Francesca Olivi LA VOCE DEL SILENZIO -...

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Francesca Olivi LA VOCE DEL SILENZIO 1 Edward Hopper, Morning Sun, 1952 I. La dittatura dei rumori Il silenzio è ormai un bene prezioso perché rarissimo. Al rumore che si leva da strade e piazze e da tutto ciò che viene mosso da motori, bisogna aggiungere quello che ci viene imposto in ogni ambiente dove mettiamo piede: bar, ristoranti, supermercati e negozi. George Grosz, Metropolis, 1916-17 Il rumore è il dittatore di questi nostri anni beneficiati da una tecnologia che sembra

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Francesca Olivi

LA VOCE DEL SILENZIO

1

Edward Hopper, Morning Sun, 1952 I. La dittatura dei rumori

Il silenzio è ormai un bene prezioso perché rarissimo. Al rumore che si leva da strade

e piazze e da tutto ciò che viene mosso da motori, bisogna aggiungere quello che ci

viene imposto in ogni ambiente dove mettiamo piede: bar, ristoranti, supermercati e

negozi.

George Grosz, Metropolis, 1916-17

Il rumore è il dittatore di questi nostri anni beneficiati da una tecnologia che sembra

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non avere limiti e non ci sono più spazi franchi per i cultori del silenzio. Questi rumori

sono sempre più provocati e imposti, perché pretendono di offrirci una sensazione di

sazietà, d'impegno, di vitalità, di partecipazione e di condivisione. Ma è proprio nella

supremazia del rumore che si nascondono le ansie e le angosce che lo spazio odierno ci

infligge: ci illudiamo di mascherare la nostra fragilità umana alzando la voce; e

altrettanto facciamo quando cerchiamo riparo da pensieri ansiosi circondandoci di

suoni, annegando la nostra attenzione in essi. Ed è un'illusione che accentua ancora di

più la fragilità delle nostre opinioni.

Il silenzio invece fortifica, perché accresce il nostro potere di concentrazione, la

capacità di guardarci dentro, ed è quella “pausa” che, come in musica, dà un significato

ai suoni. Esso crea un “rumore comunicativo” più forte del rumore della parola.

Il silenzio ha la possibilità di essere forma e oggetto di comunicazione e questo lo

accomuna alle lingue verbali: ma con la differenza di non condividere la prerogativa,

che queste hanno, di “parlare di sé” in forme esplicite e autonome rispetto ad un

contesto. Nella pratica del silenzio la forma e l'oggetto sono tutt'uno. Non si spiega

né si narra né si descrive il silenzio con il silenzio stesso. Lo si attua, gli si dà un senso,

o meglio innumerevoli sensi secondo le circostanze del discorso; ed è proprio

nell'inesauribilità delle sue molteplici forme che risiede il suo fascino.

Edward Hopper, Chair Car, 1965 II. Perché si è perso il silenzio?

Nella nostra civiltà, e in particolar modo nel mondo occidentale, si è persa la

cognizione stessa di silenzio e questa perdita è stata determinata dallo straripare

incontenibile delle parole. Esse si sono diffuse con tanta invadenza da perdere il

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proprio scopo primario, che è quello di comunicare.

Se le parole sono troppe, infatti, se non vengono moderate dalle pause silenti,se non ci

si sforza di limitarsi o almeno di tendere all'essenziale, le parole perdono la loro

efficacia comunicativa diventando indistinto rumore spersonalizzante. Se

osservassimo in maniera imparziale il modo in cui usiamo il linguaggio nella vita

quotidiana, ci accorgeremmo subito di quante parole non necessarie escano dalla

nostra bocca senza che neanche ce ne accorgiamo: dai pettegolezzi agli insulti

gratuiti, dalle chiacchiere per “ammazzare il tempo” ai discorsi fatti solo per

scaricare qualche tensione emotiva. Le stesse chiacchiere inconsistenti di cui parla

Martin Heidegger, ovvero l'espressione di una curiosità superficiale che è

autoreferenziale e che caratterizza la vita inautentica e anonima dell'esserci e che

non guarda alla profonda verità, ma è un sapere solo per aver saputo. Oramai non

riusciamo a stare zitti, abbiamo bisogno di riempire qualsiasi silenzio con il rumore

della nostra voce, come se non bastassero i frastuoni che già riempiono la nostra

quotidianità.

