FONDAZIONE ANTONIO UCKMAR · FONDAZIONE ANTONIO UCKMAR I “Venerdì di Diritto e Pratica...

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FONDAZIO I “Venerdì d Mila La Amatucci F., Bini M Comelli A., Contri R., Corrado Oliva Pietro A., Fantozzi Marcheselli A., M Miccinesi M., Rocc Sgubbi F. ONE ANTONIO UCKMAR di Diritto e Pratica Tributaria” ano 11-12 ottobre 2013 stabile organizzazione Atti preparatori: M., Boria P., Carbone S.M., Carinci A., ino A., Corasaniti G., Cordeiro Guerra a C., de’Capitani di Vimercate P., Di A., Filippi P., Fransoni G., Lovisolo A., Marino G., Melis G., Messina S.M., catagliata F., Salvini L., Sammartino S.,

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FONDAZIONE ANTONIO UCKMAR

I “Venerdì di Diritto e Pratica Tributaria”

Milano

La stabile organizzazione

Amatucci F., Bini M., Comelli A., Contrino A., Corasaniti G., Cordeiro Guerra R., Corrado Oliva CPietro A., Fantozzi A., Filippi P., Fransoni G., Lovisolo A., Marcheselli A., Marino G.,Miccinesi M., Roccatagliata F., SalvinSgubbi F.

FONDAZIONE ANTONIO UCKMAR

I “Venerdì di Diritto e Pratica Tributaria”

Milano 11-12 ottobre 2013

a stabile organizzazione

Atti preparatori:

Amatucci F., Bini M., Boria P., Carbone S.M., Carinci A., Comelli A., Contrino A., Corasaniti G., Cordeiro Guerra R., Corrado Oliva C., de’Capitani di Vimercate P., Di Pietro A., Fantozzi A., Filippi P., Fransoni G., Lovisolo A.,

Marino G., Melis G., Messina S.M., Miccinesi M., Roccatagliata F., Salvini L., Sammartino S.,

LA STABILE ORGANIZZAZIONE

Il convegno si prefigge di riunire i maggiori esperti della fiscalità per l’approfondimento di un tema dei più suggestivi e importanti nelle relazioni internazionali: la stabile organizzazione di un soggetto non residente, che nella fiscalità internazionale costituisce il criterio di collegamento per assoggettare ad imposizione i redditi prodotti nel territorio da un’impresa straniera. Come testimoniano gli studi dell’Ocse e le inchieste giornalistiche e parlamentari realizzate in Italia e in altri Paesi, nonostante gli sforzi compiuti negli ultimi anni e il potenziamento delle amministrazioni, vi sono ancora nodi irrisolti nella individuazione dei presupposti impositivi per i non residenti e tra questi il più importante è certamente la stabile organizzazione. Pur a fronte di una definizione chiara e condivisa, come testimonia la diffusione del Modello Ocse, infatti, l’evoluzione delle imprese e dei commerci produce continui sviluppi, non sempre di facile inquadramento nelle categorie già conosciute. Così, per fare un esempio, è diffuso nella prassi il ricorso da parte delle multinazionali a società del gruppo che, su base locale o regionale, cooperano nella distribuzione dei prodotti della controllante, con contratti di servizio che rasentano in alcuni casi i rapporti di agenzia. In questi casi, oltre al problema definitorio, si evidenzia anche il difficile rapporto con la disciplina dei prezzi di trasferimento, che anche nel caso della stabile organizzazione deve essere tenuta in costante considerazione per i rapporti con la casa madre. In Francia si è nominata una commissione di studio per valutare nuovi meccanismi per la tassazione delle multinazionali estere che raccolgono, senza corrispettivo, “valuable data” in territorio francese. Novità si registrano inoltre nel settore dei trasporti, e in particolare nel settore aereo. Anche il diritto comunitario contribuisce alle novità, come testimoniano le sentenze della Corte di Giustizia in materia di exit taxation, espressamente riferite ormai anche allo spostamento di asset della stabile organizzazione e ai cd business restructurings. Il panorama, insomma, è in rapida evoluzione, e il convegno si propone di fissare la situazione ed individuare le possibili linee evolutive.

PROGRAMMA

11 ottobre 2013

ore 08.30

Registrazione dei partecipanti

ore 09.00

Indirizzi di saluto

ore 09.30

Prof. Tesauro Francesco - moderatore

Prof. Carbone Sergio Maria - Recenti tendenze evolutive del diritto internazionale, tutela delle situazioni soggettive e relativi effetti sulla nozione di stabile organizzazione

Prof. Fantozzi Augusto - Relazione introduttiva sugli aspetti tributari

Prof. Roccatagliata Franco - Mercato unico UE e diritto di stabilimento della stabile organizzazione: ossimoro o pleonasmo?

Prof. Di Pietro Adriano - La stabile organizzazione e la fiscalità del mercato europeo

Prof. Melis Giuseppe - Le interrelazioni tra le nozioni di residenza fiscale e stabile organizzazione: problemi ancora aperti e possibili soluzioni

Prof. Amatucci Fabrizio - La stabile organizzazione nella giurisprudenza della Corte di Giustizia U.E.

Prof. Miccinesi Marco – Stabile organizzazione e responsabilità

ore 13.00 - Buffet

ore 14.30 – ripresa dei lavori

Prof. De Mita Enrico – Moderatore

Prof. Fransoni Guglielmo – La determinazione del reddito della stabile organizzazione Prof. Bini Mauro - Aspetti contabili per la stabile organizzazione Prof. Carinci Andrea - Stabile organizzazione ed utilizzo delle perdite

Prima tavola rotonda

Prof. Boria Pietro - L'individuazione della stabile organizzazione. Avv. de’Capitani di Vimercate Paolo - Il rapporto tra stabile organizzazione e transfer pricing in alcuni casi di distribuzione di prodotti esteri in Italia

Prof. Lovisolo Antonio - La “funzione” della S.O. e i criteri generali di determinazione del suo reddito, con particolare riferimento ai rapporti con “la casa madre”

Prof. Marino Giuseppe - La “base” di vettore aereo: stabile disorganizzazione o instabile organizzazione?

Prof. Salvini Livia - La stabile organizzazione nelle imposte sui redditi e nell’iva: analogie e differenze

Prof. Sammartino Salvatore - Stabilimenti ed impianti in Sicilia di imprese aventi sede fuori dal territorio della Regione

Coffee break

Seconda tavola rotonda

Prof. Contrino Angelo - Stabile organizzazione e credito per le imposte estere

Prof. Corasaniti Giuseppe – La stabile organizzazione e l’exit taxation

Prof. Cordeiro Guerra Roberto - Recenti orientamenti giurisprudenziali in tema di stabile organizzazione

Prof. Messina Sebastiano Maurizio - Stabile organizzazione e consolidato fiscale

12 ottobre 2013

ore 09.00

Prof. Glendi Cesare – Moderatore

Terza tavola rotonda

Prof. Comelli Alberto - I rapporti, sotto il profilo dell’iva, tra stabile organizzazione, casa madre e terzi Avv. Corrado Oliva Caterina– Soggettività della stabile organizzazione e soggezione all’attività accertativa

Prof.ssa Filippi Piera – Stabile organizzazione e diritto al rimborso dell’Iva (sent. CGE c318-319/11 del 25.10.2012)

Prof. Marcheselli Alberto - La prova della stabile organizzazione, tra diritto di difesa, equa ripartizione del prelievo e cooperazione tra gli ordinamenti tributari.

Prof. Sgubbi Filippo - Considerazioni di un penalista sulla “stabile organizzazione”

Prof. Glendi Cesare – Conclusioni

Chiusura dei lavori

INDICE

Prof. Fabrizio Amatucci "La stabile organizzazione nella giurisprudenza della Corte di Giustizia UE” ................................................................... Pag. 9

Prof. Mauro Bini "Aspetti contabili per la stabile organizzazione” ........ » 19

Prof. Pietro Boria "L’individuazione della stabile organizzazione” ........ » 21

Prof. Sergio Maria Carbone "Recenti tendenze evolutive del diritto internazionale, tutela delle situazioni soggettive e relativi effetti sulla nozione di stabile organizzazione” ........................................................... » 41

Prof. Andrea Carinci "Stabile organizzazione ed utilizzo delle perdite” .. » 55

Prof. Alberto Comelli "I rapporti, sotto il profilo dell’iva, tra stabile organizzazione, casa madre e terzi” ......................................................... » 63

Prof. Angelo Contrino "Stabile organizzazione e credito per le imposte estere” ....................................................................................................... » 79

Prof. Giuseppe Corasaniti "La stabile organizzazione e l’ exit taxation” » 81

Prof. Roberto Cordeiro Guerra - Avv. Pietro Mastellone "Recenti orientamenti giurisprudenziali in tema di stabile organizzazione” ......... » 103

Avv. Caterina Corrado Oliva "Soggettività della stabile organizzazione e soggezione all’attività accertativa” ........................................................ » 137

Avv. Paolo de’Capitani di Vimercate "Il rapporto tra stabile organizzazione e transfer pricing in alcuni casi di distribuzione di prodotti esteri in Italia” .................................................................................................................. » 155

Prof. Adriano Di Pietro "La stabile organizzazione e la fiscalità del mercato europeo” ............................................................................................. » 167

Prof. Augusto Fantozzi "Relazione introduttiva sugli aspetti tributari” .. » 169

Prof. ssa Piera Filippi "Stabile organizzazione e diritto al rimborso dell'IVA (sentenza CGE c.318-319/11 del 25 ottobre 2012)” ............................... » 183

Prof. Guglielmo Fransoni "La determinazione del reddito delle stabili organizzazioni” ....................................................................................... » 199

Prof. Antonio Lovisolo "La “funzione” della S.O. e i criteri generali di determinazione del suo reddito, con particolare riferimento ai rapporti con “la casa madre”” ................................................................................... » 215

Prof. Alberto Marcheselli "La prova della stabile organizzazione, tra diritto di difesa, equa ripartizione del prelievo e cooperazione tra gli ordinamenti tributari” ........................................................................................... Pag. 225

Prof. Giuseppe Marino "La “base” di vettore aereo: tanto rumore per nulla?” ..................................................................................................... » 269

Prof. Giuseppe Melis "Le interrelazioni tra le nozioni di residenza fiscale e stabile organizzazione:problemi ancora aperti e possibili soluzioni” .... » 289

Prof. Sebastiano Maurizio Messina "Stabile organizzazione e consolidato fiscale” ..................................................................................................... » 327

Prof. Marco Miccinesi "Stabile organizzazione e responsabilità” .......... » 329

Prof. Franco Roccatagliata "Mercato Unico UE e diritto di stabilimento della stabile organizzazione: ossimoro o pleonasmo?” ................................... » 331

Prof.ssa Livia Salvini "La stabile organizzazione nelle imposte sui redditi e nell’iva: analogie e differenze” ............................................................... » 357

Prof. Salvatore Sammartino "Stabilimenti ed impianti in Sicilia di imprese aventi sede fuori dal territorio della Regione” ......................................... » 365

Prof. Filippo Sgubbi "Relazione sui profili penali” ................................. » 377

Appendice

Dott. Alberto Vanni "La stabile organizzazione. Gli orientamenti della giurisprudenza dell’ultimo decennio” ..................................................... » 379

Prof. Fabrizio Amatucci Professore emerito Università Federico II di Napoli

La stabile organizzazione nella giurisprudenza della Corte di Giustizia UE

SOMMARIO: 1 Rilevanza nella giurisprudenza UE delle stabili organizzazioni - 2 Compatibilità con il diritto UE della normativa nazionale che disciplina le s.o. - 3 Le stabili organizzazione in materia di IVA in ambito UE

1 Rilevanza nella giurisprudenza UE delle stabili organizzazioni

La rilevanza che assume la stabile organizzazione (s.o.) in ambito comunitario è duplice in quanto essa risulta determinante, sia ai fini della localizzazione o attrazione del reddito di tale soggetto in un paese UE, che ai fini del trattamento fiscale e della determinazione della base imponibile nei confronti di tale ente non residente che viene quasi equiparato in alcuni ordinamenti ad un ente residente. Anche in ambito OCSE la stabile organizzazione assume rilevanza ai fini della distribuzione del potere impositivo tra Stati nelle convenzioni bilaterali sulla base di quanto stabilito dall’art. 7 del Modello OCSE di convenzione contro le doppie imposizioni e per quanto riguarda le modalità di tassazione delle società non residenti (come elemento di qualificazione) . Il diritto dell’UE non prevede un concetto autonomo di s.o., né di sede fissa di affari come quello utilizzato dal Modello OCSE, tuttavia esso è preso in considerazione nell’applicazione del divieto di restrizione alla libertà di stabilimento del Trattato UE in materia di imposte dirette nella giurisprudenza della Corte di Giustizia e nella direttiva 90/434 sulle fusioni e nelle direttive in materia di IVA1. Mentre la stabile organizzazione inizialmente era soltanto un termine di diritto convenzionale ed interno, oggi è divenuto anche di diritto tributario comunitario. L’art. 49 TFUE fa riferimento indirettamente alla s.o. in quanto si riferisce anche alle succursali le quali, pur non avendo autonoma rilevanza nel diritto tributario, rientrano nel concetto di stabile organizzazione previsto dall’art. 5 lett. B del Modello OCSE insieme alla sede di direzione, officina, laboratorio ecc.

1Cfr ROCCATAGLIATA , Nozione comunitaria di stabile organizzazione , Riv dir trib., int, 2002, 28. Per quanto riguarda il diritto tributario comunitario vigente, ritroviamo il concetto di stabile organizzazione utilizzato in direttive importanti: si pensi ad esempio all’articolo 9 della VI direttiva IVA, disposizione normativa determinante per il luogo d’imposizione delle prestazioni di servizio o agli articoli 5 e 10 della Direttiva 90/434 che regolamenta (o meglio, dovrebbe regolamentare) gli aspetti fiscali delle fusioni transnazionali. In entrambi i casi manca una precisa definizione di legge del concetto oggi in esame, anche se, la Corte di Giustizia Europea ha avuto modo di pronunciarsi a più riprese rimediando a tale carenza.

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Decisivo è stato il contributo fornito dalla giurisprudenza della Corte di giust. per identificare il trattamento ai fini della imposta sulle società delle stabili organizzazioni in un Paese membro UE. L’indagine giurisprudenziale riguarda prevalentemente la compatibilità con il divieto di restrizione alla libertà di stabilimento del mancato riconoscimento di un determinato trattamento fiscale da parte di un ordinamento nazionale nei confronti di una stabile organizzazione di una società non residente. Tale valutazione avviene quasi sempre attraverso una comparazione tra la diversa situazione in cui versano le s.o rispetto alle società residenti che consente di collocare tale struttura ad un livello diverso e non equiparabile a quello delle altre società non residenti sprovviste di s.o. in uno Stato UE. Secondo gli orientamenti della Corte europea la s.o., pur essendo considerata avente in quanto non residente responsabilità fiscale limitata, può versare in situazioni analoghe alle società residenti relativamente alla determinazione della base imponibile ( caso Royal Bank of Scotland 29.4.1999 311-97, punto 29 ). Tali orientamenti presuppongono la consacrazione di alcune s.o. quali centri di imputazione soggettiva della tassazione societaria in ambito UE. Le s.o., potendo essere soggette alla stessa imposizione a livello mondiale delle società residenti, manifestano secondo tale logica la stessa potenzialità economica delle società che si trovano nello Stato della fonte e ciò incide sul trattamento fiscale di tali enti . Ciò appare ancora più chiaro nel caso St. Gobain del 21.9.1999, (causa C -307/97, Racc. C. Giust CE , 6161)2 ove è stato ritenuto che l’obbligo fiscale nel Paese della fonte della società non residente (operante attraverso s.o.) diventa teoricamente limitato qualora grava in tale Stato anche sui redditi prodotti dalla stessa all’estero attraverso società collegate a quest’ultima. La Corte di Giust. UE giunge in tale caso al punto di considerare estensibile attraverso l’art. 49 del Trattato sul funzionamento dell’UE, alle stabili organizzazioni di imprese appartenenti a Paesi UE non contraenti, i benefici fiscali previsti da convenzioni bilaterali stipulate con Paesi terzi e basate sulla reciprocità. Più di recente è stato altresì affermato dalla Corte di Giustizia, nel caso Philips Electronicis del 6.9.20123 causa C-18/11, che la situazione di una

2 Sul problema della soggettività delle stabili organizzazioni si veda FIORENTINO, Stabile organizzazione , centro di attività stabile e nozioni minime in tema di soggettività tributaria in Dir e prat Trib., 2005, 871 3 Nel caso Philips Electronics C-18/11 del 19 aprile 2012 è stato sostenuto che costituisce una restrizione alla libertà di stabilimento ai sensi degli articoli 43 CE e 48 CE, il fatto che uno Stato membro vieti il trasferimento a una società residente, mediante sgravio di gruppo, delle perdite subite in tale Stato membro da una stabile organizzazione anch’essa ivi residente, appartenente a una società estera, se anche solo una parte di tali perdite risulta detraibile ai fini di un’imposta estera, in qualsivoglia esercizio contabile, dagli utili conseguiti dalla società o da un altro soggetto, o se è in qualsivoglia maniera è possibile una compensazione con tali utili.

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GIUSTIZIA UE

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società non residente che possiede solo una stabile organizzazione (non residente) nel territorio nazionale e quella di una società ivi residente, sono oggettivamente comparabili per quanto concerne l’obiettivo di un regime tributario come quello di compensazione di utili e perdite tra società di un gruppo. La mancata concessione della compensazione nei confronti della s.o. in assenza di precise condizioni non previste per società residenti ( sgravio di gruppo UK) di uno stato membro , viola secondo la Corte di Giustizia UE la libertà di stabilimento. Si è accentuata dunque quella crisi del criterio impositivo di collegamento della worldwide taxation in ambito comunitario basato sulla residenza fiscale ( requisito mancante nelle s.o.) sul quale si fonda l’imposizione intracomunitaria di persone fisiche e giuridiche e spesso la distinzione interna tra diversi soggetti passivi.

2 Compatibilità con il diritto UE della normativa n azionale che disciplina le s.o.

Gli orientamenti giurisprudenziali della Corte di giustizia completano nel nostro ordinamento quanto disposto dagli artt. 73 c I lett. d), 151, 152 e 153 TUIR in relazione alla soggettività ai fini IRES degli enti non residenti e integrano in particolare le disposizioni concernenti il consolidato oltre a limitare la portata dei regimi antielusivi. Tali norme nazionali, che individuano nel nostro ordinamento gli enti non residenti ai fini IRES , fissano i criteri per l’assoggettamento ad imposta, per la determinazione del reddito prodotto da questi ultimi, ponendo requisiti e vincoli particolari riconducibili essenzialmente all’esistenza di una stabile organizzazione4 che dovranno essere tenuti presenti per il riconoscimento della soggettività tributaria piena in capo a tali soggetti e del trattamento fiscale agevolativo. La richiesta della presenza di una stabile organizzazione come condizione imposta ad un ente non residente per essere considerato contabilmente e organizzativamente autonomo rispetto all’attività del soggetto estero, oltre a costituire punto di riferimento attivo per la produzione di reddito 5 e beneficiare del regime del consolidato nazionale prevista dal nostro TUIR (determinazione del reddito complessivo delle società non residenti ex artt. 117 e 152), non sembra restrittiva ed in contrasto con la libertà di

Riguardo la finalità antielusiva (impedire il doppio utilizzo perdite) è stato osservato dalla Corte europea che il rischio di doppio utilizzo non può in quanto tale autorizzare l’esclusione dal beneficio fiscale. 4 In mancanza di stabile organizzazione secondo l’art. 152 TUIR II comma il reddito è determinato secondo le disposizioni del Titolo che disciplina il reddito prodotto dalle persone fisiche . Se dunque un ente non residente non possiede una s.o. in Italia, è assoggettata ad imposizione diversamente rispetto all’ente residente. 5 FANTOZZI, La stabile organizzazione , in Riv.Dir. Trib., 2013, 103.

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stabilimento garantita a livello UE in quanto consente a tale soggetto, in presenza di un requisito minimo, di attrarre a tassazione il reddito di impresa prodotto nel nostro territorio. Tale status inoltre può consentire, secondo la giurisprudenza UE esaminata, alla società non residente il superamento di ogni tipo di limitazione al beneficio fiscale prevista in uno Stato e consentire talvolta l’equiparazione rispetto ad un ente residente in attuazione del divieto di restrizione alla libertà di stabilimento. La nostra giurisprudenza di Cassazione (Sent. n. 16106 del 22.7.20116 ) sembra apparentemente per alcuni aspetti essersi adeguata agli orientamenti della Corte di Giustizia, chiarendo che si deve riconoscere piena autonomia soggettiva tributaria alle stabili organizzazioni autonomamente accertabili proprio in ragione della loro maggiore e più facile identificabilità.. E’ stato altresì precisato dalla Cass., nella sent. 20597 del 2011, che la identificazione di tali soggetti dipende da elementi di tipo sostanziale più che formale7 .

6 Nel caso in esame una società non residente Voith Paper s.r.l. - ancorchè autonoma persona giuridica - fungeva da stabile organizzazione italiana del gruppo tedesco Voith, a fondamento dell'accertamento, l'Agenzia assumeva l'indeducibilità, da parte di detta società (come costi connessi alla produzione del reddito), delle somme versate a titolo di royalties in favore delle società estere del gruppo. In quanto importi, confluendo nel reddito d'impresa di società estera dotata di stabile organizzazione in Italia, piuttosto che costi deducibili da imponibile, configuravano attività assoggettata ad imposta nello Stato. L'autonoma piena soggettività giuridica che viene riconosciuta secondo la Cass. non interferisce, invero,con l'imputazione, quale massa separata, dei rapporti fiscali riferibili a soggetto non residente, restando i due profili evidentemente autonomi e distinti, seppur in capo alla medesima entità (cfr. Cass. 9166/11, 3889/08, 17206/06, 6799/04, 7682/02). Difatti - ove la persona giuridica nazionale sia ad un tempo stabile organizzazione di soggetto non residente - nulla osta a che l'Amministrazione finanziaria indirizzi la propria pretesa impositiva e la propria azione accertatrice, nei suoi diretti confronti, quanto ai redditi da essa prodotti con la propria autonoma attività e, nei confronti della "stabile organizzazione", per ì redditi costituiti in "massa separata" riferibile a soggetto non residente; con la peculiarità che, per tali ultimi, l'applicazione dell'imposta avverrà secondo le regole proprie dell'imposta sul reddito dei soggetti non residenti. Alla luce degli esposti rilievi, può, dunque, concludersi che l'accertamento condotto dall'Agenzia sul reddito d'impresa, prodotta nel territorio dello Stato da società non residente tramite stabile organizzazione, deve essere svolta nei confronti di quest'ultima e non nei diretti confronti della società non residente. E d'altro canto, nell'ipotesi (quale quella di specie) in cui la stabile organizzazione del soggetto non residente è rappresentata da società residente munita di personalità giuridica, il criterio trova ulteriore conforto nel rilievo che in tal caso, per le precipue caratteristiche del sistema legale descritto in precedenza, l'accertamento non può che risolversi nella rettifica della dichiarazione di detto soggetto (ancorchè per la parte afferente al reddito del soggetto non residente di cui costituisce stabile organizzazione). 7 Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito, secondo cui aveva costituito una stabile organizzazione nel territorio dello Stato una società, con sede in

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In tale ultima sentenza. la Cass. afferma dell'individuazione di una stabile organizzazione nel territorio dello Stato di soggetto non residente, l'accertamento deve essere condotto sul piano formale, ma anche - e soprattutto - su quello sostanziale, non essendo incompatibili con il concetto di stabile organizzazione, né la personalità giuridica di cui sia eventualmente fornita la struttura operante in Italia, siccome l'autonoma soggettività giuridica non assume rilievo quanto alla imputazione dei rapporti fiscali, né l'assenza, in capo a quest'ultima, della capacità di produrre reddito di per sé ovvero dell'autonomia gestionale o contabile. Da ciò consegue l'irrilevanza del dato formale della molteplicità di imprese nelle quali l'organizzazione si articoli, allorché risultino sufficienti elementi oggettivi, desumibili dalle modalità operative dei soggetti attivi sul territorio nazionale, il cui significato sia, per di più, corroborato dall'esistenza di legami di natura soggettiva. In realtà è evidente che tale recente riconoscimento della soggettività in capo alle s.o. da parte della nostra giurisprudenza è derivante esclusivamente dalla finalità accertativa, antielusiva e di recupero a tassazione del reddito e riguarda casi di stabile organizzazione occulta o strumentale costituta quale organo operativo di un ente non residente al solo scopo di ottenere un vantaggio8. La soggettività tributaria di enti e società viene considerata invece come esaminato dalla giurisprudenza UE in una prospettiva diversa, connessa all’estensione del trattamento fiscale nazionale ( quasi sempre favorevole) di tali soggetti ai fini della sua conformità al sistema comunitario, al divieto di restrizione alla libertà di stabilimento ed a quello di aiuti di stato. Tale concetto di soggettività passiva coincide con quello UE di responsabilità fiscale (tax liability)9 e si avvicina alla nostra nozione di centro di

San Marino, che offriva servizi didattici per la preparazione "breve" di esami universitari con il metodo "CEPU", avvalendosi di una molteplicità di società e imprese individuali, le quali, da un lato, avevano la funzione di recapito della prima e traevano i loro introiti non dai proventi dell'attività di assistenza didattica, ma dalle provvigioni su vendite fatturate a questa, e, dall'altro, pur se formalmente distinte, erano tuttavia economicamente integrate in una struttura unitaria, strumentale al raggiungimento dello scopo commerciale in Italia della "casa madre" non residente 8 Tale orientamento è stato criticato da coloro ( Tesauro, Ist. Dir. trib. Parte speciale, Milano, 20o2 , 179 ) che non ritengono esistente la soggettività dell s.o . in quanto si osserva che l’applicazione delle stesse norme previste per le soc. residenti non significa che vi sia uno sdoppiamento della personalità giuridica. In realtà ciò è corretto dal punti di vista interno . Mentre in un ottica europea la s.o. resta pur sempre una non residente e l’equiparazione di trattamento fiscale rispetto alla residente deriva da uno status giuridico diverso riconosciuto a livello UE e dunque da una sua maggiore autonomia rispetto agli altri enti non residente privi di s.o. . Per certi versi ciò genera uno sdoppiamento con la casa madre. 9Cfr. TERRA-WATTEL, European Tax Law, Kluwer , 2012, 545. Con il termine tax liability utilizzato in ambito europeo si intende la responsabilità fiscale di un ente che può essere illimitata o limitata a seconda che trattasi di residente o non residente La

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imputazione in base alla manifestazione di capacità contributiva che può essere limitata o illimitata, piena o parziale . In ogni caso risulta conforme al diritto UE il riconoscimento alle s.o. della deducibilità delle spese di regia da parte della nostra prassi e giurisprudenza . La Cassazione, nella sentenze n. 11684 del 5.9.2000 e n. 1133 del 26.1.2001, conformandosi all’art. 7 OCSE, ha ritenuto, con riferimento alle spese di regia ( rappresentanti una quota si spese sostenute dalla società madre imputabili alla s.o.), che il concetto di inerenza vada riferito, non ai ricavi, ma all’attività dell’impresa. Non è necessario secondo diverse interpretazioni ministeriali il diretto collegamento con i ricavi ( C.M 7.7.1983 n. 30/9/944 e 158/E del 28.10.1998) . Tale orientamento appare più coerente alla logica della produzione del reddito d’impresa, a maggior ragione quando la distribuzione dei costi avviene nell’ambito di un gruppo. L’impresa capogruppo per le esigenze più svariate può mantenere strutture come le s.o anche quando dalle stesse non conseguano ricavi in tempi brevi. Il problema riguarda la ripartizione proporzionale delle spese e perdite tra s.o. e casa madre applicato agli utili totali dell’impresa. Nelle sent. n. 1709 del 2007 e n. 4416 del 2009 la Cass ha ritenuto legittima la deduzione delle spese da parte di una s.o. in Italia facente parte di un gruppo multinazionale 10 . L’A .F. e la Cassazione si esprimono dunque favorevolmente riguardo il riconoscimento delle spese di regia, ritenendo non irrazionale una ripartizione di costi compresi quelli sostenuti dalla soc. madre secondo un rapporto tra fatturato mondiale del gruppo e quello della s.o., ma ritengono necessario verificare l’aderenza alle reali situazioni di fatto e la sussistenza della congruità dei costi dedotti sulla base della documentazione fornita con l’ausilio delle autorità straniere ( C.M. del 7.7.1983 e 21.10.1997 n. 271/E) . In base a tale orientamento viene posto non più a carico del contribuente, ma dell’A. F l’onere della prova della ragionevolezza delle spese dedotte. La problematica è connessa alla soggettività delle s.o. .Se la stabile org. e la casa madre assumono un autonoma rilevanza e sono da considerare autonomi

delimitazione dell’ambito soggettivo di applicazione delle discipline fiscali favorevoli del consolidato ad es. si sono rivelate in contrasto con i principi comunitari come la libertà di stabilimento qualora si basano sulla residenza. La Corte di giustizia, nel caso Marks e Spencer C 446/03 del 13.12.2006, ha assunto una posizione molto precisa sul punto stabilendo che, ai fini del riconoscimento della soggettività passiva del gruppo di cui fanno parte controllate non residenti e dei relativi benefici in alcuni Paesi ( sgravio di gruppo in UK), rileva la proporzionalità. Misure restrittive antielusive che prevedano esclusioni dal regime del consolidato di cui fanno parte non residenti ( appartenenti ad altri Paesi UE ) e che disconoscono una unilmited tax liability sono consentite a livello UE da parte degli Stati membri se non eccedono quanto necessario altrimenti diventano restrizioni in contrasto con la libertà di stabilimento. 10 vedi inoltre sul punto Cass. sent 8808 del 2012 su inerenza e onere prova incombente sul soggetto che ha ricevuto il servizio.

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dal punto di vista impositivo, è possibile riconoscere alla s.o. una quota di reddito e la relativa deducibilità. Non è mancata qualche precisazione circa il rischio di abuso della soggettività delle s.o ai fini della deducibilità delle spese di regia . Con la CM del 1999 n. 52/E. l’AF ha infatti ritenuto non corretto il comportamento del contribuente che ha operato sulla base dell’autonoma soggettività di una s.o. per la detraibilità di tali spese . La giurisprudenza CGCE , nella sent. Futura, causa 250/95 del 1997 richiama lo scambio di informazioni per superare il vincolo posto dalla tenuta delle scritture contabili posto da uno stato membro ai fini del riconoscimento della deducibilità delle spese di regia secondo la normativa dello Stato fonte. Si ritiene che non dovrebbero limitarsi i trattamenti favorevoli nei confronti delle s.o. compreso la deducibilità di oneri e di perdite. Tra queste si afferma dovrebbero rientrare le spese sostenute dalla società madre a beneficio della s.o.. ( c.d spese di regia). La Corte di Giustizia, alla luce di quanto stabilito dall’art. 7 par. 1 del M. OCSE, si sofferma non specificamente sulle spese di regia, quanto sull’inerenza tra perdite subite e lo scopo perseguito dalla s.o intesa come connessione economica diretta e indiretta tra onere ed attività svolta. La Corte di Giust. nella sentenza Futura cit. al p. 21, reputa dunque compatibile con il diritto comunitario la condizione di inerenza all’attività svolta dalla s.o. delle perdite subite in altro ordinamento. Al punto 49 ritiene inoltre che non è indispensabile che i mezzi con i quali il non residente prova l’importo delle perdite, siano limitati a quelli della normativa dello Stato della fonte. E’ tuttavia necessario che l’ente non residente ( s.o.) dimostri in modo chiaro e preciso tale importo e le Autorità in tal caso non possono negare la deducibilità di perdite. La Corte tuttavia non si sofferma sul problema della rilevazione a livello della casa madre delle operazioni effettuate per conto della s.o., ma ritiene che il metodo della ripartizione proporzionale dei redditi complessivi per il calcolo delle perdite, per le incertezze che presenta, non determina un obbligo da parte degli Stati di determinazione in base ad esso11.

Nella sentenza AMID del 14.12.2000, causa C-141/99 la Corte ha evidenziato inoltre la stretta correlazione tra diritto convenzionale e diritto UE e l’influenza delle norme convenzionali sul riparto dei ricavi e delle perdite tra s.o e casa madre. Si chiedeva di neutralizzare – compensare le perdite interne della casa madre a fronte di utili (considerati esenti dalla convenzione bilaterale) conseguiti dalla s.o. in altro Stato membro. La condizione prevista dalla Corte per il riconoscimento del riporto delle perdite è che le stesse non potevano essere detratte dal reddito imponibile in alcuno

11 La proposta di direttiva del 1990 595/90, ritirata dalla Commissione, sulla contabilizzazione delle perdite subite dalle s.o., non prevedeva l’obbligo del riporto delle perdite nello Stato della fonte.

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degli Stati membri e risultavano completamente indeducibili, mentre sarebbero state deducibili se le s.o. fossero situate nello Stato in cui l’impresa aveva la sede sociale. Tale orientamento dimostra una certa flessibilità del diritto comunitario nel riporto di oneri sostenuti da imprese in altri Paesi a vantaggio della s.o..

3 Le stabili organizzazione in materia di IVA in ambito UE

In materia di IVA, la s.o. viene in rilievo quale mezzo di collegamento di un soggetto con il territorio di uno stato membro UE ed ha funzione di localizzazione della singola operazione . Nella relazione illustrativa al Dlgs del 2002 n. 191, l’AF ha invece escluso la soggettività ai fini IVA osservando che, permanendo la unitarietà del soggetto non residente non possono assumere rilevanza i rapporti interni posti in essere tra impresa non residente e stabile organizzazione . la Cass., nella sent. n. 6799/2004, nell’affrontare una fattispecie riguardante servizi effettuati da una s.o. alla casa madre, ha riconosciuto autonoma soggettività alla stessa12 .

La corte di giustizia, nella sent. C-16/93 del 3.3.1994, ritiene che una prestazione di servizi può essere considerata imponibile ai fini IVA se vi sua un rapporto giuridico con scambio di reciproche prestazioni in cui il compenso corrisponda al controvalore effettivo del servizio prestato . Si supera dunque ancora una volta il problema della soggettività e ciò che conta è l’effettività dell’operazione . Con sent. Cass. n. 6310 del 2008 si è inoltre

12 POZZO Sull’autonoma soggettività IVA delle s.o., in RGT, 2004 . Con ord. N. 7851 del 2004 la Corte Suprema, chiamata a pronunciarsi sulla soggettività ai fini iva della S.O., ha rinviato la questione alla corte di giustizia. La questione pregiudiziale sollevata si basa sul fatto che "nel caso di specie vi è un elemento in più" rispetto agli elementi sottoposti al giudice comunitario con i richiamati provvedimenti, "costituito ... dal fatto che la ragione per cui l'IVA era non dovuta risiedeva non già in una norma... ma in una "prassi nazionale" (... circolari ...) che teorizzava la configurabilità di "rapporti intersoggettivi" per prestazioni di servizi tra "casa madre" e "proprie filiali estere", ovverosia "fattispecie in cui il cedente e il cessionario solo lo stesso soggetto ... ed in cui la dichiarata carenza di legittimazione del committente/ cessionario si traduce in una definitiva locupletazione dell'erario italiano a spese della impresa francese e della sua filiale italiana .Con Sent Corte Giust delle Comunità Europee nella sentenza 23 marzo 2006 (procedimento C-210/04 ) - secondo cui "gli artt. 2, n. 1, e 9, n. 1, della sesta direttiva dei Consiglio 17 maggio 1977, 77/388/CEE" ("in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari - Sistema comune di imposta sul valore aggiunto: base imponibile uniforme") "devono essere interpretati nel senso che un centro di attività stabile, che non sia un ente giuridico distinto dalla società di cui fa parte, stabilito in un altro Stato membro e al quale la società fornisce prestazioni di servizi, non deve essere considerato un soggetto passivo in ragione dei costi che gli vengono imputati a fronte di tali prestazioni" .

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affermato che “In tema di IVA indebitamente versata, l'art. 38 ter del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 prevede il diritto dei soggetti domiciliati e residenti negli Stati membri della CEE al rimborso dell'imposta soltanto nel caso in cui essi siano privi di stabile organizzazione in Italia e di rappresentante nominato ai sensi del secondo comma dell'art. 17 del medesimo d.P.R.; ne consegue che, nel caso di servizi oggetto di cessione alla casa madre (società con sede all'estero) da parte della filiale italiana (autonomo soggetto passivo IVA e sede secondaria), non spetta alla prima (cessionaria) alcuna facoltà quanto al predetto rimborso, tanto più che solo il prestatore (cedente), unico abilitato alla richiesta, va considerato debitore dell'imposta nei confronti delle autorità tributarie, fatta salva la possibile azione civilistica di ripetizione dell'indebito esercitabile dal destinatario nei confronti del prestatore. I requisiti per riconoscere una s.o ai fini IVA sono abbastanza rigorosi e la nozione di centro di attività stabile appare più ristretta rispetto a quella prevista per le imposte dirette . In realtà non vi è molta differenza tra le due nozioni e in quanto la funzione della s.o. è sempre quella di collegamento ai fini impositivi a prescindere dagli obblighi strumentali e di versamento che contraddistinguono la s.o. ai fini IVA. Il Reg. n. 282/2011 prevede infatti un sufficiente grado di permanenza a disposizione del non residente nell’altro stato ed una consistenza minima di mezzi umani che coincide con quanto ribadito dalla giurisprudenza UE13. Tuttavia l’approccio recente della Corte è particolare e meno restrittivo in alcune recenti sentenze ove si afferma che, anche se assume rilevanza ai fini antielusivi la s.o.. non deve diventare un requisito limitativo ai fini del riconoscimento di un diritto come quello al rimborso IVA . Secondo una logica simile a quella esaminata nel caso Philips eltronics, ai fini del rimborso IVA nei confronti di non residenti, la CGCE ha ritenuto nel recente caso Daimler del 25.10.2012 C-318/11 che non può essere preclusiva la mera presenza di un s.o, ma ciò che conta è l’effettiva realizzazione di operazioni imponibili nello stato di rimborso. Nella sentenza di Cassazione Philip Morris n. 3368 del 7.3.2002 l’Ufficio ritiene che non va dimenticato che il fenomeno delle stabili organizzazioni occulte trova terreno favorevole all’interno dei gruppi multinazionali . La Corte Suprema ritiene che una società di capitali con sede in Italia può assumere il ruolo di s.o. plurima di società estere appartenenti allo stesso gruppo e perseguenti una strategia unitaria. Viene disconosciuta in tale caso la soggettività della s.o. che è considerata un soggetto interposto della società estera. Il riconoscimento della s.o. nel nostro ordinamento tributario fa pensare che non sia necessaria la comunitarizzazione della disciplina nazionale di tali soggetti in quanto essa risulta spontaneamente adeguata a quella convenzionale e comunitaria.

13 Vedi sent. Aro Lease del 17/7/1997 , causa C 190/95.

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Necessaria in conclusione appare la cooperazione rafforzata tra le A F per evitare manovre elusive e abuso della soggettività della s.o ai fini agevolativi che possono derivare ad es. dalla mancata verifica della coincidenza delle spese di regia con somme effettivamente pagate dalla impresa madre. Ciò risulta fondamentale ai fini del riconoscimento dello stesso trattamento fiscale tra società residenti e s.o. . L’effettività dello svolgimento di attività in altro Stato da parte di una s.o ed il maggior rigore nella identificazione di tal strutture richiesto ai fini IVA, deve rilevare anche ai fini delle imposte dirette e non ha senso una distinzione sulla base del tipo di imposta ( diretta o IVA) che determina un’autonomia ed una soggettività alternata14 e strumentale ai fini antielusivi. Le pronunce della nostra Cass. , salvo il caso delle spese di regia, hanno ad oggetto la s.o. occulta e non possono essere rilevanti ai fini del riconoscimento della soggettività che viene attribuita, talvolta alla s.o talvolta al gruppo per il disconoscimento di un vantaggio indebito. La giurisprudenza comunitaria considera diversamente la s.o in una visione più ampia ai fini dello stesso trattamento fiscale riservato alle società residenti, superando barriere interne, valutando e imponendo in alcuni casi il riconoscimento di diritti come quello al rimborso, alla deducibilità del spese e detraibilità dell’IVA ed operando come sempre sulla base della proporzionalità e dell’effettività.

14 PENNE, La Corte di Giust. sul caso Daimler in RDT II, 2012, 80

Prof. Mauro Bini Professore Università Bocconi di Milano

Aspetti contabili per la stabile organizzazione*

* La relazione, non pervenuta in tempo per l’inserimento nel volume, appena disponibile verrà pubblicata sul sito www.uckmar.net

Pietro Boria Professore Università di Foggia

L’individuazione della stabile organizzazione

1 Premessa. L’individuazione della stabile organizzazione è un tema che riguarda essenzialmente la localizzazione del soggetto tributario.

L’individuazione della stabile organizzazione è un tema giuridico che riguarda essenzialmente il riconoscimento del soggetto tributario sul territorio ovvero, per meglio dire, la localizzazione del soggetto che produce reddito di impresa (o che pone in essere operazioni rilevanti ai fini Iva) in una giurisdizione tributaria al fine di attribuire la potestà impositiva ad uno Stato piuttosto che ad un altro (1).Il concetto di “stabile organizzazione” è definito tipicamente nella disciplina delle imposte dirette dall’art. 162 TUIR (con particolare riguardo ai criteri di imposizione adottati ai fini dell’IRES). A tal riguardo va segnalato che tale nozione si allinea nella sostanza con la formulazione del concetto nell’ambito delle convenzioni internazionali per l’eliminazione delle doppie imposizioni (ed in particolare nell’art. 5 del Modello OCSE); peraltro, eventuali scostamenti dalle accezioni accolte in sede internazionale sono da ritenere comunque non determinanti stante la prevalenza da attribuire al diritto interno ai fini della ricostruzione della latitudine giuridica della “stabile organizzazione” nel diritto tributario italiano (2). E’ appena il caso di rilevare che la nozione di stabile organizzazione è utilizzata come criterio regolamentare anche ai fini di altre imposte (ed in specie dell’Iva) (3), pur se con alcune diversità ricostruttive ed applicative (4). Il dato di partenza per la definizione della nozione può essere 1 ) In questo senso chiaramente si esprime FANTOZZI La stabile organizzazione, in Riv. Dir. Trib. 2013, I, 99 ss. che ritiene la stabile organizzazione un criterio di “apporzionamento del reddito complessivo tra diverse giurisdizioni”. 2) Si veda GALLO F. La stabile organizzazione, in AA. VV. Il diritto tributario nei rapporti internazionali, in Quaderni di rassegna tributaria, n. 2/1986, 149 ss. 3 ) Nell’ambito Iva viene in rilievo in particolare il “centro di attività stabile” idoneo a garantire la cura di affari nel territorio di uno Stato membro diverso dallo Stato di residenza. Vedi in specie l’art. 9 della Sesta Direttiva CEE in materia Iva del 17.5.1977 n. 77/388. Si segnala inoltre il Regolamento UE n. 282/2011 artt. 11, 22 e 53 che fornisce elementi per la ricostruzione della nozione di stabile organizzazione ai fini Iva. 4 ) E’ frequente in dottrina il rilievo che la medesima nozione di “stabile organizzazione” può assumere diversi significati a seconda del peculiare contesto impositivo. Sull’argomento si veda GALLO, F. Contributo all’elaborazione del concetto di stabile organizzazione secondo il diritto unitario, in Riv. Dir. Fin. 1985, I, 385; LOVISOLO, Il concetto di stabile organizzazione nel regime convenzionale contro la doppia organizzazione, in Dir. Prat. Trib. 1983, I, 1127; CARBONE, La

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rintracciato nella funzione assunta nella logica dell’imposta sul reddito, e cioè nella idoneità della “stabile organizzazione” a ricollegare una fattispecie reddituale ad un soggetto estraneo all’ordinamento, atteggiandosi dunque come vero e proprio “criterio di collegamento” del reddito ad una giurisdizione tributaria (5). In altre parole, la “stabile organizzazione” vale ad indicare che l’attività esercitata dal soggetto collettivo non residente si localizza nel territorio straniero (inteso come territorio diverso rispetto allo Stato di residenza) (6) in quanto svolta attraverso una organizzazione stabile e continuativa. La nozione di “stabile organizzazione” richiama così la presenza nel territorio di un soggetto collettivo non residente che opera ed agisce secondo modi, cadenze e ritmi - e cioè quelli che connotano una organizzazione stabile e continuativa dell’attività di impresa - comparabili con quelli propri di un soggetto collettivo residente. La “stabile organizzazione” non vale dunque a costituire un autonomo soggetto giuridico bensì ad indicare una articolazione organizzativa di un soggetto collettivo già esistente, pur se non residente nel territorio; l’individuazione di tale articolazione organizzativa serve al fine di esprimere la riferibilità del reddito da essa prodotto al territorio medesimo, in quanto la fattispecie impositiva è riportata ad una figura riconoscibile dall’ordinamento come autonomo soggetto giuridico (7). In questa prospettiva l’individuazione della stabile organizzazione si collega intimamente con il tema della soggettività tributaria in quanto impone di riconoscere gli elementi giuridici che permettono l’identificazione del soggetto nella giurisdizione tributaria. Va osservato peraltro che la stabile organizzazione, pur costituendo un elemento riferibile astrattamente anche ad una impresa di tipo individuale, costituisce un tratto identificativo tipicamente ricollegabile ai soggetti collettivi che svolgono attività commerciali (e dunque a società di capitali, società cooperative, società di persone, enti commerciali ovvero enti non commerciali che svolgono in modo non prevalente attività commerciali). In nozione di stabile organizzazione e la sua operatività nell’ordinamento italiano, in AA. VV., Il reddito di impresa nel nuovo testo unico, Padova 1988, 731; PURI, La stabile organizzazione nell’Iva, in Riv. Dir. Trib. 2001, I, 239. In giurisprudenza sulla qualificazione di stabile organizzazione ai fini Iva cfr. Cass. 28.6.2012 n. 10802 e Cass. 30.11.2012 n. 21380. 5 ) In tal senso CARBONE, La nozione di stabile organizzazione e la sua operatività nell’ordinamento italiano, cit., 732; CARPENTIERI – LUPI – STEVANATO Il diritto tributario nei rapporti internazionali, Milano 2004, 215 s. 6 ) Nel corso di questo lavoro si farà più volte riferimento al “territorio straniero” ad indicare la giurisdizione tributaria in cui opera il soggetto collettivo non residente che sia diversa rispetto allo Stato di residenza. Evidentemente, pertanto, per l’ordinamento nazionale il territorio straniero del soggetto non residente è rappresentato dal territorio italiano. 7) Cfr. sull’argomento FANTOZZI – MANGANELLI, Qualificazione e determinazione dei redditi prodotti da imprese estere in Italia: applicabilità della normativa sui prezzi di trasferimento nei rapporti tra stabile organizzazione e casa madre, in AA. VV. Studi in onore di V. Uckmar, Padova 1997, I, 401 ss.

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questo senso la stabile organizzazione viene usualmente considerata come una forma giuridica attraverso la quale il soggetto collettivo esercita l’attività in un territorio diverso da quello in cui è presente la propria sede legale (ovvero il domicilio fiscale). Ne consegue che la ricerca dei criteri utili ai fini dell’individuazione della stabile organizzazione va effettuata tipicamente con riguardo ai modi ed alle forme con cui si esprime la soggettività degli enti collettivi che svolgono attività commerciali. 2 La soggettività degli enti collettivi va ricostruita secondo i

meccanismi della imputazione di fattispecie e/o effetti giuridici ad una organizzazione sociale.

Come noto, in termini generali che il fenomeno della soggettività può essere ricondotto essenzialmente alla utilizzazione di un meccanismo di imputazione (8), mediante il quale si realizza il collegamento di una fattispecie normativa con un determinato centro che si atteggi come "fattore di unificazione" (9). Al fine di avere un soggetto è necessario così che l'insieme di diritti ed obblighi ed in genere di situazioni giuridiche soggettive attinenti alla fattispecie da imputare venga riferito in modo unitario ad un destinatario (10). Nel caso della persona fisica è l'unita biologica "uomo" a fungere agevolmente da fattore di unificazione. Nel caso di un soggetto collettivo l’identificazione di un fattore di unificazione appare più complessa in quanto sono rinvenibili almeno due termini astrattamente eleggibili a centro di imputazione normativa, ovverosia gli individui (e cioè i soci o gli associati) e l’organizzazione complessiva in cui si sostanza il soggetto collettivo. Evidentemente, il problema della soggettività degli enti collettivi non riguarda l’esistenza di una realtà “pre-giuridica” (o “meta-giuridica”), quanto

8) Il termine imputazione viene utilizzato nella dottrina “normativo – nominalistica” come collegamento di una fattispecie normativa ad un soggetto. Per alcune osservazioni su tale scelta terminologica si veda LOSANO Saggio introduttivo a KELSEN La teoria generale del diritto, trad. ital., Milano 1954. 9) Sul concetto di persona giuridica come tecnica normativa di imputazione di fattispecie giuridiche si veda GALGANO Struttura logica e contenuto normativo del concetto di persona giuridica, in Riv. Dir.Civ. 1965, I, 553 ss; ID. Delle persone giuridiche, Roma - Bologna, 23 s; ZATTI Persona giuridica e soggettività, Padova1975; ORESTANO Le persone giuridiche, in Il diritto privato nella moderna società, 159 ss; SCARPELLI Contributo alla semantica del linguaggio normativo, Torino 1966, 66. In argomento, anche per un esame critico delle teorie tradizionali sulla fattispecie giuridica con specifico riferimento alle persone giuridiche, vedi FERRO LUZZI I contratti associativi, Milano 1972, 128 ss. 10) Così espressamente KELSEN La teoria generale del diritto, cit..

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piuttosto il riconoscimento del criterio adottato per l’imputazione normativa (11): non si tratta perciò di capire se l’ente collettivo esista effettivamente nella dimensione storica ovvero costituisca una mera finzione di diritto; è piuttosto rilevante procedere al riconoscimento del criterio normativo di imputazione di una fattispecie ad un centro soggettivo idoneo ad essere titolare di situazioni giuridiche soggettive (12). In altre parole non si tratta di verificare la corrispondenza della disciplina sui soggetti collettivi ad una realtà pre-normativa, bensì di analizzare le "condizioni d'uso" di tale disciplina (13). Il concetto di soggettività giuridica è stato così ridimensionato ad un fenomeno prettamente normativo, attraverso una separazione decisa dalla soggettività reale: soggetto di diritto viene pertanto inteso il centro di riferibilità delle fattispecie giuridiche indipendentemente dalla sussistenza di una determinata qualità soggettiva (14). Accertato che il fulcro della questione non è tanto rappresentato dalla identificazione di una particolare qualità rinvenibile nel mondo reale, bensì dalla scelta di un peculiare meccanismo di imputazione nella disciplina legislativa, occorre soffermarsi sui due termini dell'alternativa sopra individuata.

11) In ordine al procedimento logico – giuridico attraverso il quale si giunge alla comprensione del fenomeno della soggettività giuridica cfr. D'ALESSANDRO Persone giuridiche ed analisi del linguaggio, in Scritti giuridici in memoria di Tullio Ascarelli, I, Milano 1969, 375 ed autonomamente pubblicato, Padova 1989, 146 ss. 12) Cfr. in tal senso FERRO LUZZI I contratti associativi, Milano 1972, 155 ss. Per chi volesse approfondire l'esame dei meccanismi di imputazione e particolarmente la questione dell'imputazione degli atti o degli effetti richiamo, a puro titolo di indicazione, FALZEA Il soggetto nel sistema dei rapporti giuridici, cit., 162 ss; ROMANO S. Organi, in Frammenti di un dizionario giuridico, Milano 1953, 154 ss; MINERVINI Alcune riflessioni sulla teoria degli organi delle persone giuridiche, cit., 62. Cfr. inoltre GIANNINI M.S. Istituzioni di diritto amministrativo, Milano 1981, 31 ss, per alcune rapide osservazioni sul percorso evolutivo delle figure giuridiche di imputazione (dal munus romanistico alla rappresentanza ed alla organizzazione entificata). 13 ) In tal senso GALGANO Delle persone giuridiche, Delle persone giuridiche, in Comm. cod. civ. a cura di Scialoja e Branca; Bologna - Roma 1969, 23. Sul punto cfr. SCARPELLI Contributo alla semantica del linguaggio normativo, cit., 113 ss; D'ALESSANDRO Persone giuridiche ed analisi del linguaggio, cit.. 14) E' interessante notare che anche in filoni dottrinali lontani dalla teoria “normativo-nominalistica” si è andata delineando una ricostruzione della soggettività come fenomeno prettamente normativo. In questo senso si veda HAURIOU Teoria della istituzione e della fondazione, trad. it., Milano ** che pur attribuendo una valore centrale all'"idea comune" come fattore fondante della soggettività degli enti collettivi ne riconosce l'essenziale natura di centro di imputazione di effetti giuridici. Cfr. PASUCKANIS in AA.VV. Teorie sovietiche del diritto, che definisce il soggetto come centro di titolarità di diritti o di obblighi e riconosce che la soggettività delle società consiste nella riferibilità ad esse di norme.

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Cominciando con il fenomeno denominato appunto della "soggettività degli enti collettivi" si è già avuto modo di rilevare che esso consiste in una imputazione di fattispecie giuridiche ad un complesso di individui e beni organizzato funzionalmente e, dunque in modo più sintetico, ad una “organizzazione sociale” (15). Il termine "organizzazione" viene richiamato a proposito degli enti collettivi dalla dottrina amministrativistica e civilistica, senza peraltro che vi sia una visione unitaria del concetto (16).

15) Nella dottrina l'attenzione va sempre più spostandosi dalla soggettività alla organizzazione: l'analisi dell'assetto organizzativo viene infatti assunta come dato fondante della disciplina normativa delle società, delle associazioni e degli enti collettivi in genere. Non si tratta cioè più di stabilire se gli enti sono o meno soggetti, quanto piuttosto se l'organizzazione presenta una attitudine oggettiva ad essere centro di riferibilità autonomo delle fattispecie giuridiche. In particolare è stata la dottrina amministrativistica che in Italia, nel corso degli anni '60, ha proposto una ricostruzione unitaria dell'amministrazione pubblica incentrata sul concetto di organizzazione: cfr. BERTI La pubblica amministrazione come organizzazione, Padova 1968; SAITTA Premesse per uno studio delle norme di organizzazione, Milano 1965. In ambito privatistico si è osservato che l'organizzazione si trova in contrapposizione antitetica al contratto nella ricostruzione della fattispecie societaria per sottolineare il rilievo reale dell'atto costitutivo, vale a dire il porsi come centro di imputazione giuridica. In tal senso FERRO LUZZI I contratti associativi, Milano 1972, 117 nota 33; SPADA La tipicità delle società, Padova 1974, 89 s. 16) La percezione dell'organizzazione come "grandezza" giuridicamente rilevante è avvenuta in principio nella dottrina amministrativistica italiana e tedesca in correlazione al progressivo accentuarsi dello studio delle norme e dell'ordinamento in senso oggettivo e de-ideologizzato. Sulla complessa vicenda di adattamento teorico nel passaggio allo stato parlamentare e sulla spersonalizzazione del rapporto con l'amministrazione si veda l'analisi di DI GASPARE Organizzazione amministrativa, in Dig. IV, X, Sez. Dir. Pubbl., 4 ss dell'estratto. Sono peraltro individuabili due indirizzi di fondo: un primo che assume l'organizzazione come dato giuridico ed un secondo che, al contrario, ne ricerca i connotati sul terreno politico e sociologico (SAITTA Premesse per uno studio delle norme di organizzazione, Milano 1965). Peculiare appare la posizione di M.S. GIANNINI che per un verso sembra fornire una ricostruzione del fenomeno organizzativo in termini di disegno normativo sulla produzione e sulla imputazione di valori giuridici (Diritto amministrativo, Milano 1970, 137 s), per altro verso fa emergere una nozione non normativa di organizzazione (Gli elementi degli ordinamenti giuridici, in Riv. trim. dir. pubbl. 1958, 237). L'idea che la realtà sottesa all'organizzazione non sia soltanto normativa, ma anche fattuale appare peraltro radicata nella dottrina italiana: secondo PUGLIATTI Diritto pubblico e diritto privato, in Enc. Dir., 723, l'organizzazione presenta una essenziale dimensione storica che si integra con il valore giuridico. In senso sostanzialmente analogo S. ROMANO L'ordinamento giuridico, Firenze 1967, 15 s; CALASSO Medioevo del diritto, Milano 1954, 27. Nella dottrina civilistica sembra peraltro accentuato il momento giuridico ai fini della identificazione del concetto di organizzazione. In particolare in tema di società l'organizzazione è stata definita come un concetto in contrapposizione a quello di

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Sul piano oggettivo si può notare che esistono vari profili sotto cui assume rilevanza il fenomeno organizzativo: sono infatti ipotizzabili una organizzazione di beni, una organizzazione di rapporti interni tra soggetti, ed anche una organizzazione di attività. Il più delle volte questi diversi profili dell'organizzazione tendono ad intrecciarsi tra di loro, ma è ad ogni modo possibile pensare a fattispecie in cui rilevano singolarmente (17). Ora, non ogni fenomeno oggettivo di organizzazione vale a porsi come fattore di unificazione di diritti ed obblighi, e quindi ad assumere l'astratta idoneità ad essere centro di imputazione di una fattispecie normativa. Ed invero, appare determinante verificare che il complesso organizzato di persone e mezzi non “appartenga” a terzi (e dunque si risolva in una mera articolazione organizzativa di un altro soggetto), bensì disponga di effettiva autonomia ed indipendenza.

contratto (AULETTA Il contratto di società commerciale, cit., 31 ss; ASCARELLI Il contratto plurilaterale, cit., 277 ss; FERRI Le società, Torino 1971, I, 4.) oppure come organizzazione dell'impresa (ROSSI Persona giuridica, proprietà e rischio d'impresa, cit., 112) o come strumento giuridico dell'attività (FERRO-LUZZI I contratti associativi, cit., 170 ss, 214 e 243), come punto di riferimento dell'attività comune (SPADA La tipicità delle società, Padova 1973, 134 ss), come valore giuridico dell'attività (ANGELICI La società nulla, Milano 1975) oppure ancora come mezzo di realizzazione dell'essenziale esigenza contrattuale (OPPO Eguaglianza e contratto nelle società per azioni, 654). Una certa ambiguità semantica è peraltro rilevabile in alcuni autori che oscillano tra una nozione di marca economicistica (riferendosi in sostanza alla organizzazione dei fattori della produzione) ed una nozione giuridica (come ordinamento dei poteri sociali): cfr. CASANOVA Società e impresa, in Nuova riv. dir. comm. 1949, I, 1 ss; GASPERONI La trasformazione delle società, Milano 1952, 148 ss; DALMARTELLO I contratti delle imprese commerciali, Padova 1962, 298 ss. 17) Una organizzazione di beni in cui mancano gli ulteriori profili dell'organizzazione di attività o di rapporti interni è costituito dal c.d. "patrimonio separato" oppure dai fondi mobiliari o immobiliari ovvero ancora dai fondi speciali di istituti di credito o fondi similari . Sul tema dei patrimoni separati e sulla relativa distinzione rispetto ai "soggetti di diritto" si veda DONADIO I patrimoni separati, Città di Castello 1941; BIONDI I beni, Torino 1953; MESSINEO Manuale di diritto civile e commerciale, I, Milano 1957, 386;; NATOLI L'amministrazione dei beni ereditari, II, Milano 1969, 126 s; BIGLIAZZI GERI Patrimonio autonomo e separato, in Enc. Dir., XXXII, Milano 1982, 285. Fattispecie di mere organizzazioni di rapporti interni sono rappresentate dall'associazione in partecipazione o dal contratto di cointeressenza e dalle unioni di imprese (c.d. joint ventures non entificate). Rispetto alla società tali fattispecie si distinguono per l'assenza di una gestione comune dell'attività: non si crea nessuna riunione economico giuridica di beni e soggetti, ma soltanto una unione "algebrica" di soggetti che rimangono separati. Cfr. GHIDINI Cointeressenza, in N.sso Dig. III, Torino 1959, 437 ss; DE FERRA Associazione in partecipazione, in Enc. Giur. Treccani, 9; BELLI CONTARINI Prime note sui profili tributari dei contratti di cointeressenza, in Riv. Dir. Trib. 1993, I, 673 ss.

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Così nelle ipotesi di organizzazioni di beni o di rapporti la struttura organizzativa è da ritenere inidonea a fungere da centro di riferibilità delle fattispecie, in quanto esprime una funzione strumentale agli interessi di un altro soggetto (regolazione di un patrimonio, ordinamento interno dei rapporti etc.) e dunque è da considerare carente di autonomia (18). L'elemento determinante ai fini della imputazione di fattispecie normative è piuttosto rappresentato dalla organizzazione dell'attività, dalla costituzione cioè di una struttura finalizzata al compimento di una determinata attività in modo autonomo ed indipendente rispetto agli individui che ne fanno parte. In questo caso, infatti, la struttura organizzativa non risponde soltanto ad esigenze ordinative di un patrimonio o di rapporti negoziali, ma assume le funzioni che spettano normalmente ai soggetti riconosciuti dall'ordinamento giuridico, vale a dire il compimento di un'attività (19).

18) Il discorso sul concetto di autonomia è sorto inizialmente nell'ambito del diritto pubblico in ordine alla identificazione del "potere di darsi un ordinamento" degli enti pubblici; successivamente si è esteso anche al diritto privato, venendo assimilato il potere negoziale al potere normativo, con la conseguente elisione dei tratti originari del concetto. L'autonomia venne così collegata non più soltanto al versante dei pubblici poteri, bensì alla soggettività in genere. Vedi BETTI Autonomia privata, in Nov.mo. Dig. It., I, Torino 1957, 1559; DE FINA Autonomia, in Enc. Giur. Treccani, 1. Sulla essenzialità della "non appartenenza a terzi soggetti", e quindi della autonomia, ai fini della identificazione di un centro di imputazione, si veda espressamente nella dottrina tributaria NUZZO Questioni in tema di tassazione di enti non economici, in Rass. Trib. 1985, I, 107 ss; POTITO Soggetto passivo di imposta, in Enc. Dir. XLII, Milano 1990, 1242; GALLO La soggettività ai fini IRPEG, in AA.VV. Il reddito di impresa nel nuovo testo unico, Padova 1988, 664; ID. I soggetti del libro primo del codice civile e l'Irpeg: problematiche e possibili evoluzioni, in Riv. Dir. Trib. 1993, I, 346. 19) D'altronde che il soggetto nel mondo giuridico sia visto soprattutto in quanto autore di una determinata attività, da cui discendono obblighi e diritti, è un dato riscontrabile come postulato di gran parte della dottrina che si è occupata dell'argomento. Vedi tra gli altri D'ALESSANDRO Persona giuridica, cit., 124, che espressamente afferma "che alla base della soggettività giuridica vi è una capacità di comportamento"; BASILE - FALZEA Persona giuridica, in Enc. Dir., 240, per i quali la "soglia minima di rilevanza giuridica" della soggettività suppone un minimo di organizzazione per lo svolgimento di un'attività. Cfr. altresì BIANCA Diritto civile, I, Torino 1980, 283 ss. Per alcune considerazioni sul rapporto tra organizzazione ed attività come perno logico della soggettività delle società si confronti FERRO LUZZI I contratti associativi, Milano 1972, 242 ss e 300 ss ANGELICI La società nulla, Milano 1975, 88 ss. Quanto alla dottrina tributaria si può riscontrare come siffatta impostazione fosse in una qualche misura già prefigurata in VANONI Elementi di diritto tributario, in Opere giuridiche, II, Milano 1962, 124 s; ANTONINI E. La soggettività tributaria, Napoli 1965, 52 ss.

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D’altronde il concetto stesso di autonomia ha subito uno slittamento logico in direzione della "autodeterminazione" ovvero della "autoregolazione di attività e di comportamenti" che ha fatto emergere la centralità del potere di impostare la propria attività secondo criteri autonomamente determinati (e non provenienti da altri soggetti) (20). Nel regolamentare i "ritmi" della produzione dell'attività comune (l'ordinamento dei poteri sociali, le regole di distribuzione di funzioni, le modalità di azione) l'organizzazione sociale si presenta come una figura unitaria di produttore di diritto che appare naturalmente predisposta a ricevere gli effetti dell'attività medesima e dunque a fungere da centro di imputazione giuridica (21). Non bisogna pertanto confondere i profili oggettivi dell'organizzazione con quelli soggettivi: soltanto ad uno di quelli, e cioè all'organizzazione di attività, è attribuito il particolare "valore" dell’idoneità all'imputazione. Resta da vedere quando ricorre in concreto una organizzazione dell'attività che presenti connotati tali da configurare un centro di imputazione: si può rilevare a questo proposito che gli elementi fondamentali della organizzazione di attività sono rappresentati dall'esistenza di una comunità di individui, di un fine comune e di un complesso di regole per la attribuzione di funzioni agli individui così da unificare il gruppo e renderlo diverso da una mera unione di individui (22); decisiva è poi la sussistenza di una autonomia In senso sostanzialmente conforme alla tesi della organizzazione di attività come elemento individuante della soggettività si veda NUZZO Questioni in tema di tassazione degli enti non economici, in Rass. Trib. 1985, I, 128; ID. Organizzazione, soggettività tributaria, eredità giacente, in Dir. Prat. Trib. 1986, II, 1065; ID. Impresa multinazionale (dir. trib.), in Enc. Giur. Treccani, XVI, Roma 1989, 2, che pur avverte come talora il criterio dell'imputazione dell'attività venga superato nelle legislazioni più moderne onde evitare possibili elusioni di imposta (ad es. mediante l'espediente di riferire il reddito alle c.d. "società di carta"); CROXATTO Redditi delle persone giuridiche (imposta sui), in Nov.mo Dig. it. App., Torino 1989, 419; ESPOSITO I fondi pensione ex art. 2217 C.C., in particolare sulla tassabilità degli interessi corrisposti dall'ente costituente, in Riv. Dir. Trib. 1993, II, 428 ss; FICARI Indici di soggettività tributaria ed art. 87 comma secondo TUIR n. 917/1986, in Riv. Dir. Trib. 1994, II, 472. Su posizioni parzialmente diverse è ZIZZO Reddito delle persone giuridiche (imposta sul), in Riv. Dir. Trib. 1994, I, 635, per il quale l'organizzazione è da considerare piuttosto come il risultato dell'attività, che come una attività. 20) Il proprium dell'autonomia quale tratto caratteristico della soggettività viene così individuato con riguardo al profilo della regolazione dell'attività. Cfr. sul punto DE FINA Autonomia, cit., 2. 21) Sul nesso che intercorre tra attività ed organizzazione all'interno dello schema produzione/imputazione si vedano le acute osservazioni di SPADA La tipicità delle società, cit., 134 ss. Cfr. inoltre ANGELICI La società nulla, cit., 91 ss, il quale definisce l'organizzazione come il valore giuridico dell'attività. 22) Sulla essenzialità di un interesse di gruppo e sulla posizione funzionale di chi produce i singoli atti come connotato precipuo dell'attività di un ente collettivo si veda SPADA La tipicità delle società, cit., 154 ss.

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decisionale e di una autonomia programmatica nell'ambito del potere di indirizzo dell'attività (23). Pertanto, quando l'ente presenta una struttura che è obiettivamente idonea ad assumere decisioni relative all'andamento generale dell'attività collettiva indipendentemente da altri soggetti, allora si può ritenere che ricorra il requisito dell'organizzazione di attività, e che pertanto sussistano le caratteristiche di una astratta idoneità ad essere centro di riferibilità delle fattispecie (24). Alla luce di quanto è stato detto, la soggettività degli enti collettivi può essere descritta in una dimensione analitica secondo lo schema imputazione/organizzazione (25), vale a dire come un rapporto di imputazione di fattispecie giuridiche in capo ad una organizzazione (da intendersi come organizzazione di attività) (26). Lo schema "imputazione/organizzazione" può essere così tradotto nello schema "imputazione/modo di produzione di attività", che ancor di più evidenzia il distacco da una rappresentazione individualistica dei fenomeni giuridici. L'attività considerata nella sua autonomia si pone infatti, in sostanza, come termine di riferimento delle fattispecie normative. Gli individui rilevano solo come termini di riferimento secondari, o come strumenti di produzione di singoli atti (rappresentanti, organi etc.), oppure come destinatari del risultato finale dell'attività (e cioè come soci o associati) (27).

23) In senso sostanzialmente affine, pur se riferito specificamente agli enti pubblici, LAVAGNA Istituzioni di diritto pubblico, Torino 1979, 879, per il quale l'autonomia è da riconoscere nel "potere di condizionamento unilaterale di collettività". 24) La connessione tra titolarità dei poteri decisionali ed eleggibilità del soggetto passivo del tributo è stata evidenziata da FEDELE Possesso di redditi, capacità contributiva ed incostituzionalità del "cumulo", cit., 2163 ss. il quale sostiene che in tema di imposte dirette i poteri decisionali, rintracciabili non soltanto in situazioni giuridiche soggettive, ma anche nella "libera disponibilità" del reddito, sono da individuare in rapporto alle scelte sulla soddisfazione di bisogni e di interessi rese possibili da un determinato reddito. Per alcune osservazioni di senso analogo in riferimento all'impresa familiare, e segnatamente alla "comunità organizzata" dei collaboratori familiari, si veda NUSSI L'imputazione dei redditi dell'impresa familiare, in Riv. Dir. Trib. 1992, I, 916 ss. 25 ) Per una più ampia ricostruzione del concetto di soggettività degli enti collettivi e delle persone giuridiche secondo il meccanismo di imputazione/organizzazione richiamo quanto detto in BORIA Il principio di trasparenza nell’imposizione delle società di persone, Milano 1996; ID. Sistema tributario, Torino 2008. 26) La soggettività delle persone giuridiche è da ritenersi "un'inammissibile ipostatizzazione di un procedimento ausiliario della scienza del diritto al fine di semplificare e chiarire l'esposizione di una complessa situazione giuridica": KELSEN Teoria generale del diritto, cit., 202. 27) Si noti che uno schema siffatto non è sconosciuto, pur sovente definito in termini diversi, alla dottrina privatistica: vedi in particolare SPADA La tipicità delle società, Padova 1974, 95 ss, che ricorre allo schema produzione/imputazione. Nella dottrina amministrativistica cfr. GIANNINI M.S. Lezioni di diritto amministrativo, Milano

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Si tratta invero di un processo di imputazione complesso poiché le norme vengono riferite in primo luogo all'ente, ma sono comunque destinate a risolversi in capo a persone fisiche (28). L'imputazione al gruppo costituisce dunque una imputazione indiretta (se guardata dal punto di vista degli individui).

3 La nozione di stabile organizzazione ai fini delle imposte dirette

richiama la presenza della organizzazione di attività. Sulla base delle premesse sopra illustrate dovrebbe risultare evidente la latitudine semantica della nozione di stabile organizzazione stabilita nella disciplina delle imposte dirette (e dell’IRES in particolare). Ed invero, va considerato a tal riguardo che: i) la stabile organizzazione non costituisce un soggetto giuridico a sé stante, ma una semplice articolazione organizzativa di un soggetto non residente; in questo senso si può dire che la stabile organizzazione costituisce un modo di essere del soggetto non residente nel territorio straniero; ii) l’individuazione della stabile organizzazione costituisce un criterio logico per la localizzazione di un soggetto collettivo non residente in una giurisdizione tributaria nazionale diversa rispetto al paese di residenza; iii) il soggetto collettivo può essere descritto e/o riconosciuto nell’ordinamento giuridico in base a meccanismi di imputazione di fattispecie e/o effetti normativi sviluppati intorno al fattore di unificazione costituito da una “organizzazione di attività”; iv) quasi sillogisticamente, pertanto, l’individuazione di una stabile organizzazione va effettuata assumendo come riferimento il riconoscimento di una “organizzazione di attività” del soggetto collettivo non residente in un determinato territorio nazionale (diverso rispetto al paese di residenza). Così la nozione di stabile organizzazione può essere individuata tipicamente nella formula della “organizzazione di attività”, quale criterio tipico di riconoscimento del soggetto collettivo non residente in una giurisdizione tributaria differente rispetto al paese di residenza (29).

1950, 121 s; VALENTINI La collegialità nella teoria dell'organizzazione, Milano 1968, 32 ss; BERTI La pubblica amministrazione come organizzazione, Padova 1968, 217 ss. 28) La dottrina “normativo-nominalistica” in particolare ha spiegato questo processo con il concetto di imputazione in due tempi: le norme che si indirizzano all'ente sono norme incomplete che stabiliscono solo l'elemento materiale del comportamento imposto o vietato; è in base all'ordinamento interno dell'ente medesimo che viene poi determinato l'elemento personale. Vedi KELSEN Teoria generale della legge e dello Stato, Milano 1954, 101 e 348; D'ALESSANDRO Persone giuridiche e analisi del linguaggio, Padova 1989, 11 s. 29 ) In tal senso cfr. FANTOZZI La stabile organizzazione, cit., 102 s.

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La stabile organizzazione non è dunque individuabile in presenza di un assetto organizzativo di beni e/o di rapporti giuridici istituito da parte di un soggetto collettivo non residente in un altro Stato (diverso rispetto allo Stato di residenza). In tal caso, infatti, si assiste soltanto ad una ordinazione di elementi patrimoniali o di rapporti negoziali, ma non si realizza alcuna funzione propria di un soggetto giuridico (30). Soltanto attraverso l’istituzione di una “organizzazione di attività” il soggetto collettivo non residente pone in essere la funzione giuridica tipica di un soggetto riconoscibile dall’ordinamento, e cioè il compimento di una attività in modo definito e programmato. Attraverso “l’organizzazione di attività” si realizza l’autonomia decisionale che consente l’identificazione del soggetto collettivo nel contesto ordinamentale (e dunque il suo riconoscimento giuridico), imponendo così un pari trattamento tributario (e dunque la piena imposizione sui redditi prodotti nel territorio ovvero l’imponibilità ai fini Iva delle operazioni ivi effettuate) rispetto agli altri soggetti collettivi residenti (31). In altre parole, l’individuazione di una “organizzazione di attività” sul territorio vale a permettere il riconoscimento del soggetto collettivo non residente secondo criteri logici corrispondenti a quelli utilizzati in genere per la soggettività giuridica di società ed enti collettivi residenti (32). In tale prospettiva il ricorso alla formula “stabile organizzazione” sembra esprimere essenzialmente una endiadi rafforzativa: l’organizzazione di attività, come accennato in precedenza, va riconosciuta laddove l’assetto organizzativo mostra alcuni elementi che sono pressoché necessariamente connessi ad una stabilità del modello organizzativo; così la sussistenza di un complesso organizzato di beni e/o persone e/o rapporti giuridici in funzione del perseguimento di un fine comune, secondo un programma imprenditoriale ed un insieme di regole per la attribuzione di funzioni agli individui, acquista un senso solo se è riconducibile ad un assetto organizzativo durevole nel 30 ) Secondo quanto indicato in precedenza (al par. 2) la pura titolarità di beni ovvero l’esistenza di rapporti negoziali sono elementi che non denotano l’idoneità a fungere da “centro di imputazione” di fattispecie e/o effetti normativi e, in questo senso, non esprimono la funzione specifica del soggetto giuridico (che si è detto consistere nel compimento di una attività). 31 ) La parificazione della stabile organizzazione rispetto ai soggetti collettivi residenti ai fini dell’imposizione del reddito costituisce un elemento ricorrente nella dottrina tradizionale, fondandosi su evidenti elementi di “appartenenza alla collettività” e ragioni solidaristiche: cfr. UDINA Il diritto internazionale tributario, Padova 1949; CARBONE, La nozione di stabile organizzazione e la sua operatività nell’ordinamento italiano, cit., 732; CARPENTIERI – LUPI – STEVANATO Il diritto tributario nei rapporti internazionali, cit., 215 s. 32 ) Appare significativo a tal riguardo che ricorra frequentemente nella giurisprudenza della Suprema Corte l’affermazione secondo cui la stabile organizzazione costituisce “un autonomo centro di imputazione di rapporti tributari riferibili ad un soggetto non residente”: cfr. Cass. 27.12.1987 n. 8815 e n. 8820; Cass. 22.7.2011 n. 16106.

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tempo (e per l’appunto “stabile”) (33); lo stesso requisito – sopra segnalato – della esistenza di una autonomia decisionale e di una autonomia programmatica nell'ambito del potere di indirizzo dell'attività sono prefigurabili sostanzialmente se posti in relazione ad una organizzazione di attività stabile e consolidata. La stabilità (e cioè la persistenza nel tempo) e la fissità (vale a dire il radicamento nel territorio straniero) sono da giudicare pertanto corollari necessari della nozione di “organizzazione di attività”. In base alle considerazioni qui formulate ne deriva pertanto che il sintagma “stabile organizzazione” può essere agevolmente sostituito, in forma quasi sinonimica, dalla semplice formula “organizzazione di attività”.

4 I tratti qualificanti della stabile organizzazione come “organizzazione di attività”.

Alla luce della ricostruzione operata in precedenza, ne consegue che i tratti essenziali del concetto di “stabile organizzazione” sono riconducibili alla sussistenza di una “organizzazione di attività”, da intendersi come presenza di un assetto organizzativo caratterizzato dall’idoneità a pianificare e determinare in maniera autonoma l’attività da svolgere, anche solo parzialmente, secondo un programma di impresa stabile e durevole nel tempo. A conferma di tale impostazione si può notare che nell’art. 162 TUIR la “stabile organizzazione” è intesa come nozione che designa “una sede fissa di affari per mezzo della quale l’impresa non residente esercita in tutto o in parte la sua attività nel territorio dello Stato”. Ricorrono dunque nella formula normativa i riferimenti propri della “organizzazione di attività”: ed invero la “sede fissa degli affari” non sembra costituire altro che un assetto organizzativo destinato stabilmente alla regolazione autonoma ed indipendente del programma imprenditoriale nel territorio straniero. Sulla base delle considerazioni enunciate in precedenza si può ritenere che “l’organizzazione di attività” (e pertanto la “stabile organizzazione”) sia riconoscibile in presenza di elementi che lasciano intendere l’esistenza di un autonomo assetto organizzativo dell’attività di impresa. A tal riguardo non appaiono decisivi tanto gli elementi materiali dell’organizzazione (e dunque la presenza di beni mobili o immobili riferibili

33 ) Il requisito della “stabilità” va accertato con riferimento ad una pluralità di circostanze (quali la natura dell’attività, il mercato di riferimento, i caratteri dell’organizzazione stessa), fermo rimanendo che tale requisito è da ricollegare non tanto alla pura e semplice durata della permanenza nel territorio dello Stato estero, quanto soprattutto alla complessiva organizzazione dell’impresa. In tal senso cfr. Comm. Trib. Centr. n. 765/2001. Va osservato peraltro che l’art. 162, comma 3, precisa che per talune attività (cantiere di costruzione o di montaggio o di installazione) occorre che l’attività di impresa abbia una durata superiore ai tre mesi.

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al soggetto non residente), in quanto tali elementi possono esprimere semplicemente una organizzazione di beni in funzione ordinativa di un assetto patrimoniale. Né tantomeno appare rilevante la sussistenza di rapporti negoziali, anche con carattere commerciale o industriale, con operatori economici sul territorio, poiché tali rapporti possono essere riconducibili ad una tipica logica contrattualistica di distribuzione delle funzioni tra il soggetto non residente e soggetti ausiliari residenti che agiscono a loro volta in modo autonomo e indipendente. L’organizzazione di attività va ravvisata tipicamente laddove il soggetto collettivo non residente pone in essere un complesso di atti ed attività sul territorio straniero, regolato secondo una distribuzione di funzioni, supportato eventualmente anche da beni e/o rapporti negoziali, e destinato al perseguimento di un programma imprenditoriale ed al conseguimento di un risultato economico sul territorio medesimo. In sostanza, pertanto, attraverso l’assetto organizzativo istituito sul territorio straniero il soggetto non residente svolge la propria attività, o perlomeno pone in essere un segmento rilevante e significativo di tale attività (34). In tal senso si è sostenuto che l’organizzazione deve essere strumentale ad una attività svolta abitualmente nel territorio straniero da un soggetto non residente (35). Tale organizzazione deve mostrarsi autonoma ed indipendente, in quanto capace di regolare l’attività di impresa sul territorio secondo criteri e logiche autodeterminate, riconducibili cioè al medesimo soggetto non residente (e pertanto non stabilite da altri soggetti esterni o comunque terzi) (36); è evidente che le decisioni ben possono essere prese in luoghi non collocati sul territorio (ad es. presso la sede legale, la sede direzionale ovvero la sede amministrativa collocata nel paese di residenza ovvero in altro Stato rispetto a quello in cui opera la stabile organizzazione), ma comunque esse sono riferibili essenzialmente ai vertici manageriali e direttivi del soggetto collettivo e vengono attuate nel territorio attraverso la catena operativa e la 34 ) Nel Commentario OCSE, art. 5 par. 24, è chiarito che l’attività realizzata sul territorio straniero per il tramite della stabile organizzazione deve rappresentare “una parte essenziale e significativa” dell’attività di impresa considerata unitariamente; evidentemente tale precisazione vale ad escludere che possano ricondursi alla “organizzazione di attività” gli atti preparatori o ausiliari, in quanto privi dell’elemento di significatività e rilevanza rispetto all’attività di impresa svolta sul territorio straniero. 35 ) Cfr. Cass. 27.11.1987 n. 8815 e n. 8820; Cass. 7.3.2002 n. 3367 e n. 3368; Cass. 25.5.2002 n. 7682; Cass. 25.7.2002 n. 10925. 36 ) Con particolare riguardo alla disciplina Iva il requisito dell’indipendenza della stabile organizzazione – da intendersi come autonomia funzionale, e cioè come capacità di fornire autonomamente beni e/o servizi - è un elemento ricorrente nella giurisprudenza comunitaria: vedi Corte di Giustizia UE sentenza n. C-73/06 Planzer Luxembourg (punti 58 – 62); sentenza C-318/11 e C-319/11 Daimler Widex. Vedi i argomento anche Cass. 29.5.2012 n. 20676 e n. 20678 ove espressamente la stabile organizzazione è riconosciuta in “un’organizzazione di uomini e mezzi idonea operare in loco in piena autonomia gestionale”.

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distribuzione delle funzioni proprie della “organizzazione di attività” istituita nel territorio straniero (37). In questo senso la stabile organizzazione si presenta come una struttura distinta rispetto alla casa-madre, “idonea costituire punto di riferimento attivo riguardo alla produzione del reddito di impresa” (38). La “organizzazione di attività” si può esprimere nella forma di una organizzazione essenzialmente materiale (fondata cioè su una organizzazione di beni e/o mezzi strumentali al programma imprenditoriale) ovvero nella forma di una organizzazione essenzialmente personale (in cui l’attività è svolta attraverso il ricorso ad agenti o intermediari dipendenti dalla casa madre). In ogni caso si tratta di varianti di un concetto fondamentalmente unitario; ed invero in entrambe le formule l’attività di impresa del soggetto non residente posta in essere nel territorio straniero va ricondotta alla “organizzazione di attività” indipendentemente dalla qualità e/o dalle dimensioni del modello organizzativo (39). L’individuazione della “organizzazione di attività” va così rimessa alla ricerca ed alla identificazione di un complesso funzionale di elementi che consenta di riconoscere l’esistenza di un assetto organizzativo dell’attività di impresa del soggetto collettivo non residente nel territorio straniero; non rileva pertanto il singolo elemento, materiale o negoziale, presente sul territorio e riferibile al soggetto non residente quanto piuttosto la connessione funzionale alla attività di impresa e, soprattutto, l’idoneità ad esprimere un assetto organizzativo volto alla regolazione del programma imprenditoriale (40). In ogni caso l’accertamento dei requisiti della stabile organizzazione va effettuato non tanto con riguardo ai profili formali, bensì soprattutto in relazione ai dati sostanziali espressi dall’assetto organizzativo presente nel territorio, attraverso un’indagine da condurre caso per caso (41).

37 ) Vale la pena a tal riguardo evidenziare come tradizionalmente l’amministrazione finanziaria ha puntualizzato il requisito della “autonomia funzionale” della stabile organizzazione rispetto alla casa-madre proprio per sottolineare l’attribuzione di funzioni specifiche e autonome alla organizzazione di attività realizzata nel territorio straniero. Vedi in tal senso Circ. Min. 17.3.1979 n. 12/12/345; Ris. Min. 1.2.1983 n. 9/2389. 38 ) Vedi FANTOZZI La stabile organizzazione, cit., 103. 39 ) Così FANTOZZI La stabile organizzazione, cit., 102 s. 40 ) Cfr. FANTOZZI La stabile organizzazione, cit., 103. 41 ) La prevalenza di un accertamento sostanziale dei requisiti nella individuazione della stabile organizzazione costituisce un dato consolidato nella giurisprudenza di legittimità: cfr. Cass. 25.7.2002 n. 10925; Cass. 6.4.2004 n. 6799; Cass. 7.10.2011 n. 20597, in Fisco 2011, 6689 ss.

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5 Le principali casistiche della stabile organizzazione sembrano confermare la centralità della “organizzazione di attività”.

La nozione di “stabile organizzazione” come “organizzazione di attività” sembra peraltro trovare una significativa conferma nella casistica delineata nella stessa formula normativa e poi recepita nella giurisprudenza tributaria. Innanzitutto, nell’art. 162 comma 2 TUIR, è menzionata una serie di fattispecie da ricomprendere espressamente nella nozione di stabile organizzazione: sede di direzione, succursale, ufficio, officina, laboratorio, cantiere di costruzione o di montaggio o di installazione, miniera o cava, giacimento petrolifero. Si tratta di una presunzione legale assoluta attraverso la quale si attribuisce il carattere di “stabile organizzazione” ad articolazioni organizzative del soggetto non residente dotate di una evidente capacità di regolazione e di attuazione del programma imprenditoriale sul territorio straniero. Si può così sostenere che in queste fattispecie “l’organizzazione di attività” è agevolmente presunta sulla base di elementi esterni ed oggettivi (riconducibili a forme tipiche di installazione in un territorio), statisticamente riconducibili ad un assetto organizzativo dedicato stabilmente alla programmazione e/o esecuzione dell’attività di impresa sul territorio straniero. Va ricompresa nella nozione di stabile organizzazione anche l’esercizio dell’attività da parte del soggetto non residente nel territorio straniero per il tramite di agenti o intermediari che concludano abitualmente, in nome del soggetto non residente, contratti diversi da quelli di acquisto dei beni (art. 162 comma 6). In tal caso l’esistenza di un rapporto di dipendenza sostanziale tra l’agente o intermediario e il soggetto non residente vale ad indicare la sussistenza di un assetto organizzativo, prevalentemente impostato su base personale (e non materiale), idoneo a realizzare l’attività di impresa secondo il programma imprenditoriale e le decisioni gestionali assunte dal soggetto non residente (42). Si viene dunque a realizzare una “organizzazione di attività” nel territorio straniero attraverso la quale il soggetto non residente esercita autonomamente la propria attività di impresa nel territorio straniero. Sempre nella medesima norma dell’art. 162 TUIR è formulata una esemplificazione negativa della nozione di stabile organizzazione, venendo previste alcune fattispecie che esprimono l’inidoneità della sede fissa ad esercitare un’attività di impresa sul territorio straniero. Anche in questo caso la delimitazione in negativo della nozione di stabile organizzazione vale ad indicare la rilevanza concettuale della “organizzazione di attività”. Innanzitutto è esclusa dalla nozione di stabile organizzazione l’utilizzazione di una installazione: i) ai soli fini di deposito, di esposizione, di consegna o di 42 ) Si è precisato in particolare che la dipendenza sostanziale dell’agente o intermediario verso il soggetto non residente ricorre quando la conclusione di contratti in nome del soggetto non residente (o comunque per questo vincolanti) è compiuta sotto le istruzioni dettagliate e comunque in assenza di autonomia decisionale da parte degli organi decisionali del soggetto non residente. Cfr. Cass. 9.4.2010 n. 8488.

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trasformazione da parte di altra impresa; ii) ovvero allo scopo di acquistare beni e merci ovvero di raccogliere informazioni e/o svolgere ricerche di mercato; iii) oppure ancora laddove sia dedicata allo svolgimento di attività preparatorie o ausiliarie rispetto a quelle precedentemente indicate (art. 162 comma 4). In queste fattispecie manca il collegamento con l’installazione materiale di una attività significativa e rilevante del programma imprenditoriale perseguito dal soggetto non residente; si è infatti ritenuto che i servizi resi attraverso l’installazione siano “economicamente distanti” rispetto alla attività di impresa unitariamente realizzata nel territorio straniero dal soggetto non residente (43). Non si realizza dunque una “organizzazione di attività”, poiché manca il collegamento con l’attività di impresa, ma si realizza al più una organizzazione di beni e/o di rapporti (giuridicamente inconferente rispetto al riconoscimento del soggetto nel territorio). E’ altresì stabilito che non costituisce stabile organizzazione la disponibilità di sistemi informatici funzionali alla raccolta ed elaborazione di dati finalizzati al commercio di beni e servizi (art. 162 comma 5) Ciò vale ad escludere la sussistenza di una “organizzazione di attività” in ragione della mera presenza di un server utilizzabile ai fini del commercio elettronico (44); al contrario può ravvisarsi una stabile organizzazione qualora il server, che permanga per un adeguato periodo di tempo (configurando dunque il requisito della fissità) venga utilizzato direttamente per lo svolgimento di una attività di impresa (e dunque di una attività che non sia meramente preparatoria o ausiliaria) (45). Viene poi esclusa esplicitamente la presenza di una stabile organizzazione quando il soggetto non residente esercita la propria attività nel territorio straniero per il tramite di un mediatore, di un commissionario generale ovvero di un altro intermediario indipendente che agiscano nell’ambito della propria attività ordinaria (art. 162 comma 7). A tal riguardo è stato ritenuto che il requisito di indipendenza impone non soltanto l’assenza di vincoli negoziali e/o materiali tali da limitare l’autonomia operativa e gestionale dell’intermediario (46), ma soprattutto richiede che il rischio imprenditoriale incomba tipicamente sull’intermediario medesimo. In questa fattispecie l’esclusione della stabile organizzazione si riconnette alla mancanza di un collegamento diretto tra l’attività svolta sul territorio (riconducibile per l’appunto ad un soggetto terzo ed autonomo) ed il soggetto non residente. Evidentemente ricorre una tipica manifestazione della organizzazione di

43 ) Vedi in tal senso il Commentario OCSE, art. 5 par. 23. 44 ) In argomento vedi MAISTO Le prime riflessioni dell’OCSE sulla tassazione del commercio elettronico, in Riv. Dir. Trib. 1998, IV, 52 ss; GALLI Brevi note in tema di commercio elettronico e stabile organizzazione, in Riv. Dir. Trib. 2000, IV, 128 ss. 45 ) Così Ris. Min. 28.5.2007 n. 119/E. 46 ) Così va verificata l’estensione degli obblighi contrattuali imposti all’intermediario nonché dei poteri di controllo attribuiti al soggetto non residente per accertare l’effettiva indipendenza dell’intermediario stesso. Cfr. Commentario OCSE, art. 5 par. 38.3.

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rapporti mediante la quale il programma imprenditoriale viene realizzato attraverso una distribuzione di funzioni con soggetti esterni al soggetto non residente. Infine viene disposto che il controllo di un’impresa residente da parte di un’impresa non residente non costituisce condizione sufficiente per qualificare la seconda come stabile organizzazione della prima (art. 162 comma 9). Tale norma va ricollegata al fenomeno della distribuzione di funzioni nel territorio straniero in un gruppo multinazionale attraverso il ricorso a società controllate o collegate che operano sul territorio medesimo; in questo caso, secondo la giurisprudenza italiana, la personalità giuridica (e dunque l’autonoma soggettività) delle società operanti nel territorio non costituisce un elemento impeditivo della qualifica di stabile organizzazione del soggetto non residente qualora ricorrano elementi che denotano una “organizzazione di attività” comune (c.d. stabile organizzazione “occulta”) (47). In sostanza, l’autonomia giuridica della società operante italiana appare essenzialmente formale, stante la riconducibilità del suo agire ai poteri decisionali ed all’assetto organizzativo della casa-madre (48). Assume così rilievo per il riconoscimento di una stabile organizzazione che la società operante sul territorio svolga, anche solo in parte, l’attività imprenditoriale riconducibile al soggetto non residente (con esclusione delle attività puramente preparatorie o ausiliarie) sotto il controllo di quest’ultima nell’ambito di una strategia unitaria. Evidentemente pertanto non è sufficiente il semplice elemento del controllo societario (come stabilisce per l’appunto l’art. 162 comma 9), ma occorre che si manifesti una vera e propria “organizzazione di attività” per il tramite della società operante sul territorio straniero (49).

47 ) Rilevano in proposito le note decisioni della Suprema Corte sul caso “Philip Morris”: Cass. 7.3.2002 n. 3767, n. 3768, n. 3769; Cass. 25.5.2002 n. 7682. In tali decisioni si è precisato che la società operante nel territorio italiano, pur avendo autonoma personalità giuridica, può assumere il ruolo di “plurima stabile organizzazione di società estere” e che elemento determinante a tal fine è rappresentato dal riconoscimento di una attività della società italiana che sia dipendente dalla società estera nell’ambito di un programma di gruppo unitariamente inteso. Sono state in particolare individuate alcune tipologie di attività della società estera (in specie l’attività di controllo sulla esatta esecuzione di un contratto) ovvero della società italiana (partecipazione di incaricati alla conclusione di contratti, la gestione di contratti in qualità di management service) che sono state ritenute indicative della organizzazione di attività. 48 ) Cfr. CARPENTIERI – LUPI – STEVANATO Il diritto tributario nei rapporti internazionali, cit., 230 ss. 49 ) La posizione assunta dalla giurisprudenza italiana ha sollecitato un vivace dibattito internazionale che ha portato ad alcune precisazioni inserite nel Commentario OCSE dirette a precisare l’ambito dell’organizzazione di attività e, di converso, i casi in cui il ruolo della casa madre non esubera dalla funzione di controllo (e dunque non genera una stabile organizzazione). Per alcuni cenni a questa vicenda rinvio a FANTOZZI La stabile organizzazione, cit., 108 ss.

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6 La stabile organizzazione come espressione della soggettività tributaria.

La stabile organizzazione rappresenta, come è stato più volte ribadito, un centro di imputazione di fattispecie e/o effetti normativi nell’ordinamento fiscale, atteggiandosi come un modo di essere del soggetto collettivo non residente che ne consente il riconoscimento in una giurisdizione tributaria diversa rispetto allo Stato di residenza. Dovrebbe risultare evidente come la stabile organizzazione prevista dall’ordinamento fiscale differisce rispetto alla sede secondaria prevista dall’ordinamento civilistico (ed in specie dall’art. 2506 c.c.) in quanto viene individuata in base a regole fiscali e, soprattutto, esercita una funzione tipicamente riconducibile alla logica specifica della normativa tributaria. Inoltre, la stabile organizzazione è una qualificazione tributaria di un centro di imputazione autonomo che può coesistere con la personalità giuridica (come avviene nel caso della stabile organizzazione riconosciuta in presenza di una società di capitali che opera per conto del soggetto non residente, secondo quanto indicato nel precedente paragrafo); la medesima entità diventa così titolare di due diversi rapporti fiscali riferibili l’uno alla stabile organizzazione del soggetto non residente e l’altro al soggetto residente (50). In questa prospettiva si può sostenere che la stabile organizzazione costituisca una manifestazione della c.d. “soggettività tributaria”, intesa come tecnica di imputazione normativa adottata tipicamente nella disciplina fiscale e differente rispetto a quella usualmente accolta nell’ordinamento civilistico (51). Ed invero, essendo stata “dissolta” la soggettività in figure di imputazione normativa rimesse alla discrezionalità del legislatore, può considerarsi pacifico che nell’ordinamento tributario vengano effettuate imputazioni di fattispecie rispondenti ad una logica esclusivamente fiscale e come tali autonome ed indipendenti rispetto a quelle effettuate in altri settori ordinamentali. Può a tal proposito notarsi che nella struttura delle fattispecie impositive il dato soggettivo non acquisisce una rilevanza centrale, venendo piuttosto privilegiato il dato oggettivo, il compimento del fatto ed in specie la realizzazione del presupposto di imposta. In altri termini, si può sostenere che

50 ) In tal senso chiaramente vedi Cass. 22.7.2011 n. 16106. 51) Sulla nota questione vedi ANTONINI La soggettività tributaria, Napoli 1965; Id. Personalità giuridica ed IRPEG, in Riv. Dir .Fin. 1978, I, 381 ss; GIARDINA La capacità giuridica tributaria degli enti collettivi non personificati, in Riv. Dir. Fin. 1962, I, 269 ss e 399 ss; MICHELI Soggettività tributaria e categorie civilistiche, in Riv. Dir. Fin 1977, I, 419; AMATUCCI Teoria dell'oggetto e del soggetto nel diritto tributario, in Dir. Prat. Trib. 1983, I, 1902 ss.; BORIA Il principio di trasparenza nella imposizione delle società di persone, Milano 1996.

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il legislatore fiscale abbia come obiettivo primario l'individuazione del presupposto inteso come accadimento storico, cioè come fatto, e solo in via secondaria l'identificazione del centro di imputazione delle fattispecie giuridiche, vale a dire del soggetto cui collegare il presupposto (52). Ne consegue che la soggettività rilevante per il diritto tributario ha una funzione prettamente strumentale rispetto al prelievo fiscale. E in questo si nota indubbiamente una notevole diversità con il diritto civile, non tanto di qualificazione del soggetto, quanto piuttosto di funzionalità generale della soggettività rispetto al piano dei valori e degli interessi tutelati (53). Proprio il carattere strumentale della soggettività sembra accentuare la facoltà del legislatore tributario di procedere con una certa fluidità (se non addirittura con una certa disinvoltura) nella individuazione dei centri soggettivi (54) in base a valutazioni di opportunità e di tecnica fiscale che ben possono cambiare in relazione alle finalità specifiche dei singoli tributi. Appare così consolidato il convincimento che la soggettività di diritto tributario non rappresenti “un mito”, costituendo piuttosto una "tecnica legislativa" idonea a produrre effetti variabili da tributo a tributo (55). Può pertanto sostenersi che la scelta di imputare le fattispecie tributarie ai centri di riferibilità è indipendente dalla disciplina civilistica (56): e dunque è

52) Vedi LAVAGNA Teoria dei soggetti e diritto tributario, in Riv. Dir. Fin. 1961, I, 8; PARLATO Il sostituto d'imposta, Padova 1969, 35; MICHELI Soggettività tributaria e categorie civilistiche, in Riv. Dir. Fin. 1977, I, 48. Contra D'AMATI La progettazione giuridica del reddito, cit., 196, nota 129, il quale sostiene che il presupposto cui si riferisce la norma tributaria, in realtà non è altro che la situazione giuridica e quindi include anche il soggetto. Naturalmente è da osservare che in un'imposta personale la definizione degli elementi oggettivi non può non incidere necessariamente anche su quelli soggettivi (il reddito imponibile è il reddito di un soggetto); vedi sul punto FEDELE Possesso di redditi, capacità contributiva ed incostituzionalità del "cumulo", in Giur. Cost. 1976, 2169 s. 53) Nel diritto civile i soggetti rappresentano il centro della norma e vengono considerati nella loro interezza, come titolari di diritti, obblighi, poteri e soggezioni. Cfr. LAVAGNA Teoria dei soggetti e diritto tributario, cit.. 54) Cfr. VANONI Note introduttive per lo studio della capacità degli enti morali, cit., 430, il quale, per mostrare alcune conseguenze concrete di una imposizione sulle società piuttosto che di una sui soci, porta gli esempi del minimo vitale e della progressività (per i quali riferire l'imposizione alla società piuttosto che ai soci consente all'Erario di ottenere un maggior gettito). 55) "La soggettività tributaria non è un mito, ma una tecnica che persegue differenti finalità a seconda della struttura del tributo": MICHELI Soggettività tributaria, cit., 437. In tal senso vedi NUZZO Questioni in tema di tassazione degli enti non economici, in Rass. Trib. 1985, I, 138; LUPI Lezioni di diritto tributario. Parte generale, Milano 1992, 302; SACCHETTO L'imposta sul reddito delle persone giuridiche, in AA. VV. Trattato di diritto tributario, a cura di Amatucci, IV, Padova 1994, 82. 56) ANTONINI La soggettività tributaria, cit., 183 s; MICHELI Soggettività tributaria e categorie civilistiche, cit., 419 ss; FALSITTA Accertamento di utili extrabilancio, cit., 188..

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da ritenere ben possibile individuare soggetti di diritto (o comunque centri di imputazione normativa) ai fini fiscali che non assumono rilevanza specifica ai fini del diritto civile (57). La stabile organizzazione costituisce pertanto un centro di imputazione normativa individuato secondo esigenze ed interessi riconducibili tipicamente all’ordinamento fiscale, come detto in funzione del riconoscimento del soggetto non residente in una giurisdizione diversa rispetto a quella dello Stato di residenza; pertanto tale centro di imputazione presenta un propria specificità tributaria e non può essere confuso con altre nozioni di diritto civile; ne deriva, a contrario, che “l’organizzazione di attività” riconosciuta per l’individuazione della stabile organizzazione ai fini fiscali non costituisce necessariamente anche un centro di imputazione anche per altri settori dell’ordinamento (58).

Sulla inidoneità della sede tributaria ad affrontare o risolvere questioni di teoria generale si veda NUZZO Questioni in tema di tassazione degli enti non economici, cit., 107 ss. 57 ) Un recente esempio di soggettività tipicamente tributaria riguarda i distretti produttivi (fattispecie non regolata ai fini civilistici). Vedi in argomento BEGHIN Prime considerazioni intorno alla disciplina fiscale dei distretti produttivi, in Riv. Dir. Trib. 2006, I, 157 ss; ROSSI P. Prime considerazioni sulla disciplina fiscale amministrativa e finanziaria riservata ai distretti produttivi, in Riv. Dir. Trib. 2006, I, 319 ss. 58) Appare sufficientemente consolidato nella dottrina giuridica che nell'ambito di un medesimo ordinamento un ente possa costituire centro di riferibilità di alcune fattispecie e non di altre, non costituendo la soggettività "un blocco unico, necessariamente presente nella sua interezza o, invece, totalmente assente". Cfr. PELLIZZI Soggettività giuridica, Enc. Giurid. treccani, XXIX, Roma 1993, 4.

Prof. Sergio Maria Carbone Professore Università di Genova

Recenti tendenze evolutive del diritto internazionale, tutela delle situazioni soggettive

e relativi effetti sulla nozione di stabile organizzazione

SOMMARIO: 1 Recenti sviluppi della Comunità internazionale e inadeguatezza della concezione territoriale del diritto - 2 L’efficacia diretta di fonti di origine internazionale: la disciplina UE e la CEDU - 3 Le forme di tutela degli “effetti diretti” in ambito UE e della CEDU - 4 Continua: la tutela degli effetti diretti della CEDU in ambito UE - 5 L’interpretazione “internazionalmente orientata” delle norme nazionali: il ruolo dei precedenti giurisprudenziali della Corte EDU - 6 Le recenti tendenze interpretative delle norme internazionali - 7 In particolare, l’evoluzione della portata delle nozioni adottate nel diritto internazionale convenzionale - 8 Continua: l’importanza della interrelazione tra i vari istituti impiegati da norme di diritto internazionale uniforme ai fini della loro applicazione nel settore fiscale con riguardo alla stabile organizzazione - 9 In particolare, le caratteristiche della nozione di “centro operativo” rilevante nella normativa internazionale di diritto uniforme - 10 Gli sviluppi della “pratica internazionale” relativa ai confini dell’ambito dell’attività di ricerca e sviluppo: sua rilevanza a fini fiscali.

1 Recenti sviluppi della Comunità internazionale e inadeguatezza della concezione territoriale del diritto.

La più recente evoluzione della Comunità internazionale ha messo in discussione le stesse fondamenta e gli equilibri macroeconomici alla base dei rapporti economici internazionali e della loro localizzazione al fine dell’esercizio della sovranità statale nei confronti dei loro effetti e dei soggetti cui tali effetti sono riconducibili. Si assiste, infatti, ad una asimmetria sempre più evidente fra attività non più riconducibili a, e fuggite da, specifici confini nazionali e regole internazionali ancora fondate sull’adeguatezza della sovranità statale a controllare e a governare gli effetti di ogni fenomeno socio – economico che si manifesta nel suo ambito. Quanto ora indicato sembra destinato a mettere in crisi anche tradizionali principi di diritto internazionale tributario fondati sulla territorialità dell’esercizio del potere tributario dello Stato nel rispetto del limite primordiale che, secondo le celebri espressioni impiegate nel caso Lotus, “il diritto impone allo Stato di escludere, salvo l’esistenza di una norma permissiva contraria, qualsiasi esercizio del suo potere sul territorio di un altro Stato”. Ed in questa logica l’accennata evoluzione della Comunità internazionale rende più difficile inquadrare i precisi limiti entro cui opera l’obbligo di non interferire nel rapporto di sudditanza tra lo Stato e la

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comunità che ad esso appartiene con esclusione di atti impositivi nei loro confronti idonei a produrre tale effetto. È appunto in questo difficile contesto che si tratta di stabilire quando sussiste un effettivo “collegamento sociale” con lo Stato che esercita il potere impositivo nei confronti dell’attività o di beni di “stranieri” garantendo al tempo stesso che tale effettivo collegamento sia dotato di una sufficiente intensità volta a volta rilevante al fine di evitarne la sottoposizione ad una duplicazione impositiva o di condividerla con il suo Stato di appartenenza. Inoltre, il diritto internazionale evolve in una direzione intesa a ricondurlo ad un frammento di un diritto interindividuale nell’ambito del quale è garantita la protezione dei diritti fondamentali delle imprese e degli individui “governati” nei confronti degli Stati che li “governano”. Ne sono inequivoca testimonianza la progressiva globalizzazione dell’attività economica e l’affermazione dei diritti dell’uomo con corrispondenti forme di tutela giurisdizionale anche in ambito internazionale o sovranazionale. Si afferma in tal modo anche una prospettiva individualistica e pro-impresa della società internazionale e della organizzazione sovranazionale. Si tratta, cioè, del progressivo consolidarsi di sistemi normativi e giurisdizionali rivolti a garantire, da un lato, la titolarità a favore degli individui e delle imprese di situazioni giuridiche soggettive idonee a produrre effetti diretti nei loro confronti e, dall’altro, la presenza di adeguati strumenti processuali capaci di garantirne l’applicazione anche nei confronti degli Stati di appartenenza degli stessi individui. È appunto con riguardo a questa evoluzione che devono, pertanto, essere inquadrati e riconsiderati gli istituti relativi all’esercizio dei poteri impositivi da parte degli Stati e verificarne la legittimità ed i limiti secondo parametri e principi sempre più sottratti alle esclusive determinazioni normative ed alle sole garanzie giurisdizionali degli Stati.

2 L’efficacia diretta di fonti di origine internazion ale: la disciplina UE e la CEDU.

A quest’ultimo riguardo, l’evoluzione relativa all’ambito, agli effetti ed alla gerarchia delle diverse normative internazionali, europee e nazionali nel nostro ordinamento, è stata ben chiarita da due recenti decisioni della Corte costituzionale che consolidano i risultati sino ad oggi maturati. Da un lato, si è osservato che il rapporto dei diritti riconosciuti agli individui dalla CEDU e dagli ordinamenti giuridici degli Stati “è un rapporto variamente, ma saldamente disciplinato da ciascun ordinamento nazionale” (sentenza n. 80 del 2011) che, per quanto riguarda l’ordinamento italiano, trova la sua sede nella tutela degli obblighi internazionali prevista e regolata dall’art. 117, 1 comma Costituzione. Tanto che in una sentenza di poco precedente a quella innanzi citata non si è esitato a precisare che l’art. 117 Cost. nella formulazione novellata “ha colmato la lacuna della mancata copertura costituzionale per le norme internazionali convenzionali ivi

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compresa la Convenzione di Roma dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), escluse dalla previsione dell’art. 10, primo comma Cost.” (sentenza n. 227 del 2010). Dall’altro lato, per quanto riguarda il diritto dell’Unione europea, nella sentenza da ultimo citata si è ancora confermato che il riconoscimento dei diritti a favore delle imprese e degli individui previsti da questo ordinamento trova nell’ordinamento italiano “sicuro fondamento nell’art. 11 Cost.” oltreché nel “limite all’esercizio della funzione legislativa imposto dall’art. 117, primo comma, Cost.”. Si tratta, quindi, di un doppio binario di tutela costituzionale che viene garantito al diritto dell’Unione europea essendo in grado di giovarsi non solo dell’art. 117, 1 comma Cost., ma anche della più incisiva garanzia fornita dall’art. 11 Cost. Si intende in tal modo realizzare anche “l’incorporazione dell’ordinamento italiano in un sistema più vasto” (sentenza n. 348 del 2007), comprensivo di trasferimenti di sovranità e di meccanismi di garanzia in esso previsti a tutela dell’effettività dei diritti riconosciuti a favore degli individui e delle imprese al fine di una più compiuta ed adeguata loro realizzazione nella consapevolezza che solo forme integrate di organizzazione internazionale e comuni garanzie di attuazione consentono di conseguirli pienamente. Si è, comunque, escluso che meccanismi di garanzia specifici dell’ordinamento dell’Unione europea possano essere estesi a favore delle norme e dei principi della CEDU allorché operino al di fuori delle attribuzioni proprie dell’UE e in difetto di una loro specifica rilevanza in tale ambito. Si riconosce, peraltro, che anche norme e principi della CEDU abbiano un effetto diretto a favore di posizioni giuridiche individuali dei soggetti che ne risultano beneficiari, precisando che a tali loro effetti debba essere fornita adeguata tutela rispetto a corrispondenti norme interne con essi conflittuali, in virtù di meccanismi e di criteri propri dell’ordinamento giuridico italiano. Pertanto, tali norme devono essere trattate alla stregua delle situazioni in cui ci si trovi in presenza di disposizioni legislative nazionali viziate da incostituzionalità.

3 Le forme di tutela degli “effetti diretti” in ambit o UE e della CEDU.

Si delinea, quindi, un sistema nel quale, allorché ci si trovi in presenza di norme di provenienza UE o CEDU a formulazione compiuta ed immediatamente utilizzabile a favore dei relativi soggetti che ne risultano destinatari, esse sono in grado di produrre con immediatezza “effetti diretti” nell’ordinamento italiano consentendo al giudice interno di applicarle a loro beneficio. Esse, pertanto, devono essere direttamente utilizzate dalle varie giurisdizioni nazionali a favore di chi se ne può avvantaggiare, a prescindere dalla loro appartenenza al diritto UE o alla CEDU. Peraltro, in presenza di una normativa interna che si ponga in contrasto con esse, si avrà un regime garantistico differente al fine di realizzare compiutamente tali effetti ed

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escludere qualsiasi interferenza al riguardo da parte di eventuali normative nazionali con essi confliggenti.

Infatti, qualora il contrasto della disciplina interna riguardi norme dell’UE dotate della ora indicata efficacia diretta, esse ne esigono la immediata disapplicazione secondo parametri, principi e modalità riconducibili all’ordinamento dell’UE nella sua qualità di ordinamento di origine di tali norme e di loro appartenenza che, con tutte le sue caratteristiche e tutti i meccanismi di garanzia in esso previsti, trovano diretta legittimazione ad essere attuati come tali anche nell’ordinamento italiano in virtù di quanto disposto dall’art. 11 Cost.: e cioè in virtù dei trasferimenti di sovranità da esso consentiti. Qualora, invece, il contrasto riguardi le disposizioni della CEDU operanti all’esterno dell’ambito di applicazione dell’UE, la garanzia della loro diretta applicazione si deve individuare, all’interno di ciascun ordinamento nazionale, in quella maggiormente protettiva dei loro effetti diretti. In tale ambito, pertanto, esse devono essere, volta a volta, inquadrate e disciplinate senza che al riguardo rilevino esigenze di uniformità di trattamento con altre modalità garantiste previste in altri ordinamenti. Per quanto riguarda in particolare l’ordinamento italiano, così, tale garanzia si riscontra nel controllo di costituzionalità rispetto al quale le disposizioni ed i principi della CEDU assumono – come è noto – rilevanza quale parametro normativo interposto rispetto ad altre norme nazionali con essi contrastanti. Peraltro, la progressiva espansione delle funzioni assegnate alla Corte Europea dei diritti dell’uomo ha, sotto un differente profilo, ulteriormente ampliato la tutela degli effetti diretti ora indicati, con parziale erosione dell’effettivo ed esclusivo ruolo riservato al riguardo alla Corte costituzionale. Ne costituisce un esempio la circostanza per cui il previo esaurimento dei ricorsi interni, al fine di far valere la lesione dei diritti fondamentali della persona innanzi alla Corte EDU, sta assumendo una nozione talmente ampia da ritenerlo soddisfatto, e non più preclusivo dell’accesso dei privati di fronte a tale Corte, come di recente è stato precisato, anche in presenza del solo riconoscimento da parte del governo che, nell’ambito del suo ordinamento di appartenenza, la misura di cui si richiede l’applicazione in attuazione di un diritto garantito dalla CEDU “est interdite de manière absolue par la loi” (Corte EDU 28 agosto 2012 nel caso 54270/10, spec. parr. 38 e 73). Di tale erosione, comunque, non vi è dubbio soprattutto allorché i principi disciplinati dalla CEDU sono ricompresi a vario titolo, e sono destinati ad operare, nell’ambito delle competenze assegnate al diritto UE. Tanto più sulla scorta della tendenza – ben riprodotta nelle recenti conclusioni dell’avvocato generale Bot (del 2 ottobre 2012, causa C-399/11, relativa al procedimento penale a carico di Stefano Melloni) – in virtù della quale “non è possibile ragionare soltanto in termini di livello più o meno elevato di protezione dei diritti fondamentali senza tener conto delle esigenze legate all’attività dell’Unione e della specificità del diritto dell’Unione” (par. 108). Con il conseguente effetto che la specificità del diritto dell’Unione non consente di

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opporre, nell’ambito della sua applicazione, livelli più elevati di protezione dei diritti fondamentali da parte degli ordinamenti nazionali allorché di essi sia stata prevista una precisa definizione del grado di tutela loro accordato con riferimento all’attuazione di un’azione dell’UE (Corte giust. UE, sent. 26 febbraio 2012, casa C-399/11). Di tal ché, nella situazione ora indicata, allorché la disciplina CEDU relativa a diritti fondamentali risulta totalmente assorbita nell’ambito del diritto UE, le garanzie relative alla sua applicazione rispetto ad eventuali norme nazionali confliggenti viene sottratta alla competenza della Corte costituzionale per essere regolata secondo i meccanismi propri del diritto UE, con relativa disapplicazione della normativa interna direttamente affidata ai giudici “comuni”.

4 Continua: la tutela degli effetti diretti della CEDU in ambito UE.

Sulla scorta di queste considerazioni, ad esempio, al “principio di non discriminazione”, come precisato dalla Corte Europea per la tutela dei diritti dell’uomo, dovranno essere riconosciuti in ambito UE effetti “diretti” che consentono di ottenere la conseguente tutela dei relativi diritti dinnanzi agli organi giurisdizionali degli Stati membri dell’UE. In particolare, si è precisato che, in virtù del primato della immediatezza degli effetti del principio di non discriminazione rispetto al diritto degli Stati membri e dell’adeguatezza del suo contenuto anche sulla base della giurisprudenza ad esso relativa in ambito CEDU, i giudici nazionali devono procedere alla disapplicazione della normativa nazionale che contrasti con esso allorché si tratti di materie attribuite o riconducibili all’UE. Si conferma, quindi, la possibilità di invocare gli “effetti diretti” propri di, e caratterizzanti un, principio previsto dalla Carta UE dei diritti fondamentali integrata dalla CEDU nell’ambito del diritto dell’Unione europea senza che la sua giustiziabilità debba dipendere dall’adozione di un’ulteriore normativa in tale ordinamento e tanto meno da una sua più precisa disciplina di attuazione delle eventuali direttive da parte degli ordinamenti nazionali. Ma non soltanto. Tali principi risultano anche direttamente operativi ed azionabili, essendo riconosciuta la loro idoneità a trovare applicazione ed a produrre effetti diretti nell’ambito di rapporti interindividuali tutelati direttamente dai giudici ordinari con eventuale disapplicazione delle norme interne con essi confliggenti. In ogni caso, quanto ora indicato consente, anche al di fuori delle competenze comunitarie, un ampio margine di potenzialità applicative da parte dei giudici nazionali di tutti i principi della CEDU dotati delle caratteristiche innanzi accennate, e pertanto produttivi di “effetti diretti”, pur in mancanza di più specifiche disposizioni rivolte a conferire ad essi una “espressione maggiormente concreta”. Infatti, la compiuta azionabilità dei diritti che da tali principi derivano non dipende dalla previa e più adeguata determinazione dei loro contenuti. La loro eventuale più precisa identificazione, pur potendo rafforzarne l’invocabilità e l’operatività, non deve, pertanto, rappresentare né

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un vincolo né un limite alla loro azionabilità innanzi alle giurisdizioni nazionali, azionabilità che dovrà essere valutata in funzione dei relativi contenuti.

5 L’interpretazione “internazionalmente orientata” de lle norme nazionali: il ruolo dei precedenti giurisprudenziali della Corte EDU.

Nella ricostruzione dei contenuti normativi di tali principi, peraltro, l’interprete si deve giovare dei risultati cui è giunta la giurisprudenza elaborata direttamente dalla Corte EDU. È pertanto a tali risultati che, volta a volta, ci si dovrà rivolgere per valutare se i diritti primari previsti dalla CEDU invocati innanzi ai giudici nazionali possono considerarsi dotati di un contenuto adeguato da consentire, senza ulteriori specificazioni normative, la produzione di effetti giustiziabili. Naturalmente, nel valutare tale apporto della Corte EDU, si dovrà tenere conto dei relativi effetti che la sua giurisprudenza produce all’interno dei vari ordinamenti nazionali in funzione delle loro specifiche caratteristiche. Peraltro, in senso ostativo a quanto ora indicato, non rileva quanto dispone l’art. 46 CEDU. In realtà, è ben vero che tale norma sembra limitare gli effetti delle sentenze della Corte EDU prevedendo che esse vincolano soltanto gli Stati che sono parti delle relative controversie “a conformarsi alle sentenze definitive della Corte”. Ma è altrettanto vero che, in ogni caso, a tali sentenze è stata riconosciuta una efficacia persuasiva di cui gli organi di tutti gli Stati contraenti della CEDU non possono fare a meno di tenere conto anche se non coinvolti nel procedimento in occasione del quale sono state pronunciate. Si è rilevato, infatti, che gli esiti della giurisprudenza della Corte EDU indicano agli organi degli Stati membri che una diversa soluzione eventualmente adottata da parte dei loro giudici conduce all’accertamento di una violazione della CEDU. In altri termini, sebbene le sentenze della Corte EDU non siano, di per sé, dotate di efficacia erga omnes, si può affermare che esse rappresentano un vincolo nei confronti dei giudici nazionali nella applicazione dei principi della Convenzione di cui, di fatto con la loro autorità, impongono l’operatività “nell’efficacia concretizzata dalla Corte”. Tanto che la Corte costituzionale (nella sentenza n. 311 del 2009) ha addirittura affermato che “al giudice nazionale, in quanto giudice comune della Convenzione, spetta il compito di applicare le relative norme nell’interpretazione offertane dalla Corte di Strasburgo alla quale questa competenza è stata espressamente attribuita dagli Stati contraenti”. Pertanto, in caso di contrasto tra norme interne e norme della CEDU, si dovrà procedere ad una interpretazione delle disposizioni nazionali “conforme a quella convenzionale fino a dove ciò sia consentito dal testo delle disposizioni a confronto”, in modo da rispettare la sentenza della giurisprudenza europea consolidatasi sulla norma conferente. In tal modo, nell’ordinamento italiano, si riconosce alla giurisprudenza della Corte EDU una funzione determinante nella configurazione e negli effetti

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relativi ai diritti tutelati dalla CEDU con una portata più rilevante di quanto ad essa riconosciuto in altri ordinamenti. Infatti, ad esempio, nell’ordinamento inglese ci si limita ad indicare (sect. 2 of Human Rights Act 1998) l’esigenza di “take into account relevant ECtHR jurisprudence when determining a Convention right issue”. Anzi, al riguardo, la House of Lords ha ritenuto di precisare e limitare tale esigenza nel senso che le sentenze della Corte EDU non sono “directly binding as a matter of our domestic law on the courts” (R. v. Lyons, 2003, 1AC 976). Quindi, per un verso, solo se esiste una “clear and constant line of decisions whose effect is not inconsistent with some fundamental or procedural aspect of our law” alcuni ordinamenti “consider that it would be wrong ….not to follow that line” (R. v. Special Adjudicator, 2004, 2 AC, 323). Per altro verso, risulta anche che in tali ordinamenti i precedenti della Corte EDU non sono vincolanti sia nei casi in cui “decisions of the European Court do not speak with one voice” (o sono lacunose o ambigue), sia allorché le decisioni non risultano “entirely convincing”. Ed al riguardo, si riconosce ai giudici nazionali un ampio margine di discrezionalità osservando che è “for the national authorities to decide for themselves” ed è possibile che “different Member States may well give different answers” (In re P, 2008, 3 WLR, 76). In ogni caso, il ruolo quanto meno “persuasivo” e fortemente “orientativo” della giurisprudenza della Corte EDU nella configurazione erga omnes delle situazioni giuridiche protette dalla CEDU che devono trovare concreta attuazione e riconoscimento all’interno degli ordinamenti nazionali da parte dei giudici ordinari, anche al di là dei limiti che caratterizzano il caso di specie in concreto deciso, non è stato mai messo in discussione, se pur con effetti più o meno accentuati, nonostante le apparenti limitazioni innanzi indicate di cui all’art. 46 CEDU.

6 Le recenti tendenze interpretative delle norme internazionali.

Importanti novità sono anche maturate, in ambito internazionale, a proposito di criteri interpretativi utilizzati in occasione dell’applicazione delle norme previste in convenzioni di diritto uniforme, come tali direttamente operanti anche nei confronti della normativa internazionale contro la doppia imposizione e più in generale con riferimento alle nozioni impiegate in convenzioni relative alla materia fiscale. Anzitutto, grazie ai criteri interpretativi al riguardo impiegati, tali normative devono, in ogni caso, essere caratterizzate da un ambito di applicazione incomprimibile, e pertanto necessario, da determinarsi autonomamente sulla base della stessa normativa di origine internazionale. Tanto che, al riguardo, non si è esitato a precisare che questa tipologia di normativa, proprio in virtù di tali caratteristiche, “prevale” sulle norme interne e che tale “prevalenza” può essere giustificata in funzione sia della particolare specialità delle norme in tal modo adottate (quale elemento inerente proprio alla loro appartenenza a convenzioni di diritto uniforme) sia

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delle caratteristiche di imperatività dei relativi contenuti normativi e delle specifiche disposizioni dotate di tali effetti.Si può, pertanto, osservare che, in virtù di una qualunque delle ragioni giustificative innanzi indicate, alle norme contro la doppia imposizione previste in convenzioni internazionali viene riconosciuta, sia in ordinamenti nei quali essi godono della “copertura costituzionale” sia in ordinamenti che di tale copertura sono privi, una sostanzialmente identica “prevalenza” sulle norme di diritto interno. A queste ultime, pertanto, residua soltanto il compito di operare il completamento della loro disciplina allorché essa risulti sfornita dei caratteri della completezza e della esaustività. Inoltre, la pratica riconosce sempre più significativi effetti a strumenti di soft law come, ad esempio, le convenzioni-modello tra le quali si segnalano in particolare i Modelli OCSE di convenzioni per evitare la doppia imposizione sul reddito e sul patrimonio, cui si aggiungono i relativi Commentari progressivamente aggiornati dal Comitato per gli affari fiscali della stessa OCSE. La loro natura di soft law, come è noto, è stata normalmente riconosciuta e ribadita anche nell’ordinamento italiano dalla Cassazione (sent. 15 febbraio 2008, n. 3889). Quindi, tali strumenti, pur di per sé privi di un vero e proprio carattere normativo con effetti vincolanti, assumono un ruolo sempre più significativo nell’interpretazione ed applicazione delle norme convenzionali di diritto fiscale internazionale. Ma non soltanto. Si afferma, infatti, con sempre maggiore convinzione anche un ulteriore criterio interpretativo, in virtù del quale anche le norme fiscali di origine internazionale si debbono giovare di principi e criteri interpretativi più in generale operanti a proposito delle norme di diritto uniforme relative al commercio internazionale. Esse, in altri termini, devono essere interpretate ed applicate anche in tale prospettiva privilegiando scelte dotate di caratteri tali da essere condivise nei vari ordinamenti secondo modalità e criteri idonei a garantire l’effettiva uniformità di trattamento dei rapporti del commercio internazionale sulla base di comuni principi. Risulta, quindi, la possibilità di interpretare ed integrare i contenuti delle varie normative fiscali di origine internazionale non solo in virtù dei principi da esse, volta a volta, specificamente e direttamente ricavabili, ma anche sulla base dei più generali principi del commercio internazionale, in quanto anch’essi devono essere considerati, se pur indirettamente, ricompresi nelle varie normative relative al settore fiscale e tra gli strumenti essenziali per garantire uniformità di tale disciplina in action nell’ambito dei vari ordinamenti statali in cui devono essere applicate. Ed è proprio nella ricognizione e nella precisa determinazione di tali principi che assumono un particolare rilievo gli strumenti di soft law ed i precedenti giurisprudenziali, tanto più rilevanti ed utilizzabili ai fini interpretativi/integrativi nella misura in cui la loro autorevolezza e condivisione emerga da una vera e propria “pratica applicativa”, soprattutto se essa consente di precisarne ulteriormente i contenuti e/o di adeguarli alle particolari esigenze delle rilevanti disposizioni relative alla specifica disciplina uniforme, volta a volta rilevante. Tanto che a tali precedenti ci si dovrà

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necessariamente uniformare anche se possono risultare non condivisibili. Infatti, da più parti non si è esitato a mettere in evidenza che, nell’operazione di integrazione dei contenuti del diritto uniforme secondo comuni principi, deve essere privilegiata l'esigenza di seguire gli esiti di precedenti stranieri allorché sono espressione di una vera e propria pratica applicativa di origine giurisprudenziale, a prescindere dalla condivisione delle tecniche interpretative in virtù delle quali i relativi risultati si sono affermati.

7 In particolare, l’evoluzione della portata delle nozioni adottate nel diritto internazionale convenzionale.

Infine, si deve segnalare il progressivo ed importante ruolo relativo all’utilità dei reciproci riferimenti, ed alla continua interazione, di cui occorre tener conto in funzione dell’incessante evoluzione delle nozioni impiegate nelle varie normative di origine internazionale e della progressiva svalutazione dell’importanza dei c.d. lavori preparatori. In questa prospettiva, sono particolarmente significative le indicazioni che, da ultimo, emergono dalla decisione della Corte Internazionale di Giustizia (del 19 luglio 2009, nella controversia Costarica c. Nicaragua) in cui si precisano con molta chiarezza le modalità attraverso le quali deve essere realizzata l’interpretazione delle norme di origine internazionale che incidono sui rapporti del commercio internazionale. Si evidenzia, in particolare, che le espressioni ivi impiegate devono essere interpretate tenendo conto non solo della loro portata letterale al momento della loro approvazione e dei lavori preparatori, ma soprattutto del significato assunto al momento in cui sorge la questione relativa alla loro applicazione. Infatti, si riconosce che, in una disciplina uniforme di origine internazionale, alle espressioni impiegate deve essere assegnato un significato non già cristallizzato al momento della loro formazione, bensì suscettibile di modificarsi nel tempo sulla scorta dell’evoluzione del loro contenuto e delle nozioni in esse impiegate che progressivamente si affermano proprio in virtù della pratica e delle varie normative che sono ulteriormente elaborate ed adottate in ambito internazionale. Pertanto, anche con specifico riferimento alle nozioni impiegate dalle varie normative di diritto fiscale internazionale, si deve ritenere che esse debbano essere interpretate secondo l’evoluzione maturata al momento della loro applicazione, tenendo conto del significato da esse progressivamente assunto anche nell’ambito delle varie discipline elaborate a proposito del commercio internazionale e non già con esclusivo riferimento a quelle esistenti al momento dell’elaborazione della relativa disciplina di appartenenza. Tali indicazioni comportano, quindi, la conseguente perdita della rilevanza dei “lavori preparatori” nella valutazione della portata e degli effetti di tali normative di origine internazionale, contestualmente alla valorizzazione di tutte le indicazioni emergenti dalle varie tipologie di normative di diritto internazionale progressivamente adottate relativamente al commercio

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internazionale. Indicazioni che, pertanto, potranno utilmente trarsi anche in virtù dell’evoluzione dei contenuti e delle definizioni delle varie espressioni e nozioni volta a volta adottate nelle varie sedi internazionali relativamente alla disciplina dei rapporti del commercio internazionale.

8 Continua: l’importanza della interrelazione tra i vari istituti impiegati da norme di diritto internazionale uniforme ai fini della loro applicazione nel settore fiscale con riguardo alla stabile organizzazione.

Risulta, quindi, opportuno che, in particolare, sia conferita adeguata rilevanza anche all'impiego di una proficua interrelazione tra gli esiti delle soluzioni che in concreto sono state adottate nelle numerose disposizioni di diritto uniforme previste nelle varie fonti di cognizione rilevanti al riguardo e nelle specifiche codificazioni di usi normativi che, a diverso titolo, incidono sull’esecuzione dei rapporti del commercio internazionale. E proprio all’interno di questa evoluzione dei criteri interpretativi rivolti a precisare le caratteristiche che in concreto qualificano la presenza di una stabile organizzazione assumono una significativa importanza anche gli esiti della pratica che si è maturata, più in generale, nell’ambito delle normative relative al commercio internazionale. Tra questi merita una particolare menzione l’evoluzione della normativa di origine internazionale relativa alle nozioni di “succursale, agenzia o qualsiasi altra filiale” impiegate in ambito europeo ed internazionale per giustificare l’esercizio della giurisdizione dello Stato in cui sono localizzate e per verificare quale attività risulta a vario titolo ad esse riconducibile. Al riguardo è particolarmente significativa l’evoluzione vissuta in ambito europeo in occasione dell’applicazione della Convenzione di Bruxelles del 1968, relativa all’esercizio della giurisdizione ed al riconoscimento delle sentenze straniere, sino alla più recente formulazione del Regolamento 1215/2012 ed alla relativa giurisprudenza comunitaria oltreché in ambito internazionale delle norme sull’esercizio della giurisdizione previste nella Convenzione di Montreal del 1999 relativa all’unificazione di alcune norme relative al trasporto aereo internazionale. In questa prospettiva, pertanto, allorché si tratta di valutare, da un lato, le caratteristiche soggettive e, dall’altro, le attività e le funzioni riconducibili ad un “centro operativo” al fine di qualificarlo come stabile organizzazione, sono particolarmente significative le esperienze giurisprudenziali maturate in ambito europeo in occasione della applicazione dell’art. 5, n. 5, Reg. 44/2001 (attuale art. 7.5 Reg. 1215/2012). Infatti, al riguardo si è precisato che, ai fini di legittimare l’esercizio della giurisdizione, il “centro operativo” deve essere materialmente organizzato in modo da poter intrattenere rapporti con terzi, al di là della sua formale qualificazione ed iscrizione quale agenzia, succursale o filiale dell’impresa sotto la cui direzione e sotto il cui controllo opera. Si è ritenuto, cioè, che, mancando una nozione unitaria di centro operativo rilevante ai fini in esame da parte dei vari ordinamenti statali appartenenti

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alla UE, debba essere impiegata una nozione autonoma rispetto alle qualificazioni al riguardo adottate nell’ambito degli Stati in cui tali centri sono, volta a volta, localizzati. È stato, così, possibile impiegare utilmente il criterio di collegamento dell’art. 7, n. 5, anche nei casi in cui si tratti di controversie con imprese che hanno, nello Stato del foro adito, una semplice presenza operativa che, al di là della sua formalizzazione, ha comunque consentito lo svolgimento dell’attività sociale, attraverso un qualsiasi modello organizzativo all’interno di detto Stato, benché esso abbia operato con modalità tali da essere considerato alla dipendenza della casa-madre. A tal fine, pertanto, è l’esercizio di un’attività aziendale in virtù di una presenza in qualsiasi modo organizzata che rileva e non già la circostanza che il relativo modello organizzativo abbia, o meno, i caratteri che consentano di ricondurlo alle nozioni generali di sede secondaria, succursale, o di agenzia impiegate dalle norme del foro. In tal senso risulta svalutata la rilevanza della qualificazione, sulla base della lex fori, di un determinato “centro operativo” come “agenzia”, “succursale” o “filiale”; tanto più che, come accennato, non è risultato possibile ricondurre tali nozioni ad un significato uniforme ai vari ordinamenti statali o ad una più ampia ed unitaria qualificazione a livello comunitario idonea a realizzare identici effetti in tutti i Paesi appartenenti all’UE. Pertanto si deve dare, piuttosto, rilievo ad alcuni requisiti sostanziali, utilmente fruibili anche a fini definitori della stabile organizzazione, relativi alle caratteristiche che qualificano la presenza di una effettiva attività realizzata da, e/o riconducibile a, un centro operativo di una impresa nello Stato della sua localizzazione, senza preoccuparsi di una precisa razionalizzazione dogmatica del modello organizzativo del “centro operativo”. Infatti, per quanto riguarda le caratteristiche di tale centro, è sufficiente che si tratti di un’organizzazione dotata di una minima struttura in grado di operare per conto dell’impresa alla quale deve restare assoggettata e di cui rappresenta la minima unità operativa cui imputare parte dell’attività della unica impresa. Non rileva, invece, come tale centro operativo sia formalizzato purché esso operi nel senso e con le modalità innanzi indicate.

9 In particolare, le caratteristiche della nozione di “centro operativo” rilevante nella normativa internazionale di diritto uniforme.

La necessaria sottoposizione del centro operativo innanzi indicato alla dipendenza, al sindacato ed al controllo della casa-madre ha indotto a escludere l’applicabilità delle disposizioni in esame allorché essi siano dotati di ampia autonomia organizzativa e di indipendenza (ad esempio, in virtù di un management contract) con responsabilità della gestione di una specifica attività anche se riconducibile ad una sola impresa come, ad esempio, avviene per alcuni enti che operano in autonomia nell’ambito di una impresa armatoriale. Infatti, pur essendo anche tali enti tenuti, da un lato, ad un obbligo di rendiconto e, dall’altro, ad adeguatamente valorizzare le

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indicazioni dell’impresa nel cui interesse operano, si ritiene che abbiano un tale margine di discrezionalità ed autonomia nell’organizzazione e nello svolgimento dei loro compiti con assunzione almeno parziale dei relativi rischi da escludere che siano qualificabili come centro operativo rilevante ai sensi dell’art. 7.5 Reg. 1215/2012 innanzi citato. Parimenti controversa, e sempre dipendente dal margine di autonomia decisionale ed organizzativa che ne caratterizza l’operatività, appare anche la possibilità di qualificare come “succursale” il centro operativo in virtù del quale opera il raccomandatario marittimo. In senso contrario, infatti, è stato valutato non tanto il tipo rapporto che tali centri operativi hanno con l’impresa armatoriale, ma soprattutto (allorché ne ricorrano i presupposti) la loro libertà organizzativa e autonomia gestionale, la loro facoltà di agire per conto di una pluralità di mandanti, nonché, in alcuni casi, il carattere occasionale del loro incarico. Ai fini dell’esercizio della giurisdizione, quindi, si sono affermati precisi principi utilizzabili anche nel diritto tributario internazionale, sia per meglio precisare i caratteri della stabile organizzazione sia per individuare l’attività dell’impresa realizzata dai vari “centri operativi” o, comunque, ad essi riconducibile che potrà rilevare a fini impositivi. Si dovrà trattare di attività dotata di una sua percepibilità esterna nel senso ora indicato ed in grado di essere intesa come dotata di effetti nei confronti dei terzi nell’interesse della “casa madre”. Così, in particolare, tali circostanze si riscontrano secondo gli esiti della pratica giurisprudenziale di cui alla disciplina comunitaria relativa all’esercizio della giurisdizione, con riguardo: (i) agli impegni contrattuali assunti in nome dell’impresa, siano essi da eseguirsi nel territorio dello Stato in cui è presente tale “centro operativo” oppure altrove, purché riconducibili ad esso; oltreché (ii) alle obbligazioni extracontrattuali relative all’esercizio dell’agenzia, della filiale o della succursale, oppure (iii) a qualsiasi impegno assunto relativamente o all’utilizzo dell’edificio in cui si svolge l’attività o nei confronti del personale del “centro operativo”. In tale prospettiva si è ritenuta anche adeguata, ai fini della qualifica di “agente”, “succursale”, “filiale” e/o di centro operativo rilevante ai fini dell’esercizio della giurisdizione, la presenza di un centro commerciale con funzioni di ticket office purché gestito con il marchio e con il logo della casa-madre per conto della quale vengono realizzate le corrispondenti operazioni. Tanto più se, come spesso accade, il relativo ufficio è localizzato in spazi di proprietà o presi in locazione direttamente da quest’ultima. Ed a conferma di quanto indicato, proprio ai fini dell’esercizio della giurisdizione, depone anche la formulazione del c.d. quinto criterio di giurisdizione adottato nell’art. 33 della Convenzione di Montreal del 1999 relativa alla disciplina del trasporto aereo. Di tali risultati, pertanto, secondo la logica ed i criteri interpretativi innanzi indicati, si dovrà tenere conto anche ai fini di individuare la presenza di una stabile organizzazione ed il reddito dell’attività ad essa riconducibile a fini fiscali in presenza delle evidenti analogie della disciplina di tali profili con quella alla base dell’esercizio della giurisdizione.

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10 Gli sviluppi della “pratica internazionale” relativ a ai confini dell’ambito dell’attività di ricerca e sviluppo: sua rilevanza a fini fiscali.

Gli accennati principi del commercio internazionale, inoltre, forniscono anche un’autorevole conferma di alcune soluzioni indicate nel Commentario OCSE al Modello di Trattato per evitare la doppia imposizione proprio con riferimento a quanto in esso riportato a proposito della rilevanza ai fini fiscali della “stabile organizzazione” ai sensi dell’art. 5.1 del citato Modello. Un esempio particolarmente significativo è rappresentato dall’esigenza che il “centro operativo” debba essere inteso e risultare come “fisso” nel senso di essere dotato di una sufficiente permanenza e di una precisa localizzazione in un determinato Stato. Infatti, anche ai fini dell’esercizio della giurisdizione, la presenza del centro operativo di un’impresa in un determinato Stato è risultata rilevante ai fini dell’esercizio della giurisdizione solamente se tale centro è dotato di una “sede fissa”. Utili riferimenti, inoltre, ai fini di stabilire se possano essere valutate come attività industriale o commerciale di una impresa, ai fini di cui all’art. 5 par. 4 del Modello OCSE (e del relativo par. 23 del Commentario), le attività di un suo “centro operativo” in cui siano svolte solamente funzioni di ricerca e sviluppo funzionali al suo ciclo produttivo, sono ricavabili proprio dalla più recente pratica relativa al commercio internazionale maturata in ambito europeo. Infatti, in tale ambito, si è provveduto, secondo l’evoluzione che caratterizza tale settore, a definire cosa debba intendersi in ambito internazionale per “experimental development” e “industrial research” al fine di individuare il momento in cui tale attività cessa di avere carattere sperimentale e di ricerca per entrare a far parte del ciclo produttivo dell’impresa. Si tratta delle precisazioni rese in occasione della definizione dell’ambito di esenzione concesso agli incentivi ed ai finanziamenti alla ricerca e sviluppo che si colloca all’esterno dell’attività produttiva: e cioè al di fuori “from the actual realisation of profits” e pertanto con difficoltà “to allocate any profit to the fixed place of business in question”. Una indicazione, quindi, che presenta indubbia utilità anche ai fini dell’applicazione della citata normativa tributaria internazionale. Pertanto, l’attività di ricerca e sviluppo in quanto tale non dovrà più essere confinata soltanto a quella “remota” dall’attività industriale e produttiva secondo l’originaria formulazione del Commentario OCSE al Trattato - Modello. In realtà, proprio la pratica vissuta in ambito internazionale ed europeo ne identifica ora i confini in una zona sempre più prossima all’inizio dell’attività industriale e produttiva. È stato proprio in occasione della pratica innanzi citata che non si è avuta esitazione a precisare che l’attività di ricerca e sviluppo comprende anche il c.d. experimental development, comprensivo sia delle “activities aiming at conceptual definition, planning and documentation of new products, process and services” sia della produzione di prototipi e della realizzazione di test ed attività di validazione di nuovi prodotti. Tanto che l’attività in esame è stata estesa sino a comprendere anche

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“commercially usable prototypes” allorché la loro costruzione a soli fini dimostrativi risulta eccessivamente costosa. Di tale evoluzione e di tali principi emersi nella pratica del commercio internazionale, pertanto, non si potrà fare a meno di tenere debito conto anche nell’interpretazione ed applicazione dell’innanzi citato art. 5.4 del Modello OCSE e nell’aggiornamento del relativo commentario. Si conferma, quindi, da un lato, l’esigenza di tener conto della progressiva evoluzione dei contenuti delle nozioni impiegate nei vari settori del diritto del commercio internazionale e, dall’altro, l’importanza della reciproca interazione delle pratiche applicative di cui si è progressivamente ampliato l’ambito degli atti al riguardo rilevanti. Ma non soltanto. Infatti si è anche riscontrato che l’effettività di tale evoluzione è garantita da strumenti giurisdizionali sempre più numerosi, maggiormente aperti al loro accesso diretto da parte dei privati e particolarmente sensibili a garantire “effetti diretti” a favore dei privati di principi e norme di origine internazionale anche in difetto di una intermediazione specificativa dei loro contenuti all’interno dei vari ordinamenti statali.

Prof. Andrea Carinci Professore Università di Bologna

Stabile organizzazione ed utilizzo delle perdite

1 Introduzione.

Prima di affrontare il tema che mi è stato affidato, un chiarimento metodologico s’impone. Oggetto delle riflessioni che seguiranno sarà il solo tema delle perdite della stabile organizzazione e non pure quello delle perdite della casa madre impiegate in compensazione dell’utile della stabile organizzazione. Quest’ultima, difatti, è una questione che investe essenzialmente il problema della determinazione del credito per imposte assolte all’estero, oggetto di un’altra relazione. Seppur così circoscritto, il tema presenta ugualmente molteplici profili di interesse, essenzialmente riconducibili al più vasto argomento della circolazione transnazionale delle perdite1.

2 La rilevanza delle perdite della stabile organizzazione.

Le perdite costituiscono (in negativo) un elemento indice di capacità contributiva2. La perdita rappresenta invero il risultato negativo della gestione d’impresa e si pone come speculare all’utile (rectius al reddito). Di conseguenza, nella misura in cui l’utile è metro della capacità contributiva, del pari lo sono (devono essere) le perdite. Del resto, se nella misurazione del reddito imponibile sono rilevanti le componenti negative, lo devono essere le perdite, che altro non sono che la risultante della prevalenza delle predette componenti rispetto a quelle attive. Al pari del reddito, quindi, anche le perdite sono un indice espressivo della capacità economica del soggetto contribuente e, come tali, debbono poter essere considerate nella determinazione della ricchezza in concreto tassabile. La considerazione delle perdite può poi assumere una duplice connotazione. La perdita può infatti essere valorizzata, ai fini della determinazione della materia tassabile, evidentemente solo per ridurre la base imponibile ossia il reddito; ebbene, ciò può essere in concreto operato secondo due modalità: 1 Tema questo che, evidentemente, non è esaurito dalle sole stabili organizzazioni, ma coinvolge tutte le differenti modalità di insediamento in diversi paesi di parti tra loro correlate. 2 In argomento, senza evidenti pretese di completezza, cfr. G. ZIZZO, Considerazioni sistemiche in tema di utilizzo delle perdite fiscali, in Rass. trib., 2008, pag. 930; A.

GIOVANARDI , Il riporto delle perdite, in Giurisprudenza sistemica di diritto tributario. Imposta sul reddito delle persone giuridiche (a cura di F. Tesauro), Torino, 1996, pag. 269.

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mediante la cd. compensazione orizzontale, ossia impiegando la perdita per ridurre gli altri redditi del soggetto passivo realizzati nel medesimo periodo, ovvero mediante la cd. compensazione verticale, ovvero utilizzando la perdita per diminuire il reddito tassabile di altri periodi d’imposta. Con riferimento alle perdite delle stabili organizzazioni, entrambe queste opzioni di impiego sono astrattamente ipotizzabili. Preliminarmente va però osservato come, a stretto rigore, trattare di perdite di una stabile organizzazione possa apparire un ossimoro. La stabile organizzazione non costituisce un soggetto passivo autonomo rispetto alla casa madre, bensì semplicemente un criterio di localizzazione dei redditi comunque riferibili al soggetto non residente (la casa madre). Da ciò consegue che la stabile organizzazione non dovrebbe ritenersi in grado di produrre perdite ma, semmai, solo elementi negativi del reddito della casa madre. La possibilità di parlare di perdite della stabile organizzazione consegue tuttavia alla presa d’atto che nella prassi, recepita e promossa dal modello di Convenzione Ocse nonché dal relativo Commentario (cfr. sub artt. 5 e 7), la stabile organizzazione è concepita come un’impresa autonoma rispetto alla casa madre3. Un’impresa autonoma - non anche un soggetto autonomo - idonea a realizzare un reddito tassabile ovvero una perdita, suscettibili di distinta considerazione nello Stato ospitante ed (idealmente) destinati a rifluire nel reddito dell’unico soggetto passivo, ossia la casa madre4. La stabile organizzazione, quindi, pur sprovvista di soggettività può produrre reddito tassabile ovvero una perdita, distinti ed autonomi rispetto alla casa madre. Ebbene, una prima particolarità del tema delle perdite della stabile organizzazione è che la loro valorizzazione può essere operata in momenti diversi ed a livelli diversi nonché in entrambe le direzioni evocate (ossia sia in senso orizzontale che verticale). Le perdite della stabile organizzazione, difatti, possono essere utilizzate, a rigore, sia per compensare (verticalmente) i redditi della medesima stabile organizzazione prodotti in esercizi differenti, sia per compensare i redditi della casa madre (compensazione orizzontale), ovvero entrambi. La rilevanza delle perdite della stabile organizzazione dipende pertanto dalle soluzioni in concreto applicabili a ciascuna fattispecie

3 A. M. GAFFURI, La determinazione del reddito della stabile organizzazione, in Rass. trib., 2002, pag. 86. 4 Per inciso, la questione dell’autonoma rilevanza della stabile organizzazione prescinde dai criteri in concreto adottati per determinarne il reddito. Anche nel caso in cui sia impiegato, in luogo del più tradizionale separate entity approach, il criterio del relevant business activity approach, in ragione del quale il reddito della stabile organizzazione è determinato come quota proporzionale di quello complessivo realizzato dalla casa madre, il presupposto è che la stabile organizzazione è in grado di realizzare un reddito (tassabile) ovvero una perdita. Entrambi i metodi, difatti, pur sottintendendo un diverso grado di autonomia della stabile organizzazione, presuppongono comunque la riferibilità in capo alla medesima di un reddito o di una perdita distinti da quelli della casa madre.

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in ragione delle regole (di diritto interno ovvero convenzionale) impiegabili. Può così accadere che le perdite della stabile organizzazione assumano rilevanza tanto nello Stato ospitante quanto in quello della casa madre, come tipicamente accade nei casi in cui quest’ultimo contempli la tassazione del reddito mondiale accordando il credito d’imposta per le imposte assolte all’estero. Viceversa, può accadere che le perdite restino confinate nel solo Stato in cui ha sede la stabile organizzazione, evenienza questa che si verifica nel caso in cui lo Stato della casa madre ricorra, per evitare la doppia imposizione, al meccanismo dell’esenzione5. La questione poi si complica in ragione del fatto che l’ordinamento della stabile organizzazione e quello della casa madre possono prevedere un trattamento differente delle perdite, ammettendo o meno il riporto avanti o indietro delle stesse, ovvero prevedendo soglie massime ovvero termini per la loro deducibilità. Inoltre, la concreta quantificazione della perdita può differire tra Stato ospitante (quello in cui si trova la stabile organizzazione) e Stato di origine (quello della casa madre), nella misura in cui non corrispondono i rispettivi criteri di determinazione del reddito. Ciò, fino al caso limite in cui una perdita della stabile organizzazione non risulta tale per lo Stato della casa madre6 o, viceversa, un utile della stabile organizzazione, secondo le regole dello Stato ospitante, cui corrisponde una perdita nello Stato di origine7. Proprio la varietà delle situazioni, che in concreto si possono configurare, testimonia l’estrema delicatezza del tema. Vi è poi un altro profilo che occorre considerare: come dinanzi evocato, il tema delle perdite della stabile organizzazione si inserisce nel più vasto problema della circolazione transnazionale delle perdite. Ebbene, questo significa che il tema attiene, in

5 Salvo il caso in cui sia previsto un modello ibrido in cui le perdite della stabile organizzazione sono comunque considerate in capo alla casa madre, per essere in seguito “recuperate” mediante la tassazione degli utili futuri della stabile organizzazione. 6 Tale eventualità è espressamente presa in considerazione, ad esempio, nelle istruzioni alla compilazione di Unico 2013, dove si prevede che non deve essere compilata la sezione relativa all’imposta estera pagata per il reddito della stabile organizzazione, nel caso in cui il reddito estero, come rideterminato in Italia, sia inferiore o pari a zero. Ciò, anche in presenza di imposta pagata all’estero. Per effetto della rideterminazione secondo le regole nazionali, il reddito estero non genera infatti alcuna quota di imposta lorda italiana, sicché viene negato il credito, non verificandosi una situazione di doppia imposizione. 7 Rileva il problema anche G. MELIS, Stabili organizzazioni, obblighi contabili e riporto delle perdite: un'occasione perduta, in Riv. dir. trib., 1998, III, pag. 33; B.

GANGEMI, I progetti di armonizzazione all’esame del Consiglio CEE: le ritenute su interessi e royalties e le perdite transnazionali, in Riv. dir. trib., 1993, I, pag. 838. La questione è esaminata altresì nel Commentario al modello Ocse (sub art. 23, punti 39 e 62), dove si evidenzia che la differenza di regole per la misurazione del reddito può determinare una divergenza tra reddito soggetto a tassazione nello Stato della fonte e reddito preso a base per l’esenzione ovvero la determinazione del credito nello Stato di residenza della casa madre.

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ultima analisi, alle condizioni ed ai limiti con cui gli ordinamenti nazionali acconsentono (ovvero debbono consentire) ad importare perdite maturate in altri ordinamenti, in grado di erodere la materia tassabile e quindi le imposte prelevabili. Questo rappresenta certamente un tratto peculiare al tema delle perdite della stabile organizzazione, che giustifica la tradizionale diffidenza manifestata dagli ordinamenti nazionali: da un lato, infatti, la rilevanza delle perdite di una stabile organizzazione si traduce, per lo Stato della casa madre, nel rischio di una sistematica importazione di perdite maturate in altri ordinamenti e, così, nella rilevanza di costi rispetto cui non è possibile quel medesimo grado di controllo consentito all’interno del territorio nazionale; dall’altro, porta con sé il rischio del doppio utilizzo (nello Stato ospitante ed in quello di origine) delle suddette perdite8. 3 La risposta comunitaria al problema delle perdite della stabile

organizzazione.

Non è un caso, quindi, che i tentativi promossi in sede comunitaria per giungere ad una disciplina uniforme delle perdite siano ad ora rimasti senza seguito. Il tema delle perdite della stabile organizzazione è stato oggetto di ripetuti interventi in sede comunitaria, dove si è manifestata una compiuta consapevolezza della centralità del problema per la realizzazione del Mercato unico. Sennonché, tutti gli interventi fino ad ora messi in campo non hanno sortito gli esiti auspicati. Negli anni novanta è stata adottata una proposta di direttiva (n. 595/90) sulla contabilizzazione delle perdite subite dalle stabili organizzazioni e dalle affiliate situate in altri Stati membri. A tale proposta gli Stati avrebbero dovuto conformarsi entro il 1° gennaio 19939. La proposta si caratterizzava 8 In ambito nazionale, la soluzione al doppio utilizzo delle perdite è stata trovata in seno alle istruzioni alla compilazione delle dichiarazioni. Si è qui previsto che, con riguardo alla fonte estera produttiva di perdite, il contribuente debba contabilizzare un’eccedenza di imposta italiana di segno negativo, di misura corrispondente all’imposta virtualmente riferibile al reddito domestico assorbito dalla perdita estera. Ciò, con lo scopo di neutralizzare, fino a concorrenza, le eccedenze d’imposta italiana effettivamente prelevate sulla stabile organizzazione nel periodo di sorveglianza previsto dall’art. 165, co. 6 del TUIR (gli otto esercizi precedenti o successivi), evitando che queste imposte si traducano in credito d’imposta (cfr. Assonime, Credito per le imposte pagate all’estero, nelle ipotesi in cui il reddito di una o più stabili organizzazioni concorra alla formazione dell’imponibile unitamente alle perdite di casa madre o di altre stabili organizzazioni, Approfondimento n. 4/2012, pag. 8). 9 In argomento, cfr. G. MELIS, Perdite intracomunitarie, potestà impositiva e principio di territorialità: unicuique suum?, in Rass. trib., 2008, pag. 1486 e ss.; B.

GANGEMI, I progetti di armonizzazione all’esame del Consiglio CEE: le ritenute su interessi e royalties e le perdite transnazionali, cit., pag. 835, il quale peraltro

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per la previsione di due distinti metodi cui gli Stati dovevano uniformarsi per consentire alle proprie società residenti la valorizzazione delle perdite delle stabili organizzazioni localizzate in altri Stati membri: il metodo della imputazione, incentrato sul riconoscimento del credito per le imposte pagate all’estero; il metodo dell’esenzione con detrazione delle perdite e successiva loro reintegrazione, consistente nella deduzione delle perdite della stabile organizzazione dagli utili della casa madre con recupero, nei successivi periodi, degli utili della stabile in quelli della casa-madre fino a concorrenza delle perdite dedotte. Tale proposta di direttiva è stata però ritirata nel 2004. Nel 2006 la Commissione ha quindi presentato una comunicazione in tema di trattamento fiscale delle perdite in situazioni transfrontaliere, dove veniva affrontato anche il tema delle perdite delle stabili organizzazioni. Ebbene, qui si prendeva espressamente atto dell’estrema disparità tra i vari regimi nazionali, della coesistenza di legislazioni che ammettono il consolidamento delle perdite con altre che invece lo escludono. Da ciò la raccomandazione e l’auspicio della Commissione di «introdurre sistemi efficaci di compensazione transfrontaliera delle perdite nell’Unione europea»10. Sennonché, anche questa raccomandazione è rimasta, sostanzialmente, lettera morta. Nonostante questo, si può comunque dire che sia in atto un processo di progressivo avvicinamento dei singoli regimi nazionali ad un modello comune di trattamento delle perdite delle stabili organizzazioni. Il merito, tuttavia, va ascritto all’opera della Corte di Giustizia, che, con una serie di importanti pronunce, ha sindacato la compatibilità con il diritto dell’Unione dei vari regimi nazionali, fissando importanti direttive cui debbono oggi conformarsi le discipline nazionali11. Innanzitutto, è assolutamente pacifico che la conformità con il diritto comunitario dei regimi nazionali sulle perdite delle stabili organizzazioni va apprezzata alla stregua della libertà di stabilimento, di cui agli artt. 43-48 del Trattato della Comunità Europea, divenuti gli artt. 49-55 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea12. In questo contesto, poi, è suscettibile di essere sindacato tanto il regime dello Stato ospitante, dove cioè è stata insediata la stabile organizzazione, quanto quello di origine. Entrambi i

preconizzava un iter di approvazione veloce della Direttiva proprio con riferimento alle perdite delle stabili organizzazioni. 10 Comunicazione della Commissione Com (2006) 824 def. 11 Per una rassegna delle pronunce della Corte di Giustizia sul tema, si vedano P. MINUTOLI, Utilizzo transfrontaliero delle perdite d’impresa: l’orientamento della Corte di giustizia, in Rass. trib., 2012, pag. 120; F. BOSCHI, Libertà di stabilimento e libera circolazione delle “perdite” infragruppo nella giurisprudenza della Corte di giustizia, in Dir. prat. trib., 2010, I, pag. 535. 12 CGE del 13 dicembre 2005, C-446/03, Marks & Spencer, punto 30; CGE del 15 maggio 2008, C-414/06, Lidl Belgium, punto 18; CGE del 25 febbraio 2010, C-337/08, X Holding, punto 17; CGE del 6 settembre 2012, C-18/11, Philips Eletronics UK, punto 12; CGE del 21 febbraio 2013, C-123/11, A Oy, punto 30

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regimi, invero possono risultare in contrasto con la detta libertà, laddove prevedano un trattamento delle perdite delle stabili organizzazioni discriminatorio ovvero restrittivo13. Una seconda indicazione che può dirsi parimenti pacifica è quella per cui le perdite sono speculari all’utile, due facce della stessa medaglia14; conseguentemente, la pretesa impositiva sull’utile deve accompagnarsi al riconoscimento delle perdite. Altrimenti detto, se uno Stato pretende di tassare il reddito di una stabile organizzazione, sia esso lo Stato ospitante ovvero quello della casa madre, deve consentire parimenti la contabilizzazione delle perdite15. Ciò vale, tuttavia, anche in senso speculare: laddove uno Stato non vanta alcuna pretesa impositiva sui redditi della stabile organizzazione, allora non è del pari tenuto a dare rilevanza alle perdite della stessa. Così, se per effetto di una convenzione contro le doppie imposizioni lo Stato della casa madre esenta il reddito prodotto dalla stabile organizzazione, non è tenuto a prendere in carico le perdite della stessa a decurtazione del reddito della casa madre16. Le perdite, per poter assumere rilevanza debbono comunque presentare un collegamento con i redditi suscettibili di tassazione o, in ogni caso, con le attività soggette alla potestà impositiva dello Stato17. Ricorre nella giurisprudenza della Corte di Giustizia l’insegnamento secondo cui il riparto della responsabilità tra Stato della fonte (quello della stabile organizzazione) e Stato della residenza (quello della casa madre) in merito alla rilevanza delle perdite va tracciato all’insegna della coerenza fiscale, integrata qui dall’esigenza di assicurare una corrispondenza di trattamento tra reddito e perdite della stabile organizzazione. Solo nei limiti della coerenza fiscale così definita sono invero possibili trattamenti delle dette perdite

13 Sull’estensione anche allo Stato di origine dell’obbligo di non opporre restrizioni alle libertà, CGE del 16 luglio 1998, C-264/96, ICI, punto 21. 14 CGE del 13 dicembre 2005, C-446/03, Marks & Spencer, punto 43. 15 La simmetria tra il diritto di tassare gli utili e la possibilità di dedurre le perdite è stata rilevata da CGE del 15 maggio 2008, C-414/06, Lidl Belgium, punto 33; CGE del 6 settembre 2012, C-18/11, Philips Eletronics UK, punto 26 16 CGE del 15 maggio 2008, C-414/06, Lidl Belgium, punto 54. 17 Il criterio del rapporto economico delle perdite con i redditi ottenuti nello Stato membro che applica l’imposta è stato enunciato dalla Corte di Giustizia nella sentenza del 15 maggio 1997, C-250/95, Futura Partecipations, punto 22. Nella medesima sentenza, peraltro, la Corte ha chiarito che integra invece una restrizione non compatibile con il Trattato la prescrizione di una contabilità speciale per la stabile organizzazione quale condizione per la deduzione delle perdite, nella misura in cui il contribuente sia in grado di provarne altrimenti l’effettività nonché la produzione nello Stato; in argomento, G. MELIS, Stabili organizzazioni, obblighi contabili e riporto delle perdite: un'occasione perduta, cit., pag. 22.

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astrattamente restrittivi della libertà di stabilimento18. In linea di principio, la stabile organizzazione va equiparata alla società controllata, giacché non è possibile discriminare tra le diverse forme di stabilimento19. Sennonché, la Corte ha chiarito che ai fini delle libertà del Trattato tale equiparazione non può giungere ad alterare la coerenza fiscale del singolo ordinamento. Sicché, dal momento che la potestà impositiva dello Stato di origine sui redditi prodotti all’estero è diversa a seconda della forma di stabilimento prescelta (generalmente sussiste per quelli della stabile organizzazione, mentre è esclusa per quelli della controllata), è legittimo un sistema che discrimina il trattamento delle perdite prodotte all’estero, consentendo di recuperare solo quelle della stabile organizzazione e non pure quelle della società controllata20. Sempre in nome della coerenza fiscale è stato poi negato al pericolo di doppio utilizzo delle perdite valore di giustificazione idonea a legittimare l’effetto restrittivo di un dato regime rispetto alla libertà di stabilimento21. Lo Stato della casa madre non può insomma invocare una siffatta ragione per imporre un trattamento deteriore delle perdite prodotte dalla stabile organizzazione, nel momento in cui rivendica una piena potestà impositiva sui corrispondenti redditi22. Conseguentemente, il rischio di doppio utilizzo delle perdite, in ossequio al principio di proporzionalità, può essere contrastato, ma solo con modalità diverse dall’esclusione preventiva e generalizzata della rilevanza delle perdite della stabile organizzazione. Al contempo, però, se il rischio del doppio utilizzo non può essere invocato per escludere la rilevanza delle perdite realizzate con una stabile organizzazione, l’eventualità per il contribuente di non poterle più utilizzare (cd. final losses) impone agli Stati di ammetterne, in ogni caso, la contabilizzazione: altrimenti detto, se per svariate ragioni (es. cessazione dell’attività) le perdite della stabile organizzazione non possono più essere utilizzate nello Stato in cui questa ha sede, lo Stato di origine, in ossequio a tale orientamento, deve consentirne la valorizzazione nella determinazione del reddito della casa madre23.

18 CGE del 13 dicembre 2005, C-446/03, Marks & Spencer, punto 46; CGE del 15 maggio 2008, C-414/06, Lidl Belgium, punto 31; CGE del 25 febbraio 2010, C-337/08, X Holding, punto 33; CGE del 21 febbraio 2013, C-123/11, A Oy, punto 41 19 CGE del 28 gennaio 1986, C-270/83, Commissione c. Francia, punto 22; CGE del 21 settembre 1999, C-307/97, Saint Gobain, punto 35. 20 CGE del 25 febbraio 2010, C-337/08, X Holding, punto 40. 21 In realtà, in un primo tempo il potere di opporsi alla doppia deduzione delle perdite è stato indicato come causa di giustificazione da CGE del 13 dicembre 2005, C-446/03, Marks & Spencer, punto 47. 22 CGE del 6 settembre 2012, C-18/11, Philips Eletronics UK, punto 27. 23 CGE del 13 dicembre 2005, C-446/03, Marks & Spencer, punto 56; CGE del 15 maggio 2008, C-414/06, Lidl Belgium, punto 47; CGE del 21 febbraio 2013, C-123/11, A Oy, punto 49. Questa soluzione, peraltro, è stata affermata anche con riguardo alle perdite delle società controllate. In argomento, E. DELLA VALLE ,

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4 Indicazioni conclusive.

Grazie all’opera della Corte di Giustizia il regime delle perdite delle stabili organizzazioni, almeno in ambito comunitario, sta progressivamente assumendo caratteri omogenei. All’insegna della libertà di stabilimento, non sono invero consentiti regimi in grado di pregiudicare la libertà di scelta degli operatori circa la forma di organizzazione e stabilimento nei mercati degli altri Stati membri. La strada non di meno appare ancora lunga. Non solo occorre assicurare che le perdite trovino una corretta e puntuale valorizzazione nel riparto delle responsabilità tra Stato della fonte e Stato della residenza, trattandosi – come detto – di un indice misuratore di capacità contributiva speculare ai redditi; occorre altresì perseguire una tendenziale uniformità nei criteri di loro determinazione. Solo così, infatti, è possibile conseguire la piena neutralità nei modelli organizzativi e di insediamento24. Sennonché, questo con ogni evidenza rappresenta ancora un obiettivo di difficile realizzazione, come testimonia la difficoltà a realizzare il modello di base imponibile consolidata comune per l’imposta sulle società (CCCTB), in ragione della perdurante ritrosia degli Stati a cedere porzioni di sovranità in tema di tassazione dei redditi. Non di meno, è evidente – come ricordato nella Comunicazione della Commissione sopra citata - che «in mancanza di una compensazione transfrontaliera delle perdite, queste sono generalmente compensate solo nei limiti degli utili realizzati negli Stati membri in cui sono effettuati gli investimenti. Ne consegue una distorsione delle decisioni delle imprese sul mercato interno».

L’utilizzazione cross-border delle perdite fiscali: il caso Marks & Spencer, in Rass. trib., 2006, pag. 994. 24 Sul diritto degli operatori di scegliere liberamente la forma giuridica appropriata per l’esercizio della loro attività in un altro Stato membro, libertà questa che non può essere limitata da disposizioni tributarie, CGE del 18 luglio 2007, C-231/05, Oy AA, punto 40.

Prof. Alberto Comelli Professore Università di Parma

I rapporti, sotto il profilo dell’iva, tra stabile organizzazione, casa madre e terzi

SOMMARIO: 1 Considerazioni introduttive sulla ricerca, con particolare riferimento all’attualità della tematica che ne occupa ed alla necessità di rinnovati approfondimenti - 2 La stabile organizzazione, ai fini dell’iva, pur in assenza di una vera e propria definizione nella direttiva n. 2006/112/CE - 3 L’individuazione del concetto di centro di attività stabile e di stabile organizzazione alla luce della giurisprudenza della Corte di giustizia europea ed il non condivisibile orientamento in parte qua della Suprema Corte - 4 I rapporti tra la casa madre, soggetto passivo stabilito in uno Stato membro e la sua stabile organizzazione situata in un altro Stato membro: unicità del soggetto passivo, il quale coincide con la casa madre, alla luce dell’arresto FCE Bank - 5 Le prestazioni di servizi tra la stabile organizzazione nel territorio dello Stato ed i soggetti terzi, nell’ipotesi di effettivo e diretto coinvolgimento della prima nell’espletamento delle operazioni, attive e passive. Il problema del soggetto debitore dell’imposta verso l’erario, alla luce degli artt. 192 bis della direttiva n. 2006/112 e 53 del regolamento n. 282/2011 - 6 Osservazioni conclusive. La funzione primaria espletata dal concetto di stabile organizzazione, sotto il profilo dell’iva, è riconducibile alla necessità di una ripartizione territoriale uniforme tra gli Stati membri, fondata su criteri razionali e largamente oggettivi

1 Considerazioni introduttive sulla ricerca, con particolare riferimento all’attualità della tematica che ne occupa ed alla necessità di rinnovati approfondimenti

Sotto il profilo metodologico, è opportuno svolgere alcune considerazioni preliminari. La presente ricerca sulla stabile organizzazione (1) sarà espletata con esclusivo riferimento all’iva (2), senza prendere in considerazione il medesimo concetto ai fini delle imposte sui redditi (3) e, segnatamente, le non

(1) Affermano, in modo provocatorio, S. MAYR, B. SANTACROCE, Stabile organizzazione: tematiche e prospettive nel contesto nazionale e internazionale, in Corr. trib., 2013, 1951, quanto segue: «la stabile organizzazione … che cos’è?» e sottolineano che è stato versato un vero e proprio fiume d’inchiostro, al riguardo, da parte della dottrina nazionale e internazionale. (2) Cfr. A. BENOIT, A. MORAINE, L’instable notion d’établissement stable en matière de TVA, in Revue de droit fiscal, n. 13/2013, 19 ss. (3) Cfr., senza pretesa di esaustività, v. D. AVOLIO, G. FORT, Stabili organizzazioni di banche estere: «fondo di dotazione figurativo» per dedurre gli interessi passivi, in Corr. trib., 2012, 3015 ss.; D. AVOLIO, P. RUGGIERO, Le proposte di modifica al commentario OCSE sulla stabile organizzazione, ivi, 2012, 1112 ss.; D. AVOLIO, B.

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poco significative affinità, ma anche le differenze, tra la disciplina in parte qua in materia di iva e quella relativa alle imposte sui redditi (che impedisce un’automatica ed acritica osmosi, a livello di principi, da un settore all’altro dell’imposizione) (4), per le quali si rinvia ratione materiae ad altre relazioni presentate in questo convegno (5). Inoltre, al fine di circoscrivere ulteriormente il perimetro di questa ricerca, non saranno esaminate tutte le problematiche afferenti alle stabili organizzazioni, sul versante dell’iva (6), ma esclusivamente quelle relative

SANTACROCE, Per la stabile organizzazione personale è necessario provare che l’agente ha effettivamente concluso i contratti, in G.T.-Riv. giur. trib., 2012, 977 ss.; ID., Stabile organizzazione materiale e distacco di personale nel secondo «Discussion Draft» OCSE, in Corr. trib., 2012, 3628 ss.; E. CERIANA, Stabile organizzazione e imposizione sul reddito, in Dir. prat. trib., 1995, I, 657 ss.; E. DELLA VALLE, La nozione di stabile organizzazione nel nuovo Tuir, in Rass. trib., 2004, 1597 ss.; ID., La soggettività tributaria della stabile organizzazione, in Libro dell’anno del diritto 2012, Roma, 2012, 580; G. FRANSONI, La determinazione del reddito delle stabili organizzazioni, ivi, 2005, 73 ss.; A. M. GAFFURI, La determinazione del reddito della stabile organizzazione, ivi, 2002, 86 ss.; ID., Principi generali di tassazione del reddito d’impresa nei rapporti internazionali, in Corr. trib., 2002, 3396 ss.; A. LOVISOLO, Il concetto di stabile organizzazione nel regime convenzionale contro la doppia imposizione, in Dir. prat. trib., 1983, I, 1127 ss.; ID., Profili evolutivi della «stabile organizzazione» nel diritto interno e convenzionale, in Corr. trib., 2004, 2739 ss.; M. MESSINA, Il consolidato «non prosegue» in caso di conferimento di stabile organizzazione, ivi, 2007, 2215 ss.; F. PARADISI, Stabile organizzazione (dir. trib.), in Enc. giur. Treccani, XXXIV, 1 ss.; M. PENNESI, Stabile organizzazione occulta: tassazione del reddito per «massa separata», in Corr. trib., 2011, 3115 ss.; ID., Contratti intercompany e stabile organizzazione: quando è possibile escludere il rischio sanzioni, ivi, 2011, 2448 ss.; L. PERRONE, La stabile organizzazione, in Rass. trib., 2004, 794 ss.; P. VALENTE, Attribuzione del reddito alla stabile organizzazione: il Rapporto OCSE del 2010, in Fisco, 2010, 1-7000 ss.; ID., La stabile organizzazione «occulta» nella giurisprudenza italiana, in Fisc. comm. int., n. 5/2012, 30 ss. (4) In senso contrario, è favorevole ad una interpretazione uniforme del concetto di stabile organizzazione, ai fini dell’iva e delle imposte sui redditi, anche alla luce della pertinente giurisprudenza della Corte di giustizia europea, E. D’ALFONSO, La nozione di stabile organizzazione nelle imposte sui redditi e nell’iva, in Rass. trib., 2003, 1279 ss e specialmente 1327. Si veda anche M. PROIETTI, Stabile organizzazione occulta ed imposte dirette: profili critici in punto di soggettività tributaria, ivi, 2012, 653 ss. e specialmente, sul versante dell’iva, 668 ss. e 676 ss. (5) A. TOMASSINI, Stabili organizzazioni e commercio elettronico, in Corr. trib., 2013, 1498, definisce le stabili organizzazioni di soggetti non residenti come «quelle entità di fatto che costituiscono cento di imputazione di ricchezza, ancorché prive di personalità giuridica e che vedono la loro caratteristica distintiva nel possesso delle facoltà sufficienti a svolgere l’attività idonea al perseguimento dell’oggetto sociale del soggetto straniero». (6) Cfr. R. BAGGIO, I non residenti, in AA.VV. (a cura di), L’imposta sul valore aggiunto, Torino, 2001, 212 ss.; P. PURI, La stabile organizzazione nell’iva, in Riv. dir. trib., 2000, I, 239 ss.; oltre a C. BJERREGAARD ESKILDSEN, Pro Rata

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alle operazioni espletate tra esse, le rispettive case madri ed i terzi, alla luce del sistema dell’iva europea (7). A titolo esemplificativo, resterà sullo sfondo la pur non trascurabile tematica del diritto al rimborso dell’iva, eventualmente spettante ai soggetti passivi stabiliti in altri Stati membri, con stabile organizzazione in Italia (8), mentre non saranno esaminati profili di tipo processuale, i quali esulano dall’analisi in questione. Trattasi di una indagine che si propone di collocare sotto la lente d’ingrandimento una tematica di grande attualità (9) e sempre più ricca di sfaccettature, con particolare riferimento all’individuazione precisa del luogo di effettuazione delle prestazioni di servizi, laddove le numerose problematiche, emergenti dall’esame della disciplina in parte qua, presentano una notevole rilevanza, in egual misura, sul versante teorico e su quello applicativo. Tutto questo induce ad approfondire ulteriormente la tematica in esame, collocandola nel sistema dell’iva, quale imposta intrinsecamente europea e si armonizza perfettamente con il programma dell’odierno convegno, formandone un imprescindibile segmento del relativo percorso di approfondimento. Alla luce di questa impostazione, sarà approfondito, innanzi tutto, il concetto di stabile organizzazione in considerazione della giurisprudenza della Corte di giustizia europea e della Corte di cassazione. Successivamente, saranno esaminati, in una duplice direzione, i profili più significativi delle operazioni tra: (a) la casa madre stabilita in uno Stato membro e la sua stabile organizzazione in altro Stato membro; (b) la stabile organizzazione nel territorio dello Stato ed i soggetti terzi ivi stabiliti. Dopo aver effettuato questo inquadramento di tipo sistematico, saranno tratti i più immediati corollari, a titolo di conclusione del percorso di ricerca che ne occupa.

Deduction by Entities Established in Several VAT Jurisdictions, in International VAT Monitor, 2012, 27 ss. (7) Cfr. F. ROSSI RAGAZZI, La stabile organizzazione dopo le direttive iva, in Corr. trib., 2010, 821 ss. (8) Si veda P. CENTORE, Il rimborso iva diretto è ammesso anche in presenza di una stabile organizzazione, in Corr. trib., 2012, 3545 ss., quale commento all’arresto della Corte di giustizia europea 25 ottobre 2012, Daimler, nelle cause riunite C-318/11 e C-319/11; P. MASPES, Il recupero dell’iva per i soggetti non residenti con stabile organizzazione in Italia, ivi, 2009, 2922 ss., che commenta la sentenza della Corte di giustizia Commissione c. Repubblica italiana, 16 luglio 2009, nella causa C-244/08. Da ultimo, v. M. PEIROLO, Rimborso iva per il soggetto estero con stabile organizzazione in Italia, in Fisc. comm. int., 3/2013, 11 ss. V. anche M. GIORGI, Il rimborso dell’iva a soggetti non residenti, in Rass. trib., 1999, 1231 ss. (9) Si pensi, ad esempio, al convegno, organizzato dalla Confédération Fiscale Européenne (CFE) il 7 aprile 2011 a Bruxelles, sul quale riferisce T. MKRTCHYAN, CFE Forum 2011: Permanent Establishment in Direct and Indirect Tax, in European Taxation, 2011, 256-258.

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2 La stabile organizzazione, ai fini dell’iva, pur in assenza di una vera e propria definizione nella direttiva n. 2006/112/CE

Non si riscontra, nel testo della direttiva n. 2006/112/CE, alcuna definizione della stabile organizzazione. In particolare, negli articoli sulla soggettività passiva (vale a dire dal 9 al 13), non vi sono riferimenti espliciti a tale concetto. Tuttavia, alcune disposizioni di questa direttiva menzionano espressamente le stabili organizzazioni (10) e, segnatamente, due articoli in materia di principi generali afferenti al luogo delle prestazioni di servizi, vale a dire gli artt. 44 e 45, oltre all’art. 192 bis (11), relativo ai debitori dell’imposta verso l’erario, sotto il profilo del «soggetto passivo che dispone di una stabile organizzazione nel territorio di uno Stato membro in cui è debitore di imposta» (12). Alla luce di queste disposizioni, emerge che la direttiva n. 2006/112 postula il concetto di stabile organizzazione, pur senza definirlo espressamente (13) ed i relativi riferimenti, che saranno esaminati, non sono contenuti nelle disposizioni sulla soggettività passiva, bensì, rispettivamente, ai fini della precisa determinazione del luogo delle prestazioni di servizi (artt. 44 e 45) e dei debitori dell’imposta verso l’erario (art. 192 bis). Ne consegue che la stabile organizzazione, in via di principio, non configura un’autonoma entità, caratterizzata da una propria soggettività passiva, separata e distinta nettamente da quella della propria casa madre stabilita in un altro Stato membro (ovvero in uno Stato terzo). In altre parole, non è previsto espressamente un diaframma, vale a dire un vero e proprio elemento di discontinuità, suscettibile di separare nettamente la stabile organizzazione dalla relativa casa madre, sul piano della soggettività passiva, operando, sotto questo profilo, una prospettiva di continuità. All’interno di questa, i nodi da sciogliere sono collegati prioritariamente alla necessità di individuare oggettivi criteri di imputazione, sul versante territoriale, delle operazioni espletate, con particolare riferimento alle prestazioni di servizi, oltre all’esatta individuazione del soggetto debitore dell’imposta, in presenza di un soggetto passivo stabilito in uno Stato

(10) Cfr. P. CENTORE, La soggettività parziale ai fini iva della stabile organizzazione, in Fiscalità comm. int., n. 1/2012, 14 ss.; E. DELLA VALLE, P. MASPES, La stabile organizzazione nel sistema dell’iva, in Corr. trib., 2010, 942 ss. (11) Inserito dall’art. 2, paragrafo 1, n. 6), della direttiva 12 febbraio 2008, n. 2008/8/CE. (12) Per completezza, il concetto di stabile organizzazione è citato anche negli artt. 38, par. 1, 39, par. 2 e 58 della direttiva n. 2006/112, quest’ultimo relativo alle «prestazioni di servizi elettronici a persone che non sono soggetti passivi». (13) Per completezza, si sottolinea che cita la stabile organizzazione anche l’art. 3, par. 1, lett. a) della direttiva 2008/9/CE del Consiglio, pur senza definire il relativo concetto. Questa direttiva stabilisce norme dettagliate per il rimborso dell’iva ai soggetti passivi non stabiliti nello Stato membro di rimborso, ma in un altro Stato membro.

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membro, che ha una stabile organizzazione situata nel territorio di un altro Stato membro, all’interno del quale è debitore dell’imposta. Peraltro, il regolamento 15 marzo 2011, n. 282/2011, che contiene le disposizioni di applicazione della direttiva n. 2006/112 (14), definisce «il luogo in cui il soggetto passivo ha fissato la sede della propria attività economica» (15), nonché il concetto di stabile organizzazione, ai fini degli artt. 44, 45 e 192 bis di quest’ultima, secondo una prospettiva che va intesa in senso restrittivo (16). Più precisamente, gli elementi che connotano la stabile organizzazione sono riconducibili (17) alla sussistenza, da un lato, di «un grado sufficiente di permanenza» e, dall’altro lato, di «una struttura idonea in termini di mezzi umani e tecnici atti a consentirle di ricevere», utilizzare (o fornire) «i servizi che le sono forniti per le esigenze proprie di detta organizzazione» (ovvero, «di cui assicura la prestazione»). Ne consegue che il concetto di stabile organizzazione, ai fini del regolamento n. 282/2011, si caratterizza sotto il duplice profilo della permanenza, che deve presentare «un grado sufficiente» e dell’esistenza di una struttura, con una combinazione di mezzi umani e tecnici, suscettibile di porla in grado di ricevere e utilizzare i servizi che le sono forniti (ai fini dell’art. 44 della direttiva n. 2006/112), ovvero di fornire i servizi di cui assicura la prestazione (nella prospettiva dell’art. 45 della medesima direttiva) (18). Peraltro, se un soggetto passivo dispone di un numero di partita iva in un altro Stato

(14) Cfr. per tutti R. RIZZARDI, Il regolamento di applicazione del sistema comune iva: come e perché, in Corr. trib., 2011, 1373 ss. e, con specifico riferimento alla stabile organizzazione, P. CENTORE, Rifusione delle regole iva europee sulla stabile organizzazione, ivi, 2011, 497 ss. (15) In virtù dell’art. 10, par. 1 del regolamento n. 282/2011, tale luogo coincide con quello nel quale «sono svolte le funzioni dell’amministrazione centrale dell’impresa», tenendo conto del luogo nel quale sono prese le decisioni essenziali sulla gestione generale dell’impresa, del luogo della sua sede legale, nonché del luogo nel quale si riunisce la direzione (par. 2). Se l’applicazione di questi criteri non consente di determinare con certezza il luogo della sede dell’attività economica, «prevale il criterio del luogo in cui vengono prese le decisioni essenziali concernenti la gestione generale dell’impresa». Tuttavia, l’indicazione di un indirizzo postale non è suscettibile di far presumere, in assenza di altri elementi, che tale indirizzo corrisponde al luogo nel quale il soggetto passivo ha stabilito la sede della propria attività economica (par. 3). (16) Come afferma espressamente il quinto considerando del regolamento n. 282/2011, in relazione a tutte le disposizioni di applicazione della direttiva n. 2006/112 ivi contenute, espressamente definite come «norme specifiche in risposta a determinate questioni» applicative, non estensibili ad altri casi, nella prospettiva di «introdurre un trattamento uniforme in tutto il territorio dell’Unione». (17) Ai sensi dell’art. 11, par. 1 e 2 del regolamento n. 282/2011. (18) Le disposizioni di questo regolamento che fanno un esplicito riferimento al concetto di stabile organizzazione sono numerose: senza pretesa di esaustività, si vedano gli articoli 20, 21, 22 e 53 del regolamento n. 282/2011.

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membro, tale fatto non è sufficiente per assumere che abbia in quest’ultimo una stabile organizzazione (19). Questo approccio al concetto di stabile organizzazione si caratterizza per essere non poco pragmatico e suscettibile di valorizzare gli elementi di fatto delle singole fattispecie, come senza dubbio dimostrano i riferimenti al grado di permanenza ed alla struttura dotata di mezzi umani e tecnici. Alla luce di tale definizione, pertanto, sembrano prevalere i profili fattuali ed oggettivi, nella prospettiva di svincolare l’individuazione della stabile organizzazione da una valutazione soggettiva, filtrata dal grado di esperienza, da parte di colui che apprezza, di volta in volta, l’esistenza o meno, in concreto, di tale figura. Essa, peraltro, nonostante la definizione in esame, in teoria piuttosto precisa e lineare, sembra avere un perimetro concettuale non privo di ampi margini di incertezza, in sede applicativa, per la presenza di numerose sfumature, che richiedono una valutazione oculata ed oggettiva (oltre che imparziale). Sotto altro profilo, il regolamento n. 282/2011, in punto di definizione dell’istituto che ne occupa, sembra aver recepito gli indirizzi interpretativi della Corte di giustizia europea, evidenziando, in parte qua, una innegabile (e financo prevedibile) linea di continuità tra l’esperienza giurisprudenziale e le norme regolamentari che tale giurisprudenza hanno cristallizzato e ulteriormente precisato nella loro portata applicativa. In particolare, esse hanno contribuito a chiarire il luogo in cui si considerano espletate le operazioni imponibili, nella prospettiva di determinare quest’ultimo in modo uniforme, secondo criteri razionali e, al tempo stesso, vincolanti, evitando conflitti di competenza tra le autorità fiscali degli Stati membri dell’UE che sarebbero oltremodo pregiudizievoli, in caso di doppia imposizione, per i soggetti che svolgono attività economiche in più Stati membri, ovvero potrebbero provocare, al contrario, un fenomeno di non imposizione. In entrambi i casi, peraltro, sarebbe pregiudicato l’ordinario meccanismo di funzionamento del tributo in questione, con particolare riferimento al principio della sua neutralità, che è la vera stella polare di questa imposta. (20)

(19) In virtù dell’art. 11, par. 3 del regolamento n. 282/2011 (contra, ai fini del rimborso dell’iva, Cass. 30 novembre 2012, n. 21380, secondo cui dall’attribuzione della partita iva ad un soggetto che ne abbia fatto richiesta deriva, per ragioni di ordine logico-giuridico, la presunzione relativa dell’esistenza di una stabile organizzazione. In questa prospettiva, colui che agisce per ottenere il rimborso deve offrire la dimostrazione della mancanza in concreto degli elementi di ordine personale e materiale, che connotano la nozione di stabile organizzazione). (20) Funditus, v. A. COMELLI, Iva comunitaria e iva nazionale. Contributo alla teoria generale dell’imposta sul valore aggiunto, Padova, 2000, 302 ss.

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3 L’individuazione del concetto di centro di attività stabile e di stabile organizzazione alla luce della giurisprudenza della Corte di giustizia europea ed il non condivisibile orientamento in parte qua della Suprema Corte

Passando all’analisi della pertinente giurisprudenza della Corte di giustizia europea (21), come hanno sottolineato sia la sentenza 4 luglio 1985, Berkholz (22), sia l’arresto 20 febbraio 1997, DFDS (23), è necessario, affinché un centro di attività stabile, diverso dalla sede dell’attività economica (24), possa essere preso in considerazione, ai fini dell’individuazione del luogo delle prestazioni di servizi, che esso dimostri «una consistenza minima», per la «presenza permanente dei mezzi umani e tecnici necessari per determinate prestazioni di servizi». Nel confermare tale assunto, la sentenza 17 luglio 1997, ARO Lease (25) sottolinea che il luogo in cui il prestatore ha stabilito la sede della propria attività economica si estrinseca nel luogo cui fare riferimento a titolo preferenziale, ai sensi dell’art. 9, par. 1 della sesta direttiva n. 77/388. Difatti, il centro di attività stabile, a partire dal quale viene espletata la prestazione di servizi, va considerato esclusivamente qualora il riferimento alla sede non sia suscettibile di condurre ad una soluzione razionale sul piano fiscale, ovvero crei conflitti tra Stati membri. Per essere preso in considerazione, sia pure in via residuale, un centro di attività deve presentare «un grado sufficiente di permanenza e una struttura idonea, sul piano del corredo umano e tecnico, a rendere possibili in modo autonomo le prestazioni di servizi considerate» (26), (21) Cfr. P. CENTORE, Iva europea. Percorsi commentati della giurisprudenza comunitaria, Milano, 2012, passim. (22) Causa C-168/84, in Racc., 1985, 2257 ss. Si veda C. CORRADO OLIVA, Le disposizioni fiscali nel diritto dell’Unione europea, in V. UCKMAR, G. CORASANITI, P. DE’ CAPITANI DI VIMERCATE, C. CORRADO OLIVA, Diritto tributario internazionale. Manuale, Padova, 2012, 171. (23) Causa C-260/95, in Riv. dir. trib., 1997, II, 579 ss., con nota di S. ARMELLA, Il regime iva delle agenzie di viaggi. (24) In virtù dell’art. 9, par. 1, della sesta direttiva del Consiglio 17 maggio 1977, n. 77/388, successivamente rifusa nella direttiva n. 2006/112, il quale considera il luogo delle prestazioni di servizi, che viene stabilito nel «luogo in cui il prestatore ha fissato la sede della propria attività economica o ha costituito un centro di attività stabile, a partire dal quale la prestazione di servizi viene resa», mentre, in assenza di tale sede o di tale centro di attività stabile, si considera «il luogo del suo domicilio o della sua residenza abituale». (25) Causa C-190/95, in Riv. dir. trib., 1998, III, 3 ss., con nota di S. ARMELLA, Il regime iva delle operazioni di leasing dei mezzi di trasporto in ambito comunitario. La sentenza (unitamente a quella denominata Berkholz) è citata nel recente arresto della Suprema Corte 17 gennaio 2013, n. 1103. (26) La Corte afferma che, se una società di leasing, come nel caso di specie, non dispone in un altro Stato membro di personale proprio e nemmeno di una struttura avente un sufficiente grado di stabilità, nell’ambito della quale possano essere redatti contratti, ovvero prese decisioni amministrative, tale struttura non è suscettibile di rendere possibili in modo autonomo le prestazioni di servizi in questione

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essendo il principio generale di cui all’art. 9, par. 1, in esame «un criterio sicuro, semplice e concretamente attuabile», il quale tiene «conto della realtà economica». Nel solco tracciato da questo arresto si colloca la sentenza 7 maggio 1998, Lease Plan (27), secondo cui «un’impresa stabilita in uno Stato membro che concede in locazione o in leasing un certo numero di autoveicoli a clienti stabiliti in un altro Stato membro, non dispone, per il solo fatto di tale concessione in locazione, di un centro di attività stabile nell’altro Stato membro», in assenza in quest’ultimo di proprio personale e di una struttura avente un sufficiente grado di stabilità. La successiva sentenza 23 marzo 2006, FCE Bank (28), confezionata per effetto di una domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dalla Corte di cassazione italiana (29), ha esaminato il caso di una sede secondaria, situata in Italia, di una società (30) stabilita nel Regno Unito, il cui oggetto sociale consisteva nello svolgimento di attività finanziarie. La succursale italiana aveva ricevuto alcune prestazioni di servizi da parte della casa madre relativamente alle materie della consulenza, gestione, formazione del personale, del trattamento di dati, e di fornitura e gestione di servizi di software. La succursale aveva chiesto il rimborso dell’iva assolta su queste prestazioni ricevute, le quali erano state «autofatturate» e l’amministrazione finanziaria aveva opposto il silenzio rifiuto, la cui impugnazione aveva dato luogo ad un giudizio, che la Corte di cassazione ha ritenuto di sospendere, sottoponendo tre questioni pregiudiziali alla Corte di giustizia europea. Quest’ultima, nell’arresto citato, afferma che la succursale non sopporta i rischi economici collegati all’esercizio dell’attività creditizia, tra i quali, a titolo meramente esemplificativo, il mancato rimborso di prestiti da parte di alcuni clienti. La banca, quale persona giuridica, sopporta tali rischi ed è soggetta, nello Stato membro di origine, ad un controllo di solidità finanziaria e di solvibilità. La succursale stabilita in Italia non ha un proprio fondo di dotazione ed è giuridicamente dipendente dalla casa madre, con la quale forma un unico soggetto passivo e, quale corollario, l’accordo per la

(riconducibili essenzialmente alla locazione di veicoli in leasing, compresa la negoziazione, la stesura, la sottoscrizione e la gestione dei relativi contratti) e non può essere qualificata come un centro di attività stabile in tale Stato, in virtù dell’art. 9, par. 1 della sesta direttiva n. 77/388. (27) Nella causa C-390/96, in Riv. dir. trib., 1999, III, 3 ss., con nota di P. PISTONE, Centro di attività stabile e stabile organizzazione: l’iva richiede un’evoluzione per il XXI secolo?, relativa ad una società di leasing, come la causa ARO Lease sopra citata. (28) Nella causa C-210/04, in G.T.-Riv. giur. trib., 2006, 651 ss., con commento di P. CENTORE, «Centro stabile» e «stabile organizzazione» ai fini iva. (29) Trattasi dell’ordinanza della Suprema Corte 23 aprile 2004, n. 7851, in Riv. dir. trib. int., 2004, 1181 ss., con nota di R. SUCCIO, Rimessa alla Corte di giustizia CE la soggettività giuridico-tributaria, ai fini dell’imposta sul valore aggiunto, della stabile organizzazione. (30) La FCE Bank.

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ripartizione dei costi non è stato negoziato da soggetti tra loro indipendenti, vale a dire distinti ed autonomi. Proseguendo questa breve ricognizione giurisprudenziale, l’arresto 28 giugno 2007, Planzer Luxembourg (31), sottolinea nuovamente che il centro di attività stabile presuppone «una consistenza minima, data la presenza permanente dei mezzi umani e tecnici necessari per determinate prestazioni di servizi» e, conseguentemente, «un grado sufficiente di permanenza ed una struttura idonea, sul piano del corredo umano e tecnico, a rendere possibili in modo autonomo le prestazioni di servizi considerate» (32). Alla luce di questa sintetica ricognizione nella giurisprudenza della Corte di giustizia, emerge che il concetto che ne occupa è largamente differenziato, sul versante dell’iva, rispetto alla stabile organizzazione ai fini delle imposte sui redditi, come risulta dal modello di convenzione dell’OCSE (33). Al punto che potrebbe sussistere una stabile organizzazione per uno dei due settori dell’imposizione, ma non per l’altro, secondo una combinazione fattuale che può presentare, in concreto, una molteplicità di sfaccettature. La sovrapposizione dei relativi concetti, pertanto, non è consentita, laddove tale approccio interpretativo, che privilegia l’individuazione di una categoria unitaria e unificante, ma che unitaria non è, può condurre a risultati ermeneutici non poco discutibili e financo fuorvianti. Per queste ragioni, non può essere condiviso l’orientamento della Suprema Corte (34), secondo cui, «in tema di iva, la nozione di stabile organizzazione di una società straniera va desunta dall’art. 5 del modello di convenzione OCSE contro la doppia imposizione e dal suo commentario, integrata con i requisiti prescritti dall’art. 9 della sesta direttiva CEE n. 77/388 del Consiglio del 17 maggio 1977 per l’individuazione di un centro di attività stabile» (35). Quest’ultimo, secondo tale prospettiva, può estrinsecarsi in «un’entità dotata di personalità giuridica, alla quale la società straniera abbia affidato anche di fatto la cura di affari», sia pure con l’esclusione delle attività di carattere

(31) Nella causa C-73/06, massimata in Corr. trib., 2007, 2605, con commento di P. CENTORE. (32) In negativo, afferma la sentenza in esame che «non costituisce un centro di attività stabile un’istallazione fissa utilizzata ai soli fini di effettuare, per conto dell’impresa, attività di carattere preparatorio o ausiliario quali l’assunzione del personale o l’acquisto dei mezzi tecnici necessari allo svolgimento delle attività dell’impresa». (33) Cfr. D. AVOLIO, B. SANTACROCE, Il difficile rapporto della giurisprudenza di merito con le indicazioni fornite dall’OCSE, in G.T.-Riv. giur. trib., 2010, 1080 ss. (34) Sentenza 29 maggio 2012, n. 20678, in Corr. trib., 2012, 2263 ss., con commento di D. AVOLIO, B. SANTACROCE, Per la stabile organizzazione basta l’affidamento degli affari. (35) Nello stesso senso, cfr. Cass. 28 giugno 2012, n. 10802; Cass. 21 aprile 2011, n. 9166; Cass. 15 febbraio 2008, n. 3889, in Rass. trib., 2008, 750 ss., con commento di P. CENTORE, La rilevanza (parziale) della stabile organizzazione ai fini dell’iva; Cass. 28 luglio 2006, n. 17206; con riferimento esplicito al concetto di stabile organizzazione, che va espunto dal modello OCSE, opportunamente integrato, ai fini dell’iva, con quello più restrittivo previsto dall’ordinamento comunitario, v. Cass. 25 luglio 2002, n. 10925.

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preparatorio o ausiliario come, ad esempio, la fornitura di know how (36). Al fine di provare l’espletamento di tale attività da parte del soggetto nazionale, secondo l’orientamento della Suprema Corte, occorre fare riferimento agli elementi indicati nell’art. 5 del modello di convenzione OCSE, oltre che ad «elementi indiziari, quali l’identità delle persone fisiche che agiscono per l’impresa straniera e per quella nazionale, ovvero la partecipazione a trattative o alla stipulazione di contratti, indipendentemente dal conferimento di poteri di rappresentanza» (37). «Si ha stabile organizzazione di una società straniera in Italia quando questa abbia affidato, anche di fatto, la cura dei propri affari in territorio italiano ad altra struttura munita o no di personalità giuridica». Al riguardo, la commistione tra gli elementi ricavabili dall’art. 5 del modello di convenzione OCSE contro le doppie imposizioni ed i requisiti previsti per l’esistenza di un centro di attività stabile, ai sensi dell’art. 9 della direttiva n. 77/388, non coglie affatto nel segno, laddove non considera la netta differenza settoriale tra le imposte sui redditi e l’iva. L’approccio della Suprema Corte, in altre parole, sembra pervenire ad una nozione eclettica di stabile organizzazione, che attinge simultaneamente da più fonti del tutto eterogenee e non è suscettibile di valorizzare appieno le peculiarità (ed i principi generali) del sistema dell’iva. 4 I rapporti tra la casa madre, soggetto passivo stabilito in uno Stato

membro e la sua stabile organizzazione situata in un altro Stato membro: unicità del soggetto passivo, il quale coincide con la casa madre, alla luce dell’arresto FCE Bank

Come già sottolineato in relazione all’arresto FCE Bank, la Corte di giustizia europea ha statuito che la sede secondaria in Italia di una società stabilita nel Regno Unito, esercente l’attività bancaria, «costituisce un soggetto passivo unico», laddove la filiale non sopporta i rischi economici connessi all’esercizio di tale attività e non dispone di un proprio fondo di dotazione.

(36) V. le sentenze n. 10802/2012, 9166/2011, 3889/2008 e 17206/2006, cit. nella nota precedente. (37) In senso sintonico, cfr. Cass. 7 ottobre 2011, n. 20597, in Corr. trib., 2011, 4015 ss., con commento di M. PENNESI, Le sedi plurime a direzione unitaria sono stabile organizzazione; Cass. 9166/2011, cit. Si veda anche P. VALENTE, La stabile organizzazione nelle disposizioni interne e convenzionali e nella sentenza della Corte di Cassazione n. 20597/2011, in Fisco, 2011, 1-6831 ss. Sottolinea l’arresto n. 20597/2011, cit., che l’accertamento della sussistenza dei requisiti del centro di attività stabile o della stabile organizzazione dev’essere condotto non solamente sul piano formale, ma anche e soprattutto su quello sostanziale. Con riferimento alle imposte sui redditi, v. Cass. 9 aprile 2010, n. 8488, in Corr. trib., 2010, 2159 ss., con commento di D. AVOLIO, B. SANTACROCE, C’è stabile organizzazione anche se l’agente segue le direttive della società, relativamente all’art. 5 della Convenzione italo-svizzera contro le doppie imposizioni, ratificata con legge n. 943/1978.

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Conseguentemente, il ribaltamento di costi tra la casa madre stabilita in uno Stato membro ed un centro di attività stabile situato in un altro Stato membro, «in materia di consulenza, gestione, formazione del personale, trattamento di dati, nonché di fornitura e gestione di servizi di software», non è suscettibile di far assumere a tale centro di attività stabile la qualifica di soggetto passivo autonomo rispetto alla casa madre (38). Alla luce di tale fondamentale arresto, sotto il profilo delle prestazioni di servizi, non opera una vera e propria frattura, sul versante soggettivo, tra la casa madre ed il centro di attività stabile o la stabile organizzazione, ma semmai sussiste una linea di continuità, correlata alla unicità del soggetto passivo (39). Tale assunto, peraltro, è confermato dalle seguenti disposizioni: a) l’art. 10 del regolamento n. 282/2011, con riferimento all’individuazione dei criteri generali, per stabilire il luogo delle operazioni imponibili, ai fini dell’applicazione degli artt. 44 e 45 della direttiva n. 2006/112; b) l’art. 17, par. 1 di quest’ultima direttiva, il quale assimila ad una cessione di beni, espletata a titolo oneroso, il trasferimento di beni mobili materiali, mediante spedizione o trasporto da parte del soggetto passivo o per suo conto, in un altro Stato membro, «per le esigenze della sua impresa». Tale assimilazione sembra necessaria proprio in virtù della negazione del requisito della terzietà del soggetto (ivi compresa la stabile organizzazione stabilita in uno Stato membro) che riceve il bene mobile materiale, rispetto al soggetto che invia il bene medesimo, vale a dire la casa madre, stabilita in un altro Stato membro (40). Conseguentemente, è del tutto condivisibile quanto affermato da un’autorevole dottrina (41), secondo cui «l’esistenza della stabile organizzazione non determina una soluzione di continuità nella soggettività del soggetto non residente, essa è solo una struttura operativa che, nei limiti ricavabili dal sistema delle disposizioni della direttiva 2006/112/CE del 28 novembre 2006, e successive modificazioni, assume una rilevanza quale

(38) Sul sistema delle regole doganali, sotto il profilo dei rapporti tra stabile organizzazione e casa madre, cfr. S. MAYR, B. SANTACROCE, Stabile organizzazione: tematiche e prospettive, cit., loc. cit., 1958 s., i quali sottolineano l’approccio dualistico, che implica una distinzione tra la stabile organizzazione e la casa madre, con una serie di corollari sia sul versante identificativo, sia su quello accertativo. (39) Per tali motivi, è condivisibile l’assunto di P. CENTORE, La stabile organizzazione è un normale «taxpayer» ai fini iva?, in Corr. trib., 2013, 1884, secondo cui «la stabile organizzazione iva non ha una forza attrattiva come quella ai fini reddituali, nel senso che ad essa vanno imputate le operazioni effettivamente effettuate, in senso attivo e passivo, e vanno in ogni caso esclusi i rapporti con la casa madre, rimanendo la stabile organizzazione una filiale, priva di alterità rispetto alla sede centrale». (40) In senso sintonico, cfr. P. CENTORE, La nuova iva europea e nazionale. L’evoluzione verso il regime definitivo, Milano, 2011, 148. (41) Precisamente da M. BASILAVECCHIA, Novità in tema di detrazione e di stabile organizzazione, in Corr. trib., 2009, 3262.

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centro di imputazione di alcuni effetti giuridici connessi all’applicazione dell’iva, senza peraltro assurgere a soggetto autonomo e distinto rispetto al soggetto cui “appartiene”». Tuttavia, si dovrebbe pervenire ad una diversa conclusione qualora la stabile organizzazione agisca con un elevato grado di autonomia, rispetto alla casa madre, suscettibile di frantumare l’assenza di terzietà, che ordinariamente governa i rapporti in questione. In questa ipotesi, la stabile organizzazione assumerebbe la veste giuridica della soggettività passiva, in considerazione dell’ampia definizione contenuta nell’art. 9 della direttiva n. 2006/112 e, lungi dall’essere una mera «scatola vuota», sarebbe autonomamente soggetta ad imposta (42), vale a dire potrebbe espletare operazioni rilevanti, ai fini dell’iva, indipendentemente dalla casa madre, in quanto soggetto terzo rispetto a quest’ultima (43).

5 Le prestazioni di servizi tra la stabile organizzazione nel territorio dello Stato ed i soggetti terzi, nell’ipotesi di effettivo e diretto coinvolgimento della prima nell’espletamento delle operazioni, attive e passive. Il problema del soggetto debitore dell’imposta verso l’erario, alla luce degli artt. 192 bis della direttiva n. 2006/112 e 53 del regolamento n. 282/2011

Non richiede particolari approfondimenti di tipo sistematico la fattispecie nella quale il soggetto stabilito in un altro Stato membro effettui un’operazione verso terzi, sia nell’ipotesi in cui non abbia istituito una stabile organizzazione in Italia, sia in quella che l’abbia istituita, a condizione che tale stabile organizzazione non sia coinvolta, in senso attivo o passivo, nell’operazione medesima, vale a dire a condizione che sia estranea rispetto a tale operazione. Al contrario, occorre soffermarsi sull’ipotesi inversa, vale a dire qualora sussista un effettivo e diretto coinvolgimento della stabile organizzazione nell’effettuazione delle operazioni, attive e passive. Le problematiche non poco delicate emergenti in tale fattispecie sono duplici, laddove, da un lato, occorre individuare con precisione il luogo delle prestazioni di servizi, al fine di eliminare il potenziale conflitto territoriale tra Stati membri e, dall’altro lato, dev’essere esaminata la tematica del soggetto debitore dell’imposta verso l’erario, alla luce degli artt. 192 bis della direttiva n. 2006/112 e 53 del regolamento n. 282/2011. Sotto il primo profilo, si applicano le disposizioni contenute negli artt. 44 e 45 della direttiva n. 2006/112. Il luogo delle prestazioni di servizi rese a una stabile organizzazione del soggetto passivo coincide col luogo in cui è stabilita quest’ultima e non con quello nel quale tale soggetto passivo ha (42) In senso sintonico, cfr. Corte di giustizia europea 25 ottobre 2012, Daimler, nelle cause riunite C-318/11 e C-319/11, cit. (43) Nello stesso senso, cfr. P. CENTORE, La stabile organizzazione è un normale «taxpayer» ai fini iva?, cit., loc. cit., 1884 s.

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fissato la sede della propria attività economica (44). Come già anticipato nel precedente paragrafo 2 di questa ricerca, il concetto di stabile organizzazione, ai fini dell’applicazione degli artt. 44 e 45 da ultimo citati, è precisamente individuato dall’art. 11, par. 1 e 2 del regolamento n. 282/2011. Ne consegue che sussiste un assetto ordinamentale sufficientemente chiaro con riferimento, sia alle regole relative all’esatta individuazione del luogo delle prestazioni di servizi, sia ai fini della nozione di stabile organizzazione, in considerazione dell’esperienza giurisprudenziale della Corte di giustizia europea, la quale, come è già stato sottolineato, ha stabilito alcuni importanti principi (45). A tale riguardo, risultano precisati con apprezzabile rigore i profili rispettivamente territoriale e soggettivo, nonostante la sovrapposizione di norme collocate in fonti diverse, laddove gli artt. 44 e 45 della direttiva n. 2006/112 postulano l’implementazione negli ordinamenti domestici degli Stati membri, contrariamente all’art. 11 del regolamento n. 282/2011, che non richiede tale recepimento. Conseguentemente, la stessa fattispecie risulta in parte qua disciplinata da norme che si collocano in tre tipologie di atti normativi, vale a dire a livello di direttiva (n. 2006/112), regolamento (n. 282/2011) e disciplina interna di implementazione della prima, con la necessità di confrontare, sul versante metodologico, ogni singolo comma della disciplina domestica con quella contenuta nella medesima direttiva, alla luce delle disposizioni regolamentari e della pertinente giurisprudenza della Corte di giustizia europea. Sotto il profilo del soggetto debitore dell’imposta verso l’erario, occorre considerare l’art. 192 bis della direttiva n. 2006/112, la cui ratio è quella di chiarire e semplificare l’applicazione del sistema di inversione contabile (vale a dire, del reverse charge) (46), in presenza di un soggetto passivo stabilito in uno Stato membro identificato anche in un altro Stato membro, in cui è debitore d’imposta, attraverso una stabile organizzazione, per effetto dell’espletamento di cessioni di beni, ovvero di prestazioni di servizi (47). Più precisamente, l’art. 192 bis risolve la questione della precisa individuazione del debitore dell’imposta verso l’erario, laddove distingue opportunamente se l’operazione (cessione di beni o prestazione di servizi imponibile) è espletata da o nei confronti del soggetto passivo non stabilito nel territorio dello Stato membro in questione, ovvero della sua stabile organizzazione localizzata nel territorio di quest’ultimo Stato, nel quale è debitore di imposta. Difatti, se la controparte è un soggetto passivo non stabilito nel territorio dello Stato membro in cui è debitore dell’imposta o, al contrario, è ivi stabilito, rileva in modo non poco significativo.

(44) In tal senso dispone l’art. 44 della direttiva n. 2006/112. Ai sensi del successivo art. 45, se una stabile organizzazione effettua prestazioni di servizi a persone che non sono soggetti passivi, il luogo delle prestazioni di tali servizi è quello nel quale è situata la stabile organizzazione e non quello in cui è fissata la sede dell’attività economica della casa madre. (45) Si veda, in proposito, il paragrafo 3 di questa ricerca. (46) Cfr. P. CENTORE, La nuova iva europea e nazionale, cit., 150 ss. (47) Al riguardo, cfr. gli artt. 193 e seguenti della direttiva n. 2006/112.

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Nel primo caso, è applicabile, in via di principio, il regime del reverse charge (48), vale a dire l’integrazione della fattura (da parte del cessionario del bene o del committente del servizio) emessa senza iva dal soggetto passivo stabilito in un altro Stato membro (49). Nel secondo caso, invece, la disciplina applicabile sarà quella ordinaria, secondo cui «l’iva è dovuta dal soggetto passivo che effettua una cessione di beni o una prestazione di servizi imponibile» (50) e, com’è noto, dovrà essere emessa la fattura con addebito dell’iva da parte del cedente il bene o del prestatore del servizio. In questa prospettiva, l’art. 192 bis in esame è caratterizzato da un formulazione a dir poco oscura e di non facile comprensione, oltre che da una collocazione infelice, sul versante sistematico. Tale articolo, tuttavia, ha il pregio di risolvere la problematica in questione affermando che un soggetto passivo (casa madre), il quale dispone di una stabile organizzazione nel territorio di uno Stato membro in cui è debitore dell’imposta, è considerato soggetto passivo ivi non stabilito, al verificarsi delle seguenti due condizioni: (a) esso effettua in tale Stato una cessione di beni, ovvero una prestazione di servizi imponibile; (b) la stabile organizzazione non partecipa all’operazione di cui alla precedente lettera a). Nell’ipotesi in esame, si rende applicabile la disciplina dell’inversione contabile (reverse charge), mentre, a parità di altre condizioni, se la stabile organizzazione partecipa all’effettuazione dell’operazione imponibile, si applica il meccanismo ordinario e non quello dell’inversione contabile (51).

6 Osservazioni conclusive. La funzione primaria espletata dal concetto di stabile organizzazione, sotto il profilo dell’iva, è riconducibile alla necessità di una ripartizione territoriale uniforme tra gli Stati membri, fondata su criteri razionali e largamente oggettivi

Alla luce di quanto affermato, possono essere tratti i più immediati corollari. Innanzi tutto, la tematica della stabile organizzazione, ai fini dell’iva (52), si configura come un concetto sempre più ricco di sfaccettature (53).

(48) Secondo le condizioni di applicazione stabilite dagli Stati membri, in considerazione dell’art. 194 della direttiva n. 2006/112. (49) Sul meccanismo del reverse charge, cfr. M. MERKX, Fixed Establishments and VAT Liabilities under EU VAT – Between Delusion and Reality, in International VAT Monitor, 2012, 22 ss. e specialmente 24 ss. (50) Così dispone l’art. 193 della direttiva n. 2006/112. (51) Cfr., in senso sintonico, P. CENTORE, Iva europea. Percorsi commentati, cit., 319. (52) Sull’esistenza di una stabile organizzazione, ai fini dell’iva, v. anche Comm. trib. prov. Milano 12 settembre 1997, in Riv. dir. trib., 1998, IV, 96 ss., con nota di P. ADONNINO, L’individuazione della stabile organizzazione e la prova della sua esistenza e in Giur. it., 1998, 829 ss., con nota di M. CERRATO, Considerazioni in tema di stabile organizzazione ai fini dell’iva e delle imposte sui redditi; Comm. trib. prov. Milano 25 marzo 1999, in Riv. dir. trib., 1999, IV, 189 ss., con nota dello stesso

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L’assetto della disciplina ut supra analizzato, sia pure in modo necessariamente sintetico, lascia emergere una nozione non poco divergente da quella prevista ai fini delle imposte sui redditi, con particolare riferimento al modello di convenzione OCSE contro le doppie imposizioni. Di conseguenza, palesa una forzatura, sul versante ricostruttivo, l’orientamento della Suprema Corte finalizzato a valorizzare, sul piano dell’iva, la disciplina della stabile organizzazione ai fini delle imposte sui redditi, laddove non dev’essere affatto obliterata la specificità che caratterizza il sistema dell’iva europea, quale tributo largamente armonizzato nell’alveo del diritto dell’Unione Europea, rispetto alla sfera dell’imposizione sui redditi, dove la sovranità degli Stati membri resta tuttora non poco ampia. D’altro canto, manca una vera e propria definizione di stabile organizzazione nel testo della direttiva n. 2006/112, mentre utili elementi, sul versante ricostruttivo, possono essere ricavati dal testo degli artt. 11 e 53 del regolamento n. 282/2011. Da essi scaturisce un concetto largamente ancorato al duplice profilo del sufficiente grado di permanenza della struttura e dell’idoneità di quest’ultima, mediante una combinazione di mezzi umani e tecnici, a ricevere o espletare prestazioni di servizi e/o cessioni di beni. Questa impostazione lascia trasparire un approccio pragmatico alla tematica che ne occupa e consente di enfatizzare i profili fattuali della singola fattispecie, riconducibile (o meno) alla stabile organizzazione, nella prospettiva di affrancare largamente quest’ultima da apprezzamenti di carattere soggettivo, dipendenti dalle conoscenze tecniche e dall’esperienza maturata dal soggetto valutatore. Sono state affrontate, inoltre, le problematiche afferenti alle cessioni di beni ed alle prestazioni di servizi poste in essere tra il soggetto passivo stabilito in uno Stato membro e la sua stabile organizzazione di cui dispone lo stesso soggetto in un altro Stato membro, considerando l’unicità del soggetto passivo medesimo, sul versante dell’iva, sia pure con alcune eccezioni. Più complesso appare l’inquadramento delle operazioni espletate tra il soggetto passivo (casa madre), la sua stabile organizzazione stabilita in un altro Stato membro e gli operatori nazionali situati in quest’ultimo Stato, sotto il profilo dell’applicazione o meno del meccanismo dell’inversione contabile (reverse charge). Al riguardo, gli artt. 192 bis della direttiva n. 2006/112 (nonostante la sua formulazione tutt’altro che chiara e la sua collocazione infelice) e 53 del regolamento n. 282/2011 offrono all’interprete

Autore, La stabile organizzazione nelle imposte dirette e nell’iva tra irrilevanza del controllo societario e coincidenza con il concetto di centro di attività stabile. (53) Cfr. C. CLÉMENT, La notion d’établissement stable en matière de TVA, in Revue de Jurisprudence fiscal, 1997, 296 ss.; A. FIORELLI, A. SANTI, Specificità del concetto di “stabile organizzazione” ai fini dell’imposta sul valore aggiunto, in Rass. trib., 1998, 367 ss.; P. LUDOVICI, Il regime impositivo della stabile organizzazione agli effetti dell’imposta sul valore aggiunto, in Riv. dir. trib., 1998, I, 67 ss.; ID., Recenti orientamenti di prassi amministrativa in merito all’applicazione dell’iva nei rapporti internazionali, ivi, IV, 249 ss.; G. SMUSSI, A. PERANI, Il concetto di stabile organizzazione ai fini iva, in Corr. trib., 1999, 2783 ss.

I RAPPORTI, SOTTO IL PROFILO DELL’ IVA , TRA STABILE

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gli strumenti fondamentali per risolvere, caso per caso, il problema che ne occupa, la cui soluzione è strettamente collegata all’eventuale partecipazione effettiva e concreta della stabile organizzazione all’effettuazione della singola cessione di beni o prestazione di servizi. Se sussiste la partecipazione in questione si realizzano le condizioni per l’applicazione del meccanismo ordinario di funzionamento del tributo, mentre se la stessa partecipazione non ha luogo, l’operazione si considera svolta con un soggetto passivo non stabilito nello Stato in cui quest’ultimo è debitore dell’imposta ed opera il sistema dell’inversione contabile (reverse charge), con integrazione della fattura, a cura del cessionario del bene o del committente del servizio. L’assetto della disciplina in questione appare largamente collegato all’individuazione dei criteri definitori della partecipazione della stabile organizzazione all’effettuazione della cessione di beni e/o della prestazione di servizi, suscettibile di determinare l’applicazione o la non applicazione del regime dell’inversione contabile (reverse charge), con tutte le conseguenze che ne scaturiscono, sul versante applicativo. Più in generale, la funzione essenziale espletata dal concetto di stabile organizzazione, sotto il profilo dell’iva, è riconducibile alla necessità di una ripartizione territoriale uniforme tra gli Stati membri (54), fondata su criteri razionali e largamente oggettivi. Difatti, occorre evitare potenziali conflitti di competenza territoriale tra gli Stati medesimi, qualora un soggetto passivo stabilito in uno Stato membro svolga la propria attività economica in un altro Stato membro, mediante una stabile organizzazione. I suddetti criteri sono finalizzati a stabilire quali regole domestiche (ancorché largamente armonizzate in tutta l’Unione europea) devono essere applicate alle operazioni espletate, anche in relazione all’eventuale criterio dell’inversione contabile (reverse charge), con tutti i corollari che discendono da questa precisa e razionale individuazione.

(54) Di vere e proprie «ramificazioni territoriali» dei gruppi multinazionali, i quali si comportano come un’impresa unica a livello mondiale, parla A. TOMASSINI, Stabili organizzazioni, cit., loc. cit., 1498.

Prof. Angelo Contrino Professore Università Bocconi di Milano

Stabile organizzazione e credito per le imposte estere*

* La relazione, non pervenuta in tempo per l’inserimento nel volume, appena

disponibile verrà pubblicata sul sito www.uckmar.net

Prof. Giuseppe Corasaniti Professore Università degli Studi di Brescia

La stabile organizzazione e l’ exit taxation

SOMMARIO: 1 Introduzione - 2 La giurisprudenza della Corte di Giustizia sul trasferimento di residenza delle società: il caso National Grid Indus BV. -2.1 (segue) Il caso Commissione c. Spagna - 2.2 (Segue) Il caso Commissione c. Danimarca. - 2.3 (Segue) Il caso pendente DMC - 3 La normativa italiana sul trasferimento all’estero della residenza dei soggetti esercenti attività di impresa commerciale: l’art. 166 TUIR. - 3.1 Il decreto attuativo di cui all’art. 166, comma 2-quinquies, TUIR - 4

Conclusioni.

1 Introduzione.

Al fine di contrastare possibili fenomeni evasivi salvaguardando al contempo la coerenza del proprio sistema fiscale interno, numerosi Stati membri dell’Unione Europea hanno introdotto disposizioni volte ad assoggettare ad imposta i valori latenti maturati da imprese residenti che, trasferendosi all’estero, finirebbero col realizzare tali plusvalori nel nuovo Stato di residenza ove risulterebbero imponibili, frustrando così la potestà impositiva dello Stato di origine. Coerentemente con tale ratio, il regime della cd. exit tax non si applica allorquando i beni o i fondi in sospensione di imposta confluiscono in una stabile organizzazione del soggetto che si trasferisce1. Tale misura, oltre a suscitare preoccupazione tanto nelle singole imprese quanto nei grandi gruppi societari, ha attirato l’attenzione degli organi europei (in particolare della Commissione e della Corte di Giustizia UE), che, pur condividendo la ratio sottostante il regime in commento, ne hanno di fatto dichiarato l’incompatibilità con l’ordinamento europeo nei limiti in cui esso ostacola la libertà di stabilimento di attività economiche nel territorio dell’Unione e dello Spazio economico europeo anche nell’ambito di operazioni di riorganizzazione societaria. Già a partire dal 2006 il tema della compatibilità della exit tax con l’ordinamento europeo è al centro dell’attenzione degli organi europei quando, con la COM(2006)825, la Commissione europea, alla luce di quanto 1 Cfr. V. Uckmar, G. Corasaniti, P. De’ Capitani di Vimercate, C. Corrado Oliva, Diritto tributario internazionale, Manuale, seconda edizione, Padova, 2012, 241 ss; J. Van Hoorn jr, Il trasferimento di sede di società alla luce del diritto comunitario, in Dir. prat. trib., 1989, II, 383; L. Miele, “Exit Tax” sul trasferimento della residenza fiscale all’estero, in Corr. Trib., 6, 2010, 434 ss; T. O’Shea, European Tax Controversies: A British –Dutch Debate: Back to Basics and Is the ECJ Consistent?, in World Tax Journal, February 2013, 100 ss.

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disposto nella sentenza De Lasteyrie du Salliant2 in cui la Corte di Giustizia ha dichiarato incompatibile con la libertà di stabilimento la exit tax francese sui plusvalori latenti in capo ad una persona fisica all’atto di trasferirsi in uno Stato membro diverso da quello di origine, aveva individuato nella disciplina relativa alla exit tax una possibile area di coordinamento normativo europeo, senza tuttavia che tale auspicio trovasse accoglimento nelle legislazioni dei singoli Stati membri. È stata pertanto la giurisprudenza della Corte di Giustizia UE a dover colmare tale mancanza di coordinamento e adeguamento normativo, definendo i confini di una disciplina che risulta oggi notevolmente ridimensionata e proporzionata al contesto europeo. Lo stesso legislatore italiano, preso atto degli orientamenti espressi dalla Corte di Giustizia nonché dei rilievi mossi dalla Commissione Europea, ha introdotto delle modifiche nella propria normativa interna che tuttavia, in assenza di una disciplina attuativa che ne definisca i contorni, non consente agli operatori di cogliere appieno quanto il legislatore nazionale abbia recepito degli orientamenti espressi in sede europea.

2 La giurisprudenza della Corte di Giustizia sul trasferimento di residenza delle società: il caso National Grid Indus BV.

La giurisprudenza della Corte di Giustizia ha come detto sostanzialmente riscritto la disciplina di numerosi Stati membri in materia di exit tax dapprima definendone i limiti con riferimento alle persone fisiche e successivamente con riferimento a quelle giuridiche. Se in materia di persone fisiche, con le sentenze 11 maggio 2004, causa C-09/02, Lasterye du Saillant e 7 settembre 2006, causa C – 470/04, N3, la Corte di Giustizia ha avuto modo di dichiarare incompatibili con la libertà di stabilimento le misure nazionali che, pur essendo dettate dall’esigenza di prevenire il rischio di evasione, introducono un meccanismo di imposizione delle plusvalenze latenti in caso di trasferimento del domicilio fiscale al di fuori dello Stato4, in materia societaria5 il leading case è rappresentato dalla sentenza National Grid Indus6.

2 Sentenza 11 marzo 2004, C – 9/02, in GT - Riv. giur. trib., 6, 2004, 505, con commento di M. Muscolino. 3 Cfr., S. Boers, Attualità ed esperienza nella exit tax olandese, in Rass. Trib., 4, 2006, 1401. 4 L’art. 167-bis del Code général des impots dispone che: “I contribuenti fiscalmente domiciliati in Francia per un periodo di almeno sei anni nel corso degli ultimi dieci anni sono soggetti ad imposizione fiscale, alla data del trasferimento del loro domicilio al di fuori della Francia, per le plusvalenze accertate sui diritti societari menzionati dall’art. 160”. L’art. 160 dispone che “Qualora un socio, azionista, accomandatario, o portatore di quote beneficiarie cede, nel corso della durata della società, tutti o parte dei propri diritti societari, l’eccedenza del prezzo di cessione di tali diritti rispetto al prezzo di acquisto (…) è imputata esclusivamente all’imposta sul reddito al tasso del 16%. In

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Il caso era quello di una società a responsabilità limitata di diritto olandese che aveva trasferito la propria sede amministrativa dai Paesi Bassi al Regno Unito senza lasciare nei Paesi Bassi una stabile organizzazione in cui far confluire i beni su cui fossero nel frattempo maturati plusvalori latenti7. La normativa olandese allora vigente prevedeva che tali plusvalenze latenti si sarebbero dovute considerare realizzate nel periodo d’imposta in cui la società aveva cessato di produrre redditi imponibili nei Paesi Bassi, trasferendo all’estero la sua sede. La contestazione mossa nei confronti della società da parte dell’Amministrazione finanziaria olandese per il mancato assolvimento dell’imposta in Olanda era stata impugnata e, in secondo grado, il giudizio era stato sospeso al fine di sottoporre alla Corte di Giustizia la questione pregiudiziale concernente la compatibilità del regime olandese in materia di exit tax con la libertà di stabilimento di cui all’art. 43 CE (oggi art. 49 TFUE). La Corte, dopo aver verificato la compatibilità della legislazione nazionale con la libertà di stabilimento alla luce dei principi elaborati nelle sentenze Daily Mail e Cartesio8, ha osservato come [l]a normativa nazionale di cui alla causa principale non riguarda la determinazione delle condizioni richieste da uno Stato membro ad una società, costituita conformemente alla sua legislazione, affinché possa mantenere il proprio status di società di tale Stato membro dopo il trasferimento della propria sede amministrativa effettiva in un altro Stato membro. Al contrario, la suddetta normativa si caso di cessione di uno o più titoli appartenenti ad una serie di titoli della medesima natura acquistati a prezzi diversi, il prezzo d’acquisto da considerare è dato dalla media ponderata del valore d’acquisto dei titoli stessi (…). L’imposizione della plusvalenza così realizzata è subordinata alla sola condizione che i diritti detenuti direttamente o indirettamente negli utili societari dal cedente o dal suo coniuge, dai loro ascendenti o discendenti, abbiano superato complessivamente il 25 per cento dei benefici stessi in un momento qualsiasi nel corso degli ultimi cinque anni. Tuttavia qualora sia consentita la cessione a favore di uno dei soggetti indicati al presente comma, la plusvalenza è esente se i suddetti diritti societari, entro cinque anni, non vengono rivenduti totalmente, o in parte, ad un terzo. In caso contrario, la plusvalenza viene assoggettata ad imposta a nome del primo cedente, nell’anno in cui è stata effettuata la vendita a terzi”. 5 G. Melis, Profili sistematici del trasferimento della residenza fiscale delle società, in Dir. prat. trib. int., 2004, 13 ss. 6 Sentenza 29 novembre 2011, National Grid Indus contro Inspecteur van Belastingdienst Rijnmond/kantoor Rotterdam, C-371/10. Cfr., in dottrina H. van den Broek, G. Meussen, National grid Indus Case: Re-Thinking Exit Taxation, in European Taxation, April 2012, 18 ss.; F. Baccaglini, National Grid Indus: aspetti sistematici delle exit taxes, in Dir. prat. trib. int., 3, 2012, 275; R. Kok, Exit Taxes for Companies in the European Union after National Grid Indus, in EC Tax Review, 4, 2012, 200. 7 In realtà l’unico plusvalore latente riguardava la differenza di cambio di un finanziamento infragruppo che la National Grid Indus BV vantava nei confronti della consociata inglese National Grid Company plc. 8 Cfr., M. A., Alan, M., Cartesio: diritto comunitario e “tassazione in uscita, in Fisc. Int., 3, 2009, 221 ss.

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limita a ricollegare ad un trasferimento di sede tra Stati membri, per le società costituite conformemente al diritto nazionale, conseguenze fiscali, senza che un tale trasferimento di sede incida sul loro status di società dello Stato membro in oggetto9. Successivamente la Corte, richiamando i principi elaborati nelle sentenze Lasteyrie du Saillant ed N., ha rilevato come [n]ella causa principale occorre constatare che una società di diritto olandese che intenda trasferire la propria sede amministrativa effettiva fuori dal territorio di tale Stato, nell’ambito dell’esercizio del diritto garantitole dall’art. 49 TFUE, subisce uno svantaggio finanziario rispetto ad una società analoga che mantenga la propria sede amministrativa effettiva nei Paesi Bassi. Ai sensi della normativa nazionale di cui alla causa principale, il trasferimento della sede amministrativa effettiva di una società di diritto olandese in un altro Stato membro comporta infatti l’immediata tassazione delle plusvalenze latenti relative agli attivi trasferiti, mentre siffatte plusvalenze non sono tassate qualora una siffatta società trasferisca la propria sede all’interno del territorio olandese. Le plusvalenze relative agli attivi di una società che effettui un trasferimento di sede all’interno dello Stato membro interessato saranno tassate solo se e nella misura in cui siano state effettivamente realizzate. Tale disparità di trattamento relativa alla tassazione delle plusvalenze è tale da scoraggiare una società di diritto olandese dal trasferire la propria residenza in un altro Stato membro10. La Corte è giunta altresì ad escludere che tale disparità risultasse in alcun modo giustificata da motivi imperativi di interesse generale ovvero ancora dalla necessità di garantire un’equilibrata ripartizione del potere impositivo tra gli Stati membri11.

Anche in materia di proporzionalità tra normativa olandese e diritto europeo, la Corte ha introdotto una distinzione tra la determinazione dell’importo del prelievo e la sua riscossione12 riconoscendo proporzionato che lo Stato membro di provenienza, allo scopo di tutelare l’esercizio della propria

9 Cfr. punto 31, sentenza C-371/10, National Grid Indus BV. 10 Cfr. punto 37, sentenza C-371/10, National Grid Indus BV. Si vedano le sentenze de Lasteyrie du Saillant, punto 46, e N., punto 35. 11 La sentenza afferma infatti che “[i]l giudice del rinvio ritiene inoltre che una tassazione del tipo di cui alla causa principale costituisca un ostacolo alla libertà di stabilimento. Il provvedimento nazionale che dà origine a tale tassazione potrebbe tuttavia risultare giustificato dallo scopo di garantire l’equilibrata ripartizione del potere impositivo tra gli Stati membri, conformemente al principio della territorialità fiscale legata ad una componente temporale. A tal fine, il giudice del rinvio spiega che l’art. 16 della Wet IB si fonda sull’idea secondo cui la totalità dell'utile generato da una società residente dev’essere tassata nei Paesi Bassi. Qualora, in seguito al trasferimento della sede amministrativa effettiva della società interessata, essa cessi di essere soggetta ad imposizione nei Paesi Bassi, le plusvalenze latenti relative agli attivi di tale società non ancora tassati nei Paesi Bassi dovrebbero essere considerate utili realizzati ed essere pertanto tassate” punto 18, sentenza C-371/10, National Grid Indus BV. 12 Cfr. punto 51, sentenza C-371/10, National Grid Indus BV.

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competenza fiscale, determini l’imposta dovuta sulle plusvalenze latenti originate sul proprio territorio nel momento in cui il suo potere impositivo nei confronti della società interessata cessa di esistere, nel caso di specie nel momento del trasferimento in un altro Stato membro della sede amministrativa effettiva di tale società13 e risolvendo la questione della determinazione dell’importo dell’exit tax nel senso per cui non osta ad una normativa di uno Stato membro ai sensi della quale l’importo del prelievo sulle plusvalenze latenti relative agli elementi patrimoniali di una società è fissato in via definitiva – senza tener conto delle minusvalenze né delle plusvalenze che possono essere realizzate successivamente – nel momento in cui la società, a causa del trasferimento della propria sede amministrativa effettiva in un altro Stato membro, cessa di percepire utili tassabili nel primo Stato membro. È irrilevante a tale riguardo che le plusvalenze latenti tassate si riferiscano a profitti sul cambio che non possono essere espressi nello Stato membro ospitante, tenuto conto del sistema fiscale in esso vigente14. Nel caso National Grid Indus, sebbene la Corte abbia giudicato la disciplina olandese in materia di exit tax sproporzionata, in quanto la riscossione al momento dell’effettivo realizzo delle plusvalenze costituirebbe una misura meno coercitiva rispetto a quella prevista dalla normativa di cui alla causa principale e non metterebbe a rischio la ripartizione del potere impositivo tra gli Stati membri15, la stessa ha anche sottolineato come nel caso di specie non fosse per contro obbligatorio scontare una riscossione differita, essendo opportuno che la persona giuridica abbia la possibilità di scegliere l’opzione da essa ritenuta più favorevole16 . Pertanto, secondo la Corte, mentre risultano incompatibili con il diritto dell’Unione quelle normative nazionali che impongono una riscossione immediata ed inderogabile di eventuali imposte sulle plusvalenze latenti nel momento del trasferimento della sede amministrativa effettiva, dall’altro lato forme di imposizione in uscita che non prevedano una riscossione immediata o che richiedano la prestazione di una garanzia non si pongono di per sé in conflitto con l’esercizio della libertà di stabilimento. Il principio espresso dalla sentenza nel caso National Grid Indus è stato successivamente ampliato nella sentenza Commissione c. Portogallo17 la

13 Vedi punto 52, sentenza C-371/10, National Grid Indus BV. 14 Cfr. punto 64, sentenza C-371/10, National Grid Indus BV. 15 Cfr. punto 65, sentenza C-371/10, National Grid Indus BV. 16 “Tuttavia – aggiunge la Corte - occorre tener conto anche del rischio di mancata riscossione dell’imposta, che aumenta con il passare del tempo. Tale rischio può essere preso in considerazione dallo Stato membro di cui trattasi, nell’ambito della propria normativa nazionale applicabile al pagamento differito dei debiti d’imposta, con misure quali la costituzione di una garanzia bancaria” punto 73, sentenza C-371/10, National Grid Indus BV. A questo proposito, la Corte menziona altresì le possibilità dischiuse dalla Direttiva 2008/55/CE in materia di assistenza alla riscossione. 17 Cfr., L. Cerioni, The “Final Word” on the Free Movement of Companies in Europe following the ECJ’s VALE Ruling and a Further Exit Tax Case?, in European Taxation, 2013, 53, 7.

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quale ha riguardato il regime di exit tax portoghese applicabile nel caso di trasferimento di attivi di una stabile organizzazione da uno Stato membro ad un altro. In tale sentenza si afferma che la medesima conclusione (contenuta nella sentenza National Grid Indus) (…) si impone per quanto riguarda la tassazione delle plusvalenze latenti relative agli attivi di una stabile organizzazione ubicata nel territorio portoghese trasferiti verso un altro Stato membro. L’osservazione (…) della sentenza National Grid Indus (…), secondo la quale gli «attivi di una società sono (…) direttamente utilizzati per attività economiche atte a generare un utile» e della quale la Repubblica portoghese si è avvalsa, è stata fatta non già nell’ambito dell’esame del carattere restrittivo della normativa nazionale pertinente nella causa di cui trattasi, ma nell’ambito dell’analisi della sua proporzionalità, in quanto rifiutava di prendere in considerazione le minusvalenze generatesi successivamente al trasferimento di sede della direzione effettiva di una società in un altro Stato membro. Orbene, non si può pertanto, (…), trarre da tale considerazione della Corte la conseguenza che, da un lato, la fine del collegamento degli attivi di una stabile organizzazione ad una qualsiasi attività economica in uno Stato membro e, dall’altro, il trasferimento di tali attivi in un altro Stato membro in occasione della cessazione dell’attività della suddetta stabile organizzazione nel primo Stato membro siano situazioni comparabili. Salvo questa precisazione, la Corte ha confermato i criteri interpretativi espressi nella sentenza National Grid Indus sia con riguardo all’assenza di proporzionalità di una exit tax a riscossione necessariamente immediata e della proporzionalità di un’eventuale norma interna che preveda interessi coi quali rivalutare il quantum della riscossione differita. Occorre osservare come la sentenza National Grid Indus sia stata oggetto di critiche in dottrina laddove afferma che, per attenuare il rischio di mancata riscossione (potenzialmente destinata ad aumentare con il passare del tempo), gli Stati membri possano prevedere l’obbligo della prestazione di una garanzia bancaria; questa disposizione, si è osservato, contrasta con quanto affermato dalla stessa Corte nel caso N., ove espressamente si è esclusa una simile possibilità18. Sempre la sentenza National Grid Indus si differenzia dalla precedente relativa al caso N. laddove esclude l’obbligo, per lo Stato membro di origine, di tener conto delle eventuali perdite di valore degli attivi trasferiti a seguito del trasferimento, essendo l’imposta sulle plusvalenze latenti determinata al momento del trasferimento. Attribuire rilevanza alle perdite di valore di beni atti a produrre reddito (definizione, questa, eccessivamente generica e non circostanziata dalla Corte) che si siano verificate successivamente al trasferimento significherebbe, secondo la Corte, non solo mettere in discussione la ripartizione equilibrata del potere impositivo tra gli Stati membri, ma anche a portare a doppie imposizioni o a doppie deduzioni di perdite.

18 Cfr. sent. N., punto 36

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Un tema decisamente controverso è quello concernente il regime degli interessi da applicare sull’imposta determinata tanto all’atto del trasferimento di sede che al momento del realizzo; in tal modo, infatti, sarebbe riconosciuto un trattamento discriminatorio tra chi trasferisce la residenza all’estero subendo la rivalutazione della plusvalenza imponibile e chi invece non si trasferisce, che resterebbe pertanto escluso da siffatta rivalutazione. Infine, occorre sottolineare come sebbene (e condivisibilimente) la sentenza National Grid Indus abbia sancito il principio della legittimità della exit tax, purché a riscossione differita, la stessa abbia omesso di precisare quando tale imposta possa dirsi esigibile.

2.1 (segue) Il caso Commissione c. Spagna.

Un caso analogo a quello affrontato nella sentenza National Grid Indus è rappresentato dalla sentenza 25 aprile 2013, causa Commissione c. Spagna, C-64/1119. In base alla normativa spagnola sull’imposta sulle società, le plusvalenze non realizzate risultavano incluse nella base imponibile dell’esercizio fiscale qualora la residenza o gli attivi di una società stabilita in Spagna fossero trasferiti in un altro Stato membro ovvero ancora nel caso in cui cessasse la stabile organizzazione spagnola20. Secondo la Commissione, tale regime risultava discriminatorio in considerazione del fatto che analoghe operazioni, qualora eseguite all’interno del territorio spagnolo, non avrebbero prodotto alcuna conseguenza fiscale immediata. La Corte, ad eccezione del caso della cessazione della stabile organizzazione spagnola, ha ritenuto che l’immediata imposizione delle plusvalenze in occasione del trasferimento della residenza o degli attivi dalla Spagna ad un

19 Occorre richiamare altresì la sentenza 6 settembre 2012, Di.Vi Finanziaria, C-380/11. In realtà questo caso rappresenta una ulteriore specificazione del tema exit tax in quanto riguardava un’agevolazione fiscale concessa dalla legislazione lussemburghese sull’imposta sul patrimonio delle società a condizione che mantenessero per almeno 5 esercizi successivi la residenza nel Granducato del Lussemburgo. Nel caso di specie, la società Di.Vi Finanziaria aveva fruito del regime in questione solo per i primi 3 periodi d’imposta; a seguito del trasferimento della residenza, la società aveva poi perso retroattivamente l’agevolazione. Di fronte alla richiesta, avanzata dall’amministrazione finanziaria lussemburghese per il recupero dell’imposta, il contribuente aveva presentato ricorso al Tribunal Administratif che a sua volta aveva rinviato la questione alla Corte di giustizia che dichiarò la normativa lussemburghese come idonea a generare una disparità di trattamento ingiustificata. Peraltro, poiché il caso di specie ruotava attorno alla revoca di un’agevolazione la Corte aveva ritenuto di dover valutare l’esistenza “di un nesso diretto tra il vantaggio fiscale di cui trattasi e la compensazione di tale vantaggio tramite un prelievo fiscale determinato che, non individuato, ha portato la Corte a dichiarare la non conformità della norma lussemburghese col diritto dell’Unione. 20 Cfr., art. 17, Legge delle imposte sulle società, lett. a) e b) e c). In dottrina A.M. Jimenez e J.M. Calderon Carrero, Le exit taxes e il diritto comunitario: l'esperienza spagnola, in Studi Tributari Europei, 1, 2009.

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altro Stato membro fosse idonea a generare una disparità di trattamento tra operazione interna ed operazione transnazionale. Secondo la Corte, infatti, il diritto dell’Unione garantisce il diritto a che le legislazioni nazionali salvaguardino la propria competenza tributaria ma, a condizione che siffatte misure rispettino in ogni caso il principio di proporzionalità. Ciò posto, la Corte ha osservato come l’ordinamento spagnolo avrebbe potuto perseguire l’obiettivo di tutelare la propria potestà impositiva prevedendo l’assoggettamento della plusvalenza realizzata a seguito del trasferimento operando come se la società interessata non si fosse mai trasferita all’estero, potendo i meccanismi di scambio di informazione tra gli Stati fornire un controllo di veridicità sulle dichiarazioni rese dalle società che decidessero di optare per il pagamento differito. A diversa conclusione si sarebbe potuto giungere qualora le plusvalenze latenti fossero state assoggettate ad imposizione nel momento in cui, secondo la legislazione dello Stato di origine, le stesse si fossero dovute assoggettare ad imposizione anche in mancanza del trasferimento transnazionale. Lo stesso governo spagnolo, infatti, aveva sostenuto che l’art. 65 della Ley General Tributaria consentiva alla società contribuente trasferente di ottenere un differimento del termine di pagamento dell’imposta, con la possibilità di usufruire della rateazione della stessa al fine di rendere maggiormente sostenibile questo tipo di imposizione. Questa misura non è stata tuttavia considerata proporzionata dalla Corte in quanto concessa in situazioni di temporanea illiquidità della società contribuente e non finalizzata a consentire l’effettiva sospensione del prelievo sulle plusvalenze latenti al momento del trasferimento.

2.2 (Segue) Il caso Commissione c. Danimarca.

Anche il regime di exit tax danese è stato oggetto di contestazione da parte della Commissione che, dopo aver inutilmente invitato il governo danese a rendere la propria normativa coerente con il diritto europeo, ha adito la Corte di Giustizia per una pronuncia giurisdizionale sul punto. Ai sensi della normativa tributaria danese, il trasferimento di elementi patrimoniali di un’impresa residente al fine di impiegarli fuori dal territorio del Regno, veniva considerato una vendita e pertanto veniva assoggettato ad imposta; al contrario, l’attività dell’impresa entro i confini dello Stato si considerava cessata solo nel momento in cui gli elementi patrimoniali della stessa non fossero stati effettivamente venduti. Pertanto, qualora un’impresa avesse trasferito degli elementi patrimoniali tra diversi centri di attività all’interno del territorio danese, la stessa non sarebbe stata assoggettata ad imposta sul valore di tali elementi patrimoniali in relazione a detto trasferimento. Viceversa, nel caso in cui la stessa impresa avesse trasferito gli elementi patrimoniali ad un centro di attività fuori dal territorio danese, tali valori sarebbero stati immediatamente assoggettati ad imposta come se fossero stati venduti. Secondo la Commissione, non vi sarebbe stata alcuna giustificazione per il recupero immediato delle plusvalenze non realizzate al momento del

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trasferimento di elementi patrimoniali dalla Danimarca ad un altro Stato membro; più precisamente, il Regno di Danimarca, secondo la Corte, avrebbe potuto sì determinare il valore delle plusvalenze non realizzate sulle quali intendeva conservare la propria giurisdizione fiscale, senza tuttavia pretendere l’immediata esigibilità dell’imposta su di esse dovuta. La Corte di Giustizia, con la sentenza 18 luglio 201321, ha così ulteriormente precisato che [l]a circonstance que des solutions choisies dans d’autres Etats membres puissent etre differentes de celle que le Royaume de Danemark est susceptible de retenir est sans incidence sur la possibilite, pour celui-ci, de percevoir, apres le transfert d’un actif dans un autre Etat membre, l’impot sur les plus-values latentes afferentes a ces actifs, des lors que l’etablissement definitif du montant de l’impot est determine au moment dudit transfert22 Ciò posto, secondo la Corte [i]l resulte de l’ensemble des considerations qui precedent qu’il convient de constater que, en adoptant et en maintenant en vigueur l’article 8, paragraphe 4, de la loi relative a l’impot sur les societes, et, partant, un regime fiscal qui prevoit la taxation immediate des plus-values latentes afferentes a un transfert d’actifs, realise par une societe etablie au Danemark, vers un autre Etat membre de l’Union ou vers un Etat tiers partie a l’accord EEE, le Royaume de Danemark a manque aux obligations qui lui incombent en vertu des articles 49 TFUE et 31 de cet accord23.

2.3 (Segue) Il caso pendente DMC.

Anche l’ordinamento tedesco in materia di exit tax potrebbe rilevare dei profili di incompatibilità europea. Il Tribunale fiscale di Amburgo24, infatti, ha richiesto alla Corte di Giustizia un’interpretazione pregiudiziale di compatibilità con il diritto europeo in relazione alla normativa sulla exit tax tedesca applicabile ratione temporis, che prevedeva l’assoggettamento ad imposta delle plusvalenze latenti derivanti dal conferimento in una società di capitali tedesca di partecipazioni in una società di persone tedesca (equiparabile ad una stabile organizzazione), quando i redditi derivanti dalla eventuale e futura cessione delle partecipazioni emesse a servizio del conferimento stesso non fossero rientrati nella potestà impositiva tedesca, essendo il soggetto non residente in Germania. In particolare, ha sottolineato l’organo remittente, [s]econdo la giurisprudenza consolidata della Corte di Giustizia devono considerarsi come restrittive della libertà di stabilimento tutte le misure che impediscono l’esercizio di tale libertà, lo ostacolano o lo rendono meno attraente

21 Commissione contro Regno di Danimarca, Causa C-261/11. 22 Cfr. punto 38. 23 Cfr., punto 48 24 Il Tribunale, nell’ordinanza di remissione, solleva altresì un dubbio di proporzionalità della normativa oggetto di contestazione nonché sulla idoneità della stessa laddove prevede la possibilità di rateizzare il versamento dell’imposta a fronte della prestazione di una garanzia, potendo anche tale previsione costituire un’ulteriore elemento di restrizione alla libertà di cui all’art. 49 TFUE.

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(giurisprudenza costante, si veda, ad esempio, Corte di Giustizia 29 novembre 2011, C-371/10, National Grid Indus). La S GmbH e la K GmbH, per il solo fatto di avere la residenza fiscale in Austria e non in Germania, hanno subito lo svantaggio di dover pagare immediatamente le imposte sulla plusvalenza latente sui beni conferiti, come riflessa nelle partecipazioni acquisite per effetto del conferimento, quando se invece avessero avuto la residenza in Germania tali plusvalenze sarebbero state assoggettate al prelievo soltanto in occasione dell’effettivo realizzo. Questo diverso trattamento della tassazione delle plusvalenze può dissuadere le società austriache dall’assumere partecipazioni in società tedesche e costituisce una restrizione alla libertà di stabilimento. La ratio della exit tax allora vigente, era quella di impedire che il conferimento sottraesse alla potestà impositiva della Germania i beni “di primo grado” appartenenti alla propria giurisdizione tributaria, spostando la rilevanza fiscale dell’operazione sulle partecipazioni di nuova emissione, le quali risultavano sottratte all’imposizione tedesca in forza di una Convenzione contro le doppie imposizioni invocabile dal soggetto conferente. Tale Convenzione, nel caso di specie, era quella tra Austria e Germania, per cui le partecipazioni in una società in accomandita tedesca detenute da soggetti residenti in Austria costituivano una stabile organizzazione degli stessi in Germania. Sennonché, ai sensi dell’art. 13, ultimo par., del Modello OCSE è il Paese di residenza dei soci (nel caso di specie l’Austria) ad avere la potestà impositiva esclusiva in relazione ai redditi derivanti dalla cessione di partecipazioni sociali. Secondo l’Amministrazione finanziaria tedesca, poiché per effetto del conferimento di queste partecipazioni a una società di capitali tedesca vi sarebbe stata una fuoriuscita dei beni dalla propria giurisdizione fiscale, il disposto normativo che contemplava il realizzo figurativo delle plusvalenze sui beni come riflesse nelle partecipazioni di nuova emissione era stato legittimamente applicato, sebbene gli assets conferiti avessero continuato ad essere assoggettati ad imposta in Germania, essendo stati conferiti ad una società di capitali ivi residente.

In realtà occorre precisare come la questione della compatibilità europea di tale misura abbia perso di attualità, avendo il legislatore tedesco modificato, nel 2006, la UmsStG (legge tributaria sulle fusioni) con efficacia retroattiva, di modo che il prelievo sulla plusvalenza da conferimento è destinato ad operare unicamente nel caso in cui le partecipazioni ricevute dal conferente siano alienate entro sette anni dal conferimento stesso (con deduzione di un settimo per ogni anno trascorso tra il conferimento e l’evento realizzativo). Tale regime, che si applica sia in riferimento ai conferimenti domestici sia a quelli eseguiti da un conferente non residente, prevede inoltre che l’eventuale imposizione sulla plusvalenza determini la rivalutazione del costo fiscale dei beni oggetto di conferimento in capo alla società conferitaria. Pertanto, fermi restando i limiti normativi di cui sopra, anche la disciplina sulla exit tax tedesca ratione temporis applicabile concorrerà probabilmente a

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consolidare la giurisprudenza della Corte di Giustizia sul tema della non proporzionalità della exit tax ad imposizione immediata.

3 La normativa italiana sul trasferimento all’estero della residenza dei soggetti esercenti attività di impresa commerciale: l’art. 166 TUIR.

La sentenza National Grid Indus oltre a costituire il leading case in materia di exit tax ha assunto primaria importanza anche per l’ordinamento italiano, essendone stato inserito il principio in essa contenuto all’interno dell’art. 166, co. 2-quater, TUIR da parte dell’art. 91, co. 1, d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, conv. in l. 24 marzo 2012, n. 2725. Tale articolo del decreto ha altresì previsto l’inserimento di un nuovo comma 2-quinquies che demanda ad un successivo decreto non regolamentare del Ministero dell’Economia e delle Finanze la definizione, tra l’altro, delle fattispecie che determinano la decadenza della sospensione, i criteri di determinazione dell’imposta dovuta e le modalità di versamento. Nella Gazzetta Ufficiale del 12 agosto è stato pubblicato il decreto 2 agosto 2013 del ministro dell’Economia e delle Finanze, recante le disposizioni attuative dell’art. 166, comma 2-quater,Tuir. Sul tema occorre, infatti, sottolineare come la Corte di Giustizia abbia ritenuto di dover in ogni caso demandare alla potestà impositiva dello Stato membro di “uscita” circa le modalità di determinazione della plusvalenza latente da assoggettare ad imposizione al momento dell’effettivo realizzo ed unicamente fino al momento del trasferimento della residenza. L’emanazione di tale decreto, in definitiva, non solo consente di tutelare gli interessi finanziari dello Stato italiano, ma consente altresì di evitare che misure restrittive alla libertà di stabilimento di cui all’art. 49 TFUE vengano ulteriormente applicate. La modifica apportata all’art. 166, TUIR si è resa necessaria a seguito della denuncia, presentata il 1° marzo 2009 da parte dell’Associazione Nazionale Dottori Commercialisti di Milano alla Commissione europea, dove si sosteneva la natura penalizzante del regime di exit tax allora vigente, che aveva determinato l’avvio di una procedura di infrazione nei confronti dell’Italia26. In particolare, la denuncia presentata dalla Commissione aveva definito la norma di cui all’art. 166 TUIR, eccessiva sia rispetto allo scopo di contrastare le pratiche intese esclusivamente ad eludere l’imposta normalmente dovuta sul reddito di impresa che rispetto allo scopo di dare efficacia ai controlli fiscali, in quanto idonea a colpire indiscriminatamente tutti quei contribuenti italiani che avrebbero voluto lasciare l’Italia per insediarsi in altro Stato comunitario nonché sproporzionata, in quanto, con la tassazione delle

25 Cfr. sul tema dell’incompatibilità della normativa di cui all’art. 166, TUIR ante modifiche con l’ordinamento comunitario, V. Ficari, Trasferimento della sede all'estero, continuità della destinazione imprenditoriale e contrarietà al Trattato dell'exit tax sulle plusvalenze latenti , in Rass. trib., 2004, 2129. 26 Cfr., procedura n. 2010/4141.

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plusvalenze latenti immediatamente nel periodo di imposta del trasferimento della sede della società, non si sarebbe tenuto conto né dell’onere finanziario per l’impresa e né del fatto che le plusvalenze latenti si sarebbero potute nel tempo ridursi o anche annullarsi. Alla luce degli sviluppi giurisprudenziali in materia ed al fine di evitare sanzioni da parte della Commissione, il legislatore nazionale ha così introdotto nell’art. 166, TUIR una disciplina alternativa al regime di cui al comma 1 del medesimo articolo27. Come noto, ai sensi di tale comma Il trasferimento all’estero della residenza dei soggetti che esercitano imprese commerciali, che comporti la perdita della residenza ai fini delle imposte sui redditi, costituisce realizzo, al valore normale, dei componenti dell'azienda o del complesso aziendale, salvo che gli stessi non siano confluiti in una stabile organizzazione situata nel territorio dello Stato. La stessa disposizione si applica se successivamente i componenti confluiti nella stabile organizzazione situata nel territorio dello Stato ne vengano distolti. Si considerano in ogni caso realizzate, al valore normale, le plusvalenze relative alle stabili organizzazioni all'estero. Per le imprese individuali e le società di persone si applica l'articolo 17, comma 1, lettere g) e l). Il secondo comma prevede che I fondi in sospensione d'imposta, inclusi quelli tassabili in caso di distribuzione, iscritti nell'ultimo bilancio prima del trasferimento della residenza, sono assoggettati a tassazione nella misura in cui non siano stati ricostituiti nel patrimonio contabile della predetta stabile organizzazione. Ai sensi del successivo comma 2bis Le perdite generatesi fino al periodo d'imposta anteriore a quello da cui ha effetto il trasferimento all'estero della residenza fiscale, non compensate con i redditi prodotti fino a tale periodo, sono computabili in diminuzione del reddito della predetta stabile organizzazione ai sensi dell'articolo 84 e alle condizioni e nei limiti indicati nell'articolo 181”, mentre il comma 2ter dispone che “Il trasferimento della residenza fiscale all'estero da parte di una società di capitali non dà luogo di per sé all'imposizione dei soci della società trasferita. Il nuovo comma 2-quater riconosce, per i trasferimenti effettuati successivamente al 24 gennaio 2012, la facoltà di optare per la sospensione degli effetti del realizzo a chi sposta il domicilio fiscale in Stati appartenenti

27 Sulla cui legittimità anche l’Agenzia delle Entrate, con risoluzione del 30 ottobre 2008, n. 409/E aveva affermato che costituisce principio immanente nell'ordinamento interno che la perdita della residenza fiscale da parte dell'imprenditore comporta necessariamente la tassazione delle plusvalenze latenti medio tempore generatesi sui componenti patrimoniali costituenti l'azienda, essendo tale fattispecie assimilata dall'ordinamento all'estromissione dei cespiti dal regime d'impresa o alla destinazione degli stessi a finalità estranee all'impresa. Nel rispetto di tale assunto, l'articolo 166, comma 1, del T.U.I.R., ad esempio, prevede che il trasferimento all'estero della società cui consegue anche la perdita della residenza fiscale costituisce per la società , al valore normale, dei componenti dell'azienda o del complesso aziendale, "salvo che gli stessi non siano confluiti in una stabile organizzazione situata nel territorio dello Stato.

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all’UE ovvero in Stati aderenti allo SEE inclusi nella white list di cui al decreto (non ancora) emanato ai sensi dell’art. 168-bis, co. 1, TUIR e con i quali l’Italia abbia stipulato un accordo sulla reciproca assistenza in materia di riscossione dei crediti tributari comparabile a quella assicurata dalla direttiva 2010/24/UE del Consiglio, del 16 marzo 2010. Il regime in materia di exit tax presuppone la residenza fiscale in Italia. In via preliminare occorre ricordare come la stessa, ai sensi degli artt. 2 e 73, TUIR ricorre allorquando siano rispettati per la maggior parte del periodo di imposta i requisiti previsti da tali due articoli e che il trasferimento di residenza effettuato nella seconda parte di tale periodo non sottrae il contribuente dalla potestà impositiva italiana per tale periodo in quanto il collegamento con l’ordinamento italiano si deve considerare come già cristallizzato. Sul tema del trasferimento della residenza fiscale, occorre segnalare un possibile problema applicativo allorquando, ad esempio, si debbano riconciliare con il trasferimento comportamenti fiscali che fino a quel momento erano (ovviamente) disciplinati in base alla disciplina prevista per i soggetti residenti: si pensi al caso dei redditi corrisposti a soggetti non residenti che, in quanto tali, sono assoggettati ad imposta sostitutiva mediante applicazione della ritenuta alla fonte. Sempre in tema di residenza fiscale, il d.lgs. n. 199 del 2007, recependo la Direttiva 2005/19/CE, ha previsto che il trasferimento della residenza di una società di capitali all’estero non comporta l’assoggettamento ad imposizione dei suoi soci, non avendo tuttavia specificato se tale regime si applichi anche nel caso di società di persone o di enti trasparenti. Tornando alla disciplina domestica, essa dunque prevede che, salvo l’esercizio dell’opzione di cui al comma 2quater, allorquando un imprenditore individuale, una società o un ente trasferisce la propria residenza o la sede legale all’estero, questo evento costituisce automaticamente il presupposto impositivo per l’assoggettamento ad imposizione delle eventuali plusvalenze sui beni (o diritti) componenti l’azienda o del complesso aziendale “trasferito” determinate sulla base di un “valore normale”28 e salvo (e nella misura in cui) gli stessi non confluiscano in una stabile organizzazione in Italia.

28 Ai sensi dell'art. 9, commi 3 e 4, TUIR, “Per valore normale, salvo quanto stabilito nel comma 4 per i beni ivi considerati, si intende il prezzo o corrispettivo mediamente praticato per i beni e i servizi della stessa specie o similari, in condizioni di libera concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione, nel tempo e nel luogo in cui i beni o servizi sono stati acquisiti o prestati, e, in mancanza, nel tempo e nel luogo più prossimi. Per la determinazione del valore normale si fa riferimento, in quanto possibile, ai listini o alle tariffe del soggetto che ha fornito i beni o i servizi e, in mancanza, alle mercuriali e ai listini delle camere di commercio e alle tariffe professionali, tenendo conto degli sconti d'uso. Per i beni e i servizi soggetti a disciplina dei prezzi si fa riferimento ai provvedimenti in vigore”. “4. Il valore normale è determinato: a) per le azioni, obbligazioni e altri titoli negoziati in mercati regolamentati italiani o esteri, in base alla media aritmetica dei prezzi rilevati nell'ultimo mese;

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Questa regola, si applica, sempre salvo il comma 2-quater, anche nel caso di trasferimento della residenza fiscale della Societas europea (SE)29 o di una Società cooperativa europea30 qualora siano trasferiti anche gli attivi e ciò anche a seguito degli emendamenti apportati alla Direttiva fusioni 90/434/CEE dalla Direttiva 2005/19/CE del Consiglio del 17 febbraio 2005.

3.1 Il decreto attuativo di cui all’art. 166, comma 2-quinquies, TUIR.

Ai fini dell’ambito oggettivo il comma 1 del citato decreto attuativo di cui all’art. 166, comma 2-quinquies, TUIR del 2 agosto 2013 chiarisce che la disciplina relativa al regime di sospensione (opzionale) della riscossione dell’imposta sui redditi (exit tax) è applicabile soltanto ai soggetti esercenti attività di impresa commerciale che trasferiscono la residenza fiscale in Stati appartenenti all’Unione europea o allo Spazio economico europeo (See), inclusi nella lista di cui all’art. 168-bis, comma 1, TUIR, che consentano lo scambio di informazioni e che abbiano stipulato con l’Italia un accordo per la reciproca assistenza in materia di riscossione dei crediti tributari (Islanda e Norvegia), comparabile a quella assicurata dalla direttiva 2010/24/UE del Consiglio del 16 marzo 201031. Tale previsione riproduce sostanzialmente quanto previsto nel comma 2-quater dell’articolo 166 del TUIR, salva la precisazione contenuta nell’ultimo periodo del comma 1 del decreto, con la quale si estende la disciplina in oggetto all’ipotesi del trasferimento all’estero di una stabile organizzazione situata nel territorio dello Stato. Tale chiarimento è in linea con l’orientamento della giurisprudenza della Corte di Giustizia UE espresso nelle sentenze C-38/10 e C-64/11, rispettivamente in materia di exit tax

b) per le altre azioni, per le quote di società non azionarie e per i titoli o quote di partecipazione al capitale di enti diversi dalle società, in proporzione al valore del patrimonio netto della società o ente, ovvero, per le società o enti di nuova costituzione, all'ammontare complessivo dei conferimenti; c) per le obbligazioni e gli altri titoli diversi da quelli indicati alle lettere a) e b), comparativamente al valore normale dei titoli aventi analoghe caratteristiche negoziati in mercati regolamentati italiani o esteri e, in mancanza, in base ad altri elementi determinabili in modo obiettivo”. 29 Regolamento (CE) n. 2157/2001 del Consiglio dell'8 ottobre 2001. Cfr. D. Schmidtmann, The European Company (Societas Europaea – SE) Caught between Cross – Border Mobility and Lock –In Effect – An Empirical Analysis on the Influence of Exit Taxation upo Cross – Border Mergers and Seat Location Decisions, in World Tax Journal, February, 2012, 34 ss. 30 Regolamento (CE) n. 1435/2003 del Consiglio del 22 luglio 2003. 31 Per un primo commento al Decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze del 2 agosto si vedano M. Piazza, Trasferimento all’estero con prelievo sospeso, in Il Sole 24 ore, 13 agosto 2013, 19; V. Calculli e M. Salvi, La “exit tax” diventa più europea: in Gazzetta le norme attuative, in FiscoOggi, 13 agosto, 2013; G. Albano-L. Miele, Exit tax “congelata” fino al realizzo, in Il Sole 24 ore, 26 agosto 2013, i quali hanno correttamente sottolineato che il decreto ministeriale non si applica ai trasferimenti di sede che avvengono mediante operazioni straordinarie, ma anche quest’ultima normativa dovrà essere modificata in quanto la fattispecie è analoga a quella prevista dall’art. 166 TUIR.

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portoghese e spagnola, con le quali sono state estese le conclusioni raggiunte nel caso National Grid Indus anche al caso del trasferimento, in altro Stato UE, di una parte o di tutti i componenti di una stabile organizzazione, indipendentemente dalla circostanza che questa derivi o meno da un precedente trasferimento di residenza. Ai fini della determinazione della plusvalenza il decreto statuisce, conformemente alla ratio dell’art. 166 TUIR che considera la perdita della residenza fiscale come un evento realizzativo, che la plusvalenza unitariamente determinata in base al valore normale dei componente dell’azienda o del complesso aziendale, che non siano confluiti in una stabile organizzazione situata nel territorio dello Stato, debba includere anche il valore dell’avviamento, nonché quello delle funzioni e dei rischi propri dell’impresa sulla base dell’ammontare che imprese indipendenti avrebbero riconosciuto per il loro trasferimento. Quindi sono stati superati i dubbi circa la tassazione dell’avviamento e dei beni immateriali in caso di trasferimento della residenza fiscale32. Probabilmente motivi di semplificazione sono sottesi alla previsioni del comma 2 dell’art. 1 del citato decreto attuativo, che esclude dalla facoltà di sospensione della riscossione dell’imposta relativa a taluni componenti reddituali, come: i plusvalori relativi ai beni merce, considerata la rapida sostituzione delle attività correnti è stato ritenuto opportuno evitare il differimento dell’imposizione; le riserve in sospensione d’imposta non ricostituite nel patrimonio contabile della stabile organizzazione situata nel territorio dello Stato, in ragione della difficoltà di “monitoraggio” all’estero delle riserve costituite secondo la legislazione italiana; gli altri componenti positivi e negativi che concorrono a formare il reddito dell’ultimo periodo d’imposta di residenza in Italia, ivi compresi quelli relativi a esercizi precedenti, e non attinenti ai cespiti trasferiti, la cui deduzione o tassazione sia stata rinviata in conformità alle disposizioni del TUIR. In tal modo è prevista la rilevanza fiscale, in sede di trasferimento, delle posizioni fiscali soggettive (fondi rischi tassati, oneri deducibili in più esercizi, plusvalenze rateizzate) nello stesso periodo di imposta in cui avviene il trasferimento33. Coerentemente con il consolidato orientamento della Corte di giustizia UE, il comma 3 dell’art. 1 del decreto prevede che le imposte sui redditi, relative alla plusvalenza realizzata nel periodo in cui avviene il trasferimento e della quale è sospesa la tassazione, sono determinate in via definitiva, senza tener conto delle minusvalenze e/o delle plusvalenze realizzate successivamente al trasferimento stesso. Sono dunque irrilevanti le vicende reddituali successive al trasferimento, essendo di esclusiva competenza dello Stato UE o See di destinazione. Il comma 4 dell’art. 1 del decreto stabilisce che le perdite di esercizi precedenti non ancora utilizzate compensano prioritariamente il reddito dell’ultimo periodo di imposta di residenza in Italia, comprensivo dei componenti per i quali non si applica il regime opzionale di sospensione della

32 In tal senso G. Albano-L. Miele, Exit tax “congelata” fino al realizzo, cit. 33 Cfr. G. Albano-L. Miele, op. ul. cit.

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riscossione delle imposte sui redditi di cui al comma 2 del decreto. L’eventuale eccedenza, unitamente alla perdita di tale periodo, compensa la plusvalenza dì cui al comma 1 da assoggettare all’exit tax. Per le eventuali perdite ancora residue resta ferma l’applicazione dell’art. 166, comma 2-bis TUIR. E’ stato correttamente osservato che l’eventuale perdita per compensare la plusvalenza latente deve rispettare le limitazioni previste dall’art. 84 TUIR e quindi al di fuori dei casi di perdite generate nei primi tre periodi di imposta dalla data di costituzione della società, la perdita può essere computata in diminuzione in misura non superiore all’80 per cento della stessa34. Diversamente, nel caso in cui a seguito del trasferimento di residenza, l’impresa non lasci in Italia una stabile organizzazione, le perdite residue non saranno più compensabili e in base alla costante giurisprudenza della Corte di Giustizia35 sarà lo Stato di destinazione UE o SEE che ne dovrà tenere conto nella determinazione complessiva del reddito. A seguito della sentenza National Grid Indus ci si poneva il dubbio se la riscossione al momento del realizzo dovesse implicare un rinvio alle fattispecie ordinarie di realizzo previste nell’ordinamento interessato oppure fossero ammissibili modalità di riscossione differita diversamente modulata (ad esempio, rateale). A tal riguardo il decreto attuativo prevede due modalità alternative tra sospensione e pagamento rateale, la cui scelta è rimessa al libero apprezzamento del contribuente. In particolare il comma 6 dell’art. 1 del decreto dispone la riscossione delle imposte sui redditi oggetto di sospensione nell’esercizio in cui si considerano realizzati, in base alle disposizioni ordinarie del TUIR, gli elementi dell’azienda o del complesso aziendale trasferito. Per le partecipazioni che costituiscono immobilizzazioni la riscossione avviene non soltanto in occasione della cessione, ma anche in caso di distribuzione degli utili o delle riserve di capitali. Tale precisazione appare motivata da intenti antielusivi. Il regime della sospensione implica un obbligo di monitoraggio annuale dei componenti aziendali trasferiti mediante dichiarazione o apposite comunicazioni. Invece il comma 7 dell’art.1 del decreto in commento prevede, in alternativa al pagamento immediato e alla modalità di sospensione della riscossione di cui al comma 6, il versamento dell’exit tax in dieci quote annuali di pari importo a partire dall’esercizio in cui ha efficacia il trasferimento. Ovviamente in tale circostanza il contribuente non è tenuto ad alcun obbligo di monitoraggio. Il comma 5 dell’art. 1 del decreto stabilisce che l’opzione del regime di sospensione può essere esercitata distintamente per singoli beni. Pertanto, il contribuente potrebbe optare per il pagamento immediato dell’imposta per taluni cespiti, per il regime di sospensione della riscossione per altri 34 In tal senso G. Albano-L. Miele, Exit tax “congelata” fino al realizzo, cit. 35 Da ultimo cfr. la sentenza del 21 febbraio 2013, causa C-123/11. Per una ricostruzione sistematica delle sentenze della Corte di Giustizia in tema di compensazioni delle perdite in ambito europeo cfr. P. Stizza, La rilevanza delle perdite nel diritto tributario. Contributo allo studio, Padova, 2011.

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componenti e per la rateizzazione decennale dell’imposta relativamente ad altri elementi trasferiti. Nonostante nella sentenza National Grid Indus la Corte di giustizia Ue abbia statuito la legittimità, in caso di applicazione della sospensione della riscossione, della richiesta di interessi moratori e di garanzie conformemente alla legislazione nazionale dell’ordinamento interessato, il decreto in commento dispone che le garanzie sono dovute sia in caso di sospensione della riscossione sia in caso di pagamento rateale dell’exit tax, ma sempre in misura proporzionale all’importo dell’imposta sospeso. Viceversa gli interessi nella misura prevista dall’art. 20 d. lgs. n. 241 del 1997 sono dovuti soltanto nell’ipotesi di pagamento rateale dell’exit tax. Probabilmente si è ritenuto che gli interessi possano essere pretesi soltanto a seguito dell’effettivo realizzo della plusvalenza, che nella riscossione rateizzata si considera immediato. Il comma 8 dell’art. 1 del decreto prevede le ipotesi di decadenza dal beneficio della sospensione, nei casi in cui non sia ravvisabile l’esercizio della libertà di stabilimento, come nelle ipotesi di liquidazione o estinzione del soggetto estero, nonché in caso di trasferimento di sede in uno Stato diverso dagli Stati appartenenti all’Unione Europea o aderenti allo See (white list), nonché di conferimento, fusione o scissione che comportino il trasferimento dei beni a soggetti fiscalmente residenti in Stati diversi da quelli sopra richiamati. Infine il comma 9 del decreto in commento rinvia ad uno o più provvedimenti del Direttore dell’Agenzia delle Entrate l’individuazione delle modalità di esercizio dell’opzione di sospensione della riscossione e di rateizzazione; di prestazione e rilascio delle garanzie; di monitoraggio annuale delle plusvalenze nel caso di sospensione della riscossione fino al realizzo e delle ulteriori cause di decadenza connesse al venir meno delle garanzie o alla mancata presentazione delle dichiarazioni o comunicazioni relative al monitoraggio annuale delle plusvalenze.

4 Conclusioni.

L’intervento del legislatore italiano volto a modificare il regime sul regime fiscale applicabile alle plusvalenze latenti in caso di trasferimento di azienda idoneo a generare la perdita di qualsiasi collegamento con lo Stato di origine, sebbene totalmente condivisibile, non manca di suscitare una serie di dubbi di carattere operativo. In primo luogo il decreto non regolamentare del 2 agosto 2013, attuativo della disciplina dell’art. 166, comma 2-quater, TUIR, prevede l’emanazione di altri provvedimenti del Direttore dell’Agenzia delle Entrate per l’individuazione delle modalità di esercizio dell’opzione di sospensione della riscossione, del versamento rateale, delle prestazioni di garanzia e delle modalità di monitoraggio annuale delle plusvalenze in sospensione. Pertanto la nuova disciplina, nonostante sia anche la conseguenza di una procedura di

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infrazione avviata dalla Commissione Europea contro l’Italia (procedura n. 2010/4141), non è ancora operativa. In secondo luogo occorre osservare come il nuovo testo dell’art. 166, co. 2-quater, TUIR riconosca ai contribuenti, in alternativa a quanto previsto dal comma 1, la facoltà di chiedere la sospensione degli effetti del realizzo, mentre il testo della sentenza National Grid Indus, (punto 73) è di tutt’altro tenore, attribuendo ai contribuenti il diritto di chiedere la sospensione degli effetti del realizzo; come correttamente osservato dall’AIDC nella lettera inviata alla Commissione Europea il 9 aprile 2012, un conto è attribuire un diritto, un altro è concedere “benevolmente”una facoltà ai contribuenti. In terzo luogo, il decreto attuativo, pur specificando le sorti dell’avviamento36, delle minusvalenze latenti e delle riserve in sospensione di imposta e confermando la possibilità di utilizzare le perdite pregresse ai fini della determinazione della base imponibile, introduce fattispecie di realizzo di plusvalenze, alternative alla cessione, che non sono espressamente contemplate nelle disposizioni ordinarie del TUIR. Infine, occorre osservare come l’art. 91 del d.l. n. 1 del 2012 preveda espressamente che le modifiche da esso introdotte si applichino a decorrere dall’entrata in vigore del decreto stesso, lasciando pertanto la normativa pregressa (laddove fosse stata oggetto di impugnazione) esposta a tutti dubbi di compatibilità europea già evidenziati. Per quanto concerne l’ambito oggettivo di applicazione della disciplina di cui all’art. 166, TUIR, se da un lato appare possibile sostenere la sua potenziale applicabilità alle ipotesi di fusione inversa, qualora oggetto dell’incorporazione sia una società holding residente in Italia detentrice di una partecipazione nella propria controllata non residente37, così non può dirsi nel caso di conferimento di una stabile organizzazione italiana di una società residente in altro Stato membro Ue in una società residente in Italia. In una simile circostanza, infatti, non potrebbe sostenersi che il conferimento della stabile organizzazione possa beneficiare della neutralità fiscale limitatamente agli assets oggetto di conferimento (i.e. la stabile organizzazione stessa) lasciando che le partecipazioni ricevute dalla società conferente in cambio del predetto conferimento risultino assoggettate ad imposizione in base al valore di mercato. Per poter sostenere ciò, infatti, si dovrebbe partire dal presupposto che a seguito del conferimento le nuove azioni emesse dalla società conferitaria siano destinate a fuoriuscire definitivamente dalla potestà impositiva italiana. Questo presupposto, tuttavia, risulta smentito dal fatto che, ai sensi dell’articolo 23, comma 1, lettera f), TUIR, le plusvalenze realizzate dalla

36 Cfr., risoluzioni Agenzia delle Entrate, 7 novembre 2006, n. 124/E e 27 gennaio 2009, n. 21/E. 37 A livello comparato esiste in Germania una disposizione di exit taxation in caso di fusione inversa tra due società di capitali ivi residenti, qualora il socio della controllante incorporata non sia residente in Germania. Si veda a tal proposito M. Ruhlmann, German tax pitfalls fro cross-border mergers, in Tax Notes International, 2013, 567 ss.

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cessione della partecipazione detenuta dal socio non residente continuano a considerarsi realizzate in Italia. D’altro canto, tale potere impositivo risulta precluso per l’Italia dall’articolo 13, ultimo paragrafo, del Modello OCSE di convenzione, ai sensi del quale la potestà impositiva sulle plusvalenze realizzate dalla cessione di partecipazioni spetta esclusivamente allo Stato di residenza dell’alienante. In ogni caso occorre sottolineare come l’assoggettamento ad imposizione di una riorganizzazione societaria intracomunitaria sarebbe, oltre che non previsto dalla normativa italiana e quindi contrario alla riserva di legge di cui all’art. 23, Cost, anche contrario allo spirito ed alla lettera della Direttiva 434/90/CEE38 (oggi Direttiva 2009/133/CE). Un ulteriore argomento a sostegno dell’assoggettabilità ad imposta delle plusvalenze derivanti dalla cessione a titolo oneroso di azioni di nuova emissione potrebbe fondarsi sul fatto che queste ultime, secondo il principio di coerenza, uscirebbero dal regime della tassazione dei redditi d’impresa per entrare nel regime di tassazione dei redditi diversi. Anche questa argomentazione, tuttavia, non può essere condivisa laddove si consideri che le azioni di nuova emissione rappresentano un quid novi estraneo alla potestà impositiva dello Stato d’origine. Per comprendere ciò è importante ricordare come il soggetto conferente sia la società non residente, essendo la stabile organizzazione (oggetto del conferimento) destinata a non sopravvivere al (suo) conferimento disposto a favore di una società residente39.

38 Il cui obiettivo è quello di garantire che le operazioni di riorganizzazione societaria avvengano in regime di neutralità fiscale, tutelando al contempo il potere impositivo dello Stato di origine. Questo obiettivo, nel caso di fusioni, scissioni o conferimenti viene perseguito con il trasferimento dei valori fiscali in capo a una stabile organizzazione, in modo che fino a che i beni siano distolti dalla stessa o ceduti, lo Stato d’origine potrà continuare a tassarne i redditi e le plusvalenze (art. 4, comma 1, lett. b, della direttiva). Questa previsione, tuttavia, nel caso di conferimento di una stabile organizzazione, non può essere applicata, semplicemente perché a seguito di tale operazione gli assets (nel caso, la stabile organizzazione) saranno attribuiti – in continuità di valori fiscali - ad una società residente pienamente soggetta a imposizione in quel paese, la cui sovranità sarà pertanto pienamente garantita. Semmai la domanda che potrebbe porsi è quella relativa al diritto, per lo Stato ove è collocata la stabile organizzazione, di sottoporre ad imposizione anche le plusvalenze latenti sulle partecipazioni emesse a seguito del conferimento della stabile organizzazione stessa effettuato dal soggetto residente in altro Stato membro Ue. Sebbene la risposta debba essere affermativa in teoria ed in ogni caso solo al momento dell’effettivo realizzo, in pratica la risposta deve essere negativa per l’operare, come detto, dell’art. 13, ult. par. del Modello OCSE di Convenzione. 39 Ciò è confermato dalla Direttiva 434/90/CEE, che contempla espressamente il conferimento “di una stabile organizzazione” nella rubrica del titolo IV e all’art. 10. In tal senso si veda anche A. Fantozzi, “La stabile organizzazione”, in Riv. Dir. Trib.,2/2013, 111.

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Per altro, è opportuno sottolineare come l’assoggettamento ad imposta dei redditi d’impresa continui a sussistere in relazione ai redditi prodotti dalla stabile organizzazione incorporata - società conferitaria. Un ulteriore elemento idoneo a negare l’applicabilità del prelievo italiano sulle plusvalenze in questione, è fornito da quanto previsto dall’articolo 176, co. 2 bis, TUIR, ai sensi del quale le plusvalenze realizzate dal conferimento e successiva cessione delle partecipazioni dell’unica impresa da parte dell’imprenditore individuale sono assoggettate al regime dei redditi diversi, con un valore fiscalmente riconosciuto uguale a quello dell’unica azienda conferita. Un ulteriore argomentazione a sostegno dell’assoggettabilità ad imposta in Italia delle plusvalenze in commento, riguarda la presunta applicabilità dell’articolo 176, comma 4, TUIR, ai sensi del quale le aziende acquisite in dipendenza di conferimenti effettuati con il regime di cui al presente articolo si considerano possedute dal soggetto conferitario anche per il periodo di possesso del soggetto conferente. Le partecipazioni ricevute dai soggetti che hanno effettuato i conferimenti di cui al periodo precedente o le operazioni di cui all’articolo 178, in regime di neutralità fiscale, si considerano iscritte come immobilizzazioni finanziarie nei bilanci in cui risultavano iscritti i beni dell’azienda conferita o in cui risultavano iscritte, come immobilizzazioni, le partecipazioni date in cambio. Questa disposizione attribuisce al conferente, per le partecipazioni ricevute, il medesimo trattamento contabile nonché l’holding period dell’azienda conferita sul presupposto che le partecipazioni ricevute continueranno a concorrere alla formazione dei redditi di impresa anche ai fini del regime PEX. La ratio di tale disposizione, pertanto, è unicamente quella di prevedere il roll over contabile e dell’holding period senza alcuna previsione circa il fatto che tali partecipazioni debbano essere necessariamente attribuite alla stabile organizzazione. È vero che l’art. 176, comma 4, TUIR, richiama il successivo art. 178 dedicato alle riorganizzazioni UE di cui alla Direttiva 434/90/CEE, ma è anche vero che ciò non significa che tutti gli elementi di tale norma debbano essere applicati alle riorganizzazioni UE a prescindere dalle differenze oggettive che le connotano. In conclusione, la fattispecie disciplinata dall’art. 176, co. 4, TUIR è quella del conferimento d’azienda italiana, da parte di una società residente in Italia, ad un società residente in altro Stato membro UE e non anche quella di richiedere l’applicazione della exit taxation al caso opposto di “incorporazione” della stabile organizzazione italiana di una società UE, essendo la neutralità di tale fattispecie prevista dall’art. 10 della Direttiva fusioni, ai sensi del quale, a seguito del conferimento di una stabile organizzazione le azioni di nuova emissione risultano imponibili come redditi d’impresa unicamente nello Stato di residenza del soggetto conferente e non alla fonte dove, in assenza di una convenzione contro la doppia imposizione,

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la plusvalenza da cessioni di azioni è suscettibile di imposizione unicamente come reddito diverso (art. 67, comma 1, lett. c, Tuir)40. In ogni caso, anche laddove si giungesse teoricamente ad ammettere l’esistenza della potestà impositiva italiana sulle plusvalenze in questione, per effetto di quanto disposto dalla costante giurisprudenza delle Corte di Giustizia citata, si dovrebbe comunque optare per un differimento della riscossione dell’imposta. In conclusione, la cd. “incorporazione” di una stabile organizzazione non può giustificare, in Italia, l’imposizione delle plusvalenze in base al valore di mercato delle azioni di nuova emissione ricevute dal soggetto conferente non residente, in quanto ciò sarebbe contrario allo spirito e alla lettera della direttiva 434/90/CEE e non sarebbe nemmeno previsto da alcuna disposizione fiscale italiana. Come detto, sebbene teoricamente l’Italia mantenga il potere di assoggettare ad imposta le plusvalenze derivanti dalla cessione a titolo oneroso delle azioni in base al principio di territorialità di cui all’art. 23, comma 2, lett. f), TUIR, tale diritto non risulta di fatto esercitabile a causa di quanto disposto dall’articolo 13, comma 4, del Modello di Convenzione OCSE, ai sensi del quale gli utili derivanti dall’alienazione di ogni altro bene diversi da quelli menzionati nei paragrafi precedenti del medesimo articolo, sono imponibili unicamente nello Stato di residenza del soggetto alienante.

40 Cfr. M. Gusmeroli, The Conversion of a Branch into a Subsidiary under the EC Merger Directive: Still “Rarely Pure and Never Simple” , in European Taxation, 2009, 567 ss; P. Baccaglini, La Corte di Giustizia delinea i limiti alla libertà di stabilimento nel trasferimento di sede. Le conseguenze sulla exit taxation, in Dir. Prat. Trib. Int., 2, 2011, 522.

Prof. Roberto Cordeiro Guerra* Professore Università di Firenze

Avv. Pietro Mastellone**

Dottore di ricerca in Diritto pubblico e tributario nella dimensione europea (Università di Bergamo)

Recenti orientamenti giurisprudenziali in tema di stabile organizzazione

SOMMARIO: 1 Genesi del concetto di stabile organizzazione nell’ambito delle convenzioni internazionali contro la doppia imposizione. - 2 I due approcci utilizzati dagli Stati per attribuire i profitti alle stabili organizzazioni. - 3 La stabile organizzazione nel diritto tributario italiano. - 3.1 La stabile organizzazione nelle imposte sul reddito. - 3.2 La stabile organizzazione nell’IVA.- 3.3 La giurisprudenza antecedente alla modifica del 2003. - 3.4 La giurisprudenza successiva alla modifica del 2003. - 4 L’elaborazione del concetto di stabile organizzazione “occulta”. - 4.1 Il recente e discutibile orientamento della Corte di Cassazione in tema di stabile organizzazione “occulta” e stabile organizzazione “plurima”: la decisione n. 16106/2011. - 5 Alcune considerazioni conclusive.

1 Genesi del concetto di stabile organizzazione nell’ambito delle convenzioni internazionali contro la doppia imposizione.

Il concetto di stabile organizzazione (in inglese, permanent establishment) è stato elaborato nell’ambito delle convenzioni contro la doppia imposizione e rappresenta un vero e proprio compromesso nell’evoluzione del diritto tributario internazionale, in quanto permette ad uno Stato contraente di esercitare la propria potestà impositiva sui profitti generati da un’impresa residente nell’altro Stato contraente solo se svolge nel primo la propria attività commerciale palesando così un legame economico stabile.1 La stabile

* Ordinario di Diritto tributario nell’Università di Firenze e Avvocato in Firenze e Milano. L’Autore ha curato i paragrafi 3, 3.1., 3.2., 3.3., 3.4. e 5. ** Dottore di ricerca in Diritto pubblico e tributario nella dimensione europea (Università di Bergamo) e Avvocato in Firenze e Milano. L’Autore ha curato i paragrafi 1, 2, 4 e 4.1. 1 In tal senso, cfr. CORABI, G., Analisi storica della stabile organizzazione attraverso i modelli di convenzioni internazionali, in Fiscalia, vol. 1, n. 3/2000, p. 254 ss.; CORDEIRO GUERRA, R., Le fattispecie con elementi di estraneità, in CORDEIRO

GUERRA, R. (a cura di), Diritto tributario internazionale. Istituzioni, Padova, 2012, pp. 44-45; FANTOZZI, A., La stabile organizzazione, in Rivista di Diritto Tributario, vol. 23, n. 2/2013, Parte I, p. 99 ss. Recentemente, OWENS, J., The taxation of multinational enterprises: an elusive balance, in Bulletin for International Taxation,

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organizzazione, dunque, costituisce il criterio di collegamento «pressoché universalmente accolto come “presupposto per l’imposizione di una attività economica svolta, in un dato paese, da uno straniero” ».2 La prima formulazione di stabile organizzazione risale addirittura al Trattato internazionale trilaterale stipulato da Austria, Ungheria e Prussia il 22 giugno 1899, considerato dalla dottrina il più antico esempio di convenzione contro la doppia imposizione che si avvicina alla struttura delle convenzioni c.d. moderne.3 Nei primi due modelli di convenzione contro la doppia imposizione elaborato dalla League of Nations in Città del Messico nel 1943 e a Londra nel 1946, la definizione venne maggiormente circoscritta alle sedi di svolgimento di attività economiche in cui prevale il carattere produttivo. Nei Modelli di convenzione contro la doppia imposizione elaborati dall’OCSE negli Anni ’60 veniva abbandonato il riferimento al carattere produttivo della stabile organizzazione e, ispirandosi all’esperienza delle convenzioni bilaterali stipulate fra gli Stati, la stabile organizzazione veniva identificata con la «sede fissa d’affari». Attualmente, l’art. 5 del Modello OCSE definisce stabile organizzazione qualsiasi «sede fissa d’affari per mezzo della quale l’impresa esercita in tutto o in parte la sua attività».4 La definizione elaborata dall’OCSE ha condotto ad una sostanziale armonizzazione del concetto di stabile organizzazione, la cui presenza è connotata da quattro elementi essenziali:

a) l’ esistenza di una installazione di affari (e.g. un ufficio);

vol. 67, n. 8/2013, p. 444, ha ribadito che «the permanent establishment (PE) concept is the basic nexus/threshold rule for determining whether or not a country has taxing rights with regard to the business profits of a non-resident taxpayer, although some types of profits may be taxed in a country even though there is no PE (for example, profits derived from collecting insurance premiums). Business profits of a non-resident that may be taxed by a country are only those that are attributable to a PE». 2 Così LOVISOLO, A., Il concetto di stabile organizzazione nel regime convenzionale contro la doppia imposizione, in Diritto e Pratica Tributaria, vol. 54, n. 4/1983, Parte I, p. 1127. Secondo BAGGIO, R., Il principio di territorialità ed i limiti alla potestà tributaria, Milano, 2009, p. 192, «l’effetto più importante che scaturisce dalla presenza di una stabile organizzazione in territorio altrui è quello di derogare al principio della tassazione esclusiva degli utili d’impresa da parte dello Stato cui appartiene l’impresa che ha dato vita alla stabile organizzazione. In altri termini, la presenza, in uno Stato contraente, di una stabile organizzazione di un’impresa dell’altro Stato contraente consente al primo Stato di assoggettare ad imposizione gli utili prodotti per mezzo di detta stabile organizzazione, mente il secondo Stato – pur mantenendo di regola il potere di tassare quegli stessi utili – ha l’obbligo di applicare il meccanismo convenzionale (solitamente il credito d’imposta) per evitare che l’impresa subisca la doppia imposizione sugli utili medesimi». 3 Così EASSON, A., Do we still need tax treaties?, in Bulletin for International Fiscal Documentation, vol. 54, n. 12/2000, p. 619. 4 Art. 5, par. 1, OECD, Model Tax Convention on Income and on Capital 2010 (updated 2010), Paris, 2012. Traduzione libera.

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b) la stabilità (geografica e temporale) di tale installazione; c) la riconducibilità all’ordinario esercizio dell’impresa; d) la sua idoneità a generare reddito.

Il primo elemento è ravvisabile sia in presenza di una stabile organizzazione c.d. materiale sia in presenza di una stabile organizzazione c.d. personale. La stabile organizzazione materiale, esemplificata al paragrafo 2 della norma, implica la presenza fisica in uno Stato contraente dei mezzi organizzati dell’imprenditore residente nell’altro Stato contraente.5 Al riguardo, l’art. 5, par. 2 contiene un’elencazione non tassativa di elementi idonei a radicare una stabile organizzazione materiale: sede di direzione, succursale, ufficio, laboratorio, miniere e giacimenti, cave e zone di estrazioni di gas e petrolio. Diversamente, la stabile organizzazione personale si configura in presenza di specifici soggetti che svolgono l’attività economica per conto dell’imprenditore non residente. Il Modello OCSE conteneva due distinte ipotesi:

- la presenza di un «agente dipendente» (art. 5, par. 5), cioè un soggetto che opera in nome e per conto dell’impresa non residente con il potere di concludere i contratti in maniera continuativa ed abituale;6 e - la presenza di un «agente indipendente» (art. 5, par. 6), cioè un soggetto che opera in nome proprio, ma per conto dell’impresa non residente con il potere di concludere i contratti per quest’ultima vincolanti.

Solo nella prima delle summenzionate ipotesi potrà configurarsi una stabile organizzazione personale, ma la valutazione dell’indipendenza o meno dell’intermediario che agisce nell’altro Stato contraente è talvolta tutt’altro che agevole.7 Al riguardo, un indice di solito determinante per tale analisi è

5 L’art. 5, par. 2, del Modello OCSE prevede che la stabile organizzazione «includes especially: a) a place of management; b) a branch; c) an office; d) a factory; e) a workshop, and f) a mine, an oil or gas well, a quarry or any other place of extraction of natural resources». Così, OECD, Model Tax Convention on Income and on Capital 2010 (updated 2010), Paris, 2012. 6 Nel Commentario all’art. 5, si sottolinea che, comunque, deve essere applicato un criterio di prevalenza della sostanza sulla forma con la conseguenza che «the phrase “authority to conclude contracts in the name of the enterprise” does not confine the application of the paragraph to an agent who enters into contracts literally in the name of the enterprise; the paragraph applies equally to an agent who concludes contracts which are binding on the enterprise even if those contracts are not actually in the name of the enterprise». 7 Per esempio, in Comm. Trib. Prov. Como, Sez. IV, 20 giugno 2012, n. 66, in GT – Rivista di Giurisprudenza Tributaria, vol. 19, n. 12/2012, p. 975 ss., con nota di AVOLIO, D. – SANTACROCE, N., Per la stabile organizzazione personale è necessario provare che l’agente ha effettivamente concluso i contratti, ivi, p. 977 ss., i giudici tributari di prime cure escludevano la configurabilità di una stabile organizzazione in riferimento ad un cittadino italiano incaricato da una società svizzera di contattare clienti italiani, posto che non risultava adeguatamente dimostrato il fatto che

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l’effettiva indipendenza economica dell’agente: è evidente, infatti, che un agente, seppur formalmente indipendente, non potrà considerarsi tale ai sensi dell’art. 5, par. 6, se, di fatto, opera esclusivamente per un’impresa.8 La stabilità dell’installazione è un requisito che deve essere interpretato sia sotto il profilo temporale (i.e. esercizio dell’attività d’impresa per un apprezzabile lasso di tempo di almeno 12 mesi) sia sotto quello geografico (i.e. collegamento fra la stabile organizzazione d’impresa e il territorio dello Stato contraente in cui l’imprenditore non ha la propria residenza). La giurisprudenza internazionale ha avuto modo di chiarire che per essere “stabile”, l’installazione non deve essere necessariamente radicata al suolo: in tal senso, per esempio, la Suprema Corte dei Paesi Bassi ha qualificato come stabile organizzazione uno yacht sul quale si svolgevano continuativamente attività produttive di reddito riconducibili all’imprenditore non residente.9 In relazione alla riconducibilità della stabile organizzazione all’ordinario esercizio dell’impresa si ritiene comunemente che l’installazione debba essere destinata ad «un’attività rientrante nel quadro normale degli affari realizzati dall’imprenditore estero e, purché tale attività sia in relazione di servizio rispetto agli obiettivi globali dell’impresa».10 Infine, è necessario che l’installazione risulti idonea a contribuire alla produzione del reddito,11 con la conseguenza che non possono costituire una stabile organizzazione tutte quelle attività di carattere meramente ausiliario e preparatorio e, in quanto tali, insuscettibili di produrre reddito.12

l’effettivo potere di rappresentanza da parte di tale cittadino italiano fosse stato «esercitato in Italia in via abituale». 8 In tal senso, cfr. LOVISOLO, A., La stabile organizzazione, in UCKMAR, V. (coordinato da), Diritto tributario internazionale, 3a ed., Padova, 2005, p. 459, secondo cui in tale ipotesi l’agente «potrà difficilmente dirsi indipendente ai sensi del par. 6, in quanto dal punto di vista economico il suo grado di dipendenza dall’impresa sarà molto vicino a quello di un impiegato». 9 Così, Hoge Raad, 13 ottobre 1954, n. 11 908 (BNB 1954/336). Analogamente, rileva NAVARRINI , F., Il trattamento delle singole categorie reddituali, in CORDEIRO

GUERRA, R. (a cura di), Diritto tributario internazionale. Istituzioni, Padova, 2012, p. 384, nt. 14, che «non è necessaria la materiale fissazione al suolo delle strutture o dei materiali, e dunque può dar luogo a stabile organizzazione, ad esempio, pure una compagnia di spettacolo itinerante». 10 In questi termini, cfr. LOVISOLO, A., La stabile organizzazione, in UCKMAR, V. (coordinato da), Diritto tributario internazionale, 3a ed., Padova, 2005, p. 443. 11 Tale assunto trova, peraltro, conferma nel Commentario all’art. 5, ove si specifica che «the establishment must have a productive character, i.e. contribute to the profits of the enterprise. In the present definition this course has not been taken. Within the framework of a well-run business organisation it is surely axiomatic to assume that each part contributes to the productivity of the whole». Così OECD, Model Tax Convention on Income and on Capital. Condensed Version, Paris, 2010, par. 3, p. 92. 12 Questo argomento è supportato anche dal fatto che l’art. 5, par. 4, lett. e), Modello OCSE esclude dal novero di stabile organizzazione «the maintenance of a fixed place of business solely for the purpose of carrying on, for the enterprise, any other activity of a preparatory or auxiliary character».

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La nozione di stabile organizzazione contenuta nel Modello OCSE è stata adottata anche dal Modello ONU, sebbene la formulazione contenuta nell’art. 5 di tale ultimo strumento contenga alcune significative differenze.13

2 I due approcci utilizzati dagli Stati per attribuir e i profitti alle stabili organizzazioni.

Il principio di distribuzione pattizia della potestà impositiva sul reddito d’impresa transnazionale è dettato dall’art. 7, par. 1, Modello OCSE, secondo cui «i profitti di un’impresa di uno Stato Contraente sono tassati solo in tale Stato a meno che l’impresa svolga la propria attività nell’altro Stato Contraente per mezzo di una stabile organizzazione ivi stabilita. Se l’impresa svolge un’attività come sopra detto, i profitti che sono imputabili alla stabile organizzazione in virtù delle disposizioni del paragrafo 2 possono essere tassati in tale altro Stato».14 Gli Stati appartenenti all’OCSE ricorrono a due interpretazioni differenti dell’art. 7, comma 1, del Modello, al fine di attribuire i profitti alle stabili organizzazioni:

a) Approccio dell’entità funzionalmente separata (c.d. “functionally separate entity” approach). Questa impostazione, che è preferita anche dalla stessa OCSE,15 si limita a stabilire i limiti quantitativi dei profitti che possono essere tassati dallo Stato Contraente che ospita la stabile organizzazione.16 Pertanto, i profitti imputati e tassati alla stabile organizzazione sono quelli che ci si potrebbero aspettare se si trattasse di una distinta e separata impresa che opera in maniera del tutto indipendente rispetto all’impresa di cui fa parte.

b) Approccio dell’attività d’impresa rilevante (c.d. “relevant business activity” approach). Siffatto approccio, invece, considera profitti dell’impresa solo i profitti dell’attività commerciale in cui una stabile organizzazione ha una determinata partecipazione attiva.

13 Per esempio, l’art. 5 del Modello ONU prevede un test di 6 mesi (c.d. six-month test), invece di 12 così come previsto dal Modello OCSE, per considerare un edificio od un cantiere quali stabile organizzazione. Si veda UNITED NATIONS, Model Double Taxation Convention between developed and developing Countries, New York, 2011, p. 97. 14 Traduzione libera. 15 Per tale ragione, questo approccio è definito «authorised OECD approach». 16 L’OCSE chiarisce che l’ipotesi secondo cui una stabile organizzazione viene trattata come un’impresa funzionalmente distinta e separata costituisce una mera fictio juris necessaria al fine di determinare i redditi d’impresa di tale porzione di attività imprenditoriale. Così, OECD; Report on the attribution of profits to permanent establishments. Parts I (General considerations), II (Banks) and III (Global trading), Paris, 2006, p. 13, par. 14.

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In altre parole, in base al primo approccio è necessario identificare le funzioni che la stabile organizzazione svolge nell’ambito dell’impresa e, conseguentemente, attribuire ad essa i beni, il rischio ed il capitale dell’impresa relativi a tali funzioni. Adottando il secondo approccio, invece, i profitti della stabile organizzazione sono limitati a quelli effettivamente guadagnati dall’impresa: quindi, se l’impresa nel suo complesso è in una situazione di perdita, allora la stabile organizzazione risulta proporzionalmente in perdita. L’OCSE considera che il “relevant business activity” approach rimuova qualsiasi applicazione del principio di attrazione, dal momento che tende ad isolare la stabile organizzazione dal resto dell’attività dell’impresa. L’interpretazione e l’applicazione dell’art. 5 del Modello OCSE hanno sempre generato incertezze sulla ripartizione della potestà impositiva fra gli Stati Contraenti in presenza di stabile organizzazione e l’esigenza di un approccio unitario ha condotto l’OCSE ad intervenire a più riprese con delle specifiche raccomandazioni e proposte di modifica, le ultime delle quali nel 201117 e nel 2012.18

3 La stabile organizzazione nel diritto tributario italiano.

La definizione di stabile organizzazione elaborata in ambito convenzionale ha per decenni reso superflua la presenza di definizioni “interne” contenute nelle discipline domestiche. Conseguentemente, prima dell’enunciazione nell’ordinamento domestico del concetto di stabile organizzazione la dottrina e la prassi italiana tendevano a ricostruirne i confini proprio sulla base delle convenzioni contro la doppia imposizione e, in particolare, sulla base della definizione fornita dall’art. 5 del Modello OCSE,19 sebbene alcuni studiosi

17 OECD, Interpretation and application of Article 5 (Permanent establishment) of the OECD Model Tax Convention, Paris, 12.10.2011. 18 OECD, OECD Model Tax Convention: Revised proposals concerning the interpretation and application of Article 5 (Permanent establishment), Paris, 19.10.2012. Per alcune considerazioni, cfr. AVOLIO, D. – RUGGIERO, P., Le proposte di modifica al Commentario OCSE sulla stabile organizzazione, in Corriere Tributario, vol. 35, n. 15/2012, p. 1112 ss. 19 In questo senso, cfr. LOVISOLO, A., Il concetto di stabile organizzazione nel regime convenzionale contro la doppia imposizione, in Diritto e Pratica Tributaria, vol. 54, n. 6/1983, Parte I, p. 1132; CERIANA, E., Stabile organizzazione e imposizione sul reddito, in Diritto e Pratica Tributaria, vol. 66, n. 3/1995, Parte I, p. 660. In tal senso, era orientata anche l’Amministrazione finanziaria: cfr. MINISTERO DELLE FINANZE –

DIR. II.DD., Circolare 30 aprile 1977, n. 7/1496 («occorre fare riferimento all’unica fonte disponibile in materia desumibile dagli accordi internazionali per l’eliminazione della doppia imposizione», cioè «alla definizione che della stabile organizzazione fornisce l’art. 5 del modello di Convenzione adottato dall’OCSE cui si ispirano le corrispondenti clausole degli accordi stipulati dall’Italia »); MINISTERO

DELLE FINANZE – DIR. II.DD., Circolare 17 marzo 1979 (prot. n. 12/345), n. 12; MINISTERO DELLE FINANZE – DIR. TT.AA., Risoluzione 7 dicembre 1991, n. 501504.

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sostenessero che il concetto interno di stabile organizzazione fosse sì ispirato a quello convenzionale, ma sostanzialmente autonomo.20

3.1 La stabile organizzazione nelle imposte sul reddito.

In Italia una vera e propria definizione “interna” di stabile organizzazione nell’ambito delle imposte dirette è stata recepita solo con la riforma tributaria del 2003, la quale ha introdotto l’art. 162 all’interno del D.P.R. 22 dicembre 1986 (d’ora in avanti, TUIR).21 La norma in questione è intervenuta sulla

20 Cfr. in particolare GALLO , F., Contributo all’elaborazione del concetto di “stabile organizzazione” secondo il diritto interno, in Rivista di Diritto Finanziario e Scienza delle Finanze, vol. 45, n. 3/1985, Parte I, p. 385 ss., il quale comunque evidenzia «il mero valore di fatto (e non certo vincolante e di diritto)» del concetto di “stabile organizzazione” elaborato nel Modello OCSE, il quale riveste la funzione di «canone interpretativo – quasi come una guide-line» per l’applicazione della disciplina interna (p. 400). In senso analogo, si veda anche CERRATO, M., La definizione di “stabile organizzazione” nelle Convenzioni per evitare le doppie imposizioni, in SACCHETTO, C. – ALEMANNO, L. (coordinati da), Materiali di diritto tributario internazionale, Milano, 2002, p. 96, il quale evidenzia che alla nozione convenzionale di “stabile organizzazione” «fanno anche generalmente riferimento la dottrina, la giurisprudenza e l’amministrazione finanziaria italiana per dare corpo al concetto di stabile organizzazione previsto dalla normativa interna quale criterio di collegamento per sottoporre a tassazione nel territorio dello Stato i redditi d’impresa prodotti da non residenti». 21 «1. Fermo restando quanto previsto dall’articolo 169, ai fini delle imposte sui redditi e dell’imposta regionale sulle attività produttive di cui al decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, l’espressione “stabile organizzazione” designa una sede fissa di affari per mezzo della quale l’impresa non residente esercita in tutto o in parte la sua attività sul territorio dello Stato. 2. L’espressione “stabile organizzazione” comprende in particolare:

a) una sede di direzione; b) una succursale; c) un ufficio; d) un’officina; e) un laboratorio; f) una miniera, un giacimento petrolifero o di gas naturale, una cava o altro luogo di estrazione di risorse naturali, anche in zone situate al di fuori delle acque territoriali in cui, in conformità al diritto internazionale consuetudinario ed alla legislazione nazionale relativa all’esplorazione ed allo sfruttamento di risorse naturali, lo Stato può esercitare diritti relativi al fondo del mare, al suo sottosuolo ed alle risorse naturali.

3. Un cantiere di costruzione o di montaggio o di installazione, ovvero l’esercizio di attività di supervisione ad esso connesse, è considerato “stabile organizzazione” soltanto se tale cantiere, progetto o attività abbia una durata superiore a tre mesi. 4. Una sede fissa di affari non è, comunque, considerata stabile organizzazione se:

a) viene utilizzata una installazione ai soli fini di deposito, di esposizione o di consegna di beni o merci appartenenti all’impresa; b) i beni o le merci appartenenti all’impresa sono immagazzinati ai soli fini di deposito, di esposizione o di consegna;

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base delle generose indicazioni contenute nella Legge delega n. 80/200322 ed ha adottato una soluzione normativa che attinge direttamente alla definizione contenuta nell’art. 5 del Modello OCSE.23 Nonostante la definizione interna

c) i beni o le merci appartenenti all’impresa sono immagazzinati ai soli fini della trasformazione da parte di un’altra impresa; d) una sede fissa di affari è utilizzata ai soli fini di acquistare beni o merci o di raccogliere informazioni per l’impresa; e) viene utilizzata ai soli fini di svolgere, per l’impresa, qualsiasi altra attività che abbia carattere preparatorio o ausiliario; f) viene utilizzata ai soli fini dell’esercizio combinato delle attività menzionate nelle lettere da a) ad e), purché l’attività della sede fissa nel suo insieme, quale risulta da tale combinazione, abbia carattere preparatorio o ausiliario.

5. Oltre a quanto previsto dal comma 4 non costituisce di per sé stabile organizzazione la disponibilità a qualsiasi titolo di elaboratori elettronici e relativi impianti ausiliari che consentano la raccolta e la trasmissione di dati ed informazioni finalizzati alla vendita di beni e servizi. 6. Nonostante le disposizioni dei commi precedenti e salvo quanto previsto dal comma 7, costituisce una stabile organizzazione dell’impresa di cui al comma 1 il soggetto, residente o non residente, che nel territorio dello Stato abitualmente conclude in nome dell’impresa stessa contratti diversi da quelli di acquisto di beni. 7. Non costituisce stabile organizzazione dell’impresa non residente il solo fatto che essa eserciti nel territorio dello Stato la propria attività per mezzo di un mediatore, di un commissionario generale, o di ogni altro intermediario che goda di uno status indipendente, a condizione che dette persone agiscano nell’ambito della loro ordinaria attività. 8. Nonostante quanto previsto dal comma precedente, non costituisce stabile organizzazione dell’impresa il solo fatto che la stessa eserciti nel territorio dello Stato la propria attività per mezzo di un raccomandatario marittimo di cui alla legge 4 aprile 1977, n. 135, o di un mediatore marittimo di cui alla legge 12 marzo 1968, n. 478, che abbia i poteri per la gestione commerciale o operativa delle navi dell’impresa, anche in via continuativa. 9. Il fatto che un’impresa non residente con o senza stabile organizzazione nel territorio dello Stato controlli un’impresa residente, ne sia controllata, o che entrambe le imprese siano controllate da un terzo soggetto esercente o no attività d’impresa non costituisce di per sé motivo sufficiente per considerare una qualsiasi di dette imprese una stabile organizzazione dell’altra». Per un approfondimento, cfr. ARAMINI , F. – BALLANCIN , A. – LUPI, R. – STEVANATO, D., Le modifiche al concetto di stabile organizzazione: alcuni commenti, in Dialoghi di Diritto Tributario, vol. 2, n. 6/2004, p. 863 ss.; DELLA VALLE , E., La nozione di stabile organizzazione nel nuovo Tuir, in Rassegna Tributaria, vol. 47, n. 5/2004, p. 1597 ss.; GAFFURI, A.M., La stabile organizzazione nella nuova Ires, in MARINO, G. (a cura di), La nuova imposta sul reddito delle società, Milano, 2004, p. 279 ss.; PERRONE, L., La stabile organizzazione, in Rassegna Tributaria, vol. 47, n. 3/2004, p. 794 ss. 22 Più precisamente, l’art. 4, comma 1, lett. a), Legge 7 aprile 2003, n. 80, prevedeva che il legislatore delegato dovesse elaborare una «definizione della nozione di stabile organizzazione sulla base dei criteri desumibili dagli accordi internazionali contro le doppie imposizioni». 23 Come evidenzia TESAURO, F., Aspetti internazionali della riforma fiscale, in Fiscalità Internazionale, vol. 1, n. 5/2003, p. 433, «le novità del decreto delegato

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di stabile organizzazione sia modellata su quella contenuta nelle convenzioni internazionali, l’art. 169 TUIR sancisce espressamente che la prima possa prevalere sulla seconda solo nella misura in cui risulti più favorevole per il contribuente.24

3.2 La stabile organizzazione nell’IVA.

In ambito IVA la stabile organizzazione è richiamata dalla disciplina contenuta nel D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633.25 In particolare, l’art. 17 prevede la necessità di nomina di una rappresentante fiscale ai fini IVA per tutti quei soggetti non residenti e senza stabile organizzazione in Italia che cedono merci o prestano servizi anche in maniera solo occasionale, al fine di adempiere agli obblighi e di esercitare i diritti per suo tramite.

Trattandosi però di un tributo armonizzato occorre intraprendere l’analisi dalla disciplina europea,26 la quale per lungo tempo ha fatto riferimento più che alla “stabile organizzazione” al “centro di attività stabile” quale criterio per l’identificazione del luogo della prestazione dei servizi,27 sebbene la dottrina ritenesse che tali locuzioni dovessero considerarsi coincidenti.28

superano il vaglio della conformità della delega solo se sono riconducibili ad un criterio già presente nelle convenzioni». 24 L’art. 169 TUIR (Accordi internazionali) statuisce, infatti, che «le disposizioni del presente testo unico si applicano, se più favorevoli al contribuente, anche in deroga agli accordi internazionali contro la doppia imposizione». L’Amministrazione finanziaria ha precisato che in tale caso «è rimessa al contribuente la possibilità di invocare l’eventuale trattamento più favorevole della norma interna rispetto a quanto previsto dagli Accordi internazionali». Così, AGENZIA DELLE ENTRATE, Circolare 16 giugno 2004, n. 25/E, par. 6.3. 25 Per esempio, l’art. 7 in tema di territorialità dell’imposta stabilisce che per “soggetto passivo stabilito nel territorio dello Stato” debba intendersi «un soggetto passivo domiciliato nel territorio dello Stato o ivi residente che non abbia stabilito il domicilio all’estero, ovvero una stabile organizzazione nel territorio dello Stato di soggetto domiciliato e residente all’estero, limitatamente alle operazioni da essa rese o ricevute». 26 Al riguardo, rileva acutamente TESAURO, F., Appunti sulla “illegittimità comunitaria” delle norme Iva relative agli enti pubblici, in Bollettino Tributario, vol. 54, n. 23/1987, p. 1757, nt. 1, che «un’imposta come l’Iva […] andrebbe studiata esaminando prima le norme comunitarie e poi le norme interne (interpretando le seconde alla luce delle prime, e facendo prevalere le prime in caso di contrasto)». 27 L’art. 9, comma 1, Direttiva n. 77/388/CEE, prevedeva che «si considera luogo di una prestazione di servizi il luogo in cui il prestatore ha fissato la sede della propria attività economica o ha costituito un centro di attività stabile, a partire dal quale la prestazione di servizi viene resa o , in mancanza di tale sede o di tale centro di attività stabile , il luogo del suo domicilio o della sua residenza abituale». In dottrina, cfr. LUDOVICI, P., Il regime impositivo della stabile organizzazione agli effetti dell’imposta sul valore aggiunto, in Rivista di Diritto Tributario, vol. 8, n. 1/1998, Parte I, p. 67 ss. 28 Cfr., per tutti, GIORGI, M., La stabile organizzazione nel sistema dell’imposta sul valore aggiunto, in Rivista di Diritto Tributario, vol. 10, n. 1/2000, Parte I, p. 64.

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Nel caso ARO Lease BV del 1997, la Corte di Giustizia UE ha ritenuto che «allorché una società di leasing non dispone in uno Stato membro né di personale proprio né di una struttura che presenti un sufficiente grado di stabilità, nell’ambito della quale possano essere redatti contratti o prese decisioni amministrative, struttura che sia quindi idonea a rendere possibili in modo autonomo le prestazioni di servizi in questione, essa non può essere considerata disporre di un centro di attività stabile in tale Stato».29 I requisiti minimi per poter identificare un centro di attività stabile di un soggetto passivo IVA in un altro Stato membro sono, dunque:

a) presenza di personale proprio;30 oppure b) presenza di una struttura che palesi un sufficiente grado di

stabilità, nella quale possano essere stipulati contratti o adottate decisioni amministrative.

Nella giurisprudenza domestica, il problema della configurabilità della stabile organizzazione ai fini IVA si è posto con particolare riguardo alla disciplina del rimborso ex art. 38-bis, D.P.R. n. 633/1972.31 Più precisamente, si profilavano spesso controversie originate dalla richiesta da parte dell’impresa non residente di rimborso dell’IVA maturata dalla stabile organizzazione localizzata in Italia, richiesta che frequentemente veniva rigettata dagli Uffici. Prima di addentrarsi in tale questione, occorre preliminarmente inquadrare gli elementi essenziali che connotano la stabile organizzazione e gli aspetti relativi al riparto dell’onere della prova fra contribuente ed Amministrazione finanziaria. Nella prova dell’esistenza della stabile organizzazione in Italia di un’impresa non residente, i giudici di merito non considerano determinante il fatto che una società italiana risulti interamente controllata da una società estera:32 in altre parole, perché possa ravvisarsi una stabile organizzazione all’interno

29 CGUE, Sez. VI, 17 luglio 1997, causa C-190/95 ARO Lease BV, in Racc. p. I-4399, par. 19. Nello stesso senso, cfr. CGUE, Sez. V, 7 maggio 1998, causa C-390/96 Lease Plan Luxembourg SA, in Racc. p. I-2571, parr. 21 ss., con nota di PISTONE, P., Centro di attività stabile e stabile organizzazione: l’Iva richiede un’evoluzione per il XXI secolo?, in Rivista di Diritto Tributario, vol. 9, n. 1/1999, Parte III, p. 12 ss. 30 Ai fini IVA, a differenza della stabile organizzazione ai fini delle imposte dirette, «è sempre richiesta la presenza dell’elemento umano». Così, TOMASSINI, A., Stabili organizzazioni e commercio elettronico, in Corriere Tributario, vol. 36, n. 19/2013, p. 1499. 31 Sul tema, cfr. ALTIERI, E., Orientamenti della giurisprudenza della Sezione Tributaria della Cassazione in materia di rapporti tra diritto nazionale comunitario e convenzioni, nozione di stabile organizzazione di società straniere, in Rassegna Tributaria, vol. 46, n. 1-bis/2003, p. 408 ss. 32 Si ricorda, tuttavia, che la giurisprudenza più risalente faceva conseguire in via presuntiva la sussistenza di una stabile organizzazione operante in Italia sulla base di elementi quali il controllo totalitario di una società estera sulla società italiana o il fatto che la controllata italiana e la controllante estera svolgessero la medesima attività. In questo senso, si veda Comm. Trib. Centr., Sez. V, 29 maggio 1979, n. 7046, in Bollettino Tributario, vol. 47, n. 13/1980, p. 878 ss., con nota critica di MAYR, S., ivi.

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della partecipata italiana, quest’ultima non deve avere un “carattere indipendente” (e.g. deve disporre del potere esercitato abitualmente di concludere contratti in nome della controllante).33 Anche nel settore delle imposte dirette il fatto che una società residente nello Stato A controlli o sia controllata da una società residente nello Stato B non è un elemento sufficiente a far considerare una società come stabile organizzazione dell’altra:34 in tali ipotesi, occorrerà effettuare un’analisi caso per caso. L’inquadramento delle caratteristiche sostanziali della stabile organizzazione di un soggetto non residente è particolarmente importante al fine di stabilire la rilevanza o meno dei servizi intra-gruppo. In linea di massima, la stessa Commissione Europea ha da tempo adottato un approccio volto a considerare irrilevanti ai fini IVA i passaggi di beni e servizi fra diverse articolazioni territoriali del medesimo soggetto passivo. Più precisamente, l’art. 6, par. 6 della Proposta di direttiva del 2003 statuiva che «se una singola persona giuridica ha costituito varie stabili organizzazioni, i servizi resi tra queste sedi non sono considerati prestazioni di servizi».35 In sostanza, i servizi prestati nell’ambito dello stesso soggetto passivo IVA ( e.g. prestazione di un servizio dalla sede principale ad una filiale) non sono considerati rientranti nel campo di applicazione oggettivo dell’IVA sia in un’ipotesi meramente interna ad uno Stato membro sia, a maggior ragione, in una situazione in cui le sedi siano situate in due o più Stati membri. Di converso, sono considerate “prestazioni” ai sensi della disciplina europea sull’IVA i servizi prestati a titolo oneroso fra persone giuridiche distinte (e.g. fra sede principale e consociata interamente controllata).36 Nel 2003, la Suprema Corte recepiva l’orientamento tracciato dai giudici europei nel summenzionato caso ARO Lease BV ritenendo che «il riferimento di una prestazione di servizi a un centro di attività diverso dalla sede viene in considerazione solo se tale centro d’attività presenti un grado sufficiente di

33 Cfr. Comm. Trib. Prov. Milano, Sez. I, 25 marzo 1999, n. 512, in Diritto e Pratica Tributaria, vol. 71, n. 2/2000, Parte III, p. 104 ss., con nota di DE RINALDIS, A., Sulla soggettività tributaria della stabile organizzazione, ivi, p. 109 ss. 34 Tale regola è prevista espressamente sia dall’art. 5, comma 7, Modello OCSE, sia dall’art. 169, comma 9, TUIR. 35 Al riguardo, cfr. COMMISSIONE EUROPEA, Proposta di Direttiva del Consiglio che modifica la direttiva 77/388/CEE per quanto riguarda il luogo delle prestazioni di servizi, COM(2003) 822 def., Bruxelles, 23.12.2003, par. 9 della Relazione illustrativa, si sottolineava «che i servizi prestati tra filiali diverse di una società o tra una filiale e la sede principale (cioè, sedi diverse), purché facenti capo alla stessa persona giuridica, non rientrino normalmente nel campo di applicazione dell’IVA. Questo principio è valido nei casi in cui le sedi siano situate nello stesso Stato membro o in più paesi» 36 In questo senso, cfr. ASSONIME, Circolare 28 marzo 2002, n. 29, secondo cui «attesa la nozione unitaria del soggetto passivo d’imposta […] nonché la definizione di operazioni imponibili, che per la loro onerosità, presuppongono uno scambio di beni o servizi tra due soggetti, è difficile immaginare che la casa madre e stabile organizzazione, per i rapporti interni tra loro intercorrenti, possano considerarsi, ai fini dell’Iva, come due soggetti distinti».

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stabilità e una struttura idonea, sul piano del corredo umano e tecnico, a rendere possibili in modo autonomo le prestazioni di cui trattasi». Nella logica dell’imposta sul valore aggiunto, l’esistenza di una stabile organizzazione in uno Stato membro costituisce una struttura operativa che costituisce un centro di imputazione di taluni effetti giuridici, ma non può sicuramente costituire un soggetto autonomo e distinto rispetto allo stabilimento principale non residente.37 Al riguardo, a seguito di un rinvio pregiudiziale effettuato dalla Corte di Cassazione,38 i giudici europei sancivano nettamente che «un centro di attività stabile, che non sia un ente giuridico distinto dalla società di cui fa parte, stabilito in un altro Stato membro e al quale la società fornisce prestazioni di servizi, non dev’essere considerato soggetto passivo in ragione dei costi che gli vengono imputati a fronte di tali prestazioni».39 Il problema interpretativo di fondo rimaneva, comunque, la difficile conciliabilità del concetto di “stabile organizzazione” previsto dall’art. 5 del Modello OCSE ed utilizzato ai fini delle imposte dirette, con il diverso concetto di “centro di attività stabile” presente nell’art. 2, Dir. n. 77/388/CEE. Nel 2008 la giurisprudenza di legittimità ha prospettato un’interpretazione volta a superare tale dicotomia, ritenendo che «la nozione di stabile organizzazione in Italia di una società straniera ai fini Iva […] deve essere tratta dall’art. 5 del modello di convenzione OCSE contro la doppia imposizione e dal suo commentario, integrata, con i requisiti di “centro di attività stabile”, di cui all’art. 2 della Sesta Direttiva Iva (77/388/CEE), definito dalla giurisprudenza comunitaria (sentenza delle Cotte di Giustizia 17 luglio 1997, C-190/95 ARO Lease) come struttura

37 In questo senso, cfr. anche AGENZIA DELLE ENTRATE, Direzione Regionale della Lombardia, Risoluzione 31 ottobre 2003, ove si accoglieva la ricostruzione prospettata dal contribuente rilevandosi che «il rapporto intercorrente tra la società istante e la propria casa madre» rappresentava «un mero passaggio interno di somme di denaro, irrilevante agli effetti dell’IVA». Nello stesso senso, cfr. Agenzia delle Entrate, Risoluzione 22 agosto 2002, prot. n. 2002/135/102. Per un commento a tali orientamenti dell’Amministrazione finanziaria, cfr. RAGUSA, M. – GIORGI, M., I rapporti tra la casa madre straniera e la propria stabile organizzazione alla luce di due recenti pronunce ministeriali, in Dialoghi di Diritto Tributario, vol. 1, n. 3/2003, p. 489 ss. 38 Cfr. Cass. civ., Sez. Trib., ordinanza 23 aprile 2004, n. 7851, in Rivista di Diritto Tributario, vol. 14, n. 10/2004, Parte II, p. 515 ss., con note di DELLA VALLE , E., Si va verso una soluzione definitiva del problema relativo alla rilevanza o meno, ai fini Iva, dei servizi interni resi dalla casa madre alla sua stabile organizzazione (e viceversa), ivi, p. 526 ss., di FRANSONI, G., Spunti sulla nozione di “consumo” di beni e di servizi nell’IVA con particolare riferimento alle operazioni internazionali, ivi, p. 543 ss., e di GIORGI, M. – LUPI, R., Prestazioni di servizi tra casa madre e stabile organizzazione, tra assenza di dualità civilistica e “simmetrie fiscali” , in Dialoghi di Diritto Tributario, vol. 2, n. 10/2004, p. 1415 ss. 39 Così, CGUE, Sez. II, 23 marzo 2006, causa C-210/04 FCE Bank plc, in Racc. p. I-2825, par. 41, con nota di CENTORE, P., ‘Centro stabile’ e ‘stabile organizzazione’ ai fini IVA, in GT –Rivista di Giurisprudenza Tributaria, vol. 13, n. 8/2006, p. 655 ss.

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dotata di risorse materiali ed umane».40 In sostanza, la Suprema Corte ha cercato di individuare un’interpretazione di stabile organizzazione ai fini IVA fondata sulla nozione convenzionale ma, al contempo, rispettosa dei criteri previsti dalla Sesta Direttiva. Più di recente, la Corte di Giustizia UE è tornata ad occuparsi dell’argomento in un caso relativo al diritto di rimborso dell’IVA ad un soggetto passivo residente in un altro Stato membro o in uno Stato extra-UE, ma con un centro di attività stabile in Italia. In base all’art. 38-ter del D.P.R. n. 633/1972, l’Italia negava la detrazione dell’IVA a credito a tali soggetti passivi con centro di attività stabile italiano nelle ipotesi in cui l’acquisto per cui era domandato il rimborso era effettuato non tramite il centro di attività stabile, ma direttamente dallo stabilimento principale di tale soggetto passivo.41 Questo approccio era stato in più occasioni avallato dall’Amministrazione finanziaria, la quale riteneva operante un vero e proprio divieto per il soggetto non residente di recuperare il credito IVA maturato in capo alla precedente posizione IVA aperta dalla stabile organizzazione localizzata nel territorio italiano.42 Ebbene, secondo la Corte di Giustizia UE con tale normativa l’Italia era venuta meno agli obblighi assunti a livello europeo, dal momento che i soggetti passivi residenti in altro Stato membro o in Stato extra-UE con centro di attività stabile in Italia hanno il diritto di chiedere il rimborso dell’IVA secondo le procedure previste dagli artt. 1 delle Direttive n. 79/1072/CEE e n. 86/560/CEE piuttosto che tramite il meccanismo della detrazione: «stando alla finalità di tali articoli, essi limiterebbero il ricorso

40 Così, Cass. civ., Sez. Trib., 15 febbraio 2008, n. 3889, in Rivista di Diritto Tributario, vol. 19, n. 1/2009, Parte V, p. 1 ss., con nota di CERRATO, M., La rilevanza del Commentario Ocse ai fini interpretativi: analisi critica dei più recenti indirizzi giurisprudenziali, ivi, p. 11 ss. 41 Al riguardo, l’Amministrazione finanziaria riteneva che il c.d. principio della “forza di attrazione” della stabile organizzazione, «per effetto del quale il soggetto non residente con stabile organizzazione nel territorio dello Stato deve procedere alla fatturazione, registrazione e dichiarazione, vale esclusivamente per quelle operazione materialmente effettuare dalla stabile organizzazione e non anche per quelle realizzate direttamente dalla casa madre estera». Così, AGENZIA DELLE ENTRATE, Risoluzione 9 gennaio 2002, n. 4/E. Sull’operatività di tale principio alla luce del nuovo art. 162 TUIR, cfr. per tutti LOVISOLO, A., La “forza di attrazione” e la determinazione del reddito della stabile organizzazione, in MARINO, G. (a cura di), I profili internazionali e comunitari della nuova imposta sui redditi delle società, Milano, 2004, p. 69 ss. 42 Cfr. AGENZIA DELLE ENTRATE, Risoluzione 30 luglio 2008, n. 327/E, in cui veniva sancito che «la circostanza che le prestazioni effettuate tra la casa madre e la stabile organizzazione siano fuori campo Iva, nulla toglie alla natura commerciale dell’attività svolta dalla stabile organizzazione che, pertanto, è da considerare soggetto passivo ai fini Iva; d’altronde non esistono limiti a che la stabile organizzazione svolga anche operazioni nei confronti di soggetti terzi che dovrebbero essere regolarmente fatturate e registrate. Ne consegue, quindi, che la stabile organizzazione deve essere munita di partita Iva e deve adempiere a tutti gli obblighi previsti dalla normativa in materia».

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alla procedura di rimborso dell’IVA ai soli casi in cui una detrazione di tale imposta risulti impossibile. In presenza di un centro di attività stabile che compie operazioni attive, nulla osterebbe a che si proceda alla detrazione dell’IVA secondo le norme previste dall’art. 18 della sesta direttiva».43 A seguito di tale decisione della Corte di Giustizia UE, l’Italia si adeguava introducendo l’art. 11, D.L. n. 135/2009, che, modificando l’art. 17, D.P.R. n. 633/1972, riconosce un ruolo parzialmente assorbente44 alla stabile organizzazione in Italia del soggetto passivo IVA non residente che può avvalersi della detrazione dell’IVA gravata sugli acquisti effettuati dalla sede centrale non residente.45 Due anni dopo anche l’Amministrazione finanziaria superava definitivamente l’approccio seguito in precedenza ammettendo «la possibilità di far confluire nella stabile organizzazione di una società non residente le posizioni debitorie e creditorie riferibili alla precedente posizione IVA di identificazione diretta, senza ricorrere, quindi, alla procedura di rimborso dell’eccedenza del credito IVA maturata dalla medesima posizione di identificazione diretta».46 Le incertezze interpretative legate al concetto di stabile organizzazione in ambito IVA sono state definitivamente sgombrate con l’approvazione del Reg. (UE) n. 282/2011,47 il cui art. 11, comma 1, stabilisce espressamente che quest’ultima «designa qualsiasi organizzazione […] caratterizzata da un grado sufficiente di permanenza e una struttura idonea in termini di mezzi umani e tecnici atti a consentirle di ricevere e di utilizzare i servizi che le sono forniti per le esigenze proprie di detta organizzazione».48

43 CGUE, Sez. VIII, 16 luglio 2009, causa C-244/08 Commissione c. Italia, in Racc. p. I-00130, par. 14. 44 Per questa espressione, cfr. BASILAVECCHIA, M., Novità in tema di detrazione e di stabile organizzazione, in Corriere Tributario, vol. 32, n. 40/2009, p. 3261 ss., il quale evidenzia efficacemente che dopo la novella legislativa «appare chiaro che la posizione del soggetto non residente, che abbia stabile organizzazione in Italia, conduce ad un tendenziale assorbimento delle attività in Italia del soggetto stesso da parte della stabile organizzazione, dato che la presenza di quest’ultima costituisce un «modo di essere» della soggettività del non residente, che lo differenzia dalle ipotesi prive del centro stabile di imputazione» (p. 3262). 45 Sul punto, cfr. anche CENTORE, P., Detrazione e rimborso per i soggetti non residenti, in L’IVA, vol. 9, n. 10/2009, p. 5 ss. 46 Cfr. AGENZIA DELLE ENTRATE, Risoluzione 24 novembre 2011, n. 108/E. Per un primo commento, cfr. CERATO, S., Recupero del credito Iva maturato da un soggetto non residente identificato direttamente e con stabile organizzazione, in Il Fisco, vol. 35, n. 46/2011, p. 2-7555 ss. 47 Regolamento di esecuzione (UE) n. 282/2011 del Consiglio del 15 marzo 2011 recante disposizioni di applicazione della direttiva 2006/112/CE relativa al sistema comune di imposta sul valore aggiunto (rifusione), in GUUE del 23 marzo 2011, L 77, p. 1 ss. 48 Come rileva Così, TOMASSINI, A., Stabili organizzazioni e commercio elettronico, in Corriere Tributario, vol. 36, n. 19/2013, p. 1499, tale definizione di stabile organizzazione ai fini IVA «non fa altro che recepire i principi elaborati dalla Corte di giustizia sul concetto di centro di attività stabile».

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Nonostante tali chiarimenti da parte del legislatore europeo, la giurisprudenza degli Stati membri (non solo italiana) continua ad adottare interpretazioni discutibili che ostacolano il pieno esercizio del diritto al rimborso ai soggetti non residenti.49 Questo filone, in particolare, considera che la mera attribuzione della partita IVA ad un soggetto non residente che ne abbia fatto richiesta costituisce un elemento indiziario che faccia presumere l’esistenza di una stabile organizzazione: sebbene si tratti di una presunzione relativa, tale orientamento subordina la richiesta di rimborso ex art. 38-bis, D.P.R. n. 633/1972 alla dimostrazione da parte del contribuente dell’assenza nel territorio italiano di elementi di ordine personale e materiale che connotano la stabile organizzazione.50 Qualora, però, il soggetto non residente effettui nel territorio dello Stato esclusivamente un’operazione immobiliare occorrerà valutare caso per caso se sussistono le caratteristiche della stabile organizzazione: in tale ipotesi, mentre l’eventuale apertura di una partita IVA non sarà in grado di configurare una stabile organizzazione in Italia,51 ai fini delle imposte dirette andrà verificato in concreto se lo sfruttamento economico dell’immobile rientra o meno nell’ordinaria attività d’impresa.52

49 Per un’ampio excursus sul tema, cfr. da ultimo BUCCICO, C., Il rimborso dell’Iva assolta da soggetti passivi non residenti, in Rassegna Tributaria, vol. 53, n. 4/2010, p. 1043 ss. 50 In questo senso, cfr. Cass. civ., Sez. Trib., 13 aprile 2005, n. 7703, in Corriere Tributario, vol. 28, n. 27/2005, p. 2163, con nota di IAVAGNILIO , M., Dall’attribuzione della partita IVA non deriva la presunzione assoluta di stabile organizzazione, ivi, p. 2166; Comm. Trib. Reg. Roma, Sez. I, 6 giugno 2006, n. 120, in banca dati Fisconline; Cass. Cass. civ., Sez. Trib., ord. 20 luglio 2012, n. 12633, in Corriere Tributario, vol. 35, n. 44/2012, p. 3391 ss., con nota di CENTORE, P., La «tormentata» identificazione dei soggetti non residenti ai fini del rimborso dell’IVA, ivi, p. 3387 ss.; Cass. civ., Sez. Trib., ord. 30 novembre 2012, n. 21380, in banca dati Fisconline, con nota di SIRRI, M. – ZAVATTA , R., Stabile organizzazione presunta e negazione del rimborso IVA ai soggetti non residenti, in L’IVA, vol. 13, n. 3/2013, p. 13 ss. 51 Sul punto, cfr. Comm. Trib. I grado Roma, Sez. X, 15 novembre 1988, n. 88100505, in banca dati Fisconline, secondo cui «il fatto di aver denunciato la propria presenza in Italia ed aver effettuato l’iscrizione di una partita Iva, da solo, non è elemento sufficiente per ritenere l’esistenza di una stabile organizzazione in Italia, in quanto tale requisito deve risultare dall’esistenza di una sede, di eventuali dipendenti, dalla presentazione dei modelli 760 ai fini Irpeg e Ilor, nonché dall’iscrizione nei registri della cancelleria commerciale e della C.c.i.a.a.». 52 Sul punto, cfr. MINISTERO DELLE FINANZE – DIR. TT.AA., Risoluzione 13 dicembre 1989, n. 460196, ove si legge che «per l’esistenza di una stabile organizzazione occorre la effettiva istituzione di una autonoma e funzionale struttura nazionale rispetto alla società estera. L’autonomia deve manifestarsi sia sul piano gestionale che sul piano contabile e deve costituire sul piano imprenditoriale una entità economica operativa dotata di autonomia di gestione, non essendo sufficiente che la installazione produca comunque una qualche attività per l’impresa. La struttura immobiliare non sembra, quindi, concretizzare una stabile organizzazione, trattandosi di un bene patrimoniale non avente distinzione organizzativa e contabile dalla casa madre. Non sembra pertanto possibile individuare una precipua funzione attiva svolta dalla struttura in Italia per la produzione di reddito, essendo questo di fatto prodotto

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La stessa giurisprudenza di legittimità continua a propugnare un’interpretazione della stabile organizzazione ai fini IVA attingendo alla definizione convenzionale europeisticamente adattata ai principi contenuti nelle Direttive IVA.53 A testimonianza del fatto che la stabile organizzazione in ambito IVA (ma non solo) rappresenta un concetto magmatico ed in continua evoluzione, è opportuno segnalare una delle ultime pronunce europee sul punto, la quale – sempre in una controversia relativa al rimborso – ha escluso la configurabilità di una stabile organizzazione di un soggetto passivo residente in un altro Stato che eserciti un controllo totale sulla prima, nell’ipotesi in cui detta stabile organizzazione svolga esclusivamente prove tecniche o attività di ricerca.54 Si segnala, infine, che recentemente anche la legislazione tributaria rumena è finita al vaglio della Corte di Giustizia UE. Il 5 luglio 2012 veniva, infatti, fatto un rinvio pregiudiziale nel caso E. On Energy Trading con il quale si chiedeva alla CGUE «se un soggetto passivo avente sede principale in uno Stato membro dell’Unione europea diverso dalla Romania, che ha identificato ai fini IVA un rappresentante fiscale in Romania, sulla base delle disposizioni di legge interne in vigore prima dell’adesione della Romania all’Unione europea, possa essere considerato “soggetto passivo non residente all’interno del paese”, ai sensi dell’articolo 1 dell’ottava direttiva 79/1072/CEE».

da un complesso organizzativo che opera al di fuori dello Stato». Contra LOVISOLO, A., Il concetto di stabile organizzazione nel regime convenzionale contro la doppia imposizione, in Diritto e Pratica Tributaria, vol. 54, n. 4/1983, Parte I, p. 1135, il quale evidenzia che «ciò che assume rilevanza è la connessione, in rapporto di strumentalità o di oggetto dell’attività commerciale, con l’esercizio di impresa. Connessione, che, peraltro, nell’ipotesi di locazione del bene immobile si qualifica soprattutto da punto di vista della strumentalità immobile all’esercizio dell’impresa». 53 Si veda, in particolare, Cass. civ., Sez. Trib., 21 aprile 2011, n. 9166, in banca dati Fisconline. Sul tema, cfr. CENTORE, P., La soggettività parziale ai fini IVA della stabile organizzazione, in Fiscalità e Commercio Internazionale, vol. 2, n. 1/2012, p. 14 ss. 54 CGUE, Sez. VIII, 25 ottobre 2012, cause riunite C-318/11 e C-319/11 Daimler e Widex c. Skatteverket, in Rivista di Diritto Tributario, vol. 23, n. 3/2013, Parte IV, p. 57 ss., con nota di PENNESI, M., La Corte di Giustizia europea sul caso Daimler: la stabile organizzazione non rileva ai fini del rimborso Iva diretto, ivi, p. 66 ss., in cui i giudici del Lussemburgo stabilivano che «non può ritenersi che un soggetto passivo IVA, stabilito in uno Stato membro e che effettui, in un altro Stato membro, unicamente prove tecniche o attività di ricerca, ad esclusione di operazioni imponibili, disponga, in detto altro Stato membro, di un «centro di attività stabile dal quale sono svolte le operazioni», o di una «stabile organizzazione dalla quale [sono state] effettuate operazioni» ai sensi dell’articolo 1 dell’ottava direttiva e dell’articolo 3, lettera a), della direttiva 2008/9» (par. 44).

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3.3 La giurisprudenza antecedente alla modifica del 2003.

Prima dell’introduzione nel nostro ordinamento di una definizione di stabile organizzazione, le varie norme fiscali che disciplinavano gli obblighi formali e sostanziali in capo ai contribuenti relativamente a IRPEF,55 IRPEG, ILOR e IVA, non contenevano «la definizione degli elementi essenziali della stabile organizzazione di soggetto non residente ciò in quanto la materia fiscale contro le doppie imposizioni è regolata da Convenzioni bilaterali stipulate con i diversi Paesi stranieri».56 La giurisprudenza più risalente tendeva addirittura a ricondurre la nozione fiscale di stabile organizzazione a quella di “sede secondaria” prevista dall’art. 2506 c.c.,57 ma tale orientamento è stato avversato dalla dottrina che lo riteneva «restrittivo in senso antifisco».58 In tale confuso scenario, la dottrina si è a lungo interrogata sulla possibilità o meno di considerare unitariamente il concetto di stabile organizzazione sia ai fini delle imposte dirette sia ai fini dell’imposta sul valore aggiunto. Al riguardo, alcuni studiosi, facendo leva sul principio di unitarietà dell’ordinamento tributario e constatando la mancanza di specifiche 55 Art. 19 (Applicazione dell’imposta ai non residenti), D.P.R. 29 settembre 1973, n. 597, secondo cui «si considerano prodotti nel territorio dello Stato, ai fini dell’applicazione dell’imposta nei confronti dei non residenti: […] 2) i redditi di capitale corrisposti dallo Stato, da soggetti residenti nel territorio dello Stato o da stabili organizzazione nel territorio stesso di soggetti non residenti; […] 5) i redditi di impresa derivanti da attività esercitate nel territorio dello Stato mediante stabili organizzazioni». 56 Così, Comm. Trib. I grado di Novara, Sez. III, 1 ottobre 1984, n. 807, in Corriere Tributario, vol. 8, n. 7/1985, p. 508 ss. In tale decisione, si rilevava altresì che «il concetto di stabile organizzazione non va delineato in astratto, ma deve «riguardare in concreto l’attività svolta dal soggetto non residente, ricercando, tra gli elementi esemplificativi proposti nella Convenzione, quelli effettivamente sussistenti. Al riguardo la Commissione ritiene determinante, per la soluzione del problema, la presenza dei due sottostanti elementi:

- l’assenza di qualsiasi potere di rappresentanza rivolto a concludere contratti a nome dell’impresa […]; - la qualificazione di accessorietà, sicuramente attribuibile alle operazioni di carico e scarico svolte in Italia, rispetto alla prestazione principale consistente nel trasporto internazionale».

57 Cfr. ex pluribus Cass. civ., 4 ottobre 1954, n. 3232, in Diritto Marittimo, vol. 57, n. 1/1955, p. 217 ss.; Cass. civ., 15 novembre 1960, n. 3041, in Diritto Marittimo, vol. 64, n. 1/1962, p. 12 ss.; Cass. civ., 9 luglio 1975, n. 2672, in Bollettino Tributario, vol. 77, n. 4/1975, p. 1633 ss. In tale ultima decisione, la Suprema Corte evidenziava che «la stabile organizzazione italiana della società estranea, pur non avendo rispetto a questa una distinta soggettività giuridica, costituisce sul piano imprenditoriale, una entità economica operativa dotata di autonomia di gestione, tanto da costituire il requisito di identificazione oggettiva della società estera nel nostro ordinamento e da produrre risultati suscettibili di essere bene espressi in scritture contabili autonome». 58 Così, GALLO , F., Contributo all’elaborazione del concetto di “stabile organizzazione” secondo il diritto interno, in Rivista di Diritto Finanziario e Scienza delle Finanze, vol. 45, n. 3/1985, Parte I, p. 385 ss. e, in particolare, p. 397.

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definizioni di stabile organizzazione ai fini delle singole imposte, pervenivano alla conclusione che «ciò che configura stabile organizzazione ai fini delle imposte dirette deve configurare stabile organizzazione anche agli effetti Iva (e viceversa); specularmente, ciò che non configura stabile organizzazione ai fini delle imposte dirette non deve configurare stabile organizzazione neppure agli effetti Iva (e viceversa)».59 L’approccio della giurisprudenza antecedente all’introduzione di espresse indicazioni normative relative al concetto di stabile organizzazione ha per lo più seguito tale impostazione dottrinale. Ai fini delle imposte dirette, per esempio, la Corte di Cassazione faceva espressamente rinvio alla «definizione contenuta in numerose Convenzioni contro le doppie imposizioni, stipulate in conformità allo schema elaborato dall’OCSE», statuendo che «il requisito della stabile organizzazione in Italia di società estere […] doveva essere ritenuto esistente quando l’ente straniero svolgesse abitualmente attività nel territorio nazionale avvalendosi di una struttura organizzativa materiale e/o personale, qualunque ne fosse la dimensione, purché non avesse carattere precario o temporaneo e costituisse, quindi, un centro di imputazione di rapporti e situazioni giuridiche riferibili al soggetto straniero».60 Successivamente, la stessa Suprema Corte chiariva che la stabile organizzazione si configura in presenza di «situazioni di fatto che, pur insuscettibili di essere ricondotte alla nozione di sede secondaria delineata dall’art. 2506 del codice civile, si rivelino, tuttavia, idonee a denotare il fine di quei soggetti di esercitare in Italia una attività imprenditoriale, caratterizzandosi, oltre che per un collegamento non occasionale con luoghi del territorio nazionale e con persone qui operanti, per un effettivo impiego di beni ed attività lavorative coordinati in funzione della produzione e/o dello scambio di beni e servizi, e per una effettiva, ancorché limitata, autonomia funzionale».61 Questo primo orientamento, pertanto, riteneva configurabile la

59 Così, LUDOVICI, P., Il regime impositivo della stabile organizzazione agli effetti dell’imposta sul valore aggiunto, in Rivista di Diritto Tributario, vol. 8, n. 1/1998, Parte I, pp. 72-73. 60 Così, Cass. civ., Sez. I, 27 novembre 1987, n. 8815, in Diritto e Pratica Tributaria, vol. 59, n. 6/1988, Parte II, p. 1468 ss., con nota di LANTERI, N., Anstalt, possesso di immobile in Italia e stabile organizzazione, ivi, p. 1468 ss.; Cass. civ., Sez. I, 27 novembre 1987, n. 8820, in Rivista di Diritto Finanziario e Scienza delle Finanze, vol. 47, n. 4/1988, Parte II, p. 105 ss., con nota di MEDICI, M., Società ed associazioni estere operanti in Italia e stabile organizzazione, ivi, p. 105 ss. e di PETRECCA, S., Il concetto di stabile organizzazione ai fini delle imposte dirette: la definizione della Suprema Corte, in Bollettino Tributario, vol. 55, n. 10/1988, p. 806 ss. Nella prima delle summenzionate decisioni, la Suprema Corte considerava configurabile la stabile organizzazione nel caso di acquisto di terreni di rilevante interesse turistico, considerando tale operazione un indice idoneo dell’esistenza di un piano di sfruttamento dell’area acquistata. 61 Così, Cass. civ., Sez. I, 19 settembre 1990, n. 9580, in Diritto e Pratica Tributaria, vol. 63, n. 2/1992, Parte II, p. 322 ss., annotata (insieme a Comm. Trib. Centr., Sez.

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stabile organizzazione ogniqualvolta vi fosse la simultanea sussistenza di un collegamento “umano” e di un collegamento “materiale” con il territorio dello Stato diverso da quello di residenza. La definizione si sganciava, inoltre, da una qualificazione meramente giuridica, prediligendo le situazioni di fatto che esprimono un effettivo collegamento fra il soggetto non residente e l’esercizio dell’attività commerciale nel territorio di un altro Stato. Solo nelle pronunce più recenti, la Corte di Cassazione è pervenuta alla conclusione che per poter configurare una stabile organizzazione occorre che sussistano alternativamente le predette caratteristiche “umane” e “materiali”.62 Nel settore dell’IVA, ferme le considerazioni fatte supra § 3.2., l’orientamento prevalente tendeva a mutuare il concetto di stabile organizzazione dall’ambito delle imposte dirette, in cui il punto di riferimento era l’art. 5 del Modello OCSE.63 L’Amministrazione finanziaria sposava tale tesi ed escludeva la configurabilità di una stabile organizzazione ai fini IVA qualora in Italia il soggetto non residente svolgesse attività meramente promozionali.64 In un interessante caso affrontato dalla Commissione Tributaria Provinciale di Milano, i giudici ricostruivano il concetto di stabile organizzazione ai fini IVA richiamandosi all’art. 5 del Modello OCSE e rilevavano che «per sua natura, una stabile organizzazione in Italia, così come individuata dal legislatore italiano in materia fiscale e così come individuata nel regime delle convenzioni contro la doppia imposizione, ha le caratteristiche di una unità aziendale. Come tale ne vanno individuati i beni che compongono l’azienda e i rapporti contrattuali (di lavoro e di acquisto di beni e servizi) che ne costituiscono la struttura dei costi. Solo in tale modo è

XIII, 9 marzo 1990, n. 1887) da TUNDO, F., In tema di stabile organizzazione e IVA, ivi, p. 322 ss. 62 In un caso concernente l’applicazione della Convenzione fra Italia e Svizzera, la Cassazione evidenziava che il relativo art. 5 «deve essere interpretato nel senso della non necessità, al fine dell’esistenza di una stabile organizzazione, di una compresenza dell’elemento oggettivo (c.d. stabile organizzazione materiale) e di quello soggettivo (c.d. stabile organizzazione personale), consistente nella presenza stabile in Italia di un soggetto non indipendente avente il potere di concludere contratti». Così, Cass. civ., Sez. Trib., 9 aprile 2010, n. 8488, in Rivista di Diritto Tributario Internazionale, vol. 12, n. 1/2010, p. 455 ss., con nota di DI NUNZIO, L., I concetti di stabile organizzazione materiale e personale in una recente pronuncia della Corte di Cassazione, ivi. 63 Contra FIORELLI, A. – SANTI, A., Specificità del concetto di “stabile organizzazione” ai fini dell’imposta sul valore aggiunto, in Rassegna Tributaria, vol. 41, n. 2/1998, p. 367 ss. e, in particolare, p. 385, i quali dall’analisi della giurisprudenza europea rilevano che il concetto di stabile organizzazione ai fini IVA risulta più circoscritto rispetto a quello descritto all’art. 5 del Modello OCSE e concludono che «nell’attuale fase interpretativa la nozione di stabile organizzazione ai fini Iva non collima perfettamente con quella ritenuta valida ai fini delle imposte sul reddito». 64 Cfr. MINISTERO DELLE FINANZE – DIR. TT.AA., Risoluzione 7 dicembre 1991, n. 501504.

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possibile concludere che esiste una stabile organizzazione in Italia di un soggetto non residente. In assenza di ciò, l’affermazione risulta del tutto immotivata e non provata; lo stesso accertamento dei soli ricavi, risulta, comunque, un accertamento errato, non essendo possibile l’esistenza di una stabile organizzazione (unità aziendale) capace di generare solo ricavi, senza sopportare costi».65

3.4 La giurisprudenza successiva alla modifica del 2003.

A seguito dell’introduzione nel TUIR di una definizione “interna” di stabile organizzazione, la giurisprudenza e la prassi sono state dotate di un criterio di riferimento utilizzabile ogniqualvolta non fosse applicabile una convenzione bilaterale stipulata dall’Italia. La nuova definizione normativa risulta particolarmente ampia e per l’imponibilità del reddito d’impresa prodotto dal non residente è necessaria:

a) una presenza che sia incardinata nel territorio dell’altro Stato contraente e dotata di una certa stabilità;

b) una sede di affari in grado, anche solo in via potenziale, di produrre reddito;

c) un’attività autonoma rispetto a quella svolta dalla casa madre, «dovendo aggiungersi che, ai fini dell’applicazione delle imposte dirette, la relativa indagine deve essere condotta non solo sul piano formale, ma anche – e soprattutto – su quello sostanziale».66

Un aspetto particolarmente problematico ai fini di tale verifica consiste nelle difficoltà legate all’identificazione di una stabile organizzazione nel Paese in cui è localizzato un server. Al riguardo, sempre più spesso i gruppi multinazionali svolgono attività di commercio elettronico per mezzo del quale cedono beni o prestano servizi: questa inevitabile conseguenza della globalizzazione ha notevoli implicazioni dal punto di vista fiscale. L’e-commerce può essere esercitato in modo “diretto”, quando l’oggetto della transazione è un bene immateriale (e.g. un software) che viene ceduto in via telematica,67 o in modo “indiretto”, quando l’oggetto della transazione è un bene materiale (e.g. capi di abbigliamento) e la consegna avviene per corrispondenza.68 65 In questo senso, cfr. Comm. Trib. Prov. Milano, Sez. I, 12 settembre 1997, n. 238, in Giurisprudenza Italiana, vol. 150, n. 4/1998, p. 829 ss., annotata da CERRATO, M., Considerazioni in tema di stabile organizzazione ai fini dell’IVA e delle imposte sui redditi, ivi, e da PISTONE, P., Stabile organizzazione ed esistenza di società figlia residente, in Diritto e Pratica Tributaria, vol. 69, n. 2/1998, Parte II, p. 361 ss. 66 Così, da ultimo, Cass. civ., Sez. Trib., 17 gennaio 2013, n. 1103, in banca dati Fisconline. 67 Sul punto, cfr. SALLUSTIO, C., Commercio elettronico diretto e imposizione sul reddito, Roma, 2012, passim. 68 Senza pretesa di completezza, sul tema si rinvia a MAISTO, G., Le prime riflessioni dell’Ocse sulla tassazione del commercio elettronico (nota a Committee on Fiscal Affairs – Electronic commerce: the challenges to tax authorities and taxpayers), in Rivista di Diritto Tributario, vol. 8, n. 1/1998, Parte IV, p. 47 ss.; MARELLO, E., Le

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Il primo dato normativo che deve essere preso in considerazione è proprio l’art. 162, comma 5, TUIR, secondo cui «non costituisce di per sé stabile organizzazione la disponibilità a qualsiasi titolo di elaboratori elettronici e relativi impianti ausiliari che consentano la raccolta e la trasmissione di dati ed informazioni finalizzati alla vendita di beni e servizi». La previsione nazionale recepisce parzialmente quando suggerito dall’OCSE nel Commentario all’art. 5 del Modello, cioè che l’attrezzatura informatica (computer equipment) installata in un determinato Stato può costituire una stabile organizzazione in presenza di determinate circostanze (i.e. fissità, stabilità e continuità).69 Più precisamente:

- un sito internet non costituisce un bene materiale e, pertanto, non ha un luogo che può identificare un luogo di attività; - un server (i.e. l’attrezzatura informatica necessaria per far funzionare un sito internet) può, invece, configurare una stabile organizzazione perché costituisce un bene materiale e può pertanto costituire una sede fissa d’affari dell’impresa che gestisce tale server.70

categorie tradizionali del diritto tributario ed il commercio elettronico, in Rivista di Diritto Tributario, vol. 9, n. 6/1999, Parte I, p. 595 ss.; CORABI, G., Il concetto di stabile organizzazione nel commercio elettronico, in Corriere Tributario, vol. 23, n. 28/2000, p. 2042 ss.; GALLI , C., Brevi note in materia di commercio elettronico e stabile organizzazione, in Rivista di Diritto Tributario, vol. 10, n. 4/2000, Parte IV, p. 113 ss.; HINNEKENS, L., Le implicazioni del commercio elettronico sulla tassazione all’origine, e in particolare sui paradigmi di determinazione della stabile organizzazione e l’attribuzione dei profitti senza favoritismi commerciali, in Rivista di Diritto Tributario Internazionale, vol. 3, n. 2/2001, p. 9 ss.; RINALDI , R. (a cura di), La fiscalità del commercio via internet: attualità e prospettive, Torino, 2001; URICCHIO, A. – GIORGI, M., Commercio elettronico e vendita telematica di servizi finanziari: prime considerazioni dopo la direttiva comunitaria n. 31/2000, in Diritto e Pratica Tributaria, vol. 72, n. 2/2001, Parte 1, p. 267 ss.; GALEOTTI FLORI, M.A., Commercio elettronico e fisco, Torino, 2002; FICARI, V., Regime fiscale delle transazioni telematiche, in Rassegna Tributaria, vol. 46, n. 3/2003, p. 870 ss.; FICARI, V. (a cura di), Il regime fiscale delle transazioni telematiche, Torino, 2004; MERCURIO, V., Il commercio elettronico. Profili di diritto internazionale tributario, comunitario e interno, Bologna, 2009; TOMASSINI, A., Stabili organizzazioni e commercio elettronico, in Corriere Tributario, vol. 36, n. 19/2013, p. 1498 ss. 69 Al riguardo, l’Agenzia delle Entrate chiarisce che «il server, essendo dotato di una consistenza fisica, può configurare, in presenza di determinate circostanze, una sede fissa d’affari. Ai fini della configurabilità, come individuata dal Commentario OCSE, di una stabile organizzazione, l’impresa non residente deve esercitare la propria attività per mezzo di un server che sia nella sua piena disponibilità, la quale sussiste qualunque sia il titolo giuridico che la determina (proprietà, locazione ecc.). Inoltre, affinché il server costituisca base fissa, deve considerarsi decisivo il fatto che l’apparecchiatura permanga in un luogo specifico per un tempo sufficiente ad essere considerata tale». Così, AGENZIA DELLE ENTRATE, Risoluzione 28 maggio 2007, n. 119/E. 70 Cfr. OECD, Model Tax Convention on Income and on Capital 2010 (updated 2010), Paris, 2012, parr. 42.1.–42.10, p. C(5)-24 ss.

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Il recepimento, come rilevato poc’anzi, risulta parziale perché a differenza del Commentario OCSE la norma domestica fa esclusivamente riferimento al server “fisico”, ma non contempla l’ipotesi in cui il sito internet per mezzo del quale l’impresa eserciti in un altro Stato la propria attività sia ospitato sul server di un c.d. Internet Service Provider (ISP).71 Nonostante il dato normativo, i giudici di merito hanno recentemente stabilito che un server può configurare una stabile organizzazione anche se corredato da uno specifico software idoneo a gestire il processo di commercializzazione dei prodotti della società non residente.72 Quello che, comunque, rimane indiscusso è l’impossibilità che un sito internet configuri una stabile organizzazione: questa scelta operata sia dall’OCSE che dal legislatore nazionale implica che il c.d. commercio elettronico “indiretto” non possa mai configurare una stabile organizzazione, conclusione ritenuta discutibile da parte della dottrina secondo cui «si potrebbe operare, nel campo dell’e-commerce, in un Paese stabilendosi fiscalmente in un altro. […] l’«esclusione» del sito web, propugnata in sede OCSE e accolta dal nostro legislatore, non sembra in nessun modo tener in considerazione le potenzialità di alcuni siti internet, che si sostituiscono in tutto e per tutto ai negozi tradizionali».73

4 L’elaborazione del concetto di stabile organizzazione “occulta”.

L’individuazione di una stabile organizzazione così come definita nelle previsioni convenzionali, europee e domestiche, è pur sempre frutto di una verifica case by case che deve tenere conto della situazione concreta.74

71 Tale divergenza fra normativa domestica e stabile organizzazione ai sensi del Modello OCSE implica che, per esempio, «potrà essere considerato stabile organizzazione ai sensi della normativa domestica il server collocato nel territorio nazionale che dia ospitalità ad un sito (di proprietà del possessore del server o di un terzo) organizzato per vendere beni o servizi al pubblico attraverso il quale è possibile perfezionare immediatamente la transazione, ponendo in essere lo scambio della merce in forma digitale contro il prezzo; inoltre, si potrà ravvisare la presenza di una sede fissa di affari quando, oltre a disporre di un elaboratore nel quale è ospitato il web site, in Italia l’impresa straniera possegga ulteriori mezzi di supporto per l’esecuzione dell’affare». Così, TOMASSINI, A., Stabili organizzazioni e commercio elettronico, in Corriere Tributario, vol. 36, n. 19/2013, p. 1500. 72 Così, Comm. Trib. Reg. Marche, Sez. II, 24 giugno 2011, n. 44, in GT – Rivista di Giurisprudenza Tributaria, vol. 18, n. 10/2011, p. 895 ss., con nota di TUNDO, F., Ancora controverso il concetto di stabile organizzazione tra obiettiva incertezza, personalità giuridica e cooperazione internazionale, ivi, p. 901 ss. 73 Così, TOMASSINI, A., Stabili organizzazioni e commercio elettronico, in Corriere Tributario, vol. 36, n. 19/2013, p. 1501. 74 Come rileva giustamente AMATUCCI, F., Principi e nozioni di diritto tributario, 2a ed., Torino, 2011, p. 129, nt. 24, «non esiste uno schema standard di stabile organizzazione. Per individuarla, infatti, è necessario valutare la realtà

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Nell’ambito dei gruppi societari multinazionali, la giurisprudenza italiana ha ammesso la possibilità di ravvisare una stabile organizzazione in Italia di una o più società estere facenti parte del medesimo gruppo: si tratterebbe, quindi, di una stabile organizzazione plurima di una o più società estere appartenenti al medesimo gruppo che perseguono una strategia unitaria.75 A prescindere dal carattere plurimo o univoco della stabile organizzazione presente sul territorio italiano, la giurisprudenza ha adottato un’interpretazione “antielusiva” finalizzata ad identificare anche la c.d. stabile organizzazione “occulta”.76 Con tale termine di creazione puramente giurisprudenziale si indica «una sede fissa di affari a cui un’impresa estera esercita, in tutto o in parte, la sua attività, in forma consapevole o inconsapevole – attraverso una organizzazione di uomini e mezzi ovvero per il tramite di un soggetto il quale agisce in qualità di agente dipendente/indipendente – senza tuttavia dichiarare, all’autorità fiscale del Paese in cui è localizzata, i relativi proventi dalla stessa generati e ad essa direttamente imputabili».77 Dunque, può configurarsi una stabile organizzazione materiale o personale anche in presenza di installazioni occultate o dissimulate dal contribuente.78 Il caso di scuola in tema di stabile organizzazione occulta è senza dubbio il caso Philip Morris del 2002.79 Il colosso del tabacco, diretto dalla sede di

imprenditoriale del soggetto non residente che si avvale di risorse materiali e personali in Italia». 75 Per approfondimento, cfr. PENNESI, M., Le sedi plurime a direzione unitaria sono stabile organizzazione, in Corriere Tributario, vol. 34, n. 48/2011, p. 4012 ss. 76 Per una rapido excursus, cfr. VALENTE, P., La stabile organizzazione «occulta» nella giurisprudenza italiana, in Fiscalità e Commercio Internazionale, vol. 2, n. 5/2012, p. 30 ss. 77 Così, VALENTE, P. – MATTIA , S. – SCHIPANI, P., Il concetto di “stabile organizzazione occulta” , in VALENTE, P. – V INCIGUERRA, L. (a cura di), Stabile organizzazione occulta. Profili applicativi nelle verifiche, Milano, 2013, p. 10. 78 Già da tempo la giurisprudenza di merito evidenziava che l’assoggettamento ad imposizione in Italia di un soggetto non residente deve essere subordinato alla «prova concreta e giudizialmente attendibile della sussistenza de facto di una stabile organizzazione (attraverso uffici, stabilimenti, ecc.) effettivamente operante in territorio italiano». Così, Comm. Trib. Centr., 7 novembre 1978, n. 14990, in banca dati Fisconline. 79 Cfr. Cass. civ., Sez. Trib., 7 marzo 2002, n. 3367, in GT – Rivista di Giurisprudenza Tributaria, vol. 9, n. 7/2002, p. 607 ss., con nota di SUCCIO, R., Sull’ammissibilità della stabile organizzazione di un gruppo di società non residenti, ivi, p. 621 ss.; Cass. civ., Sez. Trib., 7 marzo 2002, n. 3368, in banca dati Fisconline; Cass. civ., Sez. Trib., 25 maggio 2002, n. 7682, in banca dati Fisconline, annotata da BALLANCIN , A., La nozione di “stabile organizzazione di gruppo” in una recente pronuncia della Suprema Corte di Cassazione, in Diritto e Pratica Tributaria Internazionale, vol. 2, n. 3/2002, p. 953 ss., e da STEVANATO, D. – MASSIMILIANO , G. – LUPI, R., Una società controllata può “nascondere” una stabile organizzazione? Ci sono differenze tra profili IVA e imposte sui redditi?, in Dialoghi di Diritto Tributario, vol. 1, n. 1/2003, p. 35 ss.; Cass. civ., Sez. Trib., 25 luglio 2002, n. 10925, in Il Fisco, vol. 26, n. 32/2002, p. 1-5200 ss.

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New York, si articolava in una ramificata struttura multinazionale di società controllate e collegate, e «pur svolgendo in Italia una considerevole attività, né la capo-gruppo, né le società ad essa collegate hanno ivi istituito una stabile organizzazione».80 I verificatori ritenevano che la Philip Morris avesse de facto una stabile organizzazione nel territorio italiano, la quale era stata occultata: conseguentemente, ai fini IVA veniva contestata la violazione degli obblighi di fatturazione e dichiarazione, nonché il mancato versamento dell’IVA per quanto concerne le importazioni del tabacco dagli Stati Uniti e le royalties pagate dall’Amministrazione Autonoma dei Monopoli dello Stato (AAMS) dovute sulla base di contratti di licenza in relazione alla produzione e vendita delle sigarette in Italia. Inoltre, la società italiana all’interno della quale i verificatori ritenevano occultata la stabile organizzazione svolgeva un’attività di produzione e vendita di filtri per articoli da fumatori. Ai fini delle imposte sul reddito, invece, veniva contestata l’omessa contabilizzazione dei corrispettivi che erano stati erogati dall’AAMS per la fornitura di tabacco greggio, di materiali diversi e di sigarette marchiate Philip Morris in forza dei contratti di distribuzione: tutti questi proventi «avrebbero dovuto essere assoggettati a tassazione ordinaria in quanto conseguiti tramite una plurima, sebbene occulta, stabile organizzazione presente sul territorio italiano».81 La scelta di avvalersi di una stabile organizzazione occulta nel territorio dello Stato era, pertanto, frutto di un «disegno unitario di sottrazione all’imposizione diretta e indiretta dei proventi derivanti dalle attività in Italia».82 Quindi, nonostante la società italiana controllata apparisse formalmente autonoma ed indipendente, in realtà rivestiva un ruolo essenziale nella produzione del reddito della controllante non residente, tant’è che i vari contratti per la promozione della vendita di sigarette in aree duty free, alle compagnie aeree, alle ambasciate e in ogni altro luogo autorizzato all’acquisto di tali prodotti in regime di parziale o totale esenzione fiscale «erano stati posti in essere al solo fine di dissimulare l’esistenza di una stabile organizzazione in Italia» della controllante non residente e di altre società del gruppo.83 Dal punto di vista probatorio, la sussistenza della stabile organizzazione plurima e occulta in Italia veniva desunta da una serie di documenti di natura “confessoria”, fra cui un documento programmatico del 1976 dal quale emergeva la decisione della direzione del gruppo di costituire in Italia una società formalmente autonoma «per sfuggire alle conseguenze fiscali di una stabile organizzazione».84 In sintesi nel caso Philip Morris la Suprema Corte:

a) ammette la configurabilità della stabile organizzazione “plurima”, dal momento che più società del medesimo gruppo internazionale

80 Così, Cass. civ., Sez. Trib., 7 marzo 2002, n. 3368, cit. 81 Così, Cass. civ., Sez. Trib., 25 maggio 2002, n. 7682, cit. 82 Così, Cass. civ., Sez. Trib., 7 marzo 2002, n. 3368, cit. 83 Così, Cass. civ., Sez. Trib., 7 marzo 2002, n. 3368, cit. 84 Così, Cass. civ., Sez. Trib., 25 maggio 2002, n. 7682, cit.

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esercitavano un’attività di gestione attraverso una struttura fissa operante nello Stato della fonte: la struttura fissa in questione può essere individuata anche in seno ad una società di capitali con sede in Italia;

b) ammette la configurabilità della stabile organizzazione “occulta” in seno ad una società residente in Italia e controllata da una o più società non residenti appartenenti al medesimo gruppo, posto che «il fenomeno delle stabili organizzazioni occulte trova un più favorevole terreno di coltura all’interno dei gruppi multinazionali, nei quali la strategia unitaria del gruppo può assumere forme di utilizzazione delle società controllate talmente penetranti da far diventare queste ultime, pur dotate di uno status di soggetti autonomi, vere e proprie strutture di gestione dell’impresa esercitata da altre società»;85

c) considera che l’attività di controllo sulla regolare esecuzione dei contratti di distribuzione di articoli da tabacco in Italia non possa considerarsi “ausiliaria” né “preparatoria” ex art. 4, comma 4, Modello OCSE, con conseguente configurabilità di una stabile organizzazione: in altre parole, lo svolgimento di una tale attività da parte di una struttura italiana nell’interesse di un soggetto non residente è sufficiente a qualificare la prima come stabile organizzazione ai fini delle imposte dirette e come centro di attività stabile ai fini IVA;

d) adottando un’interpretazione antielusiva in applicazione della c.d. substance-over-form doctrine, rileva che non possono considerarsi “indipendenti” le strutture aventi il potere di concludere contratti in nome del soggetto non residente ex art. 5, comma 5, Modello OCSE:86 questo approccio è stato di recente ribadito nel caso CEPU;87

85 Così, testualmente, Cass. civ., Sez. Trib., 25 luglio 2002, n. 10925, in Il Fisco, vol. 26, n. 32/2002, p. 1-5200 ss. 86 A tale riguardo, la Suprema Corte mette in luce il fatto che «autorevole dottrina internazionale non ha mancato di sottolineare che l’espediente di separare la materiale attività di conclusione di contratti da quella di formale stipulazione degli stessi (split-up of business responsibilities on the hand and legal authority on the other) può essere considerata come elusione fiscale (tax circumvention), dovendosi ritenere prevalente, per l’applicazione del paragrafo 5, la sostanza sulla forma. In altre parole, l’accertamento del potere di concludere contratti deve essere riferito alla reale situazione economica, e non alla legge civile, e lo stesso può riguardare anche singole fasi, come le trattative, e non necessariamente comprendere anche il potere di negoziare i termini del contratto». Così, Cass. civ., Sez. Trib., 25 maggio 2002, n. 7682, cit. 87 Cfr. Cass. civ., Sez. Trib., 7 ottobre 2011, n. 20597, in Il Fisco, vol. 35, n. 41/2011, p. 1-6689 ss., con commenti di VALENTE, P., La stabile organizzazione nelle disposizioni interne e convenzionali e nella sentenza della Corte di Cassazione n. 20597/2011, in Il Fisco, vol. 35, n. 42/2011, p. 1-6831 ss.

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e) considera soggetta ad IVA la prestazione di servizi effettuata nel territorio italiano qualora vi sia un nesso diretto ed immediato con il corrispettivo ricevuto, con la conseguenza che devono essere espletati in Italia tutti gli obblighi di fatturazione (o auto-fatturazione), dichiarazione e versamento dell’IVA, senza che rilevi il fatto che tale prestazione sia fatta nell’ambito di un contratto che preveda altre prestazioni nell’interesse di un non residente con centro di attività stabile in Italia.

4.1 Il recente e discutibile orientamento della Corte di Cassazione in tema di stabile organizzazione “occulta” e stabile organizzazione “plurima”: la decisione n. 16106/2011.

La giurisprudenza Philip Morris ha indubbiamente rappresentato un’importantissima evoluzione del concetto di stabile organizzazione nel nostro ordinamento, estendendo tale nozione fino ad abbracciare le ipotesi di stabile organizzazione “plurima” e/o “occulta”, ma non si è spinta fino ad attribuire una vera e propria soggettività tributaria alla stessa.88 A lungo, infatti, questa circostanza non è mai stata messa in discussione.89

88 In tema, cfr. in particolar modo FIORENTINO, S., Stabile organizzazione, centro di attività stabile e “nozioni minime” in tema di soggetti passivi e soggettività tributaria, in Diritto e Pratica Tributaria, vol. 76, n. 4/2005, Parte I, p. 871 ss. Si veda anche PURI, P., I soggetti, in FANTOZZI, A. (a cura di), Diritto tributario , 4a ed. (prima ristampa), Torino, 2013, pp. 431-432, secondo cui «la stabile organizzazione di imprese estere in Italia non è un soggetto distinto, ma solo un insieme di beni e di persone, in relazione al quale determinare separatamente la quota di reddito prodotto (e quindi imponibile) nel territorio statale. Il soggetto passivo rimane il non residente; la stabile organizzazione non è dunque un soggetto benché qualificando il collegamento di tipo oggettivo o materiale del presupposto d’imposta con il territorio italiano diviene un elemento del presupposto integrandolo sotto l’aspetto del profilo territoriale e fungendo da elemento di collegamento per l’imposizione (o la non imposizione) nel territorio del singolo Stato nei confronti delle imprese che operano in più Stati». 89 Cfr. Cass. civ., 30 novembre 1983, n. 7184, in banca dati Fisconline. Più di recente, la Suprema Corte ha rilevato che «la qualificazione di reddito quale reddito d’impresa dipende dal requisito soggettivo dell’esercizio di impresa commerciale da parte del percipiente, a prescindere da qualsiasi altro diverso requisito (essendo la ricorrenza della stabile organizzazione semplice condizione di localizzazione del reddito medesimo e di sua imponibilità in Italia) ed, inoltre, che, per poter scindere (e diversificare nel trattamento fiscale) le componenti del reddito d’impresa di un soggetto straniero e privo di autonoma organizzazione nel territorio dello Stato, è necessaria una specifica disposizione di legge». Così, Cass. civ., Sez. Trib., 21 aprile 2011, n. 9197, in banca dati Fisconline, con nota di COMUZZI, P. – CAMELI , N., Il reddito d’impresa prevale sul reddito di capitale anche in assenza di una stabile organizzazione in Italia? Un primo commento alla sentenza n. 9197 del 21 aprile 2011 della Corte di Cassazione che ha avuto effetti importanti sul principio del trattamento isolato del reddito, in Novità Fiscali, vol. 2, n. 11/2011, p. 8 ss.

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Se da un punto di vista sostanziale la stabile organizzazione di un soggetto non residente non ha soggettività tributaria, la Suprema Corte con una decisione del 2011 ha stabilito che i redditi di una stabile organizzazione (in questo caso, “occulta”) possono essere accertati direttamente in capo alla società partecipata italiana, la quale de facto agisce come agente dipendente.90 Nel caso di specie, l’Amministrazione finanziaria riprendeva a tassazione le somme versate da una società italiana a titolo di royalties (per la concessione di licenze per l’utilizzazione di brevetti) ad alcune società tedesche ed austriache, tutte controllate da una holding tedesca (che controllava interamente la società italiana). I verificatori ritenevano che detta società italiana operasse quale stabile organizzazione del gruppo multinazionale e, conseguentemente, applicava l’art. 12, par. 4 e l’art. 12, par. 5 delle Convenzioni siglate dall’Italia rispettivamente con Austria e Germania,91 i quali derogano al principio dell’imponibilità delle royalties nello Stato di residenza del concedente nell’ipotesi in cui «il beneficiario effettivo dei canoni, residente in uno Stato contraente, eserciti nell’altro Stato contraente dal quale provengono i canoni […] un’attività industriale o commerciale per mezzo di una stabile organizzazione ivi situata»: in presenza di una stabile organizzazione, la norma convenzionale prevede che le royalties risultino «imponibili in detto altro Stato contraente secondo la propria legislazione». L’aspetto innovativo della decisione consiste nel fatto che, nell’accogliere la ricostruzione prospettata dall’Ufficio, la Suprema Corte ammetteva che le contestazioni delle violazioni tributarie potessero essere rivolte anche alla stabile organizzazione del soggetto estero. Nella motivazione si legge che la normativa che disciplina la stabile organizzazione ai fini IVA ( i.e. il D.L. n. 191/2002), in base alla quale questa è gravata dai vari adempimenti prescritti dalla legge, avrebbe «indubitabilmente» attribuito a quest’ultima una «soggettività fiscale di diritto interno in relazione ai rapporti inerenti al soggetto non residente». In aggiunta a ciò, al fine di ricostruire una nozione unitaria di stabile organizzazione, la Corte di Cassazione sottolinea che «il criterio, seppure elaborato in relazione a controversie in materia di iva, è estendibile al campo delle imposte dirette». Tale principio implica che l’Amministrazione finanziaria possa indirizzare la propria pretesa impositiva e la relativa azione accertatrice:

90 Cass. civ., Sez. Trib, 22 luglio 2011, n. 16106, in Rivista di Diritto Tributario, vol. 21, n. 12/2011, Parte V, p. 183 ss., annotata criticamente (insieme a Comm. Trib. Prov. Vicenza, Sez. VII, 21 dicembre 2007, n. 120 e Comm. Trib. Reg. Venezia-Mestre, Sez. XXXIII, 11 febbraio 2010, n. 16) da BULGARELLI , F., La resistibile immedesimazione tra stabili organizzazioni occulte e soggetti passivi dell’imposta sul reddito, ivi, p. 197 ss. 91 Cfr. Convenzione Italia-Austria del 29 giugno 1981, ratificata con Legge 18 ottobre 1984, n. 762, ed entrata in vigore il 6 aprile 1985; Convenzione Italia-Germania del 18 ottobre 1989, ratificata con Legge 24 novembre 1992, n. 459, ed entrata in vigore il 26 dicembre 1992.

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a) direttamente nei confronti della società residente in Italia per quanto concerne i redditi da essa prodotti con la propria autonoma attività; ed anche

b) direttamente nei confronti della medesima società residente in Italia per quanto concerne i redditi costituiti in “massa separata” riferibili al soggetto non residente per il quale opera come stabile organizzazione occulta, con la peculiarità che, in questa ipotesi, la determinazione dell’imposta dovuta dovrà seguire i principi propri dell’imposta sul reddito dei soggetti non residenti.

In altre parole, in relazione alla società italiana che operi anche quale stabile organizzazione di un soggetto estero, il principio di diritto elaborato dalla Suprema Corte si traduce in una significativa agevolazione dell’attività accertatrice del Fisco, il quale potrà muovere le proprie contestazioni sempre all’interno del territorio nazionale. La decisione apre diverse problematiche non irrilevanti. In primo luogo, l’asserita legittimità dell’accertamento nei confronti della stabile organizzazione è l’ennesimo esempio di giurisprudenza “creativa” da parte della Cassazione, la quale è cresciuta esponenzialmente negli ultimi anni:92 non si comprende, pertanto, quale sia l’appiglio normativo utilizzato dai giudici a fondamento della propria motivazione, soprattutto per quanto riguarda il criterio di determinazione del reddito in capo alla stabile organizzazione “celata” nella controllata italiana sulla base dei principi applicabili ai soggetti non residenti. La conclusione a cui perviene la Cassazione è smentita non solo da l’opinione assolutamente prevalente in dottrina93 – nonostante in passato qualche Autore avesse assunto una posizione più dubitativa94 – ma dalla stessa giurisprudenza di legittimità che

92 Basti pensare, fra le tante, alle c.d. sentenze “gemelle” di Natale 2008 con cui le Sezioni Unite statuivano che l’abuso del diritto in materia tributaria trova fondamento nell’art. 53 Cost. Sul punto, cfr., per tutti, CORDEIRO GUERRA, R. – MASTELLONE, P., The judicial creation of a general anti-avoidance rule rooted in the Constitution, in European Taxation, vol. 49, n. 11/2009, p. 511 ss. e gli ampi riferimenti bibliografici ivi indicati. 93 Netto nell’escludere la soggettività tributaria alle stabili organizzazioni è GIOVANNINI , A., Soggettività tributaria e fattispecie impositiva, Padova, 1996, p. 204. In questo senso, cfr. da ultimo DELLA VALLE , E., La soggettività tributaria della stabile organizzazione, in GAROFOLI, R. – TREU, T. (diretto da), Treccani – Il libro dell’anno del diritto 2012, Roma, 2012, p. 580 ss., secondo cui «unico soggetto passivo d’imposta è il soggetto non residente, mentre la stabile organizzazione sita nel nostro territorio ne costituisce soltanto una articolazione interna, priva di soggettività tributaria autonoma». In senso critico, cfr. anche PROIETTI, M., Stabile organizzazione occulta ed imposte dirette: profili critici in punto di soggettività tributaria, in Rassegna Tributaria, vol. 55, n. 3/2012, p. 653 ss. 94 Ci si riferisce alla tesi di MICHELI, G.A., Soggettività tributaria e categorie civilistiche, in Rivista di Diritto Finanziario e Scienza delle Finanze, vol. 36, n. 1/1977, Parte I, p. 426, secondo cui, nonostante le stabili organizzazioni non abbiano autonomia patrimoniale e (in linea di massima) non abbiano personalità giuridica, non può aprioristicamente escludersi la lor qualificazione come soggetti tributari perché

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pochi mesi prima evidenziava a chiare lettere che la ricorrenza della stabile organizzazione costituisce una «semplice condizione di localizzazione del reddito medesimo e di sua imponibilità in Italia».95 La dottrina maggioritaria, dunque, esclude che la stabile organizzazione possa avere soggettività giuridica e tale conclusione deve considerarsi ancor più valida quando si tenti di configurare una stabile organizzazione riferibile ad un gruppo societario non residente.96 Un altro aspetto particolarmente criticabile è l’estensione analogica del concetto di stabile organizzazione elaborato in ambito IVA al settore delle imposte dirette.97

rappresentano pur sempre un centro di produzione di effetti giuridici nello Stato impositore. L’Autore considera, dunque, che la disciplina interna attribuirebbe alle stabili organizzazione una soggettività tributaria («la stabile organizzazione dunque può costituire soggetto passivo che entra a far parte della fattispecie impositiva, mentre non esaurisce il soggetto passivo nel quale si incentrano gli effetti conseguenti alla sottoposizione alla responsabilità»). In maniera ancor più convinta, cfr. NUZZO, E., Questioni in tema di tassazione di enti non economici, in Rassegna Tributaria, vol. 28, n. 1/1985, Parte I, p. 129, il quale ritiene che sia «il connotato di autonomia, nel senso di separabilità dell’attività esercitata, ad evidenziare i tratti fisionomici del concetto in questione [la stabile organizzazione, N.d.A.], ed è questo connotato che consente di far configurare la casa madre come “terzo” rispetto alla stabile organizzazione e di far assumere detta organizzazione come soggetto passivo Irpeg, per l’impossibilità di rendere operanti, con riferimento ad essa, i congegni dell’imposizione personale». 95 Cfr. la già citata Cass. civ., Sez. Trib., 21 aprile 2011, n. 9197, in banca dati Fisconline, con nota di COMUZZI, P. – CAMELI , N., Il reddito d’impresa prevale sul reddito di capitale anche in assenza di una stabile organizzazione in Italia? Un primo commento alla sentenza n. 9197 del 21 aprile 2011 della Corte di Cassazione che ha avuto effetti importanti sul principio del trattamento isolato del reddito, in Novità Fiscali, vol. 2, n. 11/2011, p. 8 ss. 96 In questo senso, cfr. DELLA VALLE , E., La nozione di stabile organizzazione nel nuovo Tuir, in Rassegna Tributaria, vol. 47, n. 5/2004, p. 1654, il quale è fermamente convinto che debba «escludersi che, all’interno di un gruppo, una singola impresa possa configurarsi come stabile organizzazione del gruppo nel suo complesso. La stabile organizzazione è infatti figura che presuppone la soggettività passiva della persona o dell’ente, anche societario, cui appartiene, mentre il gruppo di imprese, in quanto tale, non è dotato di soggettività ai fini tributari». 97 Sul punto, rileva PENNESI, M., Stabile organizzazione occulta: tassazione del reddito per «massa separata» (nota a Cass. civ., Sez. Trib, 22 luglio 2011, n. 16106), in Corriere Tributario, vol. 34, n. 38/2011, p. 3116, che «in materia fiscale non esiste la possibilità di un’applicazione analogica di altre norme e quand’anche si potesse prendere come riferimento civilistico quanto accade con i patrimoni destinati e separati ex art. 2447-bis c.c. o il concetto di attività separate, notorio in ambito IVA, non è tuttavia ravvisabile alcuna disposizione fiscale che consenta la tassazione in massa separata o soltanto la tassazione separata di redditi non appartenenti al soggetto dichiarante. L’unico esempio di tassazione separata riferibile alle società è relativo all’applicazione della norma in tema di redditi da CFC ex art. 167 del T.U.I.R., una previsione di legge specifica che ha indicato in dettaglio i presupposti e

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Ma l’aspetto sicuramente più preoccupante riguarda le conseguenze penal-tributarie in cui incorrerebbe la società italiana nell’ipotesi in cui l’Amministrazione finanziaria consideri questa una stabile organizzazione di un soggetto non residente. Sulla base del nuovo orientamento giurisprudenziale inaugurato dalla Suprema Corte, all’Amministrazione finanziaria basterà dimostrare l’esistenza di un centro di imputazione fiscale occultato all’interno del territorio italiano per poter procedere alla contestazione di eventuali violazioni amministrative tributarie ed alla segnalazione di potenziali fattispecie delittuose alla Procura della Repubblica. Al riguardo, si deve ricordare che nel caso Philip Morris del 2002 la segnalazione da parte dei verificatori alla magistratura penale si era conclusa con una decisione di non luogo a procedere nei confronti degli imputati “perché il fatto non è previsto dalla legge come reato”.98 In tale occasione, il Pubblico Ministero aveva contestato agli amministratori della società italiana controllata, che dissimulava la propria natura di stabile organizzazione, il reato di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (art. 3, D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74). Il Tribunale di Milano, tuttavia, proscioglieva gli imputati evidenziando che il reato tributario ipotizzato «inequivocabilmente riferisce il fine di evasione esclusivamente alle imposte alle quali è tenuto lo stesso soggetto attivo del reato, cioè il soggetto a carico del quale grava l’obbligo di presentazione della dichiarazione». Dal momento che i soggetti passivi d’imposta erano le società non residenti appartenenti alla multinazionale del tabacco, il reato non poteva essere contestato alla stabile organizzazione (plurima e occulta) individuata sul territorio italiano.99 L’orientamento in questione appare evidentemente mosso da un interesse fiscale100 che non tiene conto del dato normativo ed «infonde incertezza negli

le modalità di tassazione e come tale non suscettibile di applicazione a casi diversi dalle ipotesi di CFC». 98 Cfr. Tribunale di Milano, GIP Piffer, 8 luglio 2002, in Il Fisco, vol. 26, n. 33/2002, p. 5355, con nota di PEZZUTO, G., “Stabile organizzazione”. Un istituto ancora decisamente problematico. Profili penali, ivi, p. 5360 ss. Su tale sentenza, cfr. anche le riflessioni di CARACCIOLI, I. – MATTIA , S., Profili di responsabilità penale per comportamenti elusivi in materia di stabile organizzazione, in Commercio Internazionale, vol. 32, n. 2/2008, p. 38 ss. 99 Il GIP concludeva che «la P.M. Inc., quale soggetto passivo di imposta in Italia, per redditi derivanti da attività esercitate nel territorio dello Stato mediante la sua stabile organizzazione I. S.p.A., era obbligata alla presentazione della dichiarazione dei redditi in Italia, indicando tra l’altro l’indirizzo della stabile organizzazione nel territorio stesso e l’indirizzo in Italia di un rappresentante per i rapporti tributari (art. 4, comma 2, D.P.R. n. 600/1973). Inoltre, la P.M. Inc. era obbligata ad allegare alle dichiarazioni per le imposte dirette soltanto il bilancio relativo alle attività esercitate nello Stato mediante stabile organizzazione (I. S.p.A.)». 100 In questo senso, cfr. anche BULGARELLI, F., La resistibile immedesimazione tra stabili organizzazioni occulte e soggetti passivi dell’imposta sul reddito (nota a Cass. civ., Sez. Trib, 22 luglio 2011, n. 16106, Comm. Trib. Prov. Vicenza, Sez. VII, 21 dicembre 2007, n. 120 e Comm. Trib. Reg. Venezia-Mestre, Sez. XXXIII, 11 febbraio 2010, n. 16), in Rivista di Diritto Tributario, vol. 21, n. 12/2011, Parte V, p. 220, il

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operatori anche dal punto di vista sanzionatorio, sia amministrativo sia penale: se il soggetto obbligato fosse italiano si parlerebbe di infedeltà dichiarative, non di omissioni. Invece, la stabile organizzazione è lo strumento per assoggettare a tassazione l’impresa estera nel nostro Paese: è questa il soggetto passivo di imposta, tanto che nella dichiarazione dei redditi è individuata come soggetto non residente».101 La nuova e discutibile interpretazione della giurisprudenza di legittimità apre un ventaglio di possibili conseguenze penali per gli amministratori della società italiana controllata all’interno della quale si annida una stabile organizzazione di uno o più soggetti non residente, soprattutto considerato il fatto che le soglie di punibilità sono attualmente particolarmente basse:

a) reato di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (art. 3, D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74);

b) reato di dichiarazione infedele (art. 4, D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74);

c) reato di omessa dichiarazione (art. 5, D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74),102 il quale può configurarsi anche nei confronti del c.d. amministratore di fatto.103

Gli amministratori della società italiana che nasconde una stabile organizzazione potrebbero essere, quindi, chiamati in correità (sulla base delle regole che disciplinano il concorso di persone nel reato) nel delitto omissivo di cui all’art. 5, assieme ai membri del consiglio di amministrazione

quale biasima la decisione della rilevando che il criterio di collegamento della stabile organizzazione «non può surrettiziamente trasformarsi in fase accertativa – come pretenderebbe la Suprema Corte – in un soggetto passivo d’imposta». 101 Così, condivisibilmente, PENNESI, M. – TOMASSINI, A., Più trasparenza per i gruppi esteri, in Il Sole 24 Ore – Norme e Tributi, 26 marzo 2012, p. 4. 102 Sul tema, si veda la corposa indagine di PICCIOLI, S., Profili penali delle stabili organizzazioni occulte e plurime. Il soggetto penalmente responsabile nel caso di omessa presentazione della dichiarazione, in Rivista di Diritto Tributario, vol. 21, n. 3/2011, Parte III, p. 30 ss. 103 Cfr. da ultimo Cass. pen., Sez. III, 29 maggio 2012, n. 20678, in banca dati Fisconline, con nota di MECCA, S., Stabile organizzazione e delitto di omessa dichiarazione, in Il Fisco, vol. 36, n. 26/2012, p. 2-4181 ss., ove i supremi giudici statuivano che «il reato di omessa presentazione della dichiarazione ai fini delle imposte dirette o IVA (D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 5) è configurabile anche nei confronti dell’amministratore di fatto (Sez. 3, Sentenza n. 23425 del 28/04/2011 Ud. (dep. 10/06/2011) Rv. 250962 in forza del cosiddetto criterio funzionalistico o dell’effettività in forza del quale il dato fattuale della gestione sociale deve prevalere sulla qualifica formalmente ovviamente quando alla qualifica non corrisponda l’effettivo svolgimento delle funzioni proprie della qualifica, come avvenuto nella fattispecie. L’equiparazione degli amministratori di fatto a quelli formalmente investiti è stata affermata da questa Corte sia nella materia civile che in quella penale e tributaria (cfr. nella materia civile Cass. 5 dicembre del 2008 n. 28819; 12 marzo 2008, n. 6719; Sez. un. civile 18 ottobre 2005 n. 2013; in quella penale per tutte Cass. 7203 del 2008, Cass. n. 9097 del 1993 e per le violazioni tributarie cfr. Cass. Sez. quinta civile n 21757 del 2005; Cass. pen. n. 2485 del 1995)».

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della controllante non residente.104 Mentre, però, gli amministratori della controllante non residente potrebbero cercare di difendersi argomentando che la violazione della norma penal-tributaria era dovuta da obiettive condizioni di incertezza sulla loro portata e sul relativo ambito di applicazione (art. 15, D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74), difficilmente tale difesa potrà essere spesa con successo dagli amministratori della controllata residente in Italia.105 La configurabilità di una responsabilità penale in capo alla sede italiana della società straniera è molto discussa e un elemento talvolta dirimente è dato dall’effettivo potere di contrattazione di cui la stabile organizzazione dispone.106 Su questo punto l’OCSE è intervenuto nel 2011 al fine di modificare il Commentario all’art. 5 del Modello nel senso di tenere distinto il potere di concludere contratti nel nome dell’impresa straniera («authority to conclude contracts in the name of the enterprise») da un soggetto che esercita un potere contrattuale non formalmente attribuitogli dall’impresa straniera («person acting on behalf of the enterprise even if the person did not formally disclose that it was acting for the enterprise and the name of the enterprise was not referred to in the contract»).107 La logica di questa innovazione, che riprende le intuizioni giurisprudenziali del Conseil d’Etat francese nel caso Zimmer (2010)108 e della Corte Suprema di Oslo nel caso

104 In dottrina, CARACCIOLI, I., Rischi penal-tributari in materia di fiscalità internazionale, in Rivista di Diritto Tributario, vol. 20, n. 7-8/2010, Parte III, p. 104, considera che il reato di cui all’art. 5, D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74 possa «verificarsi principalmente nel caso in Italia non esista alcuna entità giuridicamente autonoma, ma una struttura che possieda i requisiti per essere qualificata come SO di società straniera; ma può anche verificarsi nel caso la SO sia “annidata” all’interno di una società italiana, la quale, oltre a svolgere le attività proprie, funziona anche come SO della società estera». 105 In questo senso, cfr. ancora CARACCIOLI, I., Rischi penal-tributari in materia di fiscalità internazionale, in Rivista di Diritto Tributario, vol. 20, n. 7-8/2010, Parte III, p. 104. 106 Cfr. GALASSO, D., Gli illeciti amministrativi e penali in materia tributaria, Torino, 2011, p. 49. 107 Così, OECD, Interpretation and application of Article 5 (Permanent establishment) of the OECD Model Tax Convention, Paris, 12.10.2011, parr. 32.1. e 32.2., p. 58. 108 Conseil d’Etat, 10ème et 9ème sous-sections réunies, 31 marzo 2010, n. 304715, accessibile su www.legifrance.gouv.fr/affichJuriAdmin.do?oldAction=rechExpJuriAdmin&idTexte=CETATEXT000022057617&fastReqId=1681614043&fastPos=1. Il supremo organo di giustizia amministrativa francese rilevava che «la société Zimmer SAS, en raison de son statut de commissionnaire de la SOCIETE ZIMMER LIMITED, agissait en son nom propre et ne pouvait par suite conclure effectivement les contrats au nom de son commettant était sans incidence sur la capacité de cette société à engager son commettant dans une relation commerciale et, par conséquent, sur sa qualification d'établissement stable de la SOCIETE ZIMMER LIMITED au sens des stipulations précitées de la convention franco-britannique, sans rechercher si, malgré la dénomination du contrat de commission la liant à cette dernière, les contrats conclus

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Dell Products (2011),109 è di evitare un aggiramento della norma sulla stabile organizzazione dovuto al fatto che il soggetto agente negozia tutti gli elementi essenziali del contratto, ma lascia firmare il contratto dall’impresa straniera per la quale agisce. La possibilità di attribuire una responsabilità penale per uno dei vari reati “dichiarativi” alle stabili organizzazioni italiane di una società straniera ha, peraltro, l’ulteriore conseguenza di permettere il sequestro per equivalente dei beni della stabile organizzazione su tutto il territorio nazionale. In questo senso si è, peraltro, espressa la Terza Sezione penale della Cassazione il 24 luglio 2013, relativamente ad un caso in cui veniva contestato all’imprenditore italiano il delitto di omessa presentazione della dichiarazione ex art. 5, D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74.110

5 Alcune considerazioni conclusive.

La stabile organizzazione è il criterio di collegamento scelto a livello globale dal quale discende il diritto di uno Stato ad esercitare la propria potestà impositiva sulla base del principio di territorialità. Non è un caso che tutti i sistemi tributari nazionali si siano ispirati e continuino ad evolversi sulla scia delle indicazioni fornite dall’OCSE sia nell’art. 5 del Modello e relativo Commentario sia nelle varie Raccomandazioni che si sono susseguite nel tempo. La necessità che anche il sistema tributario italiano si conformi al trend internazionale è di primaria importanza, ma la giurisprudenza “creativa” della Corte di Cassazione rischia di infondere grande incertezza nei gruppi multinazionali col risultato di disincentivare gli investimenti nel nostro territorio. Questo rischio si fa ancor più concreto quando il potenziale investitore straniero viene messo in guardia dalla possibilità di incorrere in violazioni di tipo penale, ambito delicatissimo che implica restrizioni alla libertà personale. Le recenti statuizioni della Suprema Corte hanno scoperchiato un vero e proprio “vaso di Pandora” agevolando fortemente l’operato degli Uffici e permettendo il “salto” dalla contestazione meramente amministrativa a quella di natura penale: un copione, per certi versi, già vissuto in relazione alla complicata vicenda dell’abuso del diritto.111

par la société Zimmer SAS engageaient personnellement la SOCIETE ZIMMER LIMITED vis-à-vis des cocontractants de son commissionnaire». 109 Corte Suprema di Oslo, 2 dicembre 2011, HR-2011-02245-A, caso n. 2011.755. P 110 Cfr. Cass. pen., Sez. III, 24 luglio 2013, n. 32091, inedita. 111 Sul tema, cfr. ex pluribus BASILAVECCHIA, M., Elusione e abuso del diritto: un’integrazione possibile, in GT – Rivista di Giurisprudenza Tributaria, vol. 15, n. 9/2008, p. 741 ss.; BEGHIN, M., L’inesistente confine tra pianificazione, elusione e ‘abuso del diritto’ (nota a Cass. civ., Sez. Trib., 4 aprile 2008, n. 8772), in Corriere Tributario, vol. 31, n. 22/2008, p. 1777 ss.; CARPENTIERI, L., L’ordinamento tributario tra abuso e incertezza del diritto, in Rivista di Diritto Tributario, vol. 18, n.

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12/2008, Parte I, p. 1053 ss.; AMATUCCI, F., L’abuso del diritto nell’ordinamento tributario nazionale, in Corriere Giuridico, vol. 26, n. 4/2009, p. 553 ss.; CORDEIRO

GUERRA, R., Il legislatore nazionale e l’elusione fiscale internazionale, in MAISTO, G. (a cura di), Elusione ed abuso del diritto tributario, Quaderni della Rivista di Diritto Tributario, n. 4, Milano, 2009, p. 211 ss.; CORDEIRO GUERRA, R. – MASTELLONE, P., The judicial creation of a general anti-avoidance rule rooted in the Constitution, in European Taxation, vol. 49, n. 11/2009, p. 511 ss.; FALSITTA, G., L’interpretazione antielusiva della norma tributaria come clausola generale immanente al sistema e direttamente ricavabile dai principi costituzionali, in MAISTO, G. (a cura di), Elusione ed abuso del diritto tributario, Quaderni della Rivista di Diritto Tributario, n. 4, Milano, 2009, p. 3 ss.; FICARI, V., Clausola generale antielusiva, Art. 53 della Costituzione e regole giurisprudenziali, in Rassegna Tributaria, vol. 52, n. 2/2009, p. 390 ss.; GIOVANNINI , A., Il divieto d’abuso del diritto in ambito tributario come principio generale dell’ordinamento, in Rassegna Tributaria, vol. 53, n. 4/2010, p. 982 ss.; MOSCHETTI, F., Avvisaglie di supplenza del giudiziario al legislativo, nelle sentenze delle Sezioni Unite in tema di ‘utilizzo abusivo di norme fiscali di favore’, in GT – Rivista di Giurisprudenza Tributaria, vol. 16, n. 3/2009, p. 197 ss.; PIANTAVIGNA , P., Abuso del diritto fiscale nell’ordinamento europeo, Torino, 2011.

Avv. Caterina Corrado Oliva Dottore di ricerca in diritto processuale tributario

presso l’Università di Pisa

Soggettività della stabile organizzazione e soggezione all’attività accertativa

SOMMARIO: 1 Premessa. 2 La soggettività come astratta idoneità alla imputazione di situazioni giuridiche ed il necessario fondamento normativo di esse. 3 Il problema, inconferente, della soggettività tributaria della stabile organizzazione e quello, centrale, della eventuale soggettività passiva ai fini delle imposte dirette. 4 Soggezione all’accertamento dei redditi prodotti mediante la stabile organizzazione… in capo alla stabile? 5 Gli anomali corollari sul piano processuale in punto di legittimazione e capacità di stare in giudizio. 6 La notificazione e l’esecuzione presso la stabile organizzazione, non nei confronti di essa, comunque rispondono agli interessi dell’Erario ad una agevole attività accertativa.

1 Premessa.

In nome dell’ormai onnipresente richiamo ai superiori interessi dell’Erario, la Suprema Corte, nella nota sentenza n. 16106 del 20111, ha svolto alcune affermazioni in tema di soggettività della stabile organizzazione ai fini delle imposte dirette che lasciano davvero sconcertati, particolarmente sul piano procedimentale e processuale. Lo sconcerto riguarda per il vero diversi profili della sentenza, che entra “a gamba tesa” su un tema delicatissimo, quale quello della soggettività della stabile organizzazione, con affermazioni superficiali e sbrigative2, nonché passaggi argomentativi arditi e illogici3, per giungere alfine a confessare che

1 Cassazione, sez. V, 22 luglio 2011, n. 16106, pubblicata, insieme con le due sentenze di merito che l’hanno preceduta, in Riv. dir. trib.̧ 2011, 183 ss. con ampia nota di F. Bulgarelli, La resistibile immedesimazione tra stabili organizzazioni e soggetti passivi dell’imposta sul reddito. Sempre a commento della medesima sentenza, si veda altresì M. Proietti, Stabile organizzazione occulta ed imposte dirette: profili critici in punto di soggettività tributaria, in Rass. trib., 2012, 653 ss. e ancora M. Pennesi, Stabile organizzazione occulta: tassazione del reddito per “massa separata”, in Corr. trib., 2011, 3115 ss. Sempre al riguardo, si veda altresì E. Della Valle, La soggettività tributaria della stabile organizzazione, in Libro dell’anno 2012, diretto da Garofoli- Treu, Treccani, 580. 2 Ci si riferisce ad esempio alla affermazione della estendibilità, ai fini delle imposte sul reddito, della soggettività riconosciuta dalla giurisprudenza alla stabile organizzazione ai fini dell’iva, in ragione di una presunta, ed errata, identità di nozione di stabile organizzazione nelle due imposte. 3 La Corte ha, in qualche modo, rilevato che la stabile organizzazione avrebbe determinati presunti obblighi strumentali nei confronti del legislatore fiscale, quali

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la soluzione assunta si spiega in ragione dell’interesse ad un più agevole accertamento e riscossione4. In sintesi, la sentenza statuisce che la stabile organizzazione ha una propria soggettività ai fini delle imposte dirette, e questo in “analogia” con quanto già statuito dalla giurisprudenza in materia di Iva5 nonché in forza di alcune norme in materia di imposte sui redditi - norme per il vero non pertinenti ovvero del tutto fraintese e falsamente applicate - che le attribuirebbero alcuni obblighi strumentali6 o che la individuerebbero come parte di un

una contabilità separata, la individuazione di sé medesima nella dichiarazione quale rappresentante per i rapporti tributari (o ancora in un periodo ha addirittura adombrato che una società controllata in veste di stabile organizzazione dovrebbe presentare anche la dichiarazione dei redditi per il soggetto non residente). Da tali obblighi strumentali – tra l’altro molto discutibili e per lo più insussistenti - la Corte ne ha dedotto la capacità di essere titolare di situazioni giuridiche, e quindi la soggettività. Quindi, e qui l’errore logico è davvero sconcertante, affermata la (presunta) soggettività, che deriva e si riconnette a tali minimi obblighi strumentali, l’ha assunta come “dogma” e ne ha fatto discendere conseguenze non previste dalla normativa per la stabile organizzazione, quali ad esempio l’assoggettamento non al tributo ma alla ricezione degli atti impositivi. Il sillogismo della Suprema Corte si svolge così: visto che la stabile organizzazione ha idoneità a essere titolare di situazioni giuridiche, è soggetto del diritto tributario e in quanto tale dovrà avere altre caratteristiche che possono spettare ai soggetti del diritto tributario, quale ad esempio il fatto di essere destinatari di avvisi di accertamento. La Corte ha “dimenticato” che la soggettività deve essere individuata in funzione delle specifiche attribuzioni che una norma concede ad un soggetto e che non si può utilizzare la soggettività quale categoria giuridica per attribuire situazioni soggettive non normativamente previste. Su questo punto, comunque, si veda meglio infra, par. 3 e 4. 4 Scrive la Corte: “l’impostazione è del resto coerente con la fondamentale esigenza – valida tanto nel campo della imposizione Iva quanto in quella delle imposte dirette - a che i redditi prodotti dai soggetti non residenti ed imponibili nello Stato siano, in questo, agevolmente identificabili e controllabili”. 5 Al riguardo, la Suprema Corte testualmente afferma: “con riferimento a controversie in materia di Iva questa Corte ha configurato la stabile organizzazione nel territorio dello Stato quale autonomo centro d’imputazione di rapporti tributari riferibili a soggetto non residente, abilitato all’effettuazione degli adempimenti correlativamente prescritti dalla legge e, anche all’eventuale richiesta di rimborso dell’eccedenza dell’Iva detraibile (cfr. Cass. nn. 3889/2008, 6799/2004), così indubitabilmente riconoscendo alla stabile organizzazione, soggettività fiscale di diritto interno in relazione ai rapporti inerenti al soggetto non residente”. E poi conclude: “attesa la sostanziale unitarietà, quanto agli aspetti strutturali, della nozione di stabile organizzazione, il criterio, sempre elaborato in relazione a controversie in materia di Iva, è estendibile al campo delle imposte dirette”. 6 Sembra adombrare un obbligo della stabile organizzazione di presentare autonomamente una dichiarazione (specie allorché la stabile coincida con una società controllata), la seguente affermazione della Suprema Corte: “nell’ipotesi (quale quella di specie) in cui la stabile organizzazione del soggetto non residente è rappresentata

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rapporto diretto con l’Amministrazione finanziaria per conto del soggetto estero7. Ma, forse perché la sentenza prestava il fianco a tante critiche con riguardo a ciascuno dei suoi passaggi argomentativi e conclusioni in tema di riconoscimento della soggettività alla stabile organizzazione ai fini delle imposte dirette, è rimasta un poco nell’ombra la parte concernente le conseguenze procedimentali e processuali delle posizioni assunte, conseguenze che, se possibile, sono ancor più inaccettabili, perché aggiungono errori su errori. La sentenza, invero, nella parte finale aggiunge, quasi fosse un ovvio corollario (ma tale certamente non è), che l’atto impositivo deve essere emesso nei confronti della stabile organizzazione e non della società non residente8.

da società residente munita di personalità giuridica, il criterio trova ulteriore conforto nel rilievo che in tal caso, per le precipue caratteristiche del sistema legale descritto in precedenza, l’accertamento non può che risolversi nella rettifica della dichiarazione di detto soggetto (ancorché per la parte afferente al reddito del soggetto non residente di cui costituisce stabile organizzazione)”. Tale affermazione è evidentemente sbagliata, dato che la società controllata non è certamente destinataria di alcun obbligo di presentare una dichiarazione con riguardo a redditi prodotti dalla società estera non residente, di cui eventualmente la società controllata costituisce – anche – stabile organizzazione. 7 A proposito dell’art. 4, d.p.r. n. 600 del 1973 che impone al soggetto non residente – e quindi non alla stabile organizzazione – di “indicare l’indirizzo della stabile organizzazione nel territorio stesso in quanto vi sia e, in ogni caso, le generalità e l’indirizzo in Italia di un rappresentante per i rapporti tributari”, la Corte parla di “previsione normativa che - nel rivelare come l’applicazione dell’imposta sul reddito di impresa prodotto da una società non residente attraverso una stabile organizzazione ne territorio dello Stato debba avvenire, a carico della società non residente, attraverso un rapporto che intercorra tra l’Amministrazione finanziaria e la sua stabile organizzazione nel territorio dello Stato, ben identificata da un bilancio e da un indirizzo e specificamente rappresentata – offre specifica rispondenza alla definizione giurisprudenziale della stabile organizzazione nel territorio dello Stato, quale autonomo centro di imputazione di rapporti tributari riferibili a soggetto non residente, abilitato all’effettuazione degli adempimenti correlativamente prescritti dalla legge e dotato di legittimazione sostanziale in merito ai rapporti tributari inerenti al soggetto non residente, già enucleata con riferimento alla disciplina Iva”. 8 La sentenza come si è visto qualifica la stabile organizzazione come “autonomo centro di imputazione di rapporti tributari riferibili a soggetto non residente, […] dotato di legittimazione sostanziale in merito ai rapporti tributari inerenti al soggetto non residente, già enucleata con riferimento alla disciplina Iva” e poi ancora scrive “alla luce degli esposti rilievi, può dunque concludersi che – diversamente da quanto opinato dal giudice a quo – l’accertamento condotto dall’Agenzia sul reddito di impresa, prodotto nel territorio dello Stato da società non residente tramite stabile organizzazione, deve essere svolta nei confronti di quest’ultima, e non nei diretti confronti della società residente”.

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In pratica, l’esatto opposto di quanto sino ad oggi la stessa giurisprudenza, in accordo con la normativa, ha immancabilmente affermato, ed anzi ritenuto addirittura scontato9, e cioè che l’atto andasse emesso nei confronti della società non residente. Ora, ammesso e non concesso che la stabile organizzazione abbia una qualche forma di soggettività, in relazione a presunti obblighi strumentali che la normativa le attribuisca, ciò non significa che essa divenga per ciò solo soggetto passivo del tributo, tenuto a presentare una propria dichiarazione dei redditi e per tale ragione assoggettato al controllo ed eventuale rettifica da parte dell’Ufficio. Che pensare, poi, delle conseguenze di tale statuizione, e cioè la necessaria intestazione dell’atto di accertamento alla stabile organizzazione, sul piano processuale? Sarà la stabile organizzazione ad avere legittimazione ad impugnare l’atto, potrà stare in giudizio e come? Ebbene, in questa sede, dopo una necessaria ma sintetica ricostruzione del problema della soggettività tributaria e di quello più specifico e conferente della eventuale soggettività passiva della stabile organizzazione ai fini delle imposte sui redditi, ci si propone di riflettere sulle conseguenze delle impostazioni assunte dalla Suprema Corte sul piano procedimentale e processuale, particolarmente sul tema della intestazione dell’atto impositivo, della legittimazione ad causam e ad processum, nonché di quelli, in qualche modo connessi, della notificazione dell’atto medesimo e della fase riscossiva ed esecutiva. La chiarezza su tali profili è essenziale per una corretta ed efficace attuazione del tributo. Invero, la confusione al riguardo rischia di avere effetti davvero dannosi, dato che l’atto impositivo potrebbe essere intestato, o notificato, al soggetto sbagliato, il ricorso presentato dal soggetto non legittimato, la riscossione e l’esecuzione rivelarsi viziate per erronea individuazione del destinatario. Tanto che recentemente, proprio a seguito della sentenza menzionata e proprio onde evitare tali rischi, spesso si assiste, con riferimento a contestazioni di redditi prodotti mediante stabili organizzazioni, alla assurda e dispendiosa emissione di plurimi atti impositivi variamente intestati e notificati (alla società non residente, alla stabile organizzazione, alla società controllata in quanto stabile organizzazione); ciò ingenera, dall’altro lato, il fenomeno della proposizione, da parte dei contribuenti, di più impugnative,

9 Ci si riferisce per esempio al noto caso Philip Morris, nel quale parimenti era individuata una stabile organizzazione all’interno della società controllata residente, ma nel quale la rettifica, senza contestazioni di sorta sul punto, è stata spiccata ai fini delle imposte dirette nei confronti della non residente, e ai fini dell’Iva, sia nei confronti della non residente, sia per essa alla società italiana ritenuta sua stabile organizzazione. Si tratta delle sentenze della Suprema corte, 7 marzo 2002, n. 3368, in tema di Iva, e 25 maggio 2992, n. 7682 per Irpeg, quest’ultima reperibile in Dir. prat. trib., 2003, II, 288.

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nei confronti dei vari atti, ed a nome dei soggetti o entità che li abbiano ricevuti. La sentenza in esame, dunque, creando incertezza e confusione negli operatori del settore su tali profili essenziali, ha certamente provocato all’Erario difficoltà ben maggiori di quelle presunte, e per il vero minime, di identificazione e controllo nei confronti dei soggetti non residenti cui si proponeva espressamente di por rimedio. L’interesse dell’Erario, è ovvio, non può travolgere elementari nozioni di buon senso e principi giuridici essenziali, assurgendo, come purtroppo ultimamente accade sempre più spesso, a canone ermeneutico “sottotraccia”; e la giurisprudenza può tutelarlo soprattutto, e meglio, assicurando chiarezza e certezza del diritto. 2 La soggettività come astratta idoneità alla imputazione di situazioni

giuridiche ed il necessario fondamento normativo di esse. Il problema della soggettività della stabile organizzazione nasce innanzitutto da un problema di definizione e individuazione del concetto di soggettività. E’ infatti evidente che a seconda della nozione di soggetto del diritto10 che viene assunta, le argomentazioni prima e i risultati poi, potranno essere differenti. Se la soggettività viene, ad esempio, identificata con la personalità giuridica, il problema è già chiuso, dato che la stabile organizzazione non ha certamente tale caratteristica. Se invece nella nozione di soggettività si ricomprendono, come nella più evoluta dottrina civilistica, anche enti o centri di imputazione di situazioni giuridiche che siano prive di personalità giuridica, allora il problema della soggettività della stabile organizzazione trova ragion d’essere. Ma la soluzione è ancora lontana, e dipende da una ulteriore serie di variabili, quali ad esempio la sussistenza di una soggettività speciale tributaria diversa da quella civilistica o generale e quindi la individuazione delle sue caratteristiche11.

10 Sulla nozione in generale di soggetto del diritto, si rinvia a M.C. Bianca, Diritto civile. Le norme giuridiche. I soggetti, I, Milano, 1993, P. Gallo, Soggetto di diritto, in Dig. disc. priv., 1998, XVIII, 576 ss., nonché Pellizzi, Soggettività giuridica, in Enc. giur. Treccani, vol. XXIX, Roma, 1993, I, ss. 11 Sulla soggettività tributaria, ed il suo rapporto con quella civile e generale, si vedano, senza pretesa di completezza, A. Amatucci, Soggettività tributaria, in Enc. giur. Treccani, nonché Id., Teoria dell’oggetto e del soggetto nel diritto tributario, in Dir. prat. trib., 1983, I, 381; F. Tesauro, Istituzioni di diritto tributario. Parte generale, Torino, 2011; G.A. Micheli, Soggettività tributaria e categorie civilistiche, in Riv. dir. fin., 1977, 419; E. Antonini, La soggettività tributaria, Napoli, 1965; F. Gallo, I soggetti del libro I del codice civile e l’Irpeg: problematiche e possibili

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Naturalmente non è possibile nella presente sede trattare approfonditamente di questi temi, e pertanto ci si limiterà ad assumere come basi di partenza le conclusioni che si ritengono valide, richiamando per la dimostrazione degli assunti gli autori che ciascuna di tali tesi hanno propugnato. Si tratta, invero, non solo di effettuare scelte dogmatiche ma anche di assumere una definizione e delimitazione del concetto di soggettività che elimini possibili equivoci, quanto meno con limitato riguardo alle conseguenze che si prenderanno nella presente trattazione, relativamente alla possibilità che la stabile sia destinataria di un avviso di accertamento e lo impugni in giudizio. Si premette quindi che la soggettività, di diritto civile come di diritto tributario, la soggettività in generale non implica necessariamente la personalità giuridica, cosicché possono essere considerati soggetti del diritto anche enti non personificati. La soggettività implica invece la capacità giuridica, cioè la possibilità di essere titolare di situazioni giuridiche. Soggetto del diritto, quindi, e centro di imputazione di situazioni giuridiche, appaiono concetti in tutto e per tutto corrispondenti. Ancora non si è detto, però, come si individua la soggettività, da cosa si desume. Al riguardo, occorre subito evidenziare che, anche se la soggettività è indubbiamente una nozione teorica, il dato positivo ne debba sempre costituire punto di partenza e punto di arrivo e verifica12. Il punto di partenza, perché è soltanto la norma e la sua formulazione13 che può attribuire una situazione giuridica14. Dall’esame delle norme, che

evoluzioni, in Riv. dir. trib., 1993, I, 346; A. GIOVANNINI , Soggettività tributaria e fattispecie impositiva, Cedam, 1996. 12 A. GIOVANNINI , Soggettività tributaria e fattispecie impositiva, Cedam, 1996, 153 scrive significativamente che “il concetto di soggetto di diritto è suscettibile di essere apprezzato in forza della legittimazione alle conseguenze e si compendia, perciò, nelle situazioni giuridiche che la legge riferisce ad una figura data”. 13 Conta non solo il contenuto della norma ma anche la sua formulazione, ai fini di comprendere se la disposizione intenda riferire una data situazione oggettiva ad un ente, ad un soggetto. Proprio in ragione della formulazione delle norme che parlano di stabile organizzazione, alcuna dottrina individua principale causa della mancata attribuzione di soggettività. E. Antonini, La soggettività tributaria, Napoli, 1965. L’A. scrive: “perché dunque la dottrina e la giurisprudenza non hanno affermato la soggettività della stabile organizzazione? La causa di questa mancata qualificazione soggettiva risiede certo nel fatto che la formula delle disposizioni ove il detto termine è collocato, non ha stimolato quel processo di figurazione analogica che sta alla base della tesi affermativa della soggettività dei complessi di beni “nei cui confronti il presupposto del tributo si realizza in modo unitario””. 14 A. GIOVANNINI , Soggettività tributaria e fattispecie impositiva, Cedam, 1996, 158, “l’attribuzione della qualità di soggetto del diritto ad entità determinate (o variamente determinabili) non riposa sulla preventiva loro riconduzione in fattispecie soggettive

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attribuiscono situazioni giuridiche riferendole, imputandole a soggetti, si possono quindi desumere i tratti salienti dei soggetti giuridici, e cioè quei tratti che individuano chi è astrattamente idoneo alla imputazione di situazioni giuridiche. Ma le norme sono anche il punto di arrivo, verifica15, concretizzazione di tale soggettività. Invero, una volta stabilito che una certa entità abbia le caratteristiche per essere astrattamente idonea a vedersi imputate situazioni giuridiche, occorre poi verificare se effettivamente vi siano norme che attribuiscano questa o quella prerogativa soggettiva. E’ invero importante considerare che la attribuzione della soggettività giuridica si circoscrive ai poteri, doveri, facoltà dalle norme espressamente attribuite16. Non si può quindi considerare la soggettività come un insieme “preconfezionato” di conseguenze giuridiche che discendono automaticamente dalla inclusione nella nozione di soggetto del diritto. Proprio per questo – lo si anticipa – si ritiene profondamente errata la sentenza in esame laddove attribuisce alla stabile organizzazione la soggettività giuridica, o testualmente la natura di “centro di imputazione di situazioni giuridiche”, e poi, implicitamente ma chiaramente, ne fa discendere il corollario della sua legittimazione a ricevere l’atto impositivo. E sempre per la stessa ragione, con riguardo al tema specifico in esame, è possibile prescindere dalla individuazione degli elementi sintomatici della soggettività e accantonare anche la dibattuta questione se vi siano elementi propri e specifici della sola soggettività del diritto tributario ovvero se essi siano comuni tra i settori del diritto; non solo, ma si può persino evitare di risolvere il problema della soggettività della stabile organizzazione. Ai fini dell’odierna trattazione, occorre non tanto verificare se alla stabile organizzazione possa astrattamente attribuirsi la qualifica di “soggetto del diritto”, bensì piuttosto quali situazioni giuridiche possano esserle imputate in secondo i modelli interpretativi utilizzati dalla teoria organica e da quella realista, ma discende soltanto dal procedimento di astrazione alla realtà legale”. 15 A. GIOVANNINI , Soggettività tributaria e fattispecie impositiva, Cedam, 1996, 158, scrive “la soggettività giuridica costituisce un modello o se si vuole un’idea verificabile solo in forza delle volizioni legislative finalizzate a stabilire il rapporto intercorrente tra situazioni giuridiche ed entità variamente individuate nell’ordinamento”. 16 Sulla distinzione tra soggetto passivo del tributo e soggetto obbligato al pagamento o titolare di altre situazioni strumentali all’obbligazione di imposta, si veda, per tutti, A. GIOVANNINI , Soggettività tributaria e fattispecie impositiva, Cedam, 1996, 154, nota 1, ove si legge che “il tema della soggettività, indipendentemente dalla ricognizione dei singoli tributi ed anche dei singoli istituti di stampo tributario nella quale essa può emergere, involte l’individuazione non solo di coloro che sono tenuti all’assolvimento dell’obbligazione in reazione della propria capacità contributiva, ma anche di quelli che risultano o possono risultare titolari di situazioni giuridiche finalizzate all’attuazione del credito ed in generale dello schema applicativo del tributo”.

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base alle norme. Solo in questo modo, e non in base alla sua presunta o meno natura di soggetto del diritto, si potrà stabilire se la stabile organizzazione sia legittimata o meno a quella determinata situazione giuridica che è la soggezione all’attività accertativa. Neppure si può dire però che la nozione di soggetto del diritto sia del tutto irrilevante: essa invero rileva in via negativa. Se la stabile organizzazione, infatti, non fosse neppure idonea a vedersi imputate situazioni giuridiche, è evidente che neppure potrebbe porsi il problema della sua legittimazione a ricevere l’avviso di accertamento. Prendiamo dunque come ipotesi di lavoro che la stabile organizzazione possa astrattamente essere soggetto del diritto, nel senso che possa astrattamente vedersi attribuite situazioni giuridiche proprie. E scendiamo quindi alla fase della verifica normativa e alla individuazione delle situazioni giuridiche eventualmente attribuite alla stabile organizzazione, con specifico riguardo alla verifica di quella situazione giuridica che eventualmente potrebbe attribuirle la titolarità a ricevere un atto impositivo, e cioè la soggettività passiva rispetto al tributo. 3 Il problema, inconferente, della soggettività tributaria della stabile

organizzazione e quello, centrale, della eventuale soggettività passiva ai fini delle imposte dirette.

Alla luce di quanto sopra precisato, per risolvere il problema posto all’attenzione della Suprema Corte nella sentenza che si commenta, e cioè il problema del soggetto legittimato a ricevere un atto di accertamento per il recupero delle imposte sui redditi dovuti da una stabile organizzazione, è sovrabbondante anche affrontare funditus il delicato problema della soggettività della stabile organizzazione17. E’ invero sufficiente esaminare se, ai fini delle imposte dirette, la stabile organizzazione abbia quella species della soggettività tributaria che è la soggettività passiva18.

17 Escludono una soggettività giuridica della stabile organizzazione ai fini delle imposte dirette, E. Della Valle, La soggettività tributaria della stabile organizzazione, cit. nonché Id., Contributo allo studio della stabile organizzazione nel sistema di imposizione: profili di diritto interno, Roma, 2004, e Id., La nozione di stabile organizzazione nel nuovo Tuir, in Rass. Trib., 2004, 1597 ss. ; A. GIOVANNINI , Soggettività tributaria e fattispecie impositiva, Cedam, 1996, F. Gallo, Contributo all’elaborazione del concetto di stabile organizzazione secondo il diritto interno, in Riv. dir. fin., 1985, I, 385 ss.; Ceriana, Stabile organizzazione e imposizione sul reddito, in Dir. prat. trib., 1995, I, 657 ss. In senso opposto invece, E. Nuzzo, Questioni in tema di tassazione di enti non economici, in Rass. trib., 1985, 107 ss., in particolare 129. 18 Sulla soggettività passiva di imposta come categoria logica distinta anche se concettualmente ricompresa nel più ampio genus della soggettività tributaria e della

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Le due nozioni, infatti, non coincidono ma sono in rapporto di genere a specie, con la conseguenza che vi può essere quindi soggettività tributaria, senza che vi sia soggettività passiva. E poiché ciò che è essenziale ai fini della soggezione all’attività accertativa è, come si vedrà, la soggezione passiva al tributo, è ad essa che bisogna aver riguardo, dato che la soggettività tributaria in generale potrebbe non essere determinante (in quanto potrebbe sussistere pur in assenza della soggettività passiva). Ai fini delle imposte sui redditi, in particolare, per la individuazione della soggettività passiva tributaria della stabile organizzazione, occorre aver riguardo alla categoria residuale fissata dall’art. 73, comma 2, tuir. Ivi, il legislatore, dopo aver elencato al primo comma i soggetti passivi personificati (società, enti pubblici e privati, etc.), precisa, con formula di chiusura, che “oltre alle persone giuridiche”, si comprendono tra i soggetti passivi anche associazioni non riconosciute, consorzi e le “altre organizzazioni, non appartenenti ad altri soggetti passivi, nei confronti delle quali il presupposto dell’imposta si verifica in maniera autonoma e unitaria”. La norma, in altri termini, statuisce che per aversi soggettività passiva alle imposte sul reddito occorre una organizzazione, la non appartenenza a terzi oltreché la realizzazione del presupposto in maniera autonoma e unitaria. Ora, nel caso della stabile organizzazione, appare evidente che non sussiste affatto il requisito della non appartenenza a terzi19 e quindi la soggettività ai fini delle imposte sui redditi nel senso di suscettibilità di avere la imputazione di una situazione giuridica consistente nel debito di imposta. Per quanto riguarda il requisito della realizzazione del presupposto in maniera unitaria ed autonoma, occorrono alcune specificazioni. In primo luogo, bisogna precisare che non si può parlare di realizzazione autonoma del presupposto d’imposta semplicemente perché è normativamente prevista una contabilità separata dei risultati della stabile organizzazione rispetto a quelli della casa madre. Il concetto di contabilità

soggettività tout court, si veda S. FIORENTINO, Stabile organizzazione, centro di attività stabile e “nozioni minime” in tema di soggetti passivi e soggettività tributaria, in Dir. prat. trib., 2005, I, 871 ss. 19 La dottrina è praticamente univoca nel considerare determinante il requisito della non appartenenza a terzi. Interessante, tuttavia, perché pone l’accento sulla necessità che l’organizzazione non appartenga ad altri soggetti passivi di imposta, S. FIORENTINO, Stabile organizzazione, centro di attività stabile e “nozioni minime” in tema di soggetti passivi e soggettività tributaria, in Dir. prat. trib., 2005, I, 871 ss., in particolare 877, ove scrive “l’espressione “non appartenenti ad altri soggetti passivi” non deve implicare un rinvio alla nozione di alterità soggettiva, ma esprime semplicemente la necessità di escludere, dagli enti riconducibili in via residuale, tra i soggetti passivi dell’imposta sul reddito o dell’imposta sulle società, quelli per i quali non sussiste un problema residuale di imputazione del reddito”.

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separata non implica, né coincide affatto con la realizzazione del presupposto in maniera autonoma e unitaria, come alcuno ha invece sostenuto20. La stabile è lo strumento per realizzare una componente del reddito della società non residente reddito che, pur se tenuto fittiziamente separato per ragioni essenzialmente pratiche e determinato come se fosse il reddito prodotto da una impresa indipendente, rimane comunque ascrivibile e imputabile alla società estera, tanto che la stessa sentenza in esame ribadisce che esso dev’essere considerato e trattato come reddito di soggetto non residente; la stabile invero non realizza il presupposto ma è strumentale ad esso, dato che il presupposto è realizzato “mediante” la stabile e non dalla stabile organizzazione. Una ulteriore specificazione è doverosa, sempre a proposito di realizzazione del presupposto e soggettività passiva. Normalmente, come si è visto, nel diritto tributario, il debito di imposta è riferito a soggetti che realizzano il presupposto dell’imposta; può tuttavia accadere che il debito di imposta sia posto (anche) a carico di altri soggetti, che non realizzano il presupposto di imposta, ma tuttavia siano tenuti ad obblighi dichiarativi o al pagamento (es. sostituto d’imposta, responsabile di imposta). Potrebbe dunque accadere che la stabile organizzazione, pur non realizzando il presupposto (ché esso riguarda la società non residente), sia tenuta, in forza di specifiche norme, a obblighi dichiarativi e di pagamento del tributo, che le attribuiscano una soggettività passiva e soprattutto, ai fini che interessano, la soggezione all’imposizione. Occorre quindi verificare se, in forza di qualche altra norma, la stabile organizzazione non sia chiamata a rispondere del tributo pur essendo acclarato che essa non realizza il presupposto del tributo medesimo. Tale norma, peraltro, non è presente, e perciò neppure sotto tale profilo la stabile organizzazione può considerarsi soggetta alla attività accertativa ai fini delle imposte dirette. Davvero, quindi, la disciplina normativa, nel suo contenuto ed anche nella sua formulazione, pare escludere ad ogni pié sospinto ogni soggettività passiva ai fini delle imposte dirette alla stabile organizzazione.

20 In senso opposto invece, E. Nuzzo, Questioni in tema di tassazione di enti non economici, in Rass. trib., 1985, 107 ss., in particolare 129, il quale scrive che: “val la pena di chiarire che il criterio al quale si allude implica solo l’idoneità della stabile organizzazione alla produzione del reddito di impresa e non pure l’indipendenza di questa dalla casa madre, richiedendosi, in ispecie, esclusivamente la possibilità di poter separare l’attività svolta dall’una da quella svolta dall’altra”. E’, dunque – conclude l’A. - il connotato di autonomia, nel senso della separabilità dell’attività esercitata, ad evidenziare i tratti fisionomici del concetto in questione, ed è questo connotato che consente di far configurare la casa madre come “terzo” rispetto alla stabile organizzazione e di fare assumere detta organizzazione come soggetto passivo Irpeg, per l’impossibilità di rendere operanti, con riferimento ad essa, i congegni dell’imposizione personale”.

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Tanto che la Corte di cassazione, nella sentenza in commento, non ha mai in alcun punto affrontato tale tema, l’unico rilevante ai fini di stabilire se un avviso di accertamento ai fini delle imposte dirette era stato correttamente spiccato nei confronti della stabile organizzazione anziché della casa madre, ed invece si è “perduta” in una serie di errate e comunque inconferenti, generali e generiche, considerazioni sulla soggettività tributaria della stabile organizzazione. 4 Soggezione all’accertamento dei redditi prodotti mediante la stabile

organizzazione… in capo alla stabile?

La Corte di cassazione, nella sentenza in questione, dopo aver diffusamente e confusamente trattato il tema (ultroneo) della soggettività della stabile organizzazione, sotto altri profili, con richiamo all’iva o ad alcune norme inconferenti, ha improvvisamente statuito, senza giungervi per via argomentativa e senza mezzi termini, che l’avviso di accertamento è intestato alla stabile organizzazione e non alla società non residente21. Fran. Scriveva così un moderno autore della letteratura italiana, per rappresentare, in maniera onomatopeica, il momento imprevedibile, rumoroso e sorprendente in cui, dopo anni, un quadro appeso alla parete cade a terra22.

21 Testualmente, la Cassazione scrive: “alla luce degli esposti rilievi, può dunque concludersi che – diversamente da quanto opinato dal giudice a quo – l’accertamento condotto dall’Agenzia sul reddito d’impresa, prodotta nel territorio dello Stato da società non residente tramite stabile organizzazione, deve essere svolta nei confronti di quest’ultima e non nei diretti confronti della società residente”: 22 “A me m'ha sempre colpito questa faccenda dei quadri. Stanno su per anni, poi senza che accada nulla, ma nulla dico, fran, giù, cadono. Stanno lì attaccati al chiodo, nessuno gli fa niente, ma loro a un certo punto, fran, cadono giù, come sassi. Nel silenzio più assoluto, con tutto immobile intorno, non una mosca che vola, e loro, fran. Non c'è una ragione. Perché proprio in quell'istante? Non si sa. Fran. Cos'è che succede a un chiodo per farlo decidere che non ne può più? C'ha un'anima, anche lui, poveretto? Prende delle decisioni? Ne ha discusso a lungo col quadro, erano incerti sul da farsi, ne parlavano tutte le sere, da anni, poi hanno deciso una data, un'ora, un minuto, un istante, è quello, fran. O lo sapevano già dall'inizio, i due, era già tutto combinato, guarda io mollo tutto tra sette anni, per me va bene, okay allora intesi per il 13 maggio, okay, verso le sei, facciamo sei meno un quarto, d'accordo, allora buonanotte, 'notte. Sette anni dopo, 13 maggio, sei meno un quarto, fran. Non si capisce. È una di quelle cose che è meglio che non ci pensi, se no ci esci matto. Quando cade un quadro. Quando ti svegli un mattino, e non la ami più. Quando apri il giornale e leggi che è scoppiata la guerra. Quando vedi un treno e pensi io devo andarmene da qui. Quando ti guardi allo specchio e ti accorgi che sei vecchio. Quando, in mezzo all'Oceano, Novecento alzò lo sguardo dal piatto e mi disse: "A

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Qui accade un po’ questo: la Suprema Corte, senza averlo anticipato, senza esservi giunta con argomentazioni pertinenti e preparando in qualche modo il lettore, scrive che l’accertamento è intestato alla stabile organizzazione e poi si ferma lì. E finisce sia l’affermazione, senza affrontare i relativi corollari e problemi, sia la sentenza. Eppure trattasi di affermazione non da poco, che stravolge la normativa, oltreché una prassi ed una giurisprudenza consolidate, le quali facevano ritenere la soluzione opposta, e cioè l’intestazione dell’atto alla casa madre, quasi come fosse ovvia e scontata. Ma accantoniamo la sorpresa, e cerchiamo, con l’aiuto delle premesse svolte nei precedenti paragrafi in punto di soggettività del diritto e soggettività passiva alle imposte sui redditi, di svolgere quelle premesse e quel ragionamento che la Corte ha completamente omesso. E di svolgerlo su basi, se possibile, corrette. Nel caso sottoposto al suo esame, la Suprema Corte aveva, solo, questo semplice nettissimo problema: stabilire se fosse legittimo o meno intestare un avviso di accertamento alla stabile organizzazione (o, più precisamente, ad una società controllata che fungeva da stabile organizzazione) anziché alla società estera soggetto passivo del tributo. E non poteva che risolverlo avendo riguardo alle norme sulla individuazione del soggetto nei cui confronti si effettua la rettifica, e cioè chi era tenuto a presentare la dichiarazione in qualità di soggetto passivo. Invece, la Corte ha svolto un contorto ed inconferente percorso argomentativo, che è partito da una presunta analogia con la soggettività tributaria riconosciuta alla stabile organizzazione ai fini iva, per poi evidenziare alcune norme che, anche ai fini delle imposte dirette, asseritamente attribuivano alcune situazioni giuridiche alla stabile organizzazione, ed infine su tale base ad una definizione di stabile organizzazione come “centro di imputazione di situazioni giuridiche altrui”. Quindi, in quanto tale, la stabile diverrebbe una sorta di punto di riferimento per l’Amministrazione, dotata di “legittimazione sostanziale” a ricevere l’avviso di accertamento. Questo il sillogismo, non certo aristotelico e del tutto implicito, che pare alla base della sentenza della Suprema Corte23, sillogismo che è erroneo praticamente in ogni passaggio.

New York, fra tre giorni, io scenderò da questa nave". Ci rimasi secco. Fran.”. Così A. Baricco, Novecento. Un monologo, Feltrinelli, 1994. 23 La Corte ha, in qualche modo, rilevato che la stabile organizzazione avrebbe determinati presunti obblighi strumentali nei confronti del legislatore fiscale, quali una contabilità separata, la individuazione di sé medesima nella dichiarazione quale rappresentante per i rapporti tributari (o ancora in un periodo ha addirittura adombrato che una società controllata in veste di stabile organizzazione dovrebbe presentare anche la dichiarazione dei redditi per il soggetto non residente). Da tali obblighi strumentali – tra l’altro molto discutibili e per lo più insussistenti - la Corte ne ha

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Già si è visto, invero, che la eventuale soggettività giuridica, e cioè l’esser centro di imputazione di situazioni giuridiche, non comporta sempre e necessariamente la soggettività passiva del tributo. Ragion per cui è soprattutto inconferente ogni affermazione che la sentenza, nel suo peregrinare, svolge intorno al problema della soggettività giuridica della stabile organizzazione. Ma si è altresì visto che la soggettività giuridica altro non è che l’idoneità a vedersi attribuite situazioni giuridiche in generale, le quali però, ammesso e non concesso che vi sia tale astratta idoneità, debbono poi essere attribuite ciascuna specificamente dalla normativa e non conseguono, invece, in blocco, come corpo unico, alla mera qualificazione come soggetto del diritto. E la situazione giuridica che conta, ai nostri fini e cioè ai fini della legittimazione sostanziale a ricevere un atto impositivo, non è la soggettività giuridica in generale, ma soltanto la soggettività passiva del tributo. Questo perché il legislatore ha espressamente stabilito che l’atto impositivo va spiccato nei confronti del soggetto passivo tenuto a presentare la dichiarazione24. Così, molto semplicemente, se la stabile organizzazione non è soggetto passivo del tributo, non potrà mai essere destinataria di una rettifica della dichiarazione e quindi di un avviso di accertamento (a meno che ciò non sia espressamente previsto in una disposizione normativa derogatoria, che peraltro al momento manca).

dedotto la capacità di essere titolare di situazioni giuridiche, e quindi la soggettività. Quindi, e qui l’errore logico è davvero sconcertante, affermata la (presunta) soggettività, che deriva e si riconnette a tali minimi obblighi strumentali, l’ha assunta come “dogma” e ne ha fatto discendere conseguenze non previste dalla normativa per la stabile organizzazione, quali ad esempio l’assoggettamento non al tributo ma alla ricezione degli atti impositivi. 24 Ciò risulta dal combinato disposto degli artt. 1 e 31 del d.p.r. n. 600 del 1973. L’art. 31 invero prevede che “gli uffici delle imposte controllano le dichiarazioni presentate dai contribuenti e dai sostituti di imposta” e, poi, al secondo comma, parla di competenza all’accertamento in capo all’ufficio nella cui circoscrizione è il domicilio fiscale del “soggetto obbligato alla dichiarazione”. Costui è individuato dall’art. 1, del medesimo decreto, rubricato Dichiarazione dei soggetti passivi, ove si legge che “ogni soggetto passivo deve dichiarare annualmente i redditi posseduti anche se non ne consegue alcun debito d'imposta”. La dichiarazione quindi è presentata dai soggetti passivi dell’imposta e soltanto costoro quindi possono per conseguenza esser destinatari di rettifiche alla dichiarazioni.

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5 Gli anomali corollari sul piano processuale in punto di legittimazione e capacità di stare in giudizio.

Sovente, per verificare la validità di una affermazione, può essere utile desumerne le conseguenze, anche su altri piani, in modo da valutarne la congruenza e la tenuta complessiva nel quadro del sistema in cui si inserisce. Ebbene, nel caso di specie, appare interessante riflettere qualche momento sulle conseguenze processuali dell’affermazione della Corte di cassazione circa l’intestazione dell’atto impositivo alla stabile organizzazione. Se l’atto è intestato alla stabile organizzazione, allora è questa, e non la società non residente, ad essere legittimata impugnarlo. La stabile in particolare avrebbe legitimatio ad processum, in quanto soggetto destinatario dell’atto impugnato. Più complicata la valutazione della legitimatio ad causam. Essa a rigor di logica dovrebbe spettare parimenti alla stabile organizzazione, in quanto affermata titolare della situazione passiva di soggezione al potere accertativo posta alla base del giudizio, concretizzatasi nell’atto spiccato nei suoi diretti confronti. Lascia però sul punto un poco perplessi la definizione giurisprudenziale della stabile organizzazione come centro di imputazione di situazioni giuridiche “altrui”: ebbene, a parte la contraddittorietà ed oscurità di tale definizione giurisprudenziale, essa sul piano processuale dovrebbe comportare che la situazione giuridica oggetto dell’atto di accertamento è altrui e, in quanto tale, a quest’altro spetta la legittimatio ad causam. L’incongruenza rilevata, e la differenza tra legitimatio ad causam e ad processum, può tuttavia agevolmente superarsi sol che si rinunzi alla nozione del centro di imputazione di situazioni altrui, tanto cara alla giurisprudenza quanto foriera di equivoci, contraddittoria e soprattutto inutile. Premesso dunque che la stabile organizzazione, se destinataria dell’avviso di accertamento, ha la legittimazione ad impugnarla, resta il problema di valutare la sua capacità di stare in giudizio. Se si parte dalla premessa, assunta come ipotesi di lavoro, che essa sia soggetto del diritto ed abbia quindi abbia una sua capacità giuridica, quale attitudine alla titolarità di poteri e doveri giuridici25. Ne consegue, in quanto persona non fisica, insuscettibile di essere incapace, la automatica capacità di agire, cioè la idoneità a svolgere la attività giuridica che riguarda la sfera di interessi propri26, e nello specifico la capacità di stare in giudizio, e cioè la idoneità di tutelare giudizialmente i propri diritti. Sennonché, come è noto, le persone giuridiche, così come associazioni di fatto, comitati, società personali, esercitano la loro capacità di agire, di cui quella di stare in giudizio è una specificazione, per il tramite degli organi (cd.

25 P. Rescigno, voce Capacità giuridica, in Digesto disc. priv., Utet, 1988. 26 P. Rescigno, voce Capacità di agire, in Digesto disc. priv., Utet

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teoria organica). Essi conferiscono alla persone non fisiche menzionate la “possibilità di far propria, giuridicamente parlando, la volontà e l’azione di individui […] non estranei ma incorporati nella sua struttura”27. L’organo, quindi, è “non una persona che rimanga estranea all’ente, al di fuori idi esso, ma un individuo che venga in questo incardinato, in modo che la volontà e l’azione sua possano considerarsi come volontà e azione dell’ente: egli, … fa valere e agire l’ente, apprestando a questo qualità fisiche e psichiche che l’ente altrimenti non possiederebbe, ma che così vengono a costituire qualità anche di quest’ultimo, conferendogli una capacità che per gli individui è, prima che giuridica, naturalmente, mentre per l’ente è meramente giuridica”28. Ebbene, la stabile organizzazione, ammesso che abbia capacità di agire e che quindi sia dotata della capacità di agire in giudizio, come potrà attuarla, dato che può essere completamente priva di organi suoi propri? L’art. 75, commi 3 e 4, c.p.c. prevede che le persone giuridiche stanno in giudizio per mezzo di chi le rappresenta e poi contiene analoga norma con riguardo ad associazioni e comitati, che non sono persone giuridiche, ma stanno in giudizio “per mezzo delle persone indicate negli articoli 36 e seguenti del codice civile”. Ma per la stabile organizzazione, che potrebbe essere priva di alcun organo, e anche di ogni elemento personale, come è possibile stare in giudizio29? Ovvero, e tanto per rendere il problema chiaro, se un avviso di accertamento viene intestato ad uno stabilimento oppure ad un oleodotto, ammesso e non concesso che essi siano legittimati ad impugnare l’atto ricevuto e a stare in giudizio, come potranno attuare tale prerogativa in mancanza di ogni organo proprio? chi firma il mandato per conto del magazzino o dell’oleodotto? Se la Corte si fosse posta queste domande, se avesse un poco riflettuto su tali corollari in ambito processuale, probabilmente si sarebbe astenuta dalla ricordata improvvida affermazione circa la necessaria intestazione dell’atto impositivo alla stabile organizzazione. La Corte probabilmente non si è interrogata su tali profili, perché nel caso in esame la stabile organizzazione era una società controllata, quindi capace di stare in giudizio per il tramite dei propri organi societari; sennonché, la affermazione della Corte non appare affatto riferita soltanto al caso in cui la stabile si identifichi nell’ambito di una società figlia, ma viene formulata in

27 Così, ROMANO, Organi, in Frammenti di un dizionario giuridico, Milano, 1947, 148. 28 Sempre ROMANO, Organi, cit., 155. 29 Considerato altresì che l’art. 81 c.p.c. sancisce che “fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, nessuno può far valere nel processo in nome proprio un diritto altrui”.

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via generale30, cosicché essa è perfettamente applicabile ad ogni genere di stabile organizzazione. Tra l’altro, si consideri che la Cassazione non si contenta di dichiarare, forse per salvare l’azione accertativa nel caso di specie, che l’atto è intestato alla stabile organizzazione, ma altresì espressamente esclude che possa esserlo alla casa madre31: in pratica il soggetto che ha realizzato il reddito in Italia, per il tramite della stabile organizzazione, quindi il soggetto passivo del tributo, che era tenuto a dichiarare detti redditi, non potrà mai ricevere un avviso di accertamento, che, se ad esso intestato, dovrà ritenersi viziato. La casa madre potrebbe al limite impugnare detto avviso, e quindi un avviso che accerta una maggiore imposta per i redditi da essa prodotti in Italia, contestando che esso avrebbe dovuto essere intestato alla stabile.

30 La sentenza in alcuni passaggi fa espresso riferimento al fatto che nel caso la stabile organizzazione sia una società controllata, laddove scrive che “ove la persona giuridica nazionale sia ad un tempo stabile organizzazione di soggetto non residente” “nulla osta a che l’Amministrazione finanziaria indirizzi la propria pretesa impositiva e la propri azione accertatrice nei suoi diretti confronti, quanto ai redditi da essa prodotti con la propria autonoma attività, e nei confronti della stabile organizzazione, per i redditi costituiti in massa separata riferibile a soggetto non residente”. Sennonché, poi, la Corte stessa dichiara l’irrilevanza, ai fini delle sue conclusioni, della autonoma piena soggettività giuridica della società controllata, dato che i rapporti fiscali riferibili alla stabile e alla controllata restano “autonomi e distinti, seppur in capo alla medesima entità”. E conferma della generalità di tali conclusioni, rispetto ad ogni stabile organizzazione (e non soltanto quelle comprese in una società controllata residente), in altre espressioni adottate dalla sentenza, ove il pensiero è riportato senza alcuna limitazione o condizione: la stabile organizzazione è “autonomo centro di imputazione di rapporti tributari riferibili a soggetto non residente, […] dotato di legittimazione sostanziale in merito ai rapporti tributari inerenti al soggetto non residente, già enucleata con riferimento alla disciplina Iva” e poi ancora scrive “alla luce degli esposti rilievi, può dunque concludersi che – diversamente da quanto opinato dal giudice a quo – l’accertamento condotto dall’Agenzia sul reddito di impresa, prodotto nel territorio dello Stato da società non residente tramite stabile organizzazione, deve essere svolta nei confronti di quest’ultima, e non nei diretti confronti della società residente”. 31 La intestazione dell’atto di accertamento alla stabile organizzazione parrebbe facoltativa e non obbligatoria, quando la Cassazione scrive “nulla osta a che l’Amministrazione finanziaria indirizzi la propria pretesa impositiva e la propri azione accertatrice nei suoi diretti confronti – della società controllata - quanto ai redditi da essa prodotti con la propria autonoma attività, e nei confronti della stabile organizzazione, per i redditi costituiti in massa separata riferibile a soggetto non residente”. Poco oltre, peraltro, la sentenza si esprime in termini ben più categorici ed esclude ogni alternativa, laddove scrive “l’accertamento condotto dall’Agenzia sul reddito di impresa, prodotto nel territorio dello Stato da società non residente tramite stabile organizzazione, deve essere svolta nei confronti di quest’ultima, e non nei diretti confronti della società residente”.

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Qualora poi a fronte di un avviso di accertamento intestato alla stabile, la casa madre, vista la inidoneità della stabile a stare in giudizio in mancanza di un organo suo proprio idoneo, decida di proporre ricorso lei direttamente, ebbene rischierebbe all’evidenza di farselo dichiarare inammissibile per carenza di legittimazione passiva. Come si è detto nella premessa, attualmente, proprio per evitare ogni rischio, l’Amministrazione finanziaria sovente intesta gli atti sia alla stabile che alla casa madre, e ad entrambi li notifica, costringendo talora il contribuente a proporre più impugnative identiche. Evidentemente la Cassazione non si è prefigurata tutte le distorte conseguenze che la propria affermazione conclusiva trascinava con sé. 6 La notificazione e l’esecuzione presso la stabile organizzazione, non

nei confronti di essa, comunque rispondono agli interessi dell’Erario ad una agevole attività accertativa.

Subito dopo le contestate “conclusioni” circa la necessità di notificare destinatario dell’atto impositivo, la Suprema Corte ha confessato le ragioni di tale soluzione: l’interesse dell’Erario a che “i redditi prodotti da soggetti non residenti ed imponibili nello Stato siano in questo agevolmente identificabili e controllabili”. La Cassazione quindi immagina che per i redditi prodotti da soggetti esteri vi sia una difficoltà di identificazione e controllo, e quindi che la imputazione alla stabile organizzazione della soggezione all’attività accertativa possa agevolarla. Nella realtà, a parte la confusione arrecata sotto diversi profili, processuale innanzitutto, la soluzione individuata dalla Corte neppure pare idonea al fine professato. Quanto alla identificazione dei redditi, la normativa già impone una contabilità separata e un bilancio separato con riguardo alla attività della stabile organizzazione, e quindi il fatto che l’avviso di accertamento sia intestato alla società estera o piuttosto alla stabile non ha rilievo in proposito. Anzi, addirittura nel caso all’esame della Corte, la notifica alla stabile organizzazione presso la società controllata, la quale subiva parimenti una verifica sulla propria attività di impresa, rendeva più difficile la identificazione e separazione da quest’ultima della parte afferente la attività svolta da essa quale stabile organizzazione del soggetto estero. Anche con riguardo alla presunta maggior facilità di controllo, intesa in senso ampio anche come attuazione del tributo, la soluzione drastica della Corte, di intestare gli atti direttamente alla stabile organizzazione, sembra poco ponderata e non necessaria, specie se si consideri che già in base alla normativa vigente la notificazione e la esecuzione possono avvenire in Italia, presso la stabile organizzazione.

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Invero, l’atto impositivo, emesso verso la casa madre in quanto soggetto passivo del tributo, potrà certamente essere notificato ad essa presso la sua stabile organizzazione in Italia. E questo perché l’art. 60 impone di notificare gli atti presso il domicilio fiscale del contribuente, e l’art. 58 individua il domicilio fiscale dei non residenti anche presso la loro stabile organizzazione in Italia. L’atto quindi, pur se non intestato alla stabile organizzazione ma - come correttamente detto - alla casa madre, potrà esser notificato direttamente in Italia presso di essa. Un discorso analogo si può svolgere con riguardo alla fase della esecuzione, e quindi dell’attuazione del prelievo, che non è reso eccessivamente difficoltoso dall’intestare i relativi atti alla casa madre così come non è significativamente agevolato dall’interstarli invece alla stabile. Anche in questo caso gli atti di riscossione ed esecuzione dovranno essere rivolti solo ed esclusivamente nei confronti della casa madre estera, la quale, soltanto, sarà legittimata ad impugnarli in qualità di debitore; certamente, però, le possibilità di recupero non sono granché modificate, particolarmente ove si consideri che, se presso la stabile organizzazione vi siano beni del soggetto estero, questi potranno essere oggetto delle azioni esecutive, proprio perché la stabile non costituisce un patrimonio autonomo, né separato, rispetto alla casa madre. E così, a ben vedere, l’Erario ha possibilità di notificare presso la stabile organizzazione e di svolgere azioni esecutive presso di essa. In pratica, l’Erario ha già molte di quelle prerogative che la Suprema Corte pensa di garantire tramite l’assurda imposizione di una intestazione dell’atto accertativo alla stabile organizzazione. A prescindere da ciò, e quindi dall’inefficacia delle soluzioni rispetto ai fini dichiarati, vale ricordare che il giudice dovrebbe limitarsi ad interpretare le norme e che l’interesse dell’Erario non è un canone ermeneutico; solo il legislatore, quindi, anche in ragione di quanto detto circa il fondamento normativo della soggettività, inclusa quella passiva del tributo, potrebbe riformare la disciplina della stabile organizzazione e/o della soggettività passiva ai fini delle imposte sui redditi in maniera da comportare la doverosa intestazione degli atti impositivi alle stabili organizzazioni. Ma se da un lato non è assolutamente scontato che una tale soluzione faciliti in maniera significativa il procedimento impositivo verso soggetti esteri, è certo che nel frattempo sentenze come quella in esame creano soltanto disorientamento e confusione.

Avv. Paolo de’Capitani di Vimercate Ricercatore presso l’Università

degli Studi di Brescia, Dipartimento di Scienze Giuridiche

Il rapporto tra stabile organizzazione e transfer pricing in alcuni casi di distribuzione di prodotti esteri in Italia

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La cronaca di questi mesi ha portato all’attenzione dell’opinione pubblica casi di gruppi multinazionali molto noti che pur operando nel nostro e in altri Paesi con evidente successo imprenditoriale sono stati additati come casi di elusione, se non proprio di evasione fiscale, dichiarando redditi molto bassi rispetto al giro d’affari realizzato su base locale. Lo schema comune che traspare dalla descrizione di questi casi è quello che si basa sull’impiego di una struttura di gruppo articolata, che facendo perno su una società generalmente collocata in Paesi che offrono un trattamento tributario piuttosto generoso riduce al minimo le funzioni svolte dalla società o dalla articolazione dell’impresa che si collocano nel mercato, o meglio, nel Paese di destinazione dei prodotti.

Da quanto si apprende dai rapporti della stampa specializzata e da quanto emerge dalle pronunce che all’estero hanno trattato casi analoghi1, la società locale, o l’unità locale dell’impresa non residente, sono incaricate in particolare per lo svolgimento di una serie di servizi di supporto che hanno come controparte però non la clientela dell’impresa multinazionale, ma la società del gruppo residente all’estero, come detto di solito in un Paese a bassa fiscalità, la quale invece intrattiene direttamente il rapporto commerciale con gli acquirenti dei beni o dei servizi. E’ discusso anche se un commissionario possa costituire stabile organizzazione: in Francia la Corte di Appello di Parigi, 2 febbraio 2007, n. 05PA02361, Zimmer Ltd., in Dir. prat. trib. int., 2007, 1124, ha ritenuto di no, così come la Commissione tributaria regionale di Milano, 20 ottobre 2011, n. 125, che ha confermato quanto deciso dalla Commissione tributaria

1 Si pensi ai casi Zimmer (Francia), Dell (Norvegia) e soprattutto Roche (Spagna), oltre al caso italiano di Boston Scientific, deciso in senso favorevole al contribuente nei tre gradi di giudizio, anche se relativo ad una struttura operativa che, diversamente dal caso Roche, prevedeva l’acquisto della merce e la rivendita da parte della srl italiana del gruppo. V. anche Comm. trib. reg. Marche, 24 giugno 2011, n. 44 e Comm. trib. reg. Friuli-Venezia Giulia, 23 marzo 2011, n. 33, oltre a Comm. Trib. Prov. Rimini, 12 marzo 2008, n. 26.

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provinciale di Milano, 27 aprile, n. 1122. Di contrario avviso è invece in Norvegia la Corte di Appello di Oslo, 2 marzo 2011, Dell Products BV. Su questi aspetti e su altri relativi all'art. 5 del Modello OCSE v. da ultimo OECD, Interpretation and Application of Article 5 (permanent establishment) of the OECD Model Tax Convention - Public discussion draft, 12 October 2011 to 10 February 2012. A seconda dei casi, l’Amministrazione italiana e quelle degli altri Paesi europei interessati da questo fenomeno hanno avviato verifiche e talvolta anche contestazioni che spaziano dal recupero di imposta nei confronti dell’impresa non residente, che si assume aver avuto una stabile organizzazione nel Paese di destinazione dei beni3, a quello nei confronti della società locale, che si assume remunerata in maniera insoddisfacente in base alla disciplina del transfer pricing.

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Come accennato, la prassi invalsa nel contesto delle imprese multinazionali che operano nel nostro e in altri Paesi sembra essere quella di utilizzare una srl locale cui appunto sono affidate, in base ad apposito contratto, alcune funzioni di supporto territoriale all’attività principale, svolta direttamente dall’impresa non residente. 2 Sentenze poi confermate in Cassazione: v. le sentenze 3769-3773 del 9 marzo 2012, in banca dati Fisconline. 3 Tale stabile organizzazione personale consisterebbe nella stessa società italiana, la quale, a seconda dei casi, sarebbe considerata agente dipendente della società estera ai sensi dell’art. 5.5 del Modello OCSE di Convenzione sui redditi e i capitali (rectius, ai sensi dell’art. 162, comma 6, del Testo unico delle imposte sui redditi – Tuir – che al riguardo riflette, in parte, l’art. 5 del Modello OCSE), oppure come vera e propria struttura locale dell’impresa non residente, dovendosi ignorare il “velo” della personalità giuridica distinta della stessa società locale, in tutto e per tutto equiparata a una promanazione dell’entità non residente. Cfr. A. Lovisolo, Il concetto di stabile organizzazione nel regime convenzionale contro la doppia imposizione, in Dir. Prat. Trib., 1983, I, 130 e ss.; Lovisolo, La stabile organizzazione, in V. Uckmar, Corso di diritto internazionale, Cedam, Padova, 2001, 300; Cerrato, La definizione di stabile organizzazione nelle convenzioni contro le doppie imposizioni, in C. Sacchetto-L. Alemanno, Materiali di diritto tributario internazionale, Ipsoa, Milano 2002, 132; V. Uckmar - G. Corasaniti - P. de’ Capitani di Vimercate - C. Corrado Oliva, Diritto tributario internazionale, Manuale, 2a ed., Padova, 2012, 61; H. Pijl, Agency Permanent Establishments: in the name of and the Relationship between Article 5(5) and (6) – Part 1, in Bulletin for International Taxation, Vol. 67, N. 1, gennaio 2013, 26 e ss.. In altri casi, invero più teorici che pratici, laddove l’impresa estera abbia utilizzato già ufficialmente una stabile organizzazione nel Paese di destinazione della sua attività, il recupero potrebbe invece interessare il quantum di imposta dichiarato dal non residente attraverso tale unità locale.

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In questo caso, le verifiche dell’Amministrazione si incentrano quindi sulla verifica della corrispondenza tra le funzioni svolte dalla società locale in base al contratto e quelle effettivamente realizzate grazie all’attività condotta dai dipendenti italiani, nell’assunto che queste possano eccedere talvolta quanto le forme darebbero ad intendere. I dipendenti italiani, insomma, lungi dal limitarsi a prestazioni di mero supporto o esecutive di direttive provenienti dall’estero, darebbero un proprio e autonomo impulso all’attività commerciale, favorendo e incrementando il fatturato “italiano” dell’impresa residente all’estero. Quando si verificano questi presupposti, i verificatori sono portati a concludere che l’impresa non residente abbia in Italia una stabile organizzazione di carattere quantomeno personale, perché la società italiana dovrebbe ricondursi alla categoria dell’agente dipendente di cui all’art. 5, par. 5, del modello Ocse. I riscontri probatori di questa impostazione si rinvengono solitamente nelle dichiarazioni che in sede di verifica vengono rilasciate dai dipendenti della stessa società locale e dai clienti dell’impresa estera, se questi affermano che il rapporto commerciale è in effetti gestito più su base territoriale che direttamente con il fornitore non residente dei beni o dei servizi; altro elemento che ovviamente è oggetto di accurata indagine è la corrispondenza commerciale, anche tramite posta elettronica. E così, certamente, quando emerge dalla verifica che il personale “locale” è solito trattare con la clientela (dell’impresa non residente) prezzi, tipologia e quantità dei beni4. Se le indagini confermano i sospetti dei verificatori, la conseguenza è ovviamente la contestazione dell’omissione della presentazione della dichiarazione dei redditi5. In altri Paesi, come emerge dal Rapporto Ocse sull’attribuzione degli utili alle stabili organizzazioni, si propende invece, anche per questioni di semplificazione, a muovere una contestazione di transfer pricing nei confronti della società locale6.

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La posizione dei gruppi multinazionali a fronte delle contestazioni che gli vengono mosse dalla stampa e dalle Amministrazioni è che la struttura

4 Cfr. D. Avolio, B. Santacroce, Per la stabile organizzazione basta l’affidamento d’affari, in Corr. trib., 2012, 2258. 5 Se l’impostazione dei verificatori si fonda sul riconoscimento di una stabile organizzazione occulta di tipo personale, non si procede invece al recupero dell’Iva, perché come noto a questi fini serve la compresenza di un elemento personale e di un elemento materiale che invece dovrebbe essere assente nel caso di un agente dipendente , pur dotato di una sua struttura organizzativa; v. Corte di Giustizia, 4 luglio 1985, C-168/84, Berkholz; Cass., 25 luglio 2002, n. 10925. 6 V. infra.

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descritta più sopra e le sue varie declinazioni costituiscono il semplice impiego di strumenti legali che corrispondono alla realtà operativa e che pertanto ogni pretesa e ogni critica sono ingiustificate, dovendosi semmai modificare le leggi tributarie7. Anche quando la questione sia affrontata in sede tecnica e vi siano delle incongruenze8 nelle funzioni effettivamente svolte in sede locale rispetto a quelle formalmente dichiarate (per esempio nella documentazione predisposta per gli adempimenti del transfer pricing), la menzionata divaricazione degli approcci di diverse amministrazioni tra la contestazione di una stabile organizzazione occulta e il recupero di imposta attraverso la disciplina del transfer pricing costituisce un ostacolo alla composizione della vertenza, perché gruppi che operano su scala mondiale sentono l’esigenza di una organizzazione aziendale uniforme, che non vari da Stato a Stato in base all’impostazione che una data amministrazione finanziaria assume nei confronti delle fattispecie descritte. La risposta usuale, e se si vuole comprensibile, che questi gruppi offrono è che essi - economicamente intesi - non possono essere trattati alla stregua di un evasore totale, avendo invece manifestato la loro presenza nel territorio di destinazione dei beni/servizi nella maniera più ufficiale possibile (con la costituzione di una società in loco). V’è quindi una ferma ritrosia ad accettare la contestazione di una stabile organizzazione occulta, anche nei casi in cui questa sarebbe una strada tecnicamente corretta, per non alterare l’impostazione strutturale che il gruppo si è dato su scala internazionale, impostazione che prevede di operare nei diversi Paesi attraverso società locali, e non stabili organizzazioni. Piuttosto, i gruppi multinazionali sono disposti a trattare questi casi dal punto di vista della disciplina del transfer pricing, perché essa non comporta addebiti di omessa presentazione della dichiarazione, né modifiche alla struttura operativa del gruppo – se si eccettua il riconoscimento di funzioni ulteriori rispetto a quelle oggetto del contratto con la società non residente facente parte del medesimo gruppo -; anche dal punto di vista penale, il transfer pricing provoca, nella maggior parte dei casi, minori preoccupazioni, a parte la questione dell’individuazione del responsabile della violazione, che

7 V. le risposte a più riprese fornite dal CEO di Apple, anche in occasione dell’indagine conoscitiva svolta dal Congresso americano: v. al riguardo i contributi di Dian e di Queiroli in Dir. Prat. Trib. Int. 2/2013. V. anche i lavori dell’Ocse in relazione alla possibile riformulazione del Commentario all’art. 5 del Modello di convenzione contro le doppie imposizioni sul reddito e sul patrimonio: Public Discussion Draft on the Interpretation and Application of Article 5 (Permanent Establishment) of the OECD Model Tax Convention, 12 ottobre 2011. 8 Incongruenze che talvolta possono anche essere il banale frutto delle soluzioni che quotidianamente il personale di un’azienda multinazionale trova per risolvere le questioni correnti, magari allontanandosi dalle direttive organizzative in precedenza impartite dal management.

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evidentemente potrebbe essere diverso che nel caso di omessa dichiarazione da parte della società non residente. E’ possibile inoltre avviare le procedure bilaterali o convenzionali (436/90) per una soluzione delle questioni che coinvolga direttamente anche l’altra o le altre amministrazioni interessate. La contestazione di una stabile organizzazione comporta del resto problemi analoghi a quelli del transfer pricing, perché in assenza di una contabilità analitica riferibile alla stessa il reddito da attribuirle deve essere determinato con le stesse modalità e criteri del transfer pricing, non potendosi condividere in queste ipotesi la tassazione come reddito dei ricavi lordi dietro la giustificazione che la prova dei costi tocca al contribuente. Simile percorso, per quanto mutuato dalle fattispecie domestiche in cui non si reperisce la contabilità d’impresa, non è infatti conciliabile con l’art. 7 del modello Ocse, come chiarito nel rapporto sull’attribuzione degli utili alle stabili organizzazioni9. Il sistema contabile interno della società estera, d’altra parte, non è mai costruito in modo da avere un conto profitti e perdite e un bilancio d’esercizio distinti per Paese, e questo impone il ricorso a vari metodi di determinazione del reddito della s.o., come detto mutuati dalla disciplina sul transfer pricing. Uno degli elementi più importanti nell’analisi delle fattispecie in esame è dato dal contratto di servizio stipulato tra l’impresa non residente e la società locale che giustifica e remunera le attività svolte da quest’ultima a favore della prima. Questi contratti, spesso intitolati proprio come “contratti di agenzia”, recano la puntuale descrizione delle attività delegate alla società locale, solitamente strettamente connesse a una presenza territoriale che è richiesta per il migliore completamento delle attività di gruppo. Si pone quindi la questione, centrale per l’identificazione di una stabile organizzazione accanto alla suddetta società locale, della individuazione e della qualificazione delle attività ulteriori che la società svolgerebbe oltre a quelle indicate nel contratto. Queste ulteriori attività, infatti, per sorreggere il riconoscimento di una stabile organizzazione occulta, devono oltrepassare la soglia delle attività di natura meramente ausiliaria o preparatoria. A ben vedere, peraltro, anche il fatto che eventuali ulteriori attività non siano state formalmente contrattualizzate non elimina dalla scena il transfer pricing, perché nessuno impone, tantomeno nei gruppi, la forma scritta dei contratti10 e il non farsi pagare specificamente per un servizio reso rientra senza dubbio nella sfera di applicazione dell’art. 110, comma 7, tuir. 9 Cfr. l’art. 5, comma 3, del d.p.r. n. 600/1973 che impone ai soggetti Ires la conservazione dei libri contabili relativi alle attività commerciali eventualmente esercitate nel territorio dello Stato mediante S.O., nonché l’art. 14, comma 4, del medesimo decreto sulla contabilità distinta fra casa madre e stabile organizzazione. V. anche F. Tundo, Stabile organizzazione personale e determinazione del reddito secondo le recenti direttive OCSE, in Rass. trib., 2011, 305 e ss. 10 V. Cass. 22023/2006.

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Sin dalle decisioni Philip Morris, peraltro, è noto che la Cassazione ha ritenuto che anche in assenza di poteri formali la partecipazione alle trattative per conto delle imprese non residenti costituisce esercizio del potere contrattuale di un agente dipendente. La stessa Corte ha inoltre ritenuto che l’attività di controllo sulla corretta esecuzione dei contratti da parte delle controparti non può considerarsi come attività meramente ausiliaria o preparatoria. Seppure quindi sia possibile, in astratto, procedere parallelamente sulle tracce della stabile organizzazione occulta e del transfer pricing, vi sono talvolta elementi di contesto che dovrebbero far propendere per la seconda, piuttosto che per la prima alternativa. Tra questi la circostanza che affermare in questi casi l’esistenza di una stabile organizzazione personale da agente dipendente significherebbe che la società estera ha e in realtà avrebbe avuto per i cinque/dieci anni passati due diversi agenti in Italia che svolgono, con gli stessi dipendenti e le stesse strutture di supporto, gli stessi o comunque analoghi o complementari compiti: il primo, la società italiana, in base al menzionato contratto di mandato, il secondo, sempre la società italiana, in qualità di stabile organizzazione personale della società estera. Anche il codice attività e l’oggetto sociale della società controllata possono essere indicativi della natura di intermediazione dell’attività ufficialmente svolta dalla società locale, attività che come detto sarebbe quindi complementare a quella che in queste ipotesi viene spesso additata come quella che giustificherebbe il riconoscimento di una stabile organizzazione occulta. La via del transfer pricing appare anche più agevole per il fatto che nonostante il carattere monomandatario dell’incarico affidato alla società locale, non è sempre agevole considerare la società locale come agente dipendente della preponente, tanto più quando la prima sia una società sorella e non la controllante all’interno del gruppo. Utili indicazioni, a questo riguardo, si potranno trarre dal criterio previsto per la remunerazione dell’agente, così come dallo spazio di manovra che le viene riconosciuto nella scelta delle modalità e dei mezzi impiegati per lo svolgimento delle sue funzioni di supporto locale. Se mancano le “detailed instructions or comprehensive control” richiesti dal par. 38 del Commentario all’art. 5 del Modello OCSE per la configurazione di un “agente dipendente” è evidente che una verifica delle remunerazioni resta addirittura l’unica strada percorribile. E, ancora una volta, conformemente al Commentario del Modello OCSE, “Limitations on the scale of business which may be conducted by the agent […] are not relevant to dependency which is determined by consideration of the extent to which

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the agent excercises freedom in the conduct of business on behalf of the principal within the scope of the authority conferred by the agreement” 11. Diversi di questi aspetti possono comunque assumere rilevanza sia per la verifica dei requisiti della stabile organizzazione occulta sia per la determinazione del suo reddito, perché quanta più autonomia gestionale si vedrà riconosciuta alla struttura locale tanto più reddito potrà esserle attribuito – a patto che si possa comunque considerare sussistente la s.o. -, e per contro, tanta meno autonomia, tanto inferiore sarà l’utile attribuibile alla base locale, perché le funzioni svolte non potranno considerarsi più di tanto rilevanti per la produzione del reddito, quanto piuttosto meramente esecutive di decisioni e piani aziendali organizzati altrove, quando addirittura non si esauriscano completamente nelle funzioni “contrattualizzate” o in altre a queste accessorie12. Ecco quindi che anche sotto questo aspetto, almeno in alcuni casi, l’impostazione dell’Amministrazione verso il transfer pricing, piuttosto che la s.o., potrebbe rivelarsi più fruttuosa per l’attività di recupero. Come accennato, in presenza di una società del gruppo che già opera nel Paese, l’OCSE consente di riconoscere una stabile organizzazione occulta soltanto se le funzioni da questa svolte si differenziano nettamente e sono quindi ulteriori rispetto a quelle svolte dalla società locale (i cui redditi sono quindi già tassati in capo alla stessa)13.

11 Cfr. J. Avery Jones e D. A. Ward, Agents as Permanent establishment under the OECD Model Tax Convention, in International Bureau of Fiscal Documentation, 1993, 178. 12 V. anche M. Cerrato in «La definizione di «stabile organizzazione» nelle convenzioni per evitare le doppie imposizioni, cit., in C. Sacchetto, L. Alemanno (a cura di), Materiali di diritto tributario internazionale, Ipsoa, 2002, che alla nota 11 sottolinea che “il giudizio sull'indipendenza economica dell'intermediario deve essere condotto esaminando tutti gli aspetti afferenti le relazioni commerciali tra le parti.” 13 V. Il Rapporto OCSE sull’attribuzione degli utili alle stabili organizzazioni del 2008, par. 270 del cap. I, secondo cui, nel caso di dependent agent PE, “In calculating the profits attributable to the dependent agent PE it would be necessary to determine and deduct an arm’s length reward to the dependent agent enterprise for the services it provides to the non-resident enterprise (taking into account its assets and its risks if any). Issues arise as to whether there would remain any profits to be attributed to the dependent agent PE after an arm’s length reward has been given to the dependent agent enterprise. In accordance with the principles outlined above (and illustrated in the example below) the answer is that it depends on the precise facts and circumstances as revealed by the functional and factual analysis of the dependent agent and the non-resident enterprise. However, the authorised OECD approach recognises that it is possible in appropriate circumstances for such profits to be attributed to the dependent agent PE” (enfasi aggiunta). Il rapporto prosegue poi al par. 280 chiarendo ancora che “In [some] circumstances, the functional and factual analysis might show that the relevant significant people functions are undertaken by people in the head office of the non-resident enterprise, and the personnel of the

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Vi sono precedenti in giurisprudenza, anche in Italia14, che si riferiscono specificamente a questioni analoghe a quella in esame e affermano che le Autorità fiscali avrebbero dovuto effettuare una verifica sul transfer pricing, piuttosto che affermare l’esistenza di una stabile organizzazione quando il gruppo aveva già una presenza italiana nella forma di una società controllata e quando tale controllata operava nei limiti del suo oggetto sociale. In tali casi, infatti, l’unica questione che le Autorità dovrebbero considerare è se la controllata italiana ha ricevuto un’adeguata remunerazione per le sue attività. In caso affermativo non v’è spazio per una rettifica dei redditi imponibili da parte dell’Amministrazione finanziaria. Tale interpretazione è inoltre supportata dall’OCSE (ad esempio nel Report on the attribution of profits on permanent establishments del 2008, da ultimo modificato il 17 luglio 2010) che, tra gli altri punti, ricorda che riconoscere

dependent agent enterprise in the host country do not carry out these activities on behalf of the non-resident enterprise. In such circumstances the economic ownership of the inventory and the reward for the assumption of the associated inventory risk would not be attributable under the authorised OECD approach to the dependent agent PE of the non-resident enterprise but to its head office. A similar analysis can be carried out on a case-by-case basis in respect of other types of risks, e.g. the credit risk in respect of the customer receivables of the non-resident enterprise. Again, under a typical sales agency agreement customer receivables and the associated credit risk legally belong to the non-resident enterprise, not the dependent agent enterprise and so the remuneration paid by the non-resident enterprise to the dependent agent enterprise should not reward the assumption of this risk. Once again the key question is whether any of the reward for the assumption of credit risk should be attributed to the dependent agent PE of the non-resident enterprise. As already noted, this will be determined by reference to the identification of where the significant people functions relevant to the assumption and/or subsequent management of the risk are undertaken, i.e. in the dependent agent or the non-resident enterprise”. Si noti peraltro che la stessa OCSE dà atto che molti dei Paesi membri in questi casi abbiano scelto di non raddoppiare il contribuente, effettuando semplicemente una verifica di transfer price sulla società controllata/dependent agent: v. il par. 282, secondo cui “a number of countries actually collect tax only from the dependent agent enterprise even though the amount of tax is calculated by reference to the activities of both the dependent agent enterprise and the dependent agent PE. In practice what this means is taxing the dependent agent enterprise not only on the profits attributable to the people functions it performs on behalf of the non-resident enterprise (and its own assets and risks assumed), but also on the reward for the free capital which is properly attributable to the PE of the non-resident enterprise”. In nota l’OCSE non manca poi di rimarcare come “the potential burden on the non-resident enterprise of having to comply with host country tax and reporting obligations in the event it is determined to have a dependent agent PE cannot be dismissed as inconsequential, and nothing in the authorised OECD approach should be interpreted as preventing host countries from continuing or adopting the kinds of administratively convenient procedures mentioned above”. 14 Comm. trib. prov. di Rimini, 12 marzo 2008, n. 26.

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l’esistenza di una stabile organizzazione non è sufficiente per emettere un avviso di accertamento, posto che deve essere determinato anche il reddito da attribuire a tale stabile organizzazione. Circostanza tanto più difficile nei casi in cui l’attività locale sia un completamento di quella estera, perché per esempio si innesta su contratti quadro davvero conclusi all’estero e che necessitano, su base locale, di una mera applicazione corrente, la quale magari può consistere anche nello svolgimento di talune trattative su aspetti esecutivi o di incentivazione, come per esempio sulla quantità dei beni o dei servizi venduti in rapporto a particolari forme di incentivi all’acquisto, attività che però non possono dirsi indipendenti rispetto a quelle realizzate estero dall’impresa non residente, anche perché spesso strettamente monitorate e sottoposte a stringenti controlli e limiti di budget15. La difficoltà di determinare il reddito da imputarsi alla s.o. induce l’Ocse a sottolineare che i requisiti di indipendenza funzionale per il riconoscimento della stabile organizzazione sono da vedersi proprio in correlazione a questo aspetto, perché in assenza di una certa autonomia dell’attività di impresa svolta dalla s.o. (al netto, si badi, delle funzioni ufficialmente svolte dalla società locale) sarebbe poi arduo determinarne il reddito secondo i criteri di separazione contabile di cui all’art. 14, comma 5, d.p.r. 600/197316, meglio evidenziati nel Rapporto OCSE Attribution of Profits to Permanent Establishments, Parigi, 2008, secondo cui, in estrema sintesi, il reddito della stabile organizzazione deve essere misurato secondo criteri analoghi a quelli previsti dalle linee guida OCSE in materia di transfer pricing valorizzando le funzioni svolte, i rischi assunti e i beni impiegati dalla stabile organizzazione1718.

15 Cfr. D. Avolio e B. Santacroce, Per la stabile organizzazione personale è necessario provare che l'agente ha effettivamente concluso i contratti, in Giur. trib., 2012, 975 e ss. 16 Ai sensi del quale “Le società, gli enti e gli imprenditori di cui al primo comma che esercitano attività commerciali all'estero mediante stabili organizzazioni e quelli non residenti che esercitano attività commerciali in Italia mediante stabili organizzazioni, devono rilevare nella contabilità distintamente i fatti di gestione che interessano le stabili organizzazioni, determinando separatamente i risultati dell'esercizio relativi a ciascuna di esse.” Si veda al riguardo anche il par. 33 del Commentario all’art. 5 del Modello Ocse. 17 V. A. Sfrondini, La stabile organizzazione secondo il modello Ocse e il Commentario, in A. Dragonetti, V. Piacentini, A. Sfrondini, Manuale di fiscalità internazionale, IV ed., Milano, Ipsoa, 2010, 813, ed ivi la nota 99 che rinvia a Skaar, Permanent establishment: erosion of a tax treaty principle, Kluwer, 1998, 50. 18 Pur tenendo presente che la configurabilità di una stabile organizzazione comporta l’assoggettamento a tassazione su base territoriale dei profitti realizzati da quella specifica impresa non residente, a prescindere da quella che è l’astratta remunerabilità delle attività di un agente per la sua prestazione di servizi. Si tratta però di una problematica che se da un lato impone la disamina dei profitti realizzati dall’impresa non residente (circostanza, per vari motivi, non sempre di facile determinazione) per poi ripartirli nei vari Stati, compreso in particolare quello della s.o., dall’altro non

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E a questo riguardo valga, a specchio perché in quel caso si parlava di stabili organizzazioni estere di società italiane, quanto a suo tempo chiarito dall’Amministrazione finanziaria con la risoluzione n. 9/2398 del 1° febbraio 1983, secondo cui “Per quanto concerne, inoltre, la locuzione "gestione separata" contenuta nel citato art. 3, D.P.R. n. 599, si ritiene che essa indichi un ciclo completo di attività imprenditoriale svolto dalla stabile organizzazione all'estero con un proprio risultato economico, autonomo rispetto a quello conseguito dalla sede centrale esistente nel territorio nazionale. Perché la stabile organizzazione all'estero sia autonoma deve perlomeno avere il potere di promuovere e concludere direttamente, per conto dell'impresa in Italia, tutti quei negozi e rapporti coi terzi, che altrimenti dovrebbero far capo alla sede centrale in Italia, cui, peraltro, spetta ogni controllo. Nel merito, la società fa presente che, per ciascuna delle strutture operanti all'estero, esiste una piena autonomia gestionale in quanto le stesse provvedono direttamente all'assunzione di mano d'opera locale e intraprendono autonomi rapporti con gli organismi pubblici e privati, nonché con i clienti e con i fornitori” (enfasi aggiunta). Si noti inoltre che la disposizione convenzionale di volta in volta applicabile è solitamente più restrittiva nel consentire al Paese della fonte (Italia) di riconoscere l’esistenza di una stabile organizzazione rispetto a quanto previsto dall’art. 162 tuir. La dottrina italiana, infatti, ha sottolineato che rispetto al modello OCSE la disposizione interna ammette la configurabilità della stabile organizzazione personale anche nel caso in cui l’agente rappresenti l’impresa non residente per attività meramente preparatorie o ausiliarie diverse dall’acquisto di beni19. Per la disciplina interna, pertanto, la presenza di un agente dell’impresa non residente è sufficiente per costituire una stabile organizzazione anche in ipotesi che normalmente sarebbero escluse dalla definizione di stabile organizzazione materiale. Ma quando il parametro di riferimento non è la norma interna (art. 162 tuir), bensì quella convenzionale, che esclude la possibilità di configurare una stabile organizzazione nel caso di attività meramente preparatorie o ausiliarie, come per definizione sono le attività di supporto vendita e supporto marketing20.

potrà che risolversi caso per caso. In alcune ipotesi, per esempio, l’impresa non residente potrà sottolineare che la forza del marchio consentirebbe comunque di vendere i prodotti anche senza l’intervento di un agente locale, seppur con minor successo o con maggiori difficoltà per l’entità estera del gruppo. 19 V. V. Uckmar (coordinato da), Diritto tributario internazionale, ed. III, Cedam, Padova, 2005, 491. Cfr. M. Leo, Le imposte sui redditi nel testo unico, tomo II, Milano, Giuffré, 2010, 2507; E. Della Valle, La nozione di stabile organizzazione nel nuovo Tuir, in Rass. trib., 2004, par. 6”. 20 Il paragrafo 23 del Commentario all’art. 5 del modello OCSE chiarisce al riguardo che “Subparagraph e) provides that a fixed place of business through which the enterprise exercises solely an activity which has for the enterprise a preparatory or auxiliary character, is deemed not to be a permanent establishment. The wording of

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Da ultimo, forse proprio mescolando l’approccio “transfer pricing” con quello “stabile organizzazione” la Cassazione ha ritenuto che nel caso in cui una società italiana sia considerata quale stabile organizzazione di un’altra società del gruppo, essa – e non la società non residente – deve essere destinataria della rettifica del reddito operata dall’Amministrazione (v. Cass., 22 luglio 2011, n. 16106). Benché nella sostanza, ancora una volta, si arrivi a discutere della determinazione del reddito della stabile organizzazione, che ovviamente dovrà parametrarsi alle eventuali ulteriori funzioni occultamente svolte a favore della società straniera, la decisione della Cassazione non è condivisibile, in quanto supera e stravolge il dato normativo che vuole il soggetto non residente assoggettato a tassazione sui redditi prodotti in Italia attraverso la sua stabile organizzazione (artt. 73, comma 1, lett. d, e 23, comma 1, lett. e, tuir). Nel caso specifico, la rettifica mirava a recuperare a tassazione le royalties che la società italiana pagava a varie entità tedesche e austriache del gruppo: configurando una stabile organizzazione in Italia di tali (singole) entità e attribuendovi le royalties, il Fisco sterilizzava di fatto la deduzione operata dalla società italiana.

this subparagraph makes it unnecessary to produce an exhaustive list of exceptions. Furthermore, this subparagraph provides a generalized exception to the general definition in paragraph 1 and, when read with that paragraph, provides a more selective test, by which to determine what constitutes a permanent establishment. To a considerable degree it limits that definition and excludes from its rather wide scope a number of forms of business organizations which, although they are carried on through a fixed place of business, should not be treated as permanent establishments. It is recognized that such a place of business may well contribute to the productivity of the enterprise, but the services it performs are so remote from the actual realization of profits that it is difficult to allocate any profit to the fixed place of business in question” (enfasi aggiunta). E poi ancora, al par. 24 del medesimo Commentario all’art. 5: “the decisive criterion is whether or not the activity of the fixed place of business in itself forms an essential and significant part of the activity of the enterprise as a whole” (enfasi aggiunta).

Prof. Adriano Di Pietro Professore Alma Mater Studiorum Università di Bologna

La stabile organizzazione e la fiscalità del mercato europeo*

* La relazione, non pervenuta in tempo per l’inserimento nel volume, appena disponibile verrà pubblicata sul sito www.uckmar.net

Prof. Augusto Fantozzi Professore emerito Università di Roma

Relazione introduttiva sugli aspetti tributari

SOMMARIO: 1 Le linee recenti di evoluzione del diritto tributario sostanziale e formale - 2 L’intramontato interesse della dottrina al confronto sul principio di capacità contributiva - 3 La crisi dello Stato nazione ed i riflessi sulla fiscalità nell’epoca della globalizzazione: la fiscalità degli enti sotto e sovranazionali e le interferenze tra i rispettivi ordinamenti - 4 La fiscalità di massa e l’internazionalizzazione dei mercati: conseguenze sul piano sostanziale (elusione) e formale (strumenti induttivi) del diritto tributario - 5 (Segue): in particolare gli strumenti partecipativi - 6 Il ricorso a strumenti negoziali e la “privatizzazione” del diritto tributario: progressiva attribuzione a privati di compiti pubblici - 7 Le conseguenze sul piano legislativo e sullo studio della nostra materia: relativizzazione e frammentazione nell’attuazione del tributo; l’ineliminabile riferimento al presupposto

1 Le linee recenti di evoluzione del diritto tributario sostanziale e formale

Rispetto alla prima edizione di questo Manuale, dunque ormai a venti anni di distanza, può farsi oggi il punto delle modifiche intervenute nel mondo del diritto e dell’economia per gli effetti che esse hanno prodotto nella nostra materia. Con riguardo ad essa, come noto particolarmente sensibile all’evoluzione dei fenomeni circostanti, possono sottolinearsi diversi profili di novità che concernono l’impianto normativo sia del diritto tributario sostanziale sia del diritto tributario formale. Meno rilevanti appaiono tuttavia queste novità in punto di ricostruzione scientifica della materia e dunque di teoria generale del diritto tributario nella quale continuano ad essere utilizzabili gli strumenti e gli istituti elaborati dalla dottrina precedente. Questa parte generale del Manuale aspira dunque a rendere conto di tutte le novità legislative, strutturali e formali intervenute nella nostra materia negli ultimi venti anni adeguando ad esse una moderna teoria generale del diritto tributario. E questa introduzione ha appunto la funzione, sulla base di tali novità, di individuare le linee di continuità o di discontinuità/innovazione nello studio della nostra materia. Dagli anni Ottanta il nostro Paese ha iniziato ad aprirsi ai fenomeni di internazionalizzazione, ma ha subito al tempo stesso le crisi finanziarie e monetarie mondiali e le conseguenze in termini di inflazione. Alla elevata crescita del PIL, anche a causa della elevata inflazione, ha corrisposto in quel decennio quasi il raddoppio del debito pubblico. Le esigenze di gettito, anche per far fronte agli interessi sul debito pubblico in continuo aumento,

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condizionano pesantemente la politica fiscale. È un periodo di affannoso ricorso alla leva fiscale che incide profondamente e negativamente sulle caratteristiche strutturali e formali del sistema. Sotto il profilo degli strumenti normativi adottati, è venuto meno in primo luogo il contributo della dottrina alla formazione dei testi legislativi. L’episodicità degli interventi normativi sia sul diritto tributario sostanziale sia soprattutto su quello formale ha contribuito a indebolire il concetto di sistema e reso difficile l’azione dell’amministrazione e quella dell’interprete. Allo stesso tempo, l’apertura globale dei mercati ha moltiplicato da un lato le opportunità di pianificazione (e di elusione) fiscale e, dall’altro, ha raccomandato all’amministrazione finanziaria comportamenti di correttezza verso i contribuenti comparabili con quelli degli altri Paesi industrializzati. Da qui, negli ultimi anni del secolo scorso e nei primi di questo secolo, la prevalente attenzione, rispetto all’evasione, al fenomeno dell’elusione cioè all’utilizzo di comportamenti legittimi ma consistenti in aggiramenti della norma tributaria sostanziale: con l’art. 37 bis del d.p.r. 29.9.1973, n. 600 il legislatore ha introdotto una norma generale antielusiva che ha consentito al fisco di riqualificare atti, fatti e negozi elusivi, soprattutto relativi a imprese e società, quando privi di valide ragioni economiche e diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario, e a ottenere riduzioni di imposte o rimborsi, altrimenti indebiti. L’insufficienza di tale norma casistica ha indotto l’elaborazione giurisprudenziale di una nozione di abuso del diritto, fondata sull’art. 53 cost., avviata ad assumere importanza centrale nel diritto e nella pratica tributaria, consentendo all’amministrazione finanziaria di disconoscere gli effetti di operazioni societarie formalmente legittime, ma fiscalmente dannose. Per altro verso, le pressioni per un fisco civile a fronte di una legislazione spesso inintellegibile per le incrostazioni e le complicazioni normative hanno ottenuto un importante risultato con l’emanazione della l. 27.7.2000, n. 212, contenente “Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente”. Essa costituisce una sorta di legge sui principi generali del diritto tributario relativi alla normazione, all’informazione e alla conoscenza degli atti da parte del contribuente, alla tutela dell’integrità patrimoniale, all’affidamento e alla buona fede, infine alla tutela del contribuente rispetto alle incertezze legislative, alle verifiche fiscali e in genere al comportamento della pubblica amministrazione. Con riguardo alla loro gerarchia, le disposizioni dello Statuto prevedono una cosiddetta clausola di autorafforzamento in quanto costituiscono principi generali e possono essere derogate o modificate solo espressamente e mai da leggi speciali. È interessante notare che questa clausola di autorafforzamento è già stata più volte ignorata dal legislatore ma è stata invece presa in seria considerazione dalla Corte di Cassazione che ha considerato principi generali immanenti dell’ordinamento alcuni tra quelli affermati dallo Statuto soprattutto con riguardo alla tutela dell’affidamento e della buona fede (Cass. civ., 10.12.2002, n. 17576). A sua volta, il sistema tributario italiano basato prevalentemente su imposte cedolari e reali nella riforma degli anni Cinquanta, con la riforma degli anni

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Settanta è stato incentrato su due imposte principali sul reddito delle persone fisiche e giuridiche a carattere personale e su un’imposta reale, l’ILOR, in funzione di discriminazione qualitativa dei redditi non guadagnati; oltre all’IVA, imposta europea sugli scambi. Venuta meno l’ILOR, che mai era stata sostituita con un’imposta dichiaratamente sul patrimonio come nei progetti di riforma originari, essa è stata sostituita con l’IRAP (Imposta regionale sulle attività produttive) e a livello comunale con l’ICI (Imposta comunale sugli immobili ora trasformata in IMU, imposta sui servizi legati agli immobili), a marcato carattere patrimoniale. Più recentemente e per esigenze di competitività internazionale il legislatore ha attenuato la natura personale e accentuato quella reale dell’imposizione IRPEG trasformandola da un’imposta prelevata in capo alla società, ma imputata come credito ai soci sul loro dividendo, in IRES, cioè un’imposta che viene prelevata per intero in capo alla società che produce il reddito (con aliquota del 27,5%). La doppia imposizione sugli utili distribuiti ai soci viene attenuata o elisa esentando (participation exemption) il dividendo per il 95% in capo a ciascun socio ente commerciale per il quale la partecipazione costituisce investimento finanziario e per il 60% in capo al socio finale persona fisica. La stessa regola vale ora per le plus e minusvalenze relative a queste partecipazioni. Questo meccanismo ha sostituto il precedente che neutralizzava la doppia imposizione accreditando ai soci l’imposta pagata dalla società e che era criticato in ambito europeo poiché, non consentendo l’accredito ai soci non residenti, sfavoriva questi ultimi. Come si è visto sopra, nella storia recente del nostro ordinamento tributario, debolezza politica dei governi di coalizione e vicende della finanza pubblica non hanno consentito di incidere in modo strutturale e sistematico sui presupposti e sulle aliquote dei tributi. Una intensa attività legislativa ha invece riguardato i profili formali del tributo e soprattutto l’accertamento, la riscossione e le sanzioni, sui quali reagivano da un lato esigenze di gettito che raccomandavano la massima anticipazione del prelievo, dall’altro esigenze di contrasto all’evasione con strumenti di carattere generale viste le scarse capacità del fisco di reagire ai singoli comportamenti evasivi o elusivi dei contribuenti. L’anticipazione del prelievo è una costante, nel nostro ordinamento, dagli anni Settanta, quando alle iscrizioni provvisorie a ruolo furono affiancate le autoliquidazioni in dichiarazione e i versamenti in banca o in tesoreria provinciale. Da allora, attraverso la generalizzazione delle ritenute, l’introduzione degli acconti d’imposta via via sempre più vicini al 100% del tributo dovuto e la liquidazione e riscossione dell’imposta in sede di controllo formale della dichiarazione introdotta con gli artt. 36 bis e 36 ter del d.p.r. 29.9.1973. n. 600, si è realizzato un assetto dell’accertamento e della riscossione per cui al momento della dichiarazione da parte del contribuente si è di solito integralmente realizzata la riscossione spontanea di tutto quanto dovuto in base alla dichiarazione stessa. Per elevare il livello di compliance dei contribuenti si è operato, per un verso, con misure premiali di carattere generale: i condoni previsti dalle leggi

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30.12.1991, n. 413; 30.11.1994, n. 656; 27.12.2002, n. 289, che hanno subordinato alla dichiarazione integrativa, autoliquidazione e versamento del dichiarato, determinati benefici in termini di riduzione dell’imposta e preclusioni dall’accertamento; per altro verso, con meccanismi automatici e statistici di determinazione dell’imponibile (coefficienti, parametri, studi di settore), con il rispetto dei quali il contribuente era messo al riparo da ulteriori pretese del fisco. In definitiva, da un lato il legislatore ha dato il massimo spazio all’adempimento spontaneo del contribuente in sede di dichiarazione/autoliquidazione/versamento, dall’altro ha anticipato anche i tempi dell’accertamento introducendo, con l’art. 41 bis del d.p.r. 29.9.1973, n. 600, l’accertamento parziale di cui è stato progressivamente ampliato l’ambito di applicazione già in presenza di qualunque elemento anche presuntivo e basato su indici, coefficienti e studi, in modo da consentire al fisco di accertare materia imponibile e iscrivere a ruolo imposta non appena in possesso di elementi fondati e, dunque, nel tempo più ravvicinato possibile rispetto al loro verificarsi. Il principio della unicità e globalità dell’accertamento è stato così fortemente intaccato. L’altra linea evolutiva, che si è affermata fortemente nell’ultimo decennio, riguarda il rafforzamento della posizione del privato nella fase di accertamento. In parte per la difficoltà di gestire una fiscalità di massa, in parte per le esigenze di origine europea e internazionale di riconoscere maggiore “civiltà” ai rapporti tra fisco e contribuente (sancite poi nello Statuto), si sono moltiplicate negli ultimi anni le misure premiali, di definizione consensuale, di partecipazione del contribuente alle fasi di attuazione del tributo. Per quanto riguarda i condoni, essi hanno riguardato quasi senza soluzione di continuità il periodo 1990-2003 alleggerendo i compiti di gestione del fisco ma sguarnendone le capacità operative e di accertamento. Con l’art. 33 del d.l. 30.9.2003, n. 269 si è introdotto il concordato preventivo e con la l. 30.12.2004, n. 311, art. 1, 387°-398° co., la pianificazione fiscale concordata, che consentivano persino di proiettare verso il futuro i benefici di una definizione standardizzata del reddito imponibile sulla base di indici o studi di settore negoziati con il fisco. La generalizzazione della definizione dell’imponibile con adesione (concordato: d.lg. 19.6.1997, n. 218) ha sicuramente concorso alla responsabilizzazione dell’amministrazione finanziaria e a eliminare i vecchi formalismi nell’esercizio della funzione vincolata d’imposizione. È da auspicare che si formino indirizzi costanti che guidino gli uffici nell’esercizio dei loro poteri. Infine, il moltiplicarsi degli obblighi di chiamata, di interlocuzione, di comunicazione, di notifica al contribuente dei diversi atti tributari al fine di partecipare al procedimento sia in funzione collaborativa sia in funzione difensiva (contraddittorio), pone in evidenza un nuovo modo di esercitare la funzione tributaria nel rispetto dei principi di buona fede e di affidamento che sono ora sanciti nello Statuto dei diritti del contribuente.

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Lo stesso è da dire per l’espandersi dei diversi tipi di interpello (art. 21 della l. 30.12.1991, n. 413; d.lg. 8.10.1997, n. 358; art. 37 bis, 8° co., del d.p.r. 29.9.1973, n. 600; art. 11 della l. 27.7.2000, n. 212) e del ruling internazionale (art. 8 nel d.l. 30.9.2003, n. 269) con cui sempre più frequentemente i contribuenti sono messi in condizione di conoscere preventivamente la posizione vincolante per l’amministrazione sulle fattispecie da essi realizzate. Tutti i sopra ricordati strumenti di partecipazione del privato alla attuazione del tributo, se hanno attenuato la rigidità e i formalismi ingenerati dalla riserva di legge, dal principio di stretta legalità e di indisponibilità dell’obbligazione tributaria, hanno tuttavia incentivato la “privatizzazione” del rapporto tra fisco e contribuente. La stessa costituzione delle Agenzie fiscali, enti di diritto pubblico che gestiscono i tributi sulla base di un contratto di servizio col Ministero dell’Economia e delle Finanze, può favorire il rinascere di profili privatistici nella gestione del tributo evocando in qualche modo la distinzione tra Fisco ed Erario nel diritto romano. Se, in conclusione, una rivalutazione dell’apporto del privato e dei principi di affidamento e buona fede è sicuramente da salutare con favore, non si deve ritenere, invece, che una eccessiva privatizzazione nella gestione del tributo corrisponda alla funzione pubblica di applicazione di esso in ragione della capacità contributiva del soggetto passivo, così come ancora previsto dall’art. 53 cost. Negli ultimi tempi, nella spasmodica ricerca di gettito acuita dallo smobilizzo delle basi imponibili pregresse attraverso numerosi condoni e scudi fiscali, il legislatore ha inteso rafforzare la riscossione del tributo a detrimento della tutela anche giurisdizionale del contribuente. Così con le modifiche apportate con il d.l. 29.11.2008, n. 185 convertito in l. 28.1.2009, n. 2 all’istituto del concordato (accertamento con adesione) si è consentita la definizione purché integrale dei verbali di contestazione e degli inviti a comparire incentivandola con la riduzione da 1/3 a 1/6 delle sanzioni e con l’eliminazione dell’obbligo di fideiussione in caso di pagamento dilazionato: in sostanza una forte raccomandazione al contribuente a … pagare senza discutere! Da ultimo, con l’art. 29 del d.l. 21.5.2010, n. 78 convertito in l. 30.7.2010, n. 122 (che reca la singolare rubrica “Concentrazione della riscossione nell’accertamento”) si è provveduto ad attribuire immediata efficacia di titolo esecutivo all’atto di accertamento ancorché impugnato indipendentemente da ogni controllo giurisdizionale sulla determinazione dell’an e del quantum del tributo: le esigenze della riscossione hanno prevalso totalmente su quelle dell’accertamento. Come vedremo a conclusione di questa introduzione, nella secolare dialettica tra la tutela della giusta imposta e quella dell’interesse del fisco ha finito decisamente per prevalere la seconda.

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2 L’intramontato interesse della dottrina al confronto sul principio di capacità contributiva

Nonostante le modifiche intervenute sul piano sostanziale e formale della disciplina, la dottrina non ha potuto abbandonare il principio cardine attorno a cui costruire la teoria del tributo: quello della capacità contributiva. In verità la forte affermazione di questo principio come limite assoluto per il legislatore a tutela della libertà patrimoniale dei privati aveva consentito alla giurisprudenza della Corte costituzionale e alla dottrina tributaristica intorno alla metà del secolo scorso di elaborare una scienza autonoma del diritto tributario intorno alla nozione di tributo unificato dal principio di capacità contributiva. Quest’ultimo principio ha consentito di costruire lo studio del tributo intorno al suo presupposto inteso come fatto espressivo della capacità contributiva che il legislatore ha inteso colpire, nonché di far discendere dal presupposto l’obbligazione ex lege combinando così il principio del consenso al tributo attraverso l’atto avente forza di legge con l’obbligazione legale nascente dal presupposto previsto dalla legge stessa. Il presupposto economico costituisce fondamento e limite dell’imposizione vale a dire causa e misura dell’obbligazione tributaria (DE M ITA, Diritto tributario (giur. cost.), in Enc. Dir., Annali III). La centralità del principio di capacità contributiva nello studio del diritto tributario ha attraversato indenne le fasi della iperinflazione e del dissesto della finanza pubblica, in cui si sono invocati limiti quantitativi e tetti massimi alla ricchezza tassabile nonché le fasi del risanamento e della salvaguardia ad ogni costo della discrezionalità legislativa. In queste ultime fasi le latenti discussioni tra la funzione garantistica e l’apertura sociale del principio di capacità contributiva si sono fatte più vivaci, sostenute da una giurisprudenza invero oscillante della Corte costituzionale che pur mantenendo ferma la funzione garantistica del principio, quanto meno in termini di uguaglianza e di non discriminazione, ne ha accentuato la funzione sociale argomentando attraverso il principio di coerenza e ragionevolezza del prelievo alla luce di tutti gli altri principi costituzionali e non immanenti nell’ordinamento. Se questo eccessivo relativismo della Corte, finalizzato alla salvaguardia del sistema vigente e dunque alla tutela del gettito, ha talvolta indebolito il principio di capacità contributiva inteso come principio ispiratore del tributo e dunque della nostra materia, negli ultimi tempi la Corte ha ritrovato una chiara linea ispiratrice almeno quanto alla nozione di tributo che ora risulta essenziale ai fini della giurisdizione delle commissioni tributarie rispetto ai numerosi casi di prestazioni coattive, commutative e paracommutative creati dalle più recenti trasformazioni legislative. Questa recente giurisprudenza ha posto termine alle tradizionali polemiche in termini di classificazione e definizione del tributo statuendo che tale è soltanto una prestazione imposta (dunque coattiva) collegata alla spesa (oggettivamente) pubblica attraverso un presupposto economicamente rilevante.

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Tra le infinite concezioni sostanzialistiche o formalistiche, assolute o relative, della capacità contributiva volte ora a privilegiare la funzione garantistica e solidaristica riferita all’individuo, ora a rafforzare l’interesse fiscale generale al concorso alle pubbliche spese; nonostante tentativi di depotenziamento in funzione conservatrice dei tributi vigenti, il principio di capacità contributiva ha mantenuto nella pur oscillante giurisprudenza della Corte costituzionale la funzione di garanzia patrimoniale e di giustizia sostanziale nel concorso alle spese pubbliche. Ora come allora la nozione di tributo resta essenziale per individuare la disciplina che costituisce oggetto del nostro studio e viene ricondotta alla coattività della prestazione e al criterio di concorso basato sulla capacità contributiva.

3 La crisi dello Stato nazione ed i riflessi sulla fiscalità nell’epoca della globalizzazione: la fiscalità degli enti sotto e sovranazionali e le interferenze tra i rispettivi ordinamenti

La crisi dello Stato nazione congiunta alla finanziarizzazione dell’economia e alla globalizzazione dei mercati ha fortemente influenzato il fenomeno tributario: il tributo ha perso via via il proprio forte collegamento con la sovranità sul territorio cui è stato ricondotto attraverso criteri di ricollegamento personali piuttosto che reali. Questa scelta, che il legislatore italiano ha fatto con la riforma degli anni ’70, è stata indotta da quello che io chiamo imperialismo fiscale di origine anglosassone che introdusse il criterio della residenza e il world wide principle per la tassazione dei residenti nell’imposizione diretta. In questo modo i paesi forti (anglosassoni) attraevano alla loro giurisdizione fiscale i redditi prodotti all’estero da loro residenti, neutralizzando la doppia imposizione con il credito d’imposta e sterilizzando eventuali agevolazioni agli investimenti concesse dai paesi in via di sviluppo. Negli ultimi tempi si assiste allo stesso tentativo con riguardo all’e-commerce. I paesi che governano la rete (internet) tendono a ridefinire criteri fiscali di ricollegamento diversi da quelli tradizionali (residenza, fonte, stabile organizzazione) per attrarre flussi di reddito a tassazione nel paese del gestore della rete (server, provider). Questi rapidi mutamenti nell’economia mondiale hanno condotto ad urgenti assestamenti sul piano strutturale del diritto tributario: ricerca di nuovi criteri di ricollegamento del tributo al territorio, ritorno a forme di imposizione reale piuttosto che personale, necessità di contrasto della doppia imposizione e della concorrenza fiscale dannosa (cioè diretta a favorire arbitraggi fiscali tra diverse giurisdizioni); bisogno di collaborazione fra Stati sia sul piano della legislazione sostanziale (ripartizione della potestà d’imposizione attraverso convenzioni internazionali) che sul piano dell’assistenza nell’accertamento e nella riscossione.

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Ne è derivato un rafforzamento delle relazioni tra Stati e dunque una grande espansione del diritto tributario internazionale sia attraverso norme convenzionali che attraverso norme interne. Altresì la formazione di unioni di Stati dotate di potestà sovranazionali in campo legislativo e amministrativo, di unioni doganali e di zone di libero scambio. È diventata cruciale l’individuazione dei rapporti gerarchici tra le fonti legislative degli organismi sovranazionali e degli Stati sovrani. Per quanto riguarda l’Italia, la faticosa elaborazione della Carta costituzionale dell’Unione Europea ha complicato la definizione degli effetti sulla fiscalità interna delle norme (regolamenti, direttive) comunitarie. Tuttavia la giurisprudenza delle Corti Supreme italiane ha favorito l’affermarsi della teoria monistica di derivazione comunitaria in base alla quale la primazia delle disposizioni comunitarie si impone immediatamente e in modo generalizzato agli Stati membri. Anzi nelle ultime pronunce giurisprudenziali in nome dell’effettività dell’applicazione del diritto comunitario vengono travolte persino le barriere formali del diritto interno, come il giudicato, e vengono sanzionati qualunque esitazione o ritardo nell’adeguarsi degli Stati alle statuizioni dell’Unione. Questi ultimi sono stati da ultimo costretti con legge al recupero di aiuti di Stato dichiarati illegittimi. Per altro verso l’allontanarsi della potestà tributaria dal territorio ha reso da un lato necessaria l’emanazione di direttive di comportamento e di collaborazione comuni, specie riguardo alla disciplina procedimentale e formale dell’attuazione del tributo (accertamento, riscossione, tutela contenziosa) e dall’altro l’emanazione di regole da parte di soggetti istituzionali più vicini al contribuente in base al principio di sussidiarietà. L’attribuzione di più ampia potestà fiscale ad enti sub-statuali in base al c.d. federalismo fiscale determina l’aumento dei soggetti istituzionali coinvolti nel prelievo con conseguente maggiore complessità delle loro relazioni intersoggettive e delle eventuali interferenze. Né è prova evidente il difficile riparto delle competenze realizzato con la riforma del Titolo V della Costituzione negli artt. 117 e 119. Il diritto internazionale tributario, il diritto tributario internazionale (interno), il diritto comunitario tributario, il diritto tributario degli enti locali hanno così acquisito estremo rilievo nella nostra materia.

4 La fiscalità di massa e l’internazionalizzazione dei mercati: conseguenze sul piano sostanziale (elusione) e formale (strumenti induttivi) del diritto tributario

Le più importanti conseguenze nella configurazione e nello studio del diritto tributario sono derivate nell’ultimo ventennio dalla fiscalità di massa e dall’internazionalizzazione dei mercati. La prima ha determinato sul piano del diritto sostanziale la necessità di contrastare normativamente comportamenti evasivi o elusivi ampliando la base imponibile: numerosi interventi legislativi hanno così inciso sulla

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determinazione della base imponibile, a parità di aliquota, inasprendo in realtà il carico fiscale. Esigenze di gettito hanno reso necessario il continuo utilizzo della leva fiscale in funzione antideficit. Sul piano del diritto formale il contrasto all’elusione ha generalizzato il potere di riqualificazione delle fattispecie da parte dell’amministrazione, il ricorso a strumenti induttivi e presuntivi, in generale la sostituzione ad un valore certo di un valore verosimile o ragionevole. Infine le esigenze del fisco di massa hanno reso drammatica l’anticipazione del prelievo rispetto al verificarsi del presupposto o al suo controllo sostanziale. Gli acconti d’imposta, la liquidazione delle dichiarazioni, il controllo ex art. 36 ter, l’accertamento parziale, l’accertamento normale, l’accertamento integrativo e le conseguenti iscrizioni a ruolo hanno reso evidente la tendenza del legislatore ad accertare e a riscuotere il tributo sulla base di un criterio di sufficiente prevedibilità. Il fisco cioè accerta e riscuote non appena, sulla base di informazioni attendibili ancorché non definitive, appaia verosimile che il presupposto effettivamente posto in essere sia diverso e maggiore rispetto a quello fino allora dichiarato e tassato. Il legislatore si accontenta della sufficiente probabilità che l’attendibilità delle informazioni raccolte renda poco verosimile che il tributo debba essere restituito: in tal caso procede ad accertamento e riscossione del tributo rinviando all’eventuale fase contenziosa la tutela sostanziale del contribuente. L’attuazione del tributo in sede di accertamento e di riscossione si frammenta in una serie di atti in cui l’immediatezza del prelievo fa premio sulla certezza della sua debenza. Anche l’internazionalizzazione dei mercati e la crescita delle relazioni internazionali hanno influito fortemente sull’evoluzione del diritto tributario. In primo luogo attraverso l’adozione di modelli omogenei o quantomeno confrontabili con quelli degli altri paesi industrializzati. Basti pensare alla recente adozione del metodo della participation exemption in luogo del credito d’imposta per neutralizzare la doppia imposizione sui dividendi societari: essa è stata resa necessaria, per dichiarazione dello stesso legislatore dall’esigenza di armonizzare la disciplina italiana con quella degli altri paesi. Lo stesso dicasi per la disciplina del ruling internazionale, dei prezzi di trasferimento, degli a.p.a. (advanced/pricing agreements). In buona sostanza tutti gli istituti del diritto tributario internazionale si sono progressivamente modellati in conformità agli standard internazionali e al diritto tributario comunitario. Per le stesse ragioni al tradizionale approccio giuridico e formalistico alla legge tributaria si è progressivamente affiancato un approccio economico-sostanziale di derivazione comunitaria. Per il tramite dell’esecutivo comunitario e soprattutto delle sentenze della Corte Europea di Giustizia il diritto tributario italiano si accosta sempre di più a quello dei paesi di

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common law soprattutto sotto il profilo della sostanzialità economica delle soluzioni adottate. Anche le regole di compliance in materia tributaria e le regole di buona fede e correttezza (oltre che sostanzialità) nei rapporti tra fisco e contribuente, ora codificate dallo Statuto dei diritti del contribuente, derivano dalle più strette relazioni internazionali e dall’esigenza di favorire anche da parte straniera una intellegibile applicazione della legge e della prassi amministrativa italiane. La semplificazione legislativa e amministrativa che ne è derivata, l’adozione di standard legislativi e comportamentali europei hanno consentito al diritto tributario di fare decisi passi avanti molto più rapidamente di quanto fosse avvenuto durante tutto il secolo precedente.

5 (Segue): in particolare gli strumenti partecipativi

Spinto dalle esigenze della fiscalità di massa e dal confronto con le esperienze straniere, il fisco italiano ha finalmente abbandonato una concezione esasperatamente autoritativa del tributo e accettato la convinzione che non vi è ormai grande democrazia moderna che non affidi alla compliance, cioè all’adempimento spontaneo, la realizzazione del concorso adeguato alle pubbliche spese. L’ordinamento tributario attuale fa ampio uso degli adempimenti spontanei, dei versamenti diretti, delle ritenute, degli acconti d’imposta, dei versamenti parziali, delle compensazioni. Al fine di indurre i contribuenti a palesarsi e a regolarizzarsi con il fisco si è fatto uso fin troppo negli ultimi anni di strumenti cosiddetti premiali: condoni, scudi fiscali, concordati di massa: cioè strumenti diretti a scambiare la tranquillità del contribuente (non soggetto ad accertamenti) con l’adempimento in misura predefinita dell’obbligo fiscale. Questi istituti premiali sono stati oggetto di appassionato dibattito sotto il profilo della violazione o meno del principio di capacità contributiva. L’esperienza straniera ha rafforzato, nell’ottica della compliance le ipotesi di partecipazione del privato all’attuazione del tributo. Si è passati dalla partecipazione in funzione di collaborazione dell’amministrazione che manteneva i suoi poteri autoritativi, a ipotesi di partecipazione in contraddittorio con l’amministrazione con finalità di giustizia: cioè al fine di determinare il presupposto del tributo nel modo più corretto possibile. È quanto disciplina ora lo Statuto dei diritti del contribuente senza tuttavia stabilire sempre la sanzione della nullità nei casi di omesso contraddittorio. È certo però che i moduli di attuazione del prelievo conferiscono ora molto maggiori poteri di partecipazione e di interlocuzione al privato.

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6 Il ricorso a strumenti negoziali e la “privatizzazione” del diritto tributario: progressiva attribuzione a privati di c ompiti pubblici

Accanto alla partecipazione al procedimento o ai procedimenti di attuazione del tributo la legge tributaria consente ora al privato anche ampi poteri di determinazione del presupposto e della base imponibile. L’esigenza di abbreviare un contenzioso altrimenti assai lungo e defatigante, se ha raccomandato – come visto sopra – di sacrificare la giustizia nel prelievo alla tempestività in base alla prevedibile ragionevolezza dello stesso, ha raccomandato di introdurre e favorire meccanismi di definizione della pretesa tributaria tra fisco e contribuente . Accanto alle episodiche misure premiali, sopra ricordate, si è definito e generalizzato il ricorso all’adesione all’accertamento (concordato) sotto forma di determinazione consensuale del presupposto cui consegue l’inoppugnabilità e la riduzione a 1/3 delle sanzioni. Peraltro ciò che interessa al legislatore è acquisire tempestivamente il gettito: quindi sia le misure premiali (i condoni) che i concordati tributari sono condizionati negli effetti all’integrale tempestivo pagamento del tributo dovuto. Alla stessa esigenza (facilitare il gettito escludendo in radice ogni contestazione) rispondono le recenti misure di riscossione ricordate al n. 1. per cui in caso di adesione al verbale di constatazione o all’invito a comparire senza ricorrere al contenzioso le sanzioni sono ulteriormente ridotte a 1/6. Infine la recentissima introduzione (con il nuovo art. 17 bis del d.lg. n. 546/1992) dell’istituto della mediazione tributaria, che tiene conto del grado di sostenibilità della pretesa e dell’economicità dell’azione amministrativa che ha determinato un ulteriore passo avanti nella definizione negoziale del tributo. L’attribuzione, come si vede, al privato di una serie di facoltà in ordine alla definizione anticipata del tributo senza l’intervento della giurisdizione e il ricorso allo strumento degli accordi di diritto pubblico per descrivere queste definizioni ha indotto la dottrina recente a parlare di privatizzazione del diritto tributario e di “moduli privatistici” nell’attuazione del tributo. D’altro canto il legislatore ha esplicitamente parlato di disponibilità del tributo e di transazione tra fisco e contribuenti solo in sede di riscossione e di procedure concorsuali: fuori dunque della fase di determinazione del presupposto e della base imponibile per cui resta fermo il principio di stretta legalità basato sulla riserva di legge (art. 23 cost.). Così come nel dibattito sul principio di capacità contributiva, anche in questo si fronteggiano le tesi di coloro che restano attaccati al combinato disposto degli artt. 23 e 53 cost. e dunque ritengono la determinazione del tributo vincolata e non negoziabile tra le parti e quelle di coloro che ritengono ormai superato il rigido principio di indisponibilità e dunque disponibile anche la misura del tributo sia pure in un quadro generale di rispondenza ai principi costituzionali del concorso alle spese pubbliche. Per parte mia, ritengo preferibile aderire alla tesi più rigorosa nella convinzione che, se l’obbligazione tributaria è un’obbligazione di riparto,

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collegata attraverso il presupposto alla riserva di legge che esprime il consenso al tributo, ogni diversa determinazione rispetto al presupposto, ancorché accertato consensualmente, per uno o più contribuenti comporta alterazione del concorso degli altri contribuenti e dunque illegittimità costituzionale nell’applicazione del tributo. Diverso fenomeno è quello, anch’esso accentuatosi negli ultimi tempi, di progressivo affidamento a privati di funzioni dell’amministrazione. Già con la riforma degli anni ’70 la generalizzazione delle ritenute e della figura del sostituto aveva sgravato il fisco di numerosi compiti. Questa tendenza è proseguita, nella convinzione che gli obblighi strumentali per la migliore riscossione del tributo potessero essere opportunamente accollati ai privati. Ciò si è accentuato con l’evoluzione tecnologica e informatica: la stessa privatizzazione delle agenzie fiscali, l’attribuzione alle banche e a società private della riscossione spontanea e coattiva, i centri di assistenza fiscale, gli intermediari professionali che vistano, certificano e spediscono le dichiarazioni sono tutti casi in cui il fisco sfrutta i tradizionali strumenti del diritto tributario per accollare alla sfera privata obblighi strumentali all’acquisizione del tributo Si tratta però di obblighi accessori, che non incidono sull’esercizio della funzione pubblica e di prelievo che rimane saldamente nelle mani dello Stato o dell’ente pubblico.

7 Le conseguenze sul piano legislativo e sullo studio della nostra materia: relativizzazione e frammentazione nell’attuazione del tributo; l’ineliminabile riferimento al presupposto

Gli stretti condizionamenti reciproci tra dottrina e legislatore avevano favorito nel secolo scorso il formarsi di una dottrina tributaristica incentrata intorno al presupposto del tributo, all’atto di accertamento e all’obbligazione tributaria. Lo stesso legislatore aveva recepito prima nel T.U. del 1958 e poi in quello del 1986 la nozione di presupposto del tributo e nell’art. 16 dell’originario d.p.r. n. 636/1972 la distinzione tra tributi con e senza imposizione. Il dibattito tra tributi con e senza imposizione e sulla natura dichiarativa o costitutiva dell’accertamento aveva riempito tutti i libri di diritto tributario determinando concezioni piuttosto rigide sulle regole di attuazione del tributo. Le sopra ricordate vicende che hanno caratterizzato l’economia e la finanza pubblica degli ultimi decenni hanno fatto esplodere le contraddizioni rispetto ad una concezione “strutturata” del fenomeno tributario intorno ad istituti consolidati. E hanno messo in evidenza le incongruenze piuttosto che le congruenze di un legislatore spesso affrettato e con l’occhio piuttosto rivolto al consenso politico o al risanamento del contingente. Se dunque con l’apporto rilevante della dottrina si era nel secolo scorso cercato di costruire il diritto tributario intorno a principi comuni, negli ultimi tempi si è assistito ad una progressiva disgregazione di questi ultimi, specie

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nell’attuazione del tributo, sulla base delle incoerenze poste in luce da una affrettata legislazione. Le esigenze di controllo e di contrasto dell’evasione e dell’elusione in presenza di una fiscalità di massa e globalizzata hanno frammentato e sminuzzato i principi comuni in una pluralità di fattispecie minute la cui violazione determina la immediata reazione dell’ordinamento: sia in termini formali (atti, attività) che in termini sostanziali (tributo e sanzioni). L’unica regola che chiaramente si intravede in tale frammentazione è quella della reazione immediata in funzione di anticipazione dell’accertamento e della riscossione. Le regole dell’atto amministrativo sottese alla globalità e completezza dell’accertamento sono obliterate a favore di atti sempre meno autoritativi e invece finalizzati al gettito. A questo punto la relazione tra gli atti di attuazione del tributo (accertamento, riscossione, controllo ecc.) e il presupposto dello stesso si allenta, tanto che si è potuto affermare il venir meno del presupposto quale referente oggettivo dell’accertamento e l’autonomia funzionale rispetto a questo delle attività istruttorie. Ne è derivata una accentuata relativizzazione dello studio del diritto tributario. I principi che presiedono all’attuazione del tributo non sembrano più essere la riserva di legge, la capacità contributiva, l’indisponibilità dell’obbligazione tributaria ma invece quelli del gettito, della certezza dei rapporti tra fisco e contribuenti, dell’immediatezza della reazione del fisco ai diversi comportamenti dei privati. Un analogo processo di demitizzazione delle monolitiche costruzioni precedenti si era verificato verso la metà del secolo scorso quando la c.d. teoria costitutiva aveva teorizzato la molteplicità delle fattispecie nella funzione vincolata d’imposizione e prospettato una ricostruzione di quest’ultima in termini procedimentali, che poi si sono rivelati assai meno rivoluzionari e risolutivi quando confrontati con la realtà legislativa e giurisprudenziale molto più legata alla tradizionale sostanza patrimoniale del fenomeno tributario. Oggi avviene lo stesso ma in presenza di un ben maggiore supporto legislativo. Ritengo peraltro, e cercherò di dimostrarlo nel paragrafo, che se non ci si vuole limitare alla mera contemplazione di una legislazione trascurata e imperfetta, si debba continuare il tentativo di una costruzione sistematica della materia. E ciò non può che avvenire, come del resto conferma fortunatamente la giurisprudenza della Corte costituzionale e della Cassazione, intorno al presupposto, espressione sintetica della capacità contributiva, che determina la definitiva acquisizione del tributo sia pure attraverso le numerose e non sempre coordinate fattispecie dell’accertamento e della riscossione, tutte però riunificate da una finalità unitaria: realizzare complessivamente un concorso alle spese pubbliche commisurato alla capacità contributiva.

Prof. ssa Piera Filippi Professoressa Università degli Studi di Bologna

Stabile organizzazione e diritto al rimborso dell'IVA (sentenza CGE c.318-319/11 del 25 ottobre 2012)

SOMMARIO: 1 La sentenza della Corte di Giustizia Europea, cause riunite C-318/11 e C-319/11 del 25 ottobre 2012 - 2 La disciplina dei rimborsi nel D.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633 - 3 Osservazioni conclusive

1 La sentenza della Corte di Giustizia Europea, cause riunite C-318/11 e C-319/11 del 25 ottobre 2012

1.1

La Corte di giustizia dell’Unione europea si è pronunciata sull’interpretazione dell’art. 1 dell’Ottava direttiva 79/1072/CE del 6 Dicembre 1979, come modificata dalla Direttiva 2006/112/CE e dell’art 3 lettera a) della Direttiva 2008/9/CE concernenti le modalità di rimborso dell’imposta sul valore aggiunto a soggetti passivi non residenti all’interno di un Paese membro, ma residenti in altro Stato Europeo. Il rinvio pregiudiziale alla Corte Europea è sorto in relazione alle domande presentate nell’ambito di due controversie distinte, la causa C-318/11 e la C-319/11 createsi, rispettivamente, tra la Daimler AG (la “Daimler”), con sede in Germania e la Widex A/S (la “Widex”), con sede in Danimarca, entrambe contro l’amministrazione finanziaria svedese Skatteverket, relativamente al diniego di quest’ultima di non concedere, nei confronti dei due soggetti non residenti, il rimborso dell’imposta sul valore aggiunto versata in Svezia in occasione dell’acquisizione di beni o servizi sul territorio svedese. Avverso tale provvedimento è stato proposto ricorso al tribunale di prima istanza competente in materia fiscale che ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporlo alla Corte di Giustizia che per pronunciarsi ha riunito le cause1. Per meglio comprendere la sentenza si ritiene opportuno ricordare le situazioni di fatto concernenti l’attività svolta in Svezia sia da Daimler sia da Widex. La Daimler, la cui sede dell’attività economica è situata in Germania, sottopone le proprie autovetture a test in condizioni invernali in centri di prova situati nel nord della Svezia, che sono messi a disposizione da una società svedese controllata al 100% dalla Daimler. Nella sede svedese la

1 Si veda sul punto M. Pennesi, “La Corte di Giustizia Europea sul Caso Daimler: la stabile organizzazione non rileva ai fini del rimborso IVA diretto”, in Riv. Dir. Trib. 2013, IV, p. 66.

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società tedesca non svolge alcuna attività imponibile ai fini IVA, limitandosi esclusivamente allo svolgimento di test necessari allo sviluppo e all’incremento dell’attività di vendita delle autovetture effettuata direttamente dalla Germania. A fronte dell’attività di testing, la Daimler nel corso del 2008/9 ha effettuato acquisti di beni e servizi in Svezia corrispondendo la relativa IVA. E ha proceduto a richiedere il rimborso dell’imposta avvalendosi della normativa comunitaria che consente, per l’appunto, tale richiesta diretta ed il conseguente rimborso da parte di Stati comunitari a favore di imprese estere facenti parte dell’Unione2. Analoga richiesta era stata fatta dalla Widex che sul territorio svedese si limita ad effettuare esclusivamente attività di ricerca e sviluppo ed il rimborso dell’IVA riguardava acquisti di beni e servizi a questa afferenti. La Widex possiede, tuttavia, una controllata svedese la cui attività è quella di vendere e distribuire i prodotti del gruppo in Svezia. Tuttavia il centro di ricerche non dipenderebbe da tale controllata. In entrambi i casi lo Skatteverket ha negato il rimborso dell’IVA nel presupposto che i soggetti esteri avessero una stabile organizzazione in Svezia rappresentata dalla presenza e dall’attività svolta sul territorio dalle loro partecipate, considerate quali centri di attività stabile del soggetto estero, a nulla rilevando se gli acquisti fossero o meno correlati ad operazioni attive imponibili ai fini IVA in detto territorio. La Corte di Giustizia è stata pertanto investita della questione interpretativa a termini dell’art 1 dell’Ottava Direttiva e dell’art 3 (a) della Direttiva 2008/9; in definitiva, è stata chiamata a pronunciarsi se, in linea di principio, ai fini del rimborso diretto dell’IVA versata in uno Stato membro nei confronti di soggetti esteri possa essere preclusiva la mera presenza di una stabile organizzazione ovvero, per poter negare il rimborso, l’IVA versata debba essere rilevante allo svolgimento di un’attività imponibile svolta sul territorio dello Stato al quale la richiesta è pervenuta. La Corte stabilisce che ai fini del rimborso, indipendentemente dall’accertamento della presenza sul territorio di una stabile organizzazione del soggetto non residente, si deve in primo luogo far riferimento all’effettuazione o meno, da parte del soggetto estero richiedente, di operazioni attive imponibili sul territorio dello Stato che dovrà procedere al rimborso dell’imposta. E ciò in quanto lo spirito della norma comunitaria, insito nell’art 1 dell’Ottava Direttiva e dell’art 3 (a) della Direttiva 2008/9, in tema di rimborso diretto è appunto quello di consentire ad un soggetto non residente di ottenere la restituzione dell’IVA pagata quando non sia possibile compensare il credito, generatosi per l’acquisto di beni e servizi, con l’IVA dovuta relativamente ad operazioni imponibili effettuate nel medesimo territorio. Pertanto, la Corte oltre a stabilire che le attività di testing o di ricerca, se non includono anche altre attività imponibili in uno Stato, non possono essere viste come attività concretamente effettuate nello Stato membro, afferma che “ai fini dell’esclusione del diritto al rimborso deve essere accertata la

2 Così M. Pennesi, op. cit., p. 69

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realizzazione effettiva di operazioni imponibili da parte del centro di attività stabile o della “stabile organizzazione” nello Stato di presentazione della domanda di rimborso, e non la semplice capacità del centro medesimo o dell’organizzazione medesima a realizzare operazioni di tal genere”. Anche se i giudici comunitari precisino che non è necessario esaminare se le imprese interessate “dispongano effettivamente di un centro di attività stabile o di una stabile organizzazione” viene definito l’ambito di applicazione del rimborso IVA per i soggetti non residenti (con o senza stabile organizzazione nello Stato del rimborso). E quindi la sentenza offre l’occasione per formulare alcune considerazioni sulla nozione e sulle conseguenze che possono derivare dalla esistenza di una stabile organizzazione inattiva. La pronuncia infatti individua quali siano gli strumenti utili per determinare, ai fini del rimborso IVA, la rilevanza soggettiva di una stabile organizzazione che, pur avendo intenzione di porre in essere operazioni attive non riesce - a causa di accadimenti esterni ovvero a causa della natura delle operazioni concluse - a effettuare operazioni imponibili e ad avere un debito di imposta nello Stato del rimborso. Pertanto sostanzialmente la sentenza disciplina le ipotesi in cui la stabile organizzazione non abbia nello Stato membro del rimborso alcun debito d’imposta.

1.2

Prima dell’entrata in vigore del Regolamento n. 282/20113, la definizione di stabile organizzazione contenuta all’art 5 del Modello Ocse e relativo Commentario, seppur non esaustiva, suppliva alla mancanza di una definizione nell’ambito dell’imposizione indiretta. Le considerazioni svolte in un contesto impositivo diverso risultavano comunque valide anche ai fini Iva, in quanto i contributi forniti dalla giurisprudenza comunitaria4 nel corso degli anni e da alcune Direttive europee5 recano elementi utili ad una ricostruzione maggiormente puntuale della fattispecie ai fini dell’imposizione indiretta. L’ iter che ha condotto alla definizione di stabile organizzazione ai fini Iva contenuta nel Regolamento n. 282/2011 si è sviluppato attraverso le problematiche insorte, in particolare, relativamente alla territorialità delle prestazioni di servizi e alla necessità di assicurare certezza circa l’imponibilità di una transazione, nonché la spettanza del diritto al rimborso dell’imposta. La Direttiva n. 77/388/CE, poi rifusa nella successiva Direttiva n. 2006/112/CE, nell’individuare il “luogo di una prestazione di servizi” usava le espressioni “sede della attività economica” come pure “centro di attività stabile”.

3 Le principali disposizioni del Regolamento sono entrate in vigore il 1° luglio 2011. 4 Si vedano la sentenza C-168/84, Gunter Berkholz; nonché la sentenza C-190/95, ARO lease BV; sentenza C-390/96, Lease Plan Luxembourg SA; sentenza C-260/95, DFDS A/S 5 Segnatamente la sesta e l’ottava Direttiva.

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In particolare, l'art. 9 della Direttiva n. 77/388/CE disponeva che: “Si considera luogo di una prestazione di servizi il luogo in cui il prestatore ha fissato la sede della propria attività economica o ha costituito un centro di attività stabile, a partire dal quale la prestazione di servizi viene resa o, in mancanza di tale sede o di tale centro di attività stabile, il luogo del suo domicilio o della sua residenza abituale”. Ai fini dell’individuazione del luogo di una prestazione di servizi e della relativa imponibilità rilevano quindi i concetti di “sede della attività economica” e “centro di attività stabile”; riferimenti diversi, sebbene affini, al concetto di “stabile organizzazione” utilizzato nell’ambito delle Convenzioni contro le doppie imposizioni. La Direttiva n. 2006/112/CE ha introdotto, anche in ambito Iva, il termine “stabile organizzazione”. In base all’art. 44 della c.d. Direttiva rifusione (Direttiva n. 2006/112/CE), come trasfuso dall’art. 9 della sesta Direttiva, la residenza ed il domicilio hanno una funzione del tutto residuale, operando solamente quando non sia possibile individuare il luogo della sede dell’attività economica o del centro di attività stabile del prestatore del servizio; tuttavia, la mancanza di definizioni ha causato, nel corso degli anni, non pochi problemi interpretativi, generando confusione e giungendo a conclusioni, in alcuni casi, anche diametralmente opposte. E data l’importanza che tali nozioni hanno per individuare la territorialità della prestazione di servizi era necessario chiarire alcuni concetti, quali la sede dell’attività economica e la stabile organizzazione. Alla carenza normativa ha provveduto il Regolamento n. 282/2011 che contiene l’insieme delle regole necessarie per la corretta identificazione del luogo di effettuazione di una operazione imponibile nonché l’individuazione della definizione di “stabile organizzazione”6 precisandone la definizione e successivamente la natura dei rapporti con la casa madre e gli effetti della sua individuazione sulla territorialità delle cessioni di beni e delle prestazioni di servizi. In base al dato normativo “la stabile organizzazione designa qualsiasi organizzazione diversa dalla sede dell’attività economica di cui all’art. 10 del Regolamento, caratterizzata da un grado sufficiente di permanenza e da una struttura idonea in termini di mezzi umani e tecnici atti a consentirle…(i) di ricevere e di utilizzare i servizi che le sono forniti per le esigenze proprie di detta organizzazione (per le operazioni ricevute - art. 11, par.1) … (ii) di fornire i servizi di cui assicura la prestazione (per le operazioni rese - art. 11 par. 2)”.

Dal Regolamento risulta quindi che gli elementi che rilevano per l’individuazione della stabile organizzazione ai fini IVA sono: a) la diversità delle funzioni svolte dalla stabile organizzazione rispetto a quelle che identificano la sede dell’attività economica; b)la sufficiente permanenza; c) l’idoneità della struttura in termini di mezzi umani e tecnici alla produzione dei beni e dei servizi offerti sul mercato. 6 La versione del testo inglese fa rifermento alla “fixed establishment” concetto nella versione italiana condensato nella nozione di “stabile organizzazione”.

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Tuttavia, come precisato dalla Corte di Giustizia in alcune sentenze7, individuata la stabile organizzazione il criterio di tassazione deve tener conto del fatto che “il luogo in cui il prestatore ha stabilito la sede della propria attività economica appare come punto di riferimento preferenziale, nel senso che la presa in considerazione di un altro centro di attività stabile a partire dal quale viene resa la prestazione di servizi entra in linea di conto solo nel caso in cui il riferimento alla sede non conduca ad una soluzione razionale dal punto di vista fiscale o crei un conflitto con un altro Stato membro”. In caso di prestazioni di servizi promiscuamente utilizzati dalla stabile organizzazione e dalla casa-madre o da essa e da più stabili organizzazioni viene privilegiato “il luogo in cui il destinatario ha stabilito la sede della propria attività economica (art. 22, par. 1 del Reg. n. 282)”. La stabile organizzazione (diversa, come già osservato, dalla sede dell’attività economica di cui all’art. 10 del Regolamento) non può prescindere dall’esistenza di una sede principale (o casa madre) come ben evidenziato nell’utilizzo del termine branch ovvero ramo, utilizzato come sinonimo di stabile organizzazione ed il termine subsidiary che definisce una legal entity distinta e completamente indipendente. Ai sensi dell’art. 10, par. 1 e 2 del Regolamento, la sede dell’attività economica è il luogo in cui sono svolte le funzioni dell’amministrazione centrale dell’impresa, ove vengono prese le decisioni essenziali sulla gestione dell’impresa, la sua sede legale ed il luogo in cui si riunisce la direzione. Pertanto vi è stabile organizzazione quando si è in presenza di una struttura idonea, permanente e dotata di mezzi umani e tecnici non situata nel medesimo luogo in cui vengono prese le decisioni essenziali sulla gestione e non sia il luogo in cui si riunisce la direzione dell’impresa stessa. Quindi si deve accertare in primo luogo se la società che opera in detto Stato (la stabile organizzazione) non fruisca di uno status indipendente rispetto a quest’ultima (la sede principale) 8. In tal caso infatti non si sarebbe in presenza di stabile organizzazione (branch) ma di una società controllata o collegata alla casa madre (subsidiary). Per identificare la stabile organizzazione a prescindere da requisiti formali (quali la personalità giuridica) prevale la rilevanza degli aspetti sostanziali di “subordinazione” della stessa alla casa madre. Ed ai sensi dell’art. 11 del Regolamento di attuazione la stabile organizzazione è tale solamente qualora sia “caratterizzata da un grado sufficiente di permanenza”. Si ricorda al proposito la ben nota sentenza della Corte di Giustizia C-168/84, Gunter Berkholz alla quale era stato richiesto di individuare quali caratteristiche debba possedere un centro di attività stabile, situato a bordo di navi, per la manutenzione di slot machines .

7 Corte di Giustizia sentenza n. 4/7/1985, Causa C-168/84, Gunter Berkholz; sentenza 7/05/1998 Causa C- 390/96, Lease plan Luxembourg SA sulle quali ci si soffermerà in seguito 8 Corte di Giustizia sentenza n. 20/2/1997, causa C-260/95, DFDS

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E la Corte ha ritenuto che “ non risulta che l’installazione, a bordo di navi marittime, di macchine automatiche per gioco d’azzardo, che danno luogo a saltuaria manutenzione, possa costituire un siffatto centro di attività specialmente nel caso in cui la sede permanente del gestore di dette macchine automatiche fornisce un punto di riferimento utile ai fini della tassazione”. La “permanenza” per essere tale è data dal tempo di stabilimento rapportata con la natura dell’attività effettuata . Così, come evidenziato anche da altre pronunce della Corte di Giustizia, l’ulteriore requisito identificativo della stabile organizzazione, è che la stessa, per ritenersi tale, debba essere dotata di una “struttura” idonea in termini di mezzi umani e tecnici atti a consentirle di ricevere e utilizzare i servizi che le sono forniti per le esigenze della organizzazione nonché di fornire i servizi di cui assicura la prestazione. E, proprio nella sentenza Gunter Berkholz sopra citata, il giudice del rinvio chiedeva di sapere se la “giustapposizione delle nozioni di “sede” e di “centro di attività stabile” indichi una differenza di significato nel senso che i requisiti relativi al centro di attività stabile sarebbero diversi e meno rigorosi per quanto riguarda l’organizzazione sotto il profilo del personale e dell’elemento materiale”. E secondo la Corte di Giustizia “l’installazione” destinata ad un’attività commerciale, come la gestione di macchine automatiche per giochi d’azzardo, a bordo di una nave che viaggi in alto mare al di fuori del territorio nazionale, può essere considerata centro di attività stabile ai sensi dell’art. 9, n. 1 della VI direttiva del Consiglio 17 maggio 1967 solamente se tale centro di attività implichi la presenza permanente di mezzi umani e tecnici necessaria per le prestazioni di servizi di cui trattasi e se queste prestazioni non possano essere utilmente riferite alla sede dell’attività economica del prestatore9. Pertanto, come si evince dal combinato disposto di alcune disposizioni contenute nel Regolamento (art. 11,12, 22 e 53), la stabile organizzazione è tale se è in grado di ricevere e utilizzare servizi che le sono forniti per le proprie necessità nonché di fornire servizi. La rilevanza degli acquisti si manifesta nella utilizzazione per la produzione in via autonoma rispetto alla casa madre cosicché una stabile organizzazione che utilizzi operazioni passive può anche non essere una stabile organizzazione ai fini delle operazioni attive.

9 Il centro di attività stabile deve avere una consistenza minima e i requisiti dell’organizzazione, pur dovendo essere presenti in misura minima, devono essere tuttavia tali da consentire l’autonoma capacità del centro di attività stabile di fornire, ovvero di ricevere e utilizzare la prestazione.Il grado di organizzazione, pertanto, stabilisce sia il limite minimo sia il limite massimo all’interno del quale è identificata la presenza di una stabile organizzazione ai fini IVA. Il limite minimo è identificato dalla capacità di fornire ricevere in maniera autonoma il servizio considerato, il limite massimo consiste nel non possedere i requisiti previsti dall’art. 10 del Regolamento n. 282/2011 perché in tal caso si sarebbe in presenza di una sede autonoma, ossia di una subsidiary

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La stabile organizzazione deve quindi partecipare alle operazioni attive e quindi gli acquisti devono essere utilizzati per operazioni inerenti alla realizzazione delle cessioni e delle prestazioni. Si può quindi dubitare della sussistenza di una stabile organizzazione se essa sia semplicemente un “centro” di acquisti che la casa madre utilizza per le operazioni che essa produce in via autonoma senza cioè l’intervento effettivo della stabile organizzazione. Secondo la Corte di Giustizia10 è pertanto essenziale per la definizione di stabile organizzazione fornita dal Regolamento UE n. 282/2011, l’esistenza di un luogo a disposizione del non residente, con un sufficiente grado di permanenza ed una consistenza minima di mezzi umani (personale dipendente) e tecnici (materiali) “idonei” alla effettuazione di operazioni rientranti nel campo di applicazione dell’IVA. L’utilizzo, da parte dei giudici per definire i tratti essenziali della stabile organizzazione, di aggettivi quali “sufficiente” e “minima” sta ad indicare un limite al di sotto del quale è “irragionevole” sostenere il coinvolgimento, come controparte attiva nelle transazioni poste in essere, della stabile organizzazione di un soggetto estero.

1.3

La presenza di una stabile organizzazione nel territorio diviene rilevante anche ai fini delle attività e dei rapporti intrattenuti dalla casa madre direttamente con soggetti passivi in Italia. In particolare - come più ampiamente precisato in seguito - dopo le modifiche apportate all’art. 17 e all’art. 38-ter del decreto n. 633/1972 con il D.L. n. 135/2009, le operazioni effettuate dalla casa madre dovrebbero confluire nella posizione IVA della stabile organizzazione. E con le ulteriori modifiche contenute nel D. Lgs. n. 18/2010 un soggetto estero con stabile organizzazione in Italia non può più presentare istanza di rimborso per l’IVA relativa agli acquisti effettuati direttamente dalla casa madre. L’imposta risultante dagli acquisti effettuati anche direttamente nel

10 Sentenza C_190/95 Aro Lease BV17. L’Amministrazione tributaria belga aveva ritenuto nei confronti della società di leasing “ARO Lease BV”, con sede nei Paesi Bassi, che configurasse un centro di attività stabile in Belgio, la semplice presenza in Belgio di un parco auto di proprietà messe a disposizione di terzi, sulla base di contratti di “operational lease”, nell'assunto che la società olandese potesse ivi effettuare le proprie prestazioni di servizi a partire da un centro di attività stabile situato in altro Stato membro, nonostante non disponesse in tale Stato né di uffici né di depositi per le autovetture. Per tali ragioni, la Corte, riferendosi alla fattispecie in questione, concludeva affermando che, allorché una società di leasing non disponga in uno Stato membro né di personale proprio né di una struttura che presenti un sufficiente grado di stabilità, nell’ambito della quale possano essere redatti contratti o prese decisioni amministrative, che sia quindi idonea a rendere possibili in modo autonomo le prestazioni di servizi in questione, essa non può essere considerata come disponente di un centro di attività stabile in tale Stato.

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territorio dello Stato può essere detratta solamente dalla stabile organizzazione italiana del soggetto estero, indipendentemente dal fatto che la stessa abbia o meno preso parte alle operazioni dalle quali derivi il credito ed il conseguente rimborso. (Sulla specifica normativa concernente i rimborsi si rinvia al paragrafo successivo).

2 La disciplina dei rimborsi nel D.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633

2.1

La disciplina dei rimborsi contenuta nel D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 è stata modificata più volte a seguito delle sentenze della Corte di Giustizia. A tal fine è necessario distinguere la normativa vigente anteriormente e successivamente al 26 settembre 2009. Prima di tale data, l’art. 38-ter del decreto n. 633 (rubricato Esecuzione dei rimborsi a soggetti non residenti) non escludeva che talune operazioni potessero essere imputate direttamente alla casa-madre estera anche se nel territorio dello Stato fosse presente una stabile organizzazione. Era quindi consentito alla casa-madre estera di poter ottenere il rimborso dell’IVA addebitata (per beni e servizi acquistati direttamente nel territorio dello Stato) ai sensi dell’art. 38-ter anche qualora vi fosse una stabile organizzazione nel territorio dello Stato. A ciò si aggiunga che, ai sensi dell’art. 17, secondo comma, dello stesso decreto il soggetto non residente con stabile organizzazione in Italia poteva identificarsi direttamente ovvero nominare un rappresentante fiscale per tutte quelle operazioni effettuate da e nei confronti di soggetti terzi qualora le stesse non fossero rese alla o dalla propria stabile organizzazione o quest’ultima non intervenisse comunque nelle operazioni medesime. Cosicché, pur in presenza di una stabile organizzazione nel territorio italiano, la casa-madre estera poteva effettuare operazioni nel territorio italiano utilizzando un proprio numero di identificazione IVA ovvero un proprio rappresentante fiscale precedentemente nominato. Peraltro, il fatto che anche in presenza di una stabile organizzazione nel territorio dello Stato, la casa madre estera potesse chiedere il rimborso dell’imposta pagata per l’acquisto e l’importazione di beni e servizi, indusse la Commissione Europea a notificare all’Italia (luglio 2006)11 un avviso relativo ad una procedura di infrazione. E ciò in quanto la Commissione europea riconosceva l’identità soggettiva della casa-madre e della stabile organizzazione (poiché, tra l’altro, quest’ultima in sede di inizio dell’attività doveva dichiarare i dati identificativi della casa-madre). La procedura di infrazione si è conclusa con la condanna dell’Italia.

11 Avviso IP/06/1058 del 25 luglio 2006. Si vedano R. Ciccioli- M. Spera, Il rimborso IVA a soggetto non residente e stabile organizzazione nel territorio dello Stato, in Il Fisco, 2013 p. 2856

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La Corte di Giustizia nella sentenza causa C-244/08 del 16 luglio 2009 ha stabilito che ”in materia di rimborso dell’imposta sul valore aggiunto ad un soggetto passivo residente in un altro Stato membro o in un Paese terzo, ma avente un centro di attività stabile nello Stato membro interessato, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza dell’art. 1 della ottava direttiva del Consiglio 6 dicembre 1979, 79/1072/CEE e dell’art. 1 della tredicesima direttiva del Consiglio 17 novembre 1986, 86/560/CEE in quanto obbliga un soggetto passivo stabilito in un altro Stato membro o in un Paese terzo, ma che abbia un centro di attività stabile in Italia e che, nel periodo rilevante, abbia effettuato cessioni di beni o prestazioni di servizi in Italia, a chiedere il rimborso dell’imposta sul valore aggiunto a credito secondo le procedure previste dalle citate direttive piuttosto che mediante detrazione, quando l’acquisto per cui è chiesto il rimborso di detta imposta viene effettuato non tramite il centro di attività stabile in Italia, ma direttamente dallo stabilimento principale di tale soggetto passivo”. Si è osservato12 che “nella sentenza traspare il principio secondo cui l’utilizzo della stabile organizzazione, quale veicolo per l’attivazione del rimborso che, tecnicamente, si manifesta attraverso la detrazione, cioè l’imputazione del credito a scomputo del debito d’imposta risultante dalla contabilità della stabile organizzazione, non rappresenta un obbligo ma, al più, un’agevolazione semplificativa a favore del soggetto non residente”. Con la sentenza sopra citata, la Corte di Giustizia si è limitata ad osservare che al soggetto non residente doveva essere consentito il recupero di quanto versato come IVA sugli acquisti oltre che con il rimborso diretto anche mediante l’esercizio della detrazione attraverso la stabile organizzazione, anche se non coinvolta nelle operazioni effettuate. Facoltà questa, impedita dall’art. 38-ter del decreto n. 633. Tale legittima sollecitazione comunitaria, ha portato il legislatore nazionale a integrare l’articolo 38-ter prevedendo che il rimborso IVA non poteva più essere richiesto direttamente dai soggetti non residenti in presenza di una stabile organizzazione nel territorio dello Stato. L’art- 38-ter è stato così modificato con l’art. 11, comma 1, lett. b), numero 1 del D.L. 25 settembre 2009 n. 135 inserendo il periodo “senza stabile organizzazione in Italia” prevedendosi in tal modo che i soggetti domiciliati o residenti nell’Unione Europea e senza stabile organizzazione in Italia possono ottenere il rimborso dell’imposta, se detraibile a norma dell’art. 19 del decreto n. 633. In seguito tale norma è stata sostituita in toto con l’art. 1, comma 1 lett. u) del D. Lgs. 11 febbraio 2010, n. 18 e attualmente reca nella rubrica: Esecuzione dei rimborsi a soggetti non residenti stabiliti in Stati non appartenenti alla Comunità. L’esecuzione dei rimborsi a soggetti non residenti stabiliti in un altro Stato membro della Comunità è ora contenuta nell’art. 38-bis2, disposizione aggiunta dall’art. 1 comma 1, lett. t) del D. Lgs. n. 18/2010 citato, secondo il quale per i soggetti stabiliti in altri Stati membri della Comunità, assoggettati

12 P. Centore, Le nuove regole del rimborso IVA ai soggetti non residenti, in Corr. Trib. 2010, p. 10ss.

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all’imposta nello Stato in cui hanno il domicilio o la residenza e che chiedono il rimborso dell’imposta assolta sulle importazioni di beni e sugli acquisti di beni e servizi (sempre che sia detraibile ai sensi degli artt. 19 ss.) il rimborso non può essere chiesto, tra l’altro, se nel periodo di riferimento tali soggetti disponevano di una stabile organizzazione nel territorio dello Stato. Pertanto, il soggetto non residente è obbligato ad imputare i propri acquisti “diretti” nelle liquidazioni periodiche della stabile organizzazione italiana se intende detrarre l’IVA assolta in Italia, ed in tali liquidazioni periodiche la stabile organizzazione deve tener conto sia dei profili di inerenza sia dei limiti alla detrazione per la sede centrale estera. L’attuale formulazione normativa quindi produce risultati opposti a quelli precedenti. Se prima il soggetto residente all’estero poteva chiedere il rimborso dell’IVA, oggi lo stesso soggetto è obbligato a compensare il credito nella liquidazione della stabile organizzazione, cosa difficile e impossibile qualora la stabile organizzazione non abbia un debito d’imposta. Dalle disposizioni comunitarie ed in particolare dall’art. 192-bis della Direttiva n. 2006/112/CE, per distinguere il ruolo della stabile organizzazione nei confronti del soggetto estero occorre prendere in considerazione la partecipazione o meno della stabile organizzazione nelle operazioni poste in essere dalla casa madre. Se a ciò si aggiungono i chiarimenti della Corte di Giustizia con il caso Daimler, appare evidente che il nuovo articolo 38-bis2 sembrerebbe ancora una volta in contrasto con lo spirito comunitario che invece lascia al soggetto la facoltà di decidere le modalità di richiesta di rimborso dell’IVA versata sugli acquisti di beni e servizi in altro Stato dell’Unione anche in presenza di una stabile organizzazione. L’unico elemento che può impedire il rimborso diretto da parte del soggetto non residente è la riferibilità degli acquisti, che hanno dato luogo al credito IVA, ad operazioni attive imponibili effettuate nel territorio dello Stato italiano, a nulla rilevando la mera presenza di una stabile organizzazione in Italia anche se atta ad effettuare operazioni della medesima natura.

2.2

Come anticipato, la disciplina concernente le modalità dei rimborsi contenute nel decreto n. 633 è stata profondamente modificata con il D. Lgs. n. 18/2010, emesso in recepimento delle Direttive nn. 2008/8/CE e 2008/9/CE del 12 febbraio 2008. In particolare sono state apportate modifiche agli articoli che regolano la territorialità delle prestazioni di servizi (che non saranno qui esaminate) nonché il diritto al rimborso dell’IVA. Le innovazioni introdotte dalla Direttiva 2008/9/CE riguardano il regime dei rimborsi a soggetti non residenti che, a partire dal 1 gennaio 2010, viene sostanzialmente mutato ed appare di non agevole interpretazione e conseguente applicazione. Il principio generale che viene posto a base delle disposizioni recepite nei nuovi artt. 38-bis1, 38-bis2 e 38-ter del decreto n. 633 è il controllo della legittimità della domanda di rimborso da parte dello Stato membro nel quale è fiscalmente residente il richiedente. Di conseguenza, l’operatore italiano che vanti un credito IVA per acquisti effettuati all’estero deve presentare la domanda all’Autorità fiscale italiana e, viceversa, l’operatore non residente

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deve rivolgersi alla propria Amministrazione fiscale per gli acquisti effettuati nel territorio nazionale. Dopo le modifiche apportate dal D. Lgs. n. 18/2010, all’esistenza di una stabile organizzazione del soggetto non residente possono riconnettersi limitati effetti in quanto, con riferimento alle operazioni passive, il soggetto non residente ha attualmente l’obbligo di imputare i propri acquisti “diretti” nelle liquidazioni periodiche dello Stato della stabile organizzazione. L’obbligo di imputare gli acquisti direttamente effettuati dalla casa-madre alle liquidazioni periodiche dello Stato della stabile organizzazione fa sì che il soggetto non residente ma stabilito in Italia, nell’imputare sia nelle liquidazioni sia nella dichiarazione annuale anche gli acquisti riferibili alla casa-madre debba considerare le eventuali limitazioni soggettive della detraibilità dell’IVA sussistenti nel Paese di stabilimento primario. E ciò ai fini della determinazione delle eccedenze detraibili ovvero rimborsabili. Con riferimento alle operazioni attive in presenza di una stabile organizzazione del soggetto non residente questi “sembrerebbe” non poter assumere un’altra posizione IVA. Secondo l’attuale formulazione dell’art. 17, terzo comma, del decreto n. 633 il soggetto non residente non può identificarsi direttamente o nominare un rappresentante fiscale in Italia se dotato di una stabile organizzazione nel territorio italiano. In presenza di un soggetto non residente con stabile organizzazione italiana, le operazioni che la casa-madre pone in essere in Italia direttamente sono qualificabili come transnazionali e non sono interne per la sola esistenza della stabile organizzazione.

2.3

Più analiticamente - data la complessità delle norme - con specifico riferimento alle nuove disposizioni, è stato inserito nel decreto n. 633 l’art. 38-bis1 che disciplina esclusivamente i rimborsi a soggetti passivi stabiliti in Italia dell’IVA assolta in altri Stati membri nonché l’art. 38- bis2 riguardante l’esecuzione dei rimborsi a soggetti non residenti stabiliti in altri Stati UE (art. 1, comma 1, lett. t) D. Lgs. n. 18/2010). Come già osservato, l’art. 38-ter, si occupa dei rimborsi a soggetti stabiliti al di fuori della Comunità Europea e disciplina tale tipologia di rimborsi, a seguito delle modifiche introdotte, dall’art. 1, comma 1, lett. u) D. Lgs. n. 18/2010. Attualmente, pertanto, le disposizioni concernenti i rimborsi contenute nel decreto n. 633 sono: l’art. 38-bis Esecuzione dei rimborsi; l’art. 38-bis1 Rimborso dell’imposta assolta in altri Stati membri della Comunità; l’art. 38-bis2 Esecuzione dei rimborsi a soggetti non residenti stabiliti in altro Stato membro della Comunità; l’art. 38-ter Esecuzione dei rimborsi a soggetti non residenti stabiliti in Stati non appartenenti alla Comunità. Si sono inoltre previste le modalità ed i termini procedurali per il rimborso e per la realizzazione dei relativi scambi informativi in applicazione dell’art. 38-bis1, comma 4, del decreto n. 633. Dal 2010 infatti i soggetti passivi italiani che intendono chiedere il rimborso dell’imposta pagata in altro Paese membro devono utilizzare un’apposita

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procedura elettronica, presentando la relativa istanza non più direttamente all’Autorità fiscale del Paese membro, ma all’Agenzia delle Entrate che provvederà all’inoltro (art. 38-bis1, comma 1)13. Nel dare attuazione alla Direttiva 2008/9/CEE l’articolo 38-bis 2 prevede la disciplina in materia di rimborsi a soggetti passivi stabiliti in un altro Paese dell’Unione Europea che hanno effettuato in Italia acquisti di beni e servizi ovvero importazioni per i quali l’imposta è detraibile a norma degli artt. 19 e ss. del decreto n. 633. La richiesta di rimborso è presentata nello Stato di residenza di chi chiede il rimborso, tuttavia i requisiti per l’ottenimento del rimborso sono quelli previsti nello Stato in cui è stata versata l’IVA. E ciò è coerente con l’art. 6 della Direttiva 2008/9/CE secondo il quale “il soggetto passivo non stabilito nello Stato membro di rimborso deve effettuare operazioni che danno diritto alla detrazione nello Stato membro in cui è stabilito”. L’art. 38-bis1,comma 2, a tal fine stabilisce che l’Agenzia delle Entrate deve effettuare alcune verifiche per l’eventuale inoltro dell’istanza di rimborso che viene rifiutato se, nel periodo di riferimento del rimborso, il richiedente non ha svolto in Italia un’attività d’impresa o di arte o professione o ha effettuato esclusivamente operazioni esenti o non soggette che non danno diritto alla detrazione ai sensi degli artt. 19 ss. del decreto n.633 o si è avvalso del regime dei contribuenti minimi o del regime speciale per i produttori agricoli. La norma comunitaria citata (art. 6, par. 1 della Direttiva) nel subordinare il rimborso alla detraibilità dell’imposta nel Paese del richiedente, sembrerebbe tuttavia essere contraddetta dal comma 1 dell’art. 38-bis2 che subordina il rimborso a favore dei soggetti passivi stabiliti in altri Paese UE alla condizione che l’imposta assolta in Italia sull’acquisto o sull’importazione di beni o servizi sia ivi detraibile ai sensi degli art. 19, 19-bis1 e 19-bis2 del decreto 633 nonché alla non esistenza nel periodo di riferimento di una stabile organizzazione nel territorio dello Stato. Prescindendo dal riferimento all’art. 19-bis2 che riguarda le ipotesi di rettifica della detrazione ed al quale non si comprende il rinvio, sembrerebbe esservi un contrasto anche con quanto indicato nel comma 3 dell’art. 38-bis2 nel quale viene stabilito esplicitamente che i soggetti di cui al comma 1 non hanno diritto al rimborso qualora nello Stato membro in cui sono stabiliti effettuino operazioni che non danno diritto alla detrazione dell’imposta. Parrebbe quindi che i non residenti, prima di ottenere il rimborso, debbano verificare se tale rimborso spetti applicando sia le regole interne al proprio Stato di residenza sia le regole italiane (Stato del rimborso). Quindi la condizione di detraibilità che deve sussistere in Italia (Paese del rimborso) va ad aggiungersi all’ulteriore condizione, anch’essa di detraibilità, che deve esistere rispetto al Paese di stabilimento del richiedente14.

13 I soggetti passivi stabiliti in altri Stati membri che chiedono il rimborso dell’imposta assolta in Italia devono presentare un apposita istanza che verrà inoltrata al Centro Operativo di Pescara tramite lo Stato UE di stabilimento del richiedente. Sul punto si veda Codice IVA nazionale e comunitaria, a cura di P. Centore, II edizione, 2012 p. 1208.

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Non vi è dubbio che vi sia una certa contraddittorietà tra le varie disposizioni in quanto per i rimborsi di cui all’art. 38-bis1 (rubricato “Rimborso dell’imposta assolta in altri Stati membri della Comunità), erogati ai soggetti passivi italiani, l’art. 6 par. 1 della citata Direttiva 2008/9/CE farebbe ritenere che la condizione di detraibilità debba sussistere in Italia e non nel Paese membro di rimborso. Peraltro tale conclusione è contraddetta, come già rilevato, non solo dal comma 1 dell’art. 38-bis2, ma anche sul piano comunitario dall’art. 5, par. 2 della Direttiva sopra citata secondo cui - fatto salvo l’art. 6 - il diritto “al rimborso dell’IVA a monte” è determinato secondo la Direttiva 2006/112/CEE quale applicata dallo Stato membro di rimborso, nonché dall’art. 9 par. 2 della Direttiva 2008/9/CE secondo cui lo Stato membro del rimborso può esigere che il richiedente fornisca ulteriori informazioni elettroniche sulla natura dei beni e servizi acquistati nella misura in cui tali informazioni siano necessarie in relazione ad eventuali limitazioni al diritto di detrazione vigenti nel Paese membro di rimborso. Il combinato disposto di tali norme porta a ritenere che vi sia una doppia verifica della detraibilità nel Paese del richiedente e in quello di rimborso15.

3 Osservazioni conclusive

3.1

Nel mutato e complesso contesto normativo, come brevemente delineato, l’istituto della stabile organizzazione acquista particolare rilevanza sia con riferimento alle operazioni attive sia per quelle passive ove - come accennato - può costituire una causa ostativa per il diritto al rimborso dell’IVA assolta in Italia. La funzione della stabile organizzazione è sempre stata quella di essere il collegamento territoriale delle operazioni che rientrano nel campo di applicazione dell’IVA influendo anche sulle modalità attraverso le quali il soggetto passivo non residente adempie ai propri obblighi strumentali e di pagamento dell’IVA per le operazioni attive effettuate nel territorio dello Stato. Ed invero, secondo quanto dispone l’art. 17, terzo comma, del decreto n. 633 l’esistenza di una stabile organizzazione in Italia impedisce al non residente la possibilità di nominare un rappresentante fiscale o di identificarsi direttamente ai sensi dell’art. 35-ter dello stesso decreto. E il non residente che effettui operazioni imponibili in Italia non riconducibili alla stabile organizzazione non può - a differenza di quanto si verificava in precedenza -

14 Anche nella previgente disciplina (come è stato osservato da P. Centore op. cit. pag. 1210) la detraibilità dell’imposta doveva essere accertata in relazione al Paese del richiedente, salvo che il soggetto passivo fosse in regime di pro rata. 15 Così P. Centore “La nuova IVA europea e nazionale”, Milano, 2010, pag. 144

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assoggettare ad imposta dette operazioni attivando un’altra posizione IVA nello Stato italiano. Dall’esistenza di una stabile organizzazione derivano effetti attrattivi anche se limitatamente alle operazioni poste in essere. Tuttavia vi può essere il dubbio se l’esistenza della stabile organizzazione incida solamente sull’individuazione del soggetto tenuto all’adempimento degli obblighi strumentali e di pagamento dell’IVA oppure se da tale esistenza ne derivi che ogni operazione compiuta in Italia dal non residente venga considerata come operazione effettuata nello Stato italiano. Peraltro l’art. 7, primo comma, lett. d) del decreto n. 633 precisa la definizione di soggetto passivo stabilito nel territorio dello Stato, intendendosi per tale la stabile organizzazione di un soggetto domiciliato o residente all’estero “limitatamente alle operazioni da essa rese o ricevute”. Pertanto le operazioni della casa madre restano operazioni trans-nazionali ai fini IVA . Con riferimento alla soggettività passiva della stabile organizzazione è necessario procedere alla verifica del rapporto che intercorre tra la casa madre e la stabile organizzazione cioè è necessario verificare se la stabile organizzazione sia o meno distinta e se abbia autonomia giuridica rispetto alla casa madre. In tal caso per le operazioni passive effettuate in Italia (ovviamente ivi rilevanti) da parte del soggetto non residente con stabile organizzazione occorre verificare le modalità di recupero dell’imposta assolta ed in particolare, se sia detraibile per ogni tipo di acquisto effettuato in Italia da parte del soggetto non residente ovvero se riguardi solamente gli acquisti effettuati per mezzo della stabile organizzazione e ad essa imputabili. In tal caso per gli acquisti “diretti” della casa-madre resterebbe la possibilità di richiedere il rimborso secondo le nuove regole stabilite dopo le modifiche legislative.

3.2

Come precisato, la giurisprudenza comunitaria, in varie occasioni, ha individuato i tratti caratteristici della stabile organizzazione in ambito IVA. E’ di tutta evidenza quindi che non appare condivisibile quanto affermato dalla Suprema Corte nelle ordinanze del 20 luglio 2012, n. 12633 e del 30 settembre 2012, n. 21380. Nella prima di tali ordinanze la controversia esaminata dalla Cassazione concerneva il diniego dell’Amministrazione finanziaria al rimborso ai sensi dell’art. 38-ter (nella formulazione vigente anteriormente al 2010) ad una società di diritto francese in quanto esisteva nel territorio dello Stato una sua stabile organizzazione. E ciò ,secondo la Suprema Corte, sarebbe provato dal fatto di avere una partita IVA italiana. “Dall’attribuzione della partita IVA ad un soggetto che ne abbia fatto richiesta deriva, per ragioni di ordine logico-giuridico, la presunzione dell’esistenza di stabile organizzazione”. Peraltro, sempre secondo la Corte, non trattandosi di presunzione assoluta il contribuente può offrire la dimostrazione della mancanza in concreto di

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quegli elementi di ordine personale e materiale che contrassegnano la nozione di stabile organizzazione. Tale principio è stato riaffermato anche nella successiva ordinanza n. 21380. Orbene, come in precedenza osservato, la nozione di stabile organizzazione contenuta nelle Direttive e nel Regolamento n. 282/2011 deve essere caratterizzata da un grado sufficiente di permanenza e da una struttura idonea in termini di mezzi umani e tecnici in grado di consentirle di ricevere e prestare servizi derivanti dalla sua attività. Invece, per la Cassazione, l’avere una posizione IVA in Italia si identifica con la presenza di una stabile organizzazione con le relative conseguenze anche ai fini del rimborso.

Prof. Guglielmo Fransoni Professore Università di Foggia

La determinazione del reddito delle stabili organizzazioni

1 Varietà dei metodi di determinazione del reddito delle stabili organizzazioni

L’esperienza internazionale consente di individuare due metodi per la determinazione del reddito delle stabili organizzazioni (1). Da una parte abbiamo i metodi forfettari o indiretti – riscontrabili nel nostro ordinamento in materia di Irap – per effetto dei quali la quota del reddito proprio della stabile organizzazione è separata dal reddito complessivamente riferibile al contribuente su base mondiale tramite l’applicazione di appositi coefficienti calcolati come quozienti di indicatori quantitativi della dimensione dell’attività (rapporto fra fatturato totale e fatturato localizzato, fra costo complessivo del personale e costo del personale addetto alla stabile organizzazione ecc.). Dall’altra abbiamo i metodi analitici o diretti in base ai quali il reddito della stabile organizzazione è determinato mediante contrapposizione dei componenti positivi e negativi specificamente relativi all’attività da essa svolta. I metodi appartenenti alla prima categoria, proprio perché forfettari (e, come tali, fondati su considerazioni pratiche piuttosto che scientifiche) non si presentano ad analisi di carattere generale. Ognuno di questi metodi è fondato su una logica autonoma e il suo studio si risolve nell’esegesi delle singole disposizioni. Per i metodi “diretti”, invece, si possono individuare alcune problematiche di carattere generale e discipline per le quali è possibile operare una verifica della loro conformità al “sistema”.

2 La priorità logica del patrimonio rispetto ai componenti reddituali

La definizione appena data dei metodi diretti – ossia quella secondo cui essi conducono alla determinazione del reddito mediante contrapposizione dei componenti positivi e negativi relativi all’attività – potrebbe far pensare che, secondo tali metodi, il punto di partenza sia, appunto, la determinazione dei componenti positivi e negativi.

(1) Per i differenti modi di determinazione del reddito delle S.O. si veda, per tutti, DELLA VALLE E., Contributo alla studio della stabile organizzazione nel sistema di imposizione sul reddito, Roma 2004, 120 ss. nonché GAFFURI A. M., La determinazione del reddito della stabile organizzazione, in Rass. trib., 2002, 91 ss.

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In realtà, anche quando non è detto esplicitamente, l’elemento centrale di riferimento è il patrimonio. Si deve ricordare infatti che il reddito è variazione quantitativa del patrimonio in un arco temporale predefinito, cosicchè la sua determinazione implica necessariamente il riferimento ad una situazione patrimoniale “iniziale”. La anteriorità della definizione del patrimonio rispetto alla determinazione dei componenti positivi e negativi è evidente, oltre che sotto il profilo concettuale, anche in termini maggiormente “empirici”: alcuni componenti reddituali (plusvalenze, minusvalenze, sopravvenienze attive o passive) non si lasciano definire se non in termini di variazioni negative o positive (del valore di scambio o della stessa “entità”) di preesistenti elementi patrimoniali; ma anche gli altri componenti reddituali (dividendi e interessi attivi o passivi, canoni di locazione ecc.) possono essere attribuiti a un centro di imputazione solo se al medesimo sono riferibili gli elementi patrimoniali che generano i medesimi (partecipazioni, crediti, debiti, beni materiali concessi in locazione ecc.). Questa priorità logica del patrimonio pone tuttavia un problema. Invero, poiché il patrimonio è insieme di situazioni giuridiche soggettive, il criterio “naturale” per l’individuazione della situazione patrimoniale iniziale (così come per la selezione delle modificazioni patrimoniali rilevanti ai fini della determinazione del reddito) dovrebbe essere quello soggettivo. Se c’è un soggetto, è facile (almeno in teoria) determinarne il patrimonio “iniziale”; è sufficiente, infatti, fare riferimento alle situazioni giuridiche attive e passive delle quali il soggetto è titolare.

Poiché la stabile organizzazione non ha, tuttavia, “soggettività” propria il criterio soggettivo risulta insufficiente ed occorre affiancare ad esso un ulteriore “indice” idoneo a discriminare, fra le situazioni giuridiche imputabili ad un unico soggetto, quelle che siano anche “pertinenti” al patrimonio (o alla sua frazione) oggettivamente considerato.

3 La determinazione del patrimonio della S.O.: a) l’individuazione delle situazioni giuridiche soggettive rilevanti.

Se si condivide l’idea secondo cui la S.O. è un criterio per isolare, rispetto alla complessiva attività d’impresa, quella parte di attività (e, quindi, dei relativi risultati) che è riferita ad un determinato territorio, appare naturale ricorrere ad un indice “funzionale”. In altri termini, il patrimonio della stabile organizzazione consiste nelle situazioni soggettive (attive e passive) strumentali all’esercizio dell’attività in un determinato territorio. Questa affermazione ha un diretto e necessario corollario: per la determinazione del patrimonio della S.O. non è (rectius, non è di per sé) rilevante la “localizzazione” delle situazioni giuridiche medesime. Altrimenti detto, possono aversi beni localizzati nel territorio ove si trova la S.O. che

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non sono ricompresi nel suo patrimonio, così come possono aversi beni localizzati in territori diversi che devono inveve ricomprendersi nel patrimonio della S.O. Il primo caso è precisamente riflesso nell’art. 151, comma 2, TUIR. Secondo questa disposizione possono esistere plusvalenze relative a beni del soggetto non residente esistenti nel territorio dello Stato, ma relativi ad attività commerciali che, pur essendo imputabili a tale soggetto, non sono esercitate tramite le stabili organizzazioni dello stesso. Pertanto, questa disposizione implicitamente esclude che la riferibilità del bene alla stabile organizzazione discenda dalla mera localizzazione dello stesso. Un ulteriore conferma di questa impostazione sembrerebbe, poi, desumibile dalla disposizione di cui all’art. 117, comma 2, lett. b) che consente l’applicazione della disciplina del consolidato nazionale agli enti non residenti che esercitino l’attività nel territorio dello stato tramite una S.O. là dove le partecipazioni risultino “effettivamente connesse” alla S.O. medesima. Tale requisito della “effettiva connessione” mi sembra, infatti, dover essere inteso quale sussistenza dell’illustrato nesso di strumentalità rispetto all’attività propria della S.O. Il secondo caso non ha precisi riscontri normativi, ma dovrebbe essere evidente che una stabile organizzazione può perfettamente disporre di beni localizzati in altri territori: si pensi per esempio ai mezzi di trasporto ecc. Se, poi, si volge l’attenzione alle situazioni soggettive diverse da quelle aventi ad oggetto (i diritti reali relativi a) beni materiali, l’irrilevanza della loro localizzazione appare assai chiaramente: il patrimonio di una S.O. ben potrà includere crediti (ad esempio vantati nei confronti della clientela) ovvero finanziamenti (p.es. erogati dalla casa madre) ancorchè il debitore o il creditore siano residenti in Stati diversi da quello in cui è ubicata la S.O.

4 Segue: b) la valorizzazione delle situazioni giuridiche soggettive rilevanti.

4.1 La necessità di rappresentare le situazioni giuridiche in termini monetari e i diversi modi del loro acquisto.

Le regole di determinazione del patrimonio della S.O. non si limitano a quelle rilevanti al fine di individuare quali sono le situazioni giuridiche soggettive in esso ricomprese. Il patrimonio di riferimento non deve essere solo descritto nella sua consistenza, ma deve essere anche quantificato. Le posizioni giuridiche soggettive, anche dal punto di vista contabile, devono quindi essere non solo individuate, ma anche valorizzate. La valorizzazione consiste, come è ovvio, nella istituzione di una corrispondenza fra ciascuna situazione giuridica soggettiva individuata e una certa quantità di moneta avente valore corrente. Tranne la “cassa” – ossia la disponibilità fisica di mezzi monetari – non esistono situazioni giuridiche soggettive che siano, di per sé, escluse da questo processo di valorizzazione. Anche i depositi bancari, ad esempio, sono

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“crediti” che, come tali, presentano comunque un (sia pur, eventualmente, minimo) grado di rischio di solvibilità del debitore suscettibile di influenzare, almeno astrattamente, la determinazione del valore del credito medesimo. Le regole per operare tale valorizzazione sono per loro natura convenzionali e, quindi, sono individuate dal legislatore in via diretta (ossia attraverso la previsione di specifiche norme) o in via indiretta (attraverso il rinvio o la presupposizione di altre convenzioni contabili). Nello specifico, si deve ricordare, in primo luogo, che il legislatore tributario ha dettato regole relative alla valorizzazione degli elementi patrimoniali isolatamente considerati solo per alcuni casi specifici (per esempio per il passaggio di beni dal patrimonio personale al patrimonio dell’impresa – art. 65 TUIR) oppure in via integrativa di altri criteri generali (p.es. la specificazione della nozione di costo contenuta nell’art. 110, primo comma TUIR). In tutti gli altri casi, le regole di valorizzazione sembrano presupposte nell’accoglimento del risultato di bilancio. In effetti, là dove la determinazione del reddito fiscale è legata da un rapporto di più o meno intensa presupposizione o dipendenza rispetto al risultato civilistico, sussiste necessariamente anche la dipendenza o presupposizione rispetto ai valori dello stato patrimoniale che (integrati biunivocamente con quelli del conto economico secondo i principi della partita doppia) costituiscono la premessa necessaria del risultato contabile. La mancanza di una articolata disciplina pone quindi una serie di problemi che non possono essere affrontati analiticamente. Sembra sufficiente rilevare che, a nostro avviso, occorre distinguere fra il caso in cui l’elemento patrimoniale “entra” a comporre il patrimonio dell’impresa per effetto di una vicenda di scambio (ossia, in termini contabili, in contropartita dell’”uscita” di altro elemento patrimoniale (compravendita, permuta, altri negozi corrispettivi, ovvero conferimenti ecc.) e quello in cui l’elemento patrimoniale è acquisito per effetto di successione (fusione, scissione) o di atti di destinazione. Ovviamente, rientrano in tale categoria anche le ipotesi in cui il venir meno della riferibilità al patrimonio della S.O. di una situazione giuridica soggettiva sia correlata all’“acquisizione” di un nuovo diritto trasferito alla stessa dalla casa madre. Poichè, in considerazione dell’unicità del soggetto, non sembra possibile parlare, in questa fattispecie, di una vicenda patrimoniale riconducibile allo schema dello scambio negoziale, appare più corretto ritenere di essere in presenza di un doppio atto di destinazione: da parte della S.O. a favore della casa madre e da parte di questa a favore della S.O.

4.2 Le regole di valorizzazione negli assetti onerosi

Ove la riferibilità di una situazione giuridica soggettiva al patrimonio della S.O. sia il riflesso di assetti onerosi occorre evidenziare che se, per un verso, le diverse tecniche contabili possono certamente implicare una valorizzazione

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autonoma dell’elemento patrimoniale acquisito, rispetto all’elemento patrimoniale “alienato” in contropartita, tuttavia, per altro verso, tutte le tecniche contabili conducono, nell’ipotesi in cui non vi sia coincidenza fra valore del bene acquisto e valore del bene alienato, a “segmentare” – a livello concettuale – la vicenda acquisitiva da quella valutativa. In altri termini, si tende sempre a rappresentare le divergenze fra valori come la risultante di una, idealmente distinta, successiva “rivalutazione” dell’elemento patrimoniale acquisito. Questa segmentazione – acquisto-valutazione – fa sì che l’effetto della valutazione deve essere ascritto idealmente alle vicende successive alla rilevazione e iscrizione dell’elemento patrimoniale e, come tali, almeno potenzialmente significative come fonti di componenti reddituali. Conseguentemente, la valutazione risulta rilevante – dal punto di vista fiscale – sotto il profilo delle norme che regolano (non l’iscrizione dei componenti patrimoniali, ma) i componenti positivi o negativi che concorrono alla formazione del reddito.

4.3 La valorizzazione delle situazioni giuridiche soggettive a seguito di atti di destinazione.

Diverso è il caso degli elementi patrimoniali acquisiti al di fuori di un rapporto – in senso lato – di scambio. Là dove ricorra un atto di destinazione, si deve osservare che il problema presenta molti punti di contatto con quello del passaggio di beni dal patrimonio personale a quello aziendale dell’imprenditore individuale. In alcuni casi limite, si potrebbe parlare addirittura di identità come è nell’ipotesi in cui si tratti, appunto, della stabile organizzazione di un impresa individuale di un soggetto non residente alla quale vengano destinati beni provenienti dal suo patrimonio personale. Ma l’analogia resta anche nei casi, certo più frequenti, in cui i beni destinati alla stabile organizzazione fossero già destinati allo svolgimento dell’attività d’impresa (individuale o societaria) di un contribuente non residente. Infatti, anche in tali ipotesi, per effetto della mancanza di una stabile organizzazione, rispetto all’ordinamento italiano tali beni erano certamente esclusi dal regime dei beni d’impresa e potevano risultare totalmente irrilevanti sotto il profilo tributario ovvero, al più, soggetti al regime proprio dei beni personali. La loro destinazione alla stabile organizzazione, pertanto, implica l’assoggettamento al regime dei beni d’impresa di situazioni giuridiche prima escluse da tale disciplina, esattamente come nell’ipotesi dell’imprenditore individuale. Nel caso in cui si abbia un atto di destinazione, si può ulteriormente differenziare l’ipotesi dei beni già esistenti in Italia e confluiti successivamente nella stabile organizzazione (per effetto della relativa destinazione), da quello dei beni la cui destinazione implica anche una delocalizzazione. Per i beni già esistenti in Italia, proprio per l’analogia che intercorre fra questa situazione e quella della destinazione dei beni all’impresa individuale,

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sembrerebbe opportuno applicare la regola generale valida per gli atti di destinazione consistente nell’attribuzione agli stessi del valore normale determinato alla data dell’atto di destinazione (2). Tale regola subisce, a nostro avviso, due sole eccezioni. La prima è quella prevista dall’art. 65, comma 3-bis, che impone il riferimento, per i beni strumentali, al costo storico. La seconda, invece, riguarda l’ipotesi dei beni non strumentali, ma suscettibili di dar luogo a plusvalenze, destinati al patrimonio della stabile organizzazione “dopo” la sua “costituzione”. La deroga alla regola generale sembrerebbe giustificata dal fatto che tali questi beni sarebbero suscettibili di generare plusvalenze ai sensi dell’art. 151, comma 2, Tuir e, poiché si deve ritenere che tali plusvalenze siano solo quelle “realizzate”, l’applicazione del criterio del valore normale per gli atti destinazione relativi agli stessi comporterebbe un salto d’imposta. Ne consegue che, per ragioni di coerenza complessiva del sistema, appare anche qui più opportuno fare riferimento al costo storico. Per i tutti i beni “trasferiti” dal patrimonio estero della casa madre alla sua S.O. in Italia sembra invece più opportuno fare riferimento in ogni caso al valore normale in quanto il criterio del costo storico risulta avere, nell’ambito dello stesso art. 65 Tuir, una portata residuale. Per quanto riguarda la stabile organizzazione all’estero di un soggetto passivo residente, non sembra che sussistano, invece, questioni di rilievo. Le posizioni giuridiche soggettive pertinenti alle S.O. andranno, infatti, individuate sempre secondo il criterio funzionale-spaziale prima indicato e, ove si tratti di elementi patrimoniali già inclusi nella situazione patrimoniale della casa madre, essi continueranno a mantenere il relativo valore anche a seguito della loro “destinazione” alla S.O.. Il problema che, piuttosto, si pone in queste situazioni è quello del passaggio da valori monetari espressi (almeno di norma) in valuta estera a valori espressi in euro. Per motivi di ordine espositivo, mi sembra però opportuno trattare la questione successivamente.

5 Determinazione del reddito della S.O.

5.1 Il reddito delle S.O. in Italia di soggetti non residenti

Quanto si è osservato in precedenza consente anche, a mio avviso, di impostare in modo corretto i principali problemi posti dalla determinazione del reddito delle S.O. “interne”.

(2) Sembra orientato a ritenere che l’applicazione del valore normale per i beni destinati all’impresa costituisca il principio generale, mentre l’applicazione del costo storico costituisca una deroga motivata da ragioni di ordine antielusivo anche FEDELE

A., Il regime fiscale di successioni e liberalità, in Riv. dir. trib., I, 2003, 869 nel testo e a nt. 192.

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In linea generale, si deve osservare che, come si è detto, il reddito è costituito dalla somma algebrica degli incrementi e dei decrementi del patrimonio iniziale (individuato secondo le regole appena illustrate) conseguenti ad atti funzionali allo svolgimento dell’attività territorialmente individuata. Il rapporto fra atto e attività, in altri termini, consente di individuare immediatamente il patrimonio cui vanno imputati i relativi effetti in termini di sacrifici o vantaggi patrimoniali conseguenti ai singoli atti. Vale, tuttavia, anche una regola direttamente speculare a quella appena enunciata: là dove un atto si risolva nella perdita di un diritto già appartenente al patrimonio della S.O., o tale atto risulta essere funzionale all’attività della stessa (ed allora la perdita del diritto si configura quale sacrificio patrimoniale implicato dall’attività, ossia come costo), ovvero esso costituisce (anche) un atto di destinazione del diritto ad un’attività estranea a quella propria della S.O. L’ulteriore problema esaminato dalla dottrina e dalla giurisprudenza con riguardo alla determinazione del reddito delle S.O. in Italia di soggetti non residenti attiene alle spese sostenute dalla casa madre nell’interesse della S.O. In proposito occorre operare nuovamente una distinzione (3). Vengono innanzitutto in rilievo le spese sostenute dalla casa madre nell’esclusivo interesse della S.O. Se, come si è detto, le spese consistono in una decurtazione patrimoniale correlata al compimento di un determinato atto, l’esclusività dell’interesse significa, a ben vedere, diretta ed univoca funzionalizzazione dell’atto all’attività territorialmente riferibile alla stabile organizzazione. Pertanto, il problema sembrerebbe, in tale ipotesi, risolto a priori dall’identificazione del criterio per la individuazione delle modificazioni patrimoniali rilevanti rispetto alla S.O. La funzionalizzazione dell’atto all’attività implica necessariamente, cioè, l’imputazione dei relativi effetti (ossia della correlata decurtazione patrimoniale) al patrimonio della S.O. Questo fenomeno potrebbe apparire meno evidente là dove la decurtazione patrimoniale sembra riguardare un diritto in precedenza riferito esclusivamente alla casa madre (e non alla S.O.). Ma, quando ciò avviene, è solo per effetto di una non corretta rappresentazione della vicenda medesima. Infatti, in conseguenza della funzionalizzazione dell’atto all’attività della S.O., l’elemento patrimoniale modificato o estinto risulta, implicitamente, destinato alla S.O. e quindi se ne dovrebbe più correttamente evidenziare sia la previa acquisizione al patrimonio di questa, sia la successiva decurtazione. Una seconda tipologia di spese è costituita da quelle in cui l’interesse perseguito riguarda l’impresa nel suo complesso, ossia quelle per le quali manca un nesso univoco e immediato con l’attività territorialmente riferibile alle S.O.

(3) Si veda, in senso analogo, TUNDO F., I redditi d’impresa nel modello di convenzione OCSE, in Trattato di diritto tributario internazionale, coord. da Victor Uckmar, Padova 2002, 277.

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Rispetto a questa ipotesi, la soluzione potrebbe essere diversa da quella indicata per le spese “specifiche” solo se si ritenesse che la generalità dell’interesse escluda di per sè la possibilità di ripartire pro quota la spesa stessa imputandola anche al patrimonio delle S.O. Questa conclusione appare, tuttavia, immediatamente eccessiva. In realtà è evidente che l’atto – al quale si collega la spesa – può perfettamente trovarsi in rapporto di strumentalità sia con l’attività d’impresa considerata nel suo complesso sia con quella territorialmente delimitata. Anzi, in realtà, questa affermazione è vera per tutti i costi direttamente riferibili alla S.O. in quanto essi, per definizione, sono sempre relativi ad atti rilevanti (anche) per l’attività d’impresa nel suo complesso (come risulta evidente nel caso delle S.O. all’estero di soggetti residenti). Il problema, come evidenziato dalla dottrina pressochè unanime, consiste, allora, solo nell’affidabilità degli indici utilizzati per determinare la “misura” in cui l’atto (ed il costo ad esso connesso) sia strumentale all’attività della S.O.. Ed è proprio la congruità di tali indici che potrà essere sindacata dall’Amministrazione finanziaria (4). Ciò non significa, peraltro, che l’Amministrazione non possa anche negare la deducibilità del costo per difetto del requisito dell’inerenza, ma solo che, sotto questo profilo, la tipologia dei costi in questione non si differenzia in alcun modo da qualunque altro costo dovendosi in ogni caso risolvere il problema dell’inerenza applicando le stesse regole generali. Ovviamente, i criteri di riparto della spesa generica non potranno che essere indiretti e, in questa prospettiva, sembra certamente ammissibile (5)il ricorso, per esempio, alla regola marittima (fondata sul rapporto fra chilometri e posti relativi all’attività territorialmente individuata e chilometri e posti totali) (6) la cui applicazione è invece esclusa per la determinazione complessiva del reddito in ragione della già affermata esclusività dell’applicazione del metodo diretto o analitico (7). In merito alla determinazione del reddito delle S.O. in Italia di soggetti non residenti resta ancora da osservare che il rinvio contenuto nell’art. 152, comma 1 alle «disposizioni della sezione I del capo II del titolo II» per la determinazione del relativo reddito risulta impreciso sia per difetto che per eccesso. Da un lato, infatti, devono secondo me ritenersi pacificamente applicabili anche le “Diposizioni comuni” di cui al titolo III del Tuir come, ad esempio,

(4) Si veda, in senso conforme, DELLA VALLE E., Contributo alla studio della stabile organizzazione nel sistema di imposizione sul reddito, cit., 128 ss. e, ivi, anche complete indicazioni bibliografiche. (5) Come ritenuto anche da Cass. civ., sez. trib., sent. 1.8.2000 n. 10062. (6) In argomento si veda, da ultimo, PICCIAREDDA F., In margine alle convenzioni in tema di doppia imposizione sul reddito: il trasporto aereo internazionale, in Dir. trasp., 200, 345. (7) Secondo l’orientamento ribadito da Cass. civ., sez. trib., sent. 23.5.2002, n. 7554 in Dir. prat. trib., II, 2003 con nota di R. SUCCIO.

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quelle di cui all’art. 164 che limitano la deducibilità delle spese relative ai mezzi di trasporto a motore (8). Per espressa previsione del già citato art. 117 Tuir, sono poi applicabili alle stabili organizzazioni le disposizioni in merito al consolidato nazionale contenute, però, nella sezione II del capo II del titolo II del Tuir. Dall’altro lato, è ovviamente escluso, con riguardo alle S.O., l’applicazione del principio, implicito nell’art. 81 del Tuir, della tassazione del reddito su base “mondiale”. Più dubbia è, poi, l’applicazione di alcune regole contenute nella sezione I del citato capo II del titolo II del Tuir. E’ questo il caso, per limitarci all’esempio più significativo, della disciplina della thin capitalization. Probabilmente, la soluzione più equilibrata è quella di applicare analogicamente l’art. 63 Tuir, nella parte in cui dispone che il riferimento, contenuto nell’art. 98, «al socio si intende all’imprenditore» ossia alla casa madre.

5.2 La determinazione del reddito delle stabili organizzazioni all’estero dei soggetti residenti.

La questione maggiormente dibattuta in merito alla determinazione del reddito delle S.O. all’estero riguarda se esso confluisca in quello della casa madre in modo aggregato (9) (ossia come utile della S.O.) ovvero in modo disaggregato (10). Per comprendere meglio i termini dell’alternativa, occorre evidenziare, in primo luogo, che l’art. 14 del D.P.R. 600 del 1973 impedisce di ipotizzare che la disaggregazione del risultato della S.O. possa essere totale, ossia che i componenti positivi e negativi di reddito riferibili alla S.O. possano essere del tutto indistinti rispetto agli altri componenti. Tale norma previde, infatti, l’obbligo, per coloro che esercitano attività commerciali all’estero mediante stabili organizzazioni, di «rilevare distintamente nella contabilità i fatti di gestione relativi alle stabili organizzazioni, determinando separatamente i risultati dell’esercizio relativi a ciascuna di esse». La rilevazione distinta, infatti, implica almeno l’obbligo di creare appositi “conti” dedicati ai fatti di gestione propri delle S.O., sia pure all’interno

(8) Si veda, in senso conforme, LUPI R.-STEVANATO D., La distinta contabilizzazione dei fatti di gestione delle stabili organizzazioni tra paese di localizzazione e paese della casa madre, in LUPI R.-STEVANATO D.-CARPENTIERI L., Il diritto tributario nei rapporti internazionali, Milano 2003, 225. (9) A tale tesi aderiscono NUZZO E., La tassazione del reddito delle imprese bancarie nella prospettiva della armonizzazione fiscale nella CEE, in Riv. dir. trib., I. 1991, 318 ss. e GAFFURI A. M., La determinazione del reddito della stabile organizzazione, cit., 87 ss. (10) In questo senso si esprimono, invece, GALLO F., Contributo all’elaborazione del concetto di «stabile organizzazione» secondo il diritto interno, in Riv. dir. fin. sc. fin, I, 403 ss. e DELLA VALLE E., Contributo alla studio della stabile organizzazione nel sistema di imposizione sul reddito, cit., 135 ss.

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dell’unica contabilità. E, d’altra parte, nemmeno la lettura maggiormente riduttiva della prescrizione di una determinazione separata del risultato della stabile organizzazione – ossia quella che attribuisce valore alla disposizione solo nell’ottica dell’accertamento – consente comunque di negare che tale determinazione, anche se non immediatamente e direttamente rilevante sul piano sostanziale, debba essere il riflesso di un impianto contabile che nel complesso “isoli” i fatti di gestione della casa madre rispetto a quelli della S.O. Tuttavia, l’aver escluso la possibilità di una disaggregazione totale, non conduce necessariamente al risultato opposto, potendosi comunque parlare di determinazione su base “disaggregata” dei risultati complessivi della stabile organizzazione e della casa madre anche là dove i documenti contabili di fine esercizio (ossia lo stato patrimoniale ed il conto economico) costituiscano il consolidamento di tutti i conti patrimoniali ed economici –singolarmente considerati – propri delle diverse articolazioni dell’impresa. Una prima chiara indicazione in tale senso si ottiene ove si consideri, da un lato, che ai sensi dell’art. 83, il reddito d’impresa è determinato a partire da un unico risultato civilistico e, dall’altro lato, che, proprio per effetto di tale disposizione, sussiste il ben noto rapporto di presupposizione delle regole proprie della determinazione dell’utile civilistico rispetto alle disposizioni sul reddito d’impresa. Ne consegue, innanzi tutto, che oggetto delle possibili riprese in aumento e diminuzione è necessariamente un unico risultato civilistico e, in secondo luogo, che – essendo le regole contabili civilistiche necessariamente improntate alla determinazione unitaria dell’utile o della perdita in base quantomeno al consolidamento conto per conto dei documenti contabili della casa madre e della S.O. – una possibile “aggregazione” del risultato potrebbe solo costituire la conseguenza a posteriori di (assai complesse e scarsamente utili) variazioni in aumento o in diminuzione operate, rispetto ad un risultato unitario, in applicazione di norme esclusivamente tributarie. Occorrerebbe, cioè, un’espressa disposizione volta a realizzare la “aggregazione” di un risultato già incluso, in forma disaggregata, nel conto economico unitario di cui è evidente però l’assenza. La tesi proposta sembra trovare conferma nella previsione di cui all’art. 110, comma 2, ai sensi del quale, come noto, «la conversione in euro dei saldi di conto delle stabili organizzazioni all’estero si effettua secondo il cambio della data di chiusura dell’esercizio e le differenze rispetto ai saldi di conto dell’esercizio precedente non concorrono alla formazione del reddito». In effetti, a testimonianza di una formulazione del testo normativo non del tutto chiaro, la disposizione citata è stata interpretata come una conferma di entrambe le tesi contrapposte. Tuttavia, ad una più attenta considerazione, essa appare maggiormente compatibile con la tesi della determinazione del reddito della S.O. in forma disaggregata. A tal fine occorre, considerare che la prima parte delle disposizione – quella, cioè, che stabilisce quale sia il tasso da applicare per la conversione in euro

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dei saldi di conto – pone ad oggetto della conversione in euro non il risultato finale emergente a livello della S.O., bensì tutti i singoli conti, presupponendo, quindi, la confluenza nel bilancio della casa madre di ciascun conto isolatamente considerato (e non del solo risultato netto espresso originariamente in valuta (11)). Questa conclusione è ulteriormente confermata dalla seconda parte della disposizione in commento – ossia quella che prevede l’irrilevanza delle differenze di conversione fra i conti dell’esercizio precedente e quelli dell’esercizio corrente. Al fine di comprendere il senso di questa regola, si deve innanzi tutto precisare che essa si applica solo ai conti dello stato patrimoniale, giacchè, essendo i conti “economici” (esclusi quelli relativi alle rimanenze) definitivamente chiusi al termine dell’esercizio, per essi non si pone mai alcun problema di confronto con il saldo del precedente esercizio (se non a fini meramente informativi). Per avere un senso, allora la disposizione deve presupporre l’adozione di una tecnica contabile in cui i singoli conti patrimoniali in valuta della S.O. vengano “chiusi” (previa la loro conversione in euro) nella contabilità unitaria e poi, all’inizio dell’esercizio, “riaperti” (previa loro conversione in valuta) nella contabilità della S.O. Tecnica, questa, ovviamente coerente con la determinazione del reddito in forma disaggregata (nel senso con i limiti anzi detti). Con riguardo a tale disposizione ci sembra opportuno svolgere due ulteriori rilievi. Il primo attiene all’esclusività o meno di questa particolare modalità di determinazione del reddito. In altri termini, occorre chiedere se le prescrizioni dell’art. 14 u.c. del D.P.R. n. 600 del 1973 sarebbero rispettate pienamente anche se – accanto alla contabilità della S.O. tenuta nel paese estero secondo le norme ivi previste – la casa madre istituisse un apposito giornale sezionale tenuto in Italia secondo la normativa vigente nel quale le singole operazioni della S.O. venissero iscritte giorno per giorno con relativa conversione in euro al cambio del giorno in cui viene effettuata la rilevazione e, quindi, facendo confluire l’insieme delle rilevazioni nel bilancio d’esercizio finale (12). Questa modalità di rilevazione, a mio avviso, pur essendo del tutto diversa da quella presupposta nell’art. 110, comma 2, cit., non è affatto impraticabile. In realtà, la disposizione in commento dovrebbe

(11) In questo senso si esprime chiaramente DI TANNO T., Appunti sulle operazioni in valuta nel testo unico delle imposte sul reddito, in Boll. Trib. inf., 1988, 22. Anche NUZZO E., La tassazione del reddito delle imprese bancarie nella prospettiva della armonizzazione fiscale nella CEE, cit., 318 ss. ritiene che la disposizione militi a sfavore della tesi dallo stesso sostenuta. (12) In questo senso si esprime chiaramente Cass. civ., sez. trib., sent. 23.5.2002, n. 7554 in Dir. prat. trib., II, 2003 e, almeno per le stabili organizzazioni di soggetti residenti site in altri stati membri dell’UE, analoga conclusione dovrebbe trarsi in considerazione della ben nota pronuncia della Corte di Giustizia, 15.5.1997 causa C-250/95.

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essere più correttamente intesa come un implicito riconoscimento – analogo a quello contenuto nell’ultimo periodo del medesimo comma secondo relativamente alla contabilità multivalutaria – della possibilità di tenere un unico giornale nel paese estero (contemporaneamente conforme alle prescrizioni della legge italiana) con conseguente iscrizione delle operazioni esclusivamente in valuta e conversione solo dei saldi di ciascun conto a fine esercizio. E’, cioè, norma che, attraverso la disciplina delle modalità applicative di una particolare tecnica contabile, ne riconosce implicitamente la liceità, ma non ne sancisce l’obbligatorietà. Il secondo rilievo riguarda i rapporti fra questa modalità di contabilizzazione e la disciplina delle perdite sui cambi. Si tratta, più in particolare, di capire se l’irrilevanza ai fini reddituali delle variazioni monetarie dei conti patrimoniali (prescritta dalla disposizione in esame) valga anche per i crediti ed i debiti in valuta. Una simile interpretazione, in realtà, non sarebbe conforme alla ratio della norma che appare rivolta solo fornire una precisazione – particolarmente utile specie in un contesto, quale quello in cui essa fu originariamente formulata, in cui avevano rilevanza reddituale le plusvalenze “iscritte” – in ordine alla perdurante applicazione del principio secondo cui sono redditualmente rilevanti solo i valori effettivamente realizzati, escludendo, così, l’idoneità a concorrere alla formazione del reddito del maggiore o minor valore di situazioni giuridiche (diritti o obbligazioni) derivanti dalle oscillazioni dei cambi, in conseguenza dell’adozione di un particolare metodo contabile; per contro, essa non dovrebbe escludere la possibilità di rilevare un componente positivo o negativo di reddito là dove vengano in rilievo quelle particolari situazioni giuridiche soggettive (ossia i crediti e debiti in valuta) alle quali è applicabile la regola – da considerare in questo senso “speciale” – intesa a dare rilevanza (sia pure attraverso l’iscrizione di un fondo rischi) a variazioni di valore non realizzate, ma semplicemente presunte. Va da sé che questa interpretazione riferibile alla disciplina dei crediti e dei debiti in valuta vigente anteriormente alla riforma del 2003, è valida, a maggior ragione, con riferimento alla nuova formulazione del terzo e quarto comma dell’art. 110 Tuir, introdotti per adeguare la disciplina del reddito d’impresa alla nuova formulazione dell’art. 2426, comma 1, n. 8-bis. Il problema della determinazione del reddito della S.O. su base aggregata o disaggregata potrebbe apparire solo formale, ma in realtà la sua soluzione condiziona la soluzione di una questione di ben maggior rilievo sostanziale. In particolare, le diverse tesi comportano una diversa valutazione del numeratore e del denominatore della frazione costituente il parametro di deducibilità di alcuni componenti reddituali che concorrono alla formazione del reddito con l’applicazione del metodo del pro-rata: partendo da una determinazione disaggregata, infatti, vi sarà un unico pro-rata determinato in funzione dei valori complessivamente riferibili all’intera impresa; viceversa, se si parte da una determinazione in forma aggregata, il pro-rata dovrebbe

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essere determinato separatamente per la casa madre e per la stabile organizzazione. Esaminando il problema da questa prospettiva, tuttavia, ci si accorge che la soluzione sopra prospettata, non solo appare coerente con gli scarsi dati normativi attinenti alla determinazione del reddito delle stabili organizzazioni, ma risulta anche quella maggiormente conforme ai principi sulla tassazione del reddito dei soggetti residenti in quanto la necessità di valutare unitariamente il pro-rata sembra discendere direttamente, come è stato opportunamente sottolineato, dal principio della tassazione su base mondiale (13).

5.3 Stabili organizzazioni all’estero e applicazione della disciplina sul transfer pricing

In questa prospettiva, appare forse più agevole risolvere il problema – fra i più dibattuti in tema di determinazione del reddito della S.O – riguardante la possibilità di applicare le regole sul transfer price ai “rapporti” che si svolgono fra stabile organizzazione e casa madre (14). L’attribuzione di un diritto, già incluso nel patrimonio della S.O., al patrimonio della casa madre, dipenderà, alla luce di quanto si è detto in precedenza, dal venir meno del vincolo di funzionalità del bene all’esercizio dell’attività della S.O. medesima, ossia da un fenomeno di destinazione alle finalità proprie di una impresa (territorialmente) diversa. Sebbene, a rigore, la disciplina specifica dei fenomeni di “eterodestinazione” riguardi solo i casi in cui si realizza l’eliminazione di ogni vincolo funzionale di un bene ad un’attività economica organizzata, essa (disciplina) ha, secondo l’opinione assolutamente prevalente, valore di principio generale. E tale impostazione trova conferma, proprio per quanto riguarda la destinazione ad attività diversificate territorialmente, nella disciplina del trasferimento della sede all’estero ed in quella delle fusioni e scissioni transnazionali (15). Invero, si tratta sempre di casi in cui la regola della tassazione su base territoriale implica, in misura più o meno intensa, una certa separazione

(13) Così GALLO F., Contributo all’elaborazione del concetto di «stabile organizzazione» secondo il diritto interno, cit., 406 ss. (14) La dottrina prevalente è orientata, diversamente da quanto affermato nel testo, a ritenere applicabile l’art. 110, comma 7, ai rapporti fra S.O. e casa madre. Si vedano, per tutti, MAISTO G., Il transfer price nel diritto tributario italiano e comparato, Padova 1985, 53 ss.; FANTOZZI A.-MANGANELLI A., Qualificazione e determinazione dei redditi prodotti da imprese estere in Italia, in Studi in onore di V. Uckmar, I, Padova1997, 428, CORDEIRO GUERRA R., La disciplina del transfer price nell’ordinamento italiano, in Riv. dir. trib., 2000, I, 428; GAFFURI A. M., La determinazione del reddito della stabile organizzazione,cit., 98. (15) Si vedano, in questo senso, FANTOZZI A.-MANGANELLI A., Qualificazione e determinazione dei redditi prodotti da imprese estere in Italia, cit., 434 e DELLA

VALLE E., Contributo alla studio della stabile organizzazione nel sistema di imposizione sul reddito, cit., 128.

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patrimoniale ed è proprio il passaggio di un elemento patrimoniale da un patrimonio separato all’altro che giustifica la rilevazione e attribuzione delle variazioni di valore maturate anteriormente al passaggio medesimo al patrimonio “di partenza”. Questa logica giustifica la necessità valutare il diritto destinato alla casa madre al relativo valore normale (16). E’ evidente che l’applicazione del criterio del valore normale per la quantificazione del componente positivo del reddito nelle ipotesi di eterodestinazione conduce a risultati sostanzialmente coincidenti con quelli cui perviene la dottrina che sostiene l’applicazione alle operazioni “intrasocietarie” delle regole sul transfer price, ma mi sembra che essa abbia il pregio di pervenire a tale soluzione in modo più lineare e senza dover forzare la natura delle regole stesse (17). E’ noto, infatti, che la disciplina del transfer price è rivolta a consentire la sostituzione (over ricorrano determinate condizioni) del prezzo praticato per una determinata transazione commerciale con il valore di mercato del bene o del servizio che ne costituisce l‘oggetto. Si tratta, quindi, di regole la cui applicazione non appare del tutto appropriata nelle ipotesi in cui l’operazione è, per definizione, priva di corrispettivo. Questa impostazione ci sembra risolvere il problema là dove le operazioni “intrasocietarie” riguardino beni, mentre la stessa soluzione non può applicarsi alle ipotesi in cui oggetto dell’operazione è un servizio. E’ evidente, in queste ipotesi, che il costo sostenuto per le operazioni in questione dalla S.O. non può considerarsi deducibile, non essendo stato sostenuto in funzione dell’esercizio della sua attività, ovvero che esso deve essere riaddebitato alla casa madre (soluzione che, sotto il profilo quantitativo, è identica a quella della indeducibilità del costo). Ove, però, si ritenesse applicabile la disciplina di cui all’art. 110, comma 7, Tuir, si dovrebbe anche includere nel reddito della stabile organizzazione un mark up corrispondente alla differenza fra il costo sopportato ed prezzo che sarebbe stato praticato nel caso in cui il servizio fosse stato reso fra soggetti giuridicamente ed economicamente “indipendenti”. Al riguardo, sebbene siano del tutto comprensibili le ragioni che inducono la dottrina prevalente a ritenere applicabili le regole sul transfer price, a me

(16) L’applicazione del valore normale alle eterodestinazioni di beni propri della S.O. è sostenuta anche da GAFFURI A. M., La determinazione del reddito della stabile organizzazione, cit., 96. (17) Questa impostazione sembra sostanzialmente coincidente con quanto implicitamente affermato da G. ZIZZO, Regole generali sulla determinazione del reddito d’impresa, in AA.VV., L’imposta sul reddito delle persone fisiche. Giurisprudenza sistematica di diirtto tributario, diretta da F. Tesauro, II, Torino 1994, 580-581 e da DELLA VALLE E., Contributo alla studio della stabile organizzazione nel sistema di imposizione sul reddito, cit., 126 ss. i quali ritengono che la valorizzazione al valore normale discenda da principi generale e non dalla applicazione dell’art. 110, comma 7, Tuir.

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sembra che tale soluzione sia preclusa non da ragioni formali (quali la mancanza di un vero rapporto societario di controllo fra stabile organizzazione e casa madre ecc.), bensì per motivi inerenti alla stessa nozione di S.O.(18). Invero, in tanto si può parlare di un servizio reso alla casa madre, in quanto gli atti compiuti (e, quindi, i relativi sacrifici patrimoniali) appaiono essere strumentali rispetto all’attività della casa madre medesima e, quindi, essi sono per definizione estranei all’attività territorialmente rilevante della S.O. e, per ciò stesso, non suscettibili di essere sottoposti a tassazione in Italia. Questa affermazione trova un conforto, peraltro, nella disciplina delle cosiddette “spese di regia” sulla quale ci siamo già soffermati. Con riguardo a tali operazioni, in modo del tutto speculare rispetto alle prestazioni di servizi rese dalla S.O. alla casa madre, il costo relativo ad atti compiuti dall’head office che soddisfano l’interesse della S.O. (in modo specifico o in modo generico) sono correttamente ritenuti dalla migliore dottrina deducibili per quest’ultima proprio perché l’interesse soddisfatto è indice della riferibilità dell’atto all’attività della S.O. stessa. Se, però, valesse il principio del “valore normale”, questo dovrebbe applicarsi anche in tale ipotesi cioè dovrebbe essere deducibile il valore normale del servizio svolto dalla casa madre, soluzione, invece, pacificamene esclusa. Ciò non significa, però, che la disciplina sul transfer price non trovi mai applicazione. Sembra corretto ritenere, invece, che le disposizioni di cui all’art. 110, comma 7, Tuir debbano essere riferite alle operazioni intercorrenti fra la S.O. e le controllate o le controllanti del soggetto non residente cui fa capo la S.O. stessa. Qui, invero, ricorrono pacificamente tutte le condizioni oggettive e soggettive previste dalla legge, ossia uno specifico rapporto societario ed un negozio corrispettivo.

(18) E non è un caso che la migliore dottrina, nell’affermare l’applicazione delle regole sul transfer price ai rapporti fra casa madre e stabile organizzazione, si soffermi in particolar modo su «gli elementi patrimoniali che vengono trasferiti da una stabile organizzazione italiana di una società non residente alla casa madre estera» FANTOZZI

A.-MANGANELLI A., Qualificazione e determinazione dei redditi prodotti da imprese estere in Italia, cit., 434.

Prof. Antonio Lovisolo Professore Università di Genova

La “funzione” della S.O. e i criteri generali di determinazione del suo reddito, con particolare riferimento

ai rapporti con “la casa madre”

1 La “funzione” della S.O. e principio del “trattamento isolato del reddito”.

1.1

La esistenza nello Stato estero di una s.o. (“materiale” o “personale” che sia1) del soggetto non residente genera una sua presenza “qualificata”, idonea a sottrarre la imposizione del reddito d’impresa allo Stato di residenza e a radicarla nello Stato della s.o., in una situazione di (astratta) parità con le imprese locali. L’art. 7 par. 1 del Modello convenzionale OCSE – cui si ispira la totalità delle Convenzioni contro la doppia imposizione sul reddito e sul patrimonio – è esplicita in tal senso, prevedendo2 la imponibilità del reddito d’impresa nel Paese di residenza, salvo che nell’altro Stato contraente “l’impresa non svolga una attività industriale o commerciale … per mezzo di una stabile organizzazione ivi situata”, sancendo che, in tal caso, “gli utili dell’impresa sono imponibili nell’altro Stato ma soltanto nella misura in cui detti utili sono attribuibili alla stabile organizzazione”. Principio, questo, fatto proprio anche dalla nostra legislazione interna ove all’art. 23 t.u. 1986, n. 917 si prevede la imponibilità dei non residenti per “i redditi d’impresa derivanti da attività esercitate nel territorio dello Stato mediante stabili organizzazioni”.

1.2

Tenuto conto delle due indicate previsioni normative, la determinazione del reddito del non residente nello Stato Estero e le sue modalità di imposizione, sono correlate alla “funzione” della s.o. specie nei rapporti con la “casa madre” (o “sede centrale”).

1 In relazione alla definizione del concetto di s.o. e alla sua articolazione “materiale” o “formale”, rimando al mio La “Stabile Organizzazione” in AA.VV. Diritto Tributario Internazionale, a cura di V. Uckmar, Cedam 2005, pag. 435 e seg. 2 Così espressamente prevede il comma 1 dell’art. 7 del Modello OCSE “Gli utili di un’impresa di uno Stato contraente sono imponibili soltanto in detto Stato, a meno che l’impresa non svolga un’attività industriale o commerciale nell’altro Stato contrante per mezzo di una stabile organizzazione ivi situata. Se l’impresa svolge in tal modo la sua attività, gli utili dell’impresa sono imponibili nell’altro Stato, ma soltanto nella misura in cui detti utili sono attribuibili alla stabile organizzazione.

LA “FUNZIONE” DELLA S.O. E I CRITERI GENERALI DI DETERMINAZIONE DEL

SUO REDDITO

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Al riguardo, nel sistema previgente la riforma tributaria del 1973, la s.o. si configurava quale criterio di collegamento, la cui semplice esistenza “catalizzava” la imponibilità nei suoi confronti di tutti i redditi prodotti in Italia dal soggetto non residente, anche senza il tramite della stabile organizzazione pur esistente nello Stato (cfr. art. 145 T.U. 1958, n. 645). L’art. 145 cit. quale “presupposto e soggetti passivi” della imposta sulle Società, prevedeva “il possesso di un patrimonio o di un reddito da parte di soggetti tassabili in base al bilancio nonché di società ed associazioni estere operanti in Italia mediante una stabile organizzazione ancorché non tassabili in base al bilancio”. Secondo tale previsione normativa “società ed ente non residente” e sua s.o. rappresentavano una sorta di “endiadi”, nel senso che l’assoggettamento ad imposta sulle Società in Italia del non residente era sì riconnessa alla configurabilità nello Stato di una sua s.o.: esistenza tuttavia, la sussistenza di tale s.o. comportava la imponibilità dei redditi comunque prodotti nel territorio dello Stato anche senza il suo tramite. Sotto questo profilo, si poteva ritenere che la stabile organizzazione fosse dotata di una “forza di attrazione piena”, quale polo di attrazione dei redditi che l’imprenditore estero comunque ritraesse (anche) da altre fonti situate nello Stato. Al contrario, nella vigente disciplina, la stabile organizzazione si qualifica come “particolare modalità di produzione” del reddito d’impresa, considerato che, in via di principio assume rilievo impositivo nei suoi confronti solo il reddito ad essa direttamente connesso. L’art. 23, comma 1 lett. e) cit. t.u. 1986 n. 917 (e l’art. 151 che vi fa rinvio) sono espliciti nel considerare imponibile in Italia il reddito d’impresa del non residente (solo se) “derivante da attività esercitata nel territorio dello Stato mediante stabili organizzazioni”. O meglio: a tale “antica” “forza di attrazione piena” della s.o. rispetto alla imposizione del reddito d’impresa del non residente, si è semmai sostituita una “forza di attrazione limitata”, considerando che l’art. 23, comma 2 lett. i t.u. 1986, n. 917 prevede la imponibilità in Italia delle “royalties” “ indipendentemente” dal fatto che l’imprenditore non residente operi in Italia attraverso una s.o. Analogamente tale “forza di attrazione limitata” è riscontrabile in relazione alla imposizione delle plusvalenze e minusvalenze realizzate dalle società non residenti “ancorché non conseguenti attraverso la stabile organizzazione” (art. 151, comma 2 t.u. 1986, n. 917). In ogni caso – al di là delle pur assai rilevanti ricordate eccezioni – principio fondamentale è quello secondo il quale il reddito d’impresa del non residente è assoggettato ad imposta nello Stato estero “ ma soltanto nella misura in cui detti utili sono attribuibili alla s.o.” (art. 7, comma 1 Mod. OCSE art. 23 lett. c) cit)).

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Regola e principio, poi, espressamente ribadito nel Modello convenzionale in relazione alla tassazione dei dividendi e degli interessi. Ed infatti l’art. 10, comma 4 del Modello OCSE esclude che i dividendi si considerino di fonte estera (con la conseguente inapplicabilità della norma convenzionale) ove il “beneficiario effettivo” dei dividendi eserciti nello Stato contraente ove ha sede la società che li distribuisce “un’attività industriale o commerciale per mezzo di una s.o. ivi situata e la partecipazione generatrice dei dividendi si ricolleghi effettivamente a tale s.o.”. Speculare previsione normativa è prevista dal successivo art. 11, comma 4 al fine della imposizione degli interessi. Al riguardo si veda anche il comma 5 del medesimo art. 113. Alla ricordata configurazione della s.o. quale “particolare modalità di produzione” del reddito d’impresa si ricollega – quasi a mò di corrollario - il principio del “trattamento isolato” del reddito (anche d’impresa) del non residente che operi in Italia in totale mancanza di una s.o. oppure anche in presenza di una sua s.o. ma con riferimento al reddito prodotto direttamente dalla “casa madre” (senza l’intervento della sua s.o.) In tali casi, la inesistenza di una s.o. o la non attribuibilità del reddito prodotto alla attività della (pur esistente) s.o. comporta che l’imprenditore non residente è comunque assoggettabile ad imposta in Italia, ma per così dire “ad altro titolo” rispetto al reddito d’impresa, potendo essere titolare, a seconda dei casi di reddito di capitale, di reddito fondiario o di un reddito diverso. Tale principio del “trattamento isolato” comporta quindi la possibile esistenza di un imprenditore non residente, titolare di reddito riconducibile a categorie diverse da quella d’impresa, quale eccezione al principio della necessaria ed imprescindibile “vis atractiva” del reddito d’impresa, (a questo punto) limitata ai soli imprenditori residenti. In forza delle considerazioni che precedono, appare quindi del tutto censurabile la Giurisprudenza della Suprema Corte 4 che ha ritenuto che una

3 L’art. 11 comma 4 e 5 così prevedono: “le disposizioni dei paragrafi 1 e 2 non si applicano nel caso in cui il beneficiario effettivo degli interessi, residente di uno Stato contraente, eserciti nell’altro Stato contraente dal quale provengono gli interessi, un’attività commerciale o industriale per mezzo di una stabile organizzazione ivi situata. …………………………………………..e il credito degli interessi si ricolleghi effettivamente ad essa. In tal caso sono applicabili le disposizioni dell’art. 7. “Gli interessi si considerano provenienti da uno Stato contraente quando il debitore è un residente di detto Stato. Tuttavia, quando il debitore degli interessi, sia esso residente o no di uno Stato contraente, ha in uno Stato contraente una stabile organizzazione per le cui necessità viene contratto il debito sul quale sono pagati gli interessi e tali interessi sono a carico della stabile organizzazione, gli interessi stessi si considerano provenienti dallo Stato in cui è situata la stabile organizzazione”. 4 Cassazione 21 aprile 2011, n. 9197 in Fisco on line

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Banca non residente, priva di stabile organizzazione in Italia, non fosse soggetta ad imposizione in Italia sugli interessi di fonte italiana, per mancanza del presupposto di territorialità (articolo 20, ora articolo 23, del Testo unico), argomentando che, per i non residenti, i redditi derivanti da attività commerciali sono tassabili in Italia solo se conseguiti per il tramite di una stabile organizzazione (articolo 23, lettera f), del Testo unico). In realtà tale banca estera poteva legittimamente essere considerata titolare di redditi di capitale. 5 Il ricordato principio del “trattamento isolato”, è desumibile dalle regole che attengono alla imposizione dei non residenti (siano essi persone fisiche o società ed enti: art. 3 e 23 e art. 153 t.u. 1986, n. 917) che sono comunque assoggettati ad imposta in Italia per tutti i redditi ivi prodotti, applicandosi il principio della necessaria qualificazione del reddito prodotto “come d’impresa” solo per le società di persone (art. 5 comma 3 t.u. 1986, n. 917 e ancor più chiaramente: art. 81) e società di capitali residenti, laddove le società non residenti (come abbiamo considerato) possono essere titolari anche di redditi diversi da quelli d’impresa.

1.3

Giova a questo punto considerare che la applicazione congiunta, da una parte del principio del “trattamento isolato” del reddito e, dall’altra della “attuazione” nella categoria reddito d’impresa solo del reddito prodotto nello Stato attraverso una s.o., comportano che i proventi corrisposti da un soggetto residente alla ivi presente s.o. di un non residente, subiranno il regime impositivo (ad esempio in materia di ritenute alla fonte) dei percettori residenti, laddove se distribuiti direttamente alla “casa madre” senza il tramite (della pur esistente) s.o. saranno considerati alla stregua di proventi distribuiti a non residenti. Si richiama al riguardo la già ricordata previsione degli artt. 10 e 11 del Modello OCSE che escludono la applicazione delle indicate norme convenzionali ove (rispettivamente) i dividendi o gli interessi siano distribuiti o corrisposti alla s.o. nello Stato di un imprenditore estero. La esclusione è evidentemente correlata alla circostanza che, in tal caso, i dividendi e gli interessi si qualificano componenti del reddito d’impresa nazionale della s.o. nel Paese, rilevante ai sensi dell’art. 7 del modello convenzionale.

5 In proposito si veda Garbarino C. “Forza di attrazione della stabile organizzazione e trattamento isolato del reddito in “Rassegna Tributaria” 1990, n. I, 427 e seguenti. Giorgi S. “Il principio del trattamento isolato dei redditi e la c.d. “forza di attrazione” della stabile organizzazione: problemi e proposte di soluzione in Aspetti fiscali delle operazioni internazionali”, Milano, 1995, pag. 31 e seg.

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Analogamente la disciplina interna (art. 26 e 27 d.p.r. 1973, n. 600) al fine della applicazione del prelievo alla fonte (rispettivamente) “sugli interessi e sui redditi di capitale” e “sui dividendi”, prevedono il medesimo trattamento impositivo per tali redditi percepiti da residenti o da stabili organizzazioni in Italia di non residenti.

2 La territorialità dell’imposizione e la conseguente configurazione della s.o. quale autonomo centro di imputazione di “diritti ed obblighi fiscalmente rilevanti” e la su a necessaria “alterità” fiscale rispetto alla casa madre, anche ove sussista una loro identificazione dal punto di vista civilistico.

2.1

Nella fiscalità internazionale, in forza del principio di “territorialità”, ciascun Stato assoggetta ad imposizione (quanto meno) i redditi prodotti nel proprio territorio anche da parte di soggetti non residenti. Tuttavia, per quanto attiene la determinazione del reddito d’impresa, al fine della imposizione del non residente, il principio di territorialità richiede che la produzione del reddito avvenga attraverso la presenza qualificata di una sua s.o. nello Stato. Ed infatti (come abbiamo visto), a livello convenzionale si prevede (art. 7, comma 1 Modello OCSE) non solo che lo jus impositions è attribuito allo Stato in cui è collocata la s.o. ma anche che il reddito prodotto sia qualificato come “d’impresa” “soltanto nella misura in cui detti utili sono attribuibili alla stabile organizzazione”6. Da quanto precede derivano, a mio avviso, le seguenti conseguenze concernenti la imponibilità del reddito d’impresa del non residente. La prima, attiene alla rilevanza esclusiva (al fine della imposizione di tale reddito d’impresa), dell’apparato produttivo (più o meno complesso) definito s.o. La seconda, attiene alla qualificazione della s.o. come “impresa distinta e separata” rispetto alla sua “casa madre” (o “sede centrale”). Ed infatti, il comma 2 del medesimo art. 7 prevede (fra l’altro) che il reddito della s.o. sia determinato alla stregua di una “impresa distinta ed autonoma” “ed in piena indipendenza dall’impresa di cui essa costituisce una stabile organizzazione”. Sotto un terzo profilo, si consideri che tale “autonomia indipendenza e distinzione” della s.o., è ribadita anche in relazione alla applicazione del fondamentale “Principio di non discriminazione” (art. 24, par. 3 Modello Convezionale) secondo il quale “l’imposizione di una s.o. che una impresa di uno Stato contraente ha nell’altro Stato, non può essere in quest’altro Stato

6 Vedi il testo dell’art. 7 del Modello Convenzionale riprodotto alla nota 1.

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meno favorevole dell’imposizione a carico delle imprese di detto altro Stato che svolgono la medesima attività”. Da quanto precede si delinea un quadro complessivo nel quale la s.o. si configura quale “centro di imputazione di situazioni fiscalmente rilevanti”, autonomo e diverso rispetto alla “casa madre” (o alla “sede centrale”): tale s.o. nel Paese in cui è collocata, non può essere destinataria di un regime impositivo “discriminato” rispetto a quello di imprese analoghe.

2.2

La impostazione che precede evidenzia che la determinazione del reddito della s.o., oltre che condividere, in un profilo di astratta parità, la “fiscalità” delle imprese residenti, si trova anche a dover affrontare i non agevoli risvolti impositivi riconnessi alla circostanza che la s.o. (quanto meno nella sua configurazione “materiale”) dal punto di vista civilistico “appartiene” alla casa madre, dalla quale, invece, dal punto di vista fiscale si qualifica come “ impresa distinta e separata” che agisce “in piena indipendenza” da essa (art. 7 comma 2 mod. OCSE) Sotto questo profilo, quindi, al fine della determinazione del reddito della s.o., tenuto conto della sua “autonomia e distinzione” rispetto alla “sede centrale”, si presentano tutti i risvolti problematici che caratterizzano i rapporti fiscali “di gruppo”: primi fra tutti quelli afferenti i “prezzi di trasferimento” di beni e servizi fra casa madre e s.o., la “deducibilità dei costi promiscui”, sostenuti dalla “casa madre” nell’interesse delle s.o. (o viceversa) (quali ad es.: spese generali, spese di direzione, spese di ricerca), la “utilizzazione da parte delle s.o. di beni immateriali ” (ad es. brevetti) appartenenti alla casa madre (o viceversa). Profili, quindi, che richiamano quelli propri dei rapporti “inter company” per di più tenuto conto che, in questo caso (a differenza di quanto avviene per i Gruppi di società) si pongono (sempre per quanto attiene la s.o. “materiale”) nell’ambito di un unico soggetto (non solo “economico” ma) anche “giuridico”, quale è la casa madre (o la sede centrale) e la sua s.o. all’estero: si pensi ad esempio uno stabilimento produttivo in Italia di una società avente sede principale all’estero. In tal modo, fra casa madre e s.o., si genera una “alterità fiscale” ed una “contrapposizione di interessi fiscalmente rilevanti” pur in relazione alla indubbia “unitarietà” civilistica dello stesso soggetto.

2.3

Nonostante la rilevanza di tali problemi, invano si cercherebbero specifici strumenti normativi, sulla base dei quali pervenire in proposito ad affidabili soluzioni impositive. In particolare, la determinazione del reddito della s.o. rispetto alla “casa madre” o alla sua “sede centrale”, oltre ad essere affidato al già ricordato

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principio generale della “autonomia” della s.o. (prevista dall’art. 7 comma 2 cit.) e (all’altrettanto generale) principio di non “discriminazione” rispetto alla imprese residenti (art. 24, comma 3 cit) trova sempre – a livello convenzionale – supporti normativi solo nel disposto dell’art. 7, comma da 3 a 7. In particolare, il comma 3 ribadisce la deduzione delle spese secondo il generale principio di “inerenza”, da valutarsi in relazione al loro sostenimento” per gli scopi perseguiti dalla stessa s.o.”. Previsione di maggior dettaglio è rinvenibile nel disposto dei par. 4 e 5 dell’art. 77 cit, ove rispettivamente (comma 4) si attribuisce rilevanza – anche ai fini convenzionali – ai criteri di imputazione degli utili (fra sede centrale e s.o. o fra le diverse s.o. dei medesimi soggetti) e (comma 5) si esclude che alla s.o. possa essere attribuito “un utile per il fatto che essa ha acquistato beni o merci per l’impresa”: divieto, quest’ultimo che si ricollega alla stessa definizione di s.o. configurandosi (in tal caso) una “attività meramente preparatoria ed ausiliaria” (art. 5, comma 4 e art. 162, comma 4 lett. d) t.u. 1986, n. 917) che esclude la configurabilità di una s.o. quale “unità idonea a produrre un reddito autonomo” (art. 5, comma 1)8. Né risultato più affidabile condurrebbe la ricerca, nella disciplina interna, di specifiche previsioni normative, idonee a supportare una (più) affidabile e certa determinazione del reddito della s.o. specie per quanto attiene i suoi rapporti con la “casa madre” o le altre s.o. dello stesso “Gruppo”. Al riguardo, unico significativo riferimento normativo è rinvenibile nella previsione dell’art. 14 (ora) ultimo comma dpr 1973, n. 600 che, con riferimento sia alle s.o. in Italia di soggetti esteri, sia alla ipotesi speculare di s.o. all’estero di soggetti residenti in Italia, prevede l’obbligo di “distinta rilevazione” nelle scritture contabili dei “fatti di gestione” che interessano le s.o., “determinando separatamente i risultati di esercizio di ciascuno di esse”. Previsione abbastanza generica che tuttavia appare in piena sintonia con il modello convenzionale ove (art. 7, comma 1 e 2) si ribadisce la “separazione” del reddito della s.o. da quella della “casa madre” e la sua determinazione autonoma.

7 Tali paragrafi così prevedono: “Qualora uno degli Stati contraenti segua la prassi di determinare gli utili da attribuire ad una stabile organizzazione in base al riparto degli utili complessivi dell’impresa fra le diverse parti di essa, la disposizione del paragrafo 2 non impedisce a detto Stato contraente di determinare gli utili imponibili secondo la ripartizione in uso; tuttavia, il metodo di riparto adottato dovrà essere tale che il risultato sia conforme ai principi contenuti nel presente articolo”. “Nessun utile può essere attribuito ad una stabile organizzazione per il solo fatto che essa ha acquistato beni o merci per procedere diversamente”. 8 Ed infatti la stessa definizione della s.o. individua nel mero “acquisto di beni” una attività meramente preparatoria ed ausiliaria che esclude la configurabilità di una s.o. (art. 5 comma 4 Mod. OCSE e art. 162 comma 4 lett. d) t.u. 1986, n. 917).

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Evidentemente quali siano “i fatti di gestione” rilevanti al fine della “distinta rilevazione” del reddito della s.o. e quali i criteri della loro valutazione è affidato ai principi generali che governano la determinazione del reddito d’impresa: primo fra tutti il principio di “attribuibilità” (delle componenti positive) alla s.o. piuttosto che alla “casa madre”, di “inerenza” (pur quelle negative) e di loro competenza temporale. In particolare, al riguardo assumono rilevanza i criteri che sovraintendono la determinazione dei “prezzi di trasferimenti” fra s.o. e casa madre, intesi quali autonomi “centri di riferimento fiscalmente rilevanti” in due diversi Paesi, posto che fra essi (come abbiamo visto) sussiste talora anche una “identità soggettiva civilistica” che (invero) va ben oltre le ipotesi di (semplice) “controllo” rilevanti ai fini della problematica del “transfer price” (art. 110, comma 7 t.u. 1986, n. 917), riproducendo al riguardo (direi a maggior ragione) tutta la problematica propria di “prezzi di trasferimento”.

2.4

L’oggetto della presente relazione è limitato alla individuazione dei criteri di determinazione del reddito della s.o., quale conseguenza della sua funzione di particolare criterio di “localizzazione” e di “modalità di produzione” all’estero del reddito d’impresa. Pertanto, mi si impone di non andare oltre nell’affrontare la specifica casistica afferente tale determinazione, che qui mi limito ad enunciare secondo quanto emerge dalla Giurisprudenza afferente (ad esempio) la suddivisione territoriale del “reddito promiscuo” o la imputazione “pro quota” del reddito complessivo (fra casa madre e s.o.) o la imputazione dei c.d. “costi complessivi” (specie di regia) o la loro suddivisione “pro quota”, così come consentito anche a livello Convenzionale dal par. 4 dell’art. 7 cit.9

3 Ai fini Iva: “funzione” e rilevanza della s.o.

Per mera completezza (esulando tale problematica dall’oggetto della mia relazione), mi limito ad osservare che, ai fini Iva, in relazione al verificarsi del suo presupposto territoriale (art. 7 d.p.r. 1972, n. 633) assumono rilevanza i “ soggetti passivi stabiliti nel territorio dello Stato”, fra i quali è

9 Art. 7 par. 4: “Qualora uno degli Stati contraenti segua la prassi di determinare gli utili da attribuire ad una stabile organizzazione in base al riparto degli utili complessivi dell’impresa fra le diverse parti di essa, la disposizione del paragrafo 2 non impedisce a detto Stato contraente di determinare gli utili imponibili secondo la ripartizione in uso; tuttavia, il metodo di riparto adottato dovrà essere tale che il risultato sia conforme ai principi contenuti nel presente articolo”. Si veda al riguardo, ad esempio: Cass. 1 agosto 2000, n. 10062 in Dir. Prat. Trib.Int. 2001, 512 e Dir. Prat. Trib., 2002, II, n. 483.

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riconducibile “la stabile organizzazione (in Italia) di soggetto domiciliato e residente all’estero limitatamente alle operazioni da essa rese o ricevute” (art. 7 comma 1 lett. d) cit.). Anche ai fini Iva, quindi, la s.o. si qualifica criterio di “localizzazione” o particolare “modalità di produzione” delle operazioni imponibili. In particolare, tale qualificazione soggettiva è rilevante per le “prestazioni di servizi” (art. 7 ter d.p.r. 1972, n. 633) posto che per le “cessioni di beni” la territorialità della imposizione è eminentemente correlata al criterio oggettivo della collocazione territoriale dei beni immobili o mobili e per questi ultimi (anche) del loro regime giuridico nazionale (art. 7 bis d.p.r. 1972, n. 633). Le “prestazioni di servizi” (ai sensi dell’art. 7 ter cit.) invece sono soggette ad Iva in quanto considerate “effettuate in Italia” se rese a s.o. in Italia di soggetti non residenti o quelle rese da tali s.o. ma nei confronti di committenti, non soggetti passivi 10. A sua volta, ai sensi dell’art. 17, comma 3 e 4 d.p.r. 1972, n. 633, al fine della attribuzione diretta degli obblighi o i diritti afferenti l’applicazione del tributo, si distingue a seconda che il soggetto non residente sia privo in Italia di s.o. ovvero tali prestazioni siano rese o ricevute per il tramite di una sua s.o. in Italia (art. 17 comma 4 cit.). Anche ai fini Iva, quindi (come per le imposte dirette), la s.o. esistente in Italia si configura quale criterio di “localizzazione” della attività produttiva, necessariamente assumendo rilevanza al fine della applicazione del tributo solo le operazioni rese o ricevute per il tramite di una s.o. nel territorio dello Stato (art. 17, comma 4 cit.). Ne deriva che, anche ai fini Iva, le prestazioni di servizi, rese ad una s.o. di un non residente o da tale s.o. sono considerate alla stregua di operazioni rese (o ricevute) da soggetti residenti. A mio avviso, da quanto precede deriva che, ove la “casa madre” estera, pur possedendo in Italia una propria s.o., operi direttamente nello Stato (anche) tramite un proprio “rappresentante fiscale”, quest’ultimo non potrà ritenersi responsabile delle operazioni non “veicolate” suo tramite, essendo state effettuate direttamente dalla s.o. che, proprio per averla posta in essere direttamente, permane responsabile dell’attività svolta, alla stregua di un soggetto residente.

10 E ciò in quanto sono considerati soggetti “stabiliti” in Italia, le imprese non residenti “limitatamente” alle operazioni rese o ricevute da loro s.o. in Italia (art. 7 lett. d cit.)

Prof. Alberto Marcheselli Professore Università di Genova e Torino

La prova della stabile organizzazione, tra diritto di difesa, equa ripartizione del prelievo e cooperazione tra gli

ordinamenti tributari.

SOMMARIO: 1 Premessa. - 2 L’art. 162 Tuir tra definizione della fattispecie e assetto degli oneri probatori. - 3 La prova presuntiva legale e la prova presuntiva semplice della stabile organizzazione: equivoci terminologici sul concetto di “prova contraria”. - 4 La stabile organizzazione come struttura di fatto: corollari procedimentali. - 5 (segue) Prova e motivazione: una relazione difficile, tra economicità dell’azione amministrativa e garanzie. - 6 La stabile organizzazione come struttura di fatto: corollari processuali, l’onere di allegazione. - 7 (segue) l’onere di contestazione tra imparzialità e buona fede. - 8 (segue) Onere della prova, principio dispositivo e prove d’ufficio della stabile organizzazione. - 9 Le prove utilizzabili: in particolare la rilevanza indiziaria dello statuto sociale e della titolarità di partiva IVA. - 10 (segue) prove indiziarie. - 11 (segue) i documenti. - 12 (segue) certificazioni delle società di revisione e certificazioni amministrative: prove sufficienti o prove necessarie?

1 Premessa.

Come usuale rispetto ad altri temi del diritto tributario e comune all’esperienza giuridica in genere, i temi afferenti il giudizio sul fatto, e, cioè, la prova sono relativamente meno praticati nella riflessione giuridica. Da un certo punto di vista ciò è comprensibile: le questioni interpretative in senso stretto concernono le norme positive e le norme positive si occupano, essenzialmente, della disciplina sostanziale delle materie: i problemi afferenti la prova delle fattispecie di norma non sono (non hanno bisogno di essere) disciplinati da norme ad hoc. Ciò spiega perché, in termini relativi, vi sia una ampia sproporzione quantitativa tra gli interventi concernenti il profilo sostanziale e quello della prova1.

1 Tra gli autori che si sono occupati del tema della prova della stabile organizzazione, senza pretesa di completezza: Consiglio - Nuzzolo, La nozione di stabile organizzazione nel nuovo Tuir: analogie e differenze con il Modello OCSE e con le Convenzioni contro le doppie imposizioni stipulate dall'Italia, in Fisco, 2004, 33, 5120; Della Valle, La nozione di stabile organizzazione nel nuovo Tuir, in Rass. trib. 2004, 5, 1597 ss, in particolare al §9; Santi, I lineamenti della stabile organizzazione materiale, in Fisco, 2004, 22, 3363 ss.; Lovisolo, La "stabile organizzazione", in AA.VV, Corso di diritto tributario internazionale, coordinato da V. Uckmar, Cedam, 1999, 241; Del Giudice, La stabile organizzazione elemento determinante per la

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Oggetto di questo breve lavoro è, invece, proprio il tema della prova della stabile organizzazione (d’ora inanzi, SO). Dal punto di vista delle fonti normative, è evidentemente, ineludibile il riferimento, per le fonti interne, all’art. 162 del Tuir, e, per quelle internazionali, il riferimento all’art. 5 del Modello Ocse. A prima lettura e superficialmente considerato, l’art. 162 contiene la definizione di stabile organizzazione: esso, cioè, descrive circostanze di fatto in presenza delle quali si ha una stabile organizzazione, o, detto in altri termini, gli elementi costitutivi della fattispecie della stabile organizzazione. E’ evidente che tra le norme sostanziali e il tema della prova vi è una stretta relazione logico giuridica: le norme che definiscono le fattispecie determinano i fatti che debbono essere provati perché si verifichino gli effetti giuridici. Esemplificando: se un cantiere è una SO, provare l’esistenza di un cantiere significa provare il presupposto dell’effetto giuridico proprio della SO. I due piani sono, tuttavia, nettamente distinti sul piano concettuale: una questione è quali siano i fatti da provare (e questo dipende dalla definizione delle fattispecie), un’altra come si possano in concreto provare quei fatti e, prima ancora, su chi gravi il rischio della mancata prova. Oggetto delle presenti riflessioni sono proprio questi ultimi due profili: la disciplina dell’onere della prova (chi deve provare cosa, o, più esattamente,

tassazione del reddito d'impresa di soggetti non residenti, Inserto de "il Fisco" n. 10/1983, pag. 1251; Del giudice, La stabile organizzazione nel diritto interno, nel diritto convenzionale e nelle Convenzioni stipulate dall’Italia, in Fisco, 2008, fasc. 45, 8011 e ss.; Cerrato, Considerazioni in tema di stabile organizzazione ai fini dell'Iva e delle imposte sui redditi, in Giur. it., 1998, 829 s.; Gentilli, L'onere della prova in tema di doppia imposizione, , in Dir. prat. trib., 1986, II, pag. 662; Adonnino, L'individuazione della stabile organizzazione e la prova della sua esistenza, in "Riv. dir. trib.", 1998, pagg. 106; Pozzo, Requisiti necessari per la sussistenza di una stabile organizzazione di soggetti non residenti, in Riv. giur. trib., 1998, 266, ss. e Pistone, Stabile organizzazione ed esistenza di società figlia residente Dir. prat. trib., 1998, II, pagg. 361; Terlizzi, L'attribuzione della partita IVA comporta l'esistenza di stabile organizzazione, in Diritto e Giustizia 2012, 1096; Iavagnillo, Dall'attribuzione di partita iva non deriva la presunzione assoluta di stabile organizzazione, in Corr. Trib., 2005, fasc. 27, 2166 ss.; Sirri –Zavatta, Stabile organizzazione e valore sintomatico della partita IVA, in GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria, 2013, fasc. 1, 32 ss.; Centore, La «tormentata» identificazione dei soggetti non residenti ai fini del rimborso dell'iva, in Corr. Trib. 2012, fasc. 44, 3387 ss.; Manzi, Stabile organizzazione , Iva e Modello Ocse: la Suprema Corte consolida la propria giurisprudenza, in Fiscalità Internazionale, 2007, fascicolo 1, 29 ss.; Gabelli – Rossetti, Stabile organizzazione personale: l’onere della prova è a carico del Fisco, in Fisco, 2012, 3, 432 ss.; Boccalatte - Tomassini, L’agente non è una branch, in “Il Sole-24 Ore, Norme e tributi” del 5 dicembre 2011; Piazza - Della Carità, Quando il commissionario agisce come stabile organizzazione?” in Corr. Trib. 2011, fasc. 5, 365 ss.; Furlan Colucci, Il principio di «sufficienza probatoria» a servizio del beneficiario effettivo, in Fiscalità e commercio internazionale, 2012, fasc. 12, 29 ss.

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la regola di giudizio che stabilisce chi perde la lite se la circostanza non è provata) e la disciplina della prova (quali strumenti di convincimento possono utilizzarsi allo scopo). La ragione di interesse di una tale trattazione non è tanto nel fatto che esistano regole particolari che regolano tali aspetti quanto alla SO, quanto nell’esame del modo di atteggiarsi dei principi e regole generali, comuni, rispetto alla fattispecie, particolare della SO. Il tema in esame corrisponde a un interrogativo pratico: quando la mancata prova della sussistenza della SO giova o lede il contribuente? Quali strumenti possono servire a convincere Amministrazione e giudice della sussistenza o insussistenza di essa?

2 L’art. 162 Tuir tra definizione della fattispecie e assetto degli oneri probatori.

Venendo quindi al dettaglio, il punto di partenza, come sopra si diceva, non può che essere l’art. 162 Tuir. Che esso contenga la definizione sostanziale della SO è pacifico. Punto, tuttavia, da chiarire è se esso contenga solo la definizione sostanziale della SO o anche elementi incidenti su onere e mezzi di prova2. In effetti, in dottrina, non manca chi ritiene che, all’interno della norma, vi siano disposizioni il cui effetto sarebbe rilevante nel campo della prova. Si è così rilevato3 che il comma 2 dell'art. 162, analogamente al paragrafo 2 dell'art. 5 del Modello OCSE, conterrebbe un'elencazione di ipotesi concrete 2 Distingue assai lucidamente il giudizio di diritto sulla SO da quello di fatto sulla sua concreta sussistenza Cass. civ. Sez. V, Sent., 28-06-2012, n. 10802, che, si segnala, tra l’altro, per una distinzione particolarmente perspicua, quanto ai motivi di diritto di ricorso in cassazione, violazione e falsa applicazione della legge. 3 Consiglio - Nuzzolo, La nozione di stabile organizzazione nel nuovo Tuir: analogie e differenze con il Modello OCSE e con le Convenzioni contro le doppie imposizioni stipulate dall'Italia, in Fisco, 2004, 33, 5120. Analogamente Della Valle, La nozione di stabile organizzazione nel nuovo Tuir, in Rass. trib. 2004, 5, 1597 ss, in particolare al §9, che osserva che “si è peraltro sopra rilevato che, quanto alla positive list di cui al comma 2 dell'art. 162, è preferibile attribuirgli la funzione di esonerare l'Amministrazione finanziaria, in presenza delle fattispecie ivi elencate, dall'onere di provare le circostanze di fatto su cui si basa la configurabilità di una stabile organizzazione materiale (esistenza di una sede d'affari, sua fissità, ed esercizio suo tramite dell'attività d'impresa). In presenza dunque delle anzidette fattispecie l'onere della prova, come si è appena evidenziato ordinariamente facente capo all'Amministrazione finanziaria (quando la stabile organizzazione viene in considerazione onde consentire la tassazione, nel nostro Paese, dell'impresa non residente), si ribalta sul contribuente; ne consegue che spetta a tale soggetto dimostrare che le strutture di cui al comma 2 dell'art. 162 non presentano i requisiti di cui al comma 1 della stessa disposizione e, tra questi, in particolare la permanenza e/o la strumentalità.”. Santi, I lineamenti della stabile organizzazione materiale, in Fisco, 2004, 22, 3363 ss., rileva invece che l’onere della prova, almeno a livello di Modello Ocse, incomberebbe comunque sul soggetto che ha interesse all’effetto giuridico che dipende dalla sussistenza della SO (l’A.F. se dalla SO dipende

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che possono configurare una stabile organizzazione e che, secondo parte della dottrina, l'effetto di tale disposizione sarebbe quello di invertire l'onere della prova a carico del contribuente: in altre parole, le ipotesi elencate identificherebbero sempre una stabile organizzazione a meno che il contribuente non dimostri, nel caso concreto, l'insussistenza dei requisiti generali di cui al paragrafo 1. E ciò, si dice da chi opina in tale senso, in armonia con analoga struttura ed effetto che avrebbe il Commentario OCSE. Si osserva, ancora, che l’esemplificazione non sarebbe tassativa: l'Amministrazione finanziaria potrebbe dimostrare che una installazione non compresa tra quelle indicate al comma 2 costituisce comunque, in concreto, una stabile organizzazione. Similmente, l'Amministrazione finanziaria italiana, dapprima in sede di approvazione del Commentario OCSE e successivamente con la circolare n. 7/1496 del 30 aprile 1977, ha fin da subito affermato che gli esempi contenuti nel Modello OCSE possono essere considerati ciascuno a priori una stabile organizzazione, ammettendo per il contribuente la facoltà di dimostrare la

l’assoggettamento ad imposta): “Il paragrafo 2 dell'art. 5 del Modello di Convenzione OCSE ed il comma 2 dell'art. 162 del Tuir contengono un elenco di fattispecie tipiche, che possono dare luogo ad una stabile organizzazione nel territorio. Come chiarisce il Commentario all'art. 5, gennaio 2003, punto 12, si tratta di una lista di esempi non esaustiva, da valutare in ogni caso alla luce dei presupposti di cui alla definizione generale data dal paragrafo precedente. Ne deriva, perciò, che spetta all'Amministrazione finanziaria dimostrare comunque che l'installazione, ancorché rientrante fra quelle elencate nel paragrafo in questione, possiede tutti i requisiti per essere considerata quale stabile organizzazione del soggetto non residente (K. Van Raad, The 1977 OECD Model, in "Intertax, 1991", pagg. 501-502; contra Lovisolo, La "stabile organizzazione", in AA.VV, Corso di diritto tributario internazionale, coordinato da V. Uckmar, Cedam, 1999, 241). L’autore osserva però che la disciplina interna sarebbe differente: ”Il nostro Paese, tuttavia, ha espresso formalmente il proprio dissenso da tale ultima impostazione, formulando una riserva a questo proposito e precisando che avrebbe ritenuto sempre ed in ogni caso a priori, quali stabili organizzazioni, le fattispecie indicate nella disposizione in rassegna (Osservazioni sul Commentario all'art. 5, gennaio 2003, punto 43 ed anche circolare 30 aprile 1977, n. 7/1496, in banca dati "il fiscovideo"). Come non si è mancato di sottolineare (Del Giudice, La stabile organizzazione elemento determinante per la tassazione del reddito d'impresa di soggetti non residenti, Inserto de "il Fisco" n. 10/1983, pag. 1251), si tratta comunque di una presunzione relativa, da cui consegue una sostanziale inversione dell'onere della prova, nel senso che spetta al contribuente il compito di dimostrare che nella specifica ipotesi non si configura una stabile organizzazione, per carenza dei presupposti generali enucleati nel paragrafo 1 dell'art. 5 (in quanto, ad esempio, l'installazione considerata non viene utilizzata dall'impresa per l'esercizio della propria attività, ovvero presenta un carattere saltuario), o perché fattispecie enucleata fra le eccezioni di cui al successivo paragrafo 4. Analogo disallineamento tra Modello Ocse, nelle versioni più recenti e disciplina interna, viene ravvisato anche da Del giudice, La stabile organizzazione nel diritto interno, nel diritto convenzionale e nelle Convenzioni stipulate dall’Italia, in Fisco, 2008, fasc. 45, 8011 e ss.

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carenza dei presupposti indicati nel paragrafo 1 dell'art. 5 ovvero la sussistenza di una delle ipotesi enucleate al successivo paragrafo 4. Tale impostazione è corretta? In effetti, anche rimanendo nel perimetro della norma dell’art. 162 Tuir, il rapporto tra commi 1, 2 e 4 è piuttosto complesso, ma, lo diciamo subito, la conclusione appena indicata non ci convince. Due dati di partenza sono pacifici, e di segno opposto. Il primo è che la norma non contiene alcun riferimento espresso al tema della prova: né sotto il profilo dell’onere né sotto quello dei mezzi relativi. Il secondo è che, ovviamente, definendo la fattispecie, quantomeno l’effetto indiretto sopra descritto sui temi della prova tale norma lo ha comunque (determinare cosa va provato). Il problema è, allora: come giustificare l’affermazione della inversione dell’onere della prova, sopra indicata? In effetti, l’inversione dell’onere della prova, rispetto a quanto implicato dalle regole generali stabilite dall’art. 2697 c.c. non potrebbe che derivare da una norma speciale e tale norma nell’art. 162 non si ravvisa: essa non stabilisce affatto chi deve provare cosa, né chi subisca effetti negativi dalla mancata prova di determinate circostanze. Ciò però, non ostanti le apparenze, non esclude ancora che dalla disposizione non possano trarsi le conseguenze ipotizzate dalla dottrina sopra citata. Esiste, infatti, una possibile via alternativa, una sola ancora, che giustifichi tale conclusione. Come noto, la regola dell’art. 2697 c.c. impone che chi vuol far valere un diritto ne provi i fatti costitutivi, mentre chi vi si oppone ha l’onere (nel senso di rischio della mancata prova sopra delineato) di provare di provare i fatti che hanno modificato, impedito o estinto il diritto4. Ebbene, la tesi in esame può giustificarsi, anche negando all’art. 2697 la natura di norma sulla prova, se si riesce a dimostrare che essa prevede fatti costitutivi della stabile organizzazione, da un lato, e fatti impeditivi (o modificativi o estintivi), dall’altro. A ben vedere, tale tesi non regge, a nostro modesto avviso: affermare che il contribuente deve dimostrare che la struttura “non è strumentale” (nel quadro del comma 1) o è solo un deposito (nel quadro del comma 4) dovrebbe significare che la non strumentalità è… un fatto impeditivo del verificarsi di una SO o che tale è l’essere un… deposito. A nostro avviso sarebbe palese la forzatura: la strumentalità è il “nocciolo duro” del concetto di SO (e non la sua insussistenza un fatto impeditivo del relativo effetto giuridico!) e il fatto che una certa struttura sia un deposito non impedisce, né modifica né estingue gli effetti della SO: un deposito non è una SO.

4 Sulla quaestio diabolica della distinzione tra i fatti impeditivi e quelli costitutivi, in particolare, si veda, in termini approfonditi e con un’amplissima panoramica sulla dottrina SENOFONTE, Il fatto impeditivo in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 1978, 1525 e ss. part. 1548 e ss.

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Ci pare che tali impostazioni cadano, forse, in un equivoco: si tratta di elementi del presupposto e della fattispecie, che vengono descritti in una costruzione, per così dire, “modulare”. Il primo comma contiene la definizione generale, il comma 2 fornisce alcuni esempi e il comma 4 e 5 ritagliano la fattispecie con delle esclusioni: sono tutte disposizioni che definiscono, in positivo e in negativo il fatto costitutivo: tutte circostanze oggetto dell’onere della prova di chi vuole ottenere l’effetto: se dalla sussistenza della SO consegue l’obbligo tributario, è l’A.F., come vedremo tra poco, a doverle provare5. Opinare il contrario equivarrebbe, per ricorrere a un esempio icastico, a ipotizzare che, se la norma sull’omicidio prevedesse la punizione per chi cagiona la morte di un essere vivente e poi precisasse che il reato non sussiste se la vittima non è un essere umano, a ritenere che al Pubblico Ministero basterebbe provare la morte di un vivente, dovendo l’imputato dimostrare che si trattava di un …tacchino da fare arrosto. Si può solo concedere che, di norma, le fattispecie del comma 2 hanno la caratteristica della strumentalità di cui al comma 1 e, quindi, in fatto, se si prova una sede di direzione, essa, forse normalmente, è strumentale e stabile. Ma non si tratta assolutamente di una inversione dell’onere della prova a favore del Fisco (che richiederebbe una fonte legale, che non esiste), ma di un dato normalmente presente, che, al limite, può essere presunto (in via di ragionamento) dal giudice.

3 La prova presuntiva legale e la prova presuntiva semplice della stabile organizzazione: equivoci terminologici sul concetto di “prova contraria”.

Ciò introduce a una questione, endemica nel diritto e assai importante, che corrisponde alla tendenza della giurisprudenza a riportare nell’ambito dell’onere della prova tutta una ampia serie di questioni che, a ben vedere, non hanno alcun titolo di rientrarvi, rispetto al tema della SO, e più in generale. Si pensi ad esempio, oltre che a quanto appena visto a proposito di SO, alla giurisprudenza in materia di distribuzione degli utili nelle società a ristretta

5 A livello di Modello OCSE le conclusioni paiono le medesime. Il Commentario, al punto 12 sub art. 5, afferma, rispetto al paragrafo 2 dell’art. che “12. This paragraph contains a list, by no means exhaustive, of examples, each of which can be regarded, prima facie, as constituting a permanent establishment. As these examples are to be seen against the background of the general definition given in paragraph 1, it is assumed that the Contracting States interpret the terms listed, “a place of management”, “a branch”, “an office”, etc. in such a way that such places of business constitute permanent establishments only if they meet the requirements of paragraph 1.” E, successivamente, configura il § 4 in termini di eccezioni sostanziali alla definizione della SO

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base azionaria e a tante altre ipotesi in cui motivazioni e massime delle sentenze sono costruite secondo la struttura: data la ristretta base azionaria e la scoperta dell’evasione della società è legittimo l’accertamento a carico del socio se questo non dimostra il contrario6. Se ci si arresta alla espressione formale di tali orientamenti dovrebbe rilevarsi la sussistenza di una giurisprudenza formalmente e sostanzialmente implausibile, visto che assume inversioni dell’onere della prova in assenza di norma che le prevedano. Esiste, tuttavia, la possibilità di sdrammatizzare la questione, quantomeno dal punto di vista sostanziale. L’affermazione circa il carattere di presunzione legale relativa (e inversione dell’onere della prova) in tutte queste ipotesi concerne, a quanto risulta dalle motivazioni, fattispecie nelle quali l’illazione dell’Ufficio è comunque ragionevole (e quindi potrebbe valere come presunzione semplice). Il riferimento alla presunzione legale, per quanto espresso, non sorregge quindi necessariamente la decisione: questa parte delle motivazioni si presta a una “reinterpretazione” che le riporti a fondamenti condivisibili: se il ragionamento dell’Ufficio vale in realtà come convincente presunzione semplice, il riferimento alla presunzione legale potrebbe essere, in realtà, una scorciatoia motivazionale (più facile riferirsi al valore legale della presunzione che motivare sulla ragionevolezza dell’induzione: nel primo caso basta una clausola di stile “si tratta di presunzione legale”, nel secondo occorrerebbe una motivazione distesa). Se è così, il riferimento alla prova contraria serve a sottolineare che, senza i dati ulteriori che solo il contribuente può offrire, la prova (della SO, della distribuzione degli utili, ecc.) può dirsi raggiunta. In questa prospettiva non di presunzione legale e prova contraria si tratterebbe, nella sostanza, ma di prova sufficiente in base al contesto (la presunzione semplice dell’Ufficio) e di controprova fondata su allegazioni ulteriori (da parte del contribuente). Molto cambia tra le due configurazioni, formalmente, ma molto meno, in pratica, rispetto al caso concreto: l’accertamento resta fondato se il contribuente non offre elementi ulteriori cui l’Ufficio non può giungere. La distinzione tra l’ipotesi della presunzione legale e quella semplice, poi, per quanto sottile, è tutt’altro che insignificante, e, se ci si sposta sul piano generale, parecchio dannosa, atteso che eleva a regola probatoria quella che è una semplice illazione propria del caso concreto esaminato. La corretta ricostruzione, in termini di ragionevolezza e buon senso empirico, del fenomeno delle presunzioni è tutt’altro che insignificante, visto che è il corretto presupposto per elaborare le strategie di difesa del contribuente (oltre che attuare un prelievo tributario giusto). Il fondamentale punto di attacco, per il contribuente, è evidentemente la attendibilità della presunzione. Si può in proposito anche parlare di “prova contraria”, ma, ove si utilizzi tale sintagma, deve tenersi ben presente che non si tratta di una attività cui la parte è legalmente onerata, senza la quale, per diretta norma di legge, ella sarebbe soccombente sull’accertamento del singolo fatto, ma nel senso più vago di “argomentazione contraria a quella

6 Ex plurimis, Cass. civ. Sez. V, Sent., 29-05-2013, n. 13294.

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formulata dall’Ufficio”. La differenza tra la prova contraria alle presunzioni legali e questa attività difensiva può non essere immediatamente evidente. E, infatti, nelle motivazioni degli accertamenti e delle sentenze essa è sistematicamente trascurata. Essa però è importante, in pratica. In effetti, tutte le volte che la presunzione semplice dell’Ufficio sia a tutta prima plausibile, in un certo senso la contraria argomentazione del contribuente può apparire “necessaria”, così come quella della parte onerata da una inversione dell’onere della prova in senso stretto (se essa non “vince” la presunzione legale, perde il ricorso). Da altro punto di vista le due situazioni (presunzioni semplici o legali) potrebbero sembrare simili anche per un motivo inverso. Una necessità di offerta di prova contraria da parte del contribuente, a ben vedere, in termini rigorosamente giuridici, non esiste, in via assoluta, neppure nel caso di presunzione legale: ben potrebbe, a stretto diritto, il giudice ritenere superata la presunzione legale (e, a maggior ragione, quella semplice), sulla base di una opposta presunzione semplice valorizzata d’ufficio dal giudice medesimo. Giunti fin qui si potrebbe dire: presunzioni semplici ragionevoli e presunzioni legali sono equivalenti: di regola o il contribuente offre una prova contraria o perde il ricorso. Eccezionalmente, sia nell'uno come nell'altro caso, la prova contraria potrebbe essere trovata dal giudice in una presunzione semplice che il giudice attiva senza sollecitazioni delle parti (esempio: si presumono certi ricavi sulla base dell'andamento del commercio in un certo settore economico, ma dagli atti il contribuente risulta essere stato malato: il giudice ben potrebbe, anche d'ufficio, dalla malattia (purché essa sia stata allegata agli atti e sia provata o non contestata) desumere un più basso livello di ricavi, sia che essi fossero stati presunti per legge o solo in via di ragionamento). L'equivalenza tra le due situazioni, però, è solo apparente e questo è un profilo, pratico, che spesso sfugge. L'illazione contenuta nella presunzione semplice potrebbe aver convinto l'Ufficio ma potrebbe benissimo non convincere il giudice: se si tratta di presunzione semplice ciò può avvenire, anche senza che sia offerta una prova contraria e anche se non sia contestata dal contribuente. Il giudice potrebbe non ritenere sussistente la SO, perché non è convinto dal ragionamento dell’Ufficio, indipendentemente dal fatto che il contribuente abbia offerto elementi ulteriori. Se, invece, si tratta di presunzione legale, l'illazione vincola il giudice, e può essere vinta solo dalla prova contraria. Le chances difensive del contribuente sono più ampie nel caso di presunzioni semplici: esse devono convincere anche il giudice( che deve verificare se il ragionamento che le sostiene la conclusione della esistenza della SO sia ragionevole, anche senza prove contrarie) e il contribuente può contestarle (senza averne l'onere, si ribadisce) anche senza fornire prove contrarie (solo contrapponendo argomenti che dimostrino che il ragionamento non regge, in quanto illogico o implausibile, in sé). La difesa del contribuente contro le presunzioni semplici non passa quindi propriamente attraverso una prova contraria, sia nel senso che essa non è un oggetto di un onere, sia nel senso che a volte essa non è neppure una prova, ma solo una argomentazione che contrasta la prova (non è necessario allegare dei fatti, può bastare sostenere che il ragionamento non è plausibile).

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Il contribuente può, quindi, difendersi da un accertamento fondato su una presunzione semplice (in materia di SO, o in qualsiasi altra materia) facendo, essenzialmente, tre cose (cumulativamente o alternativamente):a) contestare che il ragionamento presuntivo operato sia plausibile in sé;b) contestare che i fattori del contesto conoscitivo assunti dall'Ufficio come base della presunzione (fatto noto) sussistessero nell’assetto allegato dall’Ufficio, contestando la plausibilità della relativa prova, in sé;c) allegare e provare nuovi elementi del contesto incompatibili o con il fatto noto della presunzione o con il suo risultato7. La vicenda probatoria, invece, assume una scansione simile a una partita di tennis: l'Ufficio “serve” con l'avviso di accertamento, il giudice verifica, in

7 Il contribuente può, ad esempio, contestare che, in un esercizio di ristorazione, al numero x di tovaglioli mandati in lavanderia (rilevato a posteriori e a campione dall'Ufficio) corrisponda la cifra y di ricavi. Per giungere a questo risultato il contribuente può seguire diverse strategie argomentative. Nell'ambito del tipo a) sopra descritto egli potrebbe contestare, in generale, che possa esistere una relazione tra tovaglioli e ricavi. Oppure, nel quadro delle argomentazioni di cui al tipo b) e con maggiore plausibilità, potrebbe contestare la prova del numero di tovaglioli (ad esempio, ove l'Ufficio avesse rilevato il numero di tovaglioli in un certo giorno, contestare che tale dato potesse costituire prova del numero di tovaglioli globale). Oppure ancora, allegando e provando fatti ulteriori: o incompatibili con il fatto noto (ad esempio provare che il ristorante è stato chiuso per sei mesi e quindi la proiezione del numero di tovaglioli giornalieri su base annua è infondata), o con il fatto presunto (ad esempio, producendo le distinte dei versamenti sul conto corrente bancario, che presentino ricavi congrui con la presunzione ricavabile dal numero di tovaglioli nei giorni in cui tale valore sia stato rilevato, maggiore in alcuni altri e inferiori in moltissimi altri giorni: ciò rende non implausibile che i versamenti siano una rappresentazione dei ricavi più fedele che non la presunzione). Si tratta, ovviamente, di semplici esemplificazioni: egli potrebbe incidere su quelli che abbiamo definito i parametri del contesto conoscitivo anche in altri modi (ad esempio dimostrando la regolarità delle scritture, la sua diligenza, ecc.). Oppure, e ancora, può indicare altri fattori (restando all’esempio della ristorazione, allegare e dimostrare una diversa dinamica dei prezzi nel locale – per ragioni personali o di politica individuale dei prezzi – o nella zona – per ragioni di assottigliamento del passaggio di clientela nel quartiere e simili). Coerente con le premesse poste fino qui è poi che anche per tale eventuale prova contraria del contribuente è richiesto uno standard di attendibilità variabile in relazione al contesto. Solo nelle ipotesi di cui al tipo c) dello schema il contribuente, eventualmente, allega delle prove. In nessuno dei tre casi, propriamente, assolve l'onere di una prova contraria in senso tecnico. Ciò è contraddetto dalle ricorrenti massime della giurisprudenza, secondo la quale, offerta la prova di una certa circostanza, spetterebbe al contribuente, in forza di un onere in senso tecnico, provare il contrario (cfr Cass. civ., sez. trib., 12 aprile 2010, n. 8691). Questo inquadramento concettuale operato dalla giurisprudenza, inteso alla lettera, coglierebbe solo una parte delle possibili difese (trascurando la possibile contestazione della plausibilità in sé della presunzione) e sembrerebbe non inquadrarla correttamente, evocando la figura dell'onere.

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contraddittorio con il contribuente, se l'argomentazione pubblica è “stata nelle linee” (le prove dell'Ufficio sono sufficienti in base al contesto) e, se così è, il contribuente che intenda sottrarsi alla soccombenza, di regola, deve rimandare la palla nel campo avverso con nuove prove contrapposte. Non c'è un inversione dell'onere della prova in senso proprio e un onere di prova contraria perché il giudice deve valutare se, rimanendo nella metafora, la “battuta” del Fisco era “in campo” (eventualmente ma non necessariamente alla luce delle contestazioni del contribuente). Nel caso di inversione dell'onere della prova, per proseguire nella metafora è come se il gioco cominciasse con il contribuente chiamato a servire con il Fisco in vantaggio e con il match ball a disposizione. Se il servizio del contribuente non è in campo (convince il giudice) la partita è persa (e lo è anche se il Fisco risponde vittoriosamente). Resta da riflettere sul perché un orientamento assolutamente consolidato della giurisprudenza prediliga invece l'inquadramento nell'onere della prova contraria, anche in casi concernenti la prova della SO (si vedrà ad esempio più avanti a proposito della apertura di partita IVA). Come già accennato sopra, tale fenomeno ha probabilmente una sua spiegazione nella tecnica motivazionale. Assunto che l'illazione dell'Ufficio venga percepita come ragionevole e plausibile in base al contesto, risulta più agevole motivare con il sintetico richiamo all'esistenza di un onere contrario, non assolto, da parte del contribuente, che non diffondersi sulle ragioni per cui la prova è da considerarsi raggiunta. Se quanto precede è corretto, l'argomento ”se il contribuente non assolve l'onere di prova contraria la circostanza deve ritenersi provata” andrebbe, più propriamente, inteso come segue: “in base agli elementi acquisiti dall'Ufficio sulla base di una istruttoria sufficiente la circostanza è da considerarsi provata: poiché le argomentazioni del contribuente non risultano convincenti e non risultano agli atti né vengono offerti e provati dal contribuente altri fatti incompatibili, l'accertamento è da considerarsi fondato”.

4 La stabile organizzazione come struttura di fatto: corollari procedimentali.

Tanto premesso, risulta evidente che la SO è un elemento di fatto e che, come tale ricade nella disciplina procedimentale e processuale propria dei fatti. L’affermazione che precede non comporta, ovviamente, che la nozione di stabile organizzazione sia indifferente alla disciplina giuridica: il fatto SO giuridicamente rilevante è solo quello preso in considerazione dalle norme giuridiche e da queste inquadrato nella nozione giuridica di SO, come sopra si diceva. Per altro verso, la sussistenza di una SO può ben dipendere da rapporti giuridici (ad esempio, dal tipo di contratti che la struttura è incaricata di concludere o amministrare). Ma né l’uno né l’altro fattore impediscono la conclusione che la stabile organizzazione (come definita dalle norme) è una entità (eventualmente

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consistente o collegata a strutture, atti o negozi giuridici) che viene in considerazione come oggetto di una disciplina giuridica, come presupposto di effetti giuridici. Detto in altri termini, essa è un fatto giuridico. Da ciò scaturisce una notevole serie di conseguenze. Per esempio, che, una volta stabilito in cosa consista la nozione giuridica di SO (che è un profilo di diritto), ove la esistenza, consistenza o inesistenza della stabile organizzazione è presupposta da un provvedimento, essa rientra nella area dei presupposti di fatto che sono contenuto indefettibile della motivazione (ad es. art. 42 d.p.r. 600/1973) (54 d.p.r. 633/1972, art. 7 Statuto del Contribuente) . Allo stesso modo, la sussistenza della stabile organizzazione, una volta risolto il problema, di diritto, di quale sia l’area della relativa nozione (problema di diritto) costituisce oggetto del giudizio del fatto, anche davanti agli organi giurisdizionali8. Con la conseguenza che, ove si contesti il cattivo inquadramento del concetto giuridico di SO, si solleva un problema di diritto (azionabile nel quadro dell’art. 3 dell’art. 360 c.p.c., nel giudizio di cassazione). Mentre, ove si controverta della sussistenza, nella realtà fenomenica, degli elementi che concretizzano la SO, si hanno questioni attinenti la prova e la motivazione in fatto, apprezzabili senza limiti nei gradi di merito, ma suscettibili di esame in grado di cassazione solo nei limiti della ipotesi, radicale, di “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti” (art. 360, n. 5, c.p.c.) o, se si ritiene tuttora applicabile al giudizio tributario di cassazione il regime previgente: per vizio di motivazione.

5 (segue) Prova e motivazione: una relazione difficile, tra economicità dell’azione amministrativa e garanzie.

L’oggetto delle presenti riflessioni è limitato ai profili concernenti la prova e, quindi, lo strumento che consente di convincere circa l’esistenza dei fatti e il relativo onere (la regola di giudizio da adottare quando la prova del fatto non sia raggiunta). Può essere tuttavia utile, e di un certo interesse, soffermarsi brevemente sulla connessa questione del rapporto con la motivazione, sia per ragioni di nitore concettuale, sia per la rilevanza pratica della questione. Sotto il primo aspetto, vi è stato chi ha autorevolmente e opportunamente rilevato come, in particolare rispetto alla SO, l’area della motivazione e della prova sarebbero concettualmente non sempre facili da distinguere9. In effetti,

8 Orientamento pacifico e consolidato nella giurisprudenza ad es. Cass., Sez. I civ., 19 settembre 1990, n. 9580, secondo cui "accertare se sussista una stabile organizzazione [...] è compito del giudice di merito, che dal convincimento raggiunto deve dare conto con corretta ed esauriente motivazione". 9 Così, Cerrato, Considerazioni in tema di stabile organizzazione ai fini dell'Iva e delle imposte sui redditi, in "Giur. it.", 1998, 829 s. Della Valle, La nozione di stabile organizzazione nel nuovo Tuir, in Rass. trib. 2004, 5, 1597 ss, in particolare al §9, osserva che “Con riferimento alla figura in oggetto, infatti, allorquando viene in

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la prova è lo strumento che serve a convincersi della esistenza del fatto, la motivazione è il discorso che esprime il fondamento dell’atto. La motivazione, in senso proprio e giuridico, è il discorso giustificatorio, è un contenuto del provvedimento, quella parte che serve a dare conto delle ragioni della decisione: essa è una porzione dell'atto. La prova invece attiene, strumentalmente, alla formazione del convincimento circa l'esistenza del fatto, cui le norme debbono applicarsi. Sia che prova si intenda nel senso di strumento di convincimento (con terminologia anglosassone, evidence) sia che essa si intenda nel senso di ragionamento probatorio, operazione del convincersi (con terminologia anglosassone, proof) è del tutto evidente che si tratta di cosa ben distinta dalla motivazione: non solo la motivazione non si esaurisce ai profili di fatto, ma essa viene dopo: una cosa è per l'Ufficio raccogliere gli elementi di convincimento e convincersi (istruttoria e prova), a priori, un'altra è spiegare le ragioni del provvedimento (motivazione), ex post. Si tratta, quindi, di due cose diverse sia per natura che per portata. La motivazione è il discorso che esprime il fondamento del provvedimento. La prova è lo strumento che serve ad accertare se esiste in concreto il presupposto di fatto (documento, presunzione, testimonianza, ecc.). Entrambi sono collegati al fondamento dell’atto, ma la motivazione è il discorso che descrive il fondamento, la prova è lo strumento che consente di accertare che sussiste il fondamento di fatto. Sotto il profilo della portata, la motivazione comprende le ragioni giuridiche e quelle di fatto. La prova riguarda solo il fatto. Detto in altri termini, la distinzione sul piano concettuale permane, a nostro avviso, chiara. Ciò conduce poi all’altro profilo della questione, quello pratico, che corrisponde all’interrogativo se, attesa la differenza tra motivazione e prova, la prova debba essere enunciata nella motivazione. La questione si presta ad essere affrontata in termini di principio e sul piano della esegesi delle singole norme. Sul piano del principio, la questione è se la funzione della motivazione (controllo “sociale” della attività della Amministrazione Finanziaria, da un lato, e tutela del contribuente) sia adeguatamente assolta anche se non siano indicate le prove a fondamento del provvedimento. Entro certi limiti si tratta di un giudizio di valore, quantitativo, opinabile. Si potrebbe anche ritenere che il contribuente sia sufficientemente tutelato dal conoscere, prima del

considerazione ai fini della tassazione in Italia di un soggetto non residente, deve rilevarsi come l'assenza di elementi probatori comporti automaticamente anche l'insufficienza della motivazione. Ciò in quanto la nozione di stabile organizzazione, come si è visto, risulta imperniata su elementi, oggettivi (esempio: base fissa, cantiere, eccetera), soggettivi (esempio: la qualifica di imprenditore del soggetto cui fa capo la stabile organizzazione) e funzionali (esempio: la strumentalità della sede fissa d'affari), molto puntuali sicché la motivazione si compenetra con gli stessi elementi probatori necessari per la dimostrazione dell'esistenza della stabile organizzazione

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giudizio, solo il cosa della pretesa e i fatti e le norme su cui essa si fonda, ma non il come quei fatti sono stati accertati. E che la questione del come possa essere sceverata e affrontata solo nel giudizio, essendo solo nel giudizio l'Ufficio tenuto a scoprire le sue carte. Tale soluzione appare del tutto insoddisfacente. L'Amministrazione Finanziaria dispone di rilevanti e invasivi poteri istruttori, finalizzati alla ricerca della materia imponibile: ritenere che possa omettere di darne conto nel provvedimento di accertamento significa affermare che il contribuente deve valutare al buio, rispetto a tali elementi, se procedere o meno alla impugnazione. È ben vero che, posto che a) egli conosce il contenuto della pretesa; b) egli conosce i fatti su cui la pretesa si fonda; c) l'onere di provare la pretesa in giudizio spetta comunque all'Ufficio, il sacrificio delle sue ragioni è limitato. Da un lato, gli vengono contestati fatti che lo concernono e che, proprio per questo, egli conosce o può conoscere (egli, almeno di noma, sa se il reddito effettivo è quello attribuitogli, egli sa se il fatto ascrittogli, esempio, i ricavi accertati, sussiste o meno) e su cui sa difendersi. Dall'altro, egli non ha l'onere di provare il contrario di quanto affermato dall'Ufficio, ma, al contrario, è l'Ufficio a dover provare la sua pretesa. Ciò non ostante, ritenere che la motivazione non debba contenere l'indicazione delle prove (salvi i chiarimenti su cui tra poco) non convince. Ciò corrisponde all'idea che il procedimento amministrativo non debba essere trasparente quanto alla indicazione delle prove. Considerato che, quantitativamente, la maggior parte delle questioni che sorgono da un accertamento tributario concernono il quanto della ricchezza accertata, e, all'interno di questo tipo di questioni, la porzione più rilevante concerne la prova di tale ricchezza, ritenere che la motivazione possa omettere il riferimento alla prova implica affermare che il provvedimento amministrativo può rimanere opaco su questioni fondamentali. Se il giudizio sui necessari contenuti della motivazione è un giudizio relativo che si regge su considerazioni quantitative, appare necessario affermare che la motivazione deve dare conto anche delle prove. Altrimenti essa non consente il controllo, nella fase pregiurisdizionale, di una porzione rilevantissima della attività della Pubblica Amministrazione. Tale conclusione appare in radicale contrasto con il valore del giusto procedimento, che è anche procedimento trasparente, quanto meno nel suo esito10, ritenuto ormai applicabile anche al procedimento amministrativo tributario11. Tale affermazione sarebbe abnorme in diritto , sotto diversi profili, in modo talmente evidente da non richiedere una lunga argomentazione. Intanto, l’Amministrazione Finanziaria dispone di rilevantissimi poteri istruttori (artt. 32 ss. d.p.r. 600/1973 e 51 ss. d.p.r. 633/1972): se l’assunto della sentenza significa che essa può emettere atti senza svolgere attività istruttoria ed esercitare i poteri/doveri istruttori che le sono attributi, sarebbe 10 Può apparire invece giustificata l'opacità del procedimento nelle fasi preparatorie, e su questo si fonda l'esclusione dei procedimenti tributari dalle regole sull'accesso agli atti, nel corso della procedura, e soltanto durante essa. Si veda l'art. 24 l. 241/1990 e in tema Cons. Stato, Sezione IV, Sent. n. 53 del 13 gennaio 2010. 11 Cassazione, SS. UU., 18 dicembre 2009, n. 26635.

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macroscopicamente violato l’art. 97 Cost.: l’Amministrazione potrebbe emettere provvedimenti non supportati dalla verifica della situazione di fatto, salvo poi verificarsi in concreto se essi siano fondati o meno. Ciò sarebbe l’esatto opposto dell’obbligo di imparzialità, costituzionalmente imposto, che richiede che ogni provvedimento sia emesso solo a seguito di una completa e oggettiva acquisizione dei fatti e degli interessi coinvolti. Quelli istruttori sono poteri nei confronti dei contribuenti, ma sono doveri per l’Amministrazione. Che un provvedimento emanato senza istruttoria possa essere legittimo è affermazione contraria ai fondamenti del diritto amministrativo, prima che tributario. Ma questa impostazione sarebbe palesemente abnorme anche se avesse voluto intendere che l’Amministrazione deve svolgere una istruttoria, ma può tenerla segreta fino davanti al giudizio. Ciò sarebbe una violazione talmente macroscopica degli art. 113 e 24 Cost. da non richiedere alcun approfondimento. Il contribuente, non potendo conoscere le prove a disposizione della Amministrazione, sarebbe sempre costretto alla scelta tra a) non impugnare, non difendendosi oppure b) impugnare “al buio”, non conoscendo le fonti di convincimento. Come possa ritenersi tutelato il diritto del contribuente di valutare e determinare se e come esercitare il suo diritto di difesa in sede giurisdizionale se le prove fossero segrete non è dato sapere. La segretezza della prova non è solo non prevista da nessuna norma, ma palesemente contraria ai principi. A contrario, del resto, è da osservare che non si comprende quale valore tutelerebbe l'opinione opposta. Il sacrificio delle ragioni di controllo (pubblico e nell'interesse del diritto di difesa del contribuente) che consegue a ritenere non dovuta la motivazione sulle prove non pare giustificato da nessun valore significativo12, se non una lettura formalistica delle norme. Valore significativo non è certo la sinteticità del provvedimento. Si noti, del resto, che, se il valore fosse quello della speditezza, innanzitutto, l'indicazione delle prove non comporterebbe un significativo allungamento dei tempi, trattandosi della indicazione, nel corpo del provvedimento, di dati e circostanze già tutti noti all'Ufficio (non si avrebbe cioè l'aggiunta di alcuna fase processuale ulteriore). Non solo, ma risultando già dal provvedimento il fondamento probatorio della pretesa, non sarebbe più necessaria analoga discovery in sede processuale. La (lieve) maggiore complessità dell'accertamento è compensata da minori oneri in sede processuale (visto che le prove sono già state rivelate) e il bilancio si fa nettamente favorevole alla discovery anticipata se si considerano i vantaggi in termini di trasparenza e di concentrazione per le scelte difensive del contribuente. Ciò posto, sul piano generale, va detto che, sul piano delle disposizioni espresse, non esiste problema quanto alla materia dell'IVA, posto che l'art. 56 d.p.r. n. 633/1972 espressamente menziona gli elementi probatori, come

12 A differenza della esclusione dall'applicazione delle norme sugli accessi agli atti durante il procedimento: esso, evidentemente, si giustifica con ragioni di cautela: se il contribuente conoscesse le indagini del Fisco potrebbe sottrarre agevolmente la materia imponibile.

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contenuto della motivazione, quanto meno nei casi di accertamento di cui all'art. 54. Indubbiamente, questo elemento letterale ha il suo peso nella costruzione di argomentazioni giuridiche. E non è un caso che la giurisprudenza tenda ad escludere che la prova debba essere menzionata nella motivazione, con riguardo alle imposte sui redditi13, mentre lo ammette, giocoforza, rispetto agli accertamenti dell'IVA14. Per quanto tale orientamento sia proprio della Corte di Cassazione, sussistono, secondo le considerazioni viste sopra, ampi e convincenti motivi per il suo superamento, e ciò costituisce certamente un tema di tendenza nella materia tributaria15. Agli argomenti portati sopra, già di per sé cogenti, può anche aggiungersi, ad abundantiam, che non si comprenderebbero le ragioni per cui tale garanzia dovrebbe applicarsi poi, sulla base del dato letterale, alla sola IVA (o ai soli accertamenti analitici dell'IVA): visti i valori in gioco e la sostanziale equivalenza delle situazioni, tale impostazione aggiungerebbe al chiaro vizio di violazione dei principi del giusto procedimento e della difesa del contribuente, anche una radicale violazione del principio di uguaglianza. Affermato che l'indicazione delle prove dell'accertamento deve essere, non ostante le timidezze della giurisprudenza della Cassazione, un contenuto della sua motivazione, resta ancora da stabilire se esso si estenda alla sola indicazione degli elementi probatori (indicazione degli strumenti di convincimento, della evidence) o comprenda anche la necessaria esposizione del ragionamento probatorio (esposizione della proof). Non vi è dubbio che la garanzia più piena sarebbe garantita dalla seconda interpretazione. Del resto, rispetto alla motivazione delle sentenze, è del tutto pacifico che la motivazione debba comprendere anche il ragionamento probatorio16. Il fatto che la giurisprudenza muova, storicamente, dall'assunto, diametralmente opposto, che configura l'avviso di accertamento come una mera provocatio ad opponendum, un atto cioè finalizzato a provocare l'eventuale instaurazione della lite, con baricentro della procedura nella fase giurisdizionale17, rende

13 Orientamento consolidato: Cassazione, Sezione tributaria, 5 agosto 2002, n. 11669; Cassazione, Sezione tributaria, 17 novembre 2001, n. 15914; Cassazione, Sezione tributaria, 11 agosto 2000, n. 10052; Id., 27 ottobre 2000, n. 14200. 14 Cassazione, Sezione I, 2 novembre 1992, n. 11879; Commiss. Trib. Centr. Sezione XXIII, 15 gennaio 2003, n. 153; Comm. Trib. Prov. Salerno Sezione XIV, 30 ottobre 1996, n. 2143, in GT Riv. Giur. Trib., 1997, 884, nota di STESURI; Commiss. Trib. Centr., 10 dicembre 1986, n. 9493, in Riv. Leg. Fiscale, 1987, 1187. 15 Nel senso di cui al testo: Comm. Trib. Prov. Milano Sezione XXXIV, 10 maggio 1999, n. 263, in Boll. Trib., 2000, 539 nota di ROSA. 16 Non sarebbe certamente adeguatamente motivata la sentenza che ritenesse la responsabilità dell'omicidio limitandosi ad affermare che la prova “si ricava dalla testimonianza di Tizio”. 17 Secondo Cassazione, Sezione tributaria, 22 agosto 2002, n. 12394 il provvedimento di accertamento addirittura, non costituirebbe una decisione né sarebbe emesso sulla base di un apprezzamento critico di fatti noti ad entrambe le parti ma sarebbe solo l'estrinsecazione di una pretesa con un atto dai contenuti necessari e sufficienti per il contribuente a decidere se resistere, impugnando. Cassazione, Sezione tributaria, 11

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prevedibile che, almeno in una prima fase, sia più agevole ottenere sentenze che riconoscano il diritto di difesa nella dimensione più ristretta, come onere di motivare indicando (almeno) le fonti di prova18. Tali considerazioni hanno poi una peculiare importanza rispetto alla materia degli accertamenti presuntivi, che sono assolutamente fondamentali in materia di prova della SO: ammesso che debba motivarsi sulla prova, in essi deve indicarsi solo il fatto noto o anche la traiettoria che da esso fa presumere il fatto da provare? Il quesito corrisponde, almeno parzialmente, a quello appena proposto: non vi è dubbio che ritenere l'Ufficio onerato di svolgere distesamente il ragionamento garantisca la piena tutela. Si pensi ad esempio a un accertamento fondato su percentuali di ricarico: ritenere sufficiente l'indicazione delle fonti di prova significa che è necessaria solo l'indicazione dell'ammontare del venduto, della percentuale di ricarico e di tutti i dati utilizzati, o anche la spiegazione dei criteri e ragionamenti praticati? Le considerazioni svolte sopra potrebbero portare la giurisprudenza a ritenere sufficiente l'indicazione del fatto noto, tenuto anche conto del fatto che, quando si tratta di presunzioni, il collegamento tra esso e il fatto da provare dovrebbe essere rappresentato da massime di buon senso, di esperienza, patrimonio condiviso che potrebbe ritenersi non necessario esplicitare. Tale soluzione è espressamente prevista per l'IVA dal comma 2 dell'art. 56, che prevede l'indicazione del fatto noto. La giurisprudenza ha ritenuto che, nel caso di accertamenti standardizzati, sarebbe sufficiente l'indicazione nel provvedimento del parametro utilizzato19. Va tuttavia segnalato, specie nella giurisprudenza di merito, un assai lodevole orientamento più restrittivo, che talora è affiorato nella giurisprudenza e meriterebbe di essere ripreso, e che ritiene che tutto il percorso indiziario, sia pure, sinteticamente espresso, debba essere già contenuto nel provvedimento dell’Ufficio 20.

agosto 2000, n. 10052. Si tratta di orientamenti che non appaiono in linea con l'attuale evoluzione del procedimento tributario. 18 Comm. Trib. Prov. Salerno Sezione XIV, 30 ottobre 1996, n. 2143, in GT Riv. Giur. Trib., 1997, 884, nota di STESURI. 19 Cassazione, Sezione tributaria, 4 novembre 2008, n. 26458. In questi casi, peraltro, il fondamento di buon senso della presunzione è rafforzato dal fatto che si tratta di elaborazioni standardizzate e quindi la conclusione potrebbe non essere esportata automaticamente alle presunzioni operate volta per volta. 20 Così, CT regionale della Lombardia con sentenza 16 dicembre 1999 - 24 marzo 2000, citata nella motivazione di Cass. civ. Sez. V, 06-12-2002, n. 17373: “pur potendo avvalersi di presunzioni, anche semplici, senza ricorrere all'accertamento in via diretta, sulla base delle dichiarazioni e dell'esame dei registri previsti dagliarticoli 23, 24 e 25 d.P.R. n. 633/72, l'ufficio non può prescindere dall'enunciazione del collegamento logico che intende trarre dai fatti storici per evidenziare la sottrazione al pagamento dell'imposta. Pertanto il riferimento generico ad un indistinto contenitore di dati, pur se costituito da un processo verbale di constatazione, non è idoneo a realizzare una motivazione dell'accertamento conforme al dettato dell'art. 56”. In tema, Basilavecchia, Funzione impositiva e forme di tutela, Torino, 2013, passim. Per l’orientamento – assai criticabile - più conservatore e da

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6 La stabile organizzazione come struttura di fatto: corollari processuali, l’onere di allegazione.

Spostandosi dal campo della fase amministrativa alla fase giurisdizionale, vanno tratti gli ulteriori corollari della premessa che abbiamo posto in generale. Se la sussistenza della SO è una questione di fatto, essa ricade nella disciplina dei fatti anche nella dimensione processuale. Ciò significa, in primo luogo, che la sussistenza (o insussistenza, o consistenza21), nella realtà fenomenica, è, in primo luogo, oggetto dell’onere di allegazione. Con questa espressione si intende, come noto, la regola secondo la quale il giudice può prendere a base della decisione solo fatti che hanno fatto ingresso nel processo perché affermati dalle parti. Come nel caso dell’onere della prova, non si tratta di un onere in senso stretto, ma di una regola sul giudizio: non importa che il fatto faccia ingresso nel processo per iniziativa della parte che se ne giova, ma solo che il fatto sia stato allegato dalle parti e quindi sia acquisito al processo22. La regola dell’onere di allegazione si rovescia nella regola secondo il quale il giudice non può introdurre nel processo fatti di sua iniziativa, perché ciò comporterebbe una lesione del suo dovere di imparzialità23.

ritenere meritevole di illuminato superamento, si può vedere invece Cass. civ. Sez. V, Sent., 09-10-2009, n. 21446. 21 D’ora inanzi con “sussistenza della SO” intenderemo, riassuntivamente ogni profilo di fatto concernente la SO: in effetti ai fini dell’effetto giuridico possono rilevare la sussistenza o l’insussistenza o l’anche l’area di attività riportabile alla SO (per la tassazione o il riconoscimento del diritto al rimborso, o la determinazione della relativa misura) 22 Sul principio di acquisizione processuale, comune a fatti e prove, si veda ad es. Cass. civ. Sez. V, Sent., 17 gennaio 2013, n. 1107 23 Il primo problema connesso all’onere di allegazione è il relativo fondamento, a livello di principi. La soluzione adottata a livello di principio aiuta l’interpretazione nei casi dubbi, ove cioè le norme processuali non prevedono una disciplina espressa della materia. Tre possono essere i fondamenti generali posti alla base dell'onere di allegazione. Il primo è dato dalla corrispondenza di tale onere al principio della autonomia privata, della disponibilità dei diritti da parte dei privati (alla base sia del ne procedat iudex ex officio, sia del ne eat iudex extra petita partium, sia del iudex secundum alligata et probata iudicare debet). (Così la Relazione illustrativa al c.p.c. del Guardasigilli n. 13 cit. in ANDRIOLI, voce Prova, in Noviss. Dig. It., XIV, 277; CARNACINI, Tutela giurisdizionale e tecnica del processo, in Studi in onore di Redenti, II, Milano, 1951, 695 e ss., in particolare 741). Si sostiene, cioè, che la ragione per l'allegazione è la medesima dell'esclusione di un'iniziativa ufficiosa del giudice (Così MANDRIOLI, Corso di diritto processuale civile, I, Torino, 1985 80, 87 e s. Tesi opposta in GLENDI, L'oggetto del processo tributario, Padova 1984, 484). Si può convenire sul fatto che, affermato l'onere di allegazione, sia dato più ampio spazio ai poteri delle parti: il problema sarà dimostrare che ciò è prescritto.

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Le fonti dell’onere di allegazione si trovano, nel codice di procedura civile, negli articoli 112 e 16424. Quanto al contenzioso tributario, una fonte della Il secondo fondamento per l’onere di allegazione, è il principio del contraddittorio, espressamente previsto dal nuovo testo dell’art. 111 Cost., per questa parte applicabile a ogni figura di processo (su ciò, affermando che sia l'unico possibile fondamento dell'onere di allegazione convengono ANDRIOLI, voce Prova, cit., 275 e GLENDI, cit., 484 e 523. ANDRIOLI, op. loc. ult. cit., anzi, ritiene che l'iniziativa del giudice tuteli meglio il privato dalle inefficienze difensive). L'allegazione svolge una funzione di "avvertimento" della controparte, mettendola in condizione di difendersi. Il contraddittorio è contenuto inderogabile del diritto di difesa e, di conseguenza, chi nega l'onere di allegazione, ritiene altrimenti realizzata tale garanzia. Il terzo fondamento per l’onere di allegazione è la imparzialità del giudice (presidiata dagli articoli 101 e 111 Cost.), qualora a questo siano attribuiti dei poteri che ne alterino l'immagine di soggetto inattivo, deputato esclusivamente a rispondere ai quesiti formulati dalle parti. Si osserva che ogni forma di ricerca, di iniziativa, può essere, tendenzialmente, psicologicamente incompatibile col giudicare. In tal senso MONTESANO, Le prove disponibili e d’ufficio e l’imparzialità del giudice civile, in Riv. dir. proc. civ. 1978, 1795 ss.; LIEBMAN , Il fondamento del principio dispositivo in Riv. dir. proc. 1960, 531 e ss. (ove pure l’Autore nega l’esistenza dell’onere di allegazione nel processo civile), e anche, ma con riferimento alle prove, la Relazione al c.p.c. cit., n.14. Anzi, il nuovo testo dell’art. 111 Cost., che ribadisce esplicitamente la necessità di un giudizio imparziale, ha determinato il rinnovo dell’interesse circa la compatibilità con imparzialità della previsione di poteri di iniziativa officiosa del giudice. Talvolta la giurisprudenza ha affermato, incidentalmente, l’illegittimità costituzionale di un tale tipo di poteri. Ad esempio, in materia di responsabilità contabile, si vedano le decisioni Corte Conti, Sezione Giurisdizionale per l’Abruzzo, 29 novembre 2000, n. 114 e Corte Conti, Sezione Giurisdizionale per il Lazio 8 maggio 2001, n. 1897, che si sono occupate della compatibilità con i principi del giusto processo dei poteri inquisitori della Corte dei Conti. 24 Quanto all’articolo 112, esso dispone che "il giudice deve pronunciare su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa; e non può pronunciare d'ufficio su eccezioni, che possono essere proposte soltanto dalle parti". Tale disposizione non è decisiva poiché lascia impregiudicato il problema di stabilire quanto sia ampio il significato della "domanda" cui essa fa riferimento, se essa si limiti, per così dire, al petitum o comprenda la causa petendi, ergo, i fatti allegandi. L’articolo 163, in combinato disposto con l’art. 164 c.p.c., fornisce qualche elemento ulteriore. L’art. 163 disciplina il contenuto della citazione e al n. 4 richiede: "l'esposizione dei fatti... costituenti le ragioni della domanda, con le relative conclusioni". Il testo dell’art. 164 c.p.c. prevede espressamente la nullità della citazione priva di tale requisito. Nel regime ante 1990, e riferendosi alla dottrina “classica” a parte che non era pacifico che la mancata allegazione non comportasse la nullità dell’atto di citazione (MANDRIOLI, Corso di diritto processuale civile, Torino, 1985, II, 27 e 31 e CERINO CANOVA, Dell'introduzione della causa, in Commentario al c.p.c. diretto da ALLORIO, II, I, Torino, 1980, 243), non ostante la mancata menzione di tale causa di nullità (SACCO, Presunzione, natura costitutiva o impeditiva del fatto. Onere della prova, in Riv. dir. civ., 1957, I,, 416), si osservava che, anche ad ammettere la validità dell’atto di citazione, ciò non significava ammettere che il giudice potesse valutare fatti non allegati (Così VERDE, L'onere della prova nel processo civile, Napoli, 1974, 225). A ben vedere, le circostanze fin qui descritte costituiscono argomenti non logicamente decisivi. In effetti, che la citazione debba contenere i fatti a fondamento della domanda non implica che tali fatti (e quelli eventualmente introdotti ritualmente dalle

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affermazione dell’onere di allegazione si ricava usualmente dalla disposizione di cui all’art. 7, comma 1, d. lgs. 546/199225 26.

parti nel corso successivo del giudizio) siano gli unici valutabili dal giudice. Alle norme predette si è aggiunto poi l’art. 183, comma 4, c.p.c., che prevede che “Il Giudice richiede alle parti, sulla base dei fatti allegati, i chiarimenti necessari e indica le questioni rilevabili d'ufficio delle quali ritiene opportuna la trattazione.” Neanche questa disposizione è decisiva, almeno nel senso della cogenza logica. Che il giudice chieda alle parti schiarimenti sulla base dei fatti allegati non significa necessariamente che il giudice non possa tener conto di altri fatti. Interpretazioni della norma compatibili con la negazione dell’onere di allegazione sono quella che le ascriva una portata esemplificativa (o riferita alla enunciazione della situazione normale e fisiologica) o quella che le assegna una portata limitata alla fase iniziale della controversia (quando è ragionevole che il thema che il giudice si rappresenta sia solo quello dei fatti allegati negli atti introduttivi delle parti). In definitiva, la questione mantiene un margine di opinabilità, sul piano della lettera della legge. La tesi circa la introduzione dell’onere di allegazione nel processo civile trova comunque notevole alimento nella disciplina introdotta nel 1990. Per lo sviluppo approfondito di tali profili, si vedano, a livello di primo orientamento, gli scritti di CONSOLO, in Giur.it., 1990, IV, 434; TARUFFO, in Riv.dir. proc. 1992, 296 ss.; CHIARLONI, Prime riflessioni sui valori sottesi alla Novella del processo civile, in Riv. dir. proc. 1991, 659 ss. 25 Su tale norma, TESAURO, La prova nel processo tributario, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2000, 73 ss.; RUSSO, Problemi della prova nel processo tributario, Rass. trib., 2000, 375 ss.; GLENDI, L'istruttoria nel nuovo processo tributario, in Dir. prat. trib., 1996, I, 1117 ss.; COMOGLIO, I poteri istruttori delle commissioni tributarie, Riv. not., 2001, 1279 ss.; FORTUNA, I poteri istruttori della Commissione tributaria, in Riv. dir. trib., 2001, 1039 ss. DEL FEDERICO, Tutela del contribuente e integrazione giuridica europea, ed. provv., Pescara, 2003, 213 e ss., osserva come l’articolo 7 imponga l’onere di allegazione, presidiando il principio di imparzialità e del giusto processo anche nel settore tributario e come la connotazione inquisitoria del processo riemerga solo in via residuale, rispetto alla prova (e alle iniziative esperibili d’ufficio), ivi, 217. 26 Per approfondimento, si osservi che la norma concerne, alla lettera, non i fatti valutabili per decidere ma i fatti su cui il giudice tributario può assumere iniziative istruttorie. La distinzione è sottile, ma esiste. Le due categorie non coincidono necessariamente. In un processo possono darsi fatti non allegati dalle parti, e che non necessitano di essere provati con una iniziativa del giudice. A questi fatti non si applica l’art. 7, che concerne l’attività istruttoria. Né le cose cambiano per il fatto che la norma dell’art. 7 condiziona l’esercizio dei poteri delle commissioni con l’inciso “a fini istruttori”. Tale inciso esclude che i poteri di ricerca delle commissioni possano essere finalizzati a individuare nuovi fatti su cui fondare la decisione, ma non che esse non possano valorizzare fatti già acquisiti al processo (magari risultanti da documenti prodotti dalle parti, ammesso che ciò non implichi una allegazione implicita), ma non formalmente allegati dalle medesime. Ciò per tacere della circostanza, meramente letterale, che l’inciso predetto si riferisce ai “fini” della iniziativa istruttoria, e non ai relativi “risultati”. Indubbiamente, la più ampia categoria di fatti per i quali non occorre iniziativa istruttoria del giudice è quella dei fatti provati dalle parti. Essi tuttavia sono, almeno di norma, fatti allegati dalle medesime e quindi non rilevano nella argomentazione che si sta tracciando: non si tratta di fatti non allegati. Ugualmente, per la categoria dei fatti non contestati: essi non abbisognano di prova, ma, per definizione, sono allegati. A tutta prima potrebbe sembrare più interessante la categoria del fatto notorio: esso

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Ciò significa che i profili di fatto attinenti la SO, come tutti quelli della medesima natura, debbono trovarsi negli atti nei quali le parti del processo hanno l’onere di affermare i fatti a fondamento della loro domanda27. Essi, come noto, sono il provvedimento impugnato (avviso di accertamento, liquidazione, ecc.) per l’Ufficio e il ricorso per il contribuente, senza che siano ammesse integrazioni successive. L’oggetto del giudizio, infatti, è l’annullamento del provvedimento e tale oggetto è segnato dai due limiti, ovvi, dei motivi di impugnazione e, a monte, del fondamento del provvedimento (i fatti e le ragioni giuridiche che esso adduce)28. Si è così osservato che: «il giudice, dal canto suo, deve giudicare la fondatezza della domanda di annullamento, come proposta dal contribuente, con riferimento ad un determinato atto impugnato, avente un determinato contenuto, e con riguardo ai motivi di ricorso dedotti. (…) Il giudice non può insomma

rilevare d’ufficio (facendo la parte dell’amministrazione) una «ragione

giuridica», che non sia stata posta a base dell’avviso di accertamento,

perché ciò significa pronunciarsi su una domanda diversa da quella proposta»29. Conforme è la stessa giurisprudenza della Corte di cassazione, quando esclude che l’area dei fatti valutabili dal giudice possa essere diversa

non abbisogna di prova e, di fatto, può non essere allegato. In dottrina si avverte, tuttavia, che la deroga alle regole generali prevista dall'art. 115, comma 2, c.p.c. concerne solo la necessità della prova: anche il fatto notorio deve essere allegato dalle parti, a meno che non sia un fatto rilevabile d'ufficio, secondo le regole generali, o un fatto secondario. Per approfondimenti, GRASSO, Dei poteri del giudice, in Commentario al c.p.c. diretto da Allorio, Torino 1973, 1306; DE STEFANO, voce Fatto notorio (dir. Priv.), in Enc. Dir. 1008. Ancor più delicata è poi la questione, proprio per quanto attiene il fatto presunto. Esso non abbisogna di una delle prove previste all’art. 7 citato e può non essere stato allegato esplicitamente. Questi casi dimostrano che la norma in rassegna non è, alla lettera, decisiva. Resta da verificare se l’onere non sia comunque imposto dai principi generali esposti sopra. Particolarmente importante è il principio del contraddittorio, rafforzato anche dal tenore innovativo dell’art. 111 Cost. La dottrina avverte in proposito che, nel caso non sia previsto l’onere di allegazione, il giudice, proprio per le esigenze di rispetto del diritto di difesa, dovrebbe analiticamente e necessariamente indicare alle parti i fatti non allegati individuati e non da esse dedotti. Per il regime previgente di cui all’art. 20 d.p.r. 636/1972, si veda GLENDI, L’oggetto, cit., 532. 27 Comm. tributaria regionale della Lombardia, sentenza 16 dicembre 1999 - 24 marzo 2000, citata da Cass. civ. Sez. V, 06-12-2002, n. 17373, così motivata sul noto caso Philip Morris: “pur avendo le commissioni tributarie, ai sensi dell'art. 7 del d. l.vo n. 546/92, un potere ufficioso di conoscenza dei fatti, in sede contenziosa gli atti di accertamento non potevano essere modificati e i poteri cognitivi del giudice sono sempre delimitati dall'art. 112 cod. proc. civ. L'atto di accertamento segna, quindi, un limite al metodo acquisitivo degli elementi di prova, proprio del processo amministrativo”. 28 Muleo, Sulla motivazione dell'accertamento come limite alla materia del contendere nel processo tributario, in Rass. Trib., 1999, 506 ss. 29 Tesauro, Elusione e abuso nel diritto tributario italiano, Relazione al Convegno L’abuso del diritto tra «diritto» e «abuso», Macerata, 29-30 giugno 2012, in Dir. Prat. Trib. 2012, 1, 683 ss. in particolare 701 ss.

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da quella allegata dall’ufficio tributario nel provvedimento impugnato e, dal ricorrente, nell’avanzare i motivi di ricorso. La Corte ha efficacemente affermato che per l’ufficio tributario il provvedimento impugnato tiene il luogo della “domanda” giudiziale30. Tale principio è di rilevantissima importanza non solo per ragioni generali ma anche per ragioni pratiche. Sotto il primo profilo, esso costituisce evidente applicazione dell’articolo 97 della Costituzione. Il principio di imparzialità della pubblica amministrazione implica che essa deve svolgere per le sue funzioni in maniera diligente e accurata: ciò significa che i poteri che vengono attribuiti alla pubblica amministrazione, essendo correlati all’esercizio di una funzione, sono anche dei doveri. L’Amministrazione finanziaria ha il dovere di esercitare in maniera completa, approfondita e zelante i suoi poteri di indagine e istruttori e, solo all’esito del diligente espletamento di tale istruttoria, il potere di emanare l’avviso di accertamento. Correlativamente il contribuente ha diritto di contraddire in sede amministrativa alla contestazione della amministrazione finanziaria che deve essere completa e formata già in quella fase31. A maggior ragione, poi, il contribuente ha il diritto di conoscere, nel momento in cui è posto nelle condizioni di presentare il ricorso, tutte le caratteristiche, contenuti fondamenti della pretesa che viene avanzata contro. Il fondamento della pretesa e la pretesa medesima non possono mutare durante il giudizio, né tantomeno la pretesa o il suo fondamento possono mutare per un’iniziativa del giudice, perché altrimenti sarebbe leso anche l’ulteriore canone dell’imparzialità del giudice, solennemente presidiato dall’art. 111 Cost. Se il giudice si sostituisse a una parte nella ricerca del fondamento della sue ragioni non sarebbe più un giudice equidistante dalle parti. Di tutto ciò è ferma sostenitrice la stessa Corte di cassazione che ha reiteratamente riconosciuto come, in primo luogo il giudice non possa portare a fondamento della decisione fatti non allegati, in secondo luogo come il giudice non possa valutare fatti non allegati tempestivamente nel provvedimento impugnato32 col ricorso.

7 (segue) l’onere di contestazione tra imparzialità e buona fede.

Il secondo corollario, nelle vicende processuali, della natura di fatto della questione di sussistenza della SO, è che essa ricade a pieno titolo nell’oggetto

30 Ex plurimis, Cass., sez. tributaria, 20 aprile 2012, n. 6256. 31 E’ appena di notare, non potendosi sviluppare adeguatamente in questa sede la riflessione sul punto, come sarebbe svuotata la garanzia del contraddittorio procedimentale, se esso potesse svolgersi su una pretesa fondata su fatti completamente diversi da quelli sui quali poi il giudice, in primo, secondo o addirittura solo terzo grado potrà ritenerla poggiata. 32 Cass., sez. tributaria, 3 agosto 2007, n. 17119; Id., 19 marzo 2009, n. 6620; Id., 20 ottobre 2011, n. 21719.

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dell’onere di contestazione33. Esso, come noto, trova fonte nell’art. 115 c.p.c. (“il giudice deve porre a fondamento della decisione (…) i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita”) ed è pacificamente applicabile al processo tributario34. Ne consegue l’ovvio principio secondo il quale se il provvedimento afferma i fatti da cui dipende la sussistenza della SO e il contribuente non contesta specificamente tale assunto, il giudice deve assumere la esistenza della sede fissa di affari e che, viceversa, se nella domanda di rimborso contribuente allega che essa esiste (o non esiste), o l’Ufficio contesta tale affermazione o il punto deve ritenersi acclarato. L’aspetto più interessante della applicazione dell’onere di contestazione al procedimento tributario concerne il quesito se, posto che il processo tributario si innesta in una fase procedimentale amministrativa, sia sufficiente per l’Ufficio la mera contestazione, come a qualsiasi parte privata, o essa debba trovare un qualche fondamento negli esiti della attività amministrativa precedente. Invero la seconda soluzione sembrerebbe più in linea con la particolare natura del processo tributario (che segue e controlla l’esercizio della funzione amministrativa35). Si possono in proposito qui riportare le considerazioni svolte in altra occasione36 a proposito del problema della contestazione di inesistenza delle operazioni sottese alle fatture, qui esportabili. Si potrebbe in effetti ritenere non sufficiente per l’Ufficio una mera contestazione generica e immotivata di non esistenza della operazione passiva, ma occorre che egli faccia una contestazione specifica e argomentata.

33 Nato nel processo del lavoro, esso si è esteso alla generalità dei processi, come riconosciuto dall'art. 115 c.p.c., nel testo risultante dalla l. 18 giugno 2009, n. 69, ai sensi del quale il giudice deve porre a fondamento della decisione i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita. Si v. anche, Cass. Sezione Lavoro n. 25269 del 4 dicembre 2007, Pres. Ciciretti, Rel. De Matteis, riconosce la rilevanza generale (per attore e convenuto) del dovere di contestazione tempestiva e specifica, raccordandolo al principio del giusto processo. (In base all’art. 416 cod. proc. civ., nel processo del lavoro, il convenuto ha l’onere di contestare specificamente i fatti affermati dagli attori. L’onere di contestazione tempestiva riguarda però anche il ricorrente, perché tale onere è desumibile non solo dagli artt. 166 e 416, cod. proc. civ., ma deriva da tutto il sistema processuale come risulta: dal carattere dispositivo del processo, che comporta una struttura dialettica a catena; dal sistema di preclusioni, che comporta per entrambe le parti l’onere di collaborare, fin dalle prime battute processuali, a circoscrivere la materia controversa; dai principi di lealtà e probità posti a carico delle parti e, soprattutto, dal generale principio di economia che deve informare il processo, avuto riguardo al novellato art. 111 Cost. (giusto processo). 34 Ex plurimis, Cass. civ. Sez. V, Sent., 29-12-2011, n. 29923. 35 In tema le illuminanti pagine di Basilavecchia, Funzione impositiva e forme di tutela, Torino, 2013, passim. 36 Marcheselli, Frodi carosello e frodi sui costi: profili procedimentali e processuali tra giusto procedimento e giusto processo, in Giurisprudenza Italiana, 2011, pp. 1221 ss.

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Questo onere di contestazione sarebbe, in questa prospettiva, alquanto interessante. Esso, innanzitutto, costituirebbe uno sviluppo dell’onere di contestazione specifica, ben noto al processo civile. Il punto interessante è che le sentenze in rassegna (e i precedenti) non si arrestano a ritenere sufficiente la specificità della contestazione da parte dell’Ufficio, ma richiedono che essa sia anche argomentata (nel senso di sostenuta da allegazioni probatorie), anche quanto agli elementi di prova. Si tratta di un profilo che non risulta praticato dalla giurisprudenza civilistica, che insiste, semmai, sulla specificità della contestazione (che attiene alla precisa individuazione del fatto, affermato dall’altra parte, che non si condivide) e non sulla allegazione dei mezzi da cui risulterebbe fondata la contestazione medesima. Ciò si comprende per il fatto che il processo civile non presuppone una istruttoria amministrativa e i correlati doveri di diligenza della parte processuale con poteri di supremazia (il Fisco). Si tratta di aspetto di notevole importanza. Questa contestazione argomentata sul piano probatorio, da un lato, rappresenta l’evidente prolungamento in sede processuale dei poteri istruttori della Amministrazione Finanziaria, dall’altro costituirebbe esplicazione, progressiva e innovativa, del principio della buona fede, riconosciuta nella sua dimensione processuale e correlata al principio del giusto processo. Sotto il primo aspetto, infatti, questo orientamento varrebbe a significare che è onere degli uffici attivare sul piano amministrativo una minima istruttoria diligente (dalla quale trarre almeno elementi a sostegno della affermazione di inesistenza o esistenza della SO, quantomeno quando sia emanato un provvedimento amministrativo: di rettifica o di rigetto di rimborso): l’Ufficio, che dispone di poteri istruttori penetranti ed esercita una pubblica funzione orientata alla attuazione dell’art. 53 Cost. Tali poteri differenziano la posizione dell'Ufficio tributario da quella della parte privata: questa è la ragione per la quale la giurisprudenza civilistica, in generale, si arresta alla affermazione dell’onere di contestazione specifica, e non richiede che essa sia argomentata quanto alle fonti di prova. L'Ufficio non potrebbe rimanersene inerte e giovarsi della sola strategia della passiva contestazione, in sede di rettifica prima, e di processo poi. Sotto il secondo aspetto, assisteremmo innanzitutto a una applicazione processuale del principio di buona fede: essa (in senso oggettivo) impone alla parte di attivarsi in modo ragionevole, se ciò evita un pregiudizio irragionevole della controparte. Questo onere di argomentazione rafforzerebbe e moltiplicherebbe la tutela della parte, rispetto alle condotte dell’altra, ben più efficacemente che non la responsabilità per le spese di lite (che in generale è altro strumento con cui sanzionare condotte processuali contrarie alla buona fede). Non solo, ma si tratterebbe anche di una importante specificazione del principio del giusto processo37. In primo luogo, sotto il profilo della

37Per considerazioni analoghe, con riferimento alla esplicazione e alla portata via via più ampia riconosciuta agli oneri di contestazione nel processo del lavoro si veda

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efficienza e della economia, essendo evidente che l’onere di contestazione argomentata riduce di molto il possibile campo delle questioni di fatto da esaminare e, correlativamente, aumenta l’area delle questioni suscettibili di definizione automatica38. In secondo luogo, perché tale principio sarebbe evidentemente correlato proprio con la clausola della buona fede processuale. Buona fede processuale che potrebbe trovare un rafforzamento quando la parte processuale sia un soggetto pubblico esercente una funzione, necessariamente orientata a esigenze e valori di equità (artt. 3 e 53 Cost.). Processo giusto, in questa prospettiva, sarebbe il processo nel quale le parti possono esercitare le loro facoltà solo in modo ragionevole e proporzionato, quando l’alternativa produca esiti irragionevoli e sproporzionati.

8 (segue) Onere della prova, principio dispositivo e prove d’ufficio della stabile organizzazione.

Circa, invece, l’onere della prova, nel senso già precisato di regola di giudizio per il caso incerto, di mancata prova, la conclusione scaturisce piana dalle premesse poste fino qui. Ove la circostanza di fatto relativa alla SO sia fatto costitutivo di un diritto, o essa è provata (se la circostanza, secondo quanto visto sopra è stata a) allegata o comunque acquisita al processo e b) contestata) o il diritto non può essere riconosciuto sussistente. Così, per fare riferimento ai casi più frequentemente esaminati, a) la SO può essere l’elemento di attrazione della imposizione di redditi (o operazioni) in Italia, non assoggettati spontaneamente ad imposizione dal contestato soggetto passivo; b) la insussistenza della SO può essere il fondamento di un preteso pagamento indebito di un tributo, del quale viene richiesto il rimborso; c) la insussistenza della SO all’estero può essere il fondamento per il disconoscimento di un limite all’imposizione, di cui il contribuente ha fruito e che l’Ufficio contesta; d) la sussistenza della SO all’estero può essere il presupposto di un limite all’imposizione che il contribuente pretende, ad esempio nella forma di un credito di imposta, o di rimborso e così via. I principi generali esposti sopra portano a una conclusione piana e agevole: nei casi a) e c) la SO è il fatto costitutivo della pretesa di assoggettamento ad imposizione e, quindi, l’onere grava sulla Amministrazione Finanziaria. Nei casi b) e d) essa è il fatto costitutivo di un diritto a un credito di imposta o a un rimborso, e l’onere grava, in principio, sul contribuente.

V IDIRI. I l principio di non contestazione e la ragionevole durata del processo, in Riv. it. dir. lav. 2006, 1, 55 ss. 38 Non può escludersi che questi profili abbiano un peso rilevante sulla formazione di orientamenti quale quello in esame, attesa la sensibilità attuale per i tempi di decisione del processo, determinata anche dalla l. 24 marzo 2001, n. 89, c.d. Legge Pinto e il fatto che criteri di definizione automatica della lite comportano oltre che tempi più veloci anche più agevoli oneri motivazionali per i giudici .

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Su queste conclusioni vi è un assenso di dottrina39 e giurisprudenza40 Connesso al tema dell’onere della prova è il limite che esclude la possibile attivazione ufficiosa del giudice nella individuazione della prove a fondamento dell’accertamento dei fatti. È il cosiddetto principio dispositivo, che nel codice di procedura civile è immanente all’art. 115, intitolato, Disponibilità delle prove: “ il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti”. Come noto, tale regola è temperata in due direzioni: la prima è la disposizione dell’art. 7 d. lgs. 546/1992, che attribuisce al giudice tributario i poteri istruttori degli uffici: essi però possono essere esercitati, secondo la costante giurisprudenza, solo ai fini di integrare le situazioni nella quale la parte, pienamente diligente quanto all’assolvimento del suo onere probatorio, si trovi nella oggettiva e incolpevole impossibilità di fornire la prova41,

39 Gentilli, L'onere della prova in tema di doppia imposizione, , in Dir. prat. trib., 1986, II, pag. 662; Adonnino, L'individuazione della stabile organizzazione e la prova della sua esistenza, in "Riv. dir. trib.", 1998, pagg. 106 e seguenti, preziosa anche per la individuazione degli elementi (oggettivi, soggettivi e funzionali) oggetto di prova nel caso di stabile organizzazione materiale. In tema si veda anche Pozzo, Requisiti necessari per la sussistenza di una stabile organizzazione di soggetti non residenti, in Riv. giur. trib., 1998, 266, ss. e Pistone, Stabile organizzazione ed esistenza di società figlia residente Dir. prat. trib., 1998, II, pagg. 361 e seguenti. Della Valle, La nozione di stabile organizzazione nel nuovo Tuir, in Rass. trib. 2004, 5, 1597 ss, in particolare al §9, rileva che quando la sussistenza della SO “rileva al fine di legittimare l'attribuzione del potere impositivo allo Stato della fonte (Italia), è l'Amministrazione finanziaria che deve provare l'esistenza di tutti gli elementi e le circostanze di fatto, volta a volta diversi a seconda che venga in rilievo l'una o l'altra ipotesi di stabile organizzazione, su cui si fonda la pretesa esistenza della stessa. Diversamente, ed in particolare ove l'istituto in oggetto venga in considerazione ai fini della disciplina del credito d'imposta sui redditi prodotti all'estero, l'onere medesimo spetta all'impresa che vanta il predetto credito: cosicchè, ad esempio, se il credito d'imposta viene vantato in ragione dell'esistenza all'estero di una stabile organizzazione personale, è l'impresa residente che deve provare di disporre all'estero di un soggetto avente tutti i requisiti di cui ai commi 6 e 7 dell'art. 162. A tale conclusione si perviene ove si consideri il caso del contribuente che vanta un credito d'imposta non molto dissimile da quello del contribuente che assume l'inerenza di un costo o la spettanza di un'agevolazione ovvero, ancora, l'esistenza del diritto al rimborso del tributo erroneamente corrisposto o di un fatto che dà diritto a deduzioni; tutti casi, questi, per i quali la giurisprudenza tributaria risulta assestata nel senso che l'onere della prova (rispettivamente, dell'inerenza, della spettanza dell'agevolazione, del diritto al rimborso e del fatto legittimante la deduzione) spetti al contribuente. 40 In tal senso vd., ad esempio, la giurisprudenza già dai tempi risalenti: Commissione tributaria centrale 9 marzo 1985, n. 2302, in Dir. prat. trib., 1986, II, pag. 662, con nota di G. Gentilli, L'onere della prova in tema di doppia imposizione, Commissione tributaria provinciale Milano, 12 settembre 1997, n. 238, in "Riv. dir. trib.", 1998, IV, pag. 99, ed ivi nota di Adonnino, L'individuazione della stabile organizzazione e la prova della sua esistenza, in "Riv. dir. trib.", 1998, pagg. 106 e seguenti. 41 Cass. civ. Sez. V, 30-05-2005, n. 11485: “Sembra opinione comune tanto in dottrina quanto in giurisprudenza che le commissioni tributarie non possano, mediante l'esercizio dei poteri istruttori ad esse conferiti - in particolare dall'art. 7, D.Lgs. n. 546/1992, cui l'Amministrazione ricorrente si richiama -

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altrimenti ledendosi il principio di imparzialità del giudici e, eventualmente, si è ritenuto, la parità delle armi42. Altro problema, peculiare, concerne il potere di utilizzare d’ufficio prove di tipo presuntivo, che sono assolutamente essenziali nell’accertamento della SO. Tradizionalmente,43 infatti, si ritiene che il giudice sia libero di scegliere, tra i fatti provati (o non bisognosi di prova), quelli idonei a costituire fonte di presunzione e che, altrettanto liberamente, possa desumerne tutti i fatti ignoti a cui lo conduca il suo prudente apprezzamento. Il problema è se, ammessa tale premessa (che si è già visto e si vedrà essere dubbia), in tali casi sia doveroso l'invito al contraddittorio delle parti. Si soggiunge, in una prima impostazione gradata, che il diritto di difesa sarebbe salvaguardato quando è acquisita in contraddittorio almeno la prova del fatto-fonte, oppure questo non è bisognoso di accertamento perché la parte, messa nelle condizioni di contraddire, non lo ha fatto (non contesta-zione), oppure si tratta di fatto notorio.44 Si soggiunge che anche il fatto da

, sostituire integralmente l'onere incombente in via principale sull'Amministrazione di provare i fatti costitutivi della pretesa fiscale (Cass. n. 15214/2000), o acquisire d'ufficio le prove a fronte del mancato assolvimento dell'onere probatorio da parte del contribuente, salvo il caso in cui l'onere probatorio sia impossibile o sommamente difficile da esercitarsi (Cass. n, 1701/2001). In particolare i poteri istruttori non possono essere esercitati dalle commissioni tributarie in forma di supplenza dell'attività dell'amministrazione, supportando, con quei poteri, fatti che di per sè sono sforniti di prova: altrimenti il giudice tributario rischierebbe di trasformarsi in organo attivo dell'amministrazione finanziaria, perdendo irrimediabilmente la sua terzietà.” 42 Cass. civ. Sez. V, 16-05-2005, n. 10267: “va ribadito il principio, reiteratamente affermato da questa sezione (sentenze 27 febbraio 2004 n. 4040, 28 ottobre 2003 n. 16161, 9 maggio 2003 n. 7129, 28 marzo 2003 n. 4713, 13 gennaio 2003 n. 282, 25 maggio 2002 n. 7678, 3 aprile 2002 n. 4776, ex pluribus), secondo il quale a fronte del mancato assolvimento dell'onere probatorio da parte del soggetto onerato il giudice tributario non è tenuto ad acquisire d'ufficio le prove in forza dei poteri istruttori attribuitigli dall'art. 7 del D. Lg.vo n. 546 del 1992 perchè tali poteri (1) sono meramente integrativi (e non esonerativi) dell'onere probatorio principale e (2) vanno esercitati, al fine di dare attuazione al principio costituzionale della parità delle parti nel processo (art. 111, secondo comma, Cost., premesso al precedente primo comma dall'art. 1 della legge costituzionale 23 novembre 1999 n. 2, per cui "ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale"), soltanto (Cass., trib., 4 maggio 2004 n. 8439 cit.) per sopperire all'impossibilità di una parte di esibire documenti in possesso dell'altra parte. 43 Lo rileva GLENDI, Il giudice tributario e la prova per presunzioni, in Aa.Vv., Le presunzioni fiscali in materia tributaria. Atti del Convegno di Rimini, 22 - 23 febbraio 1985, Rimini, 1987, 159 ss. In giurisprudenza, Cass. , Sez. I civile, 4 marzo 1998, n. 2823, Parrelli contro BNL, in Mass. Foro it., 1998. 44 La dottrina avverte che la comune esperienza in tali casi consente di prescindere dalla specifica prova del fatto, ma non dall'onere che esso sia allegato dalla parte, quanto meno quando non si tratti di fatto rilevabile d'ufficio o secondario. Per

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provare è noto alle (o conoscibile dalle) parti: è fatto rilevante per il decidere,

(e allegato da una delle parti, se si ammette l'onere di allegazione).45 La difesa è garantita, secondo questa opinione, perché sia il punto di partenza della presunzione, sia il punto di arrivo sono nella sfera di controllo delle parti. Non sarebbe invece necessario che le parti siano previamente46 informate dell'intenzione del giudice di collegare, a mezzo del proprio ragionamento, questi due estremi, né per quanto concerne l'an, né per quanto concerne il quomodo del passaggio logico. Ciò in quanto la ragionevolezza della presunzione garantisce la prevedibilità per una parte processuale diligente. Ciò non toglie innanzitutto che, in settori caratterizzati da elevato tecnicismo e in caso di accertamenti particolarmente articolati, il tasso di imprevedibilità possa essere comunque assai elevato.47 Inoltre, una presunzione semplice operata d'ufficio, viste le sue caratteristiche di meccanismo logico non appartenente alla realtà fenomenica esteriore, come si rilevava sopra, è, per ragioni strutturali, più insidiosa e imprevedibile. Detto in altri termini, è vero che la ragionevolezza che le deduzioni devono avere dovrebbe limitare l'imprevedibilità delle medesime, ma tale prevedibilità scema tanto più il materiale processuale è complesso e cospicuo e, d'altro canto, il carattere strutturalmente segreto del ragionamento aumenta ulteriormente il pericolo per il contraddittorio.48

approfondimenti, GRASSO, Dei poteri del giudice, in Commentario al c.p.c. diretto da Allorio, Torino 1973, 1306, DE STEFANO, voce Fatto notorio, in Enc. Dir., 1008. 45 Per un esempio della varietà di opinioni in materia, ANDRIOLI, voce Presunzioni, cit., 771. L’Autore non ammette, nel regime previgente, la presenza dell'onere di allegazione, e sottolinea che il fatto rilevante e non allegato è conosciuto o conoscibile. Egli considera però doveroso in tali casi l'esercizio dei poteri di cui all’articolo 183, comma 4, c.p.c. e quindi, l'"avvertimento" delle parti dalla parte del giudice. Contraria è, invece, ad esempio, l'opinione di CORDOPATRI, voce Presunzioni (Dir. proc. civ.), in Enc. dir., XXXV, 291 e ss. 46 Problema diverso è quello del controllo successivo sulla e assennatezza dell'inferenza operata dal giudice. 47 Sia consentito un richiamo a MARCHESELLI, Certezza, probabilità e contraddittorio nelle presunzioni semplici e nelle “presunzioni a catena”: uno spunto in una sentenza della Corte di Cassazione in materia di iva, in Dir. prat. trib., 1995, II, 1257 ss. 48 Sul piano analitico, è interessante osservare che la “distanza” del percorso svolto dal giudice nella decisine rispetto a quello ipotizzato in contraddittorio può essere gradatamente maggiore o minore, anche rispetto alle presunzioni semplici. Una cosa, ad esempio, è valorizzare una presunzione semplice a partire da un fatto di causa, dove la sorpresa sia proprio nell'operare la presunzione tra fatto provato e fatto da provare (presunzione non preannunciata alle parti). Un'altra, effettuare una presunzione diversa da quella su cui sia caduto il contraddittorio delle parti. E tale differenza può riguardare sia il risultato della presunzione (tra i diversi fatti da provare), sia il percorso della presunzione (il ragionamento che collega il fatto noto a quello da provare). Il caso limite è proprio quest'ultimo: dove si perviene alla prova del fatto ignoto sulla base di una presunzione a partire dallo stesso fatto provato, ma sulla base di un ragionamento, una massima di esperienza, diversa da quella oggetto del contraddittorio. Per esempio si ipotizzi che a qualsiasi fine sia rilevante accertare il prezzo di vendita di un bene imprenditoriale tra padre e figlio. In contraddittorio si

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discute sulla possibilità di presumere che il prezzo equivalesse al valore di mercato, fondandosi sulla usuale economicità degli atti dell'imprenditore. Si supponga che questa presunzione sia contestata, argomentando che si tratta di una vendita tra parenti (ove il principio di economicità degli atti normalmente non vale) e che però nel processo risulti, perché allegato, che un'altra vendita tra padre e altro figlio è stata regolata al valore di mercato. Il giudice ne trae l'illazione della equivalenza di prezzo e valore, ma non sulla base della regola della economicità, ma sul fondamento, nuovo, dell'uguale trattamento dei figli (esempio tratto da un Dialogo con Marcello Tarabusi sul forum del sito www.dialoghididirittotributario.it). Fermo che in tutti questi casi si tratta di soluzioni diverse da quelle esplicitate nel processo, viene poi da domandarsi se la lesione del contraddittorio e l'eventuale vizio processuale sia comunque immancabile ovvero essa non vada contemperata con un principio di buona fede e diligenza delle parti. Se, cioè, e in che misura la parte non potrebbe dolersi del difetto di contraddittorio se la soluzione adottata dal giudice fosse comunque prevedibile (e quindi suscettibile di essere anticipata e contraddetta) con un minimo di diligenza. Indubbiamente individuare un criterio di prevedibilità in tale direzione non sarebbe semplice, posto che le presunzioni debbono comunque tutte fondarsi sul buon senso e, pertanto, entro un certo limite, sono tutte prevedibili (se non lo sono anche implausibili, si potrebbe dire, e pertanto, più ancora che essere leso il contraddittorio, la decisione sarebbe sbagliata in punto prova o motivazione). Le soluzioni che possono venire in mente sono diverse: la prima è ritenere che vada effettuata una misurazione caso per caso e che il difetto del contraddittorio rilevi solo quando, atteso che il ragionamento è plausibile, considerata la complessità del materiale nel processo e del suo svolgimento, la soluzione era meno prevedibile dell'ordinario. La seconda è ritenere che poiché tutte le presunzioni per essere fondate debbono essere ragionevoli, esse sono anche prevedibili, per cui non vi sarebbe mai lesione del contraddittorio. La terza è ritenere che il contraddittorio vada comunque tutelato, indipendentemente dalla negligenza della parte, per cui la lesione del contraddittorio sussisterebbe sempre. La quarta, ritenere che non sorprenda in modo lesivo il contraddittorio solo la presunzione che, fermi fatto noto e ignoto, ne modifichi il collegamento (la massima di esperienza). La quinta, variabile di quest'ultima, che non sorprenda il contraddittorio solo la sostituzione del collegamento tra fatto noto e ignoto effettuata sulla base di massime di esperienza generali, mentre se il ragionamento è fondato su altri fatti del processo il contraddittorio andrebbe provocato (nell'esempio sopra riportato il giudice avrebbe dovuto preavvertire le parti circa la possibilità di presumere la parità di trattamento tra fratelli). Da altro punto di vista e su un diverso piano, si potrebbe anche osservare che, empiricamente, un altro elemento potrebbe consentire di negare la sussistenza del vizio del contraddittorio, anche per chi opini che esso vada tutelato anche quando la parte che se ne lamenta sia stata negligente. Tanto più l'illazione su cui è mancato il contraddittorio espresso è ovvia e tanto più la si potrebbe ritenere implicita nella allegazione dei fatti svolta dalle parti. Ciò comporta che anche affermare che le presunzioni semplici d'ufficio comportino l'obbligo di attivazione del contraddittorio non determinerebbe un automatico e abnorme appesantimento degli adempimenti processuali. In tutte le ipotesi di induzione “ovvia” il ritenere che si tratti di presunzione implicitamente allegata dalle parti esclude, per definizione, la presenza di una iniziativa ufficiosa. Non si intende, insomma affermare che ogni passaggio del ragionamento del giudice debba essere stato oggetto di contraddittorio minuzioso e puntuale, ma una regola di buon senso e ragionevolezza.

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Ne risulta la opinione di chi afferma che i principi costituzionali di cui agli articoli 24 e 111 impongono che il giudice provochi il contraddittorio anche rispetto alle presunzioni semplici azionate d'ufficio.49 Resta la questione della disciplina positiva della materia, che a nostro avviso ora si può trarre, nell’art. 101 c.p.c., riportando la presunzione al concetto di “questione” a mente del quale “Se ritiene di porre a fondamento della decisione una questione rilevata d’ufficio, il giudice riserva la decisione, assegnando alle parti, a pena di nullità, un termine, non inferiore a venti e non superiore a quaranta giorni dalla comunicazione, per il deposito in cancelleria di memorie contenenti osservazioni sulla medesima questione”. Va tuttavia ricordato l’orientamento di merito, già citato sopra, a proposito di rapporto tra motivazione e prova, in virtù del quale, tutto il percorso indiziario, sia pure, sinteticamente espresso, dovrebbe essere già contenuto nel provvedimento dell’Ufficio50.

9 Le prove utilizzabili: in particolare la rilevanza indiziaria dello statuto sociale e della titolarità di partiva IVA.

Venendo ora alle prove utilizzabili per la dimostrazione della sussistenza della SO, va subito premesso che, tendenzialmente, la materia non è regolata da norme ad hoc o speciali. In assenza di disciplina derogatoria delle regole generali, saranno quindi applicabili ed eventualmente utilizzabili tutte le prove ammesse in materia tributaria. Ne consegue che documenti e prove presuntive risultanti dall’esercizio dei poteri istruttori della A.F. sono utilizzabili, secondo le regole comuni, per l’accertamento di sussistenza, insussistenza, consistenza di a) (in genere) una “ sede fissa di affari per mezzo della quale l'impresa non residente esercita in tutto o in parte la sua attività sul territorio dello Stato” (e, quindi, in particolare i requisiti della permanenza e strumentalità per come congrui alla loro definizione sostanziale) (art. 162, comma 1, Tuir); b) (in particolare) una sede di direzione, una succursale, un ufficio, un'officina, un laboratorio, una miniera, un giacimento petrolifero o di gas naturale, una cava o altro luogo di

49 Sul dovere, comunque, del giudice di attivare il contraddittorio sulle presunzioni che intende operare v. TARZIA, Problemi del contraddittorio nell'istruzione probatoria civile, in Riv. dir. proc. civ., 1984, 564; MONTESANO, Le “prove atipiche” nelle “presunzioni” e negli “argomenti” del giudice civile, cit., 283 ss.; TARUFFO, Il diritto alla prova, cit., 98 ss. Così ad esempio CORDOPATRI, cit., 291 e ss.; CALAMANDREI , Delle buone relazioni fra i giudici e gli avvocati nel nuovo processo civile, cit., 20; MONTESANO, Le "prove atipiche" nelle "presunzioni" e negli "argomenti" del giudice civile in Riv. dir. proc. civ., 1980, 233 ss.; TARZIA, Problemi del contraddittorio nell'istruzione probatoria civile, in Riv. dir. proc.civ., 1984, in particolare 641 ss.; CAVALLONE , Oralità e disciplina della prova nella riforma del processo civile in Riv. dir. proc. civ., 1984, 686 ss.; CHIARLONI cit., 845 ss.; DENTI, Dall'azione al giudicato, cit., 145; FERRI, Contraddittorio e poteri decisori del giudice, estratto da Studi Urbinati, anno XLIX, Nuova serie A n. 53, Città di Castello 1984, 3-131. 50 Così, CT regionale della Lombardia con sentenza 16 dicembre 1999 - 24 marzo 2000, citata nella motivazione di Cass. civ. Sez. V, 06-12-2002, n. 17373.

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estrazione di risorse naturali, un cantiere di più di tre mesi (art. 162, commi 2 e 3); c) le altre circostanze che delimitano la nozione di SO previste dai commi 4 a 8. Ne consegue, altresì, che la presente trattazione non concernerà l’esame di regole, quanto, piuttosto, l’analisi della casistica e il riferimento agli orientamenti giurisprudenziali. Così, ad esempio, si sono ritenuti elementi valorizzabili, in un caso in cui l’A.F. doveva dimostrare l’esistenza della SO per assoggettare la relativa ricchezza a tassazione51: lo statuto sociale (da cui si traggono elementi indiziari circa l’attività svolta), la tipologia di contratti stipulata , il concreto tipo di attività verificata (distribuzione e promozione dei beni forniti da controllante, controllo esecuzione contratti di questa). Elementi indiziari sono stati altresì tratti dalla corrispondenza con i professionisti e da pareri legali dai quali si è indiziariamente desunto che la struttura posta in essere aveva lo scopo di dissimulare l’esistenza di una stabile organizzazione52. Problema assai ricorrente è poi quello della rilevanza indiziaria della attribuzione di partita IVA. In effetti, tale adempimento amministrativo parrebbe di significato del tutto neutro, segnalando solo lo svolgimento di una attività rilevante nel quadro di tale imposta, ma non ancora che essa sia svolta (effettivamente e, soprattutto) con le caratteristiche della SO. Un orientamento giurisprudenziale piuttosto netto attribuisce, tuttavia, rilevanza a tale circostanza, avendo cura di precisare che dalla sussistenza di partita iva si presumerebbe la sussistenza di SO, salva la prova contraria da parte del contribuente53, di tal che alla amministrazione basterebbe invocare la presenza di un numero di partita IVA per giustificare la soluzione a sé favorevole54.

51 Cass. civ. Sez. V, 06-12-2002, n. 17373 52 Valorizzato anche da Cass. civ. Sez. V, 25-05-2002, n. 7682. 53 Cass. civ. Sez. V, 13-04-2005, n. 7705, che, nell’ambito di un giudizio in materia di rimborso, richiesto dal contribuente sulla base dell’assunto della insussistenza della SO, afferma: “se può ammettersi che dall'attribuzione della partita iva ad un soggetto che ne abbia fatto richiesta derivi, per ragioni di ordine logico-giuridico, la presunzione della esistenza di stabile organizzazione, tuttavia ciò non significa - tenuto conto che si tratta di una situazione di fatto - che la presunzione sia di ordine assoluto. Pertanto, deve ritenersi non essere precluso a tale soggetto, ove agisca per il rimborso ai sensi dell'art. 38 ter cit., di offrire la dimostrazione (avendone interesse e quindi sussistendo a suo carico il relativo onere processuale) della mancanza in concreto di quegli elementi di ordine personale e materiale - cd. risorse umane e materiali - che all'evidenza contrassegnano la nozione di stabile organizzazione, come già chiarito da questa Corte (ex plurimis Cass. 13373, 10925 e 7689/2002; Cass. 3570/2003; Cass. 6799/2004)”. 54 Cass, Sez. V, 30 novembre 2012, n. 21380, con nota di Terlizzi, L'attribuzione della partita IVA comporta l'esistenza di stabile organizzazione, in Diritto e Giustizia 2012, 1096; Cass. civ. Sez. V, Ord., 20-07-2012, n. 12633: “Il punto centrale della controversia attiene all'onere della prova della esistenza delle condizioni per fruire del rimborso, essendo la ratio dell'impugnata sentenza incentrata sull'affermazione che "l'ufficio

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In dottrina, accanto a chi riferisce di tale orientamento sottolineando la ampia possibilità di prova contraria55, vi è chi sottolinea la necessità di introdurre alcune distinzioni: rilevando che sarebbe diversa l’ipotesi di attribuzione di partita IVA con elezione di rappresentante non fiscale, da quella di attribuzione di partita IVA con indicazione di mero rappresentante fiscale, valorizzando in proposito l’apposito “codice carica” da riportare nel modello di dichiarazione56. Secondo questo orientamento, in una situazione “nella quale il soggetto non residente non procede alla nomina di un proprio rappresentante fiscale nel territorio dello Stato ai sensi dell'art. 17 del D.P.R. n. 633/1972, alla richiesta di attribuzione della partita IVA potrebbe, in realtà, ricondursi l'effetto «implicito» di voler istituire una stabile organizzazione”57. Si sottolinea che, in effetti, salva l’ipotesi di dichiarazione di inizio di attività non corrispondente all’effettivo svolgimento di essa, se non si nomina il rappresentante fiscale58, sarebbe ragionevole presumere l’esistenza in Italia della SO.

non ha provato che la società abbia in Italia una stabile organizzazione, non essendo la partita Iva e la presenza di un rappresentante fiscale leggero sufficienti a determinare la stabile organizzazione di un'impresa". Simile lapidaria affermazione è errata in diritto, in rapporto al principio, pacifico nella giurisprudenza di questa Corte, che dall'attribuzione della partita Iva a un soggetto che ne abbia fatto richiesta deriva, per ragioni di ordine logico-giuridico, la presunzione della esistenza di stabile organizzazione. Ancorchè non trattandosi di presunzione di ordine assoluto sicchè non è precluso, a colui che agisca per il rimborso (…) di offrire la dimostrazione della mancanza in concreto di quegli elementi di ordine personale e materiale, che contrassegnano la nozione di stabile organizzazione (cfr. per tutte Cass. n. 7703/2005) - è tuttavia di solare evidenza che, rispetto alla detta presunzione, nessun onere probatorio aggiuntivo incombe sull'amministrazione. 55 Iavagnillo, Dall'attribuzione di partita iva non deriva la presunzione assoluta di stabile organizzazione, in Corr. Trib., 2005, fasc. 27, 2166 ss. 56 Nel modello di dichiarazione di inizio attività ai fini IVA è previsto un apposito codice carica da indicare nel quadro C relativo al rappresentante, con cui specificare se trattasi di rappresentante fiscale di un soggetto non residente (codice 6) o rappresentante fiscale di soggetto non residente con le limitazioni di cui all'art. 44, comma 3, del D.L. n. 331/1993 (codice 10). Nella versione del modello AA7/7 (per i soggetti diversi dalle persone fisiche) approvato con provvedimento del Direttore dell'Agenzia delle entrate 12 novembre 2002, con cui sono stati sostituiti i modelli previgenti, utilizzati nel periodo cui si riferisce l'ordinanza in commento (secondo semestre dell'anno 2000), nelle istruzioni al quadro C è precisato che «l'istituzione del nuovo codice di carica 10 non comporta la presentazione di una apposita dichiarazione di variazione dati da parte dei rappresentanti fiscali con le limitazioni di cui all'art. 44, comma 3, secondo periodo, del D.L. n. 331/1993, che nella precedente versione del modello hanno utilizzato il codice di carica 6». 57 Sirri –Zavatta, Stabile organizzazione e valore sintomatico della partita IVA, in GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria, 2013, fasc. 1, 32 ss. 58 Disciplinato dagli artt. da 193 a 197, 199, 200, e 204 della direttiva n. 2006/112/CE del 28 novembre 2006 e, sul piano interno dall’Art. 17, terzo comma, del D.P.R. n. 633/1972 e la cui funzione non è una operatività “commerciale”, quale quella della

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Quel che tuttavia appare decisamente discutibile è che dalla affermata ragionevolezza di un tale percorso argomentativo (chiedo l’attribuzione di partita IVA e non nomino un mero rappresentante fiscale, ergo ho un Italia una SO) si possa, tout court, passare ad affermare l’esistenza di una presunzione legale relativa. Si è così rilevato59 che a ciò osterebbe innanzitutto il fatto che ne deriverebbe l’attribuzione al contribuente dell’onere di una prova negativa, di assai problematico assolvimento, in secondo luogo che all’attribuzione di partiva IVA possono corrispondere ipotesi molto diverse60 e, in terzo luogo, che una presunzione legale contrasterebbe con la disposizione di carattere interpretativo contenuta nell'art. 11, terzo paragrafo, del regolamento comunitario n. 282 del 15 marzo 2011 che, nel delineare i requisiti definitori del concetto di stabile organizzazione, stabilisce che «il fatto di disporre di un numero di identificazione IVA non è di per sé sufficiente per ritenere che un soggetto passivo abbia una stabile organizzazione»61. Va inoltre rilevato che la giurisprudenza sembra essere andata, sul punto, persino oltre gli approdi della prassi amministrativa62. A voler essere pignoli, potrebbe introdursi il dubbio se la norma comunitaria osti solo alla equiparazione sostanziale della apertura della partita IVA alla SO, o anche a un regime che, data la medesima partita presuma la sussistenza della SO, salva prova contraria (o, addirittura, osti anche al semplice

SO, ma solo consentire l'esercizio di diritti e l'assolvimento di obblighi ed adempimenti previsti dalla normativa IVA. 59 Sirri – Zavatta, op. loc. ult. cit. 60 Il soggetto non residente, tra le varie opzioni a disposizione, potrebbe, infatti, nominare un rappresentante fiscale nella forma «piena» di cui all'art. 17, terzo comma, del D.P.R. n. 633/1972 o in quella «leggera», disciplinata dall'art. 44, comma 3, del D.L. n. 331/1993, quando lo svolgimento delle operazioni da effettuare nel territorio dello Stato non comporta l'assolvimento delle imposte. L'operatore non residente potrebbe optare per l'identificazione diretta, richiedendo l'apertura della partita IVA ai sensi dell'art. 35-ter del D.P.R. n. 633/1972. In aggiunta, potrebbe accadere che il soggetto estero, il quale intende compiere operazioni rilevanti ai fini IVA nel territorio dello Stato, provveda ad aprire una partita IVA anche al di fuori delle ipotesi sopra prospettate, in attesa di dare inizio ad un'attività al momento solo ipotizzata e magari impedita da eventi più o meno previsti (partita IVA “inattiva”, ipotesi contemplata dallo stesso art. 35, comma 15 quinquies). 61 La Corte supera tale obiezione sul presupposto, invero capzioso, atteso che la SO è nozione generale e la partita IVA regolata da disposizioni comuni, che la norma riguarderebbe esclusivamente il concetto di stabile organizzazione previsto ai fini dell'art. 44 della direttiva comunitaria 2006/112/CE e, quindi, con riferimento alle sole prestazioni di servizi nell'ottica della individuazione del requisito territoriale. Per una serrata critica a tale assunto, Centore, La «tormentata» identificazione dei soggetti non residenti ai fini del rimborso dell'iva, in Corr. Trib. 2012, fasc. 44, 3387 ss. 62 La Agenzia delle entrate Circolare dell'Agenzia delle entrate 29 luglio 2011, n. 37/E, par. 2.1.4 («Lo Stato di stabilimento del committente») sottolinea come la disposizione del regolamento sopra citata chiarisca, inoltre, che «l'esistenza di un numero di partita IVA non costituisce da sola una prova sufficiente dell'esistenza, in uno Stato membro, di una stabile organizzazione di un soggetto passivo che abbia la sede principale della propria attività economica in uno Stato membro diverso».

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desumere, caso per caso, dalla partita IVA, la sussistenza della SO). Chi ritenesse che la norma comunitaria operi solo sul piano sostanziale, e consenta l’inversione dell’onere della prova dovrebbe comunque scrutinare la proporzionalità di tale inversione, alla luce della giurisprudenza comunitaria63. A nostro avviso, la disposizione eurounitaria osta effettivamente alla affermazione della possibile inversione probatoria, cui, per vero, osta anche un argomento ancora più decisivo: l’onere della prova è regolato per legge (art. 2697 c.c.) e la relativa deroga può intervenire solo per legge: una norma che preveda che, data la partita IVA, si presume la SO, semplicemente, non esiste. Ne consegue, a nostro modesto avviso che né l’A.F. potrebbe limitarsi a giustificare l’attrazione a imposizione in Italia in sede di accertamento provando la sussistenza della SO con il mero riferimento alla presenza di un numero di partita IVA, né la mera presenza di tale numero potrebbe in sé validamente superare le altre prove della sussistenza della SO che il contribuente, a ciò onerato, abbia portato in una azione di rimborso.

10 (segue) prove indiziarie.

Un ruolo sicuramente centrale, in effetti, quanto alla prova della SO, hanno poi meccanismi di tipo indiziario, fondati cioè su presunzioni gravi, precise e concordanti (art. 2729 c.c.)64. La giurisprudenza afferma che: a) le presunzioni semplici sono utilizzabili per l’accertamento della SO; b) che la prova può fondarsi anche solo su di esse, purché convincenti e concordanti, se plurime; c) che la valutazione deve tener conto del complesso delle circostanze accertate, di tal che singoli elementi non convincenti possono assumere efficacia probatoria se combinati, o viceversa65.

63 Corte Giustizia CE, Joined Cases C-286/94, C-304/95, C-401/95 and C-47/96, Garage Molenheide BVBA v Belgian State, punto 48 della motivazione su cui vedi anche Pistone, Presunzioni assolute, discrezionalità dell’amministrazione finanziaria e principio di proporzionalità in materia tributaria secondo la Corte di Giustizia, in Riv. dir. trib., 1998, III, 91 ss. 64 Manzi, Stabile organizzazione , Iva e Modello Ocse: la Suprema Corte consolida la propria giurisprudenza, in Fiscalità Internazionale, 2007, fascicolo 1, 29 ss. 65 Cass. civ. Sez. V, Sent., 17-01-2013, n. 1120: “, non può - per vero - revocarsi in dubbio che la sussistenza di una "stabile organizzazione", nel senso suindicato, ben possa desumersi - in fatto - anche alla stregua di elementi a carattere indiziario e presuntivo, purchè siffatti elementi rivelatori dell'esistenza di una stabile organizzazione vengano, in concreto, "considerati globalmente e nella loro reciproca connessione" (Cass. 10925/02, in motivazione). Questa Corte ha, difatti, più volte avuto modo di precisare che le presunzioni semplici costituiscono una prova completa alla quale il giudice di merito può attribuire rilevanza anche in via esclusiva ai fini della formazione del proprio convincimento, nell'esercizio del potere discrezionale, istituzionalmente demandatogli, di scegliere, fra gli elementi probatori sottoposti al suo esame, quelli ritenuti più idonei a dimostrare i fatti costitutivi della domanda o dell'eccezione. In tale prospettiva, pertanto, e con specifico riferimento alla materia

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In concreto, tra tali elementi indiziari vengono individuati lo: a) svolgimento di un'attività contrattuale di rilievo economico significativo in Italia da parte della società estera; b) spendita del domicilio fiscale in Italia, da parte di detta società; c) perdurante residenza e domicilio in Roma del legale rappresentante e del procuratore ad acta; d) titolarità, m capo alla contribuente, di conti bancari e di dossier titoli in aziende di credito italiane; e) transito su detti conti di poste economicamente rilevantissime, connesse all'attività della società estera. Più in generale, è massima reiterata quella secondo cui “La prova dello svolgimento di tale attività da parte del soggetto nazionale può essere ricavata, oltre che dagli elementi indicati dall'art. 5 del modello di convenzione OCSE, anche da elementi indiziali, quali l'identità delle persone fisiche che agiscono per l'impresa straniera e per quella nazionale, ovvero la partecipazione a trattative o alla stipulazione di contratti, indipendentemente dal conferimento di poteri di rappresentanza 66… o ancora dalla circostanza che la società non residente si avvalga di molteplici società od imprese residenti ove queste non percepiscano dai committenti/cessionari corrispettivi per l'esercizio della attività svolta ma regolino "internamente" i rispettivi rapporti con la società non residente in base alla attività svolta così da risultare -se pure formalmente distinte - economicamente integrate in una struttura unitaria strumentale alla attuazione degli scopi commerciali della Casa madre non residente67. Si è anche rilevato che è irrilevante che la succursale italiana agisca come "ente indipendente dalla società madre", accertamento sicuramente rilevante ai fini del riconoscimento della non assoggettabilità ad IVA delle prestazioni

tributaria, non è neppure necessaria, ai fini di fondare la pretesa impositiva, l'acquisizione, a conforto, di ulteriori elementi presuntivi o probatori desunti dall'esame della documentazione contabile o bancaria del contribuente, dal momento che, se gli indizi hanno raggiunto la consistenza di prova presuntiva, non vi è necessità di ricercarne altri o di assumere ulteriori fonti di prova. Nondimeno, una volta esaurita la fase - da condurre con criterio analitico - dell'individuazione degli elementi indiziari che, presi singolarmente, presentino una positività parziale o almeno una potenziale di efficacia probatoria, i giudice di merito è tenuto, altresì, ad una doverosa valutazione complessiva di tutti gli elementi presuntivi isolati per accertare se essi, siano concordanti e se la loro combinazione sia in grado di fornire una valida prova presuntiva, che magari non potrebbe dirsi raggiunta con certezza considerando atomisticamente uno o alcuni di essi. Ne discende che deve ritenersi censurabile in sede di legittimità - sul piano del vizio di motivazione - la decisione in cui il giudice si sia limitato a negare valore indiziario agli elementi acquisiti in giudizio senza accertare se essi, quand'anche singolarmente sforniti di valenza indiziaria, non fossero in grado di acquisirla ove valutati nella loro sintesi ((Cass. 9107/12, 10847/07).” 66 Così Cass. civ. Sez. V, Sent., 28 giugno 2012, n. 10802; id 28 luglio 2006 n. 17206; id. 15 febbraio 2008 n. 3889: id. 21 aprile 2011 n. 9166. 67 Così Cass. civ. Sez. V, Sent 7 ottobre 2011, n. 20597

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di servizi intrasocietarie, ma del tutto distinto e diverso da quello della sussistenza dei requisiti della "stabile organizzazione"'68. Particolare attenzione viene posta alle prestazioni correlate alla identità delle persone fisiche che agiscono per l’impresa all’estero e in Italia e stipulazione di contratti69. In proposito, si segnala un altro possibile disallineamento della giurisprudenza rispetto a fonti internazionali, atteso che all’art. 5 del Commentario OCSE, stabilisce che il fatto che la struttura sussidiaria partecipi a trattative contrattuali nell’interesse della società straniera non può costituire l’unico elemento per affermare che tale struttura costituisca una stabile organizzazione della società straniera, ma la Corte di Cassazione ha rilevato, a parte il valore non normativo del commentario - che costituisce, al più, una raccomandazione diretta i Paesi aderenti all’OCSE - che nei confronti di tale modifica è stata espressa riserva dal Governo italiano, secondo la quale - nell’interpretazione del modello di convenzione - l’Italia non può disattendere quella data dai propri giudici nazionali. In ogni caso l’esistenza di di attività dirette alla produzione di reddito in Italia da parte della società estera per il tramite della SO è stata desunta dalla conclusione di contratti, come dimostrato dall’esame della documentazione bancaria, dalla quale risultavano diversi conti intestati alla società estera sui quali transitavano regolamenti di vendite fatte in Italia. L’affidamento di business proprio della società estera era pure confermato dalla presenza della documentazione riferentesi all’attività di tale impresa nei locali della società italiana70. Dall’esame del contenuto della contrattualistica può poi emergere che i rapporti non sono idonei a configurare una SO, ma un rapporto di

68 Cass. civ. Sez. V, Sent., 17-01-2013, n. 1120: Ed infatti se. da un lato, può aversi una '"stabile organizzazione" anche nel caso in cui non si ravvisi tale spiccata autonomia gestionale ed indipendenza economica tra i due enti (cfr. Corte giustizia sent. 23.3.2006 in causa C-210/04 Agenzia Entrate d FCE Bank ple, paragr. 41), sicchè i servizi resi alla Casa madre dalla stabile organizzazione, non inquadrabili in "un rapporto giuridico nell'ambito del quale avvenga uno scambio di reciproche prestazioni", non sono assoggettabili ad IVA (diversamente dalle prestazioni, invece, erogate a favore di terzi dalla medesima '"stabile organizzazione" per le quali non è dubbio - ex art. 9 punto 1 Direttiva n. 388/77/CEE - che detta struttura organizzativa assuma la qualità di soggetto passivo di imposta: cfr. sent. Corte giustizia C-210/04, paragr. 34 e 38); dall'altro bene può realizzarsi anche la ipotesi in cui la entità organizzativa che esegua le prestazioni di servizi in favore della Casa madre non presenti i requisiti materiali ed economici minimi per assurgere a "centro stabile di attività" nel Paese membro diverso da quello di residenza della Casa madre (rimanendo in tal caso escluso "tout court" che tale entità possa assumere la qualità di soggetto passivo IVA). 69 Sulla rilevanza dei contratti: Comm. trib. reg. Milano, n. 125/02/11 del 20 ottobre 2011; Cass. civ. Sez. V, 27-10-2006, n. 22852. 70 Cass. civ. Sez. V, 27-10-2006, n. 22852.

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agenzia/commissione con caratteristiche di indipendenza. Così in un caso71 in cui S.r.l. italiana aveva stipulato un contratto con una società ungherese, che prevedeva che la prima avrebbe dovuto prestare alla società estera dei servizi logistici in relazione a trasporti effettuati da quest’ultima in Italia, Croazia e Slovenia. Tali servizi avrebbero potuto essere soddisfatti presso i propri locali, con una linea di fax, tre linee telefoniche, ed un telefono portatile, tramite una signora ungherese. Quest’ultima era legale rappresentante e socio di una seconda società ungherese, che a sua volta, aveva stipulato un accordo con la S.r.l. italiana per la gestione della rappresentanza di camion ungheresi in Italia ed altri Paesi. Essendo tale contratto sostanzialmente identico a quello stipulato tra la società ungherese e la S.r.l., l’Amministrazione finanziaria aveva ritenuto l’esistenza di una stabile organizzazione personale in Italia della società ungherese tramite il suo socio e legale rappresentante. Il giudice di merito non ha ritenuto provata, con riferimento al caso di specie, l’esistenza della stabile organizzazione in Italia della società ungherese nella persona del suo socio, né nell’ufficio messo a sua disposizione. Dall’esame del contenuto del contratto stipulato tra le due società emergeva che i servizi prestati dalla società estera alla S.r.l. italiana consistevano in attività promozionale tipica dell’agente (acquisizione nuovi clienti e mantenimento dei contratti con gli stessi, studio dei mercati sul territorio) e non essendo stata provata dall’A.F. la simulazione relativa del contratto72 la pretesa pubblica viene respinta. Analogamente è stato ritenuto per un rapporto di commissione stipulato con la società estera73, ove rileva l’autonomia operativa e il rischio d’impresa rimessi dal contratto di commissione alla società italiana. Particolare risalto si dà, in questa giurisprudenza alla verifica degli elementi fattuali (i.e. contenuto del contratto), anziché limitarsi ad una valutazione fondata su generalistiche qualificazioni giuridico-formali74.

11 (segue) i documenti.

Altra fonte privilegiata di prova sono poi ovviamente i documenti, sia nella dimensione di prova diretta (nel caso di atti pubblici o della provenienza della scrittura dal soggetto sottoscrittore), sia come fonte di elementi a loro volta presuntivi.

71 Commissione tributaria regionale del Friuli-Venezia Giulia che, nella sent. n. 33/2011, su cui Gabelli – Rossetti, Stabile organizzazione personale: l’onere della prova è a carico del Fisco, in Fisco, 2012, 3, 432 ss. 72 Commissione tributaria regionale del Friuli-Venezia Giulia che, n. 33/2011, su cui anche, Boccalatte - Tomassini, L’agente non è una branch, in “Il Sole-24 Ore, Norme e tributi” del 5 dicembre 2011; Piazza - Della Carità, Quando il commissionario agisce come stabile organizzazione?” in Corr. Trib. 2011, fasc. 5, 365 ss. 73 Commissione tributaria regionale di Milano, Sez. II, sent. n. 125/02/11 del 20 ottobre 2011, su cui Gabelli – Rossetti, Stabile organizzazione personale: l’onere della prova è a carico del Fisco, in Fisco, 2012, 3, 432 ss. 74 Cass. Sez. V, 7 ottobre 2011 n. 20597.

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Così, si è valorizzata la documentazione acquisita, comprovante la partecipazione indiretta della società italiana alla stipulazione dei contratti di licenza intercorsi tra la società straniera e i contraenti italiani, la sua partecipazione - senza autonomia decisionale all'attività economica delle altre società del gruppo, l'assunzione di costi anche a scopo promozionale (contratto di assistenza marketing e distribuzione) per tali società, senza riceverne alcun corrispettivo e senza specifico incarico di rappresentanza; il diritto di visitare i magazzini , i depositi e le rivendite; continui errori d'intestazione di fatture; il rilievo di materiali giacenti presso gli uffici della presunta SO.; identità e rapporti tra amministratori e incaricati dei diversi soggetti coinvolti; l’inserimento della struttura italiana negli obiettivi pianificati da quella estera e l’estensione ad essa del medesimo codice deontologico; l’estensione ad essa di agevolazioni e convenzioni tariffarie; ingerenze della società estera negli accordi relativi al prezzo, alle condizioni di resa e al pagamento delle materie prime per la produzione di beni; nell'elargizione di omaggi e contributi; nella gestione contabile dell'impresa, degli atti e dei documenti; gl'interventi della struttura italiana per promuovere il lancio di prodotti della società estera, per interrompere una pubblicità negativa, per assicurare la remuneratività delle vendite, per definire un'operazione commerciale, per calcolare le royalties dovute nei confronti delle società estere del gruppo; il fatto che alcuni dirigenti erano retribuiti sia dalla società italiana che da società estere del gruppo; che le società estere avevano stipulato polizze assicurative per il personale della struttura italiana o avevano proposto benefici economici per esso; che essa aveva organizzato un corso di formazione per il proprio personale sul ruolo dei responsabili vendita della società estera; un sistema informatico per analizzare tutte le informazioni sui prodotti della società ester distribuiti sul territorio nazionale; che dal suo giornale aziendale si desumeva la forte attenzione della società per il raggiungimento degli obiettivi della società estera da parte dei suoi dirigenti75.

12 (segue) certificazioni delle società di revisione e certificazioni amministrative: prove sufficienti o prove necessarie?

Ancora, può sorgere il quesito circa l’efficacia probatoria delle certificazioni società di revisione e la giurisprudenza ha ritenuto che esse possano fare piena prova della sussistenza, ampiezza e area anche quantitativa di operatività della SO, a maggior ragione quando provenienti da società di revisione di chiara fama e affidabilità76.

75 Cass. civ. Sez. V, 25-05-2002, n. 7682 76 Cass. civ. Sez. V, 18-03-2009, n. 6532 (rv. 607201) la cui massima è: “In tema di imposte sul reddito d'impresa, la legittimità della deduzione, da parte di una società avente sede all'estero (nella specie, in Belgio) e con stabile organizzazione in Italia, di una quota delle spese generali (c.d. spese di regia) sostenute dalla società capogruppo e da questa ripartite "pro quota" tra le società partecipate, esige che il requisito della inerenza dei costi sostenuti all'oggetto dell'attività - prescritto dagli

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Una categoria particolare di documenti, che merita una specifica trattazione è poi costituita dalle eventuali certificazioni di autorità estere. Il quesito, di grande rilevanza concettuale e pratica, è se e in che misura possano costituire o integrare prova della SO atti provenienti dalle Autorità Fiscali di altri paesi. Intanto, sul piano strettamente logico, è evidente che il problema si pone solo per gli eventuali atti che abbiano direttamente ad oggetto elementi rilevanti per la sussistenza della SO, ovvero ne presuppongano logicamente e giuridicamente la sussistenza (ovvero la escludano, ecc.). Entro questi limiti, effettivamente, tali certificazioni possono assumere una loro cospicua rilevanza. La questione è stata trattata dalla giurisprudenza di merito77 per quanto attiene la diversa questione della individuazione del beneficiario effettivo (attestato da certificazioni estere: certificazione rilasciata dalle autorità fiscali tedesche attestante che la società tedesca era fiscalmente residente in Germania, aveva presentato la propria dichiarazione dei redditi in Germania, il pieno assoggettamento a tassazione della società in Germania e l’avvenuta contabilizzazione delle royalties come “ricavi” nei propri bilanci e quindi era l’“effettivo beneficiario” delle suddette royalties). Ma, concettualmente, la questione si presenta identica anche per la prova della SO. In linea di principio, il contribuente ha il tendenziale diritto di poter contare sulle certificazioni pubbliche, ancorché provenienti da un diverso paese, specie in un contesto, quale quello eurounitario (e, a maggior ragione, per imposte armonizzate) dove il coordinamento di legislazioni e prassi amministrative è particolarmente avanzato, così come la collaborazione. Sarebbe ingiustificatamente asimmetrico un sistema che valorizzasse il materiale probatorio transfrontaliero solo contro il contribuente e non a suo favore. Aperture in questo senso si trovano anche nella prassi dell’Amministrazione Finanziaria (circolare n. 32/E dell’8 luglio 2011), che ha ritenuto di “…indubbia valenza probatoria…” la certificazione rilasciata dall’autorità fiscale dello Stato estero, riconoscendo “… il diritto di ciascun

artt. 75, comma 5, del d.P.R. n. 917 del 1986 (nel testo "ratione temporis" vigente) e 7 della Convenzione Italia - Belgio del 28 aprile 1983 (ratificata con legge n. 148 del 1989) - sia dimostrato da idonea attestazione tecnico-contabile e dalla inesistenza di duplicazione di costi; tale prova può dirsi raggiunta quando la natura e la composizione dei servizi prestati alla stabile organizzazione e la loro funzionalità all'attività di questa risultino dai prospetti redatti dalla capogruppo e certificati da una società internazionale di revisione, tenuto conto della funzione di controllo pubblicistico che questa svolge, in posizione di indipendenza rispetto al soggetto conferente l'incarico e della responsabiltà, civile e penale, in cui incorre il revisore, iscritto in apposito Albo tenuto dalla CONSOB, che attesti dati non veritieri. Ne consegue che la revisione, articolata mediante relazioni sulla corrispondenza dei dati di bilancio e del conto profitti e perdite alle risultanze delle scritture contabili, rende affidabili le relative attestazioni che, assumendo valore di prova decisiva, non possono essere disattese dall'Amministrazione Finanziaria o dal giudice, se non contrastate da prove di eguale portata. 77 Commiss. Trib. Reg. Piemonte Torino Sez. XII, Sent., 04-05-2012, n. 28 su cui Furlan Colucci, Il principio di «sufficienza probatoria» a servizio del beneficiario effettivo, in Fiscalità e commercio internazionale, 2012, fasc. 12, 29 ss.

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contribuente di essere messo in grado, senza eccessivi oneri amministrativi…”, di dimostrare la sussistenza della qualifica di “beneficiario effettivo” del percettore non residente. Pertanto, la certificazione con cui si attesti lo status di beneficiario effettivo della società assume l’efficacia di prova piena, ancorché ovviamente con riferimento alle circostanze attestate nell’atto, o da esso presupposte. Tale riconoscimento della validità delle certificazioni delle autorità estere corrisponde giurisprudenza di merito, che aveva affermato il carattere pienamente probatorio delle certificazioni delle autorità fiscali straniere, fino a querela di falso. Anzi, con riferimento alle attestazioni che abbiano ad oggetto fatti compiuti o direttamente rilevati dai pubblici ufficiali (stranieri), l’efficacia probatoria è stata addirittura ritenuta pari a quella dell’atto pubblico interno, con la conseguenza che solo una querela di falso può invalidare le certificazioni rilasciate dalle autorità fiscali di Stati esteri78. Fuori da tale portata (e cioè quando gli elementi della SO non siano oggetto diretto della attività certificatoria) gli atti provenienti dall’estero avrebbero comunque una significativa efficacia indiziaria, ogni qualvolta ne risultino elementi in qualche modo correlati alla sussistenza della SO. Sul punto, si è rilevato in dottrina come certificazioni sulla stabile organizzazione siano previste nel d.p.r. 600/1973. Come noto la Direttiva n. 2003/49/CE concernente il regime fiscale comune applicabile ai pagamenti di interessi e di canoni fra società consociate di Stati membri diversi all’art. 1, comma 4, dispone che: “Una società di uno Stato membro è considerata beneficiario effettivo di interessi o canoni soltanto se riceve tali pagamenti in qualità di beneficiaria finale e non di intermediaria, quale agente, delegato o fiduciario di un’altra persona”. Il Legislatore nazionale ha previsto all’art. 26 quater, comma 6, sotto il profilo probatorio, la produzione “… di un’attestazione dalla quale risulti la residenza del beneficiario effettivo e, nel caso di stabile organizzazione, l’esistenza della stabile organizzazione stessa, rilasciata dalle competenti autorità fiscali dello Stato in cui la società beneficiaria è residente ai fini fiscali o dello Stato in cui è situata la stabile organizzazione, nonché una dichiarazione dello stesso beneficiario effettivo che attesti la sussistenza dei requisiti indicati nei commi secondo e quarto”

78 Si fa riferimento alla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia sentenza n. 16/29/2012 (depositata il 24 febbraio 2012), su cui si veda Furlan Colucci, Il principio di «sufficienza probatoria» a servizio del beneficiario effettivo, in Fiscalità e commercio internazionale, 2012, fasc. 12, 29 ss. la quale afferma il principio, suscettibile di essere applicato alle certificazioni straniere in genere, secondo cui: “… uno Stato membro … non può rimettere in discussione l’esattezza delle indicazioni fornite dalle autorità di un altro Stato membro …” salva la querela di falso. In ciò si recepisce la giurisprudenza comunitaria in materia: Corte di Giustizia CE - sentenze C-130/88 e C-202/97.

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A tale tipo di certificazione e alla relativa efficacia probatoria saranno pertanto verosimilmente applicabili le considerazioni appena viste79. Problema diverso, ma ugualmente rilevante sotto il profilo pratico è se, quando sia prevista la certificazione pubblica essa, oltre che un mezzo di prova eventualmente idoneo a provare la circostanza, sia anche un onere procedimentale idoneo a condizionare il sorgere del diritto. Detto altrimenti, ammesso che la certificazione sia sufficiente, essa è anche necessaria? Il profilo è assai delicato, perché coinvolge non facili valutazioni quanto alla proporzionalità di tale limitazione. In proposito possono richiamarsi le considerazioni a suo tempo svolte80 quanto alla legittimità della imposizione di limiti alla facoltà di prova. Sono possibili due orientamenti riguardo alla ammissibilità di tali limiti e oneri. Il primo è che il diritto alla prova81 non tolleri deroghe, di tal che eventuali oneri di collaborazione potrebbero essere sanzionati, ma non con effetti sostanziali o sulla possibilità di accertamento della realtà.82 Il secondo ammette la possibilità di una composizione di interessi, tale che la prova possa essere anche condizionata ad adempimenti imposti per esigenze diverse. In questa ultima impostazione è possibile l’imposizione di limiti, purché non rendano irragionevolmente difficile l’esercizio del diritto alla prova. Si tratta di una soluzione che fissa un punto di equilibrio adeguato tra i valori in gioco ed è, pertanto, preferibile.83 La questione dei limiti afferenti al "mezzo" della prova contraria va risolta alla luce di tali criteri. Il valore costituzionale di riferimento, in questo caso, è il diritto di difesa di cui all’articolo 24 Cost. Non è facile la definizione dei confini di ammissibilità di tali limitazioni . Ancora una volta si può pensare allo scontro di due interessi contrapposti: quello espresso dall’articolo 53 Cost., rispetto al quale è strumentale l’articolo 24 Cost., da un lato, e il bisogno finanziario dello Stato, dall’altro. Come già si è già detto altra occasione84, tuttavia, non esistono altri valori costituzionali rilevanti in materia, se non quello di cui all’articolo 53 Cost. e, in funzione strumentale, l’articolo 24 Cost.

79 Furlan Colucci, Il principio di «sufficienza probatoria» a servizio del beneficiario effettivo, in Fiscalità e commercio internazionale, 2012, fasc. 12, 29 ss. 80 Marcheselli, Le presunzioni nel diritto tributario. Dalle stime agli studi di settore, Torino, 2008, 99 ss. 81 O alla prova in sede giurisdizionale, rispetto al problema degli oneri di anticipazione amministrativa della prova. 82 DE MITA, Interesse fiscale e tutela del contribuente, Milano, 1995, 92 afferma che gli obblighi cui la determinazione dell’imposta potrebbero essere subordinati possono concernere solo la prova intrinseca di fatti rilevanti per l’imposizione nei suoi confronti e non oneri di collaborazione ulteriore. Seguendo questa impostazione, ad esempio, l’onere di indicare il soggetto beneficiario del prelevamento bancario previsto dall’art. 32, d.p.r. 600/1973 sarebbe probabilmente incostituzionale. 83 Per qualche spunto, C. Cost., 12 luglio 2000, 384. Analogamente: C. Cost., 8 novembre 1982, n. 186, C. Cost., 27 gennaio 1988, 130; C. Cost., 8 luglio 1988, n. 940. 84 Marcheselli, Il giusto processo tributario in Italia. Il tramonto “dell’interesse fiscale?, in Diritto e pratica tributaria, 2003, pp. 793 – 829.

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Ciò conduce a conclusioni interessanti. Limiti al mezzo di prova utilizzabile potranno essere imposti, ma solo in accordo con i principi costituzionali che regolano il diritto alla prova. Sono possibili anche a questo proposito due impostazioni, che corrispondono a due diverse soglie di garanzia del diritto alla prova. La prima opina che gli unici limiti possibili sono quelli che escludono strumenti inidonei (o non necessari) a provare la situazione effettiva e reale. In effetti, gli artt. 24 e 53 Cost. significano che non deve essere preclusa la possibilità di far risultare il reale assetto delle circostanze ma non che debbono essere consentite frodi ed evasione. Se tutto ciò è vero, si delinea una soluzione della annosa questione delle prove legali nel diritto tributario: la finalità di semplificare l’applicazione dei tributi può portare all'imposizione di obblighi strumentali (purché non defatiganti o vessatori), alla previsione di sanzioni per gli inadempienti, ma non ad alterare la pretesa tributaria. Essa deve essere sempre conforme al principio di capacità contributiva. Al contribuente (e al Fisco) deve essere consentito ogni mezzo diretto, ragionevole e idoneo a realizzare tale principio, pena la violazione dell’articolo 24 Cost. La seconda, leggermente più arretrata, afferma che l’accertamento del diritto (del contribuente e del Fisco) non deve essere assoggettato a limiti o condizioni che ne rendano impossibile o irragionevolmente difficile l’esercizio. In questa prospettiva sono accettabili limitazioni che consentono l’utilizzo di alcuni mezzi di prova soltanto, purché essi siano nella libera disponibilità del contribuente e ragionevoli.85 Il canone rilevante è quello della relativa ragionevolezza: può limitarsi il diritto alla prova purché in modo non vessatorio. 86 87 E ciò vale, simmetricamente a quanto espresso

85 GRANELLI, Le presunzioni nell'accertamento tributario, in Boll. trib., 1981, 1652. C. Cost., 186/1982. 86 Questa impostazione rappresenta la soglia minima di garanzia, al di sotto della quale sarebbe certa la violazione dei precetti costituzionali. Residua, comunque, un margine problematico. Il sistema deve ancora completarsi con una necessaria clausola generale di garanzia, che ammetta l’utilizzo di prove normalmente escluse, in caso di indisponibilità, per causa non imputabile alla parte, del mezzo di prova consentito. Solo in questo modo il sistema, oltre a realizzare un buon equilibrio tra i valori della efficienza della tutela, ha la duttilità necessaria ad adeguarsi alle peculiarità imprevedibili del caso singolo. L’importanza, ai fini della salvezza della legittimità costituzionale di un regime di limitazione probatoria, della previsione della facoltà di ricorso a mezzi istruttori suppletivi, a favore del contribuente che si sia trovato senza colpa nella impossibilità di utilizzare i mezzi istruttori ordinari, è stata riconosciuta dalla Corte Costituzionale (ordinanza 14 febbraio 2002, n. 33). Tali principi sono attuati a livello legislativo, ad esempio dalla previsione dell’art. 32, d.p.r. 600/1973 in forza della quale “Le notizie ed i dati non addotti e gli atti, i documenti, i libri ed i registri non esibiti o non trasmessi in risposta agli inviti dell’ufficio non possono essere presi in considerazione a favore del contribuente, ai fini dell'accertamento in sede amministrativa e contenziosa.” Tale regola trova un correttivo nell’ultimo comma del medesimo articolo, ove si stabilisce che “Le cause di inutilizzabilità previste dal terzo comma non operano nei confronti del contribuente che depositi in allegato all'atto introduttivo del giudizio di primo grado in sede contenziosa le

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notizie, i dati, i documenti, i libri e i registri, dichiarando comunque contestualmente di non aver potuto adempiere alle richieste degli uffici per causa a lui non imputabile.” Resta semmai da domandarsi se la limitazione di questa sanatoria al momento del deposito dell’atto introduttivo del giudizio di primo grado sia ragionevole, posto che il contribuente potrebbe venire nella possibilità di produrre tali dati in un momento successivo (eventualmente anche durante il processo d’appello). 87 Alla luce di queste osservazioni va valutata, ad esempio, la costituzionalità della preclusione della prova testimoniale nel processo tributario. Ciò ha comportato il reiterato sospetto di illegittimità costituzionale, per violazione del principio di uguaglianza e di difesa. La Corte Costituzionale ha, finora, sempre ritenuto non fondata la relativa questione (C. Cost., 12 gennaio 2000, n. 18, 12 luglio 2001, n. 324, e le precedenti decisioni 82/1996, 53/1998 e 141/1998). Gli argomenti utilizzati per giustificare l’esclusione di tale prova sono ravvisati: a) in ragioni storiche; b) nella natura del diritto fatto valere in giudizio; c) le caratteristiche del giudizio e dell’organo giudicante; d) il fatto che anche in altri settori dell’ordinamento vigono limiti alla prova (esempio, nel diritto civile ci sono atti che possono provarsi solo per iscritto, quali il contratto di assicurazione, art. 1888 Codice Civile); e) (circa l’uguaglianza delle parti) nel fatto che neanche il Fisco se ne può valere, né si potrebbe valere di dichiarazioni di terzi verbalizzate durante il procedimento amministrativo o nelle indagini (argomenti efficacemente riassunti in C. Cost., 18/2000 citata). Tale impostazione sembra criticabile. Il diritto di difesa costituzionalmente garantito dall’art. 24 Cost. implica che a ciascuna parte deve essere consentito ogni mezzo di prova che sia indispensabile per provare fatti rilevanti per le sue ragioni. Di tal che, se esiste almeno una fattispecie nella quale la testimonianza è necessaria all’accertamento del diritto, il sistema che la preclude confligge con la Costituzione. Non è difficile ipotizzare casi di tal fatta, e, quel che spesso si trascura, sia a vantaggio del contribuente, sia dell’ufficio tributario (nella casistica posta all’attenzione della Corte, ad esempio, è stato considerato il caso della prova di un fatto impeditivo del sorgere di un diritto del contribuente: la data di conoscenza, da parte dell’ufficio, di fatti penalmente rilevanti commessi dal contribuente, fatti che sono ostativi al c.d. concordato di massa - C. Cost., sentenza 18/2000). Gli argomenti portati in contrario dalla Corte non sono del tutto convincenti. Di poca consistenza, per ovvie ragioni, è la tradizione storica; una petizione di principio è il riferimento alle caratteristiche del giudizio (dato non immutabile). Poco chiaro è, poi, il riferimento alla natura del diritto fatto valere (posto che, come sopra si osservava, non pare sussistere un privilegio del Fisco e, comunque, la preclusione della testimonianza colpisce anch’esso). Non dirimente, infine, il riferimento al fatto che nel diritto civile sia prevista la prova necessariamente scritta, posto che essa è riferita non a fatti, ma ad atti. L’esclusione della prova testimoniale può ben concernere, nel diritto tributario, fatti per i quali è addirittura assurdo ipotizzare una prova documentale. Entro questi limiti, la preclusione della prova testimoniale appare irragionevole e il relativo sistema costituzionalmente illegittimo. Il che non implica, tuttavia, che il divieto di prova testimoniale debba cedere di schianto a favore di una indiscriminata ammissibilità. La soluzione più equilibrata sembra quelle indicata dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo: una prova può essere esclusa, di regola, ma deve essere prevista una sua eccezionale ammissione, se ritenuta assolutamente necessaria dal giudice per la decisione della causa. In tema si veda CEDU, 23 novembre 2006, Case of Jussila v. Finland, Application n. 73053/01, su cui si vedano: MARCHESELLI, Giusto processo e oralità del diritto di difesa nel contenzioso tributario: note a margine di un recente pronunciamento della Corte

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sopra, anche per il condizionamento della prova contraria a oneri e adempimenti strumentali di collaborazione, anche e in particolare quanto alla prova della SO. La giurisprudenza della Corte Costituzionale appare in lenta, ma netta evoluzione in tale ultimo senso. Sono recessivi gli orientamenti circa l'interesse fiscale,88 o l’indifferenza dell'ammissibilità o meno della prova contraria ai fini del giudizio sulla costituzionalità delle presunzioni fiscali.89 La tendenza, sia pure non ancora univoca, è verso gli approdi appena descritti.90 Alla luce di tali premesse, in effetti, la limitazione, in giudizio, della possibilità di far valere la circostanza, rilevante per l’accertamento della esistenza o inesistenza della SO, nella sola ipotesi di disponibilità della certificazione amministrativa appare alquanto dubbia. Per chi la ammetta (e pare assai dubbio che il giudice non possa liberamente apprezzare anche prove diverse, trattandosi di realizzare direttamente il diritto di difesa e, indirettamente, il principio della giusta imposizione di cui all’art. 53 Cost.) dovrebbe, quantomeno ammettersi: a) la possibilità di una (non agevolmente configurabile) azione giurisdizionale per ottenere la prova rifiutata dalla Amministrazione (interna o straniera); b) la possibilità di ottenere la valutazione di prove diverse nel caso di impossibilità incolpevole di

Europea dei Diritti dell’Uomo, in Dir. prat. trib. int., 2007, 1, 333; ID. Processo tributario. Nelle liti sulle sanzioni fiscali non può escludersi il contraddittorio orale sulle prove (con Postilla di GLENDI), in GT –Rivista di Giurisprudenza Tributaria, 2007, 5, 389; GREGGI, Giusto processo e diritto tributario europeo: la prova testimoniale nell’applicazione della CEDU (il caso Jussila), in Rass. trib., 2007, 1, 228; LA SCALA, I principi del "giusto processo" tra diritto interno, comunitario e convenzionale, in Riv. dir. trib., 2007, 3, IV, 35. La decisione del consesso internazionale afferma il principio della necessaria ammissione della prova orale solo quando siano in gioco sanzioni. Ma ciò dipende dal fatto che quella giurisprudenza non ritiene applicabile il canone del giusto processo alla materia tributaria. Poiché in Italia è pacifica la maggiore ampiezza della garanzia, la prova testimoniale, nei limiti di cui al testo, dovrebbe potersi ammettere con riferimento a tutta la materia tributaria. 88 Ad esempio, la già citata C. Cost., 50/1965 commentata retro. 89 C. Cost., 103/1967. 90Si veda ad es. la C. Cost., 17 novembre 1982, n. 186, in La Comm. trib. Centrale, 1982, II, 1168 ss. dove si dice: "la determinazione del quantum del tributo (...) ben può essere dalla legge subordinata alla osservanza di taluni obblighi (...) sulla base di prescrizioni non defatiganti né eccessive". Così, successivamente, la sentenza C. Cost., 13 aprile 2000, n. 114, ha riconosciuto l’illegittimità di un regime di prova che renda ragionevolmente impossibile, secondo criteri di normalità, l’esercizio del diritto. Più in generale, la sentenza C. Cost., 1° luglio 2002, n. 332, ha affermato che un potiore trattamento dell’Amministrazione Finanziaria in sede probatoria non potrebbe giustificarsi con la semplice necessità di riconoscere ad essa un privilegio (evidentemente connesso alla pubblica funzione esercitata). Si noti, tra l’altro, che mentre la prima delle due decisioni afferma a chiare lettere che l’inversione dell’onere della prova rientra nella discrezionalità del legislatore, la seconda, spingendosi assai più avanti, censura proprio l’uso di tale discrezionalità, affermando che la presunzione deve fondarsi sulla probabilità.

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procurarsele da parte del contribuente che abbia rispettato il canone della dovuta diligenza. La giurisprudenza interna, ha talora ritenuto, senza particolare approfondimento, e con orientamento che, alla luce di quanto precede, non convince, che le certificazioni estere possano essere elemento condizionante il riconoscimento del diritto in Italia91.

91 In materia di limitazione al 12,50 dell’aliquota di imposizione nel paese della fonte, nel quadro della convenzione Italo Svizzera e di interpretazione della norma che condiziona il limite alla residenza in Svizzera del percipiente e all'inesistenza di organizzazioni stabili in Italia dello stesso, ha ritenuto necessaria la certificazione proveniente dal paese interessato Cass. civ. Sez. V, 21-04-2001, n. 5927. Ciò ai sensi dell’art. 29 convenzione (comma 2: “Le istanze di rimborso, da prodursi in osservanza dei termini stabiliti dalla legislazione dello Stato contraente tenuto ad effettuare il rimborso stesso, devono essere corredate di un attestato ufficiale dello Stato contraente di cui il contribuente è residente certificante che sussistono le condizioni richieste per aver diritto all'applicazione dei benefici previsti dalla presente Convenzione”. Con l’effetto, invero alquanto distonico, e probabilmente sproporzionato, nella fattispecie, di richiedere una certificazione svizzera su una SO italiana, atteso che il rimborso era chiesto dal sostituto, mentre si intendeva come “contribuente” nel quadro dell’art. 29 era il sostituito.

Prof. Giuseppe Marino Professore Università degli Studi di Milano

La “base” di vettore aereo: tanto rumore per nulla ?

SOMMARIO: 1 Introduzione. - 2 L’articolo 8 della Convenzione contro le doppie imposizioni e la sua evoluzione. - 3 La nozione di place of effective management e la crisi di un concetto non più al passo coi tempi. - 4 Gli aspetti critici e i chiarimenti forniti dall’Agenzia delle Entrate. - 5 Conclusioni

1 Introduzione. Il settore aereo è un comparto che negli ultimi anni, soprattutto per quel che riguarda il trasporto passeggeri, si è evoluto costantemente1 e, di pari passo, anche la legislazione che opera in materia si è adattata a tale evoluzione. Nello specifico, a livello europeo esiste una nozione di “base di servizio”2, che costituisce il criterio per la determinazione della normativa applicabile al personale degli equipaggi di condotta e di cabina, che è definita come «il luogo designato dall’operatore per ogni membro d’equipaggio dal quale il membro d’equipaggio solitamente inizia e dove conclude un periodo di servizio o una serie di periodi di servizio e nel quale l’operatore non è responsabile della fornitura dell’alloggio al membro d’equipaggio interessato». La determinazione della legislazione applicabile è demandata al par. 5 dell’articolo 11 del Regolamento (CE) n. 883/2004, così come modificato dal Regolamento UE n. 465/2012, secondo cui “un’attività svolta dagli equipaggi di condotta e di cabina addetti al servizio di trasporto aereo passeggeri o merci è considerata un’attività svolta nello Stato membro in cui è situata la base di servizio, quale definita all’allegato III del Regolamento (CEE) n. 3922/91”. Al fine di definire la legislazione applicabile il Regolamento ha altresì modificato l’art. 14, comma 5-bis, del Regolamento (CE) n. 987/2009 disponendo che “(...) gli equipaggi di condotta e di cabina addetti a servizi di trasporto aereo passeggeri o merci che esercitano un’attività subordinata in due o più Stati membri sono soggetti alla legislazione dello Stato membro in cui è situata la base di servizio (...)”.

1 Cfr. Air Passenger Market Analysis diffusa dalla IATA (International Air Transport Association) nel febbraio 2013. 2 Cfr. Regolamento europeo n. 465/2012/UE del 22 maggio 2012, relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale che ha introdotto, nell’allegato III del regolamento (CEE) n. 3922/91 del Consiglio, del 16 dicembre 1991, concernente l’armonizzazione dei requisiti tecnici e di procedure amministrative nel settore dell’aviazione civile, il concetto di «base di servizio» per gli equipaggi di condotta e di cabina.

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Ebbene, la nozione aeronautica di “base” è stata recentemente esaminata dall’art. 38, comma 1, del D.L. 18 ottobre 2012, n. 179 (c.d. Decreto crescita bis)3, che è intervenuto sulla disciplina fiscale e contributiva dei vettori aerei europei. Nello specifico, l’articolo menzionato chiarisce la nozione di “base” di vettore aereo, identificandola con “un insieme di locali e di infrastrutture a partire dalle quali un’impresa esercita in modo stabile, abituale e continuativo un’attività di trasporto aereo, avvalendosi di lavoratori subordinati che hanno in tale base il loro centro di attività professionale, nel senso che vi lavorano, vi prendono servizio e vi ritornano dopo lo svolgimento della propria attività”, per poi individuare quando esse si considerano stabilite nel territorio italiano: “Un vettore aereo titolare di licenza di esercizio rilasciata da uno Stato membro dell’Unione europea diverso dall’Italia è considerato stabilito sul territorio nazionale quando esercita in modo stabile o continuativo o abituale un’attività di trasporto aereo a partire da una base quale definita al periodo precedente”. La norma così come introdotta sembra volta principalmente a colpire i vettori aerei cd. low cost che diversamente dei vettori aerei “tradizionali” operano attraverso il sistema delle basi operative. Più nello specifico la principale differenza tra i due vettori aerei consiste nel fatto che, mentre i vettori tradizionali fanno convergere il loro traffico su grandi hub4 continentali e fanno terminare gli ultimi voli in una molteplicità di aeroporti dai quali ripartono il giorno seguente, i vettori low cost organizzano il loro traffico a partire da più basi operative dalle quali si originano e terminano tutti i voli della giornata. Ogni base dispone di un determinato numero di aerei, di personale, di servizi di terra, ma è previsto che alla fine della giornata sia gli aerei sia il personale ritornino alla base operativa di partenza. Ebbene, il fine ultimo dell’art. 38 del citato Decreto non è solo quello di ampliare i requisiti fiscali delle imprese aeree estere ma altresì di implementare i criteri di sicurezza sociale e gli obblighi di diritto del lavoro nel settore del trasporto aereo. L’obiettivo sembra, pertanto, essere quello di prevenire ed eliminare eventuali controversie con vettori aerei che operano mediante il sistema delle basi operative5 individuando in queste ultime il collegamento territoriale con lo Stato italiano. La norma in esame assimilerebbe, quindi, la base operativa dotata di infrastrutture e personale ad una stabile organizzazione, obbligando le compagnie aeree operanti nel territorio nazionale tramite le predette basi operative ad assolvere gli obblighi tributari e previdenziali in Italia.

3 Pubblicato in Gazzetta Ufficiale del 19 ottobre 2012, n. 245 – Supplemento ordinario n. 194 e convertito con modificazioni dalla Legge 17 dicembre 2012, n. 221. 4 Con il termine hub and spoke si intende un modello di sviluppo della rete delle compagnie aeree costituito da uno scalo dove si concentrano la maggior parte dei voli. Solitamente questo scalo è anche la base (o una delle basi) di armamento della linea aerea. 5 Tra queste il caso più noto è quello della compagnia aerea irlandese Ryanair.

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1.1

Con la norma in commento – come affermato dalla stessa Agenzia delle Entrate nella Circolare 3 maggio 2013, n. 12/E – è stata, pertanto, introdotta “un’ulteriore ipotesi positiva di stabile organizzazione, senza incidere sulla nozione generale di cui all’articolo 162, comma 1, del TUIR” che si aggiunge alle esemplificazioni di stabile organizzazione (sede di direzione, succursale, ufficio, officina, laboratorio, miniera, giacimento, cava o altro luogo di estrazione) già previste dalle norme sia interne, sia convenzionali6. La norma prevede che tutti i vettori aerei titolari di una licenza di esercizio rilasciata da uno Stato membro dell’Unione europea diverso dall’Italia, siano considerati stabiliti sul territorio italiano quando esercitano in modo stabile, continuativo e abituale un’attività di trasporto a partire da una “base” così come sopra definita. Ebbene, la nozione di “base”, come precisato dalla stessa Agenzia delle Entrate nella Circolare sopra menzionata, richiedendo la sussistenza dei medesimi requisiti della “sede” di cui all’articolo 5 del Modello OCSE, introduce nell’ordinamento italiano una nuova tipologia di “stabile organizzazione”7. Alla luce di quanto esposto, difatti, la base di un vettore aereo, per configurare una stabile organizzazione, deve necessariamente soddisfare la presenza di tre requisiti8: - l’esistenza di una sede fissa di affari (“place of business”), quali ad

esempio locali, attrezzature o macchinari. Nel caso specifico della base

6 Cfr. articolo 162, comma 2, del TUIR e articolo 5, paragrafo 2, Modello di Convenzione OCSE. 7 Preliminarmente occorre evidenziare come in base a quanto previsto dall’articolo 23, comma 1, lett. e) del D.lgs. 22 dicembre 1986, n. 917, le società fiscalmente non residenti nel territorio dello Stato sono assoggettate ad imposizione in Italia sui redditi ivi prodotti a condizione che essi siano conseguiti mediante una “stabile organizzazione” nel territorio dello Stato. La nozione di “stabile organizzazione” è stata introdotta nel nostro ordinamento tramite l’articolo 162 del testo unico delle imposte sui redditi, così colmando una lacuna avvertita da tempo nell’ordinamento tributario nazionale. Prima delle predette modifiche la nozione di “stabile organizzazione”, pur rivestendo un’importanza cruciale ai fini della tassazione delle imprese, era stata accolta in modo implicito con generici rinvii alle previsioni di provenienza internazionale, in primis, al Modello di Convenzione OCSE (e al correlato Commentario), nonché, in secundis, ai trattati bilaterali contro le doppie imposizioni ratificati dall’Italia. Nello specifico, l’articolo 162 T.U.I.R., recependo in buona sostanza quanto previsto dall’articolo 5 del Modello di Convenzione OCSE, prevede, al comma 1, che “l’espressione «stabile organizzazione» designa una sede fissa di affari per mezzo della quale l’impresa non residente esercita in tutto o in parte la sua attività nel territorio dello Stato”. Ai sensi della normativa sopra esposta, perché si abbia una stabile organizzazione è quindi necessaria la presenza di una sede d’affari, che sia fissa e che venga utilizzata per l’esercizio dell’attività d’impresa. Sul punto si rinvia inter alios a E. Della Valle, La nozione di stabile organizzazione nel nuovo Tuir, in “Rassegna Tributaria”, 2004, 1597 ss. 8 Tali requisiti sono stati individuati dall’OCSE nel paragrafo 2 del Commentario all’articolo 5 del Modello OCSE.

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di vettore aereo la sede fissa di affari si configura qualora vi sia “un insieme di locali e di infrastrutture”;

- la sede di affari deve essere fissa (“fixed”), ovvero deve essere stabilita in un determinato posto con un certo grado di permanenza (at a distinct place with a certain degree of permanence). Nel caso della base di vettore aereo la “fissità” si configura quando l’attività di trasporto vi sia svolta “in modo stabile o continuativo o abituale”;

- lo svolgimento dell’attività dell’impresa deve essere esercitata attraverso detta base fissa. Nel caso della base di vettore aereo è espressamente previsto che l’impresa esercita l’attività di trasporto aereo “a partire” dalla base.

La disposizione in esame, ai sensi di quanto previsto dall’ultimo periodo del comma 1 del citato articolo, si applica, inoltre, a decorrere dal periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 2012, e ciò in deroga a quanto previsto dall’articolo 3 dello Statuto dei diritti del contribuente.

1.2

Procedendo ad un’analisi più dettagliata della norma e delle ragioni che hanno portato alla sua formulazione, occorre precisare che l’introduzione della stessa è stata sollecitata da una interrogazione parlamentare presentata alla Camera dei Deputati, dall’On. Occhiuto (UDC)9, il quale ha sollevato alcune problematiche inerenti determinati settori economici e categorie di business nei cui confronti risulta difficile individuare i criteri per la configurazione dell’esistenza di una stabile organizzazione. Nello specifico, oltre al settore del commercio elettronico – analisi indubbiamente interessante ma che esula dall’argomento trattato – l’On. Occhiuto ha evidenziato problematiche inerenti il settore del trasporto aereo affermando che: «è noto che alcune compagnie cosiddette low cost, operanti anche su tratte effettuate integralmente in territorio italiano adottano modalità operative per dissimulare la presenza di stabili organizzazioni in Italia, svolgendo, pertanto, la propria attività d’impresa in totale esenzione di imposta, a differenza delle altre compagnie aeree, nazionali e straniere, che svolgono la stessa attività e sono regolarmente e correttamente assoggettate ad imposizione sui redditi prodotti in Italia». La risposta a tale interrogazione è stata fornita dall’Agenzia delle Entrate la quale ha evidenziato che gli eventuali fenomeni di abuso finalizzati ad aggirare le disposizioni convenzionali ed i richiamati principi di prassi internazionale, che rappresentano i criteri di collegamento in base ai quali ripartire la potestà impositiva tra i diversi ordinamenti tributari, qual è, ad esempio, quello della stabile organizzazione per la localizzazione territoriale dei redditi derivanti dall’esercizio dell’impresa, possono essere ostacolati attraverso il rafforzamento dell’attività di controllo. Più in particolare l’Agenzia delle Entrate rappresentava come nell’ordinamento nazionale

9 Interrogazione a risposta immediata in Commissione 5-03309 presentata da Roberto Occhiuto in data 28 luglio 2010, seduta n. 360.

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esistono numerose norme aventi finalità antiabuso, che recentemente sono state rafforzate dal complesso delle misure volte alla lotta all’evasione ed all’elusione fiscale attuate con modalità transnazionali10. Invero l’onorevole Occhiuto ha affermato che «la sottrazione ad imposizione di attività svolte direttamente nel territorio dello Stato, lungi dall’essere riconducibile esclusivamente a fenomeni di abuso (...) è resa possibile, piuttosto, dalle lacune esistenti nel nostro ordinamento, che appare pertanto necessario colmare». Ebbene, le predette interrogazioni hanno condotto all’adozione, nell’ordinamento positivo, della nozione di “stabile organizzazione aerea” al fine di assoggettare alla disciplina nazionale fiscale quei vettori aerei esteri che al momento utilizzano discipline più favorevoli dei paesi UE di provenienza. Come si evince dal Dossier NV 5626-A della Camera dei Deputati11 redatto dal Servizio Bilancio dello Stato, i conseguenti effetti di maggior gettito in termini di IRES ed IRAP derivanti dal predetto assoggettamento, così come si evince dalla relazione tecnica, riferita al testo originario, sono pari a 77,9 milioni di Euro a titolo di IRES per il periodo d’imposta 2013, per poi scendere a 44,5 milioni di Euro per i due successivi periodi d’imposta, 2014 e 2015. Mentre per quel che riguarda l’IRAP le maggiori entrate previste e riassunte nella predetta relazione si attestano a 11,7 milioni di Euro per il periodo d’imposta 2013 e 6,3 milioni di Euro per i due successivi periodi 2014 e 2015. Da quanto rappresentato risulta pertanto evidente l’importanza, a livello di gettito fiscale, dell’introduzione di una simile norma all’interno dell’ordinamento.

1.3

Tuttavia, a tal punto è d’uopo chiedersi se era effettivamente necessario introdurre una disposizione normativa ad hoc o se, invero, la nozione di «base di servizio» recepita a livello europeo - obbligatoria in tutti i suoi elementi ed altresì direttamente applicabile - letta in combinato disposto con la normativa nazionale e con le disposizioni internazionali, i.e. l’articolo 3, 5, 7 e 8 del Modello di Convenzione OCSE, poteva ritenersi idonea e sufficiente per tassare nello Stato italiano le compagnie estere che hanno nel territorio nazionale una sede fissa. Ad una attenta disamina della norma si potrebbe sostenere che la sua introduzione è piuttosto servita per chiarire meglio la sua portata applicativa, in primis per quel che riguarda la definizione di «base», e poi per quel che concerne l’individuazione di quando essa possa considerarsi concretamente stabilita nel territorio italiano, essendo invero già in vigore una normativa a livello internazionale in forza del

10 L’Agenzia delle Entrate segnala ad esempio le modifiche da ultimo recate con il decreto legge 1° luglio 2009, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, alla disciplina cosiddetta CFC (Controlled Foreign Companies) di cui all’articolo 167 del Decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917. 11 Cfr. Dossier “verifica delle quantificazioni” A.C. 5626-A Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese (Conversione in legge del D.L. n. 179 del 2012 – Approvato dal Senato – A.S. 3533) N. 479-12 dicembre 2012.

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Modello di Convenzione OCSE, volta ad individuare lo Stato titolare della potestà impositiva. L’aspetto più rilevante della nuova disposizione normativa è forse invece da individuarsi nell’ampliamento della nozione di “base” operativa che ha consentito di includere all’interno della nozione di stabile organizzazione anche le più snelle strutture aeroportuali utilizzate dalle compagnie cd. low cost e, conseguentemente, assoggettare i dipendenti della predette compagnie ai contributi previdenziali italiani. Di poi, analizzando l’articolo 38, risulta conseguenziale concludere per la marginalità di questa nuova disposizione tributaria rispetto alle imprese extra UE, posto che il secondo periodo della norma in commento, nell’individuare quando un vettore aereo si considera stabilito nel territorio italiano, fa esclusivo riferimento al “vettore aereo titolare di una licenza di esercizio rilasciata da uno Stato membro dell’Unione europea diverso dall’Italia”. Ad una prima indagine, infatti, non sembra usuale il caso di compagnie aeree extra UE che effettuino tratte esclusivamente domestiche – le uniche a poter essere tassate in presenza di una stabile organizzazione – in quanto pur partendo da una «base» domestica invero poi terminano il volo in uno Stato terzo, ricadendo, pertanto, nel criterio impositivo previsto dall’articolo 8 del Modello di Convenzione OCSE, i.e. tassazione esclusiva dello Stato sede di direzione effettiva dell’impresa. In base al tenore letterale della norma, solo qualora una compagnia extra UE effettuasse un trasporto esclusivamente domestico (presupponendo, dunque, una licenza di esercizio rilasciata da uno Stato extra UE), e qualora con lo Stato di origine della compagnia aerea, l’Italia non avesse in vigore una Convenzione contro le doppie imposizioni, allora si dovrebbero ritenere come tassabili gli utili ivi prodotti dalla compagnia aerea extra UE. Si è pertanto anticipato che, di prassi, l’individuazione di una stabile organizzazione aerea sul territorio nazionale non è criterio sufficiente per assoggettare a tassazione i redditi ivi prodotti. Prima di effettuare un’analisi critica della nozione di stabile organizzazione aerea, così come introdotta dal Decreto crescita bis, è opportuno analizzare la medesima nozione così come recepita dal Modello di Convenzione OCSE.

2 L’articolo 8 della Convenzione contro le doppie imposizioni e la sua evoluzione.

Il tema della stabile organizzazione aerea è, tuttavia, una problematica non solo nazionale ma anche e soprattutto europea. In base a quanto emerge dal Rapporto “Addressing Base Erosion and Profit Shifting”, pubblicato dall’OCSE il 12 febbraio 2013, sono sempre più numerose le imprese multinazionali che, sfruttando le differenze esistenti fra i diversi regimi fiscali

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nazionali, cercano di ridurre in modo considerevole l’imposizione sul reddito12. Orbene, la possibilità di avvalersi di regimi fiscali più convenienti nel paese UE di provenienza ha comportato una «corsa ai ripari» non solo a livello nazionale ma, ancor prima, a livello europeo. Già nel 2006 la Francia ha adottato un decreto relativo alle «bases d’exploitation»13 delle compagnie aeree che ha comportato l’abbandono del mercato domestico francese da parte di un noto vettore irlandese. La tassazione degli utili derivanti dal trasporto internazionale marittimo ed aereo ha, difatti, da sempre generato profili di difficile risoluzione e di grande attenzione da parte degli operatori del settore. L’importanza di previsioni normative idonee ad evitare profili di doppia imposizione – facilmente riscontrabili in tale settore, in quanto gli utili ricavati dall’impresa di trasporto sono passibili di prelievo nel paese di provenienza e negli altri paesi ove ricevono il pagamento per il trasporto di passeggeri o merci o per l’espletamento delle altre attività di trasporto – è confermata dalla costante attenzione che a tale concetto è stata riservata dalla Organizzazioni Internazionali (OCSE, UE) nonché dalle Associazioni di categoria quali ad esempio IATA (International Air Transport Association), ATA (Air Transport Association of America) e AEA (Association of European Airlines). La questione della tassazione del reddito delle imprese di navigazione che esercitano il trasporto internazionale di merci e passeggeri, utilizzando navi od aeromobili rappresenta, difatti, un caso paradigmatico in tema di doppia imposizione14. Come noto, quando le relazioni economiche non si sviluppano all’interno di un singolo Stato bensì si estendono anche oltre la frontiera, spesso assumono rilevanza impositiva in più Stati; questo concorso di potestà impositive si traduce in un potenziale «conflitto positivo di tassazione» e quindi nel

12 Secondo il rapporto dell’OCSE, i principi accolti a livello internazionale, i quali derivano dalle best pratice dei diversi ordinamenti, non sono stati in grado di seguire i significativi cambiamenti che hanno interessato, soprattutto negli ultimi anni, i differenti settori economici. “The OECD report was welcomed by Algirdas Semeta, the EU tax commissioner, who said it went «very much along the lines» of an action plan drawn up by Brussels at the end of last year. He said there was strong political support for making progress. «Global action is needed to adrdress this issue» he said. The problem of profit shifting could be tackled by the commission’s proposal for a pan-European tax system, know as the Common Consolidated Corporate Tax Base, he added. Per un maggior approfondimento cfr. Houlder V., “OECD presents plan to close tax loopholes”, 12 febbraio 2013. 13 Decreto n. 2006-1425 del 21 novembre 2006 relativo alle “bases d’exploitation” delle imprese di trasporto aereo che ha modificato il Codice dell’Aviazione Civile Francese. Nello specifico la base “d’exploitation” viene definita come “une base d’exploitation est un ensemble de locaux ou d’infrastructures à partir desquels une entreprise exerce de fa"on stable, habituelle et continue une activité de trasport aérien avec des salariés qui y ont le centre effectif de leur activité professionnelle”. 14 Cfr. in tal senso S. Guglielmi, La tassazione del trasporto marittimo ed aereo internazionale nelle convenzioni contro le doppie imposizioni, in “Fiscalità Internazionale”, n. 4/2006, 340 e ss.

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fenomeno della c.d. doppia imposizione internazionale. Più nello specifico, si parla di doppia imposizione internazionale quando i presupposti di imposta in due o più Stati si sovrappongono e dunque le diverse leggi nazionali assoggettano due o più volte ad imposta la stessa ricchezza15. Inizialmente, quando la ricchezza era prodotta prevalentemente entro i confini nazionali, si è sempre tentato di escludere nell’ordinamento internazionale il potere di uno Stato di prelevare tributi in (o attraverso) un altro Stato nel rispetto del principio di sovranità di cui è espressione, di esclusività (dell’operatività della norma nel territorio dello Stato) e di non collaborazione tra Stati16. Per la stessa ragione si escludeva che tale potere spettasse ad organismi sovranazionali come l’UE nei confronti degli Stati membri17. L’evoluzione dei Modelli di Convenzione18 sino all’introduzione dell’articolo 8 - nella formula attualmente in vigore – in quello del 196319, dimostra

15 Cfr. A. Fantozzi-K. Vogel, voce Doppia imposizione internazionale, in Dig. IV ed., disc. priv., sez. comm., 182. 16 Cfr. in tal senso F. Amatucci, Principi e nozioni di diritto tributario, Torino, 1999, 25. 17 Si riteneva, invece, che esso spettasse agli organismi internazionali nei confronti dei cittadini degli Stati membri anche se per la sua attuazione dovevano ricorrere agli strumenti normativi offerti dai diversi ordinamenti (ONU e UE). Alcuni autori (Udina, Diritto tributario internazionale, in Trattato di diritto internazionale, Padova, 1949), pur riconoscendo che il principio di sovranità esclude il potere di uno Stato e degli organismi sovranazionali di prelevare tributi a carico di un altro Stato, hanno ritenuto che il potere impositivo spettasse a tali organi nei confronti dei cittadini comunitari, anche se per tale attuazione essi devono ricorrere agli strumenti normativi offerti dai diversi ordinamenti dei singoli Paesi. 18 Sin dal lontano 1920, la Società delle Nazioni si è preoccupata di promuovere convenzioni contro le doppie imposizioni, onde restringere la sfera di imposizione nelle attività svolgentesi nell’ambito di più Stati, nei confronti di soggetti residenti in uno Stato e percipienti redditi provenienti da un altro Stato. Gli studi e le discussioni del Comitato degli esperti tecnici, nominati dalla Società delle Nazioni, hanno portato, nel 1928, alla predisposizione di una prima bozza di convenzione tipo (integrata dagli Esperti governativi), che rappresenta l’embrione dei modelli che si sono succeduti fino ad oggi. Orbene, una prima estensione alle attività di trasporto aereo si è avuta proprio con la bozza dei MC della Lega delle Nazioni del 1928 che, successivamente, sono state recepite anche dal Comitato degli Affari Fiscali della, nel frattempo istituita, OCSE. Le considerazioni svolte dalla Lega delle Nazioni nel rapporto del 1959, hanno, in particolar modo, messo in risalto le difficoltà generate dai trasporti internazionali, soprattutto per quel che riguarda l’attribuzione dei redditi alle diverse giurisdizioni. Nello specifico, veniva evidenziato come le imprese di trasporto marittimo ed aereo piuttosto che le normali imprese industriali e commerciali, sono soggette a pericoli di doppia imposizione più elevati in quanto esse, come già supra ribadito, possono subire un prelievo tributario non solo nel loro Paese, ma anche in quelli dove svolgono la propria attività e recepiscono utili. Per un maggior approfondimento in merito all’evoluzione dei Modelli di Convenzione OCSE si veda V. Uckmar, Corso di diritto tributario internazionale, Padova, 2002, 5. 19 Il modello generale di trattato contro le doppie imposizioni, corredato del relativo commentario per la corretta interpretazione delle norme in esso contenute, venne

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chiaramente le difficoltà che si sono dovute affrontare, soprattutto nel campo del trasporto marittimo ed aereo, in un primo momento, per quanto riguarda l’estensione delle attività trattate, inizialmente previste solo per le imprese marittime e, successivamente, estese anche a quelle operanti in ambito fluviale ed aereo, e poi per quel che riguarda lo specifico criterio di attribuzione del potere di imposizione, alternato in un primo momento fra domicilio e residenza e solo successivamente ancorato al luogo di direzione effettiva dell’impresa20. Il Modello OCSE di Convenzione contro le doppie imposizioni del 1963, recependo, pertanto, le problematiche inerenti i profili di doppia imposizione che, come già ribadito, sono facilmente riscontrabili in tale settore, disciplina separatamente la tassazione degli utili derivanti dall’esercizio di navi ed aeromobili, dalla tassazione degli utili realizzati da imprese di altra natura.

Per tale motivo è stato pertanto introdotto l’articolo 8, volto ad attribuire il potere impositivo ad uno Stato contraente, ovvero quello nel quale è situata la direzione effettiva dell’impresa, piuttosto che all’altro Stato.

2.1

Il criterio attributivo del potere impositivo al Paese di “direzione effettiva dell’impresa” è stato mantenuto in tutti i Modelli di Convenzione successivi, pur con le doverose e necessarie modifiche, quali ad esempio quelle recepite nel Modello di Convenzione OCSE, versione 2005, già contenute nel rapporto pubblicato dal Comitato per gli Affari Fiscali (C.A.F.) nel dicembre 200421 e volte principalmente a regolamentare le attività direttamente connesse a quella principale22. Le norme che disciplinano la tassazione degli utili derivanti dall’esercizio del trasporto aereo e marittimo nel traffico internazionale, costituiscono lex specialis rispetto alla normativa di carattere generale prevista per la tassazione degli utili, con la conseguente inapplicabilità della norma ad essa dedicata, i.e. l’articolo 7 del Modello OCSE23.

redatto nel 1963 dal Comitato fiscale presso l’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), denominazione assunta nel 1961 dall’OECE, e venne intitolato «Draft Double Taxation Convention on Income and Capital». 20 Cfr. P. Adonnino, Profili impositivi delle imprese di trasporto aereo e marittimo, in Riv. dir. trib. Intern., 3-2002, 35. 21 Per una analisi approfondita si veda il discussion draft intitolato “Income from International Trasport: Updating of the Commentary to the OECD Model Tax Convention [final version]” del 15 dicembre 2004 elaborato dal Gruppo di Lavoro n. 1 del Comitato per gli affari fiscali, successivamente recepito nelle modifiche al “Model Tax Convention on Income and on Capital” del luglio 2005. 22 Cfr. A.M. Gulino, Riflessioni a margine delle proposte di modifica al commentario OCSE riguardanti l’articolo 8, in Dir. Prat. Trib. Int., 2004, 1031; R. Russo, The 2005 OECD Model Convention and Commentary an Overview, in European Taxation, 2005, 560. 23 L’articolo 7 del Modello di Convenzione OCSE, rubricato “Utili delle imprese” prevede che “Gli utili di un’impresa di uno Stato contraente sono imponibili soltanto

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Procedendo ad un’analisi più dettagliata del citato articolo 8 occorre precisare come esso statuisce che “Gli utili derivanti dall’esercizio, in traffico internazionale, di navi o di aeromobili sono imponibili soltanto nello Stato contraente in cui è situata la sede della direzione effettiva dell’impresa”. La norma, oltre ad attribuire la tassazione degli utili dell’impresa aerea o marittima allo Stato ove è situata la sede di direzione effettiva dell’impresa, individua un ulteriore criterio attributivo, ovvero lo svolgimento dell’attività in “traffico internazionale”. Risulta, pertanto, dirimente individuare preliminarmente il significato e la portata da attribuire ad una simile espressione. L’articolo 3, par. 1, del Modello di Convenzione OCSE, rubricato “general definitions”, alla lett. e) statuisce che con il termine “traffico internazionale” si intende “qualsiasi attività di trasporto effettuato per mezzo di una nave o di un aeromobile da parte di un’impresa la cui sede di direzione effettiva è situata in uno Stato contraente, ad eccezione del caso in cui la nave o l’aeromobile siano utilizzati esclusivamente tra località situate nell’altro Stato contraente”. Come evidenziato nel Commentario Ufficiale al Modello di Convenzione OCSE, la nozione convenzionale di “traffico internazionale” deve, tuttavia, essere letta in un’accezione più ampia di quella normalmente intesa. Nello specifico, l’ampia definizione fornita dal Commentario intende preservare per lo Stato contraente, ove è situata la direzione effettiva dell’impresa, il diritto di tassare direttamente non solo il traffico domestico ma anche quello internazionale operato all’interno dei confini di Stati terzi (“the broader definition is intended to preserve for the State of the place of effective management the right to tax purely domestic traffic as well as international traffic between third States”), consentendo all’altro Stato contraente di tassare esclusivamente il traffico effettuato all’interno dei confini domestici24 (“to allow the other Contracting state to tax traffic solely within its borders”), ovvero solo quando il trasporto ha inizio e termine in due località situate nel proprio territorio.

in detto Stato, a meno che l’impresa non svolga un’attività industriale o commerciale nell’altro Stato contraente per mezzo di una stabile organizzazione ivi situata. Se l’impresa svolge in tal modo la sua attività, gli utili dell’impresa sono imponibili nell’altro Stato, ma soltanto nella misura in cui detti utili sono attribuibili alla stabile organizzazione”. 24 Cfr. Commentario all’articolo 3 del Modello di Convenzione OCSE, punto 6. Al fine di comprendere in maniera più esaustiva l’ampia nozione di “traffico internazionale” lo stesso punto 6 del Commentario all’articolo 3 fornisce il seguente esempio “Suppose an enterprise of a Contracting State or an enterprise that has its place of effective management in a Contracting State, through an agent in the other Contracting State, sells tickets for a passage that is confined wholly within the first-mentioned State or alternatively, within a third State. The Article does not permit the other State to tax the profits of either voyage. The other State is allowed to tax such an enterprise of the first-mentioned State only where the operations are confined solely to places in that other State”.

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Alla luce del combinato disposto degli articoli 3 e 8 del Modello OCSE, gli unici traffici esclusi dalla giurisdizione dello Stato di direzione effettiva dell’impresa risultano, pertanto, essere solo quelli effettuati tra località entrambe situate entro i confini dell’altro Stato contraente. Mediante alcune proposte di aggiornamento del Modello di Convenzione OCSE e del relativo Commentario sono stati, altresì, forniti ulteriori chiarimenti in ordine al significato da attribuire alla predetta nozione. Più nello specifico, con le modifiche apportate al par. 6.3 dell’articolo 3 del Commentario OCSE, è stato ulteriormente precisato che la nozione di “traffico internazionale” non trova applicazione in tutte quelle ipotesi in cui il trasporto sia effettuato tra due luoghi situati nel medesimo Stato contraente, anche se parte del trasporto è effettuata al di fuori di tale Stato. Pertanto, nel caso del c.d. cabotaggio, ovvero trasporto operato tra approdi situati nel medesimo Stato, non è possibile invocare l’articolo 8, anche se parte del viaggio avviene fuori dallo Stato, ma, conseguentemente dovranno essere applicate le differenti previsioni dell’articolo 7 e, pertanto, la potestà impositiva sarà riconosciuta in capo allo Stato della fonte del cabotaggio aereo25.

3 La nozione di place of effective management e la crisi di un concetto non più al passo coi tempi.

Orbene, come già profusamente precisato, l’articolo 8 nel riconoscere la potestà impositiva ad un solo Stato membro, individua, quale criterio attributivo, il luogo di direzione effettiva dell’impresa (place of effective management). La nozione di sede di direzione effettiva dell’impresa costituisce un criterio che non è esclusivo dell’articolo 8 in quanto già previsto nel precedente articolo 4. Tuttavia, mentre nell’articolo 8 è utilizzato quale criterio attributivo della potestà impositiva, all’articolo 4 è usato quale criterio residuale di individuazione della residenza nel caso in cui gli altri criteri ivi individuati non fossero risolutivi26. Nello specifico, l’articolo 4 del Modello OCSE stabilisce al paragrafo 3 che, qualora in conseguenza della previsione di cui al par. 1 un soggetto diverso da una persona fisica sia residente di entrambi gli Stati contraenti, sarà considerato residente solo nello Stato in cui è posto il luogo di gestione effettiva27.

25 Il medesimo par. 6.3 dell’articolo 3 del Commentario OCSE afferma, a titolo esemplificativo, che non costituisce trasporto di passeggeri in traffico internazionale, il caso di una crociera che inizi e termini il trasporto nel medesimo Stato contraente senza alcuna sosta in un porto straniero. 26 Si fa riferimento alle c.d. tie-break rules, in base alle quali stabilire se il collegamento del soggetto, con doppia residenza, sia più intenso con l’uno o con l’atro Stato contraente, e volte a risolvere, per via convenzionale, il conflitto nascente dall’applicazione delle normative nazionali. 27 Per un maggior approfondimento sul concetto di residenza in ambito internazionale si veda M. Lehner, Commento all’art. 4 del Modello OCSE, in Klaus Vogel on Double

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Come noto, l’elaborazione della nozione di sede di direzione effettiva dell’impresa (place of effective management), quale criterio idoneo a dirimere i casi di doppia residenza, deriva da alcune sentenza della House of Lords inglese di fine ottocento-primi del novecento, che stabilirono nel Regno Unito la residenza di tre società svolgenti attività commerciale in Sud Africa, in India ed in Italia28. Il caso più noto è sicuramente quello posto all’attenzione della House of Lords e vertente la posizione della società De Beers, impresa esercente attività di estrazione e di commercio di diamanti29. La nozione di “place of effective management”, così come elaborata dalla giurisprudenza inglese30, è stata fatta propria anche dal Commentario

Taxation Conventions, Third Edition, 1997, 260 ss. L’autore richiama nello specifico la giurisprudenza della Suprema Corte tedesca secondo cui «il luogo di gestione di un’impresa è dove sono effettivamente prese importanti decisioni gestionali». «Ciò che rileva non è dove sono eseguite le direttive gestionali, bensì il luogo da cui esse promanano». Cfr. anche J. Sasseville, The Meaning of «Place of Effective Management» in Residence of Companies under Tax Treaties and EC Law, (Amsterdam: IBFD Pubblications), 2009, 287 ss.; K Van Raad, Dual Residence, in European Taxation, 1988, 241 ss.; S. Shalhav, The Evolution od Art. 4(3) and Its Impact on the Place of Effective Management Tie Breaker Rule, in Intertax, 2004, 460 ss.; AA.VV., The Origins of Concepts and Expressions Used in the OECD Model and their Adoption by States, in Bullettin, 2006, 220 ss.; G. Bizioli, The Evolution of the Concept of the Place of Management in Italian Case Law and Legislation: Interaction with Tax Treaties and EC Law, in European Taxation, 2008, 527 ss. 28 Cfr. G. Marino, La residenza nel diritto tributario, Padova, 1999, 363. Nella dottrina inglese si veda S. Picciotto, International Business Taxation, London, 1992, 5 ss.; J.F. Avery Jones, Corporate residence in common law: The origins and current issues, 121 ss. 29 De Beers Consolidated Mines Ltd. v. Howe (1906) 5 T.C. 198. Come noto la problematica verteva intorno all’individuazione della residenza della società, la quale aveva: (i) sede in Sudafrica; (ii) svolgeva attività di estrazione di diamanti in Sudafrica; (iii) l’ufficio principale in Sudafrica; (iv) la sede dove si riunivano gli azionisti in assemblea a Kimberly (Sudafrica). I consigli di amministrazione, tuttavia, si riunivano tanto in Sudafrica quanto in Inghilterra, ancorché quelli muniti di poteri esecutivi passassero la maggior parte del loro tempo a Londra, e pertanto da Londra partissero gli impulsi per le decisioni imprenditoriali più importanti. Per tali ragioni, la società fu considerata dalla House of Lords come residente in Inghilterra in virtù della presenza in territorio inglese del proprio “central management and control”. La scelta di privilegiare il criterio del luogo di riunione della maggioranza dei membri del consiglio di amministrazione piuttosto che il luogo di produzione del reddito, risulta discutibile, in quanto trattasi di criteri soggetti a facili variazioni. Sul punto si veda A, Fantozzi, Il diritto tributario, Torino, 2003, 886; G. Zizzo, L’imposta sul reddito delle società, in G. Falsitta, Manuale di diritto tributario, Parte speciale: Il sistema delle imposte in Italia, ed. 7, Padova, 2010, 21; S. Picciotto, International Business Taxation, op. cit., 8, secondo cui il «test del central management and control elaborato dalle corti inglesi non è mai stato definito con legge». 30 Cfr. oltre alla sentenza De Beers Consolidated Mines Ltd. v. Howe (1906), la sentenza Calcutta Jute Mills Company, Limited v. Henry Nicholson (1876) nonchè la sentenza Cesena Sulphur Company, Limited v. Nicholson (1876). Per un maggior

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Ufficiale al Modello di Convenzione OCSE, il quale la definisce come il luogo in cui vengono prese le decisioni fondamentali di management e commerciali necessarie per l’esercizio dell’attività dell’impresa. A tal proposito, risulta tuttavia opportuno evidenziare come l’Italia ha dichiarato di non aderire alla nozione di sede di direzione effettiva illustrata nel citato Commentario. Le nostre Autorità fiscali hanno, difatti, formulato una “osservazione”31 all’interno del par. 25 del Commentario OCSE32, affermando che per determinare la sede di direzione effettiva di una società non è sufficiente fare esclusivo riferimento al luogo dove gli amministratori assumono le loro decisioni, bensì anche al luogo nel quale viene svolta l’attività principale della società33. La nozione di “place of effective management” ha, nella sua evoluzione storica, subito quei mutamenti dettati dall’evolversi delle modalità di svolgimento del business ed in particolare dalla loro internazionalizzazione. Difatti, sono state elaborate all’interno dell’OCSE una serie di discussioni per analizzare in maniera più approfondita il concetto di “sede di direzione effettiva” a cominciare dal primo documento sugli effetti tributari del cd. “commercio elettronico”34 per poi proseguire l’argomento con un documento pubblicato nel febbraio 2001, dal titolo «The impact of the Communications Revolution on the Application of “Place of Effective Management” as a Tie-Breaker Rule»35, seguito da una discussion draft presentata in data 27 maggio 2003 intitolata “Place of Effective Management Concept: Suggestions for Changes to The OECD Model Tax Convention” e successivamente, in data 21 approfondimento sul tema si veda G. Moschetti, Origine storica, significato e limiti di utilizzo del place of effective management, quale criterio risolutivo dei casi di doppia residenza delle persone giuridiche, in “Diritto e pratica tributaria”, n. 2-2010, 254 ss. 31 Le “osservazioni” a differenza delle “riserve” non esprimono un dissenso dal testo della Convenzione, ma indicano semplicemente il modo in cui il Paese applicherà le disposizioni dell’articolo oggetto dell’osservazione. Per un maggior approfondimento sull’efficacia delle osservazioni al Commentario OCSE si veda G. Melis, Trasferimento della residenza fiscale e imposizione sui redditi, Milano, 2009, 246 ss., V. Uckmar – G. Corasaniti – P. de’ Capitani di Vimercate, Manuale di Diritto Tributario Internazionale, Padova, 2009, 56. 32 Nello specifico il par. 25 recita: «Italy does not adhere to the interpretation given in paragraph 24 above concerning the “most senior person or group of person (for example, a board of directors)” as the sole criterion to identify the place of effective management of an entity. In its opinion the place where the main and substancial activity of the entity is carried on is also to be taken into account when determining the place of effective management». 33 Per un maggior approfondimento sul punto si rinvia a G. Marino, Esterovestizione ed esterocertificazione: due facce della stessa medaglia, in “Rassegna tributaria”, n. 4/2012, 1025 ss. 34 Electronic Commerce: the challenge to tax authorities and taxpayers, in Riv. dir. trib., 1998, IV, 3 ss.. Sul punto si veda G. Maisto, Le prime riflessioni dell’OCSE sulla tassazione del commercio elettronico, in Riv. dir. trib., 1998, IV, 47 ss. 35 Cfr. S. Mayr – G. Fort, La residenza fiscale delle società: necessità di un cambiamento?, in Corr. Trib., 2001, 2086 ss.; C. Romano, The Evolving Concept of “Place of Effective Management” as a Tie-breaker Rule under the OECD Model Convenction and Italian Law, in European Taxation, 2001, 339 ss.

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aprile 2008, una proposta di modifiche all’art. 4 del Modello OCSE e al suo commentario36. Orbene, mentre le critiche rivolte da gran parte della dottrina alla nozione di “place of effective management” quale unico criterio risolutivo della doppia residenza delle persone giuridiche37 potrebbero considerarsi fondate in quanto non adattabili alla peculiarità dei casi, lo stesso non potrebbe dirsi in tutte quelle ipotesi in cui la nozione di “place of effective management” è utilizzata quale criterio attributivo della potestà impositiva, così come avviene, ad esempio, per le attività di trasporto marittimo ed aereo, ove le imprese svolgono l’attività in plurimi Paesi e le attività economiche sono diffuse in plurimi Stati38. Quanto detto trova altresì conferma anche nel par. 23 del Commentario all’articolo 4 ove si afferma che “The formulation of the preference criterion in the case of persons other than individuals was considered in particular connection with the taxation of income for shipping, inland waterways transport and air transport”, ergo, il criterio di preferenza - del place of effective management - nel caso di persone giuridiche è stato pensato soprattutto per la tassazione del reddito derivante da attività di navigazione, trasporti navali interni e trasporti aerei. In conclusione, pertanto, in tutti quei casi in cui l’attività economica dell’impresa è svolta in plurimi Stati, così come avviene nello specifico settore del trasporto marittimo ed aereo, risulta perfettamente idonea l’individuazione della potestà impositiva nel luogo in cui vi è la sede centrale della società39, essendo l’unico criterio concretamente idoneo ad eliminare i possibili effetti di doppia imposizione.

4 Gli aspetti critici e i chiarimenti forniti dall’Ag enzia delle Entrate.

L’articolo 38, comma 1, così come introdotto dal D.L. n. 179/2012, contiene, tuttavia, un errore di fondo in quanto ricollega l’assoggettamento ad imposizione dell’impresa estera alla presenza in Italia di una o più stabili organizzazioni. Anche se la base italiana di una compagnia aerea presenta 36 “Draft Contents to the 2008 Update to the Model Tax Convection”. 37 Cfr. sul punto G. Moschetti, Origine storica, significato e limiti di utilizzo del place of effective management, quale criterio risolutivo dei casi di doppia residenza delle persone giuridiche, op. cit., 271 ss.; G. Melis, La residenza fiscale delle società sull’Ires: giurisprudenza e normativa convenzionale, in “Corriere tributario”, 2008, n. 45, 3651, il quale definisce «laconica» la disposizione convenzionale in commento. Secondo gli Autori menzionati sarebbe più coerente applicare il place of effective management quale criterio (non più primario) ma secondario, nelle ipotesi in cui vi sia conflitto nell’attribuzione della residenza tra più Stati in cui l’impresa svolge la propria attività principale. 38 T. Aragno, Brevi note in tema di residenza fiscale e stabile organizzazione di società estera di navigazione, in Dir. Prat. Trib., 1999, II, 87 ss.; A. Manzitti, Considerazioni in tema di residenza fiscale delle società, in Riv. Dir. Trib., n. 5/1998, 176 ss. 39 Cfr. in tal senso L. Einaudi, Corso di scienza delle finanze, Torino, 1926, 133.

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tutte le caratteristiche per poter essere considerata una “permanent establishment” ciò non è, infatti, sufficiente a far scattare l’imposizione in quanto, come già profusamente esposto, la complessità e la particolarità dell’attività esercitata dalle imprese di trasporto marittimo ed aereo, comporta l’irrilevanza del criterio della stabile organizzazione, non essendo esso sufficiente a risolvere i problemi di doppia imposizione. Diversamente da quanto accade per le imprese di qualsiasi altro settore, l’Italia, difatti, non potrebbe tassare i profitti prodotti sul suo territorio, pur attraverso strutture qualificabili come stabili organizzazioni. Le norme interne, infatti, vanno necessariamente coordinate con quelle contenute nelle convenzioni bilaterali stipulate dall’Italia sulla base del Modello di Convenzione OCSE. Come già precisato, la definizione di “base” aerea fornita dall’articolo 38 contiene tutti gli elementi richiesti dall’articolo 5 del Modello OCSE e di riflesso dall’articolo 162 T.U.I.R., ovvero: l’esistenza di una sede di affari, la tendenziale fissità spaziale e temporale dell’insediamento, nonché lo svolgimento dell’attività d’impresa attraverso tale base fissa. Tuttavia, lo specifico caso dell’aviazione civile ha meritato, come supra precisato, l’inserimento di una norma speciale del Modello di Convenzione OCSE (articolo 8), che introducendo una regola differente rispetto alla normativa di carattere generale prevista per la tassazione degli utili, individua quale Stato titolare della potestà impositiva sui profitti derivanti dall’esercizio, in traffico internazionale40, di navi o aeromobili, lo Stato contraente nel quale è situata la sede di direzione effettiva dell’impresa, i.e. place of effective managment, a prescindere dall’esistenza di una stabile organizzazione nell’altro Stato cui tali utili sono attribuibili. Il commentario all’articolo 8 non fornisce, tuttavia, alcuna indicazione in ordine alle ragioni idonee a giustificare l’adozione di un differente trattamento rispetto alla normativa di carattere generale prevista dall’art. 7 per gli utili d’impresa41. Pertanto, la normativa internazionale che trova applicazione in luogo di quella italiana, in forza del disposto dell’art. 117 della Costituzione, individua dei criteri differenti – rispetto a quelli richiesti dalla normativa nazionale – in base ai quali individuare la concreta potestà impositiva. Si sono, tuttavia, posti dei dubbi in ordine alla corretta individuazione della

40 Ai sensi dell’articolo 3, par. 1, lett. e) del Modello di Convenzione OCSE con l’espressione traffico internazionale si intende “qualsiasi attività di trasporto effettuato per mezzo di una nave o di un aeromobile da parte di un’impresa la cui sede di direzione effettiva è situata in uno Stato contraente, ad eccezione del caso in cui la nave o l’aeromobile siano utilizzati esclusivamente tra località situate nell’altro Stato contraente”. 41 Per una completa analisi in merito alla elaborazione del criterio della sede di direzione effettiva come principio idoneo a prevenire il verificarsi della doppia imposizione sui profitti realizzati da imprese di navigazione marittima e aerea vedi G. Maisto, The History of Article 8 of the OECD Model Treaty on Taxation, in Intertax, Kluwer, Issue 6/7, 2003, 232 e D. Hund, The development of Double Taxation Conventions with Particolar Reference to Taxation of International Air Transport, in Bulletin for fiscal documentation, 1982, 112.

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norma su cui si fonda tale supremazia, se l’articolo 10 della Costituzione o il seguente articolo 117. Ebbene, preliminarmente occorre precisare come l’articolo 10 della Costituzione è il parametro che ha stabilito un meccanismo di adattamento automatico alle norme, testualmente, «del diritto internazionale generalmente riconosciute» e solo per queste, secondo la lettura che ne è stata data fin dall’inizio dalla giurisprudenza e dalla prevalente dottrina42. La riforma dell’articolo 117 Cost., operata con la riforma costituzionale del 2001, ha offerto, invece, una copertura costituzionale anche alle disposizioni convenzionali. In ordine alla corretta interpretazione normativa, dirimenti risultano le interpretazioni fornite dalla Corte Costituzionale con le sentenze n. 348 e 349 che affrontano l’interpretazione dell’articolo 117 Cost. in maniera più puntuale, sgombrando il dubbio da quei pareri che volevano applicare la disposizione limitatamente ai rapporti Stato e Regioni43. Più nello specifico secondo i Giudici l'espressione contenuta nell’articolo 10 "norme del diritto internazionale generalmente riconosciute", «si riferisce soltanto alle norme consuetudinarie e dispone l'adattamento automatico, rispetto alle stesse, dell'ordinamento giuridico italiano»; viceversa, le norme pattizie esulano dalla portata dell'art. 10 Cost., «con la conseguente impossibilità di assumere le relative norme quali parametri del giudizio di legittimità costituzionale, di per sé sole, [...] ovvero come norme interposte». In base a quanto precisato dagli Ermellini nelle richiamate pronunce, la prevalenza di una convenzione internazionale in materia fiscale, in luogo della normativa nazionale, trova fondamento nel nostro ordinamento proprio nel parametro costituzione dell’art. 117, primo comma, Cost. ai sensi del quale «La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali». La predetta disposizione conferisce, pertanto, alle norme pattizie una forza resistente maggiore rispetto alle leggi interne successive, senza peraltro attribuire loro il rango di fonte primaria. Difatti, la suddetta disposizione, prevedendo che «la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto [… omissis …] dei vincoli derivanti [… omissis …] dagli obblighi internazionali», realizza «un rinvio mobile alla norma convenzionale di volta in volta conferente, la quale dà vita e contenuto a quegli obblighi internazionali genericamente

42 Cfr. G. Tesauro, Relazioni tra Corte Costituzionale e Corte di Giustizia, in atti del Convegno di Bruxelles (24-26 maggio 2012) consultabili su http://www.cortecostituzionale.it/ActionPagina_1070.do 43 “Escluso che l'art. 117, primo comma, Cost., nel nuovo testo, possa essere ritenuto una mera riproduzione in altra forma di norme costituzionali preesistenti (in particolare gli artt. 10 e 11), si deve pure escludere che lo stesso sia da considerarsi operante soltanto nell'ambito dei rapporti tra lo Stato e le Regioni.” Cfr. par. 4.4 sentenza 24 ottobre 2007, n. 348.

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evocati e, con essi al parametro, tanto da essere comunemente qualificata norma interposta»44. Alla luce di quanto detto, gli eventuali contrasti fra norma convenzionale e legge interna (anche) successiva «non generano problemi di successione nel tempo o valutazioni sulla rispettiva collocazione gerarchica delle norme in contrasto, ma questioni di legittimità costituzionale» aventi ad oggetto la legge interna e, come parametro interposto, la stessa norma convenzionale45. Orbene, a seguito della modifica dell’art. 117 della Costituzione e dell’interpretazione fornita dal Giudice delle leggi, la prevalenza della normativa internazionale discende proprio da quel rango sovraordinato della norma convenzionale rispetto alla legge ordinaria, un rango sub-costituzionale, intermedio fra le due. In questa ricostruzione, gli eventuali contrasti non generano problemi di successione di leggi nel tempo o valutazioni sulla rispettiva collocazione gerarchica delle norme in contrasto, ma questioni di legittimità costituzionale. Alla luce di ciò, la norma interna deve necessariamente essere interpretata in modo conforme alla disposizione internazionale. In altre parole, vi è un ambito della materia tributaria in cui, accanto a norme interne, esistono anche norme di derivazione convenzionale che prevalgono sulle prime nei termini che la giurisprudenza costituzionale ha ricostruito con le due citate sentenze. Alla luce di quanto esposto, la formulazione della disposizione normativa in commento, così come introdotta dal D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, non poteva non far sorgere dubbi in ordine alla corretta applicazione della stessa soprattutto per quel che concerne il rispetto dei principi convenzionali. Nel caso di specie, difatti, il mancato adeguamento della disciplina interna alle disposizioni convenzionali avrebbe generato profili di illegittimità costituzionale. La stessa Agenzia delle Entrate, con la Circolare 3 maggio 2013, n. 12/E, ha preso coscienza della necessità di coordinamento delle disposizioni domestiche con quelle contenute nelle Convenzioni contro le doppie 44 Cfr. Corte Costituzionale, sentenza 24 ottobre 2007, n. 349. La sentenza n. 349 trae origine dalle ordinanze della Corte di Cassazione del 20 maggio 2006 e della Corte d’Appello di Palermo del 29 giugno 2006 che hanno sollevato la “questione di legittimità costituzionale dell’art. 5-bis, comma 7-bis, del decreto-l. 11 luglio 1992, n. 333, convertito, con modificazioni, dalla l. 8 agosto 1992, n. 359 – comma aggiunto dall’art. 3, comma 65, della l. 23 dicembre 1996, n. 662”. Per un maggior approfondimento sulla questione si confronti Claudio Zanghì, La Corte costituzionale risolve un primo contrasto con la Corte europea dei diritti dell’uomo ed interpreta l’art. 117 della Costituzione: le sentenze n. 347 e 348 del 2007, nella Rubrica “Studi” di Consulta OnLine. 45 Cfr. Corte Costituzionale, sentenza 24 ottobre 2007, n. 348. La sentenza n. 348 trae origine dalle ordinanze della Corte di Cassazione del 29 maggio e del 19 ottobre 2006 che hanno sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 5-bis del D.L. 11 luglio 1992, n. 333, convertito, con modificazioni, nella l. 8 agosto 1992, n. 359. Per un maggior approfondimento sulla questione si confronti Claudio Zanghì, op. cit., nella Rubrica “Studi” di Consulta OnLine.

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imposizioni stipulate dall’Italia. Nello specifico, l’Amministrazione finanziaria ha espressamente ammesso, nel caso di utili derivanti dal traffico aereo internazionale, la prevalenza della fonte convenzionale sul diritto interno a nulla rilevando la presenza di una stabile organizzazione sul territorio italiano. Come espressamente affermato nel par. 2.1 della citata Circolare, difatti, “in base alle sentenze della Corte Costituzionale n. 348 e 349 del 2007, la prevalenza delle norme contenute in Trattati ratificati dall’Italia sulle norme interne incompatibili, ancorché successive, è una conseguenza dell’obbligo di adeguamento agli obblighi internazionali previsto dall’articolo 117 della Costituzione”. Con un’interpretazione adeguatrice alle disposizioni internazionali, l’Agenzia delle Entrate, nella Circolare in commento, afferma, pertanto, che per poter individuare l’ambito di applicazione della norma occorre far riferimento alla nozione di “traffico internazionale” così come fornita dall’articolo 3, par. 1, lett. e), del Modello di Convenzione OCSE. Alla luce di quanto sopra esposto l’ambito applicativo della novella normativa si riduce esclusivamente ai profitti ricavati dalla compagnia estera sulle sole tratte nazionali operate a partire dalla base italiana e ciò in aderenza ai principi enunciati nell’articolo 8 della Convenzione OCSE contro le doppie imposizioni. La qualifica di stabile organizzazione comporta inoltre l’assoggettamento agli obblighi strumentali incluso quello di tenere le scritture contabili ai sensi dell’articolo 14, comma 5, del D.P.R. n. 600/1973.

5 Conclusioni

Volendo pertanto epilogare, alla luce di quanto sopra esposto, risulta oltre modo palese la superfluità della norma nazionale di prima formulazione rispetto alle disposizioni convenzionali. La previsione di una stabile organizzazione in Italia di imprese che effettuano il trasporto aereo internazionale, non è, come evidenziato, condizione sufficiente per superare quanto previsto dalla sovraordinata normativa convenzionale che, lungi dal riconoscere prevalenza al criterio della stabile organizzazione, àncora la potestà impositiva al luogo in cui l’impresa ha la sede di direzione effettiva. Desta, pertanto, perplessità l’iniziale “criminalizzazione” del comportamento di imprese straniere che investono in Italia, come se stessero attuando un presunto piano di profit shifting, culminata con la forzata presa di coscienza di un principio internazionale già immanente nel nostro ordinamento. La disposizione introdotta lungi dall’attribuire una potestà impositiva differente da quella prevista a livello internazionale, si limita semplicemente a chiarire il significato della nozione di “base” aerea e quando questa si considera stabilita nel territorio italiano. La vera novità introdotta dalla norma in commento è, invece, rappresentata dall’assoggettamento dei dipendenti della compagnia aerea estera ai contributi previdenziali italiani. La nozione di “base” operativa fatta propria dall’ordinamento nazionale risulta, difatti, più ampia di quella espressamente prevista dalla normativa dell’Unione Europea, consentendo, in tal modo, di

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includere anche le più snelle strutture aeroportuali - utilizzate dalle compagnie aeree cd. low cost - nella nozione di stabile organizzazione. Tra queste emblematico risulta il caso della nota compagnia aerea irlandese Ryanair, la quale opera da sempre in Italia attraverso una rappresentanza fiscale, ma senza una stabile organizzazione. Ciò ha permesso alla suddetta compagnia di applicare, agli equipaggi che svolgono tratte esclusivamente interne, che ivi lavorano e che usufruiscono del sistema sanitario nazionale – definite “di passaggio” –, le più favorevoli aliquote contributive dell’Irlanda. Ebbene, la nuova disposizione normativa, individuando nelle basi operative il collegamento territoriale con lo Stato italiano, in quanto i lavoratori “hanno in tale base il loro centro di attività professionale, nel senso che vi lavorano, vi prendono servizio e vi ritornano dopo lo svolgimento della propria attività”, ha, pertanto, imposto, alla compagnia aerea estera, di pagare i contributi previdenziali per il personale basato negli aeroporti italiani. Tuttavia, se dal punto di vista previdenziale la norma trova una sua giustificazione, lo stesso non può dirsi dal punto di vista fiscale ove invece ci si chiede se era effettivamente necessaria la sua introduzione oppure se la normativa nazionale, letta in combinato disposto con le disposizioni convenzionali, era già di per sé sufficiente per assoggettare il traffico interno delle compagnie aeree estere che hanno nello Stato italiano la disponibilità di una sede fissa di affari. La ratio della norma potrebbe rinvenirsi in primis nella necessità di qualificare la base operativa quale sostituto d’imposta ed in secundis in un aspetto prettamente operativo riguardante la modalità di calcolo del reddito dei vettori. Occorrerà, difatti, estrapolare il reddito potenzialmente prodotto sulle tratte interne, da una gestione tendenzialmente mista, nazionale ed internazionale, ipotesi piuttosto frequente nelle compagnie aeree low cost. La norma nazionale può, quindi, essere letta in una duplica ottica, da un lato pro fisco in quanto individua le ipotesi in cui una impresa aerea estera configura una stabile organizzazione in Italia, dall’altro lato pro contribuente in quanto, individuando con precisione tutte quei casi in cui l’impresa aerea estera è considerata avere una stabile organizzazione in Italia, consente a quest’ultima di sapere quando sarà soggetta agli obblighi strumentali previsti dalle norme tributarie, incluso quello di tenere le scritture contabili ai sensi dell’articolo 14, comma 5 del D.P.R. n. 600/1973, rilevando “distintamente i fatti di gestione che interessano le stabili organizzazioni, determinando separatamente i risultati dell’esercizio relativi a ciascuna di esse”, nonché di operare quale sostituto d’imposta e di effettuare le ritenute fiscali. Alla luce di quanto sopra esposto, pertanto, i conseguenti effetti di maggior gettito, non sono tanto a titolo di IRES o di IRAP, così come esposto nella relazione tecnica sopra riportata, quanto piuttosto a titolo di IRPEF, in quanto il vero quid pluris normativo è ricollegato, soprattutto, all’assoggettamento dei dipendenti della compagnia aerea estera ai contributivi previdenziali italiani. In conclusione, quindi, l’articolo 38, comma 1, del D.L. n. 179/2012, a cui era stato inizialmente impresso un carattere spiccatamente antievasivo – così come si evince altresì dalle interrogazioni parlamentari sopra riportate –, ha

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avuto come effetto principale quello di assoggettare le compagnie aeree estere alle “nuove” regole italiane in ambito contributivo, mentre dal punto di vista prettamente fiscale, altro effetto non ha avuto che quello di adattare il nostro sistema normativo domestico alla consolidata prassi internazionale e alla migliore legislazione già in vigore in forza dei trattati OCSE stipulati dall’Italia, rendendo più agevole anche per il contribuente individuare tutte quelle ipotesi in cui lo stesso sarà considerato stabilito sul territorio italiano.

Prof. Giuseppe Melis Professore Università Luiss Guido Carli di Roma

Le interrelazioni tra le nozioni di residenza fiscale e stabile organizzazione:

problemi ancora aperti e possibili soluzioni

1 Il ruolo della residenza fiscale nell’ordinamento italiano e la legge delega n. 825/1971.

Al modello ordinario della coesistenza tra criteri di collegamento personali (sia pure riferiti al territorio) e reali nella determinazione dell’ambito spaziale del presupposto dell’imposta si ascrive anche il sistema italiano di imposizione sul reddito, quale frutto della riforma tributaria di cui alla legge di delega 9 ottobre 1971, n. 825 e della trasformazione da essa operata del sistema di tassazione dei redditi da (prevalentemente) reale in (prevalentemente) personale, nel dichiarato intento di dare compiuta attuazione al principio di capacità contributiva ex art. 53 Cost. (1). E’ in tale trasformazione che la residenza fiscale assume un ruolo centrale e segna un profondo cambiamento con il passato. Nonostante la sostituzione avvenuta in sede costituzionale del termine “regnicoli” dello Statuto albertino con il pronome “tutti”, era invero ancora il concetto di nazionalità a costituire il referente del rapporto tributario fra soggetto e collettività nel sistema ante-riforma (2), estrinsecandosi l’imposta di ricchezza mobile nelle categorie soggettive dei “cittadini italiani e stranieri” e delle società costituite nel territorio dello Stato e all’estero e definendo gli artt. 8 e 9 del t.u.i.d. n. 645/1958, in base alla nazionalità, il domicilio fiscale ai fini delle imposte personali (imposta complementare e imposta sulle società). L’art. 131 t.u.i.d. considerava soggetti all'imposta complementare “le persone fisiche, cittadini italiani o stranieri” e l’art. 145

(1) Per tutti, G.C. CROXATTO, La tassazione del reddito derivante da attività internazionale nel quadro della riforma tributaria, in Dir. prat. trib., 1972, p. 10 ss. Nella relazione ministeriale all’art. 2, n. 2 del disegno di legge governativo n. 1636, presentato alla Camera dei deputati il 1 luglio 1969, si legge in particolare che “il carattere personale dell’imposta comporta che entrino a comporre il reddito imponibile dei soggetti residenti sul territorio dello Stato anche i redditi prodotti all’estero”. Sui contenuti della discussione parlamentare, si veda G. MARINO, L’unificazione del diritto tributario: tassazione mondiale verso tassazione territoriale, in AA.VV., Studi in onore di Victor Uckmar, t. 2, Padova, 1997, p. 855 ss. (2) Sul punto, vedi E. ASPREA, Il cittadino e lo straniero nel linguaggio europeo della riforma, in Boll. trib., 1975, p. 1005 ss.

LE INTERRELAZIONI TRA LE NOZIONI DI RESIDENZA FISCALE E STABILE

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t.u.i.d. faceva riferimento alle società ed associazioni italiane ed estere, queste ultime anche se non tassabili in base a bilancio. Il sistema di tassazione era articolato su un insieme di imposte reali ancorate ad una rigorosa applicazione del principio di territorialità (3), assegnandosi all’imposta complementare – di tipo personale – la funzione di assicurare una (blanda) progressività dell’imposizione. In relazione a quest’ultima, veniva pertanto in rilievo anche la nozione di residenza fiscale, attribuita ai soggetti che avessero la dimora in Italia da oltre un anno, ancorché non iscritti nei registri anagrafici, e ai cittadini italiani residenti all’estero per ragioni di pubblico servizio. La distinzione fra residenti e non residenti si rifletteva sulla determinazione della base imponibile dell’imposta complementare, essendo i primi tassati anche sui redditi prodotti all’estero, purché “goduti” nello Stato italiano e salvo norme contrarie contenute in convenzioni internazionali (art. 133, co. 1 e 2, t.u.i.d.), mentre i secondi essendolo sui soli redditi prodotti nel territorio dello Stato. Con la riforma il sistema subisce profonde trasformazioni e il rapporto “reddito-territorio” viene sostituito con quello “soggetto-territorio” (4), di cui i principi enunciati all’art. 2 della legge di delega n. 825/1971 – concorso alla formazione del reddito complessivo di tutti i redditi propri del soggetto, attribuzione al soggetto di un credito d’imposta in relazione ai tributi assolti all’estero per i redditi ivi prodotti, applicazione dell’imposta anche nei confronti delle persone fisiche non residenti, assumendo come reddito complessivo l’ammontare dei redditi prodotti nel territorio dello Stato – delineano gli elementi strutturali. In tal modo, come è stato sottolineato, le imposte personali vengono a colpire non più una parte degli indici di capacità contributiva di tipo reddituale, bensì tutti complessivamente e in quanto riferibili ad un medesimo soggetto, il quale (soggetto) concorre per tale via alla definizione del presupposto. Al tempo stesso, definendosi il fatto imponibile in funzione del soggetto, è necessariamente ai redditi ovunque prodotti che deve farsi riferimento,

(3) L’art. 6 t.u.i.d. n. 645/1958, disponeva infatti che “le imposte sono applicabili se i loro presupposti si verificano nel territorio dello Stato”. Si veda, al riguardo, A. FEDELE, Profili dell’imposizione degli incrementi di valore nell’ordinamento tributario italiano, in AA.VV., L’imposizione dei plusvalori immobiliari, Milano, 1970, p. 125 ss.; G. MARONGIU, Alle radici dell’ordinamento tributario italiano, Padova, 1988, p. 192 ss.; M. MICCINESI, Le plusvalenze di impresa, Milano, 1993, p. 13. Sulla scelta di tassare separatamente ed isolatamente i redditi come conseguenza dell’incapacità della finanza di affrontare il problema del reddito complessivo del contribuente, vedi L. EINAUDI, Principi di scienza delle finanze, Torino, 1932, p. 139 ss. L’individuazione del reddito in funzione di una fonte costituiva inoltre un modo di attuare la discriminazione qualitativa dei redditi: si veda M. MICCINESI, Redditi (imposta locale sui), in Enc. dir., XXXIX, 1988, Milano, p. 167 ss. (4) Così, efficacemente, C. SACCHETTO, Territorialità (dir. trib.), in Enc. dir., XLIV, 1992, p. 314 ss.

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pervenendosi altrimenti ad un’incongruenza – rilevante sul piano costituzionale – tra struttura del tributo e regole di territorialità (5). In tale contesto, la piena attuazione dell’art. 53 Cost. segna il tramonto della cittadinanza quale criterio di collegamento. Nuovo centro di riferimento per l’attuazione della personalità e progressività della tassazione è ora la residenza fiscale, ancorata a presupposti strettamente territoriali ed indici di appartenenza effettiva la cui presenza legittima l’applicazione del principio del reddito mondiale, potendosi altrimenti giustificare la sola tassazione dei redditi prodotti all’interno del territorio dello Stato secondo un modello di imposizione ancora reale (6). (5) Vedi A. FEDELE, Imposte reali e imposte personali nel sistema tributario italiano, in Riv. dir. fin. sc. fin., p. 453 ss. Sull’ampio dibattito svoltosi nella dottrina americana sul rapporto tra principio di “ability to pay” e “world-wide principle”, quasi unanimemente orientato nel senso nella consequenzialità necessaria del secondo rispetto al primo, si veda J. CLIFTON FLEMING - Jr., R.J. PERONI - S.E. SHAY, Fairness in International Taxation: The Ability-to-Pay Case for Taxing Worldwide Income, in Florida Tax Review, 2001, p. 299 ss. Per un recente tentativo di qualificare la scelta di tassare i soggetti residenti sui redditi ovunque prodotti come ragionevole, ma non necessaria sotto il profilo costituzionale, si veda A.M. GAFFURI, La tassazione dei redditi d’impresa prodotti all’estero. Principi generali, Milano, 2008, p. 352 ss., il quale ritiene che una scelta di esentare i redditi esteri potrebbe essere dettata da valide ragioni fiscali ed extra-fiscali, quali a) l’oggettiva difficoltà di individuare e di colpire i redditi di provenienza straniera; b) l’elisione della plurima imposizione internazionale (sulla base della duplice considerazione della presenza nel modello OCSE del metodo dell’esenzione e dell’utilizzo di tale metodo nel diritto dell’Unione Europea). A noi pare, tuttavia, che nel primo caso si tratti di inconveniente di mero fatto inidoneo a scalfire il principio di eguaglianza; mentre nel secondo di un problema cui, anche a voler ad esso riconoscere – come l’A. sostiene, argomentando peraltro in modo convincente – natura vincolante per il legislatore (e non già, come la dottrina comunemente ritiene, natura di mero inconveniente pratico, considerando l’eliminazione della doppia imposizione quale mera agevolazione), il legislatore italiano ha inteso porre rimedio con il meccanismo del credito per le imposte pagate all’estero intendendolo proprio quale naturale corollario dell’applicazione del principio del reddito mondiale. Quanto al profilo internazionale, non è un caso che l’Italia abbia costantemente fatto uso, nella stipulazione dei trattati in materia di imposte sul reddito e sul patrimonio, del metodo del credito d’imposta (anziché dell’esenzione); quanto al profilo europeo, da un lato il metodo dell’esenzione si sviluppa essenzialmente nell’ambito del più ampio tema della eliminazione della doppia imposizione economica, dall’altro, siamo ancora ben lontani in ambito europeo dal riconoscimento del principio di “territorialità” quale unico meccanismo compatibile con il funzionamento del mercato unico (si pensi, ad esempio, alla direttiva cd. “risparmio”). Sull’intima connessione tra principio di capacità contributiva (sotto il profilo di eguaglianza), principio del reddito mondiale e metodo del credito di imposta, al punto da poterne costruire un vero e proprio “contro-limite” ad eventuali atti dell’Unione Europea finalizzati a dare attuazione normativa al principio della “capital-import neutrality”, si veda F. GALLO, Ordinamento tributario e principi fondamentali tributari, Napoli, 2006, p. 47 ss. (6) Analoga innovazione avvenne sul piano dell’imposta sulle successioni. Superando il principio dell’individuazione dei beni facenti parte dell’asse ereditario secondo il

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Tale ultima limitazione si traduce sul piano normativo nella previsione di un autonomo – ed alquanto articolato – sistema di norme di localizzazione dei redditi prodotti nel territorio dello Stato (art. 19, d.p.r. n. 597/73), in realtà per i soli redditi prodotti da soggetti non residenti, ma a ben vedere necessario anche per quelli residenti, per via della soggezione ad Ilor dei soli redditi prodotti all’interno dello Stato e della concessione del credito per le imposte estere purché riferite a redditi prodotti all’estero (7). La compiuta attuazione del principio di personalità dell’imposizione conforme al principio di capacità contributiva impone, infine, al legislatore un ultimo passaggio. Se, infatti, la qualità di residente fiscale vale ad attrarre a tassazione i redditi ovunque prodotti ai fini della realizzazione dei suesposti principi, la personalità dell’imposizione non può realizzarsi se non riconoscendo al contribuente stesso la possibilità di far valere le caratteristiche della propria condizione personale, determinando per tale via l’onere tributario in base alle esigenze primarie dell’individuo e di quelle collegate al suo inserimento in un contesto sociale caratterizzato da una molteplicità di rapporti personali, economici e giuridici incidenti sulla relativa capacità economica. Sotto questo profilo, la nozione di residenza fiscale viene pertanto a distinguere, nel sistema dell’imposizione sui redditi,

criterio oggettivo della “territorialità”, l’art. 2 co. 1 d.p.r. n. 637/1972 venne infatti a stabilire che essa era dovuta “in relazione a tutti i beni e diritti trasferiti, ancorché esistenti all'estero”, mentre il successivo co. 2 aggiunse che se al momento dell’apertura della successione o al momento della donazione il defunto o il donante non era residente nello Stato, l’imposta era dovuta limitatamente ai beni e ai diritti ivi esistenti. Anche per l’imposta di successione si riproponeva pertanto la distinzione tra soggetti residenti e non residenti e anche in questo caso la distinzione esplicava i suoi effetti sulla base imponibile del tributo, pur dovendosi comunque il tributo qualificare come “reale”: vedi A. FEDELE, Imposte reali e imposte personali nel sistema tributario italiano, cit., p. 472. (7) Ne è derivata un’ampia rosa di tesi interpretative per far fronte ad una “lacuna legis” colmata, a distanza di oltre trenta anni, dal legislatore della riforma Ires mediante la codificazione della tesi della lettura cd. “a specchio” della norma sulla localizzazione dei redditi prodotti in Italia da soggetti non residenti (cfr. art. 165, co. 2 t.u.i.r: “I redditi si considerano prodotti all’estero sulla base di criteri reciproci a quelli previsti dall’art. 23 per individuare quelli prodotti nel territorio dello Stato”). Per le varie tesi, vedi G. MAISTO, Le innovazioni apportate per i rapporti internazionali, in AA. VV., Il reddito d'impresa nel nuovo Testo Unico, Padova, 1988, p. 246 ss.; G. MANTOVANO, Aspetti problematici dell'attuale disciplina del credito d'imposta per i redditi prodotti all'estero, in Il Fisco, 1990, p. 365 ss.; B. GANGEMI, Credito d'imposta e redditi esteri, in Boll. trib., 1990, p. 259; A. CASERTANO, I problemi irrisolti per i redditi prodotti all'estero, in Il Fisco, 1986, p. 316; G.C. CROXATTO, Redditi prodotti all’estero da soggetti residenti, in Il Fisco, 1986, p. 4881 ss.; S. MAYR, La tassazione dei redditi esteri per le società di capitali, in Boll. trib., 1978, p. 815 ss.; M. INGROSSO, Il credito di imposta, Milano, 1984, p. 228 ss.; C. GARBARINO, La tassazione del reddito transnazionale, Padova, 1990, p. 159 ss. Da ultimo, vedi A.M. GAFFURI, La tassazione dei redditi d’impresa prodotti all’estero. Principi generali, Milano, 2008, p. 75 ss.

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tra soggetti (residenti) ai quali competono anche le cd. personal-related deductions e quelli (non residenti) cui spettano le sole cd. income-related deductions. Tanto premesso, la funzione così delineata della residenza fiscale di distinguere i soggetti nei cui confronti dare rilevanza ai redditi ovunque prodotti, da coloro la cui tassazione è improntata a stretti criteri di territorialità, con tutti i corollari relativi alla personalità o realità dell’imposizione, va adesso inquadrata nel più generale tema del rapporto tra fattispecie tributaria e status di residenza fiscale. Ora, non vi è dubbio, innanzitutto, sul fatto che lo status di residenza non abbia alcuna incidenza sul tema della soggettività passiva, poiché quest’ultima spetta a tutti i soggetti espressamente indicati nell’Irpef e nell’Ires (costruite, come noto, in termini di “alternatività soggettiva”), indipendentemente dall’esistenza di un collegamento – personale o reale – con il territorio dello Stato; l’attribuzione della soggettività passiva ai fini delle imposte personali si pone pertanto come un prius rispetto alla qualificazione di soggetto fiscalmente residente o meno (8). In secondo luogo, lo status di residenza non incide neanche sulla qualificazione del reddito. Infatti, è al riguardo indifferente che un determinato reddito sia percepito da un residente, ovvero da un non residente, applicandosi in entrambi i casi le medesime regole di qualificazione reddituale (9).

(8) Si registra, tuttavia, la rilevante eccezione delle società di persone alle quali il legislatore, quando residenti, ha scelto di non attribuire soggettività passiva a fini tributari per considerarle enti trasparenti ai sensi dell’art. 5 TUIR (salvo poi renderle destinatarie di specifici criteri di collegamento personali ex art. 5, co. 3, lett. d) TUIR, peraltro coincidenti con quelli previsti per i soggetti IRES), e invece, quando non residenti, di attribuire loro soggettività passiva piena ai sensi dell’art. 73, comma 1, lett. d), TUIR. (9) Vi sono anche in tale ipotesi talune eccezioni. Innanzitutto, per le società di capitali, perché se residenti il loro reddito è qualificato comunque di impresa, ciò che non avviene per le società di capitali non residenti. In secondo luogo – e alla condizione di seguire la tesi (che non pare di poter condividere) per la quale ai fini della commercialità si prende in considerazione la sola attività “nazionale” – si potrebbero applicare regole qualificatorie diverse ai redditi di un ente non residente e di uno residente, ovviamente sul presupposto che le regole sulla commercialità siano anche regole sulla qualificazione del reddito. Un problema specifico sorge poi per la stabile organizzazione, essendo dibattuto se essa abbia una mera funzione di localizzazione del reddito (id est, di imponibilità in Italia) ovvero anche di sua qualificazione (come d’impresa) del reddito: in altri termini, se gli enti (ed i soggetti passivi in genere) non residenti possano essere titolari di redditi d’impresa conseguiti in Italia anche in assenza di una stabile organizzazione nel territorio dello Stato. E’ evidente che se fosse possibile configurare un reddito d’impresa conseguito in Italia in assenza di una stabile organizzazione, questo non solo non sarebbe tassabile (in quanto reddito d’impresa), ma non potrebbe neanche essere diversamente classificato (in altra categoria reddituale) ai fini della sua tassazione nello Stato. Per parte della dottrina (A. FANTOZZI – A. MANGANELLI,

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Qualificazione e determinazione dei redditi prodotti da imprese estere in Italia: applicabilità della normativa sui prezzi di trasferimento nei rapporti tra stabile organizzazione e casa madre, in Studi in onore di Victor Uckmar, Padova, 1997, I, p. 413 ss.; A. MANGANELLI, Territorialità dell’imposta, in Dig. disc. priv. sez. comm., XV, Torino, 1998, p. 366 ss.), la stabile organizzazione varrebbe soltanto quale elemento di localizzazione. Poiché nei confronti dei soggetti non residenti non operano le presunzioni di cui agli artt. 6 e 81 t.u.i.r. (essendo la presunzione di produzione di reddito di impresa esclusivamente riferita alle società e agli enti commerciali residenti), il soggetto ben potrebbe produrre reddito d’impresa in Italia in presenza delle caratteristiche di cui all’art. 55 t.u.i.r. (abitualità, attività ex art. 2195 cod. civ., ecc.), e tali requisiti andrebbero valutati con riferimento all’attività tipica svolta in qualsiasi parte del mondo, non ponendo l’art. 55 t.u.i.r. alcuna limitazione territoriale in tal senso (con la conseguenza, ad esempio, che gli interessi percepiti da una banca estera sarebbero qualificabili come “redditi di impresa” e tassabili in Italia solo ove vi sia una stabile organizzazione, restando altrimenti esclusi da imposizione, in quanto attività tipica svolta in modo abituale e professionale, mentre sarebbero redditi “di capitale” quelli derivanti dall’investimento della liquidità eccedente in obbligazioni emesse da un soggetto residente in Italia: peraltro, con riferimento alla prima ipotesi, l’art. 26, co. 5 d.p.r. n. 600/73 ha risolto il problema in presenza di sostituti di imposta, disponendo che “se i percipienti non sono residenti nel territorio dello Stato o stabili organizzazioni di soggetti non residenti, la predetta ritenuta è applicata a titolo d’imposta ed è operata anche sui proventi conseguiti nell’esercizio d’impresa commerciale”). Per un secondo orientamento (C. GARBARINO, Forza di attrazione della stabile organizzazione e trattamento isolato dei redditi, in Rass. trib., 1990, p. 440 ss.; ID., La tassazione del reddito transnazionale, Padova, 1990, p. 198; M. MICCINESI, I tributi diretti erariali , in P. RUSSO, Manuale di diritto tributario, Milano, 1999, p. 673), la stabile organizzazione sarebbe invece anche elemento di qualificazione, sicché in mancanza di una stabile organizzazione in Italia i redditi rimarrebbero qualificabili e tassabili isolatamente (nell’esempio fatto, gli interessi percepiti da una banca estera senza stabile organizzazione in Italia sarebbero sempre tassabili come redditi di capitale). In altri termini, i soggetti privi di stabile organizzazione verrebbero ad essere tassati alla stregua di un ente non commerciale residente (con esclusione, ovviamente, dei redditi di impresa e limitatamente ai redditi tassabili ex art. 23 t.u.i.r. in quanto localizzati in Italia). Secondo un terzo orientamento (L. PERRONE, Problemi vecchi e nuovi in materia di imposizione sul reddito delle società e degli enti non residenti, in Rass. trib., 2001, p. 1236 ss.), il problema da porsi non sarebbe tanto se la stabile organizzazione sia elemento anche di qualificazione o solo di localizzazione, quanto invece l’ambito territoriale di riferimento per valutare l’attività di impresa. L’attività “di impresa” dovrebbe infatti essere valutata soltanto con riferimento all’attività svolta in Italia, mentre nel caso di soggetti residenti occorrerebbe guardare all’attività ovunque svolta, in virtù del principio del reddito mondiale. L’affermazione secondo la quale può essere qualificata d’impresa qualsiasi attività svolta in Italia, anche del tutto occasionale e priva dei requisiti di cui all’art. 55 t.u.i.r., purché tali requisiti (abitualità, professionalità, commercialità) siano presenti nell’attività svolta all’estero, potrebbe infatti far rientrare “dalla finestra” la presunzione di appartenenza al reddito d’impresa (di cui agli artt. 6 e 81 t.u.i.r.) uscita “dalla porta” per effetto dell’art. 153 t.u.i.r. (perché l’oggetto statutario della società ed ente non residente farà di regola riferimento ad un’attività commerciale). Dunque, mancando tale attività di impresa, il reddito dovrebbe essere valutato per la sua natura oggettiva. Si può peraltro osservare

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che se è configurabile in Italia l’esercizio per professione abituale di un’attività commerciale di cui all’art. 55 t.u.i.r., sarà assai probabile che vi sia anche una stabile organizzazione, con una sostanziale coincidenza sul piano empirico tra la tesi da ultimo richiamata e quella che assegna funzione sia di localizzazione che di qualificazione della stabile organizzazione. Secondo un quarto ed ultimo orientamento (F. NANETTI, La “scissione” del reddito d’impresa: spunti sistematici in tema di tassazione delle società commerciali non residenti, in Riv. dir. trib., 2004, p. 727 ss.), infine, la norma cardine dovrebbe essere individuata nell’art. 152, co. 4 t.u.i.r., secondo cui “per le società di tipo diverso da quelle regolate nel codice civile si applicano le disposizioni dei commi 1 o 2 o quelle del comma 3 secondo che abbiano o non abbiano per oggetto l’esercizio di attività commerciale”, di talché – a contrariis – le società estere la cui struttura giuridica sia analoga a quella delle società regolate nel codice civile sarebbero equiparate a quelle italiane, dovendosi perciò individuare un reddito scaturente direttamente ed unitariamente dalla suddetta unità organizzativa, quale frutto dell’attività ad essa unicamente imputabile, ferma restando la necessità (contrariamente alle società residenti) dello svolgimento di un’attività qualificabile d’impresa ai sensi dell’art. 55 t.u.i.r. A nostro avviso, tre sono i punti fermi. Il primo, che la qualificazione reddituale e la stabile organizzazione viaggiano su binari distinti, non potendosi riconoscere alcuna specialità alla previsione dettata dalla lettera e) del comma 1 dell’art. 23 rispetto alle disposizioni contenute nelle restanti lettere e destinate alla localizzazione (previa qualificazione, secondo le norme relative a ciascuna specifica categoria) delle altre categorie reddituali. Significativa, in tal senso, è peraltro l’espressione utilizzata nell’art. 117, co. 2 t.u.i.r., laddove si fa riferimento, ai fini della possibilità da parte dei soggetti di cui all’art. 73, co. 1, lett d), di esercitare l’opzione solo in qualità di controllati, alla condizione “b) di esercitare nel territorio dello stato un’attività d’impresa, così come definita dall’art. 55, mediante una stabile organizzazione …” (corsivo nostro), separando così nettamente il profilo della qualificazione da quello della stabile organizzazione. Il secondo, che i redditi di impresa prodotti in Italia senza una stabile organizzazione (e fatta salva l’eventuale “scissione” operata dal legislatore per alcune fattispecie reddituali) non sono imponibili nel territorio dello Stato, non potendosi accettare la tesi (M. LEO – F. MONACCHI – M. SCHIAVO, Le imposte sui redditi nel testo unico, 6° ed., t. 1, Milano, 1997, p. 1853) che qualifica come “redditi diversi” i redditi conseguiti in Italia da un’impresa estera senza una stabile organizzazione, che stravolgerebbe i tradizionali canoni di localizzazione del reddito di impresa, cui l’art. 23 t.u.i.r. intende indubbiamente conformarsi. A tale riguardo, giova ricordare come la versione della bozza del T.U., non accolta in parte qua, stabilisse che “Per le società ed enti con stabile organizzazione nel territorio dello Stato si considerano prodotti nel territorio dello Stato anche i redditi d’impresa derivanti da attività commerciali ivi esercitate al di fuori delle stabili organizzazioni” (vedi anche A. MANGANELLI, Territorialità dell’imposta, cit., p. 376); inoltre, deve ritenersi che l’art. 67 t.u.i.r. intenda riferirsi allo svolgimento di attività occasionali di impresa da parte di soggetti non imprenditori, mentre in questo caso il soggetto estero svolge attività d’impresa. Il terzo, infine, che per le convenzioni internazionali la presenza della stabile organizzazione ha indubbia funzione di qualificazione: vedi F. TUNDO, I redditi d’impresa nel Modello di convenzione OCSE (art. 7), in AA.VV. (a cura di V. Uckmar), Corso di diritto tributario internazionale, Padova, 2002, p. 267. Per quanto attiene alla posizione sul punto dell’a.f. italiana, è interessante la Ris. Ag. Entrate 9 marzo 2007, n. 41/E, in Il Fisco, 2007, n. 11, fasc. 2, p. 1530 ss., dove in un caso relativo ad una società estera svolgente attività di acquisto pro-soluto di crediti

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In terzo luogo, dall’indifferenza della qualificazione rispetto alla residenza conseguono l’indifferenza sia rispetto al principio di imputazione temporale (che resta invariato, sia che quella determinata fattispecie reddituale sia imputabile ad un residente, sia che essa lo sia ad un soggetto non residente), sia in relazione alla determinazione dei redditi di categoria al lordo o al netto dei costi sostenuti per produrli. Si assiste, tuttavia, nel caso di soggetti non residenti, ad un ampio ricorso allo strumento della ritenuta a titolo di imposta. Ciò fa sì che la dimensione eventualmente netta del reddito venga meno – si pensi ad esempio ai redditi di lavoro autonomo – applicandosi la ritenuta sull’ammontare lordo dei redditi corrisposti. Si tratta, tuttavia, di un’ipotesi di difficile inquadramento sistematico, che si pone soprattutto nel caso del c.d. “mutamento di status” del sostituito, e che in ogni caso non oblitererà la disciplina base, certamente operante in mancanza del sostituto di imposta (10), con la conseguente determinazione netta del reddito e la sua confluenza in dichiarazione.

da soggetti residenti per un corrispettivo inferiore al loro valore nominale con successiva gestione e riscossione in Italia, alla tesi della società circa l’inesistenza di una stabile organizzazione e quindi l’intassabilità del relativo reddito, l’a.f. controbatte – indipendentemente dall’esistenza di una stabile organizzazione – l’applicabilità dell’art. 23, co. 1, lett. f) in tema di redditi diversi, trattandosi di “plusvalenze ed altri proventi realizzati mediante cessione a titolo oneroso ovvero rimborso di crediti pecuniari” di cui all’art. 67, co. 1, lett. c-quinquies t.u.i.r. In tal modo, l’a.f. esclude, a contrario, che lo svolgimento in Italia da parte di una società estera di un’attività conforme al proprio oggetto sociale possa sfuggire ad imposizione in assenza di una stabile organizzazione, e dunque afferma la funzione sia di qualificazione, sia di localizzazione della stabile organizzazione medesima. Per quanto attiene alla posizione sul punto della giurisprudenza, la Cassazione (cass., sent. 21 aprile 2011, n. 9197, ha affermato che “l’ormai risalente e non contraddetta giurisprudenza delle SS.UU. di questa Corte (cfr. Cass. 7184/83) è nel senso che la qualificazione di reddito quale reddito d’impresa dipende dal requisito soggettivo dell’esercizio di impresa commerciale da parte del percipiente, a prescindere da qualsiasi altro diverso requisito (essendo la ricorrenza della stabile organizzazione semplice condizione di localizzazione del reddito medesimo e di sua imponibilità in Italia) ed, inoltre, che, per poter scindere (e diversificare nel trattamento fiscale) le componenti del reddito d’impresa di un soggetto straniero e privo di autonoma organizzazione nel territorio dello Stato, è necessaria una specifica disposizione di legge (v. la previsione la previsione di cui al D.P.R. n. 598 del 1973, art. 22, comma 2, nonché quella di cui al D.P.R. n. 597 del 1973, art. 19, comma 1, n. 9, introdotta dal D.P.R. n. 897 del 1980, art. 31, e, con riferimento al successivo regime di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, la previsione di cui all’art. 112, comma 2)”. (10) Vedi F. TESAURO, Istituzioni di diritto tributario, Parte generale, Torino, 2003, p. 132, nota 67, sia pure nell’ambito della ricostruzione del fenomeno della ritenuta a titolo di imposta come “sostituzione d’imposta”; G. FALSITTA, Manuale di diritto tributario, Parte generale, 2002, p. 221; L. CARPENTIERI – R. LUPI – D. STEVANATO, Il diritto tributario nei rapporti internazionali, Milano, 2003, p. 166.

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Infine, alcuna incidenza si ha neanche sul problema dei profili soggettivi ed oggettivi del presupposto d’imposta ove inteso nel senso di fattispecie (11). Si è visto, al riguardo, che ove il reddito sia imputabile ad un soggetto non residente, occorre verificare se, in relazione a quella fattispecie reddituale, possa dirsi integrato quel criterio di collegamento che consente di localizzarlo nel territorio dello Stato (ex art. 23 t.u.i.r.), sicché potrebbe in effetti ritenersi esistente uno stretto collegamento tra lo status in esame e il presupposto del tributo. In realtà, lo status di residenza non incide né sull’esistenza del diritto di credito nascente dalle fattispecie contrattuali (o comunque da altri fatti che esprimono la titolarità della fonte) coinvolte nelle singole categorie reddituali (o, più generalmente, sugli effetti), né – ove si ritenga di dover invece far riferimento, per la nascita del presupposto, ai criteri di imputazione temporale – su questi ultimi. L’effetto ben può nascere ed il reddito essere corrisposto (o maturare in capo) al soggetto non residente, sicché lo status di residente fiscale non incide né sul possesso, né ovviamente sul profilo oggettivo della fattispecie: dunque, anche la qualificazione del presupposto di imposta nelle imposte sui redditi prescinde dallo status di residenza. Lo status di residenza fiscale o meno del soggetto passivo rappresenta un quid che interviene, di regola, indipendentemente dal verificarsi del presupposto, dall’individuazione del soggetto passivo in capo al quale imputare il reddito (12), dalla qualificazione del reddito stesso, dall’imputazione al periodo di imposta e dalla dimensione lorda o netta del reddito imponibile. Tuttavia, non sempre queste conclusioni sono vere. Si pensi, ad esempio, al caso in cui il soggetto sia una società o un ente commerciale, dove allo status di soggetto fiscalmente residente consegue l’applicazione del principio della “omnicomprensività” (artt. 6 e 81 t.u.i.r.) – non applicabile alle società ed enti non residenti – diventando in tal caso irrilevante la verifica circa la categoria di appartenenza del reddito, il criterio di imputazione temporale e le regole di determinazione del reddito di categoria. Ciò fa sì che nel caso di società o enti commerciali si imponga una verifica preliminare sullo status di soggetto fiscalmente residente o meno. In caso positivo, il procedimento si arresterà, ragionandosi solo nell’ambito delle regole dei soggetti Ires residenti e avendo riguardo ai redditi ovunque

(11) Diverso è l’esito ove si adoperi invece il termine “presupposto” nel senso di criterio di riparto/indice di capacità contributiva, dove diventa impossibile considerare autonomamente il profilo territoriale dagli altri elementi della disciplina (di cui il presupposto è sintesi) e fra il regime dei residenti e quello dei non residenti cambia tutto, passandosi da un tributo personale a uno reale. Da ultimo, sulla nozione di presupposto, G. FRANSONI, Tipologia e struttura della norma tributaria, in AA.VV., Diritto tributario , a cura di A. Fantozzi, Torino, 2012, p. 268 ss.. (12) Tranne che nel caso dei soggetti ex art. 5 t.u.i.r., dove la qualità di residente o di non residente farà rientrare detti soggetti tra quelli tassabili “per trasparenza” o tra i soggetti Ires.

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prodotti; in caso negativo, invece, si proseguirà nell’imputazione, localizzazione, qualificazione e determinazione dei redditi prodotti nel territorio dello Stato dal soggetto non residente e, nel caso in cui il soggetto risulti possedere una stabile organizzazione nel territorio dello Stato, i singoli redditi – che manterranno nella fase qualificatoria la loro natura ontologica – confluiranno, ai sensi dell’art. 152, co. 1 t.u.i.r., in un apposito conto economico “relativo alla gestione delle stabili organizzazioni e delle altre attività produttive di redditi imponibili in Italia”, assumendo ex post la natura di “redditi di impresa” (13).

(13) Il problema che si pone diviene poi di comprendere se questa qualificazione come “redditi di impresa” coinvolga anche le regole di imputazione temporale e la determinazione del reddito. In dottrina si ritiene che la determinazione debba avvenire al netto dei costi, mentre non si prende espressa posizione sul problema dell’imputazione a periodo: vedi A. MANGANELLI, Territorialità dell’imposta, cit., p. 384; G. ZIZZO, L’imposta sul reddito delle società, in G. FALSITTA, Manuale di diritto tributario, Parte speciale, Milano, 2005, p. 478, dovendosi sussumere “tutti i fatti da cui derivano i redditi che si considerano prodotti nel territorio dello Stato – coinvolgano o meno la stabile organizzazione – nella normativa concernente la misurazione dei redditi di impresa”; vedi anche M. PIAZZA, Guida alla fiscalità internazionale, Milano, 2004, p. 403, con riferimento agli immobili, di talché il reddito degli immobili strumentali per natura non relativi alla stabile organizzazione dovrà essere determinato al netto dei costi. In effetti, milita in tal senso l’espressione utilizzata dal legislatore, secondo cui il reddito complessivo (dunque, comprensivo anche delle attività diverse da quelle di impresa) è determinato secondo le disposizioni della sezione I del capo II del titolo II (contenente le norme in tema di determinazione del reddito di impresa), mentre, in mancanza di stabili organizzazioni, i redditi che concorrono a formare il reddito complessivo sono determinati secondo le disposizioni del titolo I, relative alle categorie nelle quali rientrano. In realtà, una simile conclusione, pur rispondente al dato letterale, crea qualche dubbio sul piano sistematico, dal momento che le disposizioni di categoria finirebbero per svolgere la mera funzione di qualificazione finalizzata alla successiva localizzazione del reddito, la determinazione del reddito avverrebbe secondo le disposizioni del reddito di impresa, ma non si saprebbe poi dove “attingere” quanto al principio di imputazione temporale applicabile. A tale riguardo, si potrebbe osservare che il rinvio alle norme di cui alla sezione I, del capo II del titolo II abbraccia anche l’art. 109 t.u.i.r. in tema di competenza, di talché tale dovrebbe essere la regola vigente in tema di imputazione a periodo anche dei restanti redditi non “ontologicamente” di impresa. Tuttavia, a parte la circostanza che risulta piuttosto forzato un “frazionamento” tra norme di qualificazione da una parte, e norme di imputazione a periodo e norme in tema di misurazione del reddito che invece ne prescindono da un’altra, l’applicazione del principio di competenza sarebbe indolore per i soli redditi fondiari. Altrettanto non potrebbe infatti dirsi per i redditi di capitale, dove l’elemento del “pagamento” è contenuto all’interno del criterio di localizzazione, che pertanto ne risulta condizionato, di talché non si comprende come possa successivamente “coordinarsi” con il criterio di competenza ove con esso contrastante; ma ancor più per i redditi diversi, per i quali opera ordinariamente il principio di cassa, che non è contenuto nel criterio di collegamento dell’art. 23, co. 1, lett. f), facendo tale norma riferimento ai redditi “derivanti da attività svolte nel territorio dello Stato e da beni che si trovano

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Negli altri casi, invece, l’accertamento sulla residenza interverrà per verificare l’esistenza o meno di un criterio di collegamento personale con il territorio dello Stato tale da giustificare un’imposizione sui redditi ovunque prodotti, e in tal senso la determinazione della base imponibile, con riferimento al reddito complessivo, rappresenterà quel momento di sintesi indispensabile per conferire carattere personale ad un sistema basato tutto sommato su una configurazione in termini reali del fatto presupposto (14); in caso di mancata integrazione dello status di residente, si renderà invece necessario verificare per ciascun presupposto l’esistenza o meno del criterio di collegamento reale definito dall’art. 23 t.u.i.r. Si tratterà, insomma, di selezionare tra le varie fattispecie già perfette, quelle che integrino detti nel territorio stesso”, nel qual caso ci troverebbe dinnanzi ad una situazione indeterminata sotto il profilo dell’imputazione temporale. Laddove si ritenesse di rinvenire l’intera disciplina della fattispecie nell’ambito delle norme categoriali (che appunto contengono, oltre alla qualificazione, anche i profili relativi all’imputazione temporale e alla determinazione della base imponibile del reddito di categoria), la qualificazione come “d’impresa” dei redditi confluiti nel conto dei profitti e perdite diventerebbe una questione meramente nominalistica (in altri termini, si tratterebbe di una mera “confluenza contabile”). Mentre, in caso contrario, essa si riverbererebbe (almeno) sulla determinazione del relativo reddito, “attraendo” alle norme in tema di determinazione del reddito di impresa (ma non anche, lo si ribadisce, incidendo sulle norme di “localizzazione”) la commisurazione di redditi estranei alla stabile organizzazione. In ogni caso, ciò che deve certamente escludersi è l’operare di una forza di attrazione “piena” in presenza di una stabile organizzazione, nel senso di considerare a monte come di “impresa” i redditi da qualsiasi fonte provenienti e di fatto escludendoli da eventuali forme di imposizione alla fonte, esplicandosi, come detto, la “forza di attrazione” nei soli limiti di cui agli artt. 151, co. 1 e 153, co. 1 t.u.i.r., in cui il reddito, pur non essendo prodotto mediante la stabile organizzazione, deriva da un cespite in qualche modo “collegato” con l’esercizio dell’attività di impresa svolta mediante stabile organizzazione. A questa conclusione non può opporsi, a nostro avviso, la normale esclusione dal meccanismo delle ritenute a titolo di imposta in presenza di stabili organizzazioni nel territorio dello Stato, dovendosi ritenere tale esclusione riferibile ai soli casi in cui operi una connessione tra reddito e stabile organizzazione tale da determinare l’immediata confluenza di tale reddito in quello della stabile organizzazione medesima. Sul punto, vedi anche L. CARPENTIERI – R. LUPI – D. STEVANATO, Il diritto tributario nei rapporti internazionali, Milano, 2003, p. 223; contra, R. BAGGIO – M. FIORESE, Società ed enti non residenti, in L’imposta sul reddito delle persone giuridiche, in Giurisprudenza sistematica di diritto tributario, diretta da F. Tesauro, Torino, 1996, p. 338. (14) Vedi A. FEDELE, Imposte reali e imposte personali nel sistema tributario italiano, cit. , 2002, p. 472; N. D’AMATI, Le imposte sul reddito nel sistema tributario italiano, in ID., L’imposta sul reddito delle persone giuridiche e l’imposta locale sui redditi, Torino, 1994, p. 13 ss.; L. CASTALDI, Gli enti non commerciali nelle imposte sui redditi, Torino, 1999, p. 178 ss.; M. NUSSI, Imputazione del reddito nel diritto tributario, Padova, 1996, p. 10, che sottolinea come “l’elemento personalistico dell’imposta vada rinvenuto nell’ambito della disciplina della base imponibile piuttosto che in quella sul presupposto”; A. CARINCI, L’invalidità del contratto nelle imposte sui redditi, Padova, 2003, p. 270 ss.

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criteri – attività di lavoro autonomo svolta nel territorio dello Stato, attività di impresa svolta nel territorio dello Stato mediante stabile organizzazione, redditi di capitale corrisposti da soggetti residenti nel territorio dello Stato, ecc. – rendendo così la fattispecie rilevante sotto il profilo spaziale per il nostro ordinamento tributario. La questione della residenza fiscale attiene dunque a) alla collocazione spaziale del presupposto d’imposta (15), con la connessa – ed eventuale (in quanto subordinata all’accertamento negativo dello status di soggetto fiscalmente residente) – determinazione del criterio di collegamento rilevante, e b) alle modalità di tassazione del reddito, ai fini dell’eventuale applicazione di ritenute a titolo di imposta conseguenti alla sostanziale inutilità, nel caso di soggetti non residenti, dell’applicazione del principio del coacervo dei redditi. In altri termini, l’accertamento in senso negativo della qualità di soggetto residente, da un lato aggiungerà al giudizio di rilevanza della fattispecie impositiva un ulteriore elemento, quello del criterio di collegamento reale (ivi compreso quello connesso all’esistenza di una stabile organizzazione), che è pertanto meramente eventuale e comunque logicamente successivo rispetto al criterio della residenza, con funzione selettiva rispetto a fattispecie già assunte come rilevanti sul piano della realizzazione del presupposto, nella sua dimensione soggettiva ed oggettiva (16); e, dall’altro, inciderà sulle modalità di tassazione del reddito, privilegiando forme di tassazione sostitutiva in considerazione della non necessarietà ai fini di sistema della ricostruzione del reddito complessivo del soggetto. Laddove il reddito del soggetto non residente, in mancanza di ritenute a titolo di imposta o nell’impossibilità materiale di effettuarle per mancanza di sostituto (17), dovesse eventualmente confluire in dichiarazione, la qualità di soggetto non residente varrà, inoltre, ad escludere la spettanza di quelle deduzioni e detrazioni riservate ai soli soggetti tassati sui redditi ovunque prodotti, connotando così ancora una volta sul piano della misurazione (e non della definizione) del presupposto

(15) Vedi F. TESAURO, Istituzioni di diritto tributario, Parte generale, cit., p. 62: “come ogni fattispecie, il presupposto è connotato dal legislatore (implicitamente o esplicitamente) sotto diversi profili: oggettivo, soggettivo, spaziale e temporale; G. TINELLI, Istituzioni di diritto tributario, Padova, 2003, p. 87, che si esprime in termini di “limiti spaziali nella formulazione del presupposto d’imposta”. La formulazione normativa è in realtà ambigua, in quanto contrappone i redditi ovunque posseduti a quelli prodotti nel territorio dello Stato, così contrapponendo una situazione di possesso per i residenti ad una relativa al luogo di produzione per i soggetti non residenti. (16) A. CARINCI, Il fattore temporale nell’imposta sui redditi: tra disciplina e definizione delle ipotesi categoriali e del reddito complessivo, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2000, p. 618 ss. (17) Ma non, ovviamente, nel caso di omessa effettuazione della ritenuta a titolo di imposta, dovendo tale ipotesi essere risolta tramite l’applicazione dell’art. 35, d.p.r. n. 602/73.

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(se non, addirittura, sul piano dell’imposta dovuta) la matrice personalistica dell’imposta sui redditi (18). In conclusione, dunque, lo status di residenza non attiene alla soggettività passiva (19), né si identifica con il presupposto di imposta (20), né si pone sul

(18) In questo senso, la tesi sulla funzione di mero criterio di collegamento (cioè di mera localizzazione) della stabile organizzazione appare preferibile sul piano sistematico, verificandosi altrimenti una commistione tra categorie reddituali e criteri di collegamento. Tuttavia, non vanno sottovalutati gli argomenti contrari. Innanzitutto, va ricordato il contenuto della Relazione governativa all’art. 113 (ora 151) t.u.i.r., ove si legge che “Qualora, invece, manchi la stabile organizzazione dei predetti soggetti (le società ed enti commerciali non residenti) non possono evidentemente considerarsi imprenditori commerciali essendo privi di un reddito di impresa imponibile. In tal caso essi vengono a trovarsi nella stessa situazione reddituale degli enti non commerciali residenti, e come per questi, il loro reddito complessivo è formato dai singoli redditi (con esclusione ovviamente del reddito d’impresa e limitatamente a quelli che in base alle regole dell’art. 20 si considerano prodotti nel territorio dello Stato) determinati secondo le disposizioni del titolo primo relative alle singole categorie nelle quali rientrano”). In secondo luogo, la possibilità di produrre un reddito di impresa nel territorio dello Stato anche in assenza di una stabile organizzazione, pone in crisi quella interpretazione, che è pacifica, per la quale l’art. 151, co. 2 t.u.i.r., nel fare riferimento ai “redditi di impresa”, presupporrebbe l’esistenza di una stabile organizzazione, ciò che non sarebbe necessario ove un reddito di impresa esistesse a prescindere da tale stabile organizzazione. In tale ottica, la tesi che cerca una composizione nella diversa rilevanza dell’ambito territoriale appare certamente interessante. In sé, infatti, tale aspetto fornisce indicazioni opposte sulla rilevanza temporale dell’indagine sulla residenza, perché se si tratta di società, la questione della sua residenza o meno sarà già stata affrontata, e quindi non comporterà alcuna forzatura sulla possibile rilevanza delle attività ovunque svolte; mentre ove si tratti di impresa individuale, la qualificazione potrebbe (dovrebbe) operare indipendentemente dall’accertamento della qualità di residente o meno, con l’effetto che l’indagine, risolvendosi in un problema esclusivamente interno alla norma di qualificazione da svolgere con criteri omogenei, dovrebbe avere riguardo alla sola attività esercitata nel territorio dello Stato. Tuttavia, proprio la sostanziale coincidenza tra attività di impresa svolta nel territorio dello Stato e l’esistenza in esso di una stabile organizzazione, consentirebbe di comporre i vari dissidi che si pongono sul piano sistematico. (19) Contra, G.A. MICHELI, Corso di diritto tributario, 8° ed., Torino, 1989, p. 381, che afferma che il criterio di territorialità dell’imposizione personale viene ad essere realizzato “con lo strumento della soggettività passiva, anziché con il riferimento al presupposto di imposta”. Evidenzia correttamente la diversità tra soggettività passiva e nozione di residenza, G. NOVARA, Residenza di società ed enti nell’imposizione personale sui redditi, in Boll. trib., 1990, p. 14 ss. Osserva G. FRANSONI, La territorialità nel diritto tributario, Padova, 2004, p. 357, che la diversità tra tassazione su base mondiale e tassazione su base territoriale non attiene solo ai modi di determinazione della base imponibile, essendo la stessa giustificazione dell’imposta, cioè il suo presupposto, a risultare modificato dal venir meno, nei sistemi di tassazione su base territoriale, di ogni carattere di personalità dell’imposizione presente nei casi di tassazione su base mondiale.

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medesimo piano del criterio del luogo di produzione del reddito (21), né infine può negarsene la natura di criterio di collegamento (22), bensì si inserisce soltanto in un preciso momento nel perfezionamento della fattispecie tributaria complessivamente intesa, con gli effetti sopra individuati (23).

2 Le interrelazioni tra residenza e stabile organizzazione: il problema del controllo societario.

Tanto precisato in ordine alla natura del concetto di “residenza fiscale”, dobbiamo domandarci quali siano le relative interrelazioni con il concetto di “stabile organizzazione”. Va subito detto che ad una prima, frettolosa impressione, quest’ultima nozione potrebbe proprio ascriversi, sic et simpliciter, all’accertamento in senso negativo della qualità di soggetto residente, che aggiunge, come detto, al giudizio di rilevanza della fattispecie impositiva un ulteriore elemento, quello del criterio di collegamento reale (ivi compreso quello connesso all’esistenza di una stabile organizzazione), meramente eventuale e

(20) Come afferma P.M. TABELLINI, L’imposta sul reddito delle persone giuridiche, Milano, 1977, p. 234. Il presupposto è infatti unico, e riguarda il “possesso” del reddito. Semmai, come visto, la residenza concorre a delimitarne lo spazio: così, esattamente, G. CROXATTO, La tassazione del reddito derivante da attività internazionale nel quadro della riforma tributaria, in Dir. prat. trib., 1972, p. 10. (21) Così, M. MARESCA, Alcune considerazioni sui criteri della residenza e del luogo di produzione del reddito, in AA.VV., Il reddito di impresa nel nuovo Testo Unico, Padova, 1988, p. 287 ss., per il quale la residenza determinerebbe i soggetti passivi dell’imposizione, mentre il secondo rileverebbe soltanto in funzione della determinazione della base imponibile. (22) Così invece G. NOVARA, Residenza di società ed enti nell’imposizione personale sui redditi, cit., p. 14 ss., che nega natura di criterio di collegamento alla residenza fiscale, esprimendo esso invece “direttamente uno status di soggezione alla potestà impositiva dello Stato; status che si determina per l’operare di diversi elementi di collegamento tra il soggetto e il territorio, ivi compresa, per le persone fisiche, la residenza civilistica”. Tale ultima affermazione non può essere condivisa, perché la natura composita del criterio di collegamento fiscale non ne esclude la natura di criterio di collegamento a sua volta, anche se di maggiore intensità e con una funzione necessitata – e non soltanto eventuale – rispetto al criterio del luogo di produzione del reddito. (23) Si condividono dunque le conclusioni di C. SACCHETTO, L’imposta sul reddito delle persone giuridiche, in Trattato di diritto tributario, diretto da A. Amatucci, IV, Padova, 1994, p. 88 ss., ove afferma che “il fatto poi che concorrono redditi prodotti solo nello Stato o redditi prodotti ovunque risulta essere un aspetto successivo di specifica dell’obbligo contributivo”; vedi anche M. NUSSI, Trasferimento della sede e mutamento della residenza “fiscale”: spunti in tema di stabile organizzazione e regime dei beni di impresa, in Rass. trib., 1996, p. 1341. Ricorre alla categoria della “condizione obiettiva di imponibilità”, G. MARINO, La residenza nel diritto tributario, Padova, 1999, p. 310.

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comunque logicamente successivo rispetto al criterio della residenza, con funzione selettiva rispetto a fattispecie già assunte come rilevanti sul piano della realizzazione del presupposto, nella sua dimensione soggettiva ed oggettiva. Sennonché, si tratta di conclusione semplicistica. La stabile organizzazione è infatti un “quasi-soggetto”, che si colloca a metà strada tra semplice criterio di collegamento e soggetto passivo di imposta (24), potendo la sua presenza nel territorio dello Stato risolversi in una modifica degli ordinari criteri di localizzazione dei redditi, nel senso di attribuire alla stabile organizzazione anche redditi che in essa non trovano la loro fonte effettiva (c.d. “forza di attrazione” della stabile organizzazione). E questa natura “ibrida” del concetto di stabile organizzazione non è estranea alle frequenti interrelazioni con la nozione di residenza fiscale quale status tipicamente riferito a soggetti, di cui si dirà immediatamente. Tanto premesso, la prima interrelazione che si intende esaminare attiene al tema del controllo societario. Ci riferiamo, in particolare, all’art. 5, par. 7 del Modello OCSE, ai sensi del quale “il fatto che una società residente di uno Stato contraente controlli o sia controllata da una società residente dell’altro Stato contraente ovvero svolga la propria attività in questo altro Stato (a mezzo di una stabile organizzazione oppure no), non costituisce di per sé motivo sufficiente per far considerare una qualsiasi delle dette società una stabile organizzazione dell’altra” (25). Questa disposizione, dal contenuto da sempre sfuggente (26), ha formato oggetto di un intervento di chiarimento dell’OCSE (27), presumibilmente

(24) Il problema della stabile organizzazione, per riprendere la felice espressione di F. GALLO, Contributo all'elaborazione del concetto di "stabile organizzazione " secondo il diritto interno, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1985, p. 385 ss., “sfiora il problema della soggettività, ma non lo tocca”. La dottrina straniera è orientata nel senso della natura di mero criterio di collegamento della stabile organizzazione: si veda N. MELOT, Territorialité et mondialité de l’impôt, Dalloz, Paris, 2004, p. 238 ss., per il quale si tratta di “un seuil de pénétration dans la vie économique des États de la source suffisant pour légitimer leur droit d’imposer les revenus effectivement rattachables à un tel établissement”. (25) Tale norma è stata riprodotta, con talune modifiche, nell’art. 162, co. 9, t.u.i.r., che dispone che “Il fatto che un’impresa non residente con o senza stabile organizzazione nel territorio dello Stato controlli un’impresa residente, ne sia controllata, o che entrambe le imprese siano controllate da un terzo soggetto esercente o no attività di impresa non costituisce di per sé motivo sufficiente per considerare una qualsiasi di dette imprese una stabile organizzazione dell’altra”. (26) Ampie sono state le oscillazioni giurisprudenziali al riguardo: si vedano, nel senso del riconoscimento della società controllata quale stabile organizzazione, Comm. trib. centr., 11 giugno 1981, n. 6478, in Comm. trib. centr., 1981, I, p. 647 ss.; Comm. trib. centr., 16 novembre 1983, n. 3658, in Comm. trib. centr., 1983, I, p. 1090 ss.; Comm. trib. centr., 23 febbraio 1972, n. 1848, in Dir. prat. trib., 1973, II, p. 292 ss.; e nel senso opposto, Comm. trib. centr., 20 maggio 1980, n. 5868, in Giur. imp., 1980, p. 603 ss. Esiste poi una serie di sentenze, scarsamente significative, relative all’interpretazione dell’art. 11 della non più vigente Convenzione tra Italia e Francia

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quale reazione ad alcuni passaggi delle note sentenze della Cassazione nel caso Philip Morris (28). In effetti, se con l’art. 5, par. 7 del Modello OCSE si dovesse intendere la sostanziale mancanza di autonomia decisionale da parte della controllata, potrebbero derivarne effetti paradossali. Ciascuna controllata subisce infatti, di regola, il coordinamento della controllante, che partecipa in qualità di socio di maggioranza (se non unico) alle assemblee societarie e nomina gli amministratori (29). Per di più, il problema finisce su tale piano proprio per intrecciarsi con quello della residenza, poiché potrebbe affermarsi che a tale mancanza di autonomia decisionale consegua la residenza fiscale della società partecipata nello Stato in cui è residente la società partecipante.

del 1958: vedi Cass., 20 maggio 1988, n. 3610, in Dir. prat. trib., con nota di N. LANTERI, Partecipazione sociale maggioritaria e “stabile organizzazione”; Cass., 24 marzo 2000, n. 3547, in Boll. trib., 2001, p. 224 ss.; Cass., sez. trib., 30 marzo 2001, n. 4764. (27) Si tratta del documento Proposed clarification of the Permanent Establishment Definition, predisposto dal Working Party no. 1 nell’ambito del Committee on Fiscal Affairs dell’OCSE, presentato in data 12 aprile 2004 e successivamente recepito nelle modifiche al Commentario approvate il 15 luglio 2005, parr. 40 e ss.; vedi M. PIAZZA, L’Ocse cambia le Convenzioni, in Il Sole 24 Ore, 8 settembre 2005, p. 27. (28) Cass., sez. trib., 20 dicembre 2001 – 7 marzo 2002, n. 3367, in Il Fisco, 2002, n. 19, 1, p. 3008 ss.; 20 dicembre 2001– 7 marzo 2002, n. 3368, in Il Fisco, 2002, n. 19, 1, p. 3008 ss.; 20 dicembre 2001 – 25 maggio 2002, n. 7682, in Il Fisco, 2002, n. 38, 1, p. 6115 ss.; 20 dicembre 2001 – 25 luglio 2002, n. 10925, in Il Fisco, 2002, n. 32, 1, p. 5200 ss. Con tali sentenze, come noto, la Cassazione ha ritenuto che una società di capitali italiana possa costituire stabile organizzazione plurima di società estere appartenenti allo stesso gruppo e che perseguono una strategia unitaria; che l’attività di controllo sulla esatta esecuzione di un contratto tra soggetto residente e non residente non può considerarsi attività “ausiliaria” ai sensi dell’art. 5, par. 4 del Modello OCSE; che la partecipazione di rappresentanti della società italiana ad una fase della conclusione di contratti tra società estere e altro soggetto residente può essere ricondotta al potere di concludere contratti in nome dell’impresa. Vedi M. CERRATO, La stabile organizzazione nelle imposte dirette e nell’Iva tra irrilevanza del controllo societario e coincidenza con il concetto di centro di attività stabile, in Dir. prat. trib., 1999, p. 209 ss.; S. MAYR – V. GRIECO, La stabile organizzazione secondo la Suprema Corte, in Corr. trib., 2002, p. 1864 ss.; B. ACCILI, Il caso “Philip Morris” , in Dir. prat. trib., 2004, p. 65 ss., la quale ritiene che il problema sarebbe dovuto essere risolto sul piano dei prezzi di trasferimento anziché della stabile organizzazione, attribuendo una corretta remunerazione ai servizi resi dalla società italiana alle società estere. La Cassazione, peraltro, con la sentenza 28 luglio 2006, n. 17206, ha negato qualsiasi valore alle modifiche al Commentario OCSE, affermando che “a parte il valore non normativo del Commentario – che costituisce, al più, una raccomandazione diretta ai Paesi aderenti all’OCSE – è significativo rilevare che nei confronti di tale modifica è stata espressa riserva dal Governo italiano, secondo la quale (…) l’Italia non può disattendere quella data dai propri giudici nazionali”. (29) Vedi R. COUZIN, Corporate Residence and International Taxation, IBFD Publications BV, Amsterdam, The Netherlands, 2002, p. 62.

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Questa interpretazione è tuttavia smentita dallo stesso Commentario, laddove precisa che il controllo che una società esercita su una sua controllata, esercitando il ruolo di azionista, non assume rilevanza ai fini della configurazione della stabile organizzazione cd. personale (30). Si desume, tra l’altro, dalle modifiche apportate nel 2005 al Commentario OCSE, la scelta di considerare la controllata quale stabile organizzazione ove essa rappresenti una sorta di prolungamento dell’attività della casa madre, nel senso che i beni appartenenti alla controllata siano messi a disposizione della controllante per lo svolgimento del proprio business, oppure – nella prospettiva della stabile organizzazione personale – ove la controllata abbia, ed eserciti in modo abituale, il potere di concludere contratti in nome e per conto della controllante estera (costituendone dunque un agente dipendente) (31), o comunque svolga funzioni complementari (a carattere non meramente

(30) Commentario all’art. 5, par. 38.1: “In relation to the test of legal dependence, it should be noted that the control which a parent company exercises over its subsidiary in its capacity as shareholder is not relevant in a consideration of the dependence or otherwise of the subsidiary in its capacity as an agent for the parent. This is consistent with the rule in paragraph 7 of Article 5. But, as paragraph 41 of the Commentary indicates, the subsidiary may be considered a dependent agent of its parent by application of the same tests which are applied to unrelated companies”. (31) E, si ritiene, anche nel caso opposto in cui sia la controllante a concludere contratti per la propria controllata: vedi U. LA COMMARA, La nozione di stabile organizzazione secondo l’OCSE e nella legislazione fiscale interna, in Il Fisco, 2007, n. 4, fasc. 2, p. 476, che evidenzia il rilievo assunto dal “rischio di impresa” nella individuazione dell’autonomia del soggetto controllato. Cfr. Commentario, par. 47.1: “A parent company may, however, be found, under the rules of paragraphs 1 or 5 of the Article, to have a permanent establishment in a State where a subsidiary has a place of business. Thus, any space or premises belonging to the subsidiary that is at the disposal of the parent company (see paragraphs 4, 5 and 6 above) and that constitutes a fixed place of business through which the parent carries on its own business will constitute a permanent establishment of the parent under paragraph 1, subject to paragraphs 3 and 4 of the Article (see for instance, the example in paragraph 4.3 above). Also, under paragraph 5, a parent will be deemed to have a permanent establishment in a State in respect of any activities that its subsidiary undertakes for it if the subsidiary has, and habitually exercises, in that State an authority to conclude contracts in the name of the parent (see paragraphs 32, 33 and 34 above), unless these activities are limited to those referred to in paragraph 4 of the Article or unless the subsidiary acts in the ordinary course of its business as an independent agentto which paragraph 6 of the Article applies”. Analoghi principi sono stati enunciati dal Conséil d’Etat francese nel caso Interhome (Conseil d'Etat, 20 giugno 2003, n. 224407, Sté Interhome AG), potendo essere riconosciuta la natura di stabile organizzazione in capo ad una società controllata francese nel solo caso in cui essa non possa essere considerata un agente indipendente (ad esempio, in quanto la sua attività consista esclusivamente nell’esecuzione di mandati ricevuti dalla controllante) e non abbia il potere (anche di fatto) di concludere contratti in nome della società controllante svizzera nell’ambito del business di questa ultima. Nella fattispecie esaminata dal Conséil d’Etat, tale secondo requisito è stato considerato assente, in quanto l’attività principale (di reperimento di proprietari di seconde case

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ausiliario) a quelle della controllante estera (32). Non è dunque sufficiente che l’attività della società figlia sia “diretta” dalla casa madre.

disponibili a darle in locazione a terzi – agency agreements; di pubblicizzazione di tale offerta tramite un catalogo) restava di esclusiva competenza della società controllante, mentre la società controllata si limitava all’assistenza dei clienti sul territorio francese (assistenza alla firma degli specifici contratti di locazione e all’esatto adempimento delle obbligazioni contrattuali). Si veda anche il caso Zimmer (Cour Administrative d’Appel de Paris – 2 febbraio 2007, n. 05PA0236, in Dir. prat. trib. int., 2007, p. 1124 ss.), relativo ad una società residente in Francia che agiva in base ad un contratto di commissione stipulato con la controllante residente nel Regno Unito, il cui la Corte ha ritenuto che ciò che rileva è che la società residente eserciti abitualmente, in diritto o in fatto, dei poteri che le permettano di impegnare l’impresa in relazioni commerciali che si concretizzino in operazioni costituenti le attività proprie dell’impresa non residente, non essendo necessario, ai fini della sussistenza di una stabile organizzazione, che i contratti siano conclusi in nome del soggetto non residente e bastando a tal fine che la capacità di coinvolgere il soggetto non residente nelle relazioni commerciali nell’altro Stato sia esercitata in fatto. In tale fattispecie, peraltro, la società residente in Francia era soggetta alle istruzioni della società inglese, i rischi connessi all’esecuzione dei contrati erano sopportati da quest’ultima e la società francese agiva esclusivamente per conto della società non residente. Nella giurisprudenza italiana, si veda Cass., sez. trib., 28 luglio 2006, n. 17206, dove si legge che “anche una distinta società italiana può svolgere il ruolo di stabile organizzazione di una società straniera (…) l'esercizio - da parte della società italiana - di attività dirette alla produzione di reddito in Italia da parte della società panamense consisteva nella conclusione di contratti, come dimostrato dall'esame della documentazione bancaria, dalla quale risultavano diversi conti intestati alla U.G.E. S.A. sui quali transitavano regolamenti di vendite fatte in Italia (…) l'affidamento di business proprio della società panamense (corsivo nostro) era pure confermato dalla presenza della documentazione riferentesi all'attività di tale impresa nei locali della società italiana”. Si veda anche Comm. trib. reg. Veneto, 30 marzo – 20 aprile 2006, n. 17/14/2006; Comm. trib. prov. Rimini, sez. II, 12 marzo 2008, n. 26. Sul punto, vedi M. CERRATO, Stabile organizzazione e gruppi tra rigori giurisprudenziali e temperamenti dell’OCSE, in Corr. trib., 2008, p. 3507 ss. (32) Dovendosi peraltro distinguere da ciò la prestazione di servizi in favore di un’altra società del gruppo non residente, laddove tali servizi formino oggetto dell’attività della società residente e siano svolti mediante personale proprio. Vedi anche E. DELLA VALLE, La nozione di stabile organizzazione nel nuovo T.u.i.r., in Rass. trib., 2004, p. 1653, nel senso che i rapporti di controllo all’interno dei gruppi non alterano i criteri da utilizzare per verificare se sussiste o meno una stabile organizzazione; R. LUPI, La possibilità che una stabile organizzazione si annidi nelle strutture di una società controllata, in Dialoghi di diritto tributario, 2003, p. 35 ss.; A. LOVISOLO, La stabile organizzazione, in AA.VV. (a cura di V. Uckmar), Corso di diritto tributario internazionale, cit., p. 297 ss., che riporta l’esempio della società figlia che si trovi rispetto alla società madre in una situazione simile a quella di un agente con rappresentanza esclusiva con incarico generale, oppure ponga in essere operazioni che esulano dalle sue normali attività commerciali e vanno ad esclusivo vantaggio della società madre. Va peraltro evidenziato che le modifiche al Commentario respingono la tesi della “stabile organizzazione plurima” avanzata nelle citate sentenze Philip Morris, affermando che l’individuazione di una eventuale

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Se, tuttavia, il controllo estero in sé non vale ad integrare l’esistenza di una stabile organizzazione – dipendendo come visto tale qualificazione dal modus operandi della società controllata – esso potrebbe rilevare ai fini della localizzazione della residenza della società controllata nel territorio dello Stato della controllante (33). A tale riguardo, è noto che il problema viene risolto radicalmente nell’ambito delle CFC rules, che lungi dal considerare residente nello Stato la società fiscalmente residente altrove, muovono dal presupposto che la situazione di controllo sia tale da consentire l’immediata imputazione per trasparenza del reddito prodotto, ma non distribuito, dalla controllata non residente (34). stabile organizzazione di una società di un gruppo multinazionale deve essere effettuata separatamente per ciascuna società del gruppo. Tuttavia, almeno sul piano dei principi, la sent. Cass., 20 dicembre 2001 – 25 maggio 2002, n. 7682, richiama il Commentario al Modello OCSE laddove afferma che “affinché la struttura nazionale non venga considerata dipendente (e cioè una stabile organizzazione) occorre: a) che essa abbia un’indipendenza giuridica ed economica; b) in secondo luogo, quando agisce per altra impresa, deve farlo nell’ambito del proprio ordinario settore di affari (in the ordinary course of his business)” (punto 37 del Commentario OCSE, in tema di agenti dipendenti). Il Commentario precisa, inoltre (punto 38), che un importante criterio che contraddistingue gli agenti dipendenti è la non assunzione, da parte degli stessi, del rischio imprenditoriale per le attività esercitate nell'interesse dell’impresa. Sul punto, vedi A. LOVISOLO, La stabile organizzazione nel nuovo modello OCSE, in Corr. trib., 2006, p. 109 ss. Sui rapporti tra transfer pricing infragruppo e “retrocessione” della società controllata in stabile organizzazione, vedi E. DELLA VALLE, Stabile organizzazione (dir. trib.), in Dir. prat. trib. int., 2008, p. 713 ss. (33) Ricorda G. MARINO, La residenza, in AA.VV. (a cura di V. Uckmar), Corso di diritto tributario internazionale, cit., p. 252 ss., che il caso De Beers è stato utilizzato in Nuova Zelanda per passare al vaglio la teoria della cd. “clockwork residence”, relativamente al caso di una società madre che, al momento della costituzione di una società figlia all’estero, determini anticipatamente tutti gli eventi del suo “vivere” quotidiano, impedendo agli amministratori qualsiasi iniziativa. Sul punto, si veda anche J.D.B. OLIVER, Company residence – Four Cases, in British Tax Review, 1996, p. 505 ss. Anche il Commentario all’art. 1 del Modello OCSE distingue nettamente tra l’ipotesi in cui la residenza della controllata si trovi nello Stato di residenza della controllante (par. 10.1), da quello in cui la controllata possa costituire stabile organizzazione della controllante (par. 10.2). (34) Vedi R. CORDEIRO GUERRA, Riflessioni critiche e spunti sistematici sulla introducenda disciplina delle Controlled foreign companies, in Rass. trib., 2000, p. 1399 ss.; D. STEVANATO, Controlled foreign companies: concetto di controllo e imputazione del reddito, in Riv. dir. trib., 2000, p. 799 ss.; R. FRANZE’, Il regime di imputazione dei soggetti controllati non residenti (cd. “Controlled foreign companies legislation), in AA.VV. (a cura di V. Uckmar), Corso di diritto tributario internazionale, cit., p. 759 ss. Emerge pertanto un triplice punto di vista dei rapporti tra controllante e controllata: quello, nella prospettiva della tutela del gettito dello Stato della fonte, della possibilità di rinvenire nel territorio dello Stato una stabile organizzazione di un soggetto estero, rilevante per lo più nell’ottica della forza di attrazione, intesa come possibilità di tassare redditi della controllante che in mancanza di stabile organizzazione non avrebbero formato oggetto di tassazione oppure avrebbero formato oggetto di tassazione alla fonte a titolo di imposta (es. royalties);

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Il tema è comunque oggetto di grande fermento e ha sollecitato in tempi recenti, come meglio si vedrà tra breve, approfondite riflessioni a livello OCSE, nell’ambito del più ampio tema dell’idoneità del criterio della “sede della direzione effettiva” a svolgere ancora un’efficace funzione dirimente

quello, nella prospettiva della tutela del gettito dello Stato della residenza, della fissazione della residenza della controllata presso la controllante; e quello, sempre in tale ultima prospettiva, della sostanziale anticipazione del momento della distribuzione del dividendo (nell’ottica di evitare il tax deferral) della società controllante, che si traduce tuttavia sul piano applicativo nell’imputazione alla controllante dei redditi (ante imposta) della controllata. Le ultime due impostazioni conducono peraltro a risultati assai diversi in termini di imposizione complessiva: mentre, infatti, la disciplina delle CFC tende ad eliminare del tutto la doppia imposizione mediante l’attribuzione di un credito per le imposte pagate all’estero (comunque non superiore all’imposta nazionale, ciò che però in linea generale non si verifica per gli Stati coinvolti nell’applicazione di tale normativa), secondo il modello della capital export neutrality, la disciplina della “doppia residenza” consente di eliminarla per i soli redditi che, nella prospettiva dello Stato che attrae la residenza del soggetto estero, si considerino prodotti all’estero (e, per questi ultimi, salvo che non sussistano forme di decadenza in caso di mancata dichiarazione dei redditi prodotti all’estero, come accade nell’art. 165 t.u.i.r.). E’ evidente, pertanto, che nel caso in cui esistano i presupposti per l’applicazione di ambedue le discipline, il contribuente avrebbe interesse ad applicare quella sulle CFC. In effetti, le discipline potrebbero considerarsi equivalenti da un punto di vista economico: in un regime CFC, infatti, nel momento in cui la holding estera dovesse realizzare la plusvalenza, questa verrebbe ad essere attratta in capo alla società controllante italiana, e quindi non sfuggirebbe a tassazione. Sotto il profilo giuridico, ciascuna disciplina presenta peraltro elementi specializzanti. La disciplina CFC presuppone una controllante italiana e una controllata estera, e che quest’ultima non svolga un’attività economica effettiva, nel qual caso neanche la localizzazione in Stati dell’Unione Europea potrebbe evitarne l’applicazione, come sottolineato dalla Corte di giustizia nel noto caso Cadbury Schweppes; la norma sulla presunzione di residenza, invece, opera anche nel caso in cui vi siano in Italia i soli amministratori (e non una controllante), e anche nell’ipotesi in cui la società estera svolga un’attività economica effettiva. Ci si potrebbe chiedere, a questo punto, quale disciplina debba applicarsi nel caso in cui sussistano i presupposti applicativi per ambedue di esse. E’ probabilmente da ritenere che alla norma sulla residenza debba riconoscersi una priorità logica in quanto operante sull’elemento del presupposto (rectius, della sua estensione territoriale), sicché sotto tale profilo appare condivisibile la conclusione cui giunge, sia pure senza argomentare, la Circolare n. 28/E/2006, par. 8, ritenendo che la presunzione di residenza nel territorio dello Stato dell’entità estera renda inoperante la disposizione dell’art. 167 t.u.i.r.. Così come appare condivisibile l’ulteriore affermazione ivi contenuta secondo cui, una volta che sia fornita la prova contraria, la controllata rimane attratta alla disciplina dell’art. 167 t.u.i.r., poiché, come correttamente osservato, l’effettiva localizzazione della sede dell’amministrazione della controllata estera fuori del territorio dello Stato, e quindi la sua autonomia decisionale e di gestione, non escludono che il suo reddito sia da considerare nella disponibilità economica del controllante residente. Sul rapporto tra disciplina CFC, società esterovestite e disciplina delle società di comodo, si veda Ris. Ag. Entrate, 16 novembre 2007, n. 331/E.

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nell’ambito dei trattati contro la doppia imposizione, con la conclusione di ritenere che lo svuotamento decisionale della controllata sia compatibile con il place of management test nei soli limiti in cui esso non ecceda le tradizionali funzioni accentrate tipiche dei gruppi societari. Peraltro, in tale ultima ipotesi di controllo potrà aggiungersi, alla questione della residenza, anche quella della stabile organizzazione, di talché la società controllata si considererà residente nello Stato della controllante, con l’effetto che lo Stato di (ex) residenza perderà lo ius impositionis sui redditi prodotti all’estero, ma l’attività svolta dalla controllata in tale Stato darà comunque luogo a redditi di impresa tassabili nello Stato in quanto realizzati mediante stabile organizzazione, ora della controllante, ora della controllata a seconda che l’attività svolta rappresenti o meno un prolungamento dell’attività della controllante, nel senso che si è sopra precisato.

3 Segue: il problema dell’oggetto principale.

Un secondo profilo in cui emergono interessanti interrelazioni tra residenza e stabile organizzazione attiene al criterio dell’oggetto principale. Si tratta di un elemento costitutivo della residenza fiscale ex art. 73, co. 3, t.u.i.r. ma che raramente è adottato in altri ordinamenti giuridici ai fini della determinazione della residenza di società ed enti. Nell’accezione ormai consolidata, esso va inteso come attività economica prevalentemente esercitata per conseguire lo scopo sociale (35); dunque, non già il luogo nel quale si forma la volontà sociale, ma quello in cui essa trova attuazione concreta. Anche il legislatore tributario si è rifatto a tale nozione, qualificando l’oggetto principale come “l’attività essenziale per realizzare direttamente gli scopi primari indicati dalla legge, dall’atto costitutivo o dallo statuto” (art. 73, co. 4 t.u.i.r.). Si tratta, è evidente, di una questione involgente un accertamento di fatto, la cui determinazione potrà risultare problematica qualora l’impresa operi in più Stati, eventualmente anche mediante stabile organizzazione, potendosi ipotizzare almeno i seguenti casi: i) società con più oggetti principali esercitati in più Stati mediante stabili organizzazioni; ii) società con un unico oggetto principale esercitato in più Stati mediante stabili organizzazioni; iii) società con uno/più oggetti principali esercitati in più Stati non sempre mediante stabile organizzazione; iv) società con un’attività principale ed una accessoria o strumentale in più Stati. (35) A. SANTA MARIA, Le società nel diritto internazionale privato, Milano, 1970, p. 99 ss.; E. SIMONETTO, Società costituite all’estero od operanti all’estero (artt. 2498-2510), cit., p. 393; C. SACCHETTO, La residenza fiscale delle società, cit., p. 123; R. LUPI – S. COVINO, Sede dell’amministrazione, oggetto principale e residenza fiscale delle società, cit., p. 927 ss. In giurisprudenza, Tribunale di Roma, 2 maggio 1963, in Giust. civ., 1964, I, p. 698 ss., come “luogo dove oggettivamente si svolge l’attività propria dell’impresa”; Cass., 26 maggio 1969, n. 1857, in Foro it., 1969, I, c. 2538 ss.

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Va premesso che in tutti questi casi la presenza (o l’assenza) della stabile organizzazione non si rivela né necessaria né tanto meno decisiva, dovendosi fare esclusivo riferimento al criterio della prevalenza dell’attività svolta in uno degli Stati interessati, da valutare in relazione sia a parametri quantitativi – ad esempio, il fatturato lordo, il valore delle attività localizzate, il numero di dipendenti in ciascuno Stato – sia a parametri qualitativi nel caso in cui venga in rilievo l’eventuale accessorietà (o strumentalità) dell’attività effettuata rispetto a quella “tipica” dell'impresa (36). Non potrà invece trattarsi di attività nel senso di direzione, poiché questa rientra nella nozione di “sede dell’amministrazione” (37).

(36) Per alcune problematiche ulteriori si veda E. SIMONETTO, Società costituite all’estero od operanti all’estero (artt. 2498-2510), in Commentario al C.C., a cura di Scialoja e Branca, Bologna - Roma, 1976, p. 224. Non deve peraltro essere confuso il concetto di attività prevalentemente svolta nel territorio dello Stato, con quello di attività prevalentemente rivolta nei confronti di un determinato territorio. Si pensi, ad esempio, alle società che svolgono attività di trading di beni o di prestazione di servizi prevalentemente verso il mercato italiano. Infatti, un conto è il mercato di destinazione, altro è quello in cui si articola l’attività. Sul problema dell’individuazione dell’oggetto principale in relazione agli enti non commerciali e, in particolare, sulla pluralità di oggetti principali, nel senso di pluralità di attività diverse tutte egualmente essenziali per il conseguimento dello scopo, si veda G. FRANSONI, La rilevanza dell’oggetto e degli scopi degli enti diversi dalle società ai fini dell’individuazione del regime fiscale, in GT – Riv. giur. trib., 1997, p. 485 ss. (37) Contra, D’ABRUZZO, Gli aspetti controversi dei criteri di determinazione della residenza fiscale delle società di persone, in Boll. trib., 2002, p. 263. Propone una diversa lettura dell’oggetto principale, F. NANETTI, Riflessioni in tema di “oggetto principale”, ai fini dell’art. 73, comma 3, del Tuir, in Il Fisco, 2007, n. 26, fasc, 1, p. 3810 ss. Secondo l’A., in particolare, vi sarebbe identità di nozione tra “oggetto principale” e “oggetto sociale”, sicché identificandosi quest’ultimo con l’attività posta in essere dagli amministratori al fine di realizzare direttamente gli scopi indicati dall’atto costitutivo o dallo statuto, non occorrerebbe guardare al luogo in cui si svolge materialmente l’attività caratteristica della società, bensì a quello in cui si concretizza l’attività posta in essere dagli amministratori stessi per realizzare gli scopi indicati nell’atto costitutivo. Occorrerebbe dunque dare rilievo al profilo gestorio e non al contenuto materiale delle attività, e sarebbero irrilevanti il luogo in cui si esplicano materialmente le attività consistenti nella fornitura di beni o servizi, ovvero il luogo in cui si trovano localizzati i beni dell’impresa. Tale tesi, pur contribuendo a fornire ulteriori argomentazioni a favore dell’irrilevanza – sulla quale ci si soffermerà tra breve – della mera localizzazione dei beni al cospetto del superiore concetto di “attività”, non considera però lo scopo perseguito dall’elemento costitutivo dell’oggetto principale, che è quello (al pari di quanto accade per la norma internazional-privatistica) di dare rilievo anche al “radicamento economico” prevalente del soggetto nel territorio dello Stato, indipendentemente sia dalla sede legale, sia dall’assunzione delle decisioni di alta amministrazione. Tale “radicamento economico”, tuttavia, deve pur sempre consistere nello svolgimento di una attività (e nella quale semmai si concretizzano gli impulsi volitivi degli amministratori, tramite una loro attuazione day to day), e non limitarsi, staticamente, al possesso di beni. E’ peraltro interessante notare che guardando al luogo di svolgimento dell’attività

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Riemerge dunque anche qui il “dualismo”, con le conseguenti interrelazioni, tra residenza e stabile organizzazione. Con riferimento al trasferimento di residenza di una società svolgente attività di impresa in Italia, ad esempio, il mantenimento dell’attività lato sensu di impresa in Italia potrebbe dar luogo ad una stabile organizzazione nel territorio dello Stato. Ma ciò, dal punto di vista del diritto interno, alla sola condizione che tale attività sia configurabile quale “secondaria”, nel senso che esista, all’estero, un’altra attività qualificabile come “principale”, dovendosi altrimenti la società, da tale punto di vista, considerare residente in Italia (38). Rilevanti difficoltà si pongono poi sul piano del rapporto tra l’oggetto dell’attività e i beni principali posseduti dal soggetto Ires, ed in particolare nel caso in cui manchi un’attività vera e propria, come accade per le società di “mero godimento” il cui patrimonio sia costituito da immobili situati nel territorio dello Stato, ovvero da partecipazioni in società italiane ovvero ancora da beni concessi in uso a società italiane (es. marchi) (39). In tal caso, peraltro, anche l’applicazione del criterio del luogo di direzione si complica, perché le sole attività sulle quali si assumono le decisioni essenziali si limitano, di regola, all’acquisto e alla cessione del bene patrimoniale che, proprio in virtù del loro carattere episodico, ben si prestano a localizzazioni “di comodo” (40). Ciò spiega la scelta del legislatore italiano,

emergono numerosi punti di contatto – esattamente sottolineati da Nanetti – con alcuni contenuti del concetto di “sede effettiva” elaborati dalla giurisprudenza civilistica. (38) Sulla residenza in Italia di un soggetto amministrato dall’estero avente come unico bene una fabbrica in Italia, vedi A. MANZITTI, Considerazioni in tema di residenza fiscale delle società, in Riv. dir. trib., 1998, III, p. 181. Il problema si pone ovviamente anche ai fini civilistici, in quanto l’art. 25, L. n. 218/95 distingue tra società costituite all’estero il cui statuto personale è regolato dalla legge italiana e società solo parzialmente soggette alle disposizioni del nostro ordinamento (quelle sulla pubblicità degli atti sociali), cioè le società che si limitano all’istituzione in Italia di una sede secondaria con rappresentanza stabile. In concreto diventa tuttavia spesso difficile stabilire se ci si trovi davanti ad una sede secondaria istituita in Italia da una società straniera (come tale ricadente nella sfera di applicazione degli artt. 2506-2508 cod. civ.) oppure se la stessa abbia di fatto la sede amministrativa o l’oggetto principale nel territorio dello Stato, dovendosi conseguentemente applicare i criteri sussidiari dettati dall’art. 25 della L. n. 218/95 e ricorrere alla legge italiana. Vedi F. LAURINI, L’istituzione in Italia di sedi secondarie di società estere e la nuova disciplina del diritto internazionale privato, in Riv. not., 1996, p. 121 ss. Diversamente accade a livello OCSE, dove la stessa definizione di stabile organizzazione presuppone una netta distinzione tra residenza – intesa come luogo in cui si assumono le decisioni di alta amministrazione – e luogo in cui si svolge l’attività principale. Sul punto si tornerà nelle conclusioni. (39) Sul punto, A. MANZITTI, Considerazioni in tema di residenza fiscale delle società, Atti del Convegno di studio delle sezioni IFA di Francia ed Italia, Capri, 8 e 9 maggio 1998, p. 6 del dattiloscritto. (40) Cfr. A. MANZITTI, Considerazioni in tema di residenza fiscale delle società, cit., p. 186.

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attuata con il d.l. 223/2006, di prevenire la collocazione di holdings “di comodo”, titolari di partecipazioni in società italiane, in Paesi nei quale vige un sistema di participation exemption, riferendo la residenza fiscale della società al luogo nel quale risiedono i soggetti che hanno il potere di determinare queste decisioni. Si pensi, innanzitutto, alla risalente questione circa la configurabilità di un bene immobile quale stabile organizzazione, che la dottrina ha escluso almeno nell’ipotesi in cui si tratti di un mero investimento di capitale (41). La Corte di Cassazione, dal canto suo (42), ha affermato doversi escludere dalla nozione di stabile organizzazione tale possesso quando si esaurisca nella mera gestione dell'immobile (ad esempio, un investimento di capitale), ma non quando l'immobile sia “strumentale all’esercizio di una attività d'impresa ovvero costituisca esso stesso l’oggetto di un’attività d'impresa”. Ebbene, ove il patrimonio del soggetto sia esclusivamente formato da beni immobili situati in Italia, potrebbe giungersi ad affermare l’esistenza dell’attività principale in Italia, almeno nei casi in cui essi costituiscano il mezzo per l’esercizio della propria attività da parte del soggetto estero, e l’attività si sostanzi in un insieme complesso e coordinato di atti localizzati nel territorio dello Stato italiano. In tal caso, il discrimen rispetto alla stabile organizzazione verrebbe ad essere tracciato dall’esistenza di situazioni qualitativamente analoghe, ma quantitativamente diverse poste in essere nel territorio di altri Stati (43).

(41) Vedi A. LOVISOLO, Il concetto di stabile organizzazione nel regime convenzionale contro la doppia imposizione, in Dir. prat. trib., 1983, p. 1127 ss.; ID., I requisiti di configurabilità della stabile organizzazione e il possesso di un bene immobile, in Dir. prat. trib., 1976, II, p. 553 ss.; M.R. VIVIANO, La stabile organizzazione del non residente in Italia, Napoli, 2007, p. 63 ss.; U. LA COMMARA – A. VALENTE, La mera detenzione di un immobile da parte di un soggetto non residente non configura stabile organizzazione, in Il Fisco, 2008, n. 3, fasc. 1, p. 437 ss. (42) Cass., 27 novembre 1987, n. 8820, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1988, II, p. 105 ss. (43) Vedi, sul punto, L. PERRONE, La residenza del trust, in Rass. trib., 1999, p. 1605; R. LUPI – S. COVINO, Sede dell’amministrazione, oggetto principale e residenza fiscale delle società, in Dialoghi di diritto tributario, 2005, p. 933. In tal senso si è espresso anche il SE.C.I.T., nella relazione sull’attività svolta nel 1984, in Dir. prat. trib., 1985, I, p. 1518 ss. Vedi però Cass., 10 dicembre 1974, n. 4172, ove si è stabilito che la costituzione all’estero di una società, controllata al 90% da un residente in Italia, al solo scopo di acquistare un immobile situato nel territorio dello Stato, non comporta l’assoggettabilità di tale società alle disposizioni della legge italiana, se dalle risultanze dell’atto costitutivo e degli altri atti ufficiali non risulta che la sede legale, la sede amministrativa o l’oggetto principale sono localizzati in Italia, e non è dimostrabile la non corrispondenza tra dette risultanze e l’effettiva realtà. In particolare, afferma la Cassazione, “per dimostrare che la sede di una società è di fatto localizzata in Italia, non è sufficiente allegare che uno degli amministratori (sia pure dotato di pieni poteri) vi risiede e, per localizzare in Italia l’oggetto principale di una impresa sociale complessa e dichiaratamente esplicabile in ogni parte del mondo, non basta dedurre (oltretutto in modo dubitativo) che all’operazione compiuta in Italia non

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Ancor più delicata è la questione delle società estere il cui unico oggetto sia costituito da partecipazioni in società residenti in Italia. Il tema – anch’esso reso di notevole attualità dall’intervento legislativo attuato con il d.l. 223/2006, che ha introdotto quale indice di residenza anche il luogo di residenza fiscale della controllante – si palesa speculare a quello innanzi esaminato in ordine ai rapporti tra controllante e controllata. Non si tratta, infatti, di vedere se la società controllata possa qualificarsi come residente all’estero per essere la volontà aziendale – in ultima analisi – espressa dalla società controllante non residente, quale socio della società residente. Si tratta, invece, di vedere se il soggetto non residente possa esso stesso definirsi come residente in Italia per avere, quale unico bene in portafoglio, la partecipazione in una società italiana la cui attività sia svolta in Italia, e per condurre un’attività statica consistente nella percezione dei dividendi e nella partecipazione all’assemblea della società controllata. La dottrina propende chiaramente per la soluzione negativa, ritenendo fuorviante il riferimento nella fattispecie in esame all’oggetto principale (44).

ne sarebbero seguite altre”. Più controversa è l’ipotesi in cui il soggetto estero si limiti ad essere intestatario del bene in Italia, senza svolgervi alcuna attività (ad esempio, limitandosi a locarlo, né destinandolo ad operazioni di compravendita speculative). In questo caso, infatti, si sarebbe in presenza di una mera situazione di possesso di un bene situato in Italia, ciò che, come si dirà tra breve con riferimento alle partecipazioni, non sembra sufficiente per poter configurare l’oggetto principale nel territorio dello Stato, dovendosi pur sempre trattare di una “attività”. Va rilevato al riguardo che la Ris. Ag. Entrate, 6 agosto 2007, n. 48/E, par. 3.1., in tema di residenza del trust, si sofferma proprio su questo aspetto, affermando che “il secondo criterio (l’oggetto principale) è strettamente legato alla tipologia di trust. Se l’oggetto del trust (bene vincolato nel trust) è dato da un patrimonio immobiliare situato interamente in Italia, l’individuazione della residenza è agevole; se invece i beni immobili sono situati in Stati diversi occorre fare riferimento al criterio della prevalenza. Nel caso di patrimoni mobiliari o misti l’oggetto dovrà essere identificato con l’effettiva e concreta attività esercitata”. Sul punto, si vedano le acute osservazioni di G. FRANSONI, La residenza del trust, in Corr. trib., 2008, p. 2585, che evidenzia come la natura del trust come ente di regola non commerciale renda irrilevante la circostanza che il reddito sia tratto da immobili localizzati nel territorio dello Stato in presenza di attività istituzionali (es. assistenziali) svolte all’estero. Contrario alla configurabilità quale “oggetto principale” nell’ipotesi di uno o più immobili posseduti nel territorio dello Stato per i quali il soggetto si limiti alla relativa gestione è M. ANTONINI, Brevi riflessioni in merito alle interrelazioni tra rapporti di controllo, oggetto principale e stabile organizzazione, in Riv. dir. trib., 2008, V, p. 137 ss., il quale osserva che la circostanza che il possesso di beni immobili non costituisca una “stabile organizzazione” dovrebbe, a fortiori, escludere la possibilità che una siffatta situazione possa integrare il concetto di “residenza fiscale”. Del resto, se la “stabile organizzazione” implica un concetto di “attività”, l’affermazione della mancanza di una stabile organizzazione dovrebbe riverberarsi anche sul concetto di “attività” che è alla base dell’“oggetto principale”. (44) Sul punto, R. LUPI – S. COVINO, Sede dell’amministrazione, oggetto principale e residenza fiscale delle società, cit., p. 927 ss.; G. MARINO, La residenza nel diritto tributario, cit., p. 141; A. MANZITTI, Considerazioni in tema di residenza fiscale

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delle società, cit., p. 181; A. BALLANCIN, La nozione di “beneficiario effettivo” nelle Convenzioni internazionali e nell’ordinamento tributario italiano, in Rass. trib., 2006, p. 238, che rinviene spunti in tal senso anche dalla Ris. 29 gennaio 2003, n. 18/E in risposta ad un interpello proposto ex art. 167, co. 5 t.u.i.r. (nella quale si legge, in particolare, che “Come si è riscontrato dall’esame del bilancio allegato all’istanza, infatti, l’attività di detta società è limitata alla mera detenzione delle partecipazioni, tra cui quella nella Z do Brasil, conseguendo redditi (dividendi ed interessi) che non possono considerarsi “prodotti” ai fini di che trattasi nello Stato del Brasile. Tali redditi infatti, in quanto derivanti da una fonte produttiva (il capitale) situata in Lussemburgo, devono considerarsi essi stessi prodotti in Lussemburgo. Gli interessi pagati dalla società brasiliana e contabilizzati quali dividendi dalla controllata lussemburghese, in particolare, si considerano prodotti nello Stato del percipiente e, quindi, in Lussemburgo, in capo alla società che rientra nella fattispecie a fiscalità privilegiata di cui alla citata black list”. Questa impostazione sembrerebbe suggerire una lettura per la quale l’oggetto principale della holding si trovi nel luogo in cui è situato il capitale. Si tratta, tuttavia, di una conclusione da meditare attentamente, perché da un lato si tratta di un criterio poco chiaro (quale ne è il significato: il luogo in cui la società è stata costituita? Il luogo nel quale sono fisicamente presenti gli impieghi del capitale?), e dall’altro mette in ombra quell’altro profilo per il quale l’oggetto principale deve pur sempre consistere in una attività. Nella dottrina internazionalprivatistica, si veda T. BALLARINO, Diritto internazionale privato, Padova, 1996, p. 352 ss., che ritiene eccessivo imporre l’applicazione della legge italiana ad enti come le holding estere prive di una relazione effettiva con l’ordinamento italiano. Da ultimo, merita segnalare Cass., sez. trib., 11 giugno 2007, n. 13579 (in Riv. dir. trib., 2008, V, p. 137 ss., con nota di M. ANTONINI, Brevi riflessioni in merito alle interrelazioni tra rapporti di controllo, oggetto principale e stabile organizzazione), chiamata a giudicare dell’inclusione nell’asse ereditario di un soggetto non residente della partecipazione in una società anch’essa non residente che si limitava a detenere una partecipazione di controllo in una società operativa italiana, e ciò alla luce dell’art. 2, co. 3, d.p.r. n. 637/1972 (ed attualmente dell’art. 2 d. lgs. n. 346/1990), che considera(va) esistenti in Italia le azioni o quote di società costituite nello Stato o aventi la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale in Italia; elemento, quest’ultimo, che sarebbe appunto stato ricollegabile, secondo l’a.f. italiana, al possesso dell’unica partecipazione nella società italiana. La Cassazione, sia pure richiamando essenzialmente la (non sempre pertinente, nel caso di specie) giurisprudenza in tema di controllo e stabile organizzazione, piuttosto che indagare se il possesso del bene “partecipazione” in sé possa o meno costituire oggetto principale di una società non residente, ha respinto la tesi dell’a.f., affermando che il controllo della partecipata in sé è irrilevante (probabilmente in quanto, non configurando tale controllo una stabile organizzazione, neanche sarebbe possibile individuare nel territorio dello Stato l’oggetto principale del soggetto estero) e che l’a.f. avrebbe dovuto offrire altri elementi di merito per accertare che si trattasse di “un sodalizio avente sede amministrativa od oggetto principale dell’attività di impresa in Italia”. Dunque, allo stato, i giudici di legittimità hanno di fatto rigettato l’equazione società controllata - oggetto principale, anche se la Cassazione sembrerebbe affermare che tale conclusione sia valida nei soli in casi in cui, come accadeva nel caso esaminato, sia in vigore una convenzione contro la doppia imposizione in materia di successioni e donazioni: soluzione, questa, certamente non condivisibile, non potendosi rinvenire nell’art. 5, par. 7, alcuna presunzione. Si veda anche A. BUSANI, L’esercizio presunto porta l’eredità in Italia, in Il Sole 24 Ore, 12 giugno 2007, p. 29.

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In realtà, se per oggetto deve intendersi l’attività esercitata, non vi è dubbio che sussista una netta differenza tra l’attività (di gestione di partecipazioni) e il bene (partecipazione) sul quale l’attività viene esercitata. L’attività, inoltre, ha come oggetto la gestione di un bene di “secondo grado”, la partecipazione, e non consente pertanto né di riferirsi al luogo in cui risiede la società partecipata, né di dare rilevanza al luogo in cui il bene-partecipazione è situato. Del resto, non pare casuale la circostanza che il d.l. n. 223/06, nell’affrontare il problema delle società holding, si posizioni esclusivamente sul piano della sede dell’amministrazione, dando così per scontata l’irrilevanza (o, quanto meno, la dubbia rilevanza) dell’oggetto principale (45). In conclusione, nel caso di società di gestione di partecipazioni, anche in presenza di società holding meramente passive che si limitano al possesso statico delle partecipazioni al fine di goderne i relativi frutti (holding cd. “statiche”), dunque prive di quelle strutture dirette ad esercitare quell’attività finanziaria, nel senso di direzione e coordinamento delle partecipate e/o di svolgimento nei loro confronti di prestazioni ausiliarie, propria delle holding cd. “dinamiche”, la residenza fiscale non potrà basarsi sulla mera residenza della società partecipata (46). (45) Non costituirebbe invece argomento rilevante l’osservazione secondo la quale, diversamente opinando, non avrebbe avuto senso stabilire una presunzione di residenza in Italia, avendo appunto già il soggetto estero il proprio oggetto principale in Italia. Come si vedrà oltre, infatti, la norma trova applicazione anche nell’ipotesi in cui il soggetto detenga (anche) partecipazioni in società estere o addirittura un’attività di impresa, e la partecipazione italiana rappresenti una quota scarsamente significativa del patrimonio della holding. (46) Il problema si sposta, pertanto, sulla sede dell’amministrazione. A tale riguardo, ritiene S. COVINO, La gestione attiva come criterio riferibile anche alle holding di mera detenzione, in Dialoghi di diritto tributario, 2006, p. 82 ss., che essendo naturale che le decisioni ultime siano assunte dai soci della holding, non ci si potrebbe appiattire sul socio e l’imprenditore avrebbe piena libertà di localizzare holding dove meglio crede. Se così fosse, tuttavia, il criterio della residenza si ridurrebbe a quello formale del luogo di costituzione o della sede legale che, come visto, sono ampiamente recessivi nel diritto internazionale tributario, proprio in quanto si prestano a facili manovre elusive (di cui la cessione esentasse delle partecipazioni è un esempio lampante). Il criterio, dunque, non può non essere, anche per le holding, quello della direzione effettiva, sia pure da valutare con particolare attenzione in relazione alle (necessariamente) limitate attività svolte. Anche nella giurisprudenza belga, una società holding di diritto lussemburghese, con sede legale in Lussemburgo, è stata considerata fiscalmente residente in Belgio in quanto la banca lussemburghese che aveva costituito la società agiva come fiduciaria, tutta la corrispondenza non era spedita in Lussemburgo ma in Belgio, colui che aveva il potere di firma per la società gestiva da Bruxelles (poiché aveva un’altra serie di società da gestire e la sua presenza in Lussemburgo non era indispensabile) e infine l’attività principale della società era di detenere un credito commerciale nei confronti di una società belga: vedi G. MARINO, La residenza, in AA.VV. (a cura di V. Uckmar), Corso di diritto tributario internazionale, cit., p. 254. Per un recente tentativo di superare il problema dell’individuazione dell’oggetto principale (e della sede dell’amministrazione) delle

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4 Segue: oggetto principale e “tie breaker rule” nelle convenzioni contro la doppia imposizione.

Il profilo testé esaminato si ripercuote poi sul piano delle convenzioni internazionali in sede di applicazione della c.d. “tie breaker rule”. A tale riguardo, con riferimento alla residenza dei soggetti diversi dalle persone fisiche la norma convenzionale è di una sorprendente laconicità, limitandosi a prevedere che nel caso in cui il soggetto sia residente di entrambi gli Stati contraenti, esso sarà considerato “residente dello Stato contraente in cui si trova la sede della sua direzione effettiva” (47). Né alla concisione si accompagna la chiarezza. Se, infatti, il criterio filtro indicato nell’art. 4, par. 1 è quello della sede della sua direzione o di altro criterio di natura analoga, delle due l’una. O si attribuisce un qualche senso all’espressione “criterio di natura analoga” – ma risulta assai difficile

holding statiche facendo riferimento a quelle tesi che fanno coincidere l’oggetto sociale delle holdings con quello delle società partecipate, con l’effetto di doversi riferire al fine dell’individuazione dell’oggetto principale al luogo in cui risiedono ed operano le società controllate, si veda D. STEVANATO, La residenza fiscale delle holdings e il criterio dell’oggetto principale, in Dialoghi, 2007, p. 1551 ss. (47) Ben diversa è la struttura dell'art. 4 (“Domicilio fiscale”) del Modello di Convenzione del Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti d'America, il cui paragrafo 3 così recita: “Quando (....) una società è residente di entrambi gli Stati contraenti, se è stata creata sotto la legislazione di uno Stato contraente o di una sua suddivisione politica, essa sarà considerata residente di detto Stato contraente”. Per alcuni esempi dell’utilizzo della nozione convenzionale di residenza nella soluzione delle controversie, vedi il Notiziario di diritto finanziario comparato, in Dir. prat. trib., 1986, I, p. 1963 e ibidem 1993, I, p. 592-593. Vedi anche R. COUZIN, Corporate Residence and International Taxation, cit., p. 171 ss. E’ interessante notare che il criterio della “sede di direzione effettiva” è utilizzato anche quale criterio per l’attribuzione della potestà impositiva nel caso di attività di navigazione, trasporto interno via acqua e trasporto aereo (art. 8 Modello OCSE). Sui precedenti storici in tema di residenza convenzionale, vedi S. SHALHAV, The Evolution of Article 4(3) and Its Impact on the Place of Effective Management Tie Breaker Rule, in Intertax, 2004, p. 460 ss., il quale rileva, in particolare, come già i quattro economisti incaricati nel 1923 dalla Società delle Nazioni di redigere un rapporto sulla doppia tassazione avessero evidenziato al riguardo le accresciute possibilità di controllo a distanza delle imprese (“the real brain of the management can be found at distance”); successivamente, nel Report del 1925 redatto da esperti nominati sempre dalla Società delle Nazioni, si riconobbe il diritto di imposizione in capo allo Stato in cui è situato il “real centre of management and control of the undertaking”, e si identificò il “fiscal domicile” nel luogo “where the brain, management and control of the business are situated”. Questo concetto venne richiamato in diversi documenti redatti tra il 1927 e il 1940, poi nel Modello di Londra del 1946, trasformandosi lessicalmente (ma non sostanzialmente), in “place of effective management” anche nei documenti redatti dal Comitato fiscale incaricato dall’OEEC (poi divenuta OCSE) di studiare i problemi connessi alla doppia imposizione internazionale ed elaborare un modello di convenzione. Vedi anche I.J.J. BURGERS, Some Thoughts on Further Refinement of the Concept of Place of Effective Management for Tax Treaty Purposes, cit., p. 378 ss.

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comprendere quale possa essere un criterio di natura analoga alla “sede della direzione” – nel qual caso tale diverso criterio soccomberà dinanzi alla “sede della direzione effettiva”; oppure, ci si trova dinanzi a due criteri (sede della sua direzione e sede della effettiva direzione) la cui differenza è sostanzialmente impercettibile, sicché la “tie-breaker rule” finisce per risultare inutile. In realtà, dalla lettura del Commentario all’art. 4 sembrerebbe desumersi una preferenza per la prima ipotesi, laddove si fa riferimento al caso in cui uno Stato “annette importanza alla registrazione e l’altro Stato al luogo di effettiva direzione” (48), ciò che lascia quanto meno perplessi, non potendosi rinvenire alcuna analogia tra “sede della direzione” e “luogo di registrazione”. Fatto sta che per l’individuazione del “luogo di effettiva direzione”, il par. 24 del Commentario all’art. 4 del Modello OCSE, inserito in occasione della revisione della versione del 2000 e modificato nella versione 2008, precisa doversi fare riferimento al “luogo in cui si assumono in sostanza le decisioni “chiave” manageriali e commerciali necessarie alla conduzione dell’impresa nel suo complesso”. Anteriormente a tale ultima modifica, era peraltro contenuta nel Commentario l’ulteriore affermazione per la quale, nell’individuazione del luogo di effettiva direzione, ci si dovesse riferire al luogo in cui si riuniva l’organo amministrativo ovvero dove si trovavano le persone preposte all’assunzione delle “decisioni chiave” per la conduzione dell’impresa (49). Si prendeva in ogni caso atto della necessità di esaminare tutti i fatti e le circostanze rilevanti. Ebbene, in relazione al suddetto paragrafo, l’Italia ha formulato nel 2002 una osservazione, ritenendo che nella determinazione del luogo di direzione effettiva della residenza occorra attribuire rilevanza anche al luogo nel quale viene svolta la principale e sostanziale attività dell’impresa (50). (48) Par. 23. (49) Commentario OCSE all’art. 4 del Modello, par. 24, ante modifiche 2008: “The place of effective management is the place where key management and commercial decisions that are necessary for the conduct of the enterprise’s business are in substance made. The place of effective management will ordinarily be the place where the most senior person or group of persons (for example, a board of directors) makes its decisions, the place where the actions to be taken by the entity as a whole a determined; however, no definitive rule can be given and all relevant facts and circumstances must be examined to determine the place of effective management. An entity may have more than one place of management, but it can have only one place of effective management”. A seguito delle modifiche 2008, il paragrafo è stato così riformulato: “The place of effective management is the place where key management and commercial decisions that are necessary for the conduct of the enterprise’s business as a whole are in substance made. All relevant facts and circumstances must be examined to determine the place of effective management. An entity may have more than one place of management, but it can have only one place of effective management at any one time”. (50) Par. 25, Commentario 2005: “Italy does not adhere to the interpretation given in paragraph 24 above concerning the “most senior person or group of persons (for

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La prassi degli Stati membri di apporre osservazioni e riserve al Commentario non deve tuttavia essere sopravvalutata. Quanto alle riserve, è vero che la loro formulazione costituisce un importante aspetto della formazione dei trattati internazionali, ma è anche vero che da un lato essa risponde – come accade con le convenzioni internazionali multilaterali – ad esigenze di ordine pratico, in particolare di addivenire comunque ad un risultato finale (51), nel nostro caso coincidente con quello di esplicitare il pensiero della maggioranza dei rappresentanti in seno al Committee on Fiscal affairs dell’OCSE; e che, dall’altro, tale risultato proviene pur sempre dai membri di tale Comitato e non già dagli organi competenti alla stipulazione dei trattati contro la doppia imposizione (52). Trattati, peraltro, al cui interno le riserve trovano la loro naturale esplicitazione che, a sua volta, sarebbe priva di senso ove le riserve apposte al Commentario avessero valore giuridico, necessario presupposto per operare una restrizione al Commentario ove avente identico valore (53). Per quanto riguarda poi le osservazioni, esse scontano le medesime incertezze, sul piano dell’efficacia, dell’atto al quale esse sono apposte, vale a dire il Commentario OCSE, soprattutto nel momento in cui, come pare, quest’ultimo possa ascriversi ai mezzi supplementari di interpretazione (54). In questo senso ed in primo luogo, pare potersi affermare che l’osservazione formulata dall’Italia non si ponga su un piano equiordinato rispetto all’interpretazione della sede effettiva come riferita alle decisioni “di

example, a board of directors)” as the sole criterion to identify the place of effective management of an entity. In its opinion the place where the main and substancial activity of the entity is carried on is also to be taken into account when determining the place of effective management”. Nella versione 2008, tale osservazione è stata così modificata: “As regards par. 24 and 24.1, Italy holds the view that the place where the main and substancial activity of the entity is carried on is also to be taken into account when determining the place of effective management of person other than an individual”. (51) Sul punto, vedi R. BARATTA, Gli effetti delle riserve ai trattati, Milano, 1999, p. 1 ss. (52) Sulla necessaria provenienza delle riserve ai trattati dagli organi dotati del potere di impegnare lo Stato sul piano internazionale, vedi R. BARATTA, Gli effetti delle riserve ai trattati, cit., p. 10 ss. (53) Con riferimento alle osservazioni, è stata avanzata da attenta dottrina (G. MAISTO, The Observations on the OECD Commentaries in the Interpretation of Tax Treaties, in Bulletin of International Bureau of Fiscal Documentation, 2005, p. 14 ss.), la tesi per la quale l’efficacia delle osservazioni al Commentario potrebbe essere assimilata a quella delle cd. dichiarazioni unilaterali previste nel diritto internazionale, segnatamente nel momento in cui gli Stati aderenti all’OCSE firmano la convenzione contro la doppia imposizione. In tale momento, infatti, esse verrebbero implicitamente richiamate, e peraltro legittimate dall’intervento dei plenipotenziari nella fase conclusiva (intervento che, invece, manca a livello di commentario), e l’altro Stato, essendone a conoscenza, ben potrebbe ad esse opporsi. (54) Sia consentito rinviare a G. MELIS, L’interpretazione nel diritto tributario, Padova, 2003, p. 622 ss.

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vertice”, che è invece concetto la cui portata, come visto, va ben oltre il Commentario OCSE, con l’effetto di rendere inutile il ricorso ai mezzi supplementari di interpretazione (e dunque alle osservazioni ivi contenute). In secondo luogo, laddove l’osservazione italiana dovesse essere considerata pienamente efficace sul piano applicativo (almeno per i trattati stipulati successivamente alla sua apposizione), nel senso di non costituire una sua applicazione contraria a buona fede, ne deriverebbero conseguenze di sostanziale blocco nel funzionamento della “tie breaker rule”, ponendosi la localizzazione dell’attività principale in Italia sullo stesso piano della sede dell’amministrazione intesa come luogo di direzione effettiva. Risultato, questo, che appare in chiara violazione dello spirito delle convenzioni – difficilmente potendosi riconoscere l’idoneità della procedura amichevole a risolvere un siffatto caso – e che neppure le recenti modifiche al Commentario OCSE, di cui si darà immediatamente conto, hanno inteso perseguire. In terzo ed ultimo luogo, una tale soluzione mal si armonizzerebbe anche con il rinvio al diritto interno, dove sede dell’amministrazione e oggetto principale rappresentano criteri distinti. Il significato di “sede di direzione effettiva” deve peraltro essere distinto da quello, utilizzato dall’art. 5, par. 2 del Modello OCSE in tema di stabile organizzazione, di “sede di direzione” del soggetto imprenditoriale. Pur nell’evidente diversità di funzione, la differenza di significato tra i due concetti non è immediatamente percepibile, svolgendosi in ambedue i casi un’attività di tipo direzionale. Deve tuttavia ritenersi che, nel caso di processi decisionali frazionati, la sede di direzione possa assurgere ad elemento rilevante per l’attribuzione dello status di residenza fiscale solo nel momento in cui in essa vengano assunte le decisioni fondamentali sulla vita dell’impresa nel suo complesso; mentre, nel caso di sedi di direzione autosufficienti, rileverà quella in cui si dirige il ramo di attività più significativo (55), nel senso che si è precisato trattando dell’oggetto principale. Nel caso di sedi di direzione relative a singole fasi della vita imprenditoriale, ovvero alla gestione complessiva di un ramo non significativo di azienda, saremo invece in presenza di una stabile organizzazione. Di qui la necessaria unicità della “ sede di direzione effettiva” e la possibile pluralità delle meri “sedi di direzione” (56).

(55) Su questo problema, vedi A. SKAAR, Permanent establishment, Kluwer, 1991, p. 116. Vedi anche R. COUZIN, Corporate Residence and International Taxation, cit., p. 59 ss., con riferimento al caso New Zealand Shipping Company Limited v. Thew. (56) Confermata anche nel recente discussion draft dell’OCSE “Oecd model tax convention: revised proposals concerning the interpretation and application of article 5 (permanent establishment)”, dove si legge che “whilst an enterprise can have different places of management for the purposes of subparagraph 2 a) of Article 5, an entity such as a company can have only one place of effective management for the purposes of paragraph 3 of Article 4”. Il discussion draft intende tra l’altro chiarire che le sedi di direzione devono comunque possedere i requisiti di cui al paragrafo 1 del Modello OCSE e non devono essere deputate allo svolgimento delle attività

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Ciò precisato, si è già anticipata la recente riflessione in seno all’OCSE sull’efficacia del criterio della sede della “direzione effettiva” ai fini della determinazione univoca nei rapporti internazionali della residenza dei soggetti diversi dalle persone fisiche. L’OCSE ne ha dato conto sin dal primo documento sugli effetti tributari del cd. “commercio elettronico” (57), per poi approfondire l’argomento nel documento pubblicato nel mese di febbraio 2001 sul tema “The impact of the Communications Revolution on the Application of “Place of Effective Management” as a Tie-Breaker Rule” (58), cui ha fatto seguito prima un discussion draft presentato in data 27 maggio 2003 dal titolo “Place of Effective Management Concept: Suggestions for Changes to The OECD Model Tax Convention” (59), e successivamente, in data 21 aprile 2008, una proposta di modifiche all’art. 4 del Modello OCSE e al suo commentario, infine recepite nella nuova versione del Commentario del 18 luglio 2008 (60) Riflettendo sulle possibili soluzioni, e scartata l’ipotesi di sostituire il test della sede di direzione effettiva con quello del luogo di costituzione (61), della residenza degli amministratori o degli azionisti (62) o, infine, del luogo in cui preparatorie od ausiliarie di cui al paragrafo 4. (57) Electronic Commerce: the challenge to tax authorities and taxpayers, in Riv. dir. trib., 1998, IV, p. 3 ss. Sul punto, vedi A.M. PROTO, Considerazioni in tema di applicabilità delle nozioni tradizionali di residenza e stabile organizzazione alle nuove realtà telematiche, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2005, p. 366 ss.; G. MAISTO, Le prime riflessioni dell’OCSE sulla tassazione del commercio elettronico, in Riv. dir. trib., 1998, IV, p. 47 ss. (58) Vedi S. MAYR – G. FORT, La residenza fiscale delle società: necessità di un cambiamento?, in Corr. trib., 2001, p. 2086 ss.; C. ROMANO, The Evolving Concept of “Place of Effective Management” as a Tie-breaker Rule under the OECD Model Convention and Italian Law, in European Taxation, 2001, p. 339 ss. (59) In www.oecd.org. (60) Il “Draft Contents to the 2008 Update to the Model Tax Convention” è reperibile all’indirizzo www.oecd.org., in cui sono contenute anche le osservazioni degli esterni e le risposte dell’OCSE. Sulle modifiche 2008 apportate al Commentario, si veda P. VALENTE, Modifiche agli artt. 1-5 del modello e al Commentario, in Il Fisco, 2008, n. 32, fasc. 1, p. 5782 ss. (61) Le motivazioni sono facilmente intuibili, risiedendo nella inadeguatezza di un criterio meramente formale a legittimare forme di tassazione su base mondiale. Inoltre, il criterio del luogo di costituzione non è idoneo a risolvere i conflitti tra due Stati che considerino il soggetto residente in funzione della localizzazione della sede effettiva. Favorevole, invece, al criterio del luogo di costituzione, è S. VAN WEEGHEL, The Tie-Breaker Revisited: Towards a Formal Criterion?, in AA.VV. (a cura di L. Hinnekens e P. Hinnekens), A vision of Taxes Within and Outside European Borders, Kluwer, The Netherlands, 2008, p. 963 ss., il quale rileva la totale inadeguatezza del criterio della sede effettiva rispetto alla realtà economica attuale delle imprese multinazionali. Rispetto a tale realtà, l’adozione di un criterio formale viene vista quale unico rimedio possibile. (62) Conducendo tale test a risultati non sempre precisi rispettivamente per la possibilità di formare una volontà congiunta a distanza, e per la possibile ampia diffusione territoriale dei soggetti azionisti. Favorevole ad un test basato sulla

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il collegamento economico (“economic nexus”) è più forte (63), il Discussion draft del 2003 aveva individuato un duplice possibile percorso. Il primo, di affinare il “place of effective management test”, prevedendo il seguente percorso logico da sviluppare in sede di Commentario: rilevanza del luogo di adozione delle decisioni-chiave per lo svolgimento dell’attività di impresa; individuazione di tale luogo in quello in cui si incontrano i soggetti deputati all’adozione di tali decisioni, purché queste decisioni non vengano adottate di fatto in un altro Stato; per i gruppi di imprese, rilevanza della volontà della società controllante, purché questa vada oltre quelle che costituiscono le funzioni manageriali e di politica commerciale tipicamente svolte dalla capogruppo; infine, nel caso in cui le decisioni vengano prese dai dirigenti esecutivi e il consiglio di amministrazione si limiti semplicemente ad approvarle, riferimento al luogo in cui le decisioni sono state sviluppate. Il secondo, di elaborare una tie breaker rule “a gradini”, come già avviene per le persone fisiche, tramite una combinazione – della quale l’OCSE proponeva tre varianti – dei seguenti criteri: luogo di direzione effettiva, luogo in cui le relazioni economiche sono più stringenti, luogo di svolgimento delle attività principali, luogo di svolgimento delle decisioni esecutive, luogo che ne determina la condizione giuridica (legal status), chiudendo ovviamente con la procedura amichevole. Il discussion draft introduceva, dunque, per la prima volta criteri diversi dalla direzione effettiva, dovendosi con ciò riconoscere la lungimiranza del legislatore italiano nell’utilizzo di un criterio, quello dell’oggetto principale, da sempre ignorato in altri Stati con la necessità poi emersa di ampi “correttivi” in sede giurisprudenziale. Infatti, convergevano in tale direzione da un lato il criterio del “nesso economico più stretto”, giustificato nel Discussion draft in ragione del maggiore utilizzo delle risorse economiche, legali, finanziarie ed infrastruttuali dello Stato in cui si esercita il business e richiedente – tra l’altro – l’esame di una serie di fattori come la presenza della maggior parte dei propri dipendenti ed investimenti, delle attività economiche e dei ricavi, e, dall’altro, il riferimento al “luogo di svolgimento delle attività principali”. L’unica differenza risiedeva nella circostanza che nel discussion draft veniva compreso nel “nesso economico” (economic nexus) anche un riferimento all’attività di direzione, potendo pertanto rilevare anche la presenza del quartier generale o il luogo di svolgimento delle principali attività del “senior management”, elementi invece per lo più rilevanti, nell’ambito della norma interna, nella sfera della sede dell’amministrazione.

residenza dei soggetti deputati all’assunzione delle decisioni di vertice è D. PINTO, A New Three-Tier Proposal for Determining Corporate Residence Based Principally on Individual Residence, in Bulletin for International Fiscal Documentation, 2005, p. 14 ss. (63) In quanto ritenuto più adatto in una prospettiva territoriale, anziché personale, di tassazione.

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La Proposta di modifiche al Commentario del 21 aprile 2008, infine recepita nella nuova versione del Commentario stesso del 18 luglio 2008, fa tuttavia un deciso passo indietro rispetto ai propositi iniziali. Si prende atto, infatti, della resistenza di molti Stati membri dell’OCSE ad aderire all’interpretazione del concetto di “luogo di direzione effettiva” proposta nel Discussion draft, così come della volontà di rimettere la soluzione dei casi di doppia residenza allo strumento della procedura amichevole anziché ad una tie breaker rule. Viene così mantenuto il generale riferimento al luogo in cui vengono assunte le decisioni chiave per la conduzione dell’impresa (da intendersi “nel suo complesso” – as a whole), mentre viene da un lato espunta dal par. 24 del Commentario la frase “The place of effective management will ordinarily be the place where the most senior person or group of persons (for example a board of directors) makes its decisions, the place where the actions to be taken by the entity as a whole are determined”, e dall’altro introdotta una clausola che rimette appunto alla procedura amichevole la soluzione dei casi di doppia imposizione quale alternativa alla “tie breaker rule” fondata sul “place of effective management”. A tale ultimo riguardo, si specifica in particolare che le Autorità competenti dovrebbero avere riguardo al “place of effective management, the place where it is incorporated or otherwise constituted and any other relevant factor”, precisando che in assenza di tale accordo il soggetto non avrà titolo per beneficiare delle clausole convenzionali. Tra gli elementi che gli Stati dovrebbero considerare per pervenire ad un accordo, il nuovo Commentario indica il luogo in cui si svolge il consiglio di amministrazione, il luogo in cui si svolge il “senior day–to-day management”, il luogo in cui sono situati gli “headquarters”, lo Stato della lex societatis, il luogo in cui sono tenute le scritture contabili, il rischio di abuso delle convenzioni e via dicendo (64). La soluzione accolta dall’OCSE lascia a dir poco perplessi. Essa costituisce un affastellato di criteri di natura affatto diversa, alcuni dei quali addirittura del tutto irrilevanti in chiave di collegamento “tributario” (si pensi alla lex societatis, ecc.), e comunque tali da lasciare alle Amministrazioni finanziarie degli Stati contraenti la più ampia discrezionalità al riguardo, impedendo pertanto di fatto, anche tenuto conto del normale non funzionamento già di per sé dello strumento della procedura amichevole, qualsiasi concreta possibilità di soluzione dei casi di doppia residenza. Non vi è dubbio che la definizione del luogo di direzione effettiva presenti ineliminabili margini di incertezza, che l’eccessivo ancoramento a concetti del diritto commerciale definitori dell’organizzazione giuridica del soggetto

(64) Vedi R. RUSSO, The 2008 OECD Model: An Overview, in European Taxation, 2008, p. 459 ss. Le modifiche in sede OCSE si motivano, ad avviso di E. IASCONE, La residenza fiscale delle società: il caso delle holding di partecipazioni, Riv. dir. trib., 2008, V, p. 185, con la volontà di non attribuire eccessiva rilevanza alle riunioni e alle deliberazioni dei soggetti formalmente rivestiti dei ruoli direttivi ai fini dell’individuazione del luogo della sede effettiva.

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rischi di risolversi in una incapacità a cogliere le molteplici sfaccettature “economiche” dell’attività propria delle imprese multinazionali, che la destrutturazione delle imprese “virtuali” e la non rara assenza in esse di una struttura “gerarchica” intesa in senso tradizionale mal si presti all’individuazione di un “central management” (65). Si tratta tuttavia di inconvenienti che non incidono sulla considerazione di fondo che il luogo di “direzione effettiva” esprime pur sempre il luogo in cui la creazione di valore trova la sua ideazione primordiale, di talché, se un correttivo deve essere cercato, esso va a nostro avviso individuato in funzione di esso suppletiva e non già “sostitutiva”. