effondersi di una commozione in atto, bensì dalla sottile analisi di una esperienza rivissuta nella memoria. Non si può pensare, perciò a questa sintesi espressiva come al frutto di un esercizio letterario fine a se stesso; essa va invece ben oltre e risponde a quell’intima e profonda esigenza di equilibrio che costituiscono la sostanza del Canzoniere. Giungere ad una padronanza assoluta del mezzo espressivo, per il Petrarca vuol dire poter ricomporre e dominare la propria materia poetica; e dominare tale materia vuol dire acquistare piena consapevolezza di sé, nonché possibilità di dare uno sbocco — l’unico per Petrarca — alla propria tormentata condizione umana. “In Petrarca forma letteraria e conquista intellettuale di se stesso sono una sola cosa” (U. Bosco)

Solo et pensoso i più deserti campiCanzoniere, XXXV Metro: sonetto con schema ABBA ABBA CDE CDE

Page 10: Francesco petrarca

Solo et pensoso i piú deserti campi vo mesurando a passi tardi et lenti, et gli occhi porto per fuggire intenti ove vestigio human l’arena stampi.

5 Altro schermo non trovo che mi scampi dal manifesto accorger de le genti, perché negli atti d’alegrezza spenti di fuor si legge com’io dentro avampi:

sì ch’io mi credo omai che monti et piagge10 et fiumi et selve sappian di che tempre sia la mia vita, ch’è celata altrui.

Ma pur sí aspre vie né sí selvagge cercar non so ch’Amor non venga sempre ragionando con meco, et io co · llui.

Solitario e meditabondo vado percorrendo a passi lenti e impacciati (vv. 1-2) / e volgo gli occhi attenti a evitare / qualunque luogo dove un’impronta umana segni il terreno.

Altro riparo non so trovare che mi ripari / dall’evidente consapevolezza delle persone / poiché negli atteggiamenti esteriori privi di serenità / da fuori si vede bene come io arda dentro di me:

Tanto che io sono persuaso che monti e pianure / e fiumi e selve avvertano di che condizione / sia la mia vita, che è tenuta nascosta agli altri.

Ma tuttavia non sono capace di trovare percorsi così impervi e inospitali tali che Amore non mi segua (vv. 12-13) / colloquiando con me stesso, ed io con lui

Al centro del sonetto, il tema centrale della lirica non è tanto la solitudine quanto una sorta di tormento interiore ― di dialogo obbligato con se stesso — che costringe il poeta a cercare pace nella natura, lontano dal volgo, senza però riuscire a trovarla. Nel binomio solitudine e meditazione che apre il componimento è dunque la meditazione ad avere la meglio, ad annullare cioè i tentativi di raggiungere la tranquillità.

Non è la solitudine del De vita solitaria, propizia al raccoglimento intellettuale, ma l’isolamento che deve salvare il poeta dalla vergogna di rivelare

Chiare fresche et dolci acque

Chiare fresche e dolci acque ove le belle membra pose colei che sola a me par donna; gentil ramo, ove piacque,5 (con sospir mi rimembra) a lei di fare al bel fianco colonna; erba e fior che la gonna leggiadra ricoverse con l'angelico seno; aere sacro sereno ove Amor co' begli occhi il cor m'aperse: date udienza insieme a le dolenti mie parole estreme.

S'egli è pur mio destino, e 'l cielo in ciò s'adopra, ch'Amor quest'occhi lagrimando chiuda, qualche grazia il meschino corpo fra voi ricopra, e torni l'alma al proprio albergo ignuda; la morte fia men cruda se questa spene porto a quel dubbioso passo, ché lo spirito lasso non poria mai più riposato porto né in più tranquilla fossa fuggir la carne travagliata e l'ossa.

Tempo verrà ancor forse ch'a l'usato soggiorno torni la fera bella e mansueta, e là 'v'ella mi scorse nel benedetto giorno, volga la vista disiosa e lieta, cercandomi; ed o pietà!

Page 11: Francesco petrarca

già terra infra le pietre vedendo, Amor l'inspiri in guisa che sospiri sì dolcemente che mercé m'impetre, e faccia forza al cielo asciugandosi gli occhi col bel velo.

Da' be' rami scendea, (dolce ne la memoria) una pioggia di fior sovra 'l suo grembo; ed ella si sedea umile in tanta gloria, coverta già de l'amoroso nembo; qual fior cadea sul lembo, qual su le treccie bionde, ch'oro forbito e perle eran quel dì a vederle; qual si posava in terra e qual su l'onde, qual con un vago errore girando perea dir: "Qui regna Amore".

Quante volte diss'io allor pien di spavento: "Costei per fermo nacque in paradiso!". Così carco d'oblio il divin portamento e 'l volto e le parole e'l dolce riso m'aveano, e sì diviso da l'imagine vera, ch'i' dicea sospirando: "Qui come venn'io o quando?" credendo esser in ciel, non là dov'era. Da indi in qua mi piace quest'erba sì ch'altrove non ò pace.

Se tu avessi ornamenti quant'ai voglia, poresti arditamente uscir del bosco e gir infra la gente.