Frammenti di una vita non vissuta

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FRAMMENTI DI UNA VITA NON VISSUTA Claudia Del Prete

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"Frammenti di una vita non vissuta" si propone di essere un diario, ma di una vita che non si è vissuta. Un'idea che in piena onestà, prima d'ora, non avevo sperimentato neppure col pensiero, perché, a ben vedere, si tratta di un paradosso letterario. (…) L'atto di scriverne si direbbe quasi una forma di nostalgia al contrario, il tributo del riconoscimento e dell'affezione per tutti i mestieri che non si sono imparati, per tutti i luoghi e le città dove non si è vissuto, i panorami di cui non si è goduto, l'aria e le atmosfere di cui non si è stati incantati spettatori. Un'idea piuttosto romantica. Tuttavia, la sfida è anche concreta, affascinante nella sua carica di commossa autenticità, nel suo generoso offrire diritto all'esistenza alla molteplicità che è in noi, ma che al tempo stesso ci/si ricompone in un'indissolubile unità. Scrivere memorie di ciò che non è mai stato riveste un senso tanto più sincero, in quanto si parte comunque sempre da qualcosa che invece è stato...

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FRAMMENTI DI UNA VITA

NON VISSUTA

Claudia Del Prete

PREFAZIONE

Se è vero che tra alcune persone esistono legami capaci di cavalcare le

alterne fasi della vita, la diversità degli indirizzi secondo cui ciascuno la

modella, trascendendo anche le tempistiche personali, forse qualcosa di

simile mi unisce all'autrice di questo manoscritto. Leggerne i vari pezzi, prima

separatamente, poi, di nuovo, nella loro successione, ha lasciato riaffiorare in

me le tracce della comunità di spirito su cui quel legame si basa, facendomi

accorgere, per di più, del tempo da cui dura: molti anni, caratterizzati da

scelte difficili e impervi bivii; anni più che mai, per entrambe, fatti di bisogno

d'ascolto e di coraggio.

Il manoscritto si propone di essere un diario, ma di una vita che non si è

vissuta. Un'idea che in piena onestà, prima d'ora, non avevo sperimentato

neppure col pensiero, perché, a ben vedere, si tratta di un paradosso

letterario: quando vogliamo riferirci - scomodando Aristotele - a semplici

"potenze" e non ad "atti", declinati al passato, in una dimensione cioè non più

modificabile, si parla genericamente di possibilità non colte, di occasioni

sfumate, tutt'al più di senso del rimpianto, se si prova il desiderio che una

particolare potenza avesse infine compiuto la sua naturale evoluzione, ma il

fatto è che non può esistere memoria per qualcosa che non è mai stato.

L'atto di scriverne si direbbe quasi una forma di nostalgia al contrario, il

tributo del riconoscimento e dell'affezione per tutti i mestieri che non si sono

imparati, per tutti i luoghi e le città dove non si è vissuto, i panorami di cui non

si è goduto, l'aria e le atmosfere di cui non si è stati incantati spettatori.

Un'idea piuttosto romantica.

Tuttavia, la sfida è anche concreta, affascinante nella sua carica di

commossa autenticità, nel suo generoso offrire diritto all'esistenza alla

molteplicità che è in noi, ma che al tempo stesso ci/si ricompone in

un'indissolubile unità. Scrivere memorie di ciò che non è mai stato riveste un

senso tanto più sincero, in quanto si parte comunque sempre da qualcosa

che invece è stato: quello che siamo oggi è anche il risultato di tutto ciò che

per amore nostro o di qualcuno, per paura, per incapacità o per merito, non

siamo potuti essere. La natura della vita che ogni giorno costruiamo è anche

la somma delle conseguenze di tutte le vite che non abbiamo mai intrapreso.

Molti dei frammenti di questo "diario" insistono su nervi scoperti della

sensibilità che appartiene a ciascuno, si concretizzano spesso in interrogativi

e dubbi molto meno lontani dalla nostra quotidianità di quanto si sia convinti

di sapere; per alcuni, rappresentano addirittura un assillo ingombrante, ma

nel loro peso restano comunque una strepitosa opportunità di crescita

individuale. Sul crinale del darsi o del non darsi, come in un gioco tra

dispettosi amanti, si pende verso l'uno o l'altro in base ad aspetti che più

soggettivi non potrebbero essere, aspetti anche banalmente umorali, relativi

alla singola giornata in cui si è chiamati a scegliere.

Altre volte ci sono ragioni più profonde, come il bisogno dell'accettazione

altrui rispetto alla propria complessità, la necessità fisiologicamente umana di

comunicare e sapere di riuscire a farlo in fedeltà a come ci si percepisce,

oppure prevale l'istinto primordiale di rintanarsi nella caverna, il solo luogo in

cui sembra possibile la conservazione piena della propria integrità etica e

sentimentale.

I pensieri disseminati tra i frammenti sono un continuo oscillare tra l'apertura

o la chiusura, la condivisione o l'introversione, la concessione di pezzi di sé o

la sdegnata riappropriazione di quel che di sé, pur offerto, probabilmente non

è stato capito, ma costante e attentissima dall'alto è anche la riflessione su

quest'incessante altalena. Come anche forte è la consapevolezza

dell'indispensabilità di un compromesso tra la tensione "ancestrale" all'alterità

e il dato di fatto che condividere una parte intimamente nostra comporta un

po' tradirla, esporla, talvolta farla rimbalzare contro muri di ghiaccio. La

gelosia della propria interiorità, l'impellenza di custodirsi nel cantuccio cedono

così il passo all'urgenza di rispondere anche ai segnali del mondo, alle

"chiamate" che provengono dall'esterno, e al desiderio - anch'esso così

umano - di abbracciare la calda vita per sentirsi finalmente parte integrante

del grande ingranaggio.

Una dinamica del tutto simile investe il rapporto tra le parole e il silenzio, pur

senza che questi si configurino per forza come i fratelli gemelli,

rispettivamente, della disponibilità alla comunicazione ovvero al suo opposto.

Si riesce a stare in silenzio solamente quando si ha la certezza di

essere in grado di esprimere adeguatamente i propri bisogni e desideri.

Quando c'è un surplus di parole, evidentemente a monte c'è un deficit

di comprensione.

Silenzio e parole - ma più ancora, l'avvertito bisogno dell'uno e delle altre - si

alternano e si incrociano con uno scambio fecondo e perfetto; nella massima

manifestazione di se stessi si compenetrano e si snodano senza soluzione di

continuità, quando si è vicini a chi ci metta nella condizione di sentirci

davvero in armonia con noi stessi.

Il prodotto ultimo delle antinomie individuate è quello che Saba definirebbe

una "serena disperazione": l'accettazione della complessità tipica di un certo

modo di stare al mondo, l'accettazione anche delle spontanee manifestazioni

dei sentimenti, di contro a una dissimulazione che rischia di soffocare,

anziché proteggere.

I frammenti ci insegnano così - pur senza mai avere la pretesa di farlo - un

sano ritorno alle origini.

Anche nell'ipotesi che non sia stato capito come si sperava o non sia stato

capito affatto, l'aver dato, l'aver condiviso raramente è un errore; l'aver

lasciato che qualcuno intravedesse preziosi spaccati del nostro mondo

interiore non significa la rinuncia ad essi, ma l'affermazione di un'identità che

li comprende.

Grazie, Cla

Rossella Iovinella

Classe 1987, Rossella Iovinella ha conseguito la Laurea magistrale in “Filologia, letterature e civiltà del

mondo antico” nel 2011 e attualmente è dottoranda in Storia presso l’Università Federico II di Napoli.

FRAMMENTI DI UNA VITA NON VISSUTA

INDICE

1. Presentazione

2. Il contatto con le cose, con le persone e il non-contatto

3. Isteria collettiva

4. Scelte

5. Rinnegare un bisogno ancestrale

6. Senz’àncora

7. In un’altra vita

8. Ricominciare da zero

9. Le parole sono inerti?

10. Sublimazione

11. No, grazie

12. Amor proprio

13. Camping (in my head)

14. Illusione

15. È la vita?

16. Sguardi vuoti

17. Rimandare la gratificazione

18. Vite non vissute appieno

19. Ci si aspetta e alla fine ci si trova

20. Il Silenzio

21. Mi piaci quando taci

22. Finale (a scelta multipla)

1. PRESENTAZIONE

Frammenti di una vita non vissuta è un diario.

Di tanto in tanto dei frammenti sono stati disseminati tra le

altre pubblicazioni della sezione Narrativa di Caffè News.

Quella sezione è stata poi eliminata, ma i “frammenti” hanno

continuato a trovare spazio tra gli articoli pubblicati dal nostro

Magazine perché la storia di Crystal non poteva essere

interrotta di punto in bianco: nessuna esistenza si dissolve nel

vuoto; è necessario che ogni storia abbia un suo inizio, uno

svolgimento e -cosa fondamentale- un finale.

Il finale di questa storia è l’unica cosa che non troverete tra gli

articoli di Caffè News; il finale è solo qui, a conclusione delle

pagine che -i frammenti di quella vita “non vissuta”- li

raccolgono tutti: sia quelli più brevi (che hanno dunque

meritato un posto nella sezione Macchiati) sia quelli più lunghi

(dei veri e propri “Affogati al Caffè”!).

La vita non vissuta è quella che prende forma nella mente dello

scrittore; non tutte le vite che una persona vorrebbe vivere

possono essere vissute davvero, ma esiste un mondo, al confine

tra il reale e l’immaginario, in cui tutto il pensabile diventa

possibile: è lì che dimorano le persone che scrivono.

La narrativa è affascinante proprio perché nessuno può sapere

dove si annulla il confine tra lo scrittore e il personaggio.

Il mio personaggio, stavolta, si chiama Crystal -nome che deriva

dal greco e significa ghiaccio.

Ben lontana dall’essere glaciale, Crystal è trasparente come il

cristallo: non sa nascondere ciò che prova -di certo non a se

stessa! E, per quanto riguarda il ghiaccio, forse ciò che Crystal è

davvero capace di fare è riuscire a scioglierlo…

2. IL CONTATTO CON LE COSE, CON LE PERSONE

E IL NON-CONTATTO

Dopo aver letto un libro che parla di oggetti e del valore della

presenza degli oggetti nella vita delle persone, mi sono ritrovata

a pensare a quanto -ancor più degli oggetti- siano le persone ad

avere valore nelle nostre vite. Banale, tutto sommato… ma non

necessariamente scontato, in alcuni casi.

Il contatto con un oggetto può farci provare tante sensazioni,

dischiudendo le porte del nostro mondo interiore, che viene

arricchito dal significato che noi riusciamo a dare alla presenza

di quell’oggetto nella nostra vita.

Il contatto con un’altra persona è altro: mette in comunicazione

due mondi; non si tratta più di sensazioni e vissuti

autoreferenziali, ma di uno scambio in cui ognuno dà all’altro

qualcosa e prende qualcosa dall’altro. Eppure, nessuno dei due

riceve la medesima cosa: ognuno si appropria di ciò di cui ha

bisogno.

È un fluire ininterrotto che giunge all’apice nei rari ma

impagabili istanti in cui l’altro non è percepito come altro da sé.

Gli scambi rendono appieno il senso dell’esistenza, che è

d’indubbio valore già nella vita del singolo, solo con se stesso, ma

raggiunge vette indomabili nei momenti in cui i confini tra due

vite -temporaneamente- si annullano.

Ci si condivide: si scoprono i rispettivi universi interiori. Non è

forse nella condivisione di se stessi con un’altra persona il senso

dello stare al mondo?

Ma non sempre la ricerca del contatto con una particolare

persona può realizzarsi, perché ci sono persone con le quali le

distanze non si possono annullare; persone che scivolano fuori

dalla tua vita da un giorno all’altro, perché la stagione o il

trimestre in cui era previsto che facessero la loro comparsa sono

finiti.

I ruoli rivestiti dalle persone sono gabbie all’interno delle quali è

consentito fare delle cose ma è proibito farne delle altre.

E allora, se una persona è imbrigliata in un ruolo, tu quel ruolo

devi rispettarlo e devi accontentarti di conoscerla attraverso un

filtro.

Ma questo a volte vuol dire non poterla conoscere affatto! Il ché

diventa insopportabile, se il tuo interesse nei confronti di quella

persona non ha nulla a che fare con il suo ruolo, sebbene

chiunque potrebbe dirti che sia un luogo comune quello di avere

un debole per persone che ne rivestono uno simile.

Tu però lo sai, che l’unica parte che il suo ruolo può aver giocato

è stata quella di consentire a quella persona di capitare sotto il

tuo sguardo; sai che chi vedi davvero è la persona, non quello

che fa lì e in quel determinato momento: di quello forse non

t’importa neppure.

E in questi casi il contatto che fine fa?

Nessuna fine, perché non ha neanche un inizio!

Con certe persone bisogna mantenere le distanze. Non è possibile

fare altrimenti. Il problema è che non sempre ce la si fa a

trattenersi dal cercare un contatto con chi è stato in grado di

appropriarsi di un angolino della nostra mente, e allora si

tirano fuori i pretesti più impensabili pur di avvicinarsi

all’altro per vedere, con i propri occhi, di che colore sono i suoi.

Poi arriva il giorno in cui quella persona -che, senza volerlo, ha

significato qualcosa per te- deve andar via e il suo allontanarsi

ti lascia dentro un vuoto destinato a restare tale, o tuttalpiù a

riempirsi di una straziante nostalgia, perché la certezza che

non tornerà è difficile da sopportare.

Che ragione avrebbe, dopotutto, di fare nuovamente irruzione

nella tua esistenza?

Non sa nulla del modo in cui è riuscita a scombussolarti,

neppure l’immagina!

E tu non glielo dirai mai; non glielo dirai perché non hai il

diritto di entrare nell’esistenza di una persona che conduce una

vita di cui tu non sai e non puoi sapere nulla.

Allora decidi di andare avanti in nome del rispetto: il rispetto

nei confronti dell’equilibrio emotivo di chi, senza neppure

rendersene conto, ti ha privato del tuo.

Il paradosso è che per ritrovare un equilibrio interiore avresti

bisogno proprio di quel contatto che non hai potuto avere e che

non hai alcun diritto di pretendere.

“Non fare all’altro ciò che l’altro non sa di aver fatto a te”, ti

dici; non solo perché l’altro potrebbe non desiderare che

qualcuno lo faccia sentire vivo attraverso la propria presenza

(quella è una cosa che piace a te e che oltretutto l’altro ha fatto

senza la benché minima consapevolezza!) ma soprattutto

perché, se solo sapesse che esisti, non ti lascerebbe a dimenarti in

un oceano di dubbi: dovrebbe almeno lanciarti un salvagente!

Ma da dove sei non si vede nulla, neppure una boa in

lontananza.

E allora, il contatto, cercalo con te stessa, Crystal. Guardati

dentro come solo tu sai fare e vai avanti.

3. ISTERIA COLLETTIVA

La cosa bella delle amiche è che, se ti perdi qualcosa, ci sono loro

a raccontarti tutto.

L’effetto collaterale dell’avere amiche piene di entusiasmo è che

riesci a fare figuracce persino quando sei assente!

Come se non bastassero le esclamazioni imbarazzanti fatte in

tua presenza, loro sanno andare oltre e fare o dire cose che

risultano ancora più imbarazzanti, proprio in virtù del fatto

che in quel momento tu non ci sei.

Un lunedì non troppo lontano da oggi, decisi di non uscire con

loro: almeno per quel giorno, volevo restare lontana dalla

dimensione irreale in cui la presenza di una particolare persona

riusciva a farmi sprofondare; volevo starmene a casa tranquilla

e sperimentare la distanza, l’assenza, l’anticipazione di quella

che sarebbe stata la costante dei giorni, delle settimane, dei mesi

a venire.

Dissi alle ragazze che quel giorno avrei sentito la loro

mancanza e loro fecero in modo che io potessi in un certo

senso recuperare l’assenza, registrando i loro commenti relativi

a tutto ciò che accadde nel corso di quella giornata.

Perché le tue amiche sono così: quando non ci sei, fanno come se

tu fossi lì con loro; parlano al registratore come se si trattasse

proprio di te e, così facendo, ti descrivono tutto: ciò che fanno gli

altri, come sono vestiti… ti dicono persino se tu stessa avresti

potuto apprezzare o meno la mise delle persone in questione!

Urlano a gran voce il tuo nome anche in tua assenza, dicendo

cose che non stanno né in cielo né in terra ma che dimorano

esclusivamente nel regno della loro sconfinata fantasia.

Sono adorabili, le tue amiche, perché sprizzano vitalità e in

qualche misura si appropriano dei tuoi sentimenti,

immedesimandosi in te e comportandosi come loro vorrebbero

che ci si comportasse nei loro confronti se fossero loro stesse a

trovarsi in quella situazione. Amplificano ciò che colgono nel

tuo sguardo o nel tono della tua voce, fino a farlo diventare

assoluto, scevro d’ogni altra componente che possa servire

d’aggancio alla vita reale. Ma lo fanno perché ti vogliono bene e

questo è sufficiente a far scivolare in secondo piano tutto il

resto.

E non si limitano a questo!

Se hanno sentore che tu possa avere un interesse nei confronti di

qualcuno, fanno ricerche e ti mandano sfilze di link con le foto, i

video e i contenuti più disparati che riescono a reperire

relativamente alla persona in questione; pescano da chissà dove

i numeri di telefono e gli indirizzi email che immaginano tu

possa volere, senza rendersi conto del fatto che non li utilizzerai

mai e poi mai! Loro però te li mandano, perché sono le tue

amiche. E tu le adori per questo!

Alla luce delle più disparate e imbarazzanti situazioni, a volte

mi capita di pensare che, se potessi tornare indietro, starei zitta:

mi terrei tutto dentro con la speranza quasi di renderlo non

vero perché intangibile, non vero quanto solo il non-detto sa

essere, non vero perché inadeguato al contesto; non confermerei

i loro sentori e, dissimulando qualsiasi parvenza emozionale,

negherei di aver mai provato ciò che loro mi hanno più volte

letto negli occhi e che ha dato il via a un delirio collettivo su

base isterica.

A volte l’ho pensato; puntualmente, però, mi è capitato di

ripensarci.

Il fatto è che, quando hai rischiato di non poter più vivere,

impari ad apprezzare così tanto le cose belle che provi, che senti

il bisogno di condividerle, come se ciò potesse renderle più reali;

condividerle per avvertirne meglio la presenza nella tua vita,

una vita che hai imparato ad amare, una vita che è ben lontana

dall’essere perfetta ma alla quale -adesso- sai che non

rinunceresti mai.

E allora scegli di vivere ogni momento con la semplicità insita

nel consentire alla tua spontaneità di venire a galla; condividi

con gli altri quello che sei perché, se disgraziatamente si dovesse

ripresentare il pericolo di non poter avere un domani, vuoi che

almeno dei tuoi ieri resti traccia: una traccia scritta, udita,

toccata… condivisa.

4. SCELTE

“Non possiamo tornare indietro, ecco perché è cosi difficile

scegliere. Devi fare la scelta giusta. Finché non scegli, tutto

resta possibile.”

Nemo (protagonista del film Mr.Nobody) è un bambino che deve

scegliere tra due genitori; è un ragazzo che deve scegliere tra

tre ragazze; è un anziano che deve raccontare la sua vita, ma…

quale?

Ha vissuto così tante vite che sarebbe impossibile ridurre la sua

esistenza a un unico racconto. Perché limitarsi a narrare ciò

che si è fatto, quando c’è la possibilità di dar voce a tutto ciò che

si sarebbe potuto fare?

Un perfetto esempio di vite non vissute -nel senso in cui

l’intendo io. Un continuo altalenare tra possibilità di scelta

alternative.

Cosa abbia scelto davvero Mr. Nobody, forse lo sa solamente lui.

Il punto è che le vite non vissute, in qualche misura, riescono a

prendere forma, se solo lo si desidera.

Possono rimanere confinate nel mondo segreto della propria

mente, modellate dai desideri ma incatenate dalla paura;

possono rimanere impresse su un foglio che renda accessibile

agli altri ciò che è nella mente del sognatore; possono rimanere

nella storia di una persona, se solo questa ha il coraggio di dare

espressione ai desideri che la animano.

È l’intensità del desiderio che fa la differenza tra una vita non

vissuta e una vita veramente “viva”.

A volte i dubbi sul da farsi sono troppi e quindi si sceglie

momentaneamente di non agire, riservandosi di pensarci meglio

prima di prendere qualsiasi decisione.

Si ha l’impressione di regalarsi un’illusione di onnipotenza

finché si resta immobili.

Ma quella di non scegliere non è essa stessa una scelta?

Una tra le più dolorose, probabilmente.

Non scegliere equivale a rivelare a se stessi di non essere in

grado di effettuare una valutazione adeguata e in virtù di ciò

ritirarsi nell’autistica aspettativa consolatoria che qualcosa

dovrà pur accadere…

E qualcosa accade, qualcosa accade sempre -se ne può star certi!

Ma ciò che accade potrebbe non piacere e a quel punto aver

confidato nella non-scelta, come soluzione alla rinuncia che lo

scegliere inevitabilmente comporta, potrebbe rivelarsi la

peggior scelta possibile.

5. RINNEGARE UN BISOGNO ANCESTRALE

Nel cortometraggio di Joaquin Baldwin, intitolato Placenta,

trova espressione il bisogno di annullarsi, diventando parte

integrante di un altro essere, un essere al quale affidarsi

completamente, con la certezza di essere accolti, nutriti,

protetti.

Chi è che, nel profondo, non lo desidera?

E invece bisogna andare avanti, rinnegando un bisogno

ancestrale e opponendosi ad esso muovendosi nella direzione

contraria, quella dell’autoaffermazione –la quale altro non è che

una velata illusione d’onnipotenza che, in ultima istanza, ci

consente di essere amati da noi stessi.

La verità è che non ci crediamo nel fatto che qualcuno possa

amarci davvero nel modo e nella misura che sentiamo di

meritare; non ci crediamo, anche se forse è questo il nostro

desiderio più profondo. E allora impariamo a fare da soli,

finendo non solo per privarci dell’affetto che ci viene offerto ma

anche per privare un’eventuale altra persona di tutto ciò che

potremmo darle, se solo avessimo la certezza che verrebbe

realmente apprezzato.

Dopotutto lo sappiamo quanto è difficile apprezzare ed essere

apprezzati autenticamente: l’apprezzamento presuppone in

qualche misura il riconoscimento della superiorità di un altro

rispetto a noi stessi, ma riuscire ad apprezzare qualcuno

diventa un’impresa di non poco conto quando si è troppo

impegnati nella ricerca dell’apprezzamento di se stessi –da

parte propria e da parte degli altri (nella misura in cui ciò va a

incidere positivamente sulla propria autovalutazione).

Forse solo chi sa accontentarsi di quello che è diventato (pur

ammettendo che la sua crescita non sia terminata né sia

destinata a vedere il proprio completamento in un futuro

prossimo) può accettare un altro; ma, in fin dei conti, lo accetta

per quello che è o per quello che potrebbe essere?

Probabilmente ciò che si accetta dell’altro sono le proprie

aspettative sull’altro.

Ma chi ci dà la garanzia che l’altro diventerà ciò che promette

di diventare? È già sufficientemente difficile scommettere su se

stessi!

E allora ci raggomitoliamo, chiudendoci progressivamente in

noi stessi ma stando bene attenti a mostrarci cordiali e fieri di

quel che siamo, perché è solo in un’apparenza di integrità

interiore e di equilibrata commistione con le vite degli altri che

ci si può davvero consentire di non regalare a nessuno un

prezioso spaccato sul proprio mondo interno.

Il massimo che si rischia è lasciarne intravedere un frammento

di tanto in tanto, magari confidando nel fatto che un eventuale

altro, un giorno, potrà sentirsi libero di fare altrettanto -

ammesso che per allora la nostra corazza non si sarà talmente

irrobustita da renderci ciechi agli altrui tentativi di apertura.

Ma se nel profondo arriviamo a rinnegare l’umano bisogno

dell’alterità, pur di non dare a nessuno il potere di deludere le

nostre aspettative, non stiamo ammettendo una devastante

fragilità piuttosto che affermando una presunt(uos)a

autonomia?

La solitudine dopotutto può essere una soluzione, ma è una

soluzione che a lungo andare inaridisce, svuotando l’esistenza

della parte migliore del suo significato.

6. SENZ’ANCORA

Ti accorgi di essere un’invasata quando le tue giornate

diventano un susseguirsi di tentativi di studio andati a vuoto

perché, a guardar bene, per ogni capitolo del libro che avresti

dovuto imparare, ne hai scritto uno di tuo pugno.

E non si tratta di riassunti finalizzati a facilitarti lo studio, è

proprio altro… è “roba tua”!

Ti accorgi di aver perso la testa quando cominci a credere che ci

siano argomenti fatti per essere travisati, deformati,

radicalmente rielaborati. Le parole asettiche che leggi si

ostinano ad assumere configurazioni inimmaginabili quando

dal foglio stampato trasmigrano nella tua mente.

È più forte di te: non ti ci sai opporre.

Ti sforzi di rimanere ancorata alla realtà, imponendoti il

perseguimento di un obiettivo concreto (obiettivo che d’altronde

non ti è nuovo, considerato che ormai il tuo libretto

universitario è infarcito di numeri e firme), eppure continui a

precipitare in una dimensione irreale a ogni argomento.

Tutto sembra farti tornare in mente cose che faresti bene a

tenere lontane dai tuoi pensieri.

Ti rendi conto di essere una persona incapace di arrendersi

all’oggettività e pertanto inderogabilmente confinata in un

mondo in cui tutto viene interpretato alla luce dei tuoi desideri.

Dopotutto non è male, però a volte avresti proprio bisogno di

qualcuno capace di tenerti con i piedi per terra, anzi, di stare

con i piedi a terra al tuo posto, ancorandoti indirettamente alla

realtà, tenendoti in questo mondo ma concedendoti allo stesso

tempo la possibilità di vivere le tue fantasie, vedendole

addirittura realizzate: qualcuno capace di assecondare tali

fantasie nella misura in cui possono conciliarsi con la realtà,

perché solo in questo modo alle persone come te è concesso di

essere pienamente se stesse.

In fin dei conti non hai mai avuto la pretesa di essere una

persona normale: nella tua vita procede tutto in modo così

inconsueto che sarebbe assurdo sperare in un appiattimento

verso una regolarità di qualche genere; eppure, qualche volta ti

piacerebbe sperimentare qualcosa di diverso dall’eccezione, che

ormai nella tua esistenza sembra essere diventata la regola. Solo

ogni tanto, però! Altrimenti la vita non sembrerebbe più tua.

E, volendola dire tutta, non è affatto male condurre la vita nel

modo in cui, da quando sei diventata padrona di te stessa, la

modelli: hai scritto tante storie e alla fine -che lo volessi o meno-

hai imparato a scrivere persino la tua!

Magari, sul finir dell’ennesima giornata, del libro che avresti

dovuto studiare non sai tutto quello che avresti voluto

imparare; però con quello che stai scrivendo sei andata avanti.

7. IN UN’ALTRA VITA

In un’altra vita tutto sarebbe diverso, eppure molte cose

rimarrebbero uguali… solo che forse sarebbe loro concessa una

maggiore possibilità di espressione.

In un’altra vita ci sarebbe una vita in un’altra: la sua nella tua.

Ma, nella realtà, di vita ti è concesso viverne una soltanto e, in

quella vita, la sua non c’è.

Per quanto possa fare ingiustificatamente male, questo va

accettato, perché non è in tuo potere fare altro che startene da

parte.

8. RICOMINCIARE DA ZERO

Quando hai perso tutti i capelli, riesci a comprendere

pienamente il senso dell’abusata espressione “Ricominciare da

zero”.

I capelli ricrescono, tu cresci e impari a “resettarti” con una

facilità che aumenta a ogni pressione sul tasto oblio della tua

provata memoria.

Puoi godere dell’illusione della dimenticanza: impari a vivere

“come se non fosse mai accaduto nulla”, eppure tu stessa sei il

risultato di tutte le tue esperienze, anche quando i ricordi non

fanno più parte della tua quotidianità; allo stesso modo in cui,

alla fine, i tuoi capelli tornano ad essere lunghi e di quella testa

bianca, guardandoti allo specchio, non vedi più nulla… ma poi ti

accorgi di aver preso il vizio di toccarteli, i capelli, perché

evidentemente uno strascico di ciò che accade resta sempre.

Nel tuo fare è insito qualcosa che ha origine da ciò che di te (o a

te) è stato fatto e che, in qualche misura, di te è diventato parte.

La forza che deriva dall’aver perso parti di te, intese proprio in

senso fisico e non semplicemente metaforico, e dall’averle poi

riottenute, assume delle proporzioni notevoli: sai che si

sopravvive, che si va oltre la sofferenza; sai di essere e di valere;

ti appropri di un’autoconsapevolezza senza pari (che, quando in

qualcuno suscita invidia, viene vista come presunzione piuttosto

che essere riconosciuta come qualità –ma, dopo gli incontri

ravvicinati con la fine, dell’opinione degli altri t’importa ben

poco!).

Puoi ricominciare da zero ogni volta che lo vuoi: mandare

all’aria percorsi universitari, relazioni durature, progetti di

una certa importanza…

Hai acquisito un tale grado di resilienza che sopravvivresti a

qualsiasi evento dal potenziale impatto psichico che dovesse

andare al di là della soglia di tolleranza di molte altre persone.

Come un manichino da crash test, ti ricomponi e vai avanti:

diventa quasi semplice; sai di poterti abituare –a tutto.

Le possibilità di scelta si moltiplicano poiché smetti di lasciarti

vincolare da quel che è stato per centrarti su ciò che potrebbe

essere, sulla base di ciò che è, anzi, di ciò che sei; ogni momento

potrebbe diventare un punto di partenza per qualcosa di nuovo,

per la costruzione di una nuova versione di te in cui i lasciti del

passato sono presenti ma non vincolanti.

E, se non hai vissuto una vita, puoi sempre viverne un’altra, o

provare a vivere quella che dapprima non t’era stata concessa;

se invece ne hai vissuta una che non ti andava bene, non sei più

tenuta a riprendertela: puoi sceglierne una diversa perché

ormai sai che, anche dopo aver perso tutto, puoi tornare ad

essere felice.

9. LE PAROLE SONO INERTI?

La creazione sembra nascere dall’imperfezione, -dice la

protagonista di “Waking life”- sembra venir fuori da uno sforzo

e dalla frustrazione, ed è così che secondo me è nato il

linguaggio.

Cioè: è derivato da un forte desiderio di trascendere il nostro

isolamento per comunicare in qualche modo gli uni con gli altri.

E probabilmente è stato facile, è stata una semplice questione di

sopravvivenza.

Per dire “acqua” abbiamo prodotto questo suono e per dire “c’è

una tigre dietro di te” abbiamo prodotto un altro suono.

Ma quello che davvero è interessante, secondo me, è il fatto che

noi usiamo lo stesso identico sistema di simboli per comunicare

tutti i fenomeni astratti e intangibili che si presentano nella

nostra vita.

Come si esprime la frustrazione?

Come si esprime la rabbia, o l’amore?

Quando dico la parola “amore”, il suono viene fuori dalla mia

bocca e colpisce l’orecchio dell’altra persona, viaggia attraverso

un intricato percorso che porta al cervello, attraverso i ricordi

d’amore o di mancanza d’amore e l’altra persona registra quello

che dico e dice di capire, ma io come faccio a saperlo?

Perché le parole sono inerti, sono simboli, sono morte. Capisci?

E una grandissima parte di tutta la nostra esperienza è

intangibile, gran parte di quello che percepiamo non può essere

espressa con le parole.

Eppure quando noi comunichiamo l’uno con l’altro e sentiamo di

avere stabilito un contatto e crediamo di essere stati capiti,

secondo me proviamo una sensazione quasi di comunione

spirituale ed è forse una sensazione transitoria ma è ciò per cui

viviamo.

“Due persone dicono reciprocamente Ti amo, o lo pensano, e

ciascuno vuol dire una cosa diversa, una vita diversa, perfino

forse un colore diverso o un aroma diverso, nella somma

astratta di impressioni che costituisce l’attività dell’anima.”

Scriveva, invece, Pessoa -e probabilmente aveva ragione.

Ma le parole non sono inerti.

Le parole hanno un potere che solo i gesti autentici sono in

grado di superare (quei gesti che non han bisogno di parole, che

lasciano senza parole, che danno senso alla ricerca dell’altro).

Ogni parola racchiude in se stessa un mondo, un mondo che però

può essere completamente diverso da un soggetto all’altro,

questo è vero…

La cosa bella è che, se due persone intendono cose diverse

quando pronunciano le stesse parole, hanno la possibilità di

usare centinaia d’altre parole per provare a spiegarsi

reciprocamente ciò che singolarmente intendono. Lo scambio di

significati arricchisce, inevitabilmente.

Il problema è che ci sono persone capaci di rimanere indifferenti

alle parole degli altri, indifferenti ai significati degli altri,

magari indifferenti anche a chissà quale e quanto grande parte

del proprio mondo interiore; si aggrappano al significato che

loro stesse danno alle parole e non sono disposte ad accettare che

la rappresentazione del mondo possa variare quando ci si mette

nella prospettiva di un’altra persona. La chiusura in se stessi

impoverisce, sempre.

E, dunque, non sono le parole ad essere inerti ma piuttosto le

persone.

Le vie della comprensione sono infinite; è l’intenzione di

comprendere che fa la differenza tra due differenti approcci

alla vita.

Cosa c’entrano esattamente le vite non vissute?

Provate a sintonizzarvi sulle frequenze di un altro essere

umano, uno a caso o quello che preferite; vi si schiuderà un

mondo…

10. SUBLIMAZIONE

A un certo punto s’impazzisce, evidentemente… S’impazzisce in

modo inconsapevole.

Tu stai avendo una normalissima conversazione virtuale con

una persona a cui parli del tuo criceto (per quanto possa essere

considerata normale una cosa simile) e in quel momento stai

davvero parlando del tuo animaletto, non hai in mente altro -

non a livello cosciente, almeno- ed esprimi serenamente il tuo

pensiero.

Poi però, a distanza di qualche ora, ti capita di rileggere le tue

parole e, sapendo a chi le hai scritte, ti si blocca il respiro perché

realizzi di aver tirato fuori qualcosa di cui, pur essendo

abbondantemente consapevole, non intendevi fare parola.

E c’è persino chi ha il coraggio di dire che Freud non aveva

ragione!

Certi episodi sono la dimostrazione lampante di quanto ciò che

uno s’impegna a non lasciar trapelare venga poi fuori nei modi

più disparati e quando meno ce lo si aspetta.

In un attimo ti rendi conto che la tristezza, attribuita al criceto,

è la tua e che il tuo chiederti se l’animaletto pensi a te

evidentemente nasconde il desiderio che a pensare a te sia

qualcun altro, una persona per la quale tu sostanzialmente

potresti anche non esistere (anzi, chissà che a qualche livello

quella persona non desideri davvero che tu sparisca –una buona

volta!).

Non è ammissibile che le tue conversazioni portino a galla una

parte tanto grande di te e allora forse ti conviene stare zitta.

D’altronde è quello che già stavi facendo.

Quando il “non ne parlo più con nessuno” sfocia nel “ciò che

reprimo salta fuori al momento meno opportuno” allora forse c’è

bisogno dell’unico compromesso possibile: la sublimazione coatta

attraverso tele, pennelli, acrilici, carta, penna e pastelli -senza

successiva condivisione.

E la vita che non vivi prende forma, in qualche modo… perché

non può essere altrimenti; perché, se così non fosse,

probabilmente impazziresti davvero; perché non puoi imporre

confini a ciò che ti vive dentro, che è parte di te, che sembra

dare senso al tuo stare al mondo.

11. NO, GRAZIE

Avete presente quando qualcuno si ostina a volervi offrire

qualcosa che non vi piace?

Quella persona sarà anche animata da mille buone intenzioni,

ma proprio non riuscite ad apprezzarla, nel suo soffocante

tentativo di proporvi una cosa che non vi va!

Mi fa venire in mente quei momenti in cui sto male e qualcuno

si ostina a chiedermi: “Che c’è?”.

Come posso condividere il modo in cui sto, se sento lo stomaco

devastato e ho la sensazione che due mani siano avvolte intorno

al mio collo, impedendomi di respirare?

Magari non è accaduto nulla, ma è il modo in cui io ho vissuto

quel “nulla” che mi fa sentire male.

E all’altra persona come lo spiego? Come rispondo al suo “Che

c’è?” e ai ripetuti inviti a parlarne?

Semplicemente, non ci riesco. E allora sto zitta.

A qualche livello, l’offerta di qualcosa che non si gradisce e

l’invito a dare qualcosa sono sullo stesso piano; ci sono momenti

in cui non vuoi tirar fuori nulla né mettere dentro alcunché: gli

scambi con l’esterno si bloccano perché quello che hai dentro -e

che non ti va affatto di mostrare- impedisce a qualsiasi altra

cosa di entrare.

E davanti a te c’è una persona che in qualche modo vuole

condividere, dandoti qualcosa o cercando di prendere qualcosa

da te.

Ma tu non vuoi, non puoi, non ce la fai! Vorresti solo che lei

rispettasse il tuo diritto alla solitudine e non ti costringesse a

chiederti cosa provi, perché non ti va di saperlo e men che meno

di esprimerlo.

Quella persona cerca di offrirti qualcosa di suo, fosse anche

solamente la comprensione del modo in cui tu ti senti; ma, per

poter ricevere la sua comprensione, dovresti prima riuscire a

lasciarle intravedere quello che ti porti dentro. Però non ti va,

non è il caso.

Lei è lì, che ti propone uno scambio. Insiste.

E tu le chiederesti: “Che senso ha continuare a offrire qualcosa a

qualcuno che non la vuole, a qualcuno che non saprebbe

apprezzarla?”

Poi lo chiedi anche a te stessa: “Che senso ha continuare a offrire

qualcosa a qualcuno che non la vuole, a qualcuno che non

saprebbe apprezzarla?”.

In quel momento cogli l’essenza del tuo star male; capisci.

Il malessere non passa, ma almeno lo conosci e sai che da quel

momento in avanti puoi provare a gestirlo. In silenzio, da sola.

Alla fine, guardi l’altra persona negli occhi e, in uno di quei

momenti di plateale autenticità che contraddistinguono il tuo

modo di stare al mondo, le dici: “Offrimi silenzio. Offrimi

distacco. Lasciami sprofondare dentro di me… Ti giuro che poi

risalirò, ma non adesso”.

12. AMOR PROPRIO

“Cry, cerca di ricordarti cosa è successo.” mi sono detta qualche

giorno fa “Quand’è che hai smesso di amarti? E -soprattutto-

perché? Come è potuto accadere?”

Mi facevo domande. Le risposte mi mancavano. Un filosofo se ne

sarebbe compiaciuto, ma a me quelle risposte servivano! Le

domande rappresentavano solo un mezzo per arrivarci, eppure

non erano sufficienti a oltrepassare il muro dell’oblio.

A un certo punto è arrivato l’insight: “Quando hai cominciato a

desiderare che fosse qualcun altro ad amarti.” eccola, la

risposta. “Hai delegato. Hai deciso di dare a qualcun altro il

potere di farti percepire il tuo valore. Quando dai un simile

potere a qualcuno, ti metti nella condizione di soffrire nel

momento in cui l’altro non svolge adeguatamente il ruolo che tu

gli hai assegnato.”

Se hai un minimo di amor proprio, quel potere lo togli alle

persone che non hanno saputo gestirlo, a quelle che ne hanno

abusato, a quelle troppo indaffarate per potersene fare carico;

in questo modo credi di aver fatto un gran bel passo avanti –e

obiettivamente è così… ma non è finita: c’è un ulteriore passo da

compiere; sembra banale, ma a volte ci si distrae e si lascia il

lavoro incompiuto. Accade quando quel potere te lo riprendi ma

poi, invece di riappropriartene pienamente, lo metti da parte,

forse in attesa di poterlo dare a qualcun altro… e resti in balia

del nulla, con un senso d’aspettativa non meglio definito, che ti

attanaglia e talvolta sembra trasformarsi in disperazione.

La soluzione è semplice: devi ricordarti dove l’hai messo; devi

rinvenirlo e ricominciare ad usarlo. Perché è tuo.

13. CAMPING (IN MY HEAD)

Un bel giorno qualcuno varca un portone, sale una lunga

gradinata di marmo, giunge in cima e si accampa nella tua

testa. Si piazza in un posticino e resta lì, non se ne va.

Dapprima il posto che occupa è piccolo, cerca di non disturbare

più del necessario; poi però comincia a fare come se fosse a casa

propria: evidentemente ci si trova bene, tra i tuoi pensieri.

Fa capolino al mattino, prima ancora che tu apra gli occhi,

comparendo in quei prodotti della mente che non sai se

appartengano ancora al sonno o già alla veglia.

Di sera lo ritrovi, soprattutto quando non riesci ad

addormentarti: vorresti riuscire a non pensare a nulla, ma il

campeggiatore è lì, ché ormai ha trovato il posto fisso!

Inutile dire che compare anche nei sogni, soprattutto quando di

giorno sei riuscita per miracolo a pensarci di meno oppure

quando ne hai avvertito la mancanza con una particolare

intensità. (E che vogliamo farci? Freud di assurdità ne avrà

dette tante, ma su certe cose aveva completamente ragione –che

lo si voglia ammettere o meno!)

Se le idee possono essere considerate alla stregua di parassiti, le

persone sono peggio!

Di un’idea puoi liberarti, di una persona no: per liberarti

dall’oppressione di un’idea puoi sceglierne un’altra o apportare

modifiche che rendano la prima diversa e quindi accettabile;

per liberarti dal pensiero di una persona, quella persona la devi

avere, non ci sono sostituzioni o modifiche che reggano.

Il punto è che… No. No e basta.

Quando ai tuoi occhi non ci sono ragioni che giustifichino un

NO, quel “no” diventa come il divieto di una figura genitoriale

incapace di spiegare al bambino per quale ragione la sua

sofferenza non può avere termine.

E allora No. No e basta!

Passano delle settimane e tu continui a ripeterti che ci vuole

tempo; ti ripeti che ci vorrà del tempo ma alla fine passerà –se

non altro perché l’esame di realtà deve per forza di cose farti

abbandonare l’idea palesemente unilaterale che ti vede “felice in

compagnia di”.

Le settimane si cumulano, passano i mesi, ma il campeggiatore è

ancora lì: si è organizzato alla grande!

Ormai ha le sue abitudini, sta bene e si tiene in forma: fa

trekking tra i tuoi progetti per il futuro e numerose gite in

canoa lungo il fiume della tua fantasia. Ora che è estate gli

piace anche sguazzare e giocare a palla nel mare d’angoscia che

ti si è formato dentro, un mare la cui profondità aumenta al

crescere del numero di giorni che l’invadente ospite trascorre

nella tua testa, giorni che si susseguono con una lentezza

allucinante perché a un certo livello sono vuoti: se quello che

cerchi è solo nella tua testa, avvertire il vuoto è inevitabile.

Ma… Tant’è! L’unica cosa che puoi dirti è: No. No e basta!

E alla fine ti ritrovi a sperare che il tempo passi più in fretta

possibile, perché pare che certi mali si estinguano da soli nel giro

di un triennio; e allora aspetti…

“Accada quello che può accadere, il tempo e l’ora fuggono

attraverso il più triste dei giorni.” ti ricorda Shakespeare.

14. ILLUSIONE

È più intenso il sollievo dato dalla fantasia o il tormento che

accompagna il pensiero che ciò che accade nella propria mente

non prenderà mai vita, ma resterà segregato per sempre entro i

confini di una “vita non vissuta”?

L’illusione dà sollievo ma allo stesso tempo alimenta la

sofferenza poiché è accompagnata dalla consapevolezza del suo

essere effimera: l’illusione è un palliativo, non una cura; anzi:

l’illusione è la malattia, una malattia dell’anima, che si strazia

per la mancanza di ciò che desidera ma non può avere e usa

l’immaginazione come strumento per ottenere un surrogato di

ciò che irragionevolmente vuole.

La cura è “ciò che non si può avere” e l’anima rischia di

implodere sotto la pressione delle forze razionali che tentano di

soffocarne le manifestazioni spontanee.

15. È LA VITA?

Quanto può arrivare a essere ingiusta una vita, quando hai

fatto il possibile per tenertela stretta e poi, in alcuni dei suoi

aspetti, non riesci a renderla come vorresti, pur non essendo di

ciò in alcun modo responsabile?

Quando qualcosa va diversamente dal modo in cui vorresti, ti

dicono: “È la vita”.

No! -dici tu- Questa è solo UNA delle vite possibili.

Perché uno dovrebbe limitarsi ad accettare qualcosa che non gli

sta bene, consolandosi con il pensiero che “potrebbe andare

peggio”?

A volte la felicità bisogna pretenderla.

Vivere non è solo “adattarsi” a quel che accade, per cercare di

andare avanti; quello è sopravvivere!

Vivere è “costruire”, lasciandosi ispirare da quella vocina

interna che troppo spesso viene messa a tacere in nome del

rispetto di convenzioni di dubbio valore intrinseco.

16. SGUARDI VUOTI

Camminando per strada speri di poterlo incrociare, inchiodare

per un attimo gli occhi nei suoi per capire se, nel momento in

cui lui percepisce la tua presenza, compare in quegli occhi

qualcosa che un istante prima non c’era…

Ma poi pensi a quanto tu per prima sia diventata brava a

dissimulare le tue emozioni e allora consapevolizzi che anche ciò

che cogli nello sguardo altrui possa essere il frutto di un lungo

lavoro di auto-contenimento.

A quel punto, persino incrociare lo sguardo di una persona che

per te è importante può ridursi a un’esperienza di scarso valore,

se non nella misura in cui -a prescindere da ciò che lasci

trapelare- l’incontro con quegli occhi ti sconquassa, riuscendo a

dare un senso alla smania con cui li avevi cercati.

Ma riguarda te, il tuo privato; e nessuno lo saprà mai.

17. RIMANDARE LA GRATIFICAZIONE

Ho sempre sostenuto -e dubito che potrò un giorno cambiare

idea- che dietro la gran parte del malessere che pervade la vita

delle persone ci sia un bisogno di calore umano non

adeguatamente soddisfatto.

Uno psicoterapeuta ti direbbe che il calore umano puoi cercarlo

in qualsiasi persona; la tua “malattia” implora che a dartelo sia

un singolo essere umano.

Tu annuisci al terapeuta, perché sai che ha perfettamente

ragione, ma continui a tenerti stretta la malattia, pur senza

darlo a vedere, e ti dici che puoi continuare a “rimandare la

gratificazione”; l’unico problema è che le persone come te, a

forza di rimandarla… la gratificazione finiscono per negarsela!

18. VITE NON VISSUTE APPIENO

Ci sono cose che, più che a una vita “non vissuta”, mi fanno

pensare a una vita “non vissuta appieno”.

Come dormire da soli.

O guardare un film su un divano vuoto.

O tornare a casa di sera e non trovare qualcuno che aspetta.

O uscire di casa al mattino senza salutare nessuno.

Svegliarsi di notte e non potersi sentire rassicurati da una

presenza che dia calore.

Cercare un abbraccio e doverlo trovare in un piumone.

Poggiare la testa sul cuscino invece che su una spalla.

Aver bisogno di parlare e doversi accontentare di scrivere.

In questa casa c’è bisogno di un peluche… uno di quelli enormi!

19. CI SI ASPETTA E ALLA FINE CI SI TROVA

Ci si aspetta e alla fine ci si trova.

Ma forse all’inizio non ci si riconosce, perché i leciti dubbi e la

più che giustificata paura offuscano la vista.

Per cui, anche dopo essersi aspettati tanto, e forse trovati, non

ci si rassegna all’idea che qualcosa di bello sia potuto accadere.

E allora si prova a cercare altrove, ma per qualche ragione il

pensiero torna all’origine: a quello sguardo, a quel viso, alle

sensazioni che si dipanano a partire dalla mente, attraverso

tutto il corpo, al solo pensiero di quella persona, della quale

lecitamente si dubita e che più che giustificatamente si teme –

perché chissà che col tempo non si riveli come tutte le altre…

Ci si aspetta e alla fine ci si trova.

O forse no…

Ma nel frattempo è bello credere che possa essere così.

- Se saprai starmi vicino – P.Neruda - Se saprai starmi vicino,

e potremo essere diversi,

se il sole illuminerà entrambi

senza che le nostre ombre si sovrappongano,

se riusciremo ad essere "noi" in mezzo al mondo

e insieme al mondo, piangere, ridere, vivere.

Se ogni giorno sarà scoprire quello che siamo

e non il ricordo di come eravamo,

se sapremo darci l'un l'altro

senza sapere chi sarà il primo e chi l'ultimo

se il tuo corpo canterà con il mio perché insieme è gioia...

Allora sarà amore

e non sarà stato vano aspettarsi tanto.

20. IL SILENZIO

Eh no, oggi non vi propongo un “macchiato”; stavolta si tratta

di un “affogato al caffè”!

Il silenzio è qualcosa a me troppo caro per poter essere liquidato

in poche righe: se è vero che adoro le parole, altrettanto vero è

che amo il silenzio. Amo soprattutto condividere il silenzio.

Ma procediamo per gradi…

Spesso le persone si lamentano di avvertire disagio quando sono

in silenzio; a me questa cosa capita di rado.

Per come la vedo io, non è il silenzio che mette a disagio; sono le

chiacchiere inutili, quelle che servono solo a riempire l’aria e a

dare l’illusione di uno scambio, sono quelle lì, che ti fanno

provare il vero disagio esistenziale!

Lo avverti quando sei con gente nuova o quando ritrovi persone

con cui ti rendi conto di avere in comune, ormai,

esclusivamente il passato: il vuoto delle parole può essere

asfissiante!

Si dicono cose… cose inutili, cose di cui non importa nulla a

nessuno, cose che servono solo a rendere socialmente accettabile

la noia che si prova, mascherandola con un’apparente, forzata

cordialità.

Le parole vuote rendono evidente un disagio di fondo, sono esse

stesse un tentativo di coprire il disagio che nasce dall’incapacità

di stare insieme all’altro autenticamente.

La complicità si stabilisce nella condivisione dei pensieri

reciproci e degli interessi comuni, ma raggiunge il suo culmine

nel momento in cui riguarda il semplice esserci. Lo stare lì,

insieme… e starci bene.

Ho sempre pensato (anzi, l’ho sentito) che le persone giuste,

quelle con cui è veramente bello stare, siano quelle capaci di

condividere con me il silenzio. Non si tratta di risolvere il

problema dell’incomunicabilità non comunicando, è tutt’altro!

