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SE LA DEMOCRAZIA FINISCE NELLA RETE di Andrea Ferrazzi «Non conviene combattere lo spirito della propria epoca e del proprio paese; e, per quanto forte un uomo possa essere, difficilmente indurrà i suoi contemporanei a condividere sentimenti e idee che vanno contro il corso generale delle speranze e dei desideri». Alexis De Tocqueville «Sono convinto che abbiamo bisogno di reimparare a rallentare l’influenza iperattiva dei mezzi di informazione sulle nostre vite (…) io apprezzo il valore della comunicazione istantanea e la potenza della connettività globale attraverso Internet. Ciò nonostante, si deve riconoscere la fragilità di innovazioni come il sistema di informazione a ciclo continuo e il così detto giornalismo partecipativo (…) Vorrei che mettessimo in discussione l’informazione in stile fast-food, fatta di calorie vuote, confezionata per mantenerci assuefatti essa; vorrei che riflettessimo invece sul fatto che, per la maggior parte delle notizie, dedicare tempo a ruminarle è prezioso, sia per il giornalista che le racconta, sia per il consumatore di informazione che si trova a casa (…) Dobbiamo mangiare per sopravvivere, ma un’informazione accurata è un ulteriore requisito per la nostra sopravvivenza». Peter Laufer ABSTRACT In un momento segnato dal riaffacciarsi delle ombre del Novecento sul continente europeo, si avvertono ancora più forti gli scricchiolii dei sistemi democratici di fronte alle sfide che essi si trovano ad affrontare: il rapporto con l’economia di mercato, gli effetti della globalizzazione, le diversità culturali, nonché l’educazione dei cittadini, intesa come presenza di un’opinione pubblica ben informata. In questo quadro, Internet può contribuire a migliorare lo stato di salute della democrazia? I profeti della Rete (o cyber-utopisti) ritengono che essa abbia un ruolo decisivo sia nella promozione del cambiamento sociale (da ultimo la primavera araba), sia nell’agevolare la partecipazione politica della cittadinanza e, quindi, nel rivitalizzare la democrazia nelle società della tarda modernità. Approcci più critici, invece, mettono in luce alcune problematiche di fondo, sintetizzabili in tre punti: 1) la polarizzazione e la frammentazione che si verificano on line e che, intrecciandosi fra loro, possono provocare la fine del dibattito pubblico; 2) gli effetti del sovraccarico informativo sulla mente degli individui e sull’opinione pubblica più in generale; 3) le potenzialità del Web nella trasmissione e diffusione delle emozioni che rappresentano sì un elemento costitutivo di ogni discorso politico, ma assumono un carattere particolarmente rilevante ed esacerbato in quello populista.Queste criticità si ripercuotono sulle condizioni sociali e culturali che concorrono alla stabilità dei regimi democratici, incidendo negativamente – per riprendere le categorie proposte da Martin Lipset - sia sulla «legittimità», ovvero sulla condivisione di valori, sia sulla «effettività», e cioè sull’efficienza del sistema. Contribuendo così ad amplificare il disagio della democrazia. 1. La precarietà della democrazia «Manca un minuto alla mezzanotte in Europa?», si chiedono Niall Ferguson e Nouriel Roubini, in un articolo uscito di recente sulle pagine del «Corriere della Sera». Lo storico di Harvard e l’economista della New York University guardano con preoccupazione alla crisi finanziaria che attanaglia il vecchio continente e, soprattutto, le non risposte dei governi. In

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SE LA DEMOCRAZIA FINISCE NELLA RETE

di Andrea Ferrazzi

«Non conviene combattere lo spirito della propria epoca e del proprio paese; e, per quanto forte un uomo possa essere, difficilmente indurrà i suoi contemporanei a condividere sentimenti e idee che vanno contro il corso generale delle speranze e dei desideri».

Alexis De Tocqueville

«Sono convinto che abbiamo bisogno di reimparare a rallentare l’influenza iperattiva dei mezzi di informazione sulle nostre vite (…) io apprezzo il valore della comunicazione istantanea e la potenza della connettività globale attraverso Internet. Ciò nonostante, si deve riconoscere la fragilità di innovazioni come il sistema di informazione a ciclo continuo e il così detto giornalismo partecipativo (…) Vorrei che mettessimo in discussione l’informazione in stile fast-food, fatta di calorie vuote, confezionata per mantenerci assuefatti essa; vorrei che riflettessimo invece sul fatto che, per la maggior parte delle notizie, dedicare tempo a ruminarle è prezioso, sia per il giornalista che le racconta, sia per il consumatore di informazione che si trova a casa (…) Dobbiamo mangiare per sopravvivere, ma un’informazione accurata è un ulteriore requisito per la nostra sopravvivenza».

Peter Laufer

ABSTRACT In un momento segnato dal riaffacciarsi delle ombre del Novecento sul continente europeo, si avvertono ancora più forti gli scricchiolii dei sistemi democratici di fronte alle sfide che essi si trovano ad affrontare: il rapporto con l’economia di mercato, gli effetti della globalizzazione, le diversità culturali, nonché l’educazione dei cittadini, intesa come presenza di un’opinione pubblica ben informata. In questo quadro, Internet può contribuire a migliorare lo stato di salute della democrazia? I profeti della Rete (o cyber-utopisti) ritengono che essa abbia un ruolo decisivo sia nella promozione del cambiamento sociale (da ultimo la primavera araba), sia nell’agevolare la partecipazione politica della cittadinanza e, quindi, nel rivitalizzare la democrazia nelle società della tarda modernità. Approcci più critici, invece, mettono in luce alcune problematiche di fondo, sintetizzabili in tre punti: 1) la polarizzazione e la frammentazione che si verificano on line e che, intrecciandosi fra loro, possono provocare la fine del dibattito pubblico; 2) gli effetti del sovraccarico informativo sulla mente degli individui e sull’opinione pubblica più in generale; 3) le potenzialità del Web nella trasmissione e diffusione delle emozioni che rappresentano sì un elemento costitutivo di ogni discorso politico, ma assumono un carattere particolarmente rilevante ed esacerbato in quello populista.Queste criticità si ripercuotono sulle condizioni sociali e culturali che concorrono alla stabilità dei regimi democratici, incidendo negativamente – per riprendere le categorie proposte da Martin Lipset - sia sulla «legittimità», ovvero sulla condivisione di valori, sia sulla «effettività», e cioè sull’efficienza del sistema. Contribuendo così ad amplificare il disagio della democrazia.

1. La precarietà della democrazia

«Manca un minuto alla mezzanotte in Europa?», si chiedono Niall Ferguson e Nouriel

Roubini, in un articolo uscito di recente sulle pagine del «Corriere della Sera». Lo storico di

Harvard e l’economista della New York University guardano con preoccupazione alla crisi

finanziaria che attanaglia il vecchio continente e, soprattutto, le non risposte dei governi. In

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particolare di quello tedesco, che sembra essersi scordato la lezione del XX secolo. «L’Unione

Europea – scrivono – è stata creata per evitare il ripetersi dei disastri degli anni Trenta. Oggi è

venuto il momento in cui tutti i Paesi – ma specialmente la Germania – devono rendersi conto di

quanto sono pericolosamente vicini a lasciarsi travolgere dagli stessi errori» [Ferguson e Roubini

2012]. Le ombre del Novecento si allungano sul nostro presente. Non è dunque un caso che

«Limes», la rivista italiana di geopolitica, abbia dedicato un numero speciale allo stato di salute

della democrazia, pubblicando, tra l’altro, un articolo di Eric Weil, uscito nell’ottobre del 1950 sulla

rivista «Evidences» ma ancora di incredibile attualità. Il filosofo tedesco afferma che «la

democrazia non resiste, per una sorta di grazia di stato, a ogni prova, a ogni tensione, a ogni

ingiustizia». Essa è piuttosto «una marcia verso la ragione, un’educazione perpetua dell’uomo

dall’uomo stesso, affinché quest’uomo sia veramente e pienamente tale». Insomma, «la democrazia

non è mai: è sempre da realizzare» [Weil 2012, p. 111].

Distratti e smemorati, leggendo il passato sulla base del presente, tendiamo invece a credere

che la democrazia sia una conquista acquisita e che niente e nessuno, in particolare dopo la fine

della Guerra Fredda, la possa mettere in discussione. Almeno non in Europa e in Occidente. Eppure

la nostra storia recente dovrebbe invitarci a essere quantomeno un po’ più cauti e prudenti. Scettici

verso chi, come Francis Fukuyama, teorizzò, dopo il crollo del comunismo, la fine della storia e il

trionfo del liberalismo politico ed economico: mentre tutte le visioni alternative si sono inabissate

negli oceani tumultuosi della storia, la liberaldemocrazia sarebbe riuscita a vincere perché si è

dimostrata la più adatta all’organizzazione della società.

A distanza di oltre vent’anni dalla pubblicazione di quel saggio divenuto subito famoso in

tutto il mondo, sappiamo che il mito di un pianeta unificato nella grande pace capitalistica e

democratica si è rivelato fallace. La grande crisi economica scaturita nel ventre molle della finanza

americana e subito estesasi anche al vecchio continente sta mettendo in seria discussione la

credibilità della democrazia occidentale come sistema politico, non solo perché incongruo ad

affrontare l’emergenza, ma perché ne sarebbe addirittura la causa1. Si riaffaccia così sul

palcoscenico della storia la questione del complesso rapporto tra capitalismo e democrazia. Già sul

finire degli anni Novanta, lo storico americano Mark Mazower [1998, p. 389] osservava che «il

vero vincitore del 1989 non è stata la democrazia ma il capitalismo» e che l’Europa nel suo

complesso si ritrova oggi a fare i conti con il problema che l’Europa occidentale ha affrontato sin                                                                                                                1 Su questo punto si rimanda all’editoriale di Lucio Caracciolo su «Limes», n. 2 del 2012, in cui il direttore della rivista italiana di geopolitica sostiene che «l’offuscamento del modello democratico si configura come declino delle potenze occidentali», aggiungendo che siamo propensi «a percepire tale decadenza non come parentesi ciclica ma in quanto tendenza storica».

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dagli anni Trenta: quello, cioè, di stabilire tra i due un rapporto funzionale. «La depressione del

periodo interbellico – avvertiva - rivelò come la democrazia potrebbe non sopravvivere a una

grande crisi del capitalismo». Dobbiamo perciò ammettere che la democrazia non è il destino

dell’umanità e non lo è nemmeno dell’Occidente: essa è una conquista storica e, come tale, ha avuto

un inizio e potrebbe avere anche una fine [Caracciolo 2012]. Di certo la storia europea del

ventesimo secolo insegna che «è assai difficile creare e mantenere in vita una forma di governo

democratico» [Held 1999, p. 10].

Al di là di alcune posizioni estreme e provocatorie [Guéhenno 1994], sono ormai molti i

contributi su questo tema. Alcuni segnalano un evidente paradosso: sempre più nazioni nel mondo

promuovono l’idea di democrazia proprio mentre la sua efficacia viene apertamente messa in

discussione. Aumentano i paesi democratici e, nel contempo, si riduce la soddisfazione dei cittadini

verso le performance di questo sistema politico [Della Porta 2010, p. 176], in particolare a seguito

del passaggio dall’età moderna all’età globale [Galli 2012, p. 72]. Tra i fattori critici messi in

evidenza c’è, ad esempio, il vuoto di legittimità causato dallo spostamento di competenze dal piano

nazionale a quello sopranazionale [Habermas 1999, p. 46]. Secondo Colin Crouch [2003, p. 7], «ci

muoviamo sempre di più verso un polo postdemocratico e questo spiega il diffuso senso di

disillusione e disappunto per il livello di partecipazione e per il rapporto tra la classe politica e la

massa dei cittadini in molte, forse nella maggior parte delle democrazie avanzate». Non riuscendo a

tenere il passo della globalizzazione, le democrazie si espongono alle pressioni delle elite

privilegiate e delle lobby internazionali. E così l’idea di postdemocrazia «ci aiuta a descrivere

situazioni in cui una condizione di noia, frustrazione e disillusione fa seguito a una fase

democratica; quando gli interessi di una minoranza potente sono divenuti ben più attivi della massa

comune nel piegare il sistema politico ai loro scopi; quando le élite politiche hanno appreso a

manipolare e guidare i bisogni della gente; quando gli elettori devono essere convinti ad andare a

votare da campagne pubblicitarie gestite dall’altro» [Crouch 2003, p. 26].

Per sopravvivere le democrazie si trovano dunque a dover affrontare alcune sfide cruciali: il

rapporto con l’economia di mercato, gli effetti della globalizzazione, le diversità culturali. Oltre a

queste, Robert Dahl [2000, p. 194] ne individua un’altra: l’educazione dei cittadini, ovvero la

presenza di un’opinione pubblica ben informata. «Grazie al costo relativamente contenuto delle

comunicazioni e dell’informazione – sostiene il politologo americano – la quantità di notizie

politiche disponibili, a tutti i livelli di complessità, è cresciuta enormemente. Tuttavia, questa

maggiore disponibilità di informazioni non necessariamente produce una maggiore competenza e

una più chiara comprensione: le dimensioni degli insiemi politici, la complessità e la più ampia

quantità di informazioni sottopongono invece i cittadini a una pressione superiore» [Dahl 2000, p.

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197]. Alla luce di queste considerazioni, vale dunque la pena chiedersi se Internet contribuisca,

come molti auspicano e credono, a migliorare «la capacità dei cittadini di impegnarsi in modo

intelligente nella vita politica» e se possa essere considerato un mezzo che favorisce «l’educazione

civica, la partecipazione politica, l’informazione, le decisioni creative fondate sul dispiegamento

delle molte tecniche e tecnologie proprie del XXI secolo» [ibiden]. In altre parole: se Internet

favorisca il rinnovamento e il consolidamento della democrazia.

2. L’ideosi cibernetica

Se riscrivesse oggi, a distanza di quasi quindici anni, «Il secolo delle idee assassine», lo

storico Robert Conquest potrebbe inserire un capitolo inedito dedicato a una nuova forma di

totalitarismo: quello cibernetico2. Che, a ben vedere, potrebbe essere inquadrato come un caso di

«ideosi», vale a dire come una patologia meno virulenta rispetto ai regimi totalitari che hanno

caratterizzato il ventesimo secolo, ma pur sempre potenzialmente pericolosa, perché riesce ad

attecchire, «portando con sé una acritica fiducia in una serie di soluzioni preconfezionate con cui gli

esseri umani e i loro Stati» tentano di «superare i propri problemi» [Conquest 1999, p. 24]. Il Web è

diventato una di queste soluzioni preconfezionate che godono di una generalizzata fiducia acritica?

Possiamo parlare di un’ideosi cibernetica? A questo proposito, Evgeny Morozov rileva che «con

Internet tutto è irresistibile, non fosse altro perché è a portata di mano». «E’ Internet – sottolinea –

non l’energia nucleare, a essere vista da moltissimi come l’estrema soluzione tecnologica a tutti i

problemi dell’umanità […] Man mano che Internet rende le soluzioni tecnologiche meno

dispendiose la tentazione di farvi ricorso sempre più aggressivamente e indiscriminatamente cresce

di pari passo» [Morozov 2011, p. 289].

Con quali prospettive? Leonard Kleinrock, uno dei padri della Rete, ritiene che essa possa

diventare «un’infrastruttura invisibile che fungerà da sistema nervoso globale per le persone e i

computer di questo pianeta». Lo sviluppo dell’infrastruttura porterà all’impiego di «agenti

intelligenti» che «consentirà al ciberspazio di catapultarsi fuori dai monitor dei computer, in cui è

stato intrappolato per decenni, e di penetrare il nostro mondo puramente fisico, offrendo a chiunque

una porta di ingresso al Web e aprendoci a nuove prospettive e opportunità». Anche lo sviluppo di

applicazioni e servizi sarà enorme. «E’ fisiologico immaginare congegni minuscoli – sostiene

Kleinrock – incorporati ovunque nel mondo fisico e che contengono strumenti per il ragionamento;

attuatori; sensori; file di memoria; sistemi di trattamento dei dati; comunicatori; videocamere;

microfoni; speaker; display; identificatori a radiofrequenza e altro ancora. Software specifici che

                                                                                                               2 La definizione è di Lainer [2012].

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svolgono le funzioni di un assistente personale saranno dislocati per tutto il Web e si occuperanno

di acquisire e analizzare notizie; di studiare le tendenze economiche e sociali; di compiere attività

sofisticate in modo efficiente, adattandosi all’ambiente in cui operano e all’obiettivo richiesto. Al

punto che la maggior parte del traffico virtuale registrato sarà generato non più dagli esseri umani,

quanto da questi congegni embedded e dagli agenti partoriti da software intelligenti». Non solo.

«Quantità enormi di informazioni – afferma ancora Kleinrock – appariranno all’istante nella Rete

globale e, dopo essere state elaborate e memorizzate, forniranno dati indispensabili agli apparati

decisionali e di controllo della nostra società» [Kleinrock 2012, p. 44-45].

I «cyber-utopisti» ritengono che un mondo interconnesso offra maggiori possibilità di

progresso per tutti. Uno degli esponenti di questa scuola di pensiero è Henry Jenkins, blogger e

accademico di fama internazionale. «Ci sono molte evidenze scientifiche – argomenta – che

indicano come molti di noi stiano utilizzando la tecnologia in modi che ci rendono più intelligenti.

Attraverso una serie di attività informali online – dai fan site a Wikipedia, dalla condivisione di

video al social networking – le persone stanno cominciando ad apprendere in modi nuovi, che

migliorano la loro capacità di produrre e valutare le conoscenza e che ampliano le loro capacità di

espressione. Stanno imparando a comunicare attraverso una serie di diverse forme mediali.

Imparano a collaborare e a condividere la conoscenza per rispondere collettivamente a domande

molto più complesse di quanto di potrebbe fare da soli. I singoli individui stanno imparando a

condividere pezzi di media l’uno con l’altro, costruendo nuovi significati, lavorando insieme per

filtrare il disordine e per concentrare l’attenzione sulle cose che invece hanno per loro valore». Si

tratta, insomma, di «accrescere la capacità della gente comune di partecipare in modo significativo

a un processo importante, quello di modellare la produzione e la diffusione della nostra cultura».

Derrick de Kerckhove, già direttore del Programma McLuhan in Cultura e Tecnologia dal

1984 al 2008 e insignito della «Papamarkou Chair in Technology and Education» presso la Library

of Congress, parla di «mente accresciuta» per indicare «l'ambiente cognitivo, attivo sia a livello

personale che collettivo, che le tecnologie intessono attorno a noi e dentro di noi, attraverso Internet

in particolare». La «mente accresciuta» funziona sia come memoria estesa, sia come intelligenza di

elaborazione per ogni individuo che usa tecnologie elettroniche, dal telegrafo, al “cloud

computing”, a Twitter». Non solo: «Unisce le persone invece di dividerle, come è successo con

l'alfabeto, e tiene conto di qualsiasi quantità di voci singole all'interno di uno spazio di informazione

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fluido, definibile in base agli individui e alla comunità che lo abitano, seguendo i bisogni

collettivi»3.

Oltre a mettere in risalto gli effetti positivi sugli individui, i «cyber-utopisti» sono anche

convinti che Internet abbia delle proprietà terapeutiche in grado sia di curare e rinforzare le

ammalate e deboli democrazie occidentali, sia di eliminare i virus autoritari che ancora infestano

molte nazioni.

Per Manuel Castells [2012] la Rete è uno spazio di libertà che rompe il monopolio

comunicativo e informativo dei media tradizionali, troppo spesso soggetti ai condizionamenti di chi

detiene il potere politico o economico. Grazie al Web, i cittadini possono essere così sia «cani da

guardia», sia i protagonisti di una nuova era politica. Perché partecipano attivamente alla

costruzione dello «spazio della comunicazione socializzata», anziché subirne passivamente gli

effetti. In Rete i cittadini costruiscono i propri spazi di relazione e di informazione, di dialogo, di

confronto e, se necessario, di mobilitazione. Castells parla di «autocomunicazione di massa». «Di

massa» perché arriva a tutta la società, nonché alle reti di comunicazione globale. «Auto» perché i

messaggi vengono prodotti, ricevuti, selezionati e combinati direttamente dagli individui o da

gruppi inter-relazionati tra loro». Cambiando lo spazio della comunicazione, il Web trasforma

anche il processo politico. «La democrazia nell’era di Internet – sentenzia Castells – non è la

democrazia dei partiti. E’ la democrazia dei cittadini, fatta dai cittadini, per i cittadini» [ibidem, p.

2-7].

Lanciando il progetto «Internet for Peace», con l'obiettivo di candidare la Rete al Premio

Nobel per la Pace, l’allora direttore della rivista Wired, Riccardo Luna, sposò in pieno questa tesi:

«Dobbiamo guardare a Internet come a una grande community in cui uomini e donne di tutte le

nazionalità e di qualsiasi religione riescono a comunicare, a solidarizzare e a diffondere, contro ogni

barriera, una nuova cultura di collaborazione e condivisione della conoscenza. Internet può essere

considerato per questo la prima arma di costruzione di massa, in grado di abbattere l'odio e il

conflitto per propagare la democrazia e la pace. Quanto accaduto in Iran dopo le ultime elezioni e il

ruolo giocato dalla Rete nella diffusione delle informazioni altrimenti prigioniere della censura sono

solo l'ultimo esempio di come Internet possa divenire un'arma di speranza globale»4. Secondo

                                                                                                               3 Su questo punto si rimanda all’intervista a Derrick de Kerckhove pubblicata su «La Stampa» il 16 febbraio 2011, oppure al sito web http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/tecnologia/grubrica.asp?ID_blog=30&ID_articolo=8674&ID_sezione=&sezione=

4 Su questo punto si rimanda all’articolo apparso sul sito Web di Wired Italia, all’indirizzo: http://mag.wired.it/news/storie/wired-candida-internet-nobel-per-la-pace.html

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questo approccio «tecno-ottimista», la rete dispone quindi di una forza democratizzante che può

rendere il mondo un posto migliore in cui vivere. Dove tutti possono esprimere liberamente le

proprie opinioni, dove chi governa è soggetto a un’opinione pubblica attenta e finalmente

informata, dove prevale il dialogo tra pari, dove nessun aspirante tiranno può imporre il proprio

punto di vista, dove i cittadini contano davvero nella determinazione delle politiche pubbliche, dove

la libertà e l’eguaglianza coesistono senza tensioni.

E’ proprio così? Possiamo dormire sonni tranquilli se nel prossimo futuro i decisori pubblici

delegheranno molte funzioni, se non tutte, a tecnologie in grado di garantire rapidità, efficienza ed

efficacia? Internet riporta davvero il potere nelle mani dei cittadini, rigenerando i sistemi

democratici agonizzanti? Non occorre essere luddisti per sollevare alcune perplessità su un simile

approccio. «In questo schema – ammonisce Jaron Lanier, il guru di Internet e dei new media che è

stato uno dei leader della rivoluzione digitale – agli esseri umani non è riservato un posto

privilegiato. Presto i computer saranno così grandi e veloci, la Rete così ricca di informazioni, che

le persone diventeranno obsolete». «Se non riusciremo a riformulare gli ideali digitali prima del

nostro appuntamento con il destino – aggiunge – non saremo riusciti a creare un mondo migliore.

Avremo invece aperto la strada a un’epoca buia, in cui ogni elemento umano verrà svalutato»

[Lanier 2010, p. 109]. «Per molti di noi – ricorda lo scrittore e critico letterario John Freeman – la

creazione di Internet ha fatto qualcosa che nessun altro dei progressi avvenuti nella storia delle

comunicazioni era mai riuscito a fare: ci ha legati irrevocabilmente, forse fatalmente, a una

macchina e alle sue capacità sovraumane. Se vogliamo capire a fondo il frangente critico in cui oggi

ci ritroviamo, dobbiamo fare i conti con i cambiamenti prodotti dal lavorare attaccati a questa

macchina, e valutare se esista un modo per rallentare i ritmi, così da poterne fare un uso migliore e

mantenere una presa salda nei territori del reale. Diversamente, avremo oltrepassato quel ponte che

ci teneva nella penombra soltanto per entrare in un’altra, ben più inesorabile oscurità» [Freeman

2010, p. 21].

Non per tutti, insomma, il Web è un sole che illumina una nuova alba per l’umanità. Al

contrario dei «cyber-utopisti», i «cyber-realisti»5 riconoscono i pericoli che si nascondono nella

Rete e non accettano acriticamente l’idea che essa possa servire a migliorare lo stato di salute della

democrazia laddove essa già esiste, nonché ad esportarla anche nei paesi che non l’hanno mai

provata. Nonostante un coro quasi unanime sostenga che il Web – e in particolare i social network –

abbia giocato un ruolo decisivo prima nelle sommosse in Iran e poi nelle rivoluzioni della così detta

                                                                                                               

5  La definizione è sempre di Morozov [2011].  

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primavera araba, riflessioni più attente confermano che non c’è invece alcun legame: l’illusione che

Facebook e Twitter siano stati fattori decisivi nelle rivolte di piazza è smentita dalle analisi sul

campo6. Allo stesso modo, l’opinione diffusa secondo la quale grazie al Web la democrazia può

superare la crisi che la sta investendo rischia di essere fuorviante, perché non tiene conto di alcune

criticità della Rete, sintetizzabili in tre punti: 1) la polarizzazione e la frammentazione che si

verificano on line e che, intrecciandosi fra loro, possono provocare la fine del dibattito pubblico; 2)

gli effetti del sovraccarico informativo sulla mente degli individui e sull’opinione pubblica più in

generale; 3) le potenzialità del Web nella trasmissione e diffusione delle emozioni che

rappresentano sì un elemento costitutivo di ogni discorso politico, ma assumono un carattere

particolarmente rilevante ed esacerbato in quello populista.

Come vedremo, queste criticità si ripercuotono anche sulle condizioni sociali e culturali che

concorrono alla stabilità dei regimi democratici, incidendo sia sulla «legittimità», ovvero sulla

condivisione di valori, sia sulla «effettività», e cioè sull’efficienza del sistema7.

3. Polarizzazione e frammentazione: la scomparsa del dibattito pubblico8

In un saggio del 1942 che analizza la propaganda hitleriana, il filosofo John Dewey sostiene

che «discutere e dialogare è l’unico metodo per realizzare la comunità attraverso processi

comunicativi liberi e aperti». «Questo metodo – aggiunge - è il cuore e la forza dello stile di vita

americano e le debolezze della nostra democrazia rappresentano, tutte, l’espressione del fallimento

nel tenere fede alle esigenze che esso impone». E’ la differenza, sostanziale e decisiva, con i metodi

del nazismo, tutti orientati alla ricerca dell’unità sociale attraverso l’utilizzo della forza e

all’evocazione di istinti ed emozioni primordiali. Alla violenza si deve contrapporre il dialogo,

l’unico mezzo funzionale al superamento di quei «pregiudizi di ordine economico, razziale,

religioso» che «mettono in pericolo la democrazia perché creano ostacoli alla comunicazione o ne

deviano o distorcono il funzionamento». E’ dunque necessario «difendersi dall’uso di ogni aspetto                                                                                                                6 Su questo punto si rimanda a Morozov [2011] e Selwan El Khoury [2012].

7 La distinzione tra «effettività» e «legittimità» è stata proposta da Martin Lipset nel suo «L’uomo e la politica» del 1960, tradotto in Italia nel 1963. Per «effettività» si intende «l’efficienza di fatto, cioè la misura in cui il sistema riesce ad assolvere alle fondamentali funzioni di governo, intese queste nel senso voluto dalla maggior parte della popolazione e dai potenti gruppi che in essa vivono». Con «legittimità» si riferisce invece alla «capacità del sistema a far sorgere e a mantenere viva la convinzione che le istituzioni politiche esistenti siano le più adatte per quella società». E così: «La misura in cui i sistemi politici democratici contemporanei sono legittimi dipende in gran parte dai modi in cui i problemi fondamentali che hanno storicamente diviso la società sono stati risolti […] Le crisi di legittimità sono principalmente un fenomeno storico recente, che ha fatto seguito al sorgere di aspri conflitti fra i gruppi sociali, i quali sono in grado, a causa dei mezzi di comunicazione di massa, di cristallizzare intorno a loro valori diversi da quelli considerati in passato come i soli accettabili» [Lipset 1976, p. 77].

8 Per una critica alle teorie sulla fine della sfera pubblica si rimanda a Gamble [2002], in particolare pp. 81-97.

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della scienza e di ogni forma di tecnologia per imporre la servile camicia di forza del

conformismo». In che modo? Dice Dewey: «Siamo impegnati in una sfida, lanciata ad ogni

elemento del sistema di vita democratico, che consiste nell’usare la conoscenza, la tecnologia e ogni

forma di relazione umana per promuovere l’unità sociale attraverso la libera associazione e la libera

comunicazione. Ora più che mai, appare chiaro che il sistema di vita democratico ci impegna in uno

sforzo incessante per abbattere i muri delle classi, delle diseguali opportunità, di colore, di razza, di

religione e di nazionalità, che rendono gli esseri umani estranei tra loro»9.

L’auspicio di Dewey si può realizzare grazie a Internet? Sì, secondo i «cyber-utopisti» che

vedono nella Rete lo strumento adatto alla creazione di un unico villaggio globale, dove non

esistono recinti che creano divisioni tra un «noi» e «un loro», dove i muri vengono abbattuti sotto i

colpi delle connessioni, dove trionfano il dialogo tra pari e la partecipazione spontanea e interessata

alla vita pubblica. In realtà, però, il ruolo di Internet è, anche da questo punto di vista, molto più

ambiguo. Innanzitutto, per la sua azione polarizzante. Come rilevato da Lovink [2012, p. 24],

«internet è un terreno per le opinioni polarizzate e utenti tendenti all’estremo», tanto che si riscontra

«un’attitudine a distruggere il dialogo». «L’internet pubblica si è trasformata in un campo di

battaglia, spiegando così il successo dei giardini recintati come Facebook e Twitter che tengono

fuori l’Altro aggressivo». «Raramente» perciò «vediamo le due parti discutere tra loro» [ibidem, p.

79].

Alla polarizzazione si aggiunge e si intreccia un altro fenomeno tipico del Web: la

frammentazione. Le discussioni on line tendono a svolgersi in «camere di risonanza», dove

accedono quasi esclusivamente individui con le stesse opinioni che, consapevolmente o meno, si

sottraggono al confronto con chi la pensa in modo diverso. «Emerge un branco, e voi siete con lui o

contro di lui» [Lanier 2010, p. 84]. Secondo Massimo Gaggi e Marco Bardazzi [2010, p. 88], «la

prospettiva è quella di un proliferare di nicchie geografiche e soprattutto mentali, nelle quali

rinchiudersi perdendo di vista il quadro d’insieme: un universo fatto di tribù che si scambiano un

volume limitato di conoscenze e informazioni».

Questa tendenza alla frammentazione è ulteriormente accentuata da quella che Eli Pariser -

pioniere dell’attivismo politico online e dirigente di MoveOn.org, l’organizzazione progressista che

ha dato un contributo determinante nella campagna per l’elezione di Barack Obama - chiama la

«bolla dei filtri», ovvero il personale bagaglio di informazioni all’interno del quale si vive quando si

                                                                                                               9 Il saggio è contenuto nella raccolta degli scritti politici curata da Giovanna Cavallari e pubblicata da Donzelli nel 2003.

  10  

è online10. L’autore di «The Filter Bubble» ritiene che l’adattamento del flusso di informazioni alla

nostra identità porti alla graduale scomparsa dell’esperienza comune, con conseguenze negative sul

discorso politico e, quindi, sulla democrazia. Che funziona «solo se noi cittadini siamo capaci di

pensare andando al di là del nostro ristretto interesse personale». Ma, per poterlo fare, è necessario

avere una visione condivisa del mondo in cui viviamo. «Dobbiamo entrare in contatto con la vita, i

bisogni e i desideri degli altri. La bolla dei filtri ci spinge nella direzione opposta, ci dà

l’impressione che esista soltanto il nostro interesse personale. E se questo va benissimo per fare

acquisti on line, non va affatto bene per portare a prendere decisioni migliori insieme» [ibidem, p.

132].

Se all’inizio Internet portava con sé la grande speranza di diventare il mezzo che permetteva

a intere città e interi paesi di creare insieme la loro cultura attraverso il dialogo, la personalizzazione

ha prodotto un effetto molto diverso: una sfera pubblica selezionata e manipolata da algoritmi,

volutamente frammentata e che osteggia il dialogo. Anziché rafforzare i pilastri su cui si regge la

democrazia, il Web, attraverso l’azione congiunta di polarizzazione e frammentazione, rischia così

di minarne la solidità. Eli Pariser ritiene che «il problema politico più grave creato dalla bolla dei

filtri consiste nel rendere sempre più difficile il dibattito pubblico» [ibidem, p. 125]. E che questo

sia un nodo nevralgico per i sistemi democratici lo sostiene, sia pure non direttamente in relazione a

Internet, anche un grande intellettuale europeo come Ralf Dahrendorf . «Una delle perdite maggiori

di cui oggi mi rammarico – afferma – è proprio il dibattito democratico, la discussione informata e

ponderata sulle grandi questioni» [Dahrendorf 2001, p. 100]. La «ricerca di omogeneità» e la

«voglia di stare tra i popoli simili, tra coloro che ci assomigliano di più da tutti i punti di vista» sono

emerse in reazione alla globalizzazione, prima che la Rete condizionasse ogni aspetto delle nostre

vite. Al contrario di quanto sostengono i «cyber-utopisti», però, il Web alimenta e non contrasta

questa tendenza contraria a una delle grandi forze della democrazia: quella di «far sì che gente

diversa – dal punto di vista etnico, religioso o politico – [possa] vivere insieme e sottoscrivere

valori comuni» [ibidem, p. 26].

4. Tra frittelle e algoritmi

Dahrendorf fa dunque riferimento esplicito alla scomparsa di una discussione politica

«informata» e «ponderata» e, a questo proposito, riconosce aspetti positivi e negativi del ruolo della

Rete nei processi democratici. «Internet – sostiene – consente una più ampia partecipazione,

seppure astratta, al dibattito. Non è esattamente il dibattito politico informato nei termini in cui io lo                                                                                                                10 Pariser [2012] disegna un modello dei filtri che agisce in tre fasi: 1) cerca di capire chi sono le persone e quali sono i loro gusti; 2) fornisce loro i contenuti e i servizi più appropriati; 3) affina la sintonia creando la corrispondenza perfetta.

  11  

intendo, perché uno dei problemi dell’immensa discussione che si svolge nella rete è che noi non ne

conosciamo mai né lo stato né gli esiti». Dahrendorf ammette di non riuscire a far pendere la

bilancia dei pro e dei contro né da una parte né dall’altra. «C’è sicuramente un vantaggio

nell’ampliamento delle occasioni di discussione – spiega – e c’è sicuramente qualcosa di negativo

nella confusione in cui questa discussione si svolge, nell’incertezza sui partecipanti e sui destinatari,

e in una certa casualità nel modo di procedere» [ibidem, p. 73]. Chissà se oggi, a distanza di oltre

dieci anni da queste considerazioni, Dahrendorf rivedrebbe il suo giudizio sostanzialmente neutro

sul rapporto tra Internet e democrazia e, in particolare, sulla qualità dell’informazione dopo la

rivoluzione digitale che sta stravolgendo tutte le vecchie regole del gioco e disattendendo le

aspettative della prima ora11. Che non erano poche. In un noto saggio del 2007, Vittorio Sabadin

sosteneva che «la gente che vuole restare informata non ha mai vissuto un momento più felice: ha

ora a disposizione la più vasta offerta di media della storia dell’umanità, una combinazione di

rotative del XIX secolo, di radio e tv del XX e di siti web e blog del XXI» [Sabadin 2007, p. 17].

Il problema, quindi, non è più la presenza di un sistema pluralistico che garantisca a tutti le

stesse opportunità di accesso, dal momento che la Rete ha spezzato il monopolio informativo dei

media di massa condizionati, se non addirittura controllati, da aziende e governi. La questione è

un’altra: un sistema dove ogni cittadino può fare informazione rappresenta un arricchimento

quantitativo, ma non qualitativo. In Rete si trovano immensi serbatoi di contenuti e notizie, dove

però è sempre più complicato verificare la veridicità e l’autorevolezza. Per i profeti della rete la

soluzione è semplice. Manuel Castells, ad esempio, liquida il tema della credibilità

dell’informazione 2.0 dicendo che «tutto dipende dall’abilità dell’informato nel separare il grano

dal loglio». «In altre parole – osserva ancora – tutto dipende dal livello di educazione e dalla qualità

culturale dei cittadini. Ormai, la credibilità non sta più solo dalla parte di chi emette l’informazione,

ma anche nella capacità di filtraggio di chi la riceve» [Castells 2012, p. 5].

Ma cosa succede se è proprio la Rete a influenzare l’educazione e la formazione dei

cittadini? Avranno le competenze, le conoscenze e le qualità intellettuali per districarsi nella

giungla informativa del Web? Per rispondere a questi interrogativi, e più in generale per capire se

                                                                                                               

11  Come annota Geert Lovink, «inizialmente Internet sembrava in grado di colmare molte delle tipiche lacune della vecchia “sfera pubblica”, e le prime analisi sulle forme del discorso pubblico che andavano emergendo on line venivano ben inquadrate in questa tradizione apparentemente defunta. Piattaforme quali blog, forum di discussione e siti di informazione partecipativa dediti al citizen journalism venivano considerati la nuova frontiera della libertà d’espressione, ambiti in cui chiunque avesse accesso a internet poteva prendere parte alla comunicazione politica». [Lovink 2012, p. 2].

 

  12  

Internet favorisca un’opinione pubblica critica e informata, è utile riflettere su tre aspetti tra loro

interconnessi: 1) gli effetti delle nuove tecnologie sulle facoltà intellettive degli individui; 2) la

scomparsa delle questioni complesse; 3) l’informazione algoritmica e il falso mito della

disintermediazione.

Cittadini come frittelle

C’è chi parla di «effetto frittella» e chi di un «io esausto». C’è chi evidenzia la perdita della

capacità di una «lettura profonda» e chi denuncia una «twitterizzazione della cultura». Ma il

fenomeno che tutti intendono descrivere è l’effetto di Internet sulle facoltà intellettive delle persone,

se non, addirittura, i cambiamenti che esso produce a livello cerebrale. «Decine di studi di

psicologi, neurobiologi, educatori e progettisti web – spiega Nicholas Carr - arrivano alla stessa

conclusione: quando andiamo online entriamo in un ambiente che favorisce la lettura rapida, il

pensiero distratto e affrettato, e l’apprendimento superficiale. Naturalmente è possibile anche

pensare in modo approfondito mentre si naviga in Rete, proprio come si può pensare in modo

superficiale leggendo un libro, ma non è quello il tipo di pensiero che la tecnologia incoraggia e

premia». In questo senso, «la Rete può a buon diritto essere considerata la più potente tecnologia di

alterazione della mente mai diventata di uso comune, con la sola eccezione dell’alfabeto e dei

sistemi numerici» [Carr 2011, p. 144].

Con quali effetti? Distrazione, perdita del pensiero critico, della creatività e delle capacità di

ricordare e di approfondire. «La Rete – precisa Carr – ci rende più intelligenti soltanto se definiamo

l’intelligenza con gli standard della Rete stessa. Se invece ci basiamo su un’idea più ampia e

tradizionale di intelligenza – se consideriamo la profondità del pensiero e non solo la sua velocità –

dobbiamo arrivare a una conclusione diversa e ben più inquietante […] Le funzioni mentali che

stanno perdendo la “battaglia per la sopravvivenza del più occupato” in corso fra le cellule cerebrali

sono quelle che presiedono al pensiero calmo, lineare, quelle che utilizziamo per seguire una lunga

narrazione o un’argomentazione complessa, quelle che sollecitiamo quando riflettiamo sulle nostre

esperienze o contempliamo un fenomeno esterno o interno. A vincere sono le funzioni che ci

aiutano a localizzare velocemente, a classificare e valutare frammenti disparati d’informazione,

quelle che ci fanno mantenere salde le nostre traiettorie mentali mentre siamo bombardati dagli

stimoli» [ibidem, p. 171-172].

In questa prospettiva, le facoltà intellettive degli individui condizionate dal Web non

funzionano più come una formica che lentamente esplora il terreno che si trova a percorrere, bensì

come cavalletta che salta velocemente di qua e di là, senza avere però una conoscenza completa, né

una prospettiva adeguata alla valutazione della situazione. E’ l’affermazione dell’utente search, «un

  13  

nomade che prende informazioni un po’ qua e un po’ là senza badare troppo alle fonti che lo

riforniscono» [Gaggi e Barduzzi 2010, p. 11]. Ecco i «figli della rivoluzione del tempo reale»,

interessati soltanto a cosa accadrà nell’immediato», tanto da non riuscire nemmeno a vedere la

differenza tra il niente e il qualcosa [Lovink 2012, p. 67].

La scomparsa delle questioni complesse

Come scrive Sharon Begley su «Newsweek»12, «non è solo la quantità di informazioni che

bussano alla porta del nostro cervello a mandarlo in crisi, è anche la frequenza. Un flusso continuo

che ci chiede di rispondere istantaneamente, sacrificando la riflessione e l’accuratezza a favore del

falso dio dell’immediatezza». E’ l’attualità che vince sulla rilevanza. «Il nostro cervello tende ad

accorgersi dei cambiamenti nei momenti di stasi. Una mail che arriva sul nostro Blackberry è

riconosciuta come un cambiamento della stasi; allo stesso modo un nuovo post su Facebook.

Tendiamo a dare più importanza, più peso sulle nostre decisioni, alle ultime informazioni che

abbiamo ricevuto, non a quelle più importanti, o utili». Per di più, «se il Web privilegia il tempo

reale, c’è meno spazio per la riflessione e più tecnologia tesa a facilitare chiacchiere impulsive»

[Lovnik 2012, p. 26].

Più informazione può quindi significare meno conoscenza, soprattutto se un immenso fiume

di informazioni ci travolge, provocando un crollo dell’attenzione. Se i temi rilevanti e complessi

scompaiono a vantaggio di quelli più popolari. «A creare allarme oggi c’è un fenomeno del tutto

nuovo: i motori di ricerca indicizzano le fonti in base alla popolarità, non alla Verità. La ricerca è il

codice tecno-culturale che regola la vita contemporanea». [ibidem, p. 219]. Abbiamo smesso di

imparare le cose a memoria, non abbiamo più alcuna necessità di profondere degli sforzi per delle

funzioni che possiamo benissimo delegare ai motori di ricerca. Basta un click ed ecco numeri di

telefono, significato delle parole, orari di apertura dei negozi, biografie di personaggi illustri e

naturalmente notizie su tutto ciò che ci interessa. Allo stesso modo, non c’è più spazio per le analisi

articolate e profonde. Meglio esprimere giudizi brevi e taglienti, a suon di metafore e di tweet.

In un interessante articolo pubblicato su «La Lettura», inserto domenicale del «Corriere

della Sera», Federico Fubini, analizzando il successo dei professionisti della crisi economica,

racconta un episodio che riguarda il Premio Nobel Nouriel Rubini, protagonista di una conferenza

stampa a Villa d’Este. «Roubini non stava svolgendo un’analisi, o semplicemente un discorso.

Stava twittando. Non che avesse un computer o uno smartphone nelle mani. Ma non pronunciava

                                                                                                               12  L’articolo  si  trova  anche  on  line,  all’indirizzo  web  http://www.thedailybeast.com/newsweek/2011/02/27/i-­‐can-­‐t-­‐think.html.  

  14  

nessun concetto che non potesse rientrare in un tweet, 140 caratteri su un social network». Le

interpretazioni più popolari della crisi sono quelle raccontate con messaggi spot e una dialettica

estrema. Le altre possono circolare solo in una ristretta cerchia di addetti ai lavori [Fubini 2012, p.

2-3]. Ecco un esempio di cosa si può intendere quando si parla di «twitterizzazione della cultura».

L’informazione algoritmica

Grazie a Internet, siamo tutti giornalisti. Produttori e divulgatori di notizie. Attraverso blog e

social network. E’ l’informazione dal basso, il «citizen journalism», il giornalismo collettivo. Che

non richiede più la presenza del professionista, perché l’informazione viaggia sospinta dal vento del

passaparola virtuale. «E’ lo scenario proiettato nel mito della casa di vetro, trasparente e

indipendente. Al posto delle vecchie querce – i grandi quotidiani – che ogni centro di potere cercava

di attirare nella sua zona d’influenza, cento fiori non condizionabili – i blog, le informazioni

veicolate dalle reti sociali – forti della natura non gerarchica del nuovo modo di comunicare, del

lavoro volontario di migliaia di blogger entusiasti e di tecnologie che, riducendo quasi a zero il

prezzo delle news, hanno democratizzato il sistema» [Gaggi e Bardazzi 2012, p. 22].

Ecco la disintermediazione. Tema rilevante. Finito sotto i riflettori soprattutto dopo le analisi

del «New York Times» e della «Columbia Journalism Reviw» sugli effetti della comunicazione

diretta di Obama. Se la Casa Bianca comunica direttamente con i cittadini grazie alle nuove

tecnologie, chi separa il grano delle informazioni dal loglio della propaganda? Nessuno, ma la

questione – dicono i «cyber-utopisti» - è di scarsa rilevanza perché l’informazione dal basso

consente ai cittadini di abbeverarsi alla fonte di notizie che preferiscono. Niente più monologhi,

niente più rischio di un’informazione manipolata dagli interessi economici e politici. In un’epoca in

cui un video su «You Tube» può distruggere la carriera politica di chiunque o mettere in crisi

un’azienda, non c’è più spazio per le bugie e le verità nascoste.

Approcci più critici descrivono, però, una realtà ben diversa. Nella quale il mito della

comunicazione diretta si infrange come un’onda sugli scogli degli algoritmi che, dopo la pubblicità,

iniziano a gestire anche le nostre esistenze. Gli intermediari non sono spariti, anche se non hanno

più il volto del giornalista che selezionava e “impaginava” le notizie, attribuendo loro – in modo del

tutto soggettivo e partigiano – una diversa importanza. Piuttosto, sono diventati invisibili. Come

ricorda Tim Wu, docente alla Columbia University, la nascita della Rete non ha eliminato gli

intermediari: li ha solo cambiati13. I mezzi di informazione che utilizziamo on line sono in grado di

interpretare i nostri interessi, le nostre passioni e i nostri desideri. Come le impronte lasciate sul

                                                                                                               13 Citato in Pariser [2012], p. 53.

  15  

terreno da un animale e poi fossilizzate, anche i nostri percorsi virtuali lasciano delle tracce che

resistono nel tempo e che permettono agli algoritmi di scoprire qualcosa su di noi. Per offrirci poi

un’informazione su misura che «darà la preferenza ai contenuti che confermano la nostra visione

del mondo rispetto a quelli che la mettono in discussione» [Pariser 2012, p. 73].

Da questo punto di vista, la Rete non favorisce un sistema di informazione più libero,

partecipato e democratico perché immune dai condizionamenti di chi detiene il potere economico e

politico.Al contrario, la dinamica della personalizzazione sposta le informazioni nelle mani di

poche società, di colossi sempre più potenti: se la conoscenza è potere, le asimmetrie di conoscenza

sono asimmetrie di potere [ibidem, p. 119]. L’informazione algoritmica disegna un abito di notizie

su misura per ciascuno di noi14. Ma questo non aiuta ad entrare in relazione con le idee, le storie, le

vite degli altri. In questo modo, «è facile perdere l’orientamento, credere che il mondo sia una

piccola isola mentre in realtà è un continente immenso e vario» [ibidem, p. 87]. Insomma: «la

cosiddetta rivoluzione dell’informazione si è disintegrata in un’inondazione di disinformazione»

[Lovink 2012, p. 222].

5. Tu chiamale, se vuoi, emozioni

Dopo le rivolte in Iran, è stata la primavera araba a suscitare l’entusiasmo di commentatori e

analisti politici sulle potenzialità rivoluzionarie e democratizzanti del Web. In Egitto, uno dei grandi

protagonisti della rivolta contro il regime di Mubarak è stato un giovane manager di Google: Wael

Ghonim, incoronato dal «Time» persona più influente del 2011. Il blogger che ha propiziato la

rivolta di piazza Tahrir ripercorre in un libro autobiografico gli avvenimenti che hanno cambiato il

suo Paese, al termine di una “rivoluzione rivoluzionaria” che in un primo momento si è organizzata

sulla piazza virtuale dei social network per poi trasferirsi nel mondo reale, dove l’odore del sangue

e il dolore della morte sono stati gli stessi di sempre. Una “rivoluzione 2.0”, come recita il titolo.

Una rivoluzione senza eroi.

«In passato – scrive Wael Ghonim – le rivoluzioni sono state quasi sempre guidate da leader

carismatici avvezzi a tutte le astuzie della politica, spesso addirittura da geni militari. Sono quelle

che io chiamo rivoluzioni modello 1.0. Quella egiziana, però, è stata differente: è stata davvero un

movimento spontaneo, e a guidarla era solo ed esclusivamente la saggezza della folla».

Inizialmente, però, anche Wael Ghonim, uno che di politica non si era mai occupato ma che vedeva

                                                                                                               14 A questo proposito, vale la pena citare anche il rischio che, di fronte a motori di ricerca sempre più invasivi, gli individui abbassino i loro standard per farlo sembrare intelligente. «Laddove c’è da aspettarsi che il punto di vista umano sarà modificato dall’incontro con tecnologie profondamente innovative, la pratica di trattare l’intelligenza della macchina come se fosse reale richiede che le persone perdano contatto con la realtà» [Lanier 2010, p. 45].

  16  

crescere in sé la voglia di cambiare il suo paese, pensa di riporre la sua fiducia in un leader. In un

salvatore della patria da contrapporre a Hosni Mubarak: Mohamed Mostafa ElBaradei, già

presidente dell’agenzia internazionale per l’energia atomica dell’Onu. Personalità riconosciuta e

apprezzata a livello internazionale. A lui il blogger egiziano dedica una pagina su Facebook,

iniziando a lavorare per il cambiamento. «A quell’epoca – ricorda – difendere un’idea voleva dire

appoggiare l’individuo che la incarnava». L’iniziativa, nonostante diverse difficoltà, ottiene un

discreto successo: 150 mila iscritti in poco tempo. Ma niente a che vedere con quanto accade in

seguito.

La svolta vera avviene nel giugno del 2010, quando su Internet si diffondono le immagini

scioccanti di Khaled Mohamed Said, un ragazzo pestato a morte da due agenti della polizia di

Alessandria. «Ricordo quel giorno – osserva il blogger egiziano – come fosse ieri. Sedevo nel mio

piccolo studio di Dubai e faticavo a tenere a freno le lacrime che mi solcavano le guance» [ibidem,

p. 74]. Ghonim decide allora di aprire una nuova pagina su Facebook: «Kullena Khaled Said»,

siamo tutti Khaled Said. I primi messaggi sono scritti in prima persona, come fosse lo spirito del

giovane ammazzato a parlare. E’ l’inizio di una narrazione giocata su fattori emotivi che riscuote un

successo è immediato. E insperato. Se la pagina Facebook riservata a ElBaradei aveva una

dimensione più razionale, in quella dedicata a Khaled Said erano i sentimenti a giocare un ruolo

decisivo. Un aspetto, questo, sottovalutato da chi si è concentrato esclusivamente sull’importanza

dei social network nell’abbattere la censura e, con essa, i regimi che la imponevano. E’ vero:

Twitter e Facebook sono stati strumenti essenziali nell’esprimere opinioni e nel diffondere notizie

scomode, oltre che un punto di riferimento nell’organizzazione delle proteste15. Ma l’esperienza di

Wael Ghonim e della rivoluzione egiziana confermano anche l’importanza dei sentimenti nelle

azioni politiche e la facilità con la quale essi si diffondono in Rete.

Ormai da tempo gli esperti di comunicazione politica fondano le proprie strategie sul

presupposto che la via per la vittoria è lastricata di intenzioni emotive. Drew Westen, esperto di

psicologia clinica e politica, ricorda quanto riconosciuto quasi tre secoli dal filosofo David Hume: è

la ragione a essere schiava delle emozioni, e non viceversa. «Non prestiamo attenzione – sostiene -

                                                                                                               15  A  questo  proposito,  in  un  post  lo  stesso  Ghonim scrive: «Facebook si è trasformato nello strumento che ci permette di esprimere le nostre opinioni, le nostre ambizioni e i nostri sogni senza sottostare a pressioni di sorta… Ormai il nostro messaggio può competere, per diffusione, con i giornali di regime». Poi, a conclusione del libro: «Ora che un numero così alto di persone può comunicare così facilmente, il mondo è diventato un posto molto meno accogliente per i regimi autoritari. L’umanità sarà sempre afflitta da uomini assetati di potere. E non è detto che lo stato di diritto e la giustizia fioriranno sempre e comunque in ogni luogo. Ma grazie alla moderna tecnologia, la democrazia partecipativa sta diventando una realtà. I governi faticano sempre più a isolare i cittadini, censurare le informazioni, tenere nascosta la corruzione e nutrire una popolazione passiva di messaggi propagandistici. A poco a poco, inesorabilmente, le armi di oppressione di massa si stanno estinguendo». [Ghonim 2012, p. 313-314].  

  17  

ad argomenti che non suscitano in noi interesse, entusiasmo, paura, rabbia o disprezzo. Non

veniamo toccati da leader che non suscitano in noi una risonanza emotiva. Non troviamo i

programmi politici degni di discussione se non hanno implicazioni emotive per noi, per la nostra

famiglia o per ciò che ci è caro» [Westen 2008, p. 27]. Un messaggio, per essere efficace, deve

partire da qualcosa di emotivamente forte, «una questione morale che il paese deve affrontare, la

storia personale di un candidato, la storia di una persona che il candidato ha incontrato durante la

campagna elettorale, un’ingiustizia che chiede di essere riparata» [ibidem, p. 27].

La differenza tra le due iniziative mediatiche di Wael Ghonim sta proprio nell’innesco

emotivo, che mancava alla prima (quella di ElBaradei) e che invece aveva la seconda (quella di

Khaled Said). Più di tante argute riflessioni razionali sul senso di un’azione a favore della

democrazia, quelle immagini scioccanti hanno colpito allo stomaco gli egiziani, provocando un

diffuso senso di ingiustizia. La triste vicenda di un egiziano qualunque poteva accadere a chiunque

e in ogni momento. Per questo la sua storia ha suscitato paura, odio, rabbia, disprezzo, empatia. La

richiesta di democrazia appare così la trascrizione in bella copia della volontà di sbarazzarsi di un

regime che, per mantenere il potere, aveva utilizzato ogni mezzo. La miccia emotiva non aveva

fatto altro che far esplodere animi già pieni di sentimenti negativi. «A parte i desideri e le paure –

sostiene Drew Westen – gli esseri umani sono motivati anche da valori, convinzioni cariche di

emozioni su come le cose dovrebbero o non dovrebbero essere, sul piano morale, interpersonale o

estetico. Anche se tendiamo a vedere i valori come fattori essenzialmente culturali, molti dei valori

che motivano le persone – a prescindere dalla cultura a cui appartengono – si basano su propensioni

biologiche, proprio come i desideri e le paure». E’ dunque importante accettare «l’idea che buona

parte del nostro comportamento rifletta l’attivazione di reti di associazioni emotivamente cariche, e

che questa attivazione avvenga in buona parte al di fuori della nostra coscienza» [Westen 2008, p.

82-83].

Se l’attivazione dell’innesco emotivo da parte dei «ribelli» egiziani è avvenuta in modo

piuttosto casuale, lo stesso non si può dire per la risposta del regime. Dopo qualche tentennamento,

la sua reazione è avvenuta sullo stesso terreno: quello delle emozioni. Anziché difendersi dalle

accuse con spiegazioni razionali, c’è stato il tentativo di denigrare la vittima che aveva infiammato i

cuori dei cittadini, dipingendo il giovane ammazzato come un drogato, un poco di buono e non

certo l’eroe che si voleva celebrare. Il regime voleva parlare alla pancia e non alla testa delle

persone. Voleva farle indignare, non riflettere. Si è trattato di una battaglia comunicativa in piena

regola, combattuta con mirate strategie di comunicazione fatte di messaggi carichi di emotività. Una

scelta, questa, resa ancora più necessaria dal terreno in cui si svolgeva lo scontro: la Rete.

  18  

Appare ormai assodato, infatti, che «i media non si limitano a riportare le notizie ma

svolgono un ruolo chiave anche nella circolazione dei sentimenti», nel senso che «gli utenti restano

invischiati in un groviglio di stimoli che poi vengono canalizzati secondo modalità specifiche»

[Lovink 2012, p. 146]. I social network non riescono ad «addomesticare i nostri impulsi interiori», e

così «Internet crea un flusso infinito di reazioni nervose» [ibidem]. In un’intervista a «Limes»,

anche un profeta della Rete come Derrick de Kerckhove riconosce come «fenomeno nuovo e dalle

implicazioni considerevoli» quello «dell’emozione circolante», che «si diffonde attraverso le

comunicazioni su blog, Twitter, Facebook»16. Anche la bolla dei filtri, oltre a determinare la

scomparsa dei problemi di interesse pubblico e delle questioni complesse che non hanno una rapida

evoluzione e non ci coinvolgono personalmente, crea un «mondo di emozioni» [Pariser 2012, p.

121-122].

Con quali conseguenze? Il prevalere di messaggi semplificati e di notizie che suscitano

sentimenti può risultare pericoloso per le democrazie: è vero che «il ricorso agli effetti emozionali è

costitutivo di ogni discorso politico», ma si può ben dire che «essi assumono un carattere

particolarmente esacerbato nel discorso populista» [Charaudeau 2012, p. 15]. Se la strada

cibernetica è lastricata di sentimenti ed emozioni, essa può condurre la democrazia verso pericolose

derive populiste.

6. La democrazia finisce nella Rete?

La scomparsa dei problemi di interesse pubblico e del dibattito politico, la perdita delle

capacità di analisi critica e di lettura approfondita da parte degli individui, l’affermazione

dell’informazione algoritmica, la conseguente cancellazione delle questioni complesse e il prevalere

delle notizie che suscitano emozioni sul Web rappresentano alcune sfide alla tenuta e al

funzionamento delle istituzioni democratiche, sia sul versante della «legittimità» che su quello della

«effettività».

Sul versante della legittimità, perché – come abbiamo visto - Internet non favorisce la

condivisione di valori attraverso il dialogo tra persone moderate e aperte al confronto che

sostengono posizioni diverse, bensì l’emergere di posizioni radicali e polarizzate, di tribù virtuali

chiuse in se stesse e di utenti convinti che esista solo il loro interesse personale. Viene così meno

uno dei postulati della democrazia liberale: l’esistenza di una sfera politica, luogo del consenso

sociale e dell’interesse generale [Guéhenno 1994]. «Al posto di soggetti autonomi non restano che

situazioni effimere in funzione delle quali si annodano alleanze provvisorie appoggiate a

                                                                                                               16 L’intervista è pubblicata su «Quaderni speciali di Limes», anno 4, n. 1, pp. 35-40.

  19  

competenze mobilitate per l’occasione. Invece di uno spazio politico, luogo di solidarietà collettiva,

vi sono solo percezioni dominanti, tanto effimere quanto gli interessi che le manipolano. Siamo

all’atomizzazione e omogeneizzazione al tempo stesso. Una società che si frammenta all’infinito,

senza memoria e senza solidarietà» [ibidem, p. 38].

Ciò implica, tra l’altro, la mancanza di un «auspicabile» dibattito pubblico basato sul

contraddittorio, anch’esso elemento funzionale in un processo democratico [Manin 2011, p. 169-

180]. Perché il confronto tra opinioni discordanti, se non addirittura opposte, è un presupposto non

solo per il miglioramento della qualità delle decisioni collettive, ma anche per controbilanciare la

frammentazione dello spazio pubblico e per agevolare la comprensione delle scelte. «Il confronto

unifica il campo in cui le opinioni si contrappongono e crea uno spazio in cui esse interpellano ed

entrano in relazione. Ma lo spazio delle opinioni può presentare anche un’altra configurazione ed

essere frammentato in una miriade di isole, internamente omogenee, prive di comunicazione le une

con le altre». Da questo punto di vista, Internet, pur offrendo agli individui nuove opportunità di

entrare in contatto gli uni con gli altri, favorisce contatti e legami stabiliti per affinità, in particolare

ideologica e politica. «In ciascuna di queste molteplici isole o reti di individui che condividono

un’opinione si possono prevedere effetti di rinforzo e di polarizzazione, dal momento che lo

scambio con individui che le pensano allo stesso modo produce in generale una radicalizzazione

delle opinioni dei partecipanti nella direzione comune ai membri» [ibidem, p. 176-177]. Da questo

punto di vista, dunque, il Web non aiuta il processo democratico, ma lo rende più problematico17.

In assenza di un confronto tra opinioni diverse, a soffrire è anche l’educazione, altro

elemento fondamentale della cittadinanza e, quindi, della democrazia. «L’educazione – sostiene il

teologo Bruno Forte – avviene attraverso l’ascolto, la condivisione e il dialogo, che, tuttavia, non

significa annullamento delle differenze: non si amano gli altri se non si è se stessi, accettando anche

l’inevitabile diversità tra loro». La democrazia necessita di cittadini capaci di pensare criticamente e

di entrare in contatto con il punto di vista degli altri. Ma questo «può accadere a condizione che

apprendano a mettersi in discussione e a riflettere sulle ragioni per cui sostenere una certa posizione

invece di un’altra, piuttosto che – come spesso accade – vedere il dialogo politico unicamente come

occasione per vantarsi o conquistare vantaggi sulla controparte» [Nussbaum 2011, p. 15». La

mancanza di confronto - unita alla predisposizione degli Stati a orientare i sistemi educativi                                                                                                                17 Manin suggerisce due modi concreti per favorire il confronto tra argomenti opposti nelle democrazie contemporanee e, non a caso, entrambi escludono l’utilizzo di Internet. Il primo consiste nel dar vita, fuori dai periodi elettorali, a dibattiti basati sul contraddittorio su temi di interesse pubblico, con relatori che rappresentano associazioni e movimenti o che sono esperti o autorità di riconosciuta autorevolezza. Il secondo, nel corso delle campagne elettorali, è rappresentato dai dibattiti televisivi che propongono il contraddittorio fra i leader dei partiti e delle coalizioni in lizza [Manin 2011, p. 178-179].

  20  

esclusivamente alla crescita economica - sta così provocando «una crisi di proporzioni enormi e di

enorme significato», dalla quale si uscirà solo attribuendo alla competenze umanistiche e artistiche

il peso che meritano. Altrimenti «si produrranno generazioni di macchine piuttosto che cittadini in

grado di pensare autonomamente» [ibidem, p. 7]. Anche in questa prospettiva, Internet rappresenta

più una minaccia che un’opportunità, se è vero che – come abbiamo visto - i suoi effetti sulle

capacità intellettive degli individui risultano essere assai negative, determinando una perdita della

capacità di analisi critica e di lettura profonda. La Rete «allena» i circuiti cerebrali adibiti al

multitasking e al pensiero veloce, costringendo al riposo forzato quelli che utilizziamo per seguire

un’argomentazione complessa, per sviluppare la creatività, per rafforzare il pensiero critico. In

questo quadro, come si può pensare a cittadini preparati e capaci di separare il grano dal loglio,

come auspicato da Manuel Castells? Sottoposta a un continuo bombardamento di stimoli, la mente

delle persone tende a valutare le informazioni non in base alla veridicità e alla rilevanza, bensì

privilegiando le più attuali e, su suggerimento degli algoritmi, le più popolari. La rottura del

monopolio informativo del vecchio sistema comunicativo top-down non garantisce, di per sé,

un’opinione pubblica più informata, proprio perché agli individui che stanno smarrendo le proprie

capacità di analisi critica e approfondita risulta sempre più problematico distinguere tra «opinioni

patrizie» e «dicerie plebee» [Lovink 2012, p. 219].

Sul versante dell’effettività, l’eccessiva partecipazione cibernetica rischia di condizionare

negativamente l’azione di leader politici, schiavi delle infinite voci del Web. «Leggi i sondaggi,

segui i blog, tieni conto dei messaggi che appaiono su Twitter e degli stati su Facebook e dirigiti

esattamente là dove si trovano gli altri e non dove pensi che dovrebbero andare. Ma se tutti

“seguono”, chi dirige?», si chiede l’editorialista del «New York Time» Thomas L. Friedman. Che

aggiunge: «Quando si dispone di tecnologie che facilitano reazioni e giudizi rapidi e immediati, e

quando si ha a che fare con una generazione abituata a ricevere gratificazioni istantanee – ma ci si

trova a dover affrontare questioni complesse, come l’attuale crisi creditizia o la mancanza di posti

di lavoro o l’esigenza di costruire da zero i Paesi arabi – si è alle prese con una notevole

discrepanza – nonché una sfida per la leadership» [Friedman 2012, p. 56-57]. E per la democrazia.

Se chi governa è ostaggio del potere dei follower e della tirannia del tempo presente, non

avrà la forza di prendere decisioni impopolari ma necessarie e di prospettiva, proprio a scapito

dell’effettività di cui parlava Martin Lipset. Davanti allo schermo di un computer, di un tablet o di

uno smartphone, la «miopia della democrazia» peggiora inesorabilmente, diottria dopo diottria.

«L’efficiente funzionamento della democrazia rappresentativa viene sfigurato da ricorrenti iniezioni

di democrazia diretta», scrive Furio Cerutti [2012, p. 396]. Anche perché, ai continui

condizionamenti di un elettorato sempre più frammentato e distratto dalla e nella Rete, si aggiunge

  21  

un aumento della complessità tecnica delle questioni e, quindi, delle politiche da mettere in atto. «In

questo quadro la democrazia, sia quella reale e malandata dei vari sistemi politici, sia quella

invocata da populisti e protestatari di varia specie, sembra sempre di più dissociata dal

buongoverno, se per questo si intende la capacità di gestire i problemi nati dalla globalizzazione con

la sua caratteristica preponderanza dei mercati sulla politica, di farlo muovendosi nell’ambito

europeo d’interdipendenza regolata, e con una seria considerazione per le generazioni future»

[ibidem, p. 399]. Il «disagio della democrazia» di cui parla Carlo Galli nasce anche dalla crisi della

sua effettività, e cioè dalla delusione dei cittadini verso le sue prestazioni. Per dirla ancora con le

parole di Furio Cerutti [ibidem, p. 400], «per conservare legittimità il governo par le peuple non

può andare a scapito del governo puor le peuple». La scarsa efficienza delle istituzioni rischia,

infatti, di aprire le porte ai populismi18, che oggi trovano in Internet un terreno particolarmente

fertile per la diffusione dei propri messaggi semplicisti e carichi di (ri)sentimenti. Spesso indirizzati

contro i nemici di turno, siano essi le élite politiche o i poteri occulti della grande finanza globale.

Da questo punto di vista, il «cyber-populismo» conserva alcune specifiche caratteristiche proprie di

questa degenerazione patologica della democrazia: la presenza di leader carismatici, lo

scardinamento dei meccanismi e dei sistemi di rappresentanza e di mediazione e, appunto, il

bisogno di nemici reali o immaginari19. Allo stesso tempo «sfrutta» alcune caratteristiche del Web

per propagarsi nel corpo malato delle democrazie contemporanee: in particolare la prevalenza delle

notizie che suscitano emozioni, del chiacchiericcio irrazionale e dei messaggi semplificati.

In conclusione, possiamo dire che Internet rende problematica la condivisione di alcuni

valori di fondo che concorrono alla stabilità dei sistemi democratici (legittimità), e ne inficia

l’efficienza, agendo negativamente sulla loro capacità ad assolvere fondamentali funzioni di

governo rese ancora più complesse nel passaggio dall’età moderna all’età globale (effettività). La

Rete non si è rivelata utile nemmeno ad affrontare la sfida dell’educazione dei cittadini di cui parla

Robert Dahl. Anzi, l’opinione pubblica rischia di essere meno informata, sicuramente meno

propensa a riflettere e affrontare questioni complesse. Il futuro della democrazia è una di queste.

Troppo importante per essere discussa nella piazza virtuale, a suon di «tweet» e di «mi piace».

7. Conclusione: un Manifesto per la Slow Communication

A ben vedere, dunque, il futuro della democrazia dipende anche dall’affermazione di una

                                                                                                               18 Come osserva Carlo Galli [2012, p. 64-65], «tutte le contraddizioni strutturali della democrazia, con le quali questa ha convissuto, tutte le mediazioni, tutta la complessità, oggi appaiono insopportabili – proprio perché la prestazione delle istituzioni democratiche è di fatto in pauroso calo, sfidata dalle dinamiche della globalizzazione».

19 Su questo punto si rimanda all’interessante analisi di Alessandro Lanni [2011].

  22  

nuova cultura digitale, di una nuova alfabetizzazione mediatica e di una nuova etica intellettuale

fondata sulla ricerca di un equilibrio sostenibile tra la velocità e l’immediatezza del Web e il

pensiero lento, lineare e approfondito che utilizziamo per seguire una lunga narrazione e

un’argomentazione complessa oppure per riflettere sulle esperienze della nostra esistenza.

Il Web ha rivoluzionato il nostro modo di vivere e di relazionarci con gli altri, rivelandosi

uno strumento fondamentale in moltissime attività. E’ evidente a tutti che non possiamo più farne a

meno. La Rete è una presenza sempre più rilevante nella nostra vita, che crescerà ancora. Milioni di

persone si ritrovano in questa piazza virtuale senza confini per chiacchierare, spettegolare,

discutere, mettersi in mostra e amoreggiare su Facebook, Twitter, MySocial e ogni altro tipo di

social network. L’essere sempre connessi appare ormai come una necessità, e non una scelta.

Spedire e ricevere messaggi è un modo per essere visibili. «Vivere una vita senza tweet – sostiene

provocatoriamente il massmediologo Geert Lovink – significa smettere di vivere».

Già. Ma possiamo fermarci prima di arrivare a questo punto di non ritorno. Ecco perché

ritengo utile promuovere un Movimento per la Slow Communication, un’iniziativa culturale che non

intende affatto condannare la funzione e il ruolo di Internet nelle società post-moderne, né

tantomeno riproporre una versione aggiornata di quella paura socratica che, come sottolineato da

Umberto Eco, si basa sulla convinzione che «ogni avanzamento tecnologico possa abolire o

distruggere qualcosa che consideriamo prezioso, fecondo, qualcosa che per noi è un valore in se

stesso e ha un carattere profondamente spirituale». Mira, piuttosto, a promuovere una prospettiva

diversa, evitando di cadere nel pessimismo culturale e partendo invece dalla necessità di imparare a

utilizzare il Web 2.0 con più moderazione e meno dipendenza. In modo più responsabile e

consapevole. Senza ignorare le conseguenze che la Rete esercita su ognuno di noi, sul nostro modo

di essere e di pensare, sui nostri atteggiamenti e sui nostri comportamenti. Finanche sulle nostre

menti.

Nel 2000 l’entusiasmo digitale trovò il suo testo-cult nel «Cluetrain Manifesto», dove

quattro esperti americani misero a punto «95 Tesi» per descrivere il nuovo ordine generato dal web:

in uno dei passaggi più significativi affermavano che «attraverso internet la gente stava scoprendo e

inventando nuovi modi di condividere conoscenza rilevante a una velocità accecante». In realtà,

come rilevato da Nicholas Carr, Internet ci rende stupidi. Gli effetti di un’esposizione eccessiva al

Web sono profondi, sia sugli individui che sulle comunità, perché si mette in pericolo la profondità

e la peculiarità della cultura che tutti noi condividiamo. E così, sotto la pressione del sovraccarico

informativo e della tecnologia dell’istantaneamente disponibile, rischiamo di diventare, come

osservato da Richard Foreman, «pancake people», ossia delle «persone-frittella» larghe, distese e

  23  

sottili, come la vasta rete di informazioni alla quale accediamo con un semplice click.

E allora: è già troppo tardi, come sostiene Sam Anderson sul «New York Times», per battere

i ritirata e tornare a un’epoca più calma? Forse. Ma dobbiamo provarci, se vogliamo avere un

maggiore controllo della nostra vita, se vogliamo evitare di perdere la nostra umanità. Citando

l’informatico Joseph Weizenbaum, Carr sostiene che a renderci più umani è ciò che è meno

calcolabile rispetto a noi stessi: le connessioni fra la mente e il corpo, le esperienze che danno

forma alla memoria e al pensiero, la nostra capacità di emozione e di empatia. Se non vogliamo

sacrificare le qualità e le caratteristiche che contraddistinguono le persone dalle macchine sull’altare

di quella che Heidegger chiamava la «frenesia della tecnica sfrenata», dobbiamo avere

l’autoconsapevolezza e il coraggio di non delegare ai computer le nostre attività più profondamente

umane e le nostre occupazioni più intellettuali, in particolare tutti quei compiti che richiedono

saggezza. Dobbiamo, cioè, resistere alle seduzioni della tecnologia, dell’informazione istantanea,

della velocità e della (presunta) efficienza.

Nell’agosto del 2009, il Wall Street Journal pubblicava un «Manifesto for the Slow

Communication», in cui lo scrittore e critico letterario John Freeman scriveva: «I nostri giorni sono

limitati, le nostre ore sono preziose. Dobbiamo decidere che cosa vogliamo fare, che cosa vogliamo

dire, di che cosa e di chi dobbiamo prenderci cura. Bisogna pensare come vogliamo ripartire il

nostro tempo in base a queste domande, entro limiti che non possiamo cambiare. In poche parole,

dobbiamo rallentare». Dobbiamo riappropriarci del tempo, sganciando la nostra idea di progresso

dalla velocità, che non sempre porta a risultati soddisfacenti e a relazioni sostenibili. Dobbiamo

abbandonare l’utopia dell’efficienza perfetta, per evitare di tornare ad essere dei meri decodificatori

di informazioni, acritici e superficiali. Dobbiamo imparare a scollegare la nostra mente da Internet

per riconquistare lo spazio della riflessione. Dobbiamo, insomma, riscoprire la lentezza per

acquistare una rinnovata sintonia con il mondo reale che ci circonda.

D’altro canto, come osserva Carlo Galli [2012, p. 92], «se la democrazia di oggi e di domani

potrà essere senza centro, non potrà però essere senza un fine» e questo «non può non consistere –

al di là delle molteplici e contrastanti forme che assume – nella fioritura umanistica delle libere

personalità in uno spazio pubblico».

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