Una settimana vissuta pericolosamente

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Umberto D'Agostino, giallo. Sullo sfondo di una Roma livida e grigia, piegata su se stessa da malavita e corruzione politica, cinque personaggi raccontano in prima persona la loro settimana vissuta pericolosamente. Fra killer di prostitute, Ministri dal curriculum imbarazzante, poliziotti costretti a fare i conti con il marcio anche al loro interno, giornalisti ridotti a buche delle lettere e megafoni del potere. Le loro storie si incrociano in una sequenza incalzante di colpi di scena, sangue, sesso, amore e morte. Una rappresentazione grottesca della legge della giungla, una giostra di pesci grossi che mangiano pesci piccoli e vengono a loro volta mangiati da quelli più grandi. Nella certezza che non ci sarà un mondo migliore. Non ora, non qui.

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In uscita il 27/2/2015 (15,50 euro)

Versione ebook in uscita tra fine febbraio e inizio marzo 2015

(5,49 euro)

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UMBERTO D'AGOSTINO

Una settimana vissuta pericolosamente

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UNA SETTIMANA VISSUTA PERICOLOSAMENTE Copyright © 2014 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-865-7 Copertina: immagine di Francesco Benvenuti

Prima edizione Febbraio 2015 Stampato da

Logo srl Borgoricco – Padova

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MARTEDÌ

“Una settimana, un giorno, solamente un'ora a volte vale una vita intera”.

Edoardo Bennato – “Una settimana un giorno”

“Appartengo alla generazione vuota, ma ogni volta posso scegliere di prendere o lasciare”.

Richard Hell – “Blank Generation”

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1. IL KILLER Braccato. Ecco cosa so'. Hanno scoperto tutto nonostante m’avessero sempre assicurato che quelle armi erano “pulite”. 'Sto cazzo, pulite. Sanno chi so’ e anche da dove vengo e nun ce metteranno molto a trovamme, perché ho ammazzato du' sbirri de merda come loro e stavolta nun me la faranno passa’ liscia. Ma so' dei bastardi schifosi e ho una gran voglia di stenderne un po’ prima che me pijano. Pensano che me manchi er coraggio? Nun hanno capito chi è Flavio Pignataro. Io so’ un mostro, er mostro, e come tale so’ stato usato pe’ anni da quelle merde de politici. Quanta gente ho menato e fatto fuori per conto loro? E ora, solo per due mignotte del cazzo me devono da’ la caccia? Che ce stanno a fà le troie se nun le poi strapazza' un po’? Come facevamo in Somalia quando infilavamo le granate nella fica delle negre, quello sì che era divertimento. Poi un coglione ha scattato le foto, l'ha passate a un giornale e da lì so' cominciati li guai. Me fanno schifo le zoccole, nun me se drizza nemmeno con loro se non posso picchiarle, perché… perché sì, cazzo. Di solito ce stanno, magari tocca allunga' un venti trenta euro in più e abbozzano. Invece quella grandissima puttana de moldava ha cominciato a strillà e m'è toccato zittilla. Poi è arrivata la volante con quei due servi in divisa che m’hanno intimato l’alt. Beh, ora non lo intimeranno più a nessuno. Froci. E incapaci. Nun so' riusciti a spara' neanche un colpo prima de crepa' come i cani che erano. Ma io dico, che cazzo je insegnano alla scuola degli sbirri a ‘sti coglioni? Ecco perché poi i politicanti vengono a cerca’ noi, ex militari addestrati a esse’ omini, no’ quella sbirraglia de mezze seghe. Chissà se servirebbe a quarcosa fa' i nomi dei pupazzi in camicia verde pe' i quali ho fatto la guardia del corpo pe' anni, o quello del ministro Graziani che j'ho salvato er culo nun se sa più quante volte. Come quando lo beccarono due fotografi insieme a un trans, che era d’accordo con loro. Le botte che j'ho dato. Quer frocio s’è ritrovato col culo più aperto che mai e quei due avranno cambiato mestiere pe’ la paura. Pe' nun parla' de quanno m'hanno fatto ammazza' quell’artra mignotta che lavorava sull’Aurelia, la cecoslovacca lì, solo perché avevano paura

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che raccontasse delle volte che era stata a casa del Presidente. Bum, un colpo di pistola alla testa e poi un bello sfregio stile maniaco. Un lavoretto da professionista e nun me l'hanno manco pagato. E quelle du' rumene sgozzate in un albergo vicino alla Stazione? Quei cojoni de carabinieri hanno subito pensato a un regolamento di conti. E in fondo lo era. Una puttana è una puttana, nun se pò mette a fa' la furba e nun paga' un chilo e mezzo de coca ai camerati. E adesso so' io er mostro, solo perché me so' fatto prende' un po’ la mano e ho eliminato qualche altro rifiuto della società, mentre gli amici di un tempo so’ finiti in qualche ufficio del Comune. Froci. Ecco cosa so', loro e quella merda de rinnegato de sindaco. Froci e amici de froci. Intanto se nun fosse per il mio vecchio camerata che m’ha lasciato le chiavi della casa de Fregene, adesso nun saprei manco più dove nisconneme. Ormai saranno passati da casa mia pe' portasse via tutto. Peccato per quer bel kalashnikov. Del resto, me frega cazzi. Ma quello mi sarebbe servito, perché quanto è vera la madonna a ‘sto giro faccio 'na carneficina. E invece so' rimasto con due Beretta 6.35 e la Glock. Anche se c'ho parecchie scatole de colpi. Però prima de tutto devo procuramme la robba, che così nun ragiono mica. Devo da esse concentrato, ce vole subito un po’ de bamba, come dicono quei merdosi de’ milanesi.

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2. PAOLA Quel momento di debolezza l’ho pagato caro. Lui mi aveva fatto pena, mi aveva corteggiata in modo elegante per così tanto tempo che respingerlo mi era sembrato un vero schiaffo alla miseria. Biglietti, fiori a casa, sorrisi dolci e accattivanti. Non poteva bastargli semplicemente un no, aveva il diritto a una spiegazione. E così ho deciso di dirglielo, in un impeto di sincerità che ora francamente maledico. Sono stata una stupida, ma proprio non potevo immaginare che dietro quella faccetta d’angelo si nascondesse un fottuto maschilista omofobo. Oddio, detta così sembra un po’ troppo, però alla fine per colpa della mia stronzaggine, e della sua, ne sono successi di casini. Eh già. Avevo accettato di uscire con lui per una birra, avevamo parlato e scherzato come se ci conoscessimo da anni, mi ero sentita straordinariamente bene e poi, all’improvviso… ho fatto la cazzata. «Sto proprio bene con te, Luca… però…» «Ecco… lo sapevo che c’era un però» ha subito interrotto lui con l’aria triste. Un cagnolino bastonato. «Non è colpa tua. Sono io. Non mi piacciono gli uomini.» Lo sguardo gli si era fatto improvvisamente duro, sorpreso, deluso. Poi un lampo decisamente cattivo. «Mi stai dicendo che sei una lesbica?» Mi sono limitata ad annuire, anche con un po’ di paura, tirando giù una sorsata dal boccale. Tutta la magia precedente si è esaurita in un attimo. Siamo rimasti in silenzio per un po’. Avevo anche cercato di giustificarlo, almeno in cuor mio. Mi serviva a rendere meno amara la sciocchezza che sapevo benissimo di aver combinato. In fondo, ho pensato, ha ragione. La delusione deve essere stata forte: uno sta per tanto tempo dietro a una donna e quando finalmente pensa di avercela fatta… bang! Lei si scopre una dell’altra sponda. Luca ha pagato il conto in preda a un evidente nervosismo e abbiamo imboccato l’uscita sempre in religioso silenzio. Arrivati sotto casa, sono scesa dalla macchina in fretta e lui ha bofonchiato qualcosa del tipo: «Ci

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vediamo…» Poi se ne è andato quasi sgommando. Un uomo. Era soltanto un uomo e io non mi sono mai fidata degli uomini. Avrei fatto meglio a non farlo neanche quella volta. Perché adesso, dopo averlo visto steso in una pozza di sangue crivellato dai colpi di un pazzo, mi sento rimordere la coscienza come poche altre volte nella vita. Perché, anche se alla fine non ho mai torto un capello a nessuno, io gli ho augurato di morire un sacco di volte. Lesbica? Che poi io alla fine neanche lo so. Sono cresciuta in una famiglia semplice, che mi ha sempre lasciato completa libertà nelle mie decisioni. Figlia unica di un piccolo commerciante della provincia di Rimini, da piccola preferivo decisamente la compagnia dei maschi. Mi piaceva il calcio, mi piacevano i film d’azione, odiavo le mie compagne, le loro bambole e i loro orpelli giocattolo da finte donne. Poi era arrivato il momento in cui avevano cominciato a starmi antipatici, gli uomini. Per quanto castigassi la mia femminilità dietro ai capelli corti e alle sbucciature sulle ginocchia, arrivata a una certa età avevo capito che con i maschi non ci si poteva più semplicemente giocare. I loro sguardi erano cambiati, avevano perso quella indifferenza cameratesca con la quale mi sentivo particolarmente a mio agio. Ora si concentravano spesso sulle gambe e sui miei primi accenni di tette. E mentre le coetanee trovavano finalmente un senso al loro desiderio di mettersi in mostra, a me non era piaciuto neanche un po’. Nel tentativo di capire la mia strada, o forse per non restare completamente isolata, avevo accettato di farmi baciare da un ex amichetto di giochi e mi era piaciuto. Lui era timido e gentile e a 13 anni era diventato il mio primo ragazzo. Fino a che le cose si erano limitate ai baci affettuosi, alle carezze e poi via via fino a un timidissimo petting (si chiama così, no?), non avevo mai neanche lontanamente pensato di avere dei gusti diversi. Ci ho messo diversi anni e molti ragazzi prima di scoprire che sessualmente non mi appagavano del tutto. Ho perso la verginità a diciassette anni, al termine di una serata in cui ci avevo dato dentro con birra e canne, ho finito il liceo in compagnia di Marco, il tipo fico della scuola. Ero molto invidiata quando le altre mi vedevano sfrecciare in Vespa dietro a lui, che qualche volta me la lasciava perfino guidare. È stata una bella estate quella. Rimini è sempre Rimini, per due ragazzi di diciannove anni poi…

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Facevamo l’amore spesso, tiravamo tardi tutte le sere e ridevamo molto, forse anche per colpa dell’hashish che lui non si faceva mai mancare. Ma agli inizi di settembre, Marco mi aveva piantata senza troppe spiegazioni e a me sul momento la cosa aveva fatto parecchio male. Poi però la ferita si era rimarginata in fretta e quando lui, probabilmente appena scornato da qualche altra, si era rifatto vivo nel tentativo di riannodare i fili della storia, l’avevo mandato bellamente a cacare. Mi sono iscritta a Sociologia a Bologna, ma mio padre mi aveva anche trovato un lavoro in una fabbrica tessile. Praticamente un inferno di gesti ripetitivi e continui capace di alienarti la mente, ma la paga era buona e il personale, tutto femminile, cordiale e simpatico. È lì che mi sono fregata. Fregata poi… non so. Però la mia vita ha preso del tutto un’altra piega. Con Laura siamo andate subito molto d’accordo, forse perché anche lei era bella senza che facesse nulla per esserlo, con i capelli lunghi e rasati dietro, una sfilza di brillantini per ogni orecchio e il primo piercing alla lingua che avessi mai visto. La scintilla è nata quando mi sono presentata al lavoro con una maglietta dei Ramones. «Non ci posso credere, Paola!» aveva detto ridendo Laura. «Sono il mio gruppo preferito!» Anche per me lo erano, almeno da quando Marco mi aveva lasciato una cassetta di “Road to Ruin”. Era fico il punk, era tutto così diretto, un pugno nello stomaco, la sensazione di essere investiti da una locomotiva guidata da Bugs Bunny, come avevo letto una volta su una recensione. Il fatto che fosse una roba per pochi e che la gente facesse sempre una faccia strana sentendo parlare di punk completava il quadro. Non come oggi che pare una roba da bambini dell’asilo. E così una sera, chiuse dentro una Panda piena di fumo e con i Dead Kennedys a manetta, Laura mi ha dato un bacio. La nostra storia è iniziata così ed è durata a lungo. Quando si poteva si scappava a Milano, dove lei conosceva gente con la quale non c’era bisogno di nascondersi e posti dove una coppia come la nostra veniva giudicata assolutamente normale. Fino al giorno in cui davanti ai cancelli della fabbrica è comparsa una scritta fatta con lo spray nero. “Laura e Paola luride lesbiche”. Che poi, che cazzo c’entra luride? «So chi è stato, maledetto stronzo» aveva sibilato fra i denti Laura

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tirandosi su il bavero del giaccone in quella fredda giornata di fine inverno mentre entravamo al lavoro. E io ho capito subito che niente sarebbe stato più lo stesso. Le colleghe, fino a quel giorno sempre simpatiche e solidali, voltavano lo sguardo altrove. I maschi non riuscivano a trattenere qualche sorriso odioso. La situazione era rimasta tesa per un paio di settimane, anche perché nessuno si era preso la briga di cancellare la scritta. Poi un giorno siamo state convocate dal direttore della fabbrica. Il signor Guidi era una persona educata e rispettosa e nel discorso che ci fece perse un po’ di tempo in preamboli per farci capire che lui era ovviamente tutt’altro che un bacchettone moralista, ma che, beh insomma, purtroppo doveva dirigere un’azienda e la situazione che si era venuta a creare complicava non poco le cose. «Ci sta dicendo che ci licenzia?» ha chiesto Laura. «No… non volevo dire questo. Volevo solo trovare una soluzione» ha risposto lui balbettando. Non ci ho dovuto pensare su molto. «Non c’è alcun problema. Me ne vado io» ho detto con estrema tranquillità lasciando letteralmente esterrefatto il signor padrone e assai confusa la mia compagna. «Era tempo che pensavo di cambiare lavoro e questa mi sembra l’occasione giusta.» E così ho fatto, troncando in quel modo anche la relazione con Laura e ritirandomi di nuovo a studiare a casa da mamma e papà. Fino al giorno in cui mio padre mi ha messo davanti il bando per il concorso della Polizia, facendomi capire con uno strano giro di parole che qualche amico di famiglia sarebbe potuto intervenire per la piccola e indispensabile “spintarella”. La Polizia? Certo, era un posto sicuro, ma era come parlare di corda in casa dell’impiccato, vista la diffidenza con la quale avevo sempre guardato ogni rappresentante dell’autorità costituita e visto che una delle mie band preferite portava il nome di Million of Dead Cops. Però alla fine ho accettato di partecipare al concorso, per far contento papà e soprattutto perché pensavo di non avere alcuna possibilità di riuscita. Invece, socmel, l’amico di famiglia doveva sapere il fatto suo. Al concorso per poco più di 800 posti c’erano quasi 10 mila partecipanti e fra quiz, prove scritte e orali e opinabili test attitudinali e psicologici era facile far fuori chi non disponeva di qualche santo in Paradiso. Pensavo di essere fin troppo colta per fare la sbirra e rimasi sorpresa quando ricevetti a casa la lettera con la quale venivo convocata alla

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Scuola allievi di Alessandria. E non avrei mai pensato, una volta entrata in quella specie di acquario, che un giorno mi sarebbe anche piaciuto. Almeno fino a quando quel grandissimo coglione di Luca non ha cominciato a dire in giro che sono lesbica e io l’ho capito subito, perché ho rivisto di nuovo quegli sguardi, gli occhi della gente che ti schifa, ma che fa finta di niente solo perché ti deve sopportare. Poi era comparsa qualche scritta a pennarello nei cessi: “Paola Brunetti lesbica”, stavolta con nome e cognome. Figuratevi un po’ in un ambiente del genere, dove tre quarti dei babbei in divisa sono solo maschiacci in vena di menare le mani, quelli che a scuola facevano i bulli e che invece di finire male ora possono picchiare legalmente. È stata una cosa lenta, ma un po’ alla volta hanno cominciato a togliermi un sacco di servizi, quelli a cui tenevo di più. Io gli ho augurato di morire a Luca, anche con qualche sofferenza, perché stavolta mica me ne potevo andare così. Che facevo? Me ne tornavo a Rimini dai miei? Non posso più. C'ho più di 40 anni, cazzo. Sono passate solo 48 ore da quando ero in macchina con l’agente Enrico Pavone, un giovane non particolarmente brillante che però guida come un campione di rally, e abbiamo sentito l’appello via radio. E sembra un’altra vita. «Sparatoria a Salita del Forte Ostiense… coinvolta nostra pattuglia…» gracchiava la voce dalla centrale. «Siamo a due passi» ha detto Enrico. Ho alzato il ricevitore e comunicato che saremmo stati lì in due minuti. Pavone ha fatto er coatto, come direbbe lui, arrivando a tutta velocità e facendo fischiare le ruote in quella squallida stradina che fiancheggia viale Marconi, uno dei posti preferiti dalle prostitute, a poca distanza dall’Eur, un vialetto buio protetto dal traffico da un distributore della Tamoil. Ci si può appartare facilmente, basta una piccola svolta a destra. Tutta quella zona sembra fatta apposta e infatti nessuno è mai riuscito nell’intento di ripulirla dal commercio più antico del mondo. Non sono serviti annunci di leggi a livello nazionale per punire i clienti, ordinanze amministrative con multe pesanti, rastrellamenti della polizia che finiscono, come era ovvio che fosse, con il rilascio delle quattro sfigate in calze a rete e tacchi a spillo al termine della rituale identificazione in Questura. Niente.

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Passa una settimana, magari un mese, e le prostitute tornano in massa su viale Marconi, a piazza dei Navigatori, addirittura dietro al santuario delle Tre Fontane sulla Laurentina. Ho capito subito di essere finita in mezzo alla merda sparsa con il ventilatore. La scena era surreale, con le poche luci dei lampioni offuscate dalla polvere alzata dall’auto su un tratto sterrato, il silenzio interrotto dai rumori della radio di un’altra volante, ferma con gli sportelli aperti. Sono scesa dalla macchina e mi sono trovata immediatamente davanti ai corpi di due colleghi stesi a terra. Sembravano due marionette a cui sono stati tagliati i fili, scomposti, due vite spezzate. Uno di loro aveva ancora in mano la pistola. L’agente Pavone si era attaccato come un disperato al microfono. «Volante 35, chiediamo aiuto… ci sono due agenti stesi a terra, un’ambulanza, un’ambulanza… cazzo…» Pochi metri più in là ho visto un altro corpo. Mi sono avvicinata con cautela e mi sono ritrovata davanti a uno dei peggiori spettacoli della mia vita: una donna vestita in modo inequivocabile, con la gola aperta e ferite da arma da taglio in tutto il corpo. Sangue dappertutto. Barcollando sono tornata verso i due colleghi a terra e lì ho ceduto di schianto quando mi sono ritrovata davanti alla faccia sporca di fango di Luca Colle, con gli occhi sbarrati e metà del viso immersa in una pozza di sangue. Non avevo mai vomitato da quando facevo la poliziotta, eppure di scene raccapriccianti me ne erano capitate. In passato ho resistito di fronte a cadaveri carbonizzati, in avanzato stato di decomposizione, mutilati, ma stavolta non ce l’ho fatta. Le gambe mi si sono piegate e ho rigettato tutto, con violenza. Poi sono rimasta così. Ferma in ginocchio in un angolo, mentre a poco a poco arrivava tutto il circo Barnum, una volante dopo l’altra, seguite dalla scientifica e in seguito dalle ambulanze per portare via i cadaveri. Decine e decine di luci blu lampeggianti, un sacco di gente intorno e un silenzio surreale. Qualcuno ha provato a rivolgermi qualche domanda. Ma nella testa mi continuava a ronzare la stessa cosa. “È come se l’avessi ammazzato io”.

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MERCOLEDÌ

“Nelle piccole storie delle teste pensanti,

nelle vite spezzate ricucite alla cazzo, e non si torna a casa, si rimane così

magari un po’ perplessi su treni fuori orario, scendendo scale mobili aspettando un passaggio che non so se verrà ma non credo che venga”.

CCCP – “Brucia, Baby, Burn”

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3. FRANCESCO Dormire in macchina a quarantanove anni suonati non è esattamente come quando lo si fa da ragazzi, in giro a far baldoria e zingarate. L’unica cosa uguale è la sensazione di avere un tappeto persiano al posto della lingua, dopo ore costretti in un ambiente chiuso e puzzolente di fumo e sudore. Ma le ossa no. Quelle scricchiolano, fanno male e non bastano più un paio di flessioni per riprendersi, spesso il dolore te lo porti appresso per l’intera giornata. Da quando mia moglie mi ha cacciato di casa, di solito trovo qualche soluzione migliore della Saxo sgangherata che è rimasta in mio possesso. A volte mi fermo nella dependance di Marco, nella grande casa di Monteverde, un tempo teatro di scorribande, nonché “fumeria” ufficiale della compagnia. A volte sono ospite di Andrea, che mi lascia dormire in salotto, anche se poi il favore gli costa la solita discussione con la moglie, per niente contenta di ritrovarsi al mattino in casa quello che considera poco più di un barbone. Che sarei io, insomma. Ma anche se non frequentissime capitano le notti come questa, in cui sono costretto ad addormentarmi all’interno della mia bella scatola di lamiera, senza potermi permettere neanche un motel di quart’ordine. Che poi certe volte è pure meglio la macchina. Ecco cosa può capitare a uno straccione di giornalista come me, con una madre ultraottantenne così egoista da non volermi più tra i piedi malgrado viva da sola in un appartamento enorme, con l’unica certezza di quello straccio di stipendio mensile, che poi tanto male non è, se non dovessi buttarlo via tutto in mille rivoli decisi dopo la separazione. Chi cazzo me lo avrà mai fatto fare di comprare una casa, io non lo so. Bisogna investire nel mattone, dice, ma se poi il mattone te lo levano da sotto il culo e tu continui a pagare? Le notti in macchina sono terribili anche per un altro motivo. Mi sveglio sempre a cazzo dritto e sono subito costretto a fare mente locale su quanto tempo è passato dall’ultima volta che mi sono fatto una scopata. E poi c’è sempre il rischio che qualcuno mi noti e chiami la polizia. Una volta è successo e mi ci è voluto un casino di tempo per convincere gli

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agenti di non essere né un tossico, né un clochard. Uno degli sbirri si è impietosito e ha fatto finta di niente di fronte alla puzza inconfondibile di hashish che impregnava la macchina. Anche lui era separato, ma almeno poteva dormire in caserma, mi ha confidato. Come se non bastasse, stamattina pesto subito una bella merda. Tutta colpa di quel democristiano riciclato di Antonio Filippucci, caporedattore di Media News, l’agenzia di stampa per cui lavoro da sempre, un baraccone pericolante che ha cambiato nome più volte e che è rimasto a galla non si sa bene per quale grazia ricevuta. Veramente si sa, si chiamano fondi pubblici. «Salerno! Mi serve qualcuno che vada a una conferenza stampa di Graziani. Fra un’ora» ulula col suo vocione più virile porgendomi un foglio, mentre non ho ancora finito di bere il primo caffè della giornata. È il classico invito del classico convegno sull’essere e il nulla, il sesso degli angeli o qualunque altra genialata tirata fuori dal campionario delle cose a cui non frega, giustamente, un cazzo a nessuno. E sarebbe di sicuro finito nel cestino dei rifiuti (il caporedattore è un tipo giurassico, che nell’era del digitale continuava a stampare qualsiasi stronzata con grande spreco di carta e toner), se gli organizzatori non avessero inserito fra i partecipanti il famigerato Manlio Graziani, ministro post-fascista della Difesa nel più ridicolo governo dal dopoguerra in poi, in un paese già terribilmente ridicolo di suo. «Vabbè, ma che stronzata è?» dico anche un po’ sorpreso. Erano secoli che non mi venivano imposti lavoretti da cronista alle prime armi come quello. «Non è una stronzata, Francesco. Non li hai visti i giornali?» «Perché, che mi sono perso?» «L'assassinio della mignotta romena e dei due poliziotti… ti dice niente?» «E che cazzo c’entra con Graziani?» «Guarda.» Mi mette davanti una copia del primo quotidiano italiano. In prima pagina campeggia una foto del pazzo omicida insieme al ministro. Tutti e due sorridenti. Il pezzo racconta la vita di Flavio Pignataro, ex parà congedato con non molto onore dopo la missione in Somalia e sedicente investigatore privato, attualmente a capo di una associazione di lobbisti che pretendeva dal governo più fondi per la vigilanza privata. Dove c’è odore di fascio e polvere da sparo, Graziani lo considera sempre un potenziale bacino elettorale.

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«E tu vuoi che io vada lì a fargli una domanda sul perché è stato immortalato insieme a questa bestia?» «Sei pazzo? Quello ci fa a pezzi. Non siamo mica il Corriere, noi dipendiamo dall’elemosina di queste merde umane. Non te lo scordare.» «Quindi?» «Quindi vai là e ti stai zitto, lasci che a fargli la domanda sia qualcun altro e dopo ti limiti a riportare la sua risposta, senza commenti e cazzate.» La mezza routine di sempre. Al convegno c’è più gente di quel che è possibile immaginare per un’occasione del genere. Evidentemente la foto di Graziani insieme al killer deve aver attirato un bel po’ di giornalisti in più. Il Ministro naturalmente ostenta sicurezza. Sulla cinquantina, capelli neri evidentemente tinti, quel suo modo di parlare con un irrisolto e pesante accento romanesco che esce fuori praticamente a ogni frase pronunciata. Graziani legge un discorso inutile come al solito e alla fine si alza in piedi fra timidi applausi di pura circostanza. «Ringraziamo l’onorevole Ministro e lo lasciamo ai suoi impegni» dice ossequioso il moderatore. Nessuno si muove, nessuno prova ad avvicinarsi per fare qualche domanda, nessuno. E così, colto da un attacco di pesantissimo giramento di coglioni, sono io a buttarmi nel cerchio di fuoco. «Ministro… nessun commento sul caso Pignataro?» chiedo quasi senza pensarci. «E lei chi cazzo è?» è l’elegante risposta. «Un giornalista…» «Levatemi dai coglioni questo stronzo» replica Graziani parlando agli uomini della scorta. Subito si alza il risolino compiaciuto dei colleghi, come sempre abituati al ruolo di servi sciocchi davanti ai politici. Non faccio in tempo a replicare che uno dei gorilla del Ministro mi colpisce a tradimento con una gomitata nello stomaco. Rimango così, fermo e senza fiato, mentre tutto il codazzo si allontana, con un senso di oppressione e di affanno, ma soprattutto di rabbia repressa. Non posso fare niente e non servirebbe a niente denunciare in qualche modo l’accaduto. Ma adesso nella mia testa ronza qualcosa in più di un semplice sospetto. La reazione di Graziani è stata spropositata, per uno abituato a raccontare

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bugie e a farle sembrare credibili. Un nervosismo ingiustificato di fronte a una sola fotografia, una delle migliaia che ogni politico si fa scattare vicino a fan e sostenitori mai visti prima. Naturalmente, una volta tornato in redazione, mi becco anche la batosta del capo, prontamente informato via telefono della stupida prodezza. «Sei un coglione, ti avevo detto di non fare un cazzo! Mi ha chiamato subito quella merda del suo capo ufficio stampa per protestare… ha detto che lo hai mezzo aggredito!» «Ma quale aggredito… ho fatto solo una domanda…» «Tu non devi fare domande. Non sei pagato per farle… chi cazzo ti credi di essere? Sei solo un drogato ubriacone che dipende dai soldi del Dipartimento per l’Editoria, non puoi fare l’eroe.» «Pensavo di fare il giornalista…» «Ma smettila, idiota. L’ultima volta che hai scritto una notizia c’erano ancora le macchine da scrivere.» Cazzo, se è vero. Ma il fatto che dall’entourage del vecchio fascista abbiano subito fatto pervenire le loro rimostranze è solo una conferma che il caso del killer imbarazza parecchio. E adesso, in giro a piedi alla ricerca di un caffè decente, non riesco proprio a smettere di pensarci. Un pazzo armato ha trucidato due poliziotti e una prostituta utilizzando armi in dotazione della polizia e dell’esercito. Questa non è la solita storia del maniaco segaiolo che si vendica delle donne. O forse sì, ma con implicazioni del tutto diverse. Adesso ho anche il tempo di occuparmene, visto che dall’ufficio mi hanno messo in ferie per un mese. Immagino l’inchiesta che potrebbe segnare il mio riscatto, anche se per far star buono il cervello sono costretto ad allungare il caffè con il Mistrà e rollarmi una canna con quel rimasuglio di marocchino che ho ancora in tasca. Lo so, c’ho un sacco di vizi.

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4. GIULIA Quando si parla di storie d’amore gli uomini si comportano sempre da bambini piccoli. Non ce ne è uno che non abbia la sua favola da raccontare, di come quella volta è riuscito a conquistare la femmina dei suoi sogni che corteggiava da una vita o di quando è diventato l’amante della sua migliore amica. Ma noi donne siamo cattive e ci innamoriamo di quelli cattivi, quelli che erano cattivi anche da bambini. Io non sono l’eccezione che conferma la regola, io sono in pienissima regola. Infatti ho sposato un pezzo di merda, fatto di cocaina dalla mattina alla sera e dopo avergli sfornato una figlia mi è toccato cacciarlo di casa. Perché? Perché nella testa mia era un gran fico, nonostante sapessi benissimo di essere innamorata di qualcun altro. Ora, sentir fare il nome di questo qualcun altro da quella strega di Ottavia, che lavora con me in questo cazzo di ufficio e non se ne sta mai al posto suo, mi ha fottuto quel poco di tranquillità che avevo. Perché non sono stata zitta? Perché mi è uscito dalla maledetta boccaccia che io lo conosco? Ma è stato impossibile resistere, mi è partita la scheggia, mi ha fatto davvero troppo effetto il suono del suo nome, non ho pensato alle conseguenze. E così, quando la stronza mi ha detto che il Ministro ha sfanculato un giornalista che gli aveva fatto una domanda non gradita e che il giornalista si chiama Francesco Salerno ho cantato come un’oca giuliva. «Ma io lo conosco!» «Lo conosci? E come mai?» Hai voglia a dirle che era un vecchio amico di infanzia, quella ha capito subito. Magari sarò pure arrossita, certe volte proprio non mi controllo. «Dai! Siete stati insieme?» ha sibilato la vipera. E di nuovo non ho avuto la forza di mentire. «Veramente no. Aveva qualche anno più di me. Era il migliore amico di mio fratello. Una volta mi ha dato un bacio.» «Allora è stato il tuo primo amore…» ha insistito. E qui il silenzio si è fatto davvero lungo. Il mio primo amore? Oddio, sì. Lui era davvero così dolce, così ingenuo qualche volta, e per tanto tempo

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anche così distante. Leggevo nei suoi occhi l’imbarazzo di avere a che fare con la sorellina piccola del suo compagno di scorribande preferito. «Non esageriamo. È stata una cosa carina, ma niente di più. E poi non lo vedo da più di vent’anni» ho detto, ma proprio non so recitare. «Cazzi suoi poveraccio, Graziani era fuori di sé.» «Vabbè. E che fa lo mena?» «Lui? Figurati. Magari lo fa fare a qualcuno.» Ha fatto una faccia strana quando lo ha detto. Così strana che mi sono messa anche un po’ paura. Perché a me piaceva davvero, Francesco. Vabbè, questo l’ho già detto. Gli volevo un casino di bene ed è un peccato non averlo più visto da tempo, perché adesso due chiacchiere con lui me le farei molto volentieri. Due chiacchiere? Che stronza, che sono. Ora che l'ho sentito nominare avrei voglia di vederlo solo per capire se potrebbe piacermi ancora, diciamola tutta la verità. «Mi raccomando non dirlo che lo conosco…» «Tranquilla.» Ecco, a Roma si dice che “tranquillo” ha fatto una brutta fine e i detti popolari contengono sempre elementi di saggezza. Infatti la stronza non riuscirà mica a starsi zitta. Spero che non lo dica a Graziani. Perché hanno paura? Io lo so che Pignataro era amico loro, non sarà mica che gli fornivano anche le armi? A me ha sempre fatto spavento. Aveva gli occhi da pazzo e più passano i giorni e più i particolari che emergono fanno davvero ribrezzo. Ma io, perdio, io… per chi sto lavorando?

