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Il crollo dei regimi non democratici. Stabilità politica e crisi di regime in Tunisia, Libia ed Egitto Giuseppe Ieraci Premessa Il crollo dei regimi non democratici presenta un apparente paradosso, perché si verifica nonostante la loro relativa riserva di sicurezza: l’assenza (via repressione, naturalmente) di contestazione pubblica e la chiusura dei canali di accesso al potere politico. I regimi non democratici si stabilizzano rapidamente, una volta represse le opposizioni e occlusi i canali d’accesso al potere politico, e tuttavia essi inevitabilmente crollano, spesso in modo inatteso e improvviso. Perché? In questo scritto s’intendono esplorare in chiave teorica e concettuale le condizioni della stabilità politica e vedere se, per questa via, è possibile dar conto della caduta dei regimi non democratici. Ma vi è, innanzitutto, un problema: quali sono le principali tipologie dei regimi non democratici?, o più direttamente, come definiamo un regime non democratico? Si può anche convenientemente girare attorno a questi interrogativi, come faremo in questa sede, partendo piuttosto dalla definizione di democrazia e poco elegantemente, certo riconducendo alla categoria della «non democrazia» tutti i regimi che possiamo ragionevolmente escludere dalla nostra definizione di partenza. Si tratta, in definitiva, di usare la nozione di democrazia come un filtro o un criterio di selezione negativo. Anche il dibattito attorno alla democrazia è, ovviamente, molto aperto ed acceso, ma se si prendessero in rassegna le svariate definizioni proposte dalle discipline del campo delle scienze sociali non sarebbe difficile individuare un ubi consistam e così qui si cercherà di fare. Inoltre, il nostro procedere ossequia il principio logico di non- contraddizione, la democrazia è o non è, tertium non datur. Ciò non implica ignorare che esistano molte sfumature tra l’essere e il non-essere della democrazia, come nel caso dei cosiddetti «regimi ibridi» sui quali si è recentemente indirizzata l’attenzione degli studiosi [Morlino 2008; Bogaards 2009; Levitsky e Way 2010], ma qui seguiremo una scorciatoia per semplificare il discorso. 1 Se procediamo nell’identificare delle dimensioni d’analisi polarizzate agli estremi «non-democrazia»/«democrazia», allora i «regimi ibridi» possono essere ricondotti su queste dimensioni, a seconda che siano non- democrazie avviate allo sviluppo politico oppure democrazie intrappolate nella spirale della «decadenza politica» [Huntington 1965]. 2 Dopo aver cercato di individuare qualche elemento di comunanza tra i regimi non democratici, essenzialmente contrapponendoli concettualmente alla democrazia, ci si sofferma sulle condizioni della stabilità di un regime politico. Se si individuano alcuni dei fattori generali che rendono un regime relativamente stabile nel tempo, non potremmo 1 La difficoltà di definire e classificare i regimi ibridi traspare anche nella definizione di Morlino [2008, 175], per il quale sono tali «tutti quei regimi preceduti da un’esperienza autoritaria o tradizionale, cui faccia seguito un inizio di apertura, liberalizzazione e parziale rottura della limitazione del pluralismo ovvero tutti quei regimi che dopo un periodo di democrazia minima […] vedono interventi di personale non eletto – i militari soprattutto che pongono restrizioni al pluralismo competitivo senza regime autoritario, più o meno stabile». 2 Anche Huntington [1995] considera, come si fa qui implicitamente, la democrazia come una variabile discontinua o dicotomica. Su questo punto, si veda anche Ieraci e Paulon [2010].

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Il crollo dei regimi non democratici. Stabilità politica e crisi di regime in Tunisia,Libia ed Egitto

Giuseppe Ieraci

Premessa

Il crollo dei regimi non democratici presenta un apparente paradosso, perché si verificanonostante la loro relativa riserva di sicurezza: l’assenza (via repressione, naturalmente)di contestazione pubblica e la chiusura dei canali di accesso al potere politico. I regiminon democratici si stabilizzano rapidamente, una volta represse le opposizioni e occlusi icanali d’accesso al potere politico, e tuttavia essi inevitabilmente crollano, spesso inmodo inatteso e improvviso. Perché?In questo scritto s’intendono esplorare in chiave teorica e concettuale le condizioni dellastabilità politica e vedere se, per questa via, è possibile dar conto della caduta dei regiminon democratici. Ma vi è, innanzitutto, un problema: quali sono le principali tipologie deiregimi non democratici?, o più direttamente, come definiamo un regime nondemocratico? Si può anche convenientemente girare attorno a questi interrogativi, comefaremo in questa sede, partendo piuttosto dalla definizione di democrazia e – pocoelegantemente, certo – riconducendo alla categoria della «non democrazia» tutti i regimiche possiamo ragionevolmente escludere dalla nostra definizione di partenza. Si tratta, indefinitiva, di usare la nozione di democrazia come un filtro o un criterio di selezionenegativo. Anche il dibattito attorno alla democrazia è, ovviamente, molto aperto edacceso, ma se si prendessero in rassegna le svariate definizioni proposte dalle disciplinedel campo delle scienze sociali non sarebbe difficile individuare un ubi consistam e cosìqui si cercherà di fare. Inoltre, il nostro procedere ossequia il principio logico di non-contraddizione, la democrazia è o non è, tertium non datur. Ciò non implica ignorare cheesistano molte sfumature tra l’essere e il non-essere della democrazia, come nel caso deicosiddetti «regimi ibridi» sui quali si è recentemente indirizzata l’attenzione deglistudiosi [Morlino 2008; Bogaards 2009; Levitsky e Way 2010], ma qui seguiremo unascorciatoia per semplificare il discorso.1 Se procediamo nell’identificare delle dimensionid’analisi polarizzate agli estremi «non-democrazia»/«democrazia», allora i «regimiibridi» possono essere ricondotti su queste dimensioni, a seconda che siano non-democrazie avviate allo sviluppo politico oppure democrazie intrappolate nella spiraledella «decadenza politica» [Huntington 1965].2

Dopo aver cercato di individuare qualche elemento di comunanza tra i regimi nondemocratici, essenzialmente contrapponendoli concettualmente alla democrazia, ci sisofferma sulle condizioni della stabilità di un regime politico. Se si individuano alcuni deifattori generali che rendono un regime relativamente stabile nel tempo, non potremmo

1 La difficoltà di definire e classificare i regimi ibridi traspare anche nella definizione di Morlino [2008,175], per il quale sono tali «tutti quei regimi preceduti da un’esperienza autoritaria o tradizionale, cui facciaseguito un inizio di apertura, liberalizzazione e parziale rottura della limitazione del pluralismo ovvero tuttiquei regimi che dopo un periodo di democrazia minima […] vedono interventi di personale non eletto – imilitari soprattutto – che pongono restrizioni al pluralismo competitivo senza regime autoritario, più omeno stabile».2 Anche Huntington [1995] considera, come si fa qui implicitamente, la democrazia come una variabilediscontinua o dicotomica. Su questo punto, si veda anche Ieraci e Paulon [2010].

ipotizzare che sia proprio l’assenza di quegli stessi fattori a destabilizzare nel lungoperiodo le «non-democrazie»? Se quei fattori stabilizzano anche la democrazia, la loroassenza finisce per indebolire i regimi non democratici, causandone il crollo. Questoschema d’interpretazione verrà applicato alle recenti crisi nei tre paesi del Nord-Africa(Tunisia, Egitto e Libia) oggi alle prese con processi di democratizzazione dagli esitiancora non chiari.

«Non-democrazia» e «democrazia»

Non si può negare che i regimi non democratici si presentino in così tante vesti e formeche resta problematico ricondurli ad unità.3 Le differenze specifiche tra questi regimi sicollocano, infatti, su differenti piani d’analisi, ma sostanzialmente riconducibili al tipo dileadership, alla struttura del regime e all’esercizio del potere, alle funzioni dell’ideologiae ai modelli di mobilitazione. Seguendo Linz [1964], Morlino [2008, 174] suggerisce dianalizzare i «regimi autoritari» in base a cinque dimensioni: grado di pluralismo politico,giustificazione ideologica del regime, grado di mobilitazione politica, composizione delgruppo al potere, presenza di un quadro normativo. Queste dimensioni d’analisi rendonopossibile l’individuazione di alcune tipologie generali di regimi non democratici, chespaziano dal totalitarismo, all’autoritarismo, attraverso il post-totalitarismo, il sultanismo[Grilli 2009, 31], il personalismo, il patrimonialismo e il neo-patrimonialismo [Roth1968; Guliyev 2011], dentro le quali distinguere ulteriormente sottotipi e unicità. Ma perevitare di restare invischiati in un dibattito vastissimo e tuttora aperto, possiamosoffermarci su un tratto che accomuna i regimi non democratici e sul quale tutti glistudiosi concordano. In tali regimi, il pluralismo politico è assente o fortementecondizionato e manipolato dalla struttura del potere vigente nel dato regime. Se èpossibile e legittimo, sul piano scientifico, ridurre ad unicum i regimi non democratici,possiamo farlo sulla base della constatazione che in essi non c’è competizione politica oessa è fortemente manipolata e controllata nei suoi esiti. Anziché affrontare la materiacomplessa della classificazione dei regimi non democratici, possiamo adottare lascorciatoia di dire ciò che essi non sono, cioè dire che non sono «democrazia», eprocedere poi a ritroso.La proprietà di fondo della democrazia, ciò che dunque è completamente assente neiregimi non democratici, è un grado estremo di istituzionalizzazione della responsabilitàpolitica [Ieraci 2003]. Ciò significa che in democrazia, non solo si compete in modoaperto per il potere politico, ma altresì che l’esercizio del potere viene associato alcontrollo pro tempore di certi ruoli, ai quali sono collegate risorse eminentemente dicarattere normativo e procedurale, con una gamma di soluzioni e di architetture che èimpossibile sintetizzare in questa sede.4 In democrazia la forma è invariabilmente piùimportante della sostanza, vale a dire che ciò che conta è come si giunge al potere e comesi può essere rimossi dal suo esercizio, più che ciò che si fa quando si è al potere. Popperha espresso questo principio in modo così essenziale da meritare di essere citato: «Lademocrazia consiste di governi di cui ci si può sbarazzare senza spargimento di sangue[…]; il che significa che le istituzioni sociali forniscono i mezzi con i quali i governantipossono essere fatti dimettere dai governati […]» [Popper 1973, 179]. Questo elemento

3 Per un a classificazione dei regimi non-democratici, rinvio alla trattazione di Morlino [2003].4 Si veda però Ieraci [2003, 2010].

formale, di enorme importanza per l’istituzionalizzazione di un regime politico, il potersi«sbarazzare senza spargimento di sangue» dei governanti, è assente per definizione nelle«non-democrazie».Proviamo, brevemente, a riflettere sulle implicazioni di questo principio elementare, cherinvia al tema già richiamato della istituzionalizzazione della responsabilità politica indemocrazia. Tutti i regimi politici si fondono su una certa costellazione di ruoli,naturalmente formalizzati in vari gradi, abbiamo presidenti, deputati, senatori, consiglieri,duci, caudillos, leaders, re, imperatori e si potrebbe continuare. Da questi ruolipromanano gradi anch’essi variabili di potere e influenza, cioè capacità di «far fare»qualcosa a qualcuno. Quanto più questa capacità è circoscritta, limitata, tanto più èfacilmente «trasferibile» da un soggetto ad un altro che sia chiamato a svolgere, in undato momento, quel certo ruolo. Viceversa, se le capacità del potere sono indefinite odiscrezionali, illimitate o tendenzialmente tali, il loro trasferimento risulterà piùproblematico, se non addirittura impossibile, in quanto comporta dei costi nonprevedibili. In altri termini, nel primo caso il potere, ovverosia la capacità di «far fare»non appartiene concretamente ad alcun soggetto, ma è astrattamente agganciata al ruolo ealle funzioni limitate che un determinato soggetto si troverà a ricoprire. Nel secondocaso, invece, il potere e le capacità si personalizzano, nel senso precipuo che diventanouna «riserva» personale. Ancora, nel primo caso il potere e la capacità non sono mai diqualcuno, non gli appartengono in alcun modo, dunque si pubblicizzano, giacché essesono un dominio di quel ruolo e di quelle funzioni; nel secondo caso, il potere e lacapacità invece tendono a privatizzarsi, perché non si conoscono a priori il loro limite diapplicazione, quindi esse diventano discrezionali e, appunto, personali.Se accogliamo questo punto di vista, allora ne possiamo derivare la conclusione che lademocrazia poggi, se non esclusivamente, almeno tendenzialmente, sul potere pubblicodel primo tipo, collegato a ruoli e funzioni altamente formalizzati, cioè a istituzioni; la«non-democrazia» invece poggia se non esclusivamente, almeno tendenzialmente, sulpotere privato del secondo tipo, collegato a persone e soggetti che esercitanodiscrezionalmente potere. La democrazia è un regime fondato sull’istituzionalizzazionedella responsabilità politica, cioè sul conferimento di potere e capacità legate a ruoli efunzioni definite. Ci si può sbarazzare facilmente di chi svolge quelle funzioni e ricoprequei ruoli, perché le capacità e i poteri restano intatte e conosciute una volta rimosso ilsoggetto che le esercitava, in quanto agganciate ai ruoli e alle funzioni. In altre parole, laprobabilità del trasferimento del potere in democrazia è relativamente elevata e –potremmo aggiungere – i costi implicati da tale trasferimento sono relativamentecontenuti, perché sono ragionevolmente prevedibili ed anticipabili i limiti dell’azione deinuovi del potere futuri.All’opposto, i regimi non democratici sono de-istituzionalizzati per definizione, o a bassae precaria istituzionalizzazione, e non risulta così semplice sbarazzarsi dei soggetti cheesercitano potere e capacità, in quanto la loro rimozione comporta la cancellazione ditutto o buona parte della capacità di potere esistente in quel regime. Potere e capacità nonsono pienamente associati a ruoli e funzioni e non possono essere rigenerati facilmenteuna volta venuto meno il soggetto che ne era titolare. Qui dunque la probabilità deltrasferimento del potere è molto bassa, mentre risultano elevatissimi e incerti i costiinerenti di un suo eventuale trasferimento, perché non è prevedibile né calcolabile ciò che

faranno i nuovi governanti, in quanto le loro azioni sono illimitate o comunque maldefinite.Qualcosa di simile intendeva Friedrich [1950, 176] facendo riferimento al «governocostituzionale», cioè democratico, come caratterizzato, 1), «[dalla] istituzione e [dal]mantenimento di limitazioni efficaci all’azione politica e più specialmente a quellagovernativa» e, 2), dalla regolarizzazione di tali limitazioni. Su queste basi, Friedrichdistingueva i «governi costituzionali» nei riguardi dei quali agiscono forti limitazioni, daquelli incostituzionali, o illimitati. Così, se i regimi democratici sono caratterizzati dagoverni costituzionali o limitati, nei regimi non democratici troviamo invece governiincostituzionali o illimitati.

Sopra il funzionamento dei governi «limitati» e «illimitati». Integrazione e cooptazione

La probabilità del trasferimento del potere è una dimensione che discrimina i governidemocratici e «limitati» rispetto ai governi non democratici e «illimitati». Un altro aspettoimportante è il modo come si raccordano i comportamenti della classe politica e delleclassi sociali nei due tipi. Diremo, in sintesi, che in democrazia il modello prevalente èl’integrazione della classe politica e delle classi sociali, mentre nelle «non-democrazie»vigono sistemi di cooptazione.In democrazia, come è evidente, la lotta politica assume i tratti di un confronto aperto,finalizzato al guadagno di influenza sull’opinione pubblica e sulle forze sociali. Il grado diinfluenza guadagnata dai leader e dalle loro organizzazioni dipenderà in larga misura daiflussi di scambio che essi intratterranno con gli attori sociali e la pubblica opinione. Sitratta di flussi di scambio relativamente instabili di decisioni politiche o di promesse didecisione con sostegno politico (in ultima istanza voto o sostegno elettorale).

5Questa

instabilità relativa dello scambio dipende dal fatto che, da un lato, i valori attesi si possonomodificare così come la composizione delle forze sociali che le ricercano; dall’altro lato,dal fatto che i leader politici devono ampliare quanto più possibile l’offerta dei valori, cosìda incrociare quote sempre crescenti di domanda e da risultare vincenti nella lotta politica.Ne discende che i legami tra forze politiche e forze sociali restano relativamente flessibili enegoziabili, le prime hanno un interesse ad allargare sempre più il loro campo sociale diriferimento, mentre le seconde possono rivolgersi in alternativa alle varie componentipolitiche per vedere soddisfatti i loro valori e interessi. Questo insieme di interazionifavorisce l’integrazione fra classe politica e classi sociali, attraverso il meccanismo dellacompetizione elettorale e i canali della rappresentanza (parlamento, partiti politici, gruppisociali), che diventano i contenitori istituzionali delle condotte delle due componenti,uniformandole e omogeneizzandone le attitudini.Al contrario, nelle «non-democrazie» dove non è possibile una lotta politica aperta per ilpotere, oppure quando essa è esercitata in un sistema di «monopolio politico» che la riducea una mera finzione formale o a un simulacro, chi esercita il potere e ne detiene ilmonopolio è portato ad allacciare legami diretti ed esclusivi con i gruppi sociali, che sonocostantemente mobilitati in funzione di appoggio. Questa propensione può essereassecondata, in quei contesti dove la competizione elettorale è ridotta a un esercizio

5Questa prospettiva si ritrova in molte teorie sociali basate sulla nozione di scambio, a partire dal

lavoro seminale di Blau [1964].

cerimoniale che determina sempre gli stessi vincitori, mediante un sistema fitto di relazioniclientelari che lega in modo diretto alcuni gruppi sociali al potere in modo esclusivo estabilizzato. Molto spesso nelle «non-democrazie», i legami e gli scambi clientelari sonogarantiti da un partito unico o da un partito in posizione di monopolio la cuiorganizzazione è ramificata nella società e può essere chiamata a svolgere funzioni statualielementari (di protezione e\o di garanzia sociale) nei riguardi dei gruppi «clienti», persopperire alle inefficienze della macchina statale o semplicemente per erogare privilegi.Ne consegue che i flussi di scambio tra il potere e i gruppi sociali e le frazioni dell'opinionepubblica sono relativamente rigidi e non negoziabili, almeno fintantoché il regime simantiene. Quanto più i canali di accesso al potere politico risultano ostruiti, tanto più igruppi sociali cercheranno di rafforzare i loro legami con la fazione politica (oppure ilpartito o i partiti) in posizione dominante, cercando di rendere questi loro legamitendenzialmente esclusivi. A differenza della democrazia, qui i comportamenti della classepolitica e delle classi sociali non sono caratterizzate dalla contrattazione e dallo scambiodiffuso di politiche per sostegno, non s’istituzionalizzano canali che possano favorire talicontrattazioni e scambi, e per conseguenza alcune frazioni della classe politica e alcunigruppi restano ai margini del potere, permanentemente esclusi. L’occlusione dell’accessoal potere di governo e i legami molto esclusivi tra il gruppo politico dominante e alcunigruppi sociali privilegiati impediscono l’affermazione di modelli di comportamentocondivisi. Questa disomogeneità delle attitudini può esprimersi attraverso le cosiddette«sottoculture» (di tipo politico-ideologico, etnico-linguistico, religioso, tribale), che i varigruppi sviluppano l’una in contrapposizione all’altra. La rigenerazione del consenso non èfacile in questi regimi e tuttavia, in alcune circostanze, la classe di governo può ricercare ilsostegno aggiuntivo di nuovi gruppi sociali, promettendo loro i favori e i privilegi giàaccordati ad altri, mediante forme di cooptazione, cioè attraverso una selezione mirata ediscriminante di nuovi «beneficiari», sia pure alterando l’equilibrio del regime emettendone a repentaglio la stabilità.