Si riesce a stare in silenzio solamente quando si ha la certezza di

essere in grado di esprimere adeguatamente i propri bisogni e

desideri. La necessità di parlare, parlare e ancora parlare nasce

nel momento in cui si ha l’impressione che l’altro non capisca: è

con le persone ottuse che diventa necessario dare spiegazioni.

Se chi abbiamo intorno prestasse davvero attenzione a noi, la

necessità di ricorrere alle parole calerebbe vertiginosamente. E,

se noi stessi sapessimo comunicare i nostri bisogni in modo

efficace, probabilmente sapremmo limitarci a dire quel poco che

basta per farli presenti all’altro.

Quando c’è un surplus di parole, evidentemente a monte c’è un

deficit di comprensione.

Eppure, prima di poter arrivare a condividere il silenzio, è

necessario che ci sia dell’altro…

Io credo che tra due persone “funzioni” non quando queste

passano dal silenzio pesante alla conversazione leggera (come

accade di solito, con una certa soddisfazione delle parti in

causa) bensì quando sono capaci di partire da una

conversazione profonda per poi arrivare a conoscersi talmente

bene da aver bisogno di dire poco o nulla.

Sprofonderò nel silenzio per qualche giorno, per poi scriverne

ancora, da una prospettiva più intima e meno astratta, più

squisitamente narrativa.

21. MI PIACI QUANDO TACI

Avete presente quel bisogno di comunicare che sentite dentro

quando davanti a voi c’è una persona in particolare? …quella

voglia di interagire con quella persona, con lei e nessun’altra?

…il desiderio di dare a lei e solo a lei qualcosa di voi, perché in

fondo vorreste poter avere il privilegio di ricevere in cambio

qualcosa da parte sua, fosse anche un semplice sguardo?

Non è necessario dare un nome a ciò che vi spinge verso di lei,

sapete solo che è forte, che non vi ci sapete opporre, che tentare

di ignorare quel che provate è una sofferenza ancora maggiore

dell’ammetterlo con voi stessi ma non poterglielo comunicare.

Riprendendo il discorso sul silenzio, volevo soffermarmi su

quanto una stessa persona possa riuscire a smuovere in un’altra

il bisogno di comunicare, insieme a quello di condividere il

silenzio.

Da circa otto mesi nella mia vita c’è una persona; no, in realtà

non c’è.

Esiste una persona che non è esattamente “nella mia vita”;

sostanzialmente è “nella mia testa”.

Non sono schizofrenica: esiste davvero, la vedono anche gli

altri; diciamo che, in un certo senso, è lei che non vede me.

Tempo fa scrissi che le persone hanno dei ruoli e che questi ruoli

vanno rispettati; ecco: diciamo che riveste un ruolo che non è

neanche lontanamente paragonabile a quello che io vorrei lei

rivestisse nella mia vita. Ma l’importante, per me, è che ci sia.

L’immagine che mi viene in mente è quella di un diabetico che,

pur non potendo usare lo zucchero, mette delle zollette in un

vasetto di vetro e le guarda… Sa di non poter godere del loro

sapore ma si accontenta di contemplarle.

È una di quelle persone (non il diabetico, la persona di cui

dicevo prima!) a cui in un attimo potrei raccontare tutto della

mia vita solamente perché, prepotentemente, una parte di me

vorrebbe che fosse lei ad aprirsi; una persona -l’unica, a dire il

vero- che, nel momento in cui è presente, mi fa dimenticare che

esiste il resto del mondo; la persona a cui penso di continuo,

anche quando non c’entra, anche quando la sua presenza nella

mia mente è palesemente inopportuna.

“Otto mesi” ho scritto prima. A otto mesi i bambini acquisiscono

il senso di permanenza dell’oggetto, cioè comprendono che le

persone e gli oggetti che vedono continuano ad esistere anche

quando sono al di fuori del loro campo visivo. Questa è una cosa

normale. Forse non è altrettanto normale il fatto che un essere

umano continui a restare nella tua testa, a permanere nel tuo

immaginario con una tale insistenza…

Ecco, quando penso a qualcuno con cui potrei beatamente

condividere il silenzio, è questo particolare essere umano che mi

viene in mente; lo stesso a cui penso quando mi invade la voglia

di “esternare”.

Non so come ci riesca (probabilmente non si cura minimamente

di provocare tale effetto, così come è più che plausibile che non

gli interessi né indurlo né fare qualcosa per evitare di

provocarlo) ma mi mette in contatto con la mia ambivalenza:

attiva, insieme, la mia parte logorroica e quella taciturna; le

mette in subbuglio. Mi scombussola.

Gli direi tutto, veramente qualsiasi cosa… Ma allo stesso tempo

potrei trascorrerci insieme ore e ore nel più profondo silenzio,

perché è bello semplicemente stargli accanto.

Ricordo ancora nitidamente la prima volta che sono stata in

piedi accanto a lui. La ricordo perché me la sono andata a

cercare.

Era fermo, non diceva nulla; un attimo prima stava correndo

verso chissà dove poi, incrociandolo, gli avevo chiesto di

fermarsi per mostrargli una cosa e lui si era fermato. Guardava

quello che gli avevo dato, non me. E forse non vedeva l’ora di

andarsene.

Ma in quel momento era lì, in silenzio. Era lì e c’ero anch’io. Ero

lì e c’era anche lui. C’eravamo. L’esserci non rende forse il senso

dell’esistenza? E l’esistenza non cresce in completezza quando

due esseri ci sono contemporaneamente?

Una parte di me, in quel momento, sentiva -impellente- il

bisogno di interagire; ad un’altra, invece, non importava che ciò

che stava avvenendo non corrispondesse a quello che io

desideravo profondamente.

In effetti, in quel momento, mi bastava che lui ci fosse; sentire la

sua presenza, sapere com’era stargli accanto e rendermi conto

che in quel frangente non ero in un altro posto a pensare a lui,

come sempre più spesso mi era capitato nel corso delle

precedenti settimane, ma a pochi centimetri dalla sua intera

persona: tutto ciò era sufficiente a farmi stare bene.

Dopo un primissimo impatto, i miei valori fisiologici stavano

tornando a posto; avrebbe potuto scombussolarmeli in qualsiasi

momento, con una frase, con un gesto, con uno sguardo, ma non

l’avrebbe fatto. Paradossalmente, il fatto stesso che lui fosse lì

serviva in quel momento da panacea per i miei sensi; non avevo

bisogno d’altro. Mi tranquillizzava averlo accanto, mi sentivo

quasi al sicuro, se non altro perché lui non mi avrebbe mai dato

modo di far venire fuori, in una simile circostanza, ciò che lui

stesso mi smuoveva dentro: aveva il controllo della situazione,

in qualche misura aveva il controllo su di me. E poi non dovevo

preoccuparmi di chiedermi dove e con chi fosse: era lì, con me.

Non mi guardava e forse era persino infastidito dal mio

sguardo, che non riusciva a trattenersi dall’accarezzargli il

viso; forse quanto io a qualche livello ero infastidita dal fatto

che lui non stesse facendo altrettanto con il mio.

E poi… niente, poco dopo andò via; chiaramente aveva da fare.

C’è e ci sarà sempre qualcosa più importante di te, per gli altri.

Questo è un principio universale, bisognerebbe farselo incidere a

fuoco sulla fronte, al contrario, per poterlo leggere all’inizio di

ogni giornata, quando si va in bagno per fare pipì e, che lo si

voglia o no, si è costretti a guardarsi allo specchio.

Alla luce dell’esame di realtà che mio malgrado ho dovuto fare,

quella persona la si potrebbe descrivere come una di quelle a cui

forse di te non importerà mai niente, ma che hanno il potere di

farti sentire la vita che fluisce dentro di te, pur non degnandosi

d’interessarsi all’immenso che vorresti condividere con loro.

Una di quelle persone -l’unica, per me- con cui senti il bisogno di

avere a che fare in qualche modo, in qualsiasi modo…

Vorresti annullare completamente le distanze eppure, quando

ne hai l’opportunità, riesci a farti bastare l’essenziale: la sua

presenza –che ha valore non in quanto presenza ma

esclusivamente in quanto sua.

- Mi piaci quado taci – Pablo Neruda -

Mi piaci quando taci perché sei come assente,

e mi ascolti da lungi e la mia voce non ti tocca.

Sembra che gli occhi ti sian volati via

e che un bacio ti abbia chiuso la bocca.

Poiché tutte le cose son piene della mia anima

emergi dalle cose, piene dell’anima mia.

Farfalla di sogno, rassomigli alla mia anima,

e rassomigli alla parola malinconia.