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5. IL MINISTRO Ho bisogno di una striscia subito. Quando si leva dai coglioni questo pezzo di merda di negro? Nun ne posso più di questi incontri bilaterali coi Ministri di paesi africani, che tanto nun c’hanno ‘na lira e magari manco il petrolio ed è sempre tempo perso. Per colpa di quell’accattone di scribacchino d’agenzia, domani starò di nuovo in prima pagina, mannaggia a chi dico io. Senza contare che quel testa di cazzo di Pignataro potrebbe mettermi in guai più grossi, anche se tutto sommato è probabile che non si farà prendere vivo. Un serial-killer di prostitute, pensa che imbecille. E faceva pure la faccia schifata, da vecchio fascista tutto di un pezzo, quando tiravo fuori la coca. Poi gli è piaciuta al coglione e come no, aveva bisogno anche lui di quel delirio di onnipotenza. Perché uno può giocare quanto vuole a fare il duro, ma poi, se non ti tiri su con il cervello a una certa età si diventa dei debosciati. Cazzo e firmiamolo ‘sto memorandum di intesa, no? A che servono i discorsi di circostanza? Vi prestiamo le navi, vi lasciamo carta bianca per sparare sulla gente che noi non possiamo farlo sennò si arrabbiano le anime nobili della sinistra, vi diamo una vagonata di soldi solo perché ci teniate lontano 'sti straccioni de' negri dalle coste. Un affare. Per tutti. A che serve mettere su questa specie di teatrino per giustificare la questione e farla passare per un’operazione umanitaria? Tanto i comunisti non abboccano e quelli che sono d’accordo con noi se ne strafottono. «Ministro, stia calmo» dice quell’idiota del mio addetto stampa. Perché ho scelto questo sessantenne ex giornalista reduce? ‘Fanculo a chi me l’ha consigliato solo perché è un ex camerata. «Calmo un cazzo. Non ne posso più di stare a sentire questo beduino. Si firma o no?» Sorrisi falsi, flash di fotografi, strette di mano con quella scimmia di merda che mo’ me la devo lavare subito. E via al cesso. Merda, mi tremano le mani. Devo stare attento a non farla cadere mentre la sbriciolo. Er Murena è stato bravo, so’ tutti sassi, ma che palle pe' fa' le strisce co' la carta de credito. Schizzano via briciole dappertutto. Vabbè ‘sti cazzi. L’importante è infilarsela nel naso subito. Dopo si ragiona.

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GIOVEDÌ

“Sono io, quello che è rimasto qui per te, sono io, quello sulla cui spalla hai pianto”.

Descendents – “I’m the One”

“Non puoi abbracciare un ricordo, non provarci. Sei solo un caso disperato e non hai nome”.

Johnny Thunders – “You Can't Put Your Arms Around a Memory”

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6. PAOLA Lui è davvero buffo. Non dovrei dirlo, ma mi piace. C’ha quell’aria da uomo vissuto che non è riuscito a perdere un briciolo di innocenza, da eterno adolescente intrappolato in un corpo che invecchia, ma che nonostante tutto non cede alla tentazione di autocommiserarsi. Magari solo per scaramanzia. Dio bono, l’ho messa giù un po’ troppo complicata, mi sa. La realtà è che mi ha fatto piacere scoprire che c’era qualcun altro oltre a me che cercava di saperne di più. Perché sembra incredibile, ma del massacro di Salita del Forte Ostiense pare che non freghi niente a nessuno. Sòcmel. Per anni ho visto schiere di politici esprimere la loro solidarietà pelosa nei confronti delle forze dell’ordine anche per qualche agente che si era sbucciato le nocche delle mani a furia di cazzotti ai manifestanti. E per due di noi, freddati come bestie da un pazzo armato come Rambo, neanche una parola, una dichiarazione, una stitica interrogazione parlamentare. Così, quando ho incontrato questo tipo che faceva domande sulle abitudini del killer davanti al suo ultimo domicilio conosciuto, senza neanche la certezza di ricavarne una storia da scrivere… beh, mi sono riconciliata con gli uomini. Esagerata? Sì, come sempre. Ma io sono una che ha bisogno dei buoni sentimenti e non è colpa mia se a ogni tappa fondamentale della mia vita ho conosciuto qualcuno che mi ha fatto piangere. No, piangere no. Col cazzo. Ho sempre sofferto in silenzio, io. «Guarda che è meglio che lasci perdere» gli ho detto mostrando il distintivo. Ha fatto una faccia strana, parecchio delusa, direi. «Perché non lo state cercando?» mi ha chiesto senza un briciolo di esitazione. E io ho un debole per quelli che parlano come io riuscirei a fare solo leggendo un testo scritto e per giunta senza neanche un grammo di retorica. «Io lo sto cercando. Ma mi preoccupo per te» ho detto. «E perché?»

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«Perché io sono armata e anche se solo per legittima difesa posso sempre sparare. Tu sembri un’innocua, brava persona che sta per infilarsi in un mare di guai.» «Pensi che qualcuno mi sparerà?» «Ehi… hai presente dove siamo?» «Lo so bene dove siamo. Pensa che ho comprato la mia prima casa in questo quartiere. Un sacco di anni fa… quando ero scapolo e sicuramente messo un po’ meglio.» Mi è venuto il terrore che stesse per raccontami la storia della sua vita e l’ho fermato subito. «Quindi sai benissimo che l’Esquilino è una specie di vulcano inattivo pronto a fare fuoco e fiamme. Qui convive davvero di tutto. La mafia cinese, lo spaccio, i gruppetari incazzati, gli ambulanti nigeriani e senegalesi e i neofascisti organizzati a cui il Comune paga pure la sede.» Ha fatto un sorriso bellissimo e mi ha fregata, con quei capelli grigi arruffati, quell’aria da George Clooney un po’, anzi un bel po’, appesantito, due occhi verdi da cerbiatto che ha esagerato con le canne. Ho continuato a parlare. «Insomma… tu te ne vai in giro qui intorno a fare domande su Pignataro e a me non sembra una cosa molto igienica. Guarda che quello è pazzo, ma non è un coglione. E ha un sacco di amici.» «Ehi, per essere uno sbirro parli da dio. Magari foste tutti così.» «Per che giornale lavori?» ho chiesto rendendomi conto che sì, avevo proprio voglia di starlo a sentire. E Francesco mi ha raccontato tutta la storia. Dalla casa a due passi da piazza Vittorio alla ex moglie, sposata chissà mai perché, dal divorzio al caporedattore che gli aveva fatto il culo per colpa del ministro Graziani. Così ho accettato di mangiare con lui, visto che si era fatta l’ora di pranzo, in uno dei primi ristoranti indiani aperti a Roma, almeno secondo quanto sostiene. Però è un uomo e non è riuscito a evitare… il tentativo. Quella cosa che non è che ci stanno provando, ma non possono fare a meno di comunicarti che, nel caso tu avessi la minima idea di dargliela, non si tirerebbero indietro. Adorabili. E io, davvero, gliela avrei anche data se non fosse che… lo sapete, no? Ho semplicemente gusti diversi. «È incredibile che tu sia stata a sentirmi per tutto questo tempo» mi ha detto dall’alto di quel suo sorriso impossibile.

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«Perché, di solito la gente fugge?» «No, però sono sceso un po’ troppo sul personale. È che non mi capitava da tempo di potermi sfogare. E neanche di aver davanti un bel viso sincero come il tuo.» Era nella parola sincero la via di uscita elegante da imboccare in caso di previsioni meteorologiche avverse. «Guarda che è bello sentirti raccontare delle storie. Forse è normale visto che fai il giornalista, ma con le parole ci sai fare. A me piacciono le storie, quelle vere poi…. uh, ci sguazzo! E non importa se hai romanzato qualcosa. Meglio.» «Tu non sei mica vera» mi ha detto mentre pagava il conto. E non avevo alcun dubbio che lo avrebbe fatto senza neanche pensarci su. «Ti dovrebbero dare un posto nelle pubbliche relazioni, lì in polizia. Io per esempio qualche manganellata in faccia da te me la farei dare.» «Solo perché mi piace parlare e ascoltare?» «E ti pare poco? C’è gente che paga cifre scandalose per parlare e farsi ascoltare.» «Dovevo fare la psicanalista.» «Il tuo conto corrente ne avrebbe sicuramente guadagnato in salute.» «Sì, ma che mestiere di merda.» «Perché?» «Perché guarda che al mondo c’è tanta gente a cui piace ascoltare. Farsi pagare per questo, beh… non è come fare la puttana?» Lo so. Ho esagerato di nuovo, ma per mandare giù il pollo tandoori ho dovuto attaccarmi a un paio di bicchieri di rosso dei Castelli. Alla faccia del melting-pot. Lui però non si è mica scomposto. «Posso dirti per esperienza che non è facile trovare qualcuno che ti ascolti, proprio come non lo è trovare chi faccia sesso con te solo per il gusto di farlo. È per quello che poi alla fine la gente… paga.» «È solo pigrizia» ho detto con la netta sensazione di aver pizzicato la carne viva. Ma il vecchio George – lo so si chiama Francesco, ma come nome fa cagare, quindi ormai sto in fissa e bella lì – ha traballato solo per qualche istante. «Hai ragione. È pigrizia e anche qualcosa di peggio. Tipo la noia.» Siamo usciti fuori fra le bancarelle di vestiti e oggetti che per la loro povertà potevano interessare solo una clientela di extracomunitari. Che qui, comunque, non manca. «Lo state cercando davvero o sei un cane sciolto come me?» mi ha

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chiesto con una lucidità inaspettata, mentre pensavo che fosse anche lui un po’ sbronzo visto che si era scolato il resto della bottiglia. Invece manco per il cazzo. «Sono in ferie» ho detto. «Anche io» ha fatto lui ridendo. «E perché lo cerchi?» «Ha ammazzato un mio amico. E tu? Perché lo cerchi?» «Non ci posso credere che questa storia non interessa a nessuno.» «Guarda che non troverai chi te la farà scrivere.» «Può darsi. Ma ‘sti cazzi. Lo faccio e basta.» Stavo per salutarlo, quando lo ha fatto lui. «Ti rivedo?» ha chiesto. «Ci stai provando?» «Guarda che l’ho capito che… vabbè, insomma… che non ti piacciono gli uomini.» Accidenti, un professionista del testosterone. «Okay. Allora ci rivediamo» ho detto. E devo aver fatto anche un bel sorriso.

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7. FRANCESCO Chissà perché la gente continua a lamentarsi. Il quartiere è cambiato tantissimo in questi anni, non assomiglia per niente a quello di un tempo. Sarà per i portici della piazza che sono stati puliti e restaurati, sarà perché hanno tolto il mercato che lasciava quel bell’olezzo di pesce e verdure irrancidite a fine giornata, sarà soprattutto perché agli angoli delle strade non si vedono più i cartoni sui quali dormivano tossici e senzatetto, ma qui ora sembra proprio uno di quei bei quartieri multietnici di Londra, Berlino, Amsterdam, dove non è che i problemi li tengano nascosti sotto il tappeto, semplicemente provano a risolverli. Ci ho passato l’intera mattinata proprio sotto casa del killer, in via Cairoli, la stessa strada dove tanti anni fa venivo a sentire un po’ di musica underground in un localetto claustrofobico con tanto di sala concerti insonorizzata che pareva un bunker. Ho fatto qualche domanda in giro, ma sembrava non lo conoscesse nessuno. Un inquilino del palazzo è fuggito via non appena ho cominciato a fare domande. Con un altro sono stato solo un po’ più fortunato. «Ma chi? Quel matto di ex parà?» «Sì. Lo conosce?» «Abita qui. Certo… ormai dopo quello che ha combinato è difficile che si farà vedere di nuovo da queste parti.» «Che tipo è?» «Un matto. Come tutte le teste rasate che girano nel quartiere. Stia attento a quelli lì.» «Ho vissuto tanti anni qui vicino. Me lo ricordavo un quartiere di sinistra.» «Sinistra? Boh… può darsi. Le cose sono cambiate parecchio da quando hanno occupato un palazzo qui vicino. Adesso la fanno da padroni.» «Hanno occupato un palazzo?» «Non solo. Il Comune glielo ha pure lasciato. Non ci si crede.» «Vabbè, sono amici del sindaco, no?» «Sì, ma ci stanno da prima che arrivasse lui. Comunque qui in zona volano basso, altrimenti i cinesi gli fanno il culo. Sembrano innocui, i cinesini, ma l’ultimo cameriere di ristorante è capace di stenderti con un paio di mosse di quella roba loro là… karate… kung-fu…»

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Sono mancato da queste strade solo pochi anni e mi ritrovo in una specie di Los Angeles alla amatriciana. Le teste rasate, i cinesi, gli indiani e qualche nuovo ricco che ha fatto ottimi affari immobiliari. Il tizio mi ha salutato all’improvviso e se ne è andato con il passo svelto di chi si è un po’ pentito di essersi messo a fare conversazione. E io non ho cavato un ragno dal buco. Chissà se il pazzo agiva da solo o se da questi palazzi ogni tanto escono squadracce organizzate di gente strana, sullo stile di quelli che hanno visto Arancia Meccanica magari anche dieci volte, ma non lo hanno mica capito. Poi è arrivata quella poliziotta. Simpatica. Ma mi ha solo confermato che in Questura non è che ardano esattamente dalla voglia di mettere le mani addosso al paracadutista assassino. Però è stato bello parlare con lei. Quando ha cercato di mettermi in guardia dai pericoli che potevo correre, mi ha fatto una strana impressione. In fondo non era da lì che venivo? Avevo vissuto in quel quartiere pieno di immigrati e da ragazzino avevo frequentato ambienti di destra. Tutta colpa di quella cazzo di scuola e dell’assurdo clima di veleno della triste epopea degli anni di piombo. Non che lo respirassi in casa, per carità, mio padre era un convinto anticomunista, ma anche l’unico vero liberale che mi sia capitato di incontrare. Credente, ma laico e convinto più di chiunque altro della necessità della presenza dello Stato nell’economia. Quei buffoni che si proclamano liberali oggi credono solo nel manganello sulla testa di chi prova ad alzare la voce e hanno svenduto per trenta denari tutti i gioielli di famiglia. Solo che non erano proprio bei tempi, quelli. E non perché ci fosse un reale pericolo che il comunismo prendesse in qualche modo il potere, visto che la Cia in Italia finanziava tutti gli altri partiti e che l’unico tentativo di golpe dal dopoguerra in poi hanno provato a farlo i fascisti, con risultati da operetta. Il problema principale era il boom demografico. L’improvviso benessere di tante famiglie italiane, ovviamente senza alcun sostegno da parte della “cosa” pubblica. È in quegli anni che è nato il business del privato e dopo quasi quattro decenni si sta prendendo gli ultimi pezzi. Sia come sia, a sei anni e mezzo in prima elementare avrei dovuto frequentare il terzo turno alle sei del pomeriggio. Perché i soldi della collettività finivano in mille rivoli, ma la realtà era che non c’erano nemmeno le aule. E per mia madre che faceva l’insegnante questa era

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una brutalità bella e buona. «E così sei stato a scuola dai preti…» «Più o meno. Come educatori non lo so, ma in quanto a proselitismo sono stati un fallimento. Sono uscito da lì completamente ateo.» «Accidenti. Forse fa bene lo Stato a finanziare le scuole dei preti» ha detto lei e mi sono ritrovato a ridere che quasi non riuscivo più a fermarmi. «L’unica cosa di quella scuola che mi è rimasta sono le risate con gli amici… ma che vuoi… eravamo l’ultima classe di soli maschi e con alcuni di loro stavo insieme dai tempi delle elementari. Troppo facile essere amici vivendo sotto quella campana di vetro. E poi… c’era Giulia.» «Chi era Giulia?» Già. Perché mi è venuta in mente Giulia, la sorella più piccola di Guido D’Andresy? Forse perché aveva più o meno tutto quello che si può desiderare da una ragazza. Ma provarci era fuori discussione, intanto perché aveva dieci anni meno di me e poi perché il fratello mi avrebbe ucciso. Dovevate sentire i discorsi che faceva all’epoca, quando la sorella era entrata al liceo e noi ne eravamo già fuori da un pezzo. Giurava e spergiurava che chiunque avesse fatto lo stronzo con lei lo avrebbe ammazzato. Aveva un istinto protettivo che faceva impressione. C’era troppa differenza di età, la considerava una figlia. Il problema è che le piacevo, le piacevo da sempre. Ogni volta che arrivavo a casa loro diventava rossa di vergogna e cercava disperatamente di restare con noi. «Era… era Giulia. La prima volta che l’ho vista non aveva ancora 12 anni, magra come un chiodo e senza neanche un minimo accenno di tette. Sgambettava su un campo di calcio in una surreale partita con squadre miste… maschi e femmine insieme. L’avevano sbattuta in porta, era anche un po’ sporca di fango, ma che ti devo dire? Era bellissima.» No, aspettate, la prima volta che mi ha sorriso non me la scorderò mai. Era un sorriso tenerissimo e con quel piccolo spazio che aveva fra gli incisivi mi squagliò letteralmente. Ma io avevo già ventidue anni, sarei scaduto nella pedofilia. «Anche a me piaceva giocare a pallone da piccola. Poi non mi hanno più ammessa nel sacro circolo. Siete così settari voi uomini…» «Ma non credo che le piacesse il calcio. Erano gli inconvenienti per

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essere accettata in una scuola che fino a due anni prima era solo maschile. Una bella partitella nel fango… quasi un rito di iniziazione.» «E poi?» «E poi niente. Ho parecchi anni più di lei e mi capitava di vederla a casa quando andavo dal fratello, che stava in classe con me. All’epoca giocava ancora con le bambole. Poi è diventata maggiorenne, ma io ormai ero quasi vicino ai trenta. Una sera è successo che siamo rimasti a dormire insieme. Ci siamo solo baciati per tutta la notte, ma nessuna scopata della mia vita è mai stata così intima come quei baci. Però fermami… ti prego.» «Perché? Mi piace sentirti parlare, sembri un libro scritto. Dovresti scriverlo davvero, un libro. Dai, raccontami com’è finita.» «Non è proprio mai iniziata. Colpa mia, credo.» È stato… come dire? Surreale. Il pranzo all’indiano, la passeggiata e le chiacchiere, quella bella sintonia che senti nascere con una donna all’inizio di una storia. Ma non poteva essere vero. Perché una donna… intendo una che potrebbe avere qualche interesse nei tuoi confronti, non ti chiederebbe mai di parlarle di un’altra. Peccato che sia lesbica. Cioè… non fraintendetemi, cazzi suoi. Peccato per me perché è carina. Anzi, qualcosa in più che carina.

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8. IL KILLER Nun so perché, ma a me Fregene ha fatto sempre un po' schifo ar cazzo. Tanti anni fa te ce potevi ammazza' de noia, oggi è 'n'accozzaglia de locali e localetti che l'estate si riempiono di ogni genere de pezzi demmerda. Però qui un vantaggio armeno 'na vorta ce stava. Era facile procurasse la coca. Ne conoscevo diversa de gente che spigneva, si nascondeva qui e ce teneva pure la roba. L'ho sempre coperti d'oro, 'sti parassiti. Ora però con tutto 'sto casino sto un po' a corto de sordi e quindi dovranno alzamme quarcosa a credito. E spero che nun facciano troppe storie, perché nun vorrei allunga' troppo l'elenco de quelli che so' passati per la mia strada e poi a miglior vita. Invece di sbattermi tanto forse farei meglio a chiederlo a quel grandissimo pezzo demmerda de Graziani. Basterebbe ricattallo un po'. L'ho vista la foto insieme a me… er mostro… che stava in prima pagina su diversi giornali e sarei contento de sape' che se sta almeno un po' a caca' sotto. Odio quel suo aspetto da paraculo, quell'aria de chi è arrivato in cima solo pe' sputa' finalmente a quelli de sotto, dopo 'na vita a spara' cazzate sulla destra sociale, sull'identità nazionale, er futurismo e mille altre stronzate. Oh… nun fate quella faccia lì. Io mica so' un coglione, mica j'ho creduto, nun l'ho manco votato a 'sto stronzo. Al massimo ho evitato che qualcuno j'appioppasse in faccia un paio de salutari sganassoni. Quello era il mio ruolo e quello me so' limitato a fa'. Vedello passa' dai raduni di teste rasate ai salotti de' madama la marchesa nun m'ha sconvorto la vita più de tanto. Tanto alla fine la colpa è solo delle puttane. So' loro che hanno intossicato tutto. E le peggiori so' sempre quelle che nun se fanno paga' subito e che vengono ricompensate co' quarche apparizione in tv, magari a presenta' scosciate 'e previsioni der tempo. Una volta una de loro ha pensato de pote' accorcia' la strada per la vetta solo facendo un pompino a me, che in fondo non ero che un misero autista. Me piaceno i pompini, che scherzi, ma dopo se nun te lo sbatto in

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culo almeno un po'… beh, mica me diverto. La ragazzina s'è spaventata, forse le ho fatto male, ma nun doveva di' che m'avrebbe denunciato. Ora è 'na foto segnaletica in un fascicolo ancora aperto, ma per poco, sur tavolo de qualche grasso sbirro. Succede, alle pischelle che vengono dal sud nella grande città in cerca di fortuna. A forza de cammina' a vuoto per 'ste stradine me sa pure che me so' perso. Nun è ancora stagione de mare e pare proprio che nun c'è nessuno in giro. Come sistemazione sto messo davvero male. «Che c'hai 'na sigaretta?» Solo un pischello, ma m'ha fatto sbroccare. Così all'improvviso… da dietro, eccheccazzo. «Mortacci tua, ma che se fa così?» «Ahò scusa…» «Senti un po'… magari te sei sveglio e lo sai… dove rimedio un po' de roba?» «De che?» «Coca.» «Ma che… sei uno sbirro?» Ammazza che espressione che ha fatto quando ho tirato fuori il ferro e gliel'ho puntato in faccia. «Te sembro uno che c'ha la faccia da sbirro?» «Ahò… nun te incazzà… leva 'sto coso… io volevo solo una sigaretta…» «Tiè… ecco la sigaretta. E allora?» «E allora» fa mentre se l'accende con l'aria de chi ha appena salvato er culo dal mare in tempesta, «io nun so' un cazzo de coca. Al massimo te posso rimedià un po' de fumo.» «Il fumo è roba da cojoni.» «Dovresti provà ar bar der centro. C'è sempre qualche negro marocchino che staziona là…» «Nun la compro la roba dai negri.» «Je dici che ne voi tanta e che voi parlà con quello che la dà a loro…» «E so' così cojoni che me ce portano senza dì gnente? Ammazza, gente fidata proprio.» «Vabbè, me pare che tu c'hai modo de convince la gente…» Me lo so' lasciato alle spalle e so' stato tutto il tempo a pensà de avè fatto 'na gran cazzata. Chissà che andrà a raccontà in giro. Ma mica lo potevo stende così. Il bar del centro… centro de che, poi… s'è dato una gran bella ripulita.

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Dentro è tutto nuovo, ma in questo periodo la clientela so' solo negracci perdigiorno. Che spacciano, ovviamente, sennò che altro fanno? Ho puntato su quello che c'aveva più la faccia da fijo de 'na mignotta. «Se te offro 'na birra me la dici una cosa?» «Certo, amico.» «Nun è che sai dove se rimedia un po' de roba? Coca, intendo.» Il coglione fa subito una bella faccia cospiratrice. «Te la vendo io, amico.» «Ma a me ne serve tanta.» «Tipo quanta?» «Mezz'etto.» Mi guarda sorpreso. «Ma chi te lo vende mezz'etto, ma sei scemo?» «No, c'ho i soldi e pago bene.» «Ho capito, ma io non so dove trovarne così tanta…» «C'avrai qualcuno che te la dà, no?» «Mi stai prendendo in giro, amico. Sei un poliziotto?» E due. «Sì… e vojo pure vedè er permesso de soggiorno.» Po' sbiancà un negro? Beh, ve giuro che ha sbiancato. «Sto a scherzà, cojone. Dimme dove posso rimedià la coca e te lascio in pace. Anzi, ti faccio pure un regalino…» gli dico sventolando un cinquantone. M'ha dato l'indirizzo di una villa, ma a piedi è lontano. Un taxi qui nun lo trovi manco si mori e rubasse una macchina non è proprio il caso. Me tocca camminà.

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9. IL MINISTRO «Secondo me stai esagerando, è solo un pezzente, non credo che questa sia una cosa che può rovinarti.» Perché ho accettato di avere quest'idiota qui come Sottosegretario? Non solo non capisce un cazzo, ma ha anche la prosopopea di quello che si crede un fine intenditore di politica. Gente che ho sempre schifato e che adesso mi circonda. Letteralmente. «Ma te che ne sai quello che cosa c'ha in mano. Tu non sai niente, sei solo un pupazzo. A te interessava solo che firmassi quei quattro contratti per i tuoi aeroplanini di merda… come funzionava tutto il resto… beh, te ne sei sempre fregato.» «Non è colpa mia se frequenti gente del genere.» «Brutto imbecille che non sei altro» dico prendendolo per il bavero. «Ma che ti credi… di stare qui perché sei bravo? No, non lo sei. Sei solo il coglione che ha sposato la figlia di Ruggeri e che chissà per quale oscuro motivo del destino abbiamo dovuto ricompensare con una bella poltroncina. Ma resti un coglione.» C'è rimasto male. Mi guarda come se volesse chiedere scusa. Non è capace di fare neanche quello. «Sto nella merda. Pignataro sa un sacco di cose su di me e non solo. Ha fatto lavori sporchi per diversa gente e se la polizia gli mette le mani addosso non ho idea se sarà capace di tenere a freno la bocca. In più con quel grande cesso di giornalista che ha contribuito a ridare fiato a quei fogli di carta da culo che sono i quotidiani italiani, mi ritrovo con la segretaria piena di messaggi di gente che vuole interviste, dichiarazioni e altre cazzate.» «Hai fatto male a reagire in quel modo. Se ti fossi limitato a rispondere in modo vago, tu che tanto pensi di essere un professionista della politica… te l'eri levato dalle palle da un pezzo.» Adesso mi ha veramente rotto, penso un attimo prima di mettergli le mani addosso. Un bel cazzotto nello stomaco, tanto per fargli capire a che gioco si gioca. Non se l'aspettava, ma dovrebbe saperlo che la mancanza di cocaina mi rende nervoso. «Ora stammi a sentire… sguinzaglia quei quattro dementi che lavorano per te e parla col Condor. Deve essere un lavoro pulito.»

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«Il Condor? Ma sei scemo? Ci ho messo anni a cancellare le tracce che mi legavano a quel pazzo…» «E adesso invece devi riannodare i fili. Ci eravamo fidati di Pignataro, ma è solo un maniaco del cazzo. Un maniaco molto pericoloso però, e solo il Condor può scovarlo e metterlo a tacere. Possibilmente per sempre.» «Vorrà essere pagato bene.» «E noi bene lo pagheremo. Almeno i soldi non se li sparerà tutti in mignotte e droga come quel pazzo.» «O come te…» Sto per dargli un altro pugno, ma mi fermo. Fuori della stanza c'è gente e potrebbe sentire. «Io sono uno che si controlla. E soprattutto se mi scopo una troia dopo non la faccio fuori.» «Guarda che il Condor non è esattamente un asceta.» «Sì ma almeno le sue porcate le va a fare con le bambine in Sud America e lì sono cazzi suoi quello che combina.» Il Condor, nome di battaglia di Andrea Molisano, il bravo militante rivoluzionario cresciuto alla greppia dei servizi segreti boliviani per i quali faceva il sicario. Ed è un po' come se lo avesse fatto per la Cia a quei tempi. Ne sono cambiati parecchi di governi in Sud America, mo' ci stanno quasi dappertutto ex comunisti ed ex guerriglieri marxisti al potere. Il Condor laggiù si muove ancora bene, però non sono più gli anni in cui con pochi spiccioli vivevi da padrone. Ora ci vogliono i dollari… anzi gli euro sonanti per mantenere un livello di vita come quello che piace a lui e penso che un lavoretto come questo, se opportunamente profumato di denaro, lo accetterà volentieri. Fare fuori un ex camerata è sempre stato il suo sport preferito. E se continua a rompere i coglioni ci mettiamo dentro anche il giornalista. «Tu sai dove si trova no?» chiedo all'onorevole dei miei stivali. «Riuscirci a parlare non sarà facile. Io so che vive da qualche parte alla periferia di Bogotà, in Colombia. Però potrebbe saperne qualcosa di più Renzino.» «E allora fatti dire da Renzino come facciamo a contattarlo. Tutto chiaro? Ora levati dalle palle che c'ho un sacco di cartacce da firmare.» Se ne va con l'aria rassegnata. 'Sti quattro cazzari pensavano di essersi ripuliti una volta messo il doppiopetto e con l'auto blu sotto al portone. Non hanno capito che se siamo arrivati fin qui con i metodi di una volta, un motivo ci deve essere. Abbiamo servito la ragion di Stato per decenni

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e ora lo Stato siamo noi. Una delle segretarie è un gran pezzo di fica, anche se è un po' stagionata. Una quarantenne a cui mi piacerebbe davvero tanto mettere le mani addosso. Ogni volta che mi entra nella stanza mi si rizza il cazzo. Ma proprio non posso sbatterla sulla scrivania come vorrei. E come so che lei vorrebbe. Puttana.

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10. GIULIA «Signorina D’Andresy le ha portate quelle carte, allora?» Mi fa ribrezzo quando mi chiama signorina. È perché vuole che io gli dica per l'ennesima volta che sono sposata e separata da un secolo, in modo da poter fare il viscido e pronunciare la sua battuta di sempre. “Lei sembra così giovane che mi confonde”. Ma è un pezzo che questa soddisfazione non gliela do. «Le ho portate, Ministro» dico posandole sul tavolo. «Grazie, lei è molto efficiente. Non come questi maledetti imbranati con cui ho a che fare. Secondo lei, sono uno che non si controlla?» «In che senso, scusi?» «Che idea si è fatta di questa storia?» dice porgendomi uno dei giornali in cui c'è la sua foto con il killer. Cristo. Perché cazzo me lo ha chiesto? «Nessuna. So bene che ogni politico, anche meno famoso di lei, si fa scattare decine e decine di fotografie insieme a gente mai vista prima che gli chiede di farlo. Un po' come succede a un attore, o a un calciatore.» «Vede che ho ragione sul fatto che è efficiente? Dovrei prendere lei come consigliera per come trattare con quella feccia di giornalisti.» «Beh, le rivelerò un segreto. Ci vuole poco. Basta non trattarli, i giornalisti. Niente smentite, né tanto meno querele… e ancora meno… risposte. Si stufano presto.» Ho cercato di fare la spiritosa, ma gli si sono illuminati gli occhi. «Lei ha ragione. E dica un po'… mi aiuterebbe a risolvere un problema?» «Se posso…» «Ho combinato un casino con un tizio, un certo Salerno, una mezza cartuccia, niente di che. Solo che se va in giro a fare le domande sbagliate io rischio che questa storia del killer possa danneggiarmi.» Cazzo. È come giocare infilando la bocca nelle fauci del coccodrillo. «Se come dice lei è una mezza tacca, lo lasci semplicemente stare.» «Sì, forse è meglio così. E poi lavora per un'agenzia di merda. Nessuno gli darà retta.» Chissà se l'ha bevuta davvero. Sto scherzando col fuoco. Penso che se Ottavia si fa uscire che conosco Francesco sono fregata. Dio mio che situazione assurda. Ho paura per me e anche per Francesco. Una cosa del

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genere non posso fargliela. «D'altra parte, che altro potrebbe fare?» dico con tutta la finta noncuranza di cui sono capace. «Niente, niente… Grazie di tutto, comunque. I suoi sono stati consigli preziosi. Può andare.» È viscido e pericoloso, penso mentre giro i tacchi ed esco dalla sua tana. L'istinto mi spingerebbe ad andarmene da questo posto e a non farci mai più ritorno. Ma non me lo posso permettere. Quel simpaticone del mio ex marito non mi passa quasi un cazzo e ho sempre una figlia da mantenere. Mi pesa come un macigno il fatto di non avere un uomo con me. Con chi ne parlo di questo casino? A chi chiedo aiuto? Siamo seri, io non sono in grado di gestire una roba così. Forse dovrei dirlo a Francesco. In fondo non è colpa mia se lavoro per Graziani, è tutto quello che ho e meno male che quattro mura me le hanno lasciate altrimenti non basterebbe neanche. Ma se si mette a fare l'eroe? Se dopo che gli ho detto che tipo è il Ministro decide di infilarci il naso ancora di più? No, dai, non Francesco. A meno che non sia cambiato davvero parecchio. È un pavido, uno che si adagia, uno che si accontenta, uno che si mette anche una cifra paura. Posso dirlo per certo. Non è per questo che ho lasciato perdere con lui? Era troppo gentile, troppo smielato. Mi ha fatto ridere, sentire bene, sentire importante, ma io a vent'anni avevo bisogno del fuoco, non di un fratello maggiore. E poi aveva paura. Cattiva? Può darsi. Ma se adesso mi metto anche a rimpiangerlo, beh… sono davvero nella merda. Mi ci manca solo il filmetto della quarantenne in piena crisi di mezza età che scopre di aver fatto la cazzata della sua vita a non continuare a inseguire il bamboccione imbranato che la veniva a prendere a scuola. Chissà se lui si ricorda di me. O meglio, come si ricorda di me. Perché che mi abbia dimenticato è fuori discussione. Sono sicura che mi ha pensato milioni di volte e lo so perché l'ho pensato spesso anche io. Però è stata colpa sua se non è mai successo niente, chissà se aveva paura di mio fratello. Mi sono sempre chiesta che fine avesse fatto, mi sono sempre augurata che fosse felice e qualche volta, soprattutto dopo che sono rimasta sola, mi sono sentita anche gelosa di lui. Ho anche sempre pensato che

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avrebbe avuto fortuna, o fatto carriera, cosa che invece non pare che sia successa, visto dove si ritrova ora e per chi scrive. Ma del resto non è che io possa vantarmi di aver fatto una fine migliore. Devo trovare il modo di parlargli di questo casino, non ho scelta. Glielo devo, per quella volta che le nostre labbra si sono appiccicate per un sacco di tempo e io ho sentito una delle scosse più forti della mia vita. Quante volte gli ho scritto ti amo, su un'interminabile sequela di bigliettini perché in faccia non ho avuto mai il coraggio di dirglielo? Però un giorno ho pensato che non lo amavo più. E questa è paradossalmente la riprova che ne ero innamorata. Sì, okay. Avete ragione. Sto flippando. Fine anteprima.Continua...