Se questo non basta, subentrano le tecnologie come la televisione o la radio che

parlano al posto nostro. Tutto questo ci descrive un mondo che era già stato illustrato

nella Waste Land da Thomas Stearns Eliot poeta statunitense che vinse il premio

Nobel della letteratura.

Eliot denunciava infatti l'alienazione dell'uomo moderno, vuoto e senza scopo, bloccato

in una routine rumorosa e distruttiva il cui peggiore mostro risulta essere la noia, e

questa sterilità interiore si affianca a quella dei rapporti con gli altri uomini rumorosi

ma sostanzialmente privi comunicazione.

Questo vuoto è lo stesso vuoto di cui parla Friedrich Nietzsche anticipando la crisi

moderna della religione e della morale. Egli parlava infatti di nichilismo come

conseguenza della “morte di Dio", ovvero di un sistema di certezze che, una volta

perse, avrebbero reso l'uomo consapevole del non-senso della vita e quindi della

considerazione di essa come niente. Questo identifica la situazione dell'uomo moderno

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e contemporaneo che non comunica e che non crede più nei valori supremi di Dio, della

verità e del bene, finendo per avvertire, davanti all'Essere, lo sgomento e il vuoto di

se stesso.

La stessa perdita di identità e spersonalizzazione viene ricreata dai lager. Il lager

infatti è innanzitutto il luogo della privazione della libertà, ma anche della privazione

sistematica e pianificata dell'umanità dell'individuo, ridotto a cosa. Tutto questo

veniva realizzato tramite l'uso della violenza sul piano fisico, ma anche e soprattutto

su quello psicologico, impedendo ogni forma di comunicazioni: secondo Primo Levi,

l’intento principale era distruggere la personalità del deportato, umiliarlo e offenderlo

fino al punto di favorirne l’assuefazione, cioè l’avvio della sua trasformazione da

essere umano in animale isolato: affinché lo spirito morisse ancor prima della carne. Lo

stesso autore in “Se questo è un uomo” lascia spazio al silenzio per lasciar parlare da

sé gli eventi e per riservare agli altri il compito di giudicare, dato che nessuna

esplicita riflessione potrebbe delineare in maniera obbiettiva e credibile gli eventi o

codificarne la sofferenza.

III. Il silenzio fa paura

La nostra mente teme il vuoto: quella voce che subdolamente udiamo nella nostra testa

che sta sempre lì a chiacchierare, commentare, giudicare, condannare, ricordare,

pianificare e descrivere ciò che accade ci fa comodo perché ci tiene compagnia.

Soltanto quando possiamo udire una voce, seppure la nostra, possiamo illuderci di non

essere soli e di essere immuni alla morte. Essa infatti pone l'uomo di fronte a se

stesso, e in questa condizione è solo e incondizionato dagli altri e comprende di essere

un ente limitato a causa della sua finitudine. Ciò innesca la paura del silenzio che è

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forse la motivazione maggiormente responsabile della scomparsa del silenzio stesso.

Ma rinunciare al silenzio significa rinunciare a se stessi: quindi chi ha paura del

silenzio sostanzialmente ha paura di essere se stesso.

L'umanità oggi è in pericolo, specie nel mondo occidentale, proprio perché ignora

l'importanza di fare silenzio interiore, il quale è: il vero motore del progresso civile ed

etico, il cuore pulsante delle nostre energie e delle nostre capacità, perché solo nel

silenzio interiore possiamo produrre qualcosa che sia veramente nostro e veramente

libero, degno di essere chiamato il nostro pensiero.

“Il silenzio non è altro che 'essere come si è'“ afferma Dainin Katagiri, fondatore

della Soto-Shu, una delle maggiori scuole giapponesi del Buddhismo zen.

Il silenzio quindi dovrebbe diventare una scelta; la sua valenza non è solo morale ed

esistenziale, ma anche spirituale.

IV. Valenza morale ed esistenziale del silenzio

Il filosofo Bergson sosteneva che l'uomo fosse homo faber prima ancora di essere

homo sapiens e questa peculiarità l'avrebbe portato a creare e costruire strumenti

artificiali tramite l'intelligenza per sopravvivere. In questo modo l'uomo è riuscito ad

affinare la tecnica e a sviluppare fiducia nei confronti della scienza fino ad arrivare

con il Positivismo a considerarla come unica forma di sapere legittimo. La scienza e la

meccanica però forniscono risposte solo sul come e non sul perché, ovvero sul senso

ultimo dei fatti, come metterà in luce il Decadentismo. Proprio per questo motivo

Bergson propone un “supplemento di mistica”, ovvero di metafisica, di fronte a questa

crescita sproporzionata della materialità rispetto alla spiritualità.

La tecnica produce una relazione inautentica con il mondo e con se stessi, ovvero io e

mondo sono trattati alla stregua di cose dateci come utilizzabili. Ci concentriamo sul

loro utilizzo e perdiamo il significato della loro essenza.

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Per superare questa condizione è necessario fermarsi a riflettere. Veicolo di questa

pausa è proprio il silenzio, che è la premessa dell'ascolto.

Così come fa Eugenio Montale nel correlativo oggettivo, le cose vengo viste in modo

nuovo, ovvero se ne va a cogliere la natura essenziale ed astratta. Questa evidenza del

mondo e delle cose le porta ad essere correlativo della propria esperienza interiore.

Quindi l'uomo parte a giudicare il mondo da se stesso e non dagli utilizzabili che gli

vengono dati. Decidere di fermarsi e di fare silenzio ha un risvolto morale ed

esistenziale, poiché impone di fare una scelta, e questa è proprio la svolta per arrivare

ad una relazione autentica con il mondo e con l'io. Lo stesso Giuseppe Ungaretti

sceglie di utilizzare nelle sue poesie lo spazio bianco, che corrisponde ad

un'esperienza di silenzio. Esso viene utilizzato per separare le strofe e aggiungere

pause, si inserisce nel testo e diventa esso stesso testo. Ungaretti semantizza il vuoto

dello spazio bianco, gli dà cioè significato, rendendolo elemento strutturale e

necessario; lo spazio diviene una frattura del testo ma anche del pensiero del lettore,

che in questo modo viene coinvolto nel narrato e quindi viene invitato a soffermarsi e

riflettere.

V. Valenza spirituale del silenzio

Il silenzio come premessa dell'ascolto non ha solo un risvolto morale, come mette bene

in luce Plutarco nel De audiendo, uno dei Moralia, ma anche spirituale. Infatti che si

parli di “chiamata” dell'essere o “chiamata” di Dio, è sempre presupposta una frattura:

un'assenza di rumore che ci porti a cambiare lo sguardo che abbiamo sul mondo e su di

noi. L'uomo attraverso questa riflessione va infatti verso un sapere diverso che porta

a meravigliarsi di fronte a ciò che non si comprende: lo thaumàzein di cui parla

Heidegger, contrapponendolo alla vana curiositas su cui s'impernia tutta la vicenda di

Lucio nelle Metamorfosi di Apuleio.

Come mette in luce il filosofo della possibilità Kierkegaard, la differenza è che nei

valori morali l'uomo viene obbligato ad adeguarsi ad essi e segue un cammino

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prestabilito, mentre nei valori religiosi è sempre libero di scegliere di fare e di non

fare. Di fronte a Dio come alla morte l'uomo si ritrova in un rapporto assoluto con

l'assoluto stesso, pieno di incertezza e contraddizione. Infatti la fede richiede la

libera scelta dell'individuo, ma anche l'iniziazione di Dio, quindi una collaborazione tra

i due. Ma Dio sembra arrivare non prima che l'uomo tenda completamente a lui, una

volta che è posto di fronte ai propri limiti e alla propria illusione di essere

autosufficiente. Il limite di dipendere da Dio diventa in Kierkegaard la sua forza,

trova in lui stabilità e il senso ultimo delle cose. Questo è anche il principio esposto

dal Pimandro nel Corpus Hermeticum, di cui fa parte l'Asclepius, probabilmente

scritto o per lo meno tradotto dallo stesso Apuleio, adombrato nell'esperienza

autobiografica descritta da S. Agostino nelle sue Confessioni.

Emily Dickinson parla del silenzio come “infinità”, ed è proprio questa ricchezza che

spiega l'ineffabilità di Dio e l'abbandono della parola nella descrizione di Dante del

Paradiso.

Platone stesso finirà per rifiutare la parola (dapprima scritta, come emerge dal "mito

di Theuth" contenuto nel Fedro, ma alla fine anche orale) in quanto linguaggio

presuntuoso e insufficiente per esprimere il vero sapere. Egli infatti deciderà di non

comunicare né per iscritto né oralmente le sue dottrine più alte (i cosiddetti àgrapha

dògmata): chiunque le avesse volute imparare si sarebbe dovuto sottoporre ad una

rigida disciplina, la stessa a cui venivano sottoposti i pitagorici, veri e propri cultori

del silenzio. Nella scuola di Pitagora infatti si pretendeva il silenzio e, stando alle

testimonianze antiche, chiunque l'avesse interrotto sarebbe stato ucciso: per cinque

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anni si ascoltava in silenzio il Maestro che parlava nascosto da un paravento, a

simboleggiare il percorso della conoscenza che non è ricerca, ma rivelazione divina;

poi, se dimostrava di aver acquisito le necessarie virtù, l'allievo veniva accolto nella

sua scuola. Pitagora affermava: “Uomo che ami parlare molto: ascolta e diventarai

simile al saggio. L'inizio della saggezza è il silenzio”.

La vera saggezza quindi è il silenzio come premessa per l'ascolto. Ed è proprio

quell'ascolto che porta a comprendere la lingua di Dio: la matematica che si esprime

anche tramite la musica. Da qui si sviluppa il concetto filosofico della musica delle

sfere, detta anche musica universale, che ebbe origine nell'antichità a partire da

Pitagora per poi essere seguita almeno fino al Medioevo, prima da S. Agostino, che nel

De Musica e nelle Confessioni vedeva nei suoni il riflesso di un'armonia primordiale

dell'anima, e dopo in Dante, che allude in più occasioni all'armonia delle sfere.

Questa teoria considera l'universo come un enorme sistema di proporzioni numeriche.

I movimenti dei corpi celesti, inoltre, avrebbe prodotto una sorta di musica, non

udibile all''orecchio umano perchè troppo profondo, ma consistente in concetti

armonici-matematici che formano un'armonia di indescrivibile bellezza. In questo

modo, essa non è soltanto fonte estetica di piacere, ma anche uno strumento di

elevazione spirituale e di conoscenza.

In conclusione il silenzio non è altro che il veicolo per ritrovare un'armonia che ormai

sembra essere perduta, la premessa dell'ascolto, una pausa di riflessione dalla

continua tensione verso il progresso che spesso ci porta a dimenticare ciò che siamo,

quindi una frattura necessaria per una nuova relazione con sé e il mondo.

Edward Hopper, Nighthawks, 1942

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Bibliografia e Sitografia

• Bice Mortara Garavelli, Silenzi d'autore, Laterza, Roma-Bari 2015

• Primo Levi, Se questo è un uomo, Einaudi,Torino 2005

• Articolo di Matteo Collura, Corriere della Sera su Sergio Cingolani, La dittatura dei rumori molesti, novembre 2012

http://www.corriere.it/cultura/12_novembre_30/elzeviro-collura-dittatura-

rumori-molesti_c1b38796-3ae4-11e2-b4fa-74f27e512bd0.shtml

• The Waste Land, https://en.wikipedia.org/wiki/The_Waste_Land consultato 9.05.2016

• Ajahn Sumedho, Forest Sangha Newsletter,Traduzione di Giuliano Giustarini

Santacittarama monastero buddhista, Il silenzio e lo spazio

http://santacittarama.altervista.org/silenzio.htm • http://lamisticadellanima.blogspot.it/2014/01/simbologia-cristiana.html consultato 12.04.2016

• Emily Dickinson, The Complete Poems, Traduzione e note di Giuseppe Ierolli http://www.emilydickinson.it/j1251-1300.html consultato 15.04.2016

• La musica delle sfere, https://it.wikipedia.org/wiki/Musica_delle_sfere consultato 22.05.2016

• Maria Zanolli, Pennellate di silenzio: Edward Hopper, http://www.mariazanolli.com/index.php/nessuna/pennellate-di-silenzio-edward-

hopper consultato il 30.05.2016