Mi piaci quando taci e sei come distante.

E stai come lamentandoti, farfalla che tuba.

E mi ascolti da lungi, e la mia voce non ti raggiunge:

lascia che io taccia col tuo silenzio.

Lascia che ti parli pure col tuo silenzio

chiaro come una lampada, semplice come un anello.

Sei come la notte, silenziosa e costellata.

Il tuo silenzio è di stella, così lontano e semplice.

Mi piaci quando taci perché sei come assente.

Distante e dolorosa come se fossi morta.

Allora una parola, un sorriso bastano.

E son felice, felice che non sia così.

22. FINALE (a scelta multipla)

Trattandosi di una vita non vissuta, ho ritenuto opportuno dare

alla mia Crystal la possibilità di esprimersi liberamente,

spingendosi a fantasticare su più fronti perché -come mi piace

ribadire- la vita uno se la crea un po’ come vuole…

Inizialmente avevo scritto che “Frammenti di una vita non

vissuta” era un diario e i diari -si sa- hanno un numero di

pagine limitato.

Ciò non implica che chi scrive, nel momento in cui le pagine si

esauriscono, smetta di provare ciò a cui ha dato espressione, ma

solamente che tra quelle pagine il suo vissuto interiore non può

più trovare spazio.

A volte, dopo aver terminato un diario, se ne comincia un altro.

Altre volte, si può consentire a ciò che ci anima di “vivere”

assumendo forme diverse, forme che non siano più, sempre e

necessariamente, quelle della parola scritta.

Altre volte ancora, semplicemente, bisogna cercare di prendere

le distanze da “qualcosa” poiché è necessario che quella cosa stia

in stand-by, se non si vuol rischiare che vada a interferire con

ciò che in un dato momento, per forza di cose, assume la

priorità.

Ogni personaggio ha la sua storia, con il suo inizio, il suo

svolgimento e il suo finale.

Qui di finali ce ne sono tre, ma ognuno di essi lascia spazio a un

seguito. Ognuno di essi si presta a configurarsi come la chiusura

di un capitolo del libro della vita della protagonista, a cui

potrebbe seguire un altro simile, che prenda le mosse da ciò che

ha alimentato la stesura di quello già scritto, oppure

completamente diverso.

Purtroppo non sempre il personaggio di una storia è l’artefice

esclusivo del proprio destino, ma in ogni caso può fare tutto quel

che è in suo potere per tentare di far sì che il suo futuro si

avvicini a quello che ha immaginato, a quello che desidera e che

–se realizzato- potrebbe addirittura spingersi ben oltre i confini

della sua immaginazione, perché la vita vera spesso sa essere

persino meglio di quella costruita tra le mura della propria

mente.

Finale 1 – Un nome, una condanna

Mi hanno dato questo nome strano: Crystal. In greco significa

“ghiaccio”. Se lo abbrevi, diventa Cry, che in inglese significa

“pianto”.

Di me hanno scritto: “Ben lontana dall’essere glaciale, Crystal è

trasparente come il cristallo: non sa nascondere ciò che prova -

di certo non a se stessa! E, per quanto riguarda il ghiaccio, forse

ciò che Crystal è davvero capace di fare è riuscire a

scioglierlo…”

Avevano ragione, ce l’avevano eccome!

Il punto è che, nello scenario attuale, l’unica lastra di ghiaccio di

cui avverto la presenza è quella che s’interpone tra me e ciò che

provo.

Non voglio nasconderlo a me stessa -non potrei mai- ma non

voglio toccarlo… quindi è “lì” che deve restare quello che sento:

distante da me. Posso vederlo, so dov’è, so cos’è… ma non posso

consentirmi di sprofondarci dentro, non adesso.

Una sola lacrima, con il suo calore, perforerebbe questa lastra

glaciale e allora io rientrerei in contatto con quello che c’è

dall’altra parte…

Non fraintendetemi, è stupendo quello che c’è “dall’altra parte”

(quell’altra parte che mi porto dentro), ma non può essere

accolto pienamente per via di una sua sostanziale

incompatibilità con lo stato delle cose; e allora è meglio lasciarlo

lì dov’è… perché, se non si può godere appieno di qualcosa di

bello, probabilmente è meglio evitarlo completamente.

Finale 2 – Godere di quella che qualcuno chiamerebbe

“follia”

Hanno scritto di me che sono trasparente come il cristallo, che

non so nascondere ciò che provo. Ed è vero.

Sto male quando mi sforzo di non essere “me”, di dissimulare

quello che provo, di allontanare da me ciò che in fondo desidero

solo perché “non dovrei”.

Ci insegnano che rinunciare alla felicità ci nobilita, ma una vita

veramente degna di essere vissuta è quella in cui si accetta di

correre il rischio di far incontrare le proprie aspirazioni e la

realtà; è un rischio perché si può fallire, è un rischio perché non

sempre puoi essere l’unico artefice dell’evolversi della tua

esistenza: ti devi confrontare con il resto del mondo.

L’esito, spesso, dipende dallo spirito con cui si affrontano le

situazioni.

Essere trasparenti come il cristallo ripaga, soprattutto quando

lo si è nella vita vera, nel contatto diretto con le persone e con se

stessi.

Il ghiaccio lo puoi sciogliere toccandolo con le mani, anche se

facendo ciò rischi di congelartele…

Ma il calore te lo porti dentro, quali che siano le condizioni

esterne; e allora resta te stesso, senza trasformare ciò che provi

in qualcosa di diverso -poiché di quella che qualcuno potrebbe

chiamare follia puoi persino arrivare a godere.

Finale 3 – Farfalla morta su cuore di pietra

Non ci sarebbe nulla da aggiungere; l’immagine è eloquente e il

titolo offre un’importante precisazione: la farfalla è morta.

Ognuno è libero di scegliere di cosa nutrirsi e quindi, in un certo

senso, anche da cosa farsi uccidere.

A volte si chiede ciò di cui si ha bisogno a qualcuno che non

vuole o non può donarlo e così si finisce per spegnersi poco a

poco, logorati dal senso di mancanza.

Ci si lascia distruggere dal “nulla”.

Ma questo non vuole essere un finale tragico.

A volte ci si lascia distruggere dal “nulla”, è vero… Lo si può

fare una volta; lo si può fare anche due volte, persino tre! Ma

poi s’impara: si impara che le vite non vissute, quelle non

vissute appieno e quelle vissute diversamente da come si

vorrebbe sono solo alcune tra le alternative; a un certo punto il

desiderio di vivere pienamente l’unica vita che si ha prende il

sopravvento.

Pertanto, quando ci si accorge che il nulla sta risucchiando via

la propria vitalità, si raccolgono le forze restanti e si vola via

(qualunque cosa questo possa voler dire), portando con sé la

propria esperienza -reale o immaginaria che sia stata- e

traendone ciò che di buono può derivarne.

E si va avanti, in un modo o nell’altro. Si va avanti per forza di

cose: indietro non ci è concesso tornare. Si va avanti perché solo

muovendosi verso il futuro si potrà scoprire cosa accadrà -e

tutto potrebbe essere immensamente diverso da come lo si era

pensato, sperato o sognato.

L’AUTRICE: Claudia Del Prete Da Gennaio 1987 occupa un posto nel mondo. Un posto qualsiasi, purché sia tranquillo: se ne sta in un angolino (o a un tavolino, o rannicchiata su scale e muretti, o distesa a pancia in giù sulle superfici che lo consentono) e scrive. A volte, nello stato di quiete che precede il sonno, viene folgorata da idee che le sembrano geniali e allora si alza, per imprimerle su carta –o addirittura per realizzarle, quando possibile! Questo è stato il punto da cui è partita per strutturare la tesi di laurea (in Psicologia) che si accinge a scrivere. A forza di scrivere, è riuscita a veder pubblicato qualche suo lavoro: i racconti “Il sollievo dell’isolamento”, “Il treno mi culla” e la poesia “Cemento nelle vene” in diverse antologie edite da SensoInverso; i racconti singoli, in formato ebook, “Al frantoio”,“L’uomo della cattedrale”, “L’equilibrio instabile”, “Il cuore del mio amato” e “Elena Ingarbigliaparole” per Zerounoundici; il romanzo “Sfumature ingannevoli”, edito da Ateneapoli, che nel 2012 le è valso il 1° posto al Concorso Inchiostro Digitale organizzato dall’Università degli Studi di Napoli Federico II. Scrive, inoltre, sulla pagina Facebook “Testanuda”. Collabora con Caffè News Magazine da Giugno 2012; attualmente è coordinatrice della sezione Avanguardie. È Counselor, di formazione ASPIC.