Condizioni della stabilità di un regime politico

Il punto di vista delineato nei precedenti paragrafi può essere così reso in sintesi: i regimidemocratici si differenziano da quelli non democratici in virtù di due proprietàistituzionali esclusive, la probabilità del trasferimento del potere è relativamente elevata enel processo socio-politico prevale un modello flessibile d’integrazione tra classe politicae gruppi sociale. Per contrappunto, nei regimi non democratici registriamo l’impossibilitào la difficoltà del trasferimento del potere e il prevalere di un modello rigido dicooptazione socio-politica. Le democrazie sono, sotto questo profilo regimiistituzionalizzati in massimo grado, mentre i regimi non democratici soffrono di livellimolto bassi di istituzionalizzazione politica (si veda la Fig. 1). Naturalmente, probabilitàdel trasferimento del potere e grado di flessibilità/rigidità del processo politico non sonodue variabili perfettamente indipendenti, nel senso che quanto più è bassa la probabilitàdi un ricambio al potere, tanto più il processo politico tende ad irrigidirsi, cioè a basarsisu legami esclusivi stabiliti tra i governanti e specifici settori sociali o gruppi; e, perconverso, quanto più il processo politico si è irrigidito nel corso del tempo, tanto piùrisulta difficile il ricambio al potere di governo, perché i governanti possono ottenere ilsostegno politico sufficiente a mantenere le loro posizioni legando a sé in modo esclusivo

specifici settori sociali o gruppi, verso i quali indirizzare le loro politiche. Tuttavia, ladistinzione analitica tra le due dimensioni mantiene la sua validità, perché anche indemocrazia si possono registrare situazioni nelle quali la probabilità di ricambio al poteretende a scemare e la rigidità del processo politico tende ad aumentare.6

Occorre a questo punto chiedersi quali siano che condizioni della stabilità delle «non-democrazie» e, di converso, per quali ragioni esse possono crollare. Ma qui s’incontranosubito delle difficoltà, in quanto gli studi rivolti alle condizioni della stabilità politica sirivelano per varie ragioni asfittici. Intanto, va detto che gli approcci più diffusi hannoriguardato le condizioni della stabilità democratica.7 Poi vi è stata una relativasottovalutazione del fattore istituzionale, come lo abbiamo definito più sopra e assuntocome centrale o comunque rilevante al pari di altri.I principali approcci allo studio della stabilità politica possono essere convenientementericondotti a tre famiglie: quello centrato sulla cultura politica, quello indirizzato allostudio della distribuzione delle risorse socio-economiche, infine quello legato allanozione di istituzionalizzazione politica, seppure in una accezione diversa da quella quiin precedenza introdotta. L’interpretazione della stabilità democratica, che lega a filodiretto cultura politica e stabilità politica, è stato avanzato una cinquantina di anni fa daG.A. Almond e dalla sua scuola. La cultura politica è intesa da Almond come l’insiemedegli orientamenti cognitivi, valutativi e affettivi degli individui rispetto alle diverse sferedella politica o ai vari oggetti del sistema politico: la struttura delle domande (inputs), lastruttura dei risultati dell’azione di governo o delle risposte (outputs) e il sistema politicopiù in generale e nel suo insieme. Almond, in collaborazione con Verba, aveva mostratola diversa propensione all’azione politica degli individui competenti rispetto agli altri e in

6 Sul significato del ricambio della classe politica di governo, ovverosia dell’alternanza, come meraaspettativa in democrazia, si veda Ieraci [2012].7 Per un trattamento più esteso, rinvio a Ieraci [1999].

Probabilità del trasferimentodel potere

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DemocrazieElevata

istituzionalizzazione/costidel trasferimento bassi

«Non-democrazie»Bassa

istituzionalizzazione/costidel trasferimento elevati

Regimi ibridi

Fig. 1: Democrazie, «Non-democrazie» e regimi ibridi

particolare la loro tendenza a essere politicamente più attivi [Almond e Verba 1963].Questo tipo di cittadini, detti partecipanti, percepiscono se stessi come soggetti attivi delprocesso politico di governo e si distinguono nettamente tanto dai cittadini provinciali,con un grado di consapevolezza del sistema politico molto basso e con un relativo gradodi coinvolgimento attivo in esso, che dai cittadini sudditi, i quali percepiscono se stessicome oggetti della politica, che subiscono l’azione del governo piuttosto che concorrere adeterminarla8. L’ipotesi centrale dell’accostamento culturalista è che la democrazia fondiil suo funzionamento sul prevalere di attitudini e di cittadini di tipo partecipante, chepercepiscono se stessi come influenti e il processo democratico come aperto.Partecipazione attiva e apertura del processo democratico generano legittimità.9

Le interpretazioni fondate sul questa ipotesi sono molto diffuse. Occorre ora ricordareche nella prospettiva dell’analisi sistemica, che in buona parte Almond accoglie,l’equilibrio tra le domande e le risposte del sistema politico è alla base della sua stabilità.L’implicazione della stabilità politica nella cultura politica sembrerebbe allora poggiaresu qualche raccordo tra la capacità di risposta del sistema e la stessa cultura politica. Indefinitiva, quanto più ciascun individuo ottiene una impressione favorevole circa ilrendimento del sistema politico, sulla base delle sue conoscenze e delle sue valutazioni,tanto più favorevoli saranno i suoi orientamenti affettivi nei confronti dello stesso.Quindi, in ultima istanza, è il rendimento delle istituzioni politiche presenti all’internodel sistema politico a determinare l’atteggiamento del singolo individuo nei riguardi delsistema politico. La dimensione cognitiva della sua cultura politica è sì importante inquanto rivela l’estensione delle sue conoscenze circa la macchina politica, ma ciò nontoglie che il rendimento politico delle istituzioni resti indipendente tanto rispetto a taliconoscenze che alla successiva valutazione da esse derivata.10

La prospettiva culturalista assume dunque una diversa valenza se la colleghiamo alleproprietà istituzionali già descritte e richiamate nella Fig. 1. Del resto, se la democraziaha mostrato di poter funzionare pure in presenza di disomogeneità culturale, come nelcaso delle democrazie consociative [Lijphart 1977], anche molti regimi non democratici,afflitti da gravi conflitti, si sono mantenuti nel tempo e hanno saputo superare crisiricorrenti. Ribaltando l’assunto culturalista per adattarlo alle «non-democrazie»,potremmo assumere che nei regimi non democratici prevalgano attitudini e cittadini ditipo provinciale e suddito, che percepiscono se stessi come ininfluenti e il processopolitico come legittimamente chiuso, ma per analogia non ne discende che questomodello culturale sia la causa sufficiente o anche solo necessaria del loro crollo.Possiamo invece ammettere che la cultura politica possa risultare una causa facilitante oconcorrente il crollo degli stessi, in condizioni di bassa istituzionalizzazione politica.Quando i costi del trasferimento del potere sono molto elevati (e la sua probabilità bassa)

8 Si veda anche Almond e Verba [1989]. Successive ricerche hanno indicato la strettacorrelazione tra livelli di istruzione e di conoscenza della macchina politica e livelli dipartecipazione politica. Cfr. Verba, Nie e Kim [1978].9 Sottolineo la similitudine tra queste due diverse accentuazioni del ruolo dei valori politici dominanti,talvolta pensati nella forma della cultura politica, talaltra in quella della legittimità come in Lipset [1963] oin Linz e Stepan [1978].10 Questo punto è sostenuto con vigore anche da Barry [1970, 49]: ammesso che ci sia unarelazione tra cultura civica e stabilità democratica, «is this because the ‘culture’ influences theworking of the ‘institutions’ or is it merely that it reflects them?».

e il processo politico risulta rigido, basato sulla cooptazione selettiva di gruppi sociali einteressi da parte dei detentori del potere, le «non-democrazie» possono cadere in unaspirale d’instabilità politica difficilmente reversibile. Il blocco dell’accesso al potere el’occlusione di ogni canale partecipativo esasperano la rabbia degli sfidanti e degliesclusi, il regime può essere tentato di ricorrere alla repressione, che è il mezzoimmediatamente disponibile ed apparentemente efficace di ridurre gli sfidanti, ma altempo stesso rinsalderà i vincoli con i gruppi privilegiati emarginando sempre più gliesclusi: i detentori del potere hanno bisogno dei gruppi cooptati per mantenersi, questiultimi hanno interesse a preservare quella struttura del potere per continuare a garantire ipropri interessi.Queste brevi osservazioni critiche ci suggeriscono un utilizzo più ampio delle tesiculturaliste, tale da renderle una chiave interpretativa proficua anche per l’analisi dellecondizioni d’instabilità delle «non-democrazie»:

Ipotesi 1: Nei regimi a bassa istituzionalizzazione, caratterizzati quindi da costi ditrasferimento del potere molto elevati e da rigidità del processo politico, ladisomogeneità della cultura politica rafforza le identificazioni subculturali, riduce lacredenza nella legittimità del regime politico e crea le condizioni per il conflitto sociale eribelle.

In base ad un secondo approccio al tema della stabilità politica, alcuni autori (tra di essi,Robert A. Dahl e Harry Eckstein) hanno sottolineato l’impatto della distribuzione deipoteri sociali ed economici sui regimi politici e le conseguenze di tale distribuzione sullecondizioni della stabilità. Senza dilungarsi su un contributo profondamente noto, Dahl[1971] raramente è stato letto come un teorico della (in)stabilità democratica. In estremasintesi, per Dahl la poliarchia è un regime politico caratterizzato da sviluppo sociale edeconomico molto elevato, nel quale si palesa una generale dispersione o neutralizzazionedelle principali risorse in gioco: i «mezzi violenti di coercizione», che sono tipicamentedetenute dai militari e dai corpi di polizia, e le «sanzioni socio-economiche», cioèl’insieme dei mezzi non violenti di coercizione che prendono la forma del controllo sullerisorse economiche, sui mezzi di comunicazione e sui processi educativi e disocializzazione politica [Dahl 1971, 48-49]. Questa dispersione/neutralizzazione dellerisorse in gioco è per Dahl la condizione di base della poliarchia e della sua stabilità,perché aumenta la possibilità che il governo tolleri - o, meglio, sia costretto a tollerare –l’opposizione e che questa ultima non ricorra a scorciatoie violente per impossessarsi delpotere.L’analogia tra la posizione di Dahl e quella di Eckstein [1966] sta nell’enfasi posta daquesto ultimo sulla congruenza tra il modello di autorità governativo e i modelli diautorità presenti nella società, affinché siano possibili in politica decisioni «effettive».Più precisamente, Eckstein sostiene che un «governo sarà stabile, (1) se i modelli diautorità sociale sono identici a quello governativo, o (2) se essi sono ordinati e sidispongono in modo graduale, all’interno di una società di fatto segmentata, o (3) se si haun elevato grado di somiglianza nei modelli prossimi a quello governativo e si registra trai segmenti più distanti un marcato allontanamento dai modelli funzionalmenteappropriati, allo scopo di imitare completamente o in gran parte il modello governativonelle pratiche rituali» [Eckstein 1966, 239-240]. Quindi, se per Dahl la dimensione

politica della democratizzazione (creazione e consolidamento delle istituzioni politiche,come le arene legislative ad esempio, e dei meccanismi di accesso ad esse, come lacompetizione elettorale e più in genere il mercato elettorale) dipende dalla dimensionesocio-economica, e se dunque le istituzioni politiche democratiche e i metodi dicompetizione per il potere in democrazia non sono altro che un riflesso della dispersionedelle risorse sociali ed economiche più importanti,11 lo stesso può dirsi della posizione diEckstein, per il quale laddove la struttura dell’autorità politica sia incongruente conquella sociale può generarsi una reazione esplosiva. Anche per Eckstein, cosi come perDahl, sono per tanto i pesi e contrappesi sociali a costituire le reali proprietà dellademocrazia ed essi soli fungono da potenti regolatori del comportamento politico, sicchéle istituzioni e le norme costituzionali alle quali esse danno espressione sono solo fattorisecondari di un più complesso gioco di parti che sta alla base del processo politico.Sappiamo tuttavia che anche in democrazia la distribuzione delle risorse socio-economiche e di quelle politiche non è necessariamente ugualitaria o orizzontale.12

Alcune disparità inevitabilmente permangono, tanto nella società (non tutti disponiamodella stessa ricchezza) che nella sfera politica (non tutti disponiamo dello stesso potere).Ciò che rende sopportabili queste disparità in democrazia, mentre esse risultano esplosivein altri contesti, non può certo essere una semplice disposizione attitudinale, ché perquesta via la spiegazione fornita tornerebbe ad essere culturalista. Semmai sarebberoalcune proprietà istituzionali a mitigare l’effetto delle disparità e disuguaglianze purpresenti in democrazia: c’è almeno qualche probabilità di un trasferimento del potere, chemagari finirà per compensare gruppi prima svantaggiati, e il processo politico èsufficientemente flessibile da offrire qualche opportunità di rappresentanza esoddisfazione ai molteplici interessi presenti. Sarebbe quindi il grado elevato diistituzionalizzazione politica a prevenire nella democrazia conflitti destabilizzanti causatidalle disparità pur presenti, mentre lo stesso non varrebbe nel caso dei regimi nondemocratici e perciò a bassa istituzionalizzazione:

Ipotesi II: Nei regimi a bassa istituzionalizzazione, caratterizzati quindi da costi ditrasferimento del potere molto elevati e da rigidità del processo politico, l’esclusione dialcuni gruppi e la concentrazione delle risorse socio-economiche in capo ad altri

11 Bastino alcune bervi citazioni tratte da Dahl [1956, 22, 134 e 137]: «[La democrazia madisoniana]sottovaluta l’importanza degli inerenti pesi e contrappesi sociali presenti in ogni società pluralistica»; «[...]qualora nella società umana si dia una qualsiasi protezione generale contro la privazione da parte di ungruppo della libertà desiderata da un altro gruppo, questa non sarà probabilmente rintracciabile nei modellicostituzionali»; infine, «le norme costituzionali non sono fattori cruciali e indipendenti nella persistenzadella democrazia; sono le norme stesse che sembrano piuttosto essere funzioni di fattori non costituzionalisottostanti». Va da sé che Dahl chiama qui «fattori costituzionali» ciò che per noi sono le istituzionipolitiche.12 Questo è evidente anche se si affronta il problema nell’ottica di Eckstein. Infatti, anche in democrazia sidanno relazioni sociali che non possono essere organizzate democraticamente, pena la loro funzionalità(per esempio, quelle entro i partiti, i gruppi di pressione, certe associazioni, l’amministrazione civile,l’esercito); inoltre queste relazioni impermeabili all’organizzazione democratica possono rintracciarsi insegmenti sociali molto prossimi al governo. A partire da questi elementi, Eckstein formula un corollarioalla teoria generale dell’instabilità che concerne il governo democratico: «Il governo democratico tenderàalla stabilità solo se è, in una certa misura, impuro - se cioè, in breve, la configurazione dell’autoritàgovernativa si caratterizza al suo interno per disparità bilanciate (balanced disparities), entro le quali lademocrazia è una parte importante, ma solo una parte» [Eckstein 1966, 262-263].

determina una contrapposizione sociale tra di essi e crea le condizioni per il conflittosociale e ribelle.

Comunque le si considerino, le prime due interpretazioni della stabilità dei regimi politicioffrono una lettura che favorisce le variabili latamente sociali rispetto a quelle politiche,rivolgendosi ora alle disposizioni e alle attitudini dei partecipanti ad una comunitàpolitica, ora ai modelli di relazione sociale in quanto contrapposte ai modelli di relazionepolitica. Un terzo filone di riflessione si è invece indirizzato verso la dimensione politicadella stabilità, indirizzando la sua attenzione ai processi di istituzionalizzazione. Nel notocontributo di Huntington [1968], s’ipotizza che l’instabilità politica sia dovutaall’immissione molto rapida e non canalizzata di nuovi gruppi sociali, emancipati dalprogresso sociale ed economico, nell’arena politica. L’instabilità sarebbe la conseguenzadi una diffusione molto pronunciata della partecipazione politica e di un aumento dellamobilità sociale in contesti nei quali, per contro, il ritmo di adeguamento delle istituzionipolitiche alle mutate condizioni è insufficiente. Huntington propone di misurare questoavanzamento nello sviluppo delle istituzioni politiche ricorrendo alla nozione diistituzionalizzazione, definita come «il processo tramite il quale organizzazioni eprocedure acquistano validità e stabilità»La prospettiva di Huntington è stata criticata,13 ma resta il suo punto focale, cioè ilcollegamento tra instabilità politica e crisi di partecipazione14. Huntington sicuramenteimpiega una nozione esageratamente allargata e imprecisa di istituzione politica, entro laquale egli comprende, oltre a governi, parlamenti, tribunali, costituzioni e leggi, quellache egli considera l’istituzione politica per eccellenza della contemporaneità, vale a direil partito politico: «Il partito politico - scrive Huntington - è l’organizzazionecaratteristica della politica moderna [...]. La funzione del partito è quella di organizzare lapartecipazione, di aggregare gli interessi, di stabilire collegamenti tra le forze sociali e ilgoverno» [Huntington 1968, 102]. Inoltre, dire che l’istituzionalizzazione comportal’acquisizione di «validità e stabilità» è un’affermazione sufficientemente universale darisultare applicabile a qualsiasi organizzazione e procedura in qualsiasi contesto, mentreci è indispensabile discriminare i meccanismi politici in democrazia da quelli propri delle«non-democrazie». Se la democrazia rende probabile e poco costoso il trasferimento delpotere, da un lato, e impedisce che i legami tra i detentori del potere e i gruppi socialis’irrigidiscano, dall’altro lato, difficilmente possiamo supporre che un partito unico,oppure un sistema partitico dominato, possano servire come canaled’istituzionalizzazione politica. Al contrario, la presenza di un partito unico, oppure lacompetizione partitica fittizia e il relativo blocco della stessa per la presenza di un partitodominante, inibisce l’istituzionalizzazione politica, perché la probabilità del trasferimentodel potere è molto bassa e i suoi costi elevati, mentre il blocco della competizionerafforza i legami esclusivi di alcuni gruppi sociali con il potere a scapito di altri. Neiregimi non democratici, il partito non può quindi essere un canaledell’istituzionalizzazione poliitca, ma semmai il meccanismo organizzativo mediante ilquale si fissa la ratio dello scambio tra i detentori del potere e i gruppi privilegiati a lorocollegati. Il partito in questi contesti può acquisire validità e stabilità, ma solo per alcuni

13 Non potendo rendere conto qui di queste obiezioni, mi limito a segnalare le più radicali: Kesselman[1970], Tilly [1970], Ben Dor [1974; 1975], Sigelman [1979].14 Cfr. anche Huntington [1975].

gruppi e a scapito di altri, in una situazione di esclusione permanente di questi ultimidallo scambio politico. Pertanto, il partito in questi regimi è uno dei possibili canali dimobilitazione organizzata del consenso e del sostegno, ma la sua valenza istituzionale èestremamente precaria, per non dire assente. Altri canali sono possibili, naturalmente: sipensi, ad esempio, alle linee claniche e tribali nei paesi in via di sviluppo, che spessofungono da complemento all’organizzazione partitica, oppure all’esercito, a forze para-militari e ad altri apparati del regime. Questi elementi sono in qualche misura contingenti,nel senso che la loro natura e il loro operare dipendono dalla natura dei regimi.15 Questoelemento organizzativo a-istituzionale o pre-istituzionale (il partito, il clan, la tribù, gliapparati), che prima ha garantito gli scambi tra i detentori del potere e i gruppiprivilegiati, è la salvaguardia estrema del regime quando si è eroso il consenso ed emergeil conflitto, talvolta violento e ribelle:

Ipotesi III: Nei regimi a bassa istituzionalizzazione, caratterizzati quindi da costi ditrasferimento del potere molto elevati e da rigidità del processo politico, elementiorganizzativi a-istituzionali controllano l’accesso alle risorse e riducono il conflitto, cosìil loro venir meno crea le condizioni per il crollo del regime.

Le tre ipotesi che discendono da queste interpretazioni puntano su variabili eterogeneema in definitiva riconducibili a due nuclei distinti. La prima e la seconda ipotesiindividuano fattori «sociali» estesi che intaccano la stabilità dei regimi non democratici,quali la perdita di legittimità o trasformazioni degli orientamenti culturali di fondo, oancora un cambiamento tra la distribuzione degli orientamenti che fa emergere comepredominanti valori e tendenze prima inespressi o semplicemente repressi dal regime.Questo tipo di trasformazioni si associano, o talvolta sono stimolate, da analoghi processidi bilanciamento delle risorse sociali ed economiche, che facilitano l’affermazione digruppi esclusi o marginali. In entrambi i casi, i fattori sociali possono risultare fortementecondizionati anche da fattori esterni al regime, come nel caso dell’influenza esercitatadall’arena internazionale e dai processi – anche culturali – al suo interno. La terza ipotesi,a sua volta, rimanda a fattori «del regime», e quindi più propriamente interni. I regiminon democratici soffrono di un grado basso o addirittura assente di istituzionalizzazione,che ne rende precaria la sopravvivenza. Tuttavia, essi si stabilizzano nella misura in cuisono in grado di estendere il controllo sociale e politico mediante organizzazionicomplesse ed articolate (partiti, agenzie burocratiche, milizie, apparati statali). Quandoqueste organizzazioni s’indeboliscono, per erosione dei legami organizzatiti stessi operché si sono innescati nuovi cicli di mobilitazione sociale, i regimi non democraticivacillano e talvolta crollano con fragore e in modo inatteso.

Fattori del crollo e «rivoluzione». Un modello

Qual è la valenza di queste tre interpretazioni e delle variabili sulle quali esse riposano sevolessimo spiegare il recente crollo o la crisi di alcuni regimi autoritari nel Nord Africa enel Medio-oriente? Un tentativo di sintesi è avanzato nella Fig. 2.

15 Per l’identificazione di questi fattori, l’analisi dettagliata e la classificazione dei regimi non democratici èdavvero importante.

In questo modello, le variabili indipendenti che agiscono negativamente sul livello diistituzionalizzazione del regime (bassa/assente probabilità di trasferimento del potere erigidità del processo politico) possono condurre a conflitti e ribellioni generalizzate, inultimo al crollo rivoluzionario, se intervengono tanto fattori di destabilizzazione «sociali»che «del regime». La delegittimazione del regime agisce come molla motivazionale olatamente «culturale» nella mobilitazione della protesta. Si è argomentato che le non-democrazie soffrono di una doppia rigidità, perché non dispongono di meccanismiistituzionali per regolare il trasferimento del potere da un gruppo all’altro e perché chiattualmente occupa il potere privilegia i propri gruppi di riferimento e di sostegno. Igruppi esclusi percepiscono sia l’occlusione dei canali d’accesso al potere chel’erogazione di politiche ad esclusivo vantaggio dei gruppi concorrenti e privilegiati daidetentori del potere, così sviluppano sentimenti di alienazione nei confronti del regime etendono a rinforzare i loro legami ascrittivi o di clan, percependosi come «sudditi» edemarginati. Livelli marcati di disuguaglianza socio-economica acuiscono questisentimenti e agiscono tipicamente in base al noto meccanismo della «deprivazionerelativa» [Gurr 1970]. I gruppi esclusi che si trovano in condizioni di svantaggio sociale(le posizioni di vertice sociale e dirigente sono precluse al loro raggiungimento) edeconomico, avvertono lo scarto che li separa dai gruppi privilegiati come una«privazione» o spogliazione di beni. La ribellione violenta scatta quando i canali dimobilitazione partitico/istituzionale perdono capacità di controllo sociale e di erogazionedi beni e servizi. Questi fattori sono molto importanti, perché attendono allecaratteristiche del regime e della costellazione di forze che lo reggono, alla quale talora sifa riferimento come «coalizione dominante» [Morlino 2003]. In alcuni regimi il canale dimobilitazione, che abbiamo chiarito essere non-istituzionale o a-istituzionale, è offerto daun partito unico o dominante, in altri da un apparato burocratico e relativamenteefficiente, in altri ancora dagli apparati militari e di polizia, infine talvolta possonosussistere delle istituzioni rappresentative di natura elettiva o quasi-elettiva verso le qualisi orienta la protesta in prima battuta. Questo aspetto è di rilevanza in svariati casi diregimi non democratici, che talvolta si presentano come «autoritarismi elettorali»[Bogaards 2009], talaltra offrono in ambito sociale e politico limitate «nicchie

Bassa/assente probabilità ditrasferimento del potere

Rigidità del processo politico

Bassa/assenteistituzionalizzazione

Interruzione del canalepartitico/organizzativo

di mobilitazione

Disuguaglianzasocio-economica

Delegittimazione

CROLLORIVOLUZIONARIO

Conflitto/ribellione

Fattori «sociali» Fattori «del regime»

Fig. 2: Deficit istituzionale e crollo rivoluzionario delle «non-democrazie». Un modello

democratiche» (democratic enclaves), dove agiscono procedure di tipo razionale-legaleed entro le quali l’azione dispotica del regime non è ammessa o possibile [Gilley 2010].16

L’ipotesi qui delineata è che, pur in presenza di un livello davvero modesto diistituzionalizzazione politica, di gradi sensibili di disuguaglianza socio-economica e alcrescere della delegittimazione del regime, questo può mantenersi nel medio periodo se ifattori «del regime» restano positivi. In particolare, i canali a-istituzionali dellamobilitazione politica (il partito unico o dominante, un apparato burocraticorelativamente efficiente, un sistema di controllo sociale politico-militare funzionante)possono inibire il conflitto o la ribellione aperta e, per questa via, concorrere astabilizzare il regime.17 Ne deriva che, all’opposto, l’interruzione anche momentanea ditali canali rimuove i freni inibitori e la protesta, anche conflittuale e ribelle, può montarefino alla soglia rivoluzionaria e al crollo del regime.18 Questa linea ipotetica apre nuoviinterrogativi. Perché i regimi non democratici durano, talvolta, così a lungo? La lorodurata è un indicatore di stabilità politica? In secondo luogo, vi è un limite temporale ditale durata? In altri termini, perché si assiste spesso al crollo così repentino di questiregimi, quando essi paiono solidi?Rispetto al primo nucleo di problemi, occorre chiarire che la durata di un regime non vaconfusa con la sua stabilità. Questa è condizionata dai processi di istituzionalizzazionepolitica più sopra descritti, pertanto un regime non democratico è per definizioneinstabile perché non è in grado di assicurare il trasferimento del potere, se non a costielevatissimi, e perché il processo politico è asfittico, rigido e limitato. Questi regimi,come già detto, si garantiscono la sopravvivenza legando a sé gruppi circoscritti infunzione di sostegno, che scambiano con vantaggi, erogazioni di servizi e diritti. Inoltre,questi scambi e questi legami passano attraverso canali organizzativi di mobilitazionespecifici e a-istituzionali, come i partiti oppure gli apparati. L’abilità a mantenere edestendere questa costellazione d’interessi, eventualmente cooptandone di nuovi, è lachiave del loro temporaneo successo. Così, si confonde comunemente la sopravvivenzadi una «non-democrazia» anche per periodi estesi per una manifestazione di stabilità e,dunque, di istituzionalizzazione, ma come ipotizzato il crollo è un’evenienza semprepossibile se la delegittimazione e la pressione esercitata dai gruppi svantaggiati ed esclusinon è opportunamente contenuta dai canali di mobilitazione partitico/organizzativi.L’indebolimento o la perdita di efficacia di questi canali offre opportunità di protesta osemplicemente di articolazione non controllate di domande sociali, che scuotono ilregime e svelano la sua difficoltà a generare sostegno.

16 In qualche misura, questa lettura si avvicina a quella proposta decenni fa da Linz [1964]dell’autoritarismo come un regime di «pluralismo limitato». Anche lo stato totalitario può talvolta offriresoluzioni simili, come nei casi in cui si determini una situazione duale di coesistenza di una sfera razionale-legale e di una sfera discrezionale dell’esercizio del potere, in altri termini un vero e proprio «doppio Stato»[Fraenkel 1983]. Va sottolineato che Gilley [2010] queste enclave democratiche sarebberoistituzionalizzate.17 Una interpretazione vicina a quella qui proposta si trova in Way [2010], che fa riferimento ai casi dellerepubbliche post-sovietiche e secondo il quale la sopravvivenza dei regimi autocratici è resa possibile dallacombinazione dei seguenti fattori: un partito molto istituzionalizzato capace di mobilitare la societàideologicamente; un apparato di coercizione esteso ed efficiente; il controllo discrezionale dello statosull’economia.18 Per soglia rivoluzionaria, seguendo Huntington [1968], intento una situazione nella quale si siadeterminata entro un regime una presenza di sovranità multiple, cioè di poteri sovrani in competizione tradi loro per il conseguimento di un nuovo monopolio.

Queste osservazioni ci portano al secondo insieme di domande, svelando un paradosso:quanto più un regime non democratico si protrae nel tempo, tanto più esso è esposto acrisi ricorrenti. Se in democrazia la durata nel tempo è un fattore benefico, perchéfavorisce il processo d’istituzionalizzazione, cioè sedimenta negli attori i modelliistituzionali di comportamento e le aspettative reciproche, i regimi non democraticipossono essere in grado di fissare la loro base iniziale di consenso in tempi rapidi, perchéscambiano immediatamente consenso con favori e privilegi, ma nel lungo periodoincontrano difficoltà a rigenerare quel consenso, acuiscono la rabbia degli esclusi e, sevengono meno i canali del controllo partitico/organizzativo, si espongono alla protesta ealla ribellione. Ma quanto a lungo possono durare? Le nostre scienze non consentono dimettere a punto modelli di previsione accurati e controllabili, tuttavia possiamo ricavarequalche indicazione basandoci su ragionamenti induttivi e confrontando la Tab. 1.

Tab. 1: Leader, permanenza al potere e canale di mobilitazione in alcune «non-democrazie»

Stato Leader oCapo di

Stato

Periodo alpotere

Durata Eventoconclusivo

«Canale»primario di

mobilitazioneTunisia Bourguiba 1957-

198730 anni Deposizione

internaPartito(RaggruppamentoCostituzionaleDemocratico),corpoamministrativo

Ben Ali 1987-2011

23 anni Deposizioneinterna,fuga

Libia Gheddafi 1969-2011

42 anni Assassinato Struttura tribale

Egitto Al Sadat 1970-1981

11 anni Assassinato Partito NazionaleDemocratico,esercitoMubarak 1981-

201130 anni Deposizione

interna earresto

Siria Al-Asad(padre)

1971-2000

29 anni Mortenaturale

Partito Baath,esercito

Al-Asad(figlio)

2000-? ? ?

Colpiscono alcuni elementi. Se escludiamo il caso di Sadat in Egitto, ucciso nel 1981, ileader in queste «non-democrazie» esercitano il loro potere per periodi variabili tra 25 e40 anni, di fatto per l’intera estensione generazionale e anche oltre. In alcuni casi (Egittoe Tunisia) vi è la parvenza di un sistema elettivo, ma soltanto la deposizione interna ponefine al potere del leader. Possiamo considerare la «soglia generazionale» dei 25 anni diesercizio potere come il limite ad quem dei regimi non democratici, varcata la quale essisi trovano a dover affrontare il problema del trasferimento del potere e dellalegittimazione eventuale della nuova leadership, senza disporre di meccanismiistituzionali consoni a questa intrapresa. La morte poi è un evento ancor più risolutivo, si

tratti di un fatto naturale o di un vero e proprio assassinio del despota, come nel casorecentissimo di Gheddafi e decenni or sono di Al Sadat. Se si accoglie il punto di vista diPopper inizialmente richiamato, della democrazia come l’unico regime che consente dirimuovere i governanti senza spargimento di sangue, non resta che concludere che questiregimi ne sono la negazione più lampante, qualunque siano i risultati e le classificazioniproposte da alcune agenzie di «rating democratico» oggi così popolari e disinvoltamenteutilizzate anche dagli accademici.19

Tra questi regimi, Tunisia, Egitto e Siria hanno mostrato una relativa capacità di trasferireil potere, ma mai in base a meccanismi difficilmente riconducibili a quelli democratici. InTunisia assistiamo nel 1987 alla deposizione interna di Bourguiba, che viene dichiarato“incapace” e rimosso dal potere formalmente in ossequio al dettato costituzionale. Restail fatto che Bourguiba non è sconfitto per via elettorale, ma rimosso contro la sua volontàda elementi interni al regime. Il regime egiziano supera la crisi successiva all’assassiniodi Al Sadat, designando al potere Mubarak, anche in questo caso con una trasmissioneinterna del potere. Infine, in Siria si assiste ad un passaggio dinastico padre-figlio nel2000 che consente al regime di sopravvivere. Cosa avrebbero in comune questi casidisparati? Il canale di mobilitazione partitico/organizzativo è in essi operante e con unrelativo successo. Il Raggruppamento Costituzionale Democratico tunisino (RDC), ilPartito Nazionale Democratico egiziano (PND) e il Partito Baath in Siria sonoorganizzazioni ramificate e consolidate dello scambio sociale. In Siria e soprattutto inEgitto al canale partito si aggiunge l’apparato dell’esercito, che gestiscono anche settorisociale ed economici di rilevanza. In Tunisia vale inoltre una solida tradizioneburocratica e amministrativa: in definitiva questi regimi sono anche in buona misura deglistati relativamente funzionanti ed efficienti.20 All’opposto, dopo la fase iniziale che portaal tentativo di imporre alla rivoluzione una guida dall’alto mediante la costituzione delpartito dell’Unione Araba Socialista, il regime di Gheddafi imbocca decisamente unasvolta a-partitica e anche le strutture e gli apparati statali sono stati indeboliti nel corsodegli anni. Tanto il Consiglio Rivoluzionario che i comitati popolari si sovrappongonoalle strutture amministrative, «facendo aumentare rapidamente tra il 1973 e il 1974 laconfusione amministrativa e lo scontento popolare» [Vandewalle 1995b, 11]. Gli apparatisono stati sostituiti da una struttura di clan o tribale molto articolata, sulla quale è stataricalcata una organizzazione distrettuale. I distretti, a un tempo unità amministrative ecomponenti tribali, avrebbero dovuto scomporre le identità nazionali ancora vive inLibia, la Tripolitania a Ovest, la Cirenaica ad Est e il Fezzan a Sud-Ovest. Il regime si èmantenuto quindi in virtù di equilibri di potere molto delicati tra le componenti etnichedella Libia attuale e grazie a politiche di stampo distributive, rese possibili dalla ricchezzapetrolifera.21

Le vie della democrazia in Nord-Africa. Una prima applicazione del modello ai casi dellaTunisia, della Libia e dell’Egitto

19 La mia polemica è rivolta a Freedom House, ma cfr. Ieraci e Paulon [2010].20 Su questo Battera [2012, di prossima pubblicazione]. Sulla importanza del nesso tra stateness edemocrazia, cfr. Linz e Stepan [1996] e Møller e Skaaning [2011]. Qui si sottolinea piuttosto come livelliadeguati di statualità possano concorrere a prevenire o ritardare il crollo delle «non-demcrazie».21 Per un bilancio sul regime di Gheddafi, cfr. Vanderwalle [1995a].

Tralasciando il caso della Siria tuttora in divenire, possiamo tentare di testare in viapreliminare il modello proposto, confrontando le dinamiche dei casi della Tunisia, dellaLibia e dell’Egitto. Nei tre casi, i leader dei rispettivi regimi hanno quasi raggiunto oaddirittura superato la soglia generazionale (25 anni) di gestione ininterrotta del potere. Sitratta di una soglia fisiologica, che pone in crisi il potere autoritario o comunque i regiminon democratici: essi non hanno alcun meccanismo istituzionalizzato di trasferimento delpotere. Per contro, la rigidità del processo politico, cioè la difficoltà che questi regimiincontrano nell’ampliare la base del loro sostegno e la conseguente presenza di gruppi osettori sociali marginali ed esclusi, che premono per ottenere soddisfazione, acuisce ledifficoltà dei governanti. Non devono trarre in inganno alcuni tratti democratici dellastruttura autocratica del potere in questi casi: in Tunisia e in Egitto le elezioni che sitengono non sono libere, perché escludono componenti importanti dell’opposizione alregime, e le istituzioni rappresentative, come il parlamento, svolgono una funzionesimbolica di ratifica della volontà dell’autocrate, sia per la loro posizione e irrilevanza nelprocesso decisionale che la presenza di un partito dominante legato al regime.In Tunisia, il 20% dei seggi era riservato alle opposizioni, ma il RCD del Presidente BenAli si assicurava oltre l’80% dei seggi, in virtù di un sistema elettorale basatoformalmente su collegi plurinominali che venivano attribuiti in blocco al partito dimaggioranza relativa in ciascun collegio. Il RCD poteva contare su una base d’iscrittiampia (si stima una cifra prossima a un milione) ed occupava i ruoli chiave del regime,gestendo direttamente i processi di cooptazione e di promozione al suo interno. Unaposizione dominante simile è detenuta dal PND in Egitto, sebbene già nelle elezioni del2005 i Fratelli Musulmani ottengano circa il 20% dei seggi e si affermino come una verae propria opposizione, nonostante siano costretti a presentare le proprie candidature come“indipendenti”. A partire dalle elezioni del 2005, la violenza elettorale in Egitto siespande e il regime la «sponsorizza» per condizionare l’esito delle votazioni[Kraetzschmar e Cavatorta 2010].La chiusura ermetica del regime libico attorno al clan di Gheddafi non pone invece questistessi problemi interpretativi. Non vi sono elezioni politiche, perché nella sua struttura laJamahiriya prevedeva la rappresentanza delle città, dei villaggi e delle comunità neiconsigli di base del popolo, che poi attraverso i distretti confluiva nel Congresso Generaledel Popolo, sul quale però agiva con imperio assoluto il Consiglio della GuidaRivoluzionaria controllato da Gheddafi.22

Dal punto di vista dei criteri qui adottati, questi regimi risultano privi di livelli minimi diistituzionalizzazione politica: i detentori del potere non sono rimuovibili e il potere èchiuso; il processo politico è rigido. Altri elementi riferibili alla dimensione dellastatualità presentano una disposizione variabile tra i casi. Tunisia ed Egitto possonocontare su una struttura statale e apparati amministrativi effettivi e relativamente“razionalizzati”, mentre lo stesso non può dirsi del caso libico, dove prevalgono i legamipersonalistici con il dittatore e i vincoli di clan. La magistratura giudicante èrelativamente indipendente in Tunisia e in Egitto, anche se sottoposta a pressioni econdizionamenti da parte del regime. In entrambi i casi, la polizia si presenta come unapparato di controllo e potenzialmente di repressione a disposizione del partito dominantee del governo da esso espresso, attraverso il Ministero degli Affari Interni. Anche

22 Sull’assetto istituzionale del regime libico, cfr. Djaziri [1995].

l’esercito si è rivelato un attore di grande rilevanza, sia nel mantenimento dei regimi non-democratici che nelle fasi immediatamente successive alla loro crisi.L’esercito tunisino, ridotto nella consistenza (circa 32 mila unità, compresa la marina) emai direttamente impegnato in guerra (se si esclude l’invio di un modesto contingente inEgitto durante la guerra contro Israele nel 1973), può ritenersi sostanzialmentedepoliticizzato. Al contrario, l’esercito egiziano è molto consistente numericamente(quasi 900 mila unità tra effettivi e riservisti) e detiene importanti partecipazioni nelsettore economico e produttivo. In alcuni casi, industrie o imprese sono direttamentecontrollate dal Ministero della Difesa, oppure funzionari del Ministero della difesa ogenerali in pensione occupano al loro interno ruoli dirigenziali primari. Attraverso ilMinistero della Difesa, settori molto consistenti dell’economia egiziana sono statiassoggettati al controllo dello stato, così non sorprende che le tendenze recenti allaprivatizzazione e all’apertura del mercato siano state fortemente osteggiate dagli ambientimilitari. Del resto, i tre leader storici dell’Egitto moderno (Nasser, Al Sadat e Mubarak)provengono dall’esercito, e tanto in questo caso che in quello tunisino la sua matricesecolarizzata è evidente.L’esercito professionale libico ha una consistenza stimata in 25 mila unità professionali ealtrettante costituite da coscritti,23 ma qui si registrano sostanziali differenze, visto cheesso è organizzato su “brigate” (kata’ib) che hanno una matrice tribale e sono basateanche sul reclutamento di stranieri provenienti da tribù affini. Questo ci porta aconsiderare brevemente, tra i fattori sociali del regime, l’elemento tribale, che persiste nelcaso libico fino a pervadere la struttura amministrativa del regime, mentre èrelativamente assente nei casi della Tunisia e dell’Egitto. In Tunisia, già il governocoloniale francese aveva tentato di sradicare le tribù e durante il governo di Bourghibaquesta azione continua, tanto che alcune tribù tunisine migrano verso la Libia.Analogamente, in Egitto tanto l’azione del governo coloniale che quella di Nasserportano ad una riduzione dell’elemento tribale, per quanto qui persistano differenze nontrascurabili sul piano sociale e del ceto tra il notabilato urbano e quello rurale. In Tunisiae in Egitto l’organizzazione del partito dominante si è sostituita o almeno sovrappostaalla struttura tribale. Infine, in Tunisia e in Egitto, a differenza della Libia, si rintracciauna rete di gruppi sociali rilevanti, più o meno direttamente collegati al regime. InTunisia agiscono due gruppi funzionali importanti, come il sindacato centrale UGTT(Union Générale Tunisienne du Travail) che risulta fortemente penetrato dal RCD, el’organizzazione degli industriali UTICA(Union Tunisienne del’Industrie, du Commerce et de l’Artisanat), che però non ha mainel corso degli anni svolto un’azione autonoma rispetto al regime.24 La FratellanzaMusulmana è attiva sia in Tunisia che in Egitto, ma se nel primo caso la nomina degliimam da parte del governo ne ha limitato il potenziale d’opposizione, in Egitto essa haagito autonomamente anche attraverso la costituzione di ONG, offrendo servizi sociali eassistenza, così accrescendo il suo seguito in particolare tra le classi più povere. La

23 Questa, come le precedenti stime, sono riferite al 2009 e sono fornite dall’International Institute forStrategic Studies.24 UGTT e UTICA costituiscono gli assi portanti dello «stato corporativo post-coloniale». Negli anni ’70-’80, quando è avviata una fase di liberalizzazione politica e di apertura economica, il sindacato divieneportavoce della protesta contro il regime di Bourguiba ed il rappresentante pressoché esclusivo delle forzedi opposizione [Murphy 1999]. Cr. Anche Zartman [1991].

Fratellanza Musulmana si è imposta gradualmente in Egitto come uno tra i principaligruppi d’opposizione al regime, ma la versione waabita dell’islamismo importatadall’Arabia Saudita, che si diffonde e si afferma in Egitto a scapito delle correnti piùtolleranti a partire dagli anni settanta del secolo scorso, con il suo carattere aggressivo efondamentalista, fu inizialmente favorita dal regime di Mubarak che tenta di sfruttare lasua dottrina per contenere le spinte modernizzatici. L’islam waabita collude con il regimee paradossalmente rafforza il dispotismo di Mubarak [Al Aswany 2011].Dunque alcuni fattori sociali possono agire sul regime, destabilizzandolo e portandoloalla soglia del conflitto, con manifestazioni di ribellione aperta, ed eventualmente alcrollo rivoluzionario o simile e al rovesciamento del regime. Questi regimi sono andativariamente incontro a crisi di legittimazione o comunque a tensioni politico-ideologicheinterne. Il nazionalismo arabo, alimentato nei decenni più recenti dal problema israeliano-palestinese e dal fondamentalismo religioso, si è manifestato come una tendenzarelativamente autonoma all’interno di questi regimi ed è stato con difficoltà assecondatodai governanti. In definitiva, il nazionalismo arabo e l’affermazione dell’identità religiosahanno agito da collante tra le varie componenti dell’opposizione potenziale al regime,comprese quelle minoritarie di matrice liberale e socialista [Browers 2009]. Durante leprime fasi della cosiddetta “Primavera araba”, la protesta ha assunto fin dall’inizio unaconnotazione sociale ed economica evidente ed ha coinvolto soprattutto la generazionepiù giovane. Le opportunità economiche offerte dai regimi in questione ai gruppi socialiemergenti, costituiti da giovani, urbanizzati e con istruzione media superiore, sonorisultate così insoddisfacenti da scatenare proteste. La percezione diffusa della chiusuradel regime e della sua corruzione ha fatto il resto, esacerbando la protesta e portandolaalla ribellione aperta. Il caso egiziano è, da questo punto di vista emblematico, perchésomma questi fattori già evidenti nella fase pre-rivoluzionaria: povertà crescente,disoccupazione, corruzione, repressione, carenze nell’assicurare i diritti primari, comequelli sulla salute e l’istruzione, mentre il regime è principalmente preoccupato adassicurare la successione della presidenza da Hosni Mubarak a suo figlio Gamal [AlAswany 2011].Tuttavia, questi fattori sociali sono di così ampia scala da non potersi essere manifestatiimprovvisamente all’inizio del 2010, dovevano essere in incubazione già da prima e sonoprobabilmente rimasti allo stato latente per decenni. In altre parole, i fattori sociali da solinon possono essere la causa primaria del crollo degli autoritarismi in Tunisia, Libia edEgitto. Questi fattori già agivano, ma i regimi mostravano di poter far fronte alloscontento e cioè apparivano stabili in modo ingannevole. Questa stabilità illusoriapossiamo spiegarla ricorrendo all’analisi dei fattori politici del regime.La stabilità, o meglio sarebbe dire la “durata”, dei regimi tunisino, libico ed egiziano èdipesa da alcuni fattori politici ovverosia, come chiamati più sopra, da fattori «delregime», che hanno agito come canale permanente di mobilitazione e di controllo dellapartecipazione politica.25 In Tunisia, il RDC ha occupato per decenni tutti le posizioni

25 Questa interpretazione è prossima a quella celebre di Huntington (1968), ma come dovrebbe esserechiaro se ne discosta in un punto fondamentale: per Huntington i canali partitico-organizzativi dimobilitazione e di controllo della partecipazione politica sono istituzione e i processi ad essi inerenti sonoistituzionalizzazione; per noi sono invece a-istituzionali, restano cioè canali organizzativi attraverso i qualiagisce il potere politico autocratico, che – per dirla proprio nei termini di Huntington – non possonoacquisire «validità e stabilità» nel lungo periodo.

politiche rilevanti all’interno del regime, divenendo la struttura permanente e pervasivadel reclutamento politico e amministrativo. L’esercito, pur non costituendo unacomponente del regime importante quanto nel caso egiziano, ha fornito un supportocostante al partito unico e questa saldatura partito-esercito ha garantito la sopravvivenzadel regime. In Egitto è soprattutto l’esercito a garantire il mantenimento del regime,svolgendo una funzione per molti aspetti analoga a quella del suo omologo in Turchia,mentre il partito dominante NDP assicurava una facciata competitiva e democratica alregime. In Libia l’asse portante del regime appare essere la struttura tribale e la rete direlazioni dirette con il dittatore. Sarebbe pertanto il venire meno di questi elementi o«fattori del regime» a spiegare la loro improvvisa crisi.Tuttavia non è agevole rilevare questi cedimenti, indicare variabili che possano aiutarci averificare l’andamento dei fattori richiamati, particolarmente in ragione della chiusura diquesti regimi e dunque della difficoltà di costruire matrici dati. Una possibile via d’uscitaci è offerta dall’osservazione degli eventi recenti, come una strategia d’investigazione expost, in base al seguente ragionamento: se i fattori del regime già richiamati hanno avutoqualche rilevanza nella sua stabilizzazione per decenni, è probabile che la crisi riversi sudi essi i suoi effetti più evidenti.Questa semplice strategia investigativa sembra promettente. In Tunisia, tra la fine del2010 e l’Ottobre del 2011, quando si tengono le elezioni per l’Assemblea Costituente, aseguito di una serie di proteste e manifestazioni popolari, si verificano i seguenti eventi: il14 Gennaio 2011 il governo viene rovesciato e il Presidente Ben Ali si rifugia in esiliovolontario nell’Arabia Saudita; successivamente si dimette anche il Primo ministroGhannouchi; la polizia politica viene sciolta; il partito del regime, il RDC, è dichiaratoillegittimo ed è sciolto, tutto il suo patrimonio è requisito; vengono rilasciati i prigionieripolitici. La crisi in Tunisia investe direttamente gli assi portanti del sistema di potere, i«fattori del regime»: il partito unico e il suo gruppo dirigente, la polizia politica al suoservizio. Qualcosa di simile si verifica in Egitto nel corso del 2011. Le proteste e ilmovimento di Piazza Tahrir scuotono il regime e pongono le forze armate e di polizia difronte al dilemma della repressione o della tolleranza; nel febbraio il Presidente Mubarakviene rimosso e posto sotto accusa per le vittime della repressione recente; due Primiministri si dimettono in successione (Nazif e Shafik), con la conseguente sospensionedella Costituzione; i militari assumono il potere in modo aperto e il parlamento è sciolto;i Servizi di sicurezza dello stato vengono smantellati; il NDP viene sciolto e il suopatrimonio è trasferito allo stato. La differenza, in questo caso, è rappresentata dal ruolotenuto dall’esercito e dalla sua assunzione diretta del potere, che previene la dissoluzionecompleta del regime esistente. Infine, in Libia, la totale assenza di elementi organizzativiche stabilizzino il regime, come il partito e l’esercito nei casi della Tunisia e dell’Egitto,trasforma la protesta diretta contro il dittatore e il suo circolo in uno scontro o guerracivile tra fazioni opposte, da un lato l’esercito e le forze che sostengono il regime eGheddafi, concentrate in Tripolitania e in alcune regioni interne del paese, dall’altro (inCirenaica) i “ribelli” che sostenuti da forze militari esterne (le potenze europee e gli Usa,sotto l’ombrello NATO e sulla base di risoluzioni dell’ONU) s’impegnano in uno scontrocampale aperto e si costituiscono come Consiglio Nazionale di Transizione (CNT).L’intervento militare internazionale è decisivo nel far pendere l’esito della guerra afavore del CNT, che successivamente alla cattura e morte di Gheddafi viene riconosciutoa livello internazionale come l’autorità esclusiva di governo in Libia.

Conclusioni

Come si è visto, in estrema sintesi, si è trattato di situazioni e vicende abbastanza similinelle loro dinamiche iniziali, con proteste di piazza nelle capitali o principali città che sidiffondono gradualmente in tutto il territorio nazionale, seppure varino alcune circostantee gli esiti, come si tenta di mostrare nella Tab. 2 riepilogativa.

Tab. 2: La crisi di regime in Tunisia, Egitto e Libia

Fattoriorganizzativi delregime

Modalità dellacrisi

Tenuta deifattoriorganizzatividel regime

Modalità dellatransizione

Situazione attuale

Tunisia Partito Protesta, conflitto Bassa (ilRDC èsciolto)

Contrattata traestablishment eopposizioniemergenti

Elezionedell’AssembleaCostituente

Egitto Partito, esercito Protesta, conflitto Elevata (ilNDP èsciolto, mal’esercitoassume ilpotere)

Pilotata daifattori delregime (esercito)

Indette nuoveelezionipresidenziali,scontri e conflittisulle candidature

Libia Deboli/assenti Protesta, guerracivile

Bassa, ilegamipersonalisticie tribali conil dittatorevengonomeno

Interventoesterno (NATO,ONU)

Assunzione delpotere da parte diun ConsiglioNazionale diTransizione,status quo

In Tunisia e in Egitto sono presenti alcuni fattori organizzativi del regime, come il partitodominante e, nel caso egiziano, l’esercito, ma la loro capacità di tenuta è diversa. Il RDCtunisino e la polizia politica al suo servizio sono sciolte. Questa apertura dello spaziopolitico rende palese l’opposizione, che si manifesta nella creazione di svariati partiti, trai quali Ennahda di matrice confessionale e alcuni di matrice liberale (Congresso dellaRepubblica, Forum Democratico del Lavoro e delle Libertà). Gli apparati dello Stato,epurati della presenza degli esponenti del RDC, mantengono gradi sufficienti difunzionalità, mentre il coinvolgimento dell’esercito negli scontri è trascurabile. Lo stessoesilio forzato di Ben Ali e del suo entourage più stretto assume il valore simbolico di uncambio epocale. La transizione può seguire così i canali della contrattazione tra le forzepolitiche, quelle dell’establishment meno compromesso con il regime in crisi e quelle diopposizione, fino all’elezione di una Assemblea Costituente incaricata di ridefinire leregole del gioco.In Egitto non s’inaugura una fase costituente simile. Anche qui il partito del regime, ilNDP, è travolto dalla crisi, Mubarak viene destituito l’11 febbraio del 2011, ma resta inpatria e l’esercito assume il potere agendo mediante il Consiglio Superiore delle ForzeArmate, presieduto dal generale Tantawi e composto da 20 ufficiali anziani. Siamo quasiin presenza di un colpo di stato militare. Si apre quindi una fase turbolenta, caratterizzata

anche da conflitti violenti, durante la quale il Consiglio Superiore delle Forze Armategoverna il paese come una vera e propria giunta militare, consentendo l’apertura delleprossime elezioni presidenziali (23-24 maggio 2012) anche a candidati dell’opposizione.Tuttavia, la commissione elettorale presidenziale istituita dal Consiglio Militareinterviene con giudizi di legittimità e di ammissione sulle candidature, suscitando inquesto modo forti risentimenti in alcuni gruppi sociali e politici, così mobilitandoli controil Consiglio stesso fino allo scontro violento aperto.I casi della Tunisia e dell’Egitto evidenziano l’effetto diverso che determinano i «fattoridel regime», a seconda che persistano o siano rimossi. In Tunisia, lo scioglimento delRDC, la improvvisa eliminazione della sua rete di potere, l’uscita di scena di Ben Ali e laneutralità delle forze armate hanno aperto lo spazio competitivo a varie parti politiche,senza esclusioni, favorendo l’avvio di un processo costituente. In Egitto, spazzata via lacopertura partitica, resta effettivo il potere dell’esercito che tenta di preservare il regime edi condizionare la presentazione delle candidature per incidere sull’esito delle elezionipresidenziali. In altri termini, in Egitto la persistenza dei fattori che assicurano lacontinuità del regime ostacolano la dinamica democratica. Rispetto a questi due casi,quello della Libia è meno lineare. L’esito della guerra civile è stato l’abbattimento delregime personalistico di Gheddafi, ma in pari tempo si è riproposta con evidenza lastruttura tribale delle origini e non è chiaro fino a che punto il Consiglio Nazionale diTransizione, che è comunque l’espressione della parte vincente del conflitto, riuscirà adaffermarsi come riferimento della comunità politica libica complessiva.L’indebolimento dei «fattori del regime» sono essenziali per interpretare le recenti spintealla democrazia in Tunisia, Libia ed Egitto. Non è facile descrivere in modoconsequenziale la dinamica che collega tale indebolimento all’eventuale crisi di regime epoi all’avvio del processo di democratizzazione. Qui si è tentata un’analisi indiretta diquesto nesso, osservando come in questi casi l’epicentro della crisi si situi proprio in queifattori. In Tunisia e in Egitto, i due partiti dominanti vengono sciolti, i presidenti che essiesprimevano sono destituiti e il potere che essi detenevano è trasferito ad un governoprovvisorio, anche se nel caso egiziano questo è costituito da un Consiglio Superioredelle Forze Armate. Successivamente, si apre una fase elettorale per l’elezione di unaAssemblea Costituente (Tunisia) e per l’elezione di un nuovo presidente (Egitto). Nelcaso della Libia è meno agevole individuare i «fattori del regime», per via del caratterepersonalistico dell’esercizio del potere da parte di Gheddafi. Tuttavia, anche in questocaso si nota come ad essere travolta dalla crisi sia principalmente la struttura dei rapportidi potere che discendeva dal dittatore e dal suo circolo più ristretto, fino allo scontroarmato tra opposte fazioni e l’intervento di potenze straniere.I «fattori del regime» sono investiti direttamente dalla crisi perché da essi dipende lasopravvivenza politica di questi stessi. Fin tanto che questi fattori mantengono la loroeffettività, il manifestarsi di fattori sociali di crisi, quali la perdita di legittimità delregime o il cambiamento degli orientamenti culturali, oppure la crescente disuguaglianzasociale ed economica, sono controllabili dal regime, che utilizza dunque certi canali dimobilitazione politica-organizzativa (il partito unico, la struttura tribale, gli apparatiburocratici, gli apparati di repressione) per ridurne o controllarne gli effetti. Perparadosso, come si è argomentato, la durata di questi regimi non è necessariamente unindicatore di stabilità politica, ma al contrario la persistenza al potere di una élite chiusa,quindi in assenza di probabilità del ricambio politico e in presenza di un processo politico

estremamente rigido, avvicinano il regime al suo termine ad quem privo di qualsiasimeccanismo istituzionale effettivo di ricambio politico e di rigenerazione della sua classedi governo. I regimi non democratici non dispongono di meccanismi istituzionalizzatieffettivi del ricambio politico, essi più durano, più tendono a destabilizzarsi e adapprossimarsi la crollo.

Questo lavoro è parte di un PRIN, dal titolo ‘Dall’autoritarismo alla democrazia.Costruzione dello Stato, mercato, nazione e fratture politico-sociali in Asia e Africa(prot. 2009YF4S4R_002), Unità di ricerca del Dipartimento di Scienze Politiche e Socialidell’Università di Trieste, coordinata da G. Ieraci (Coordinatore Scientifico nazionale P.Grilli Di Cortona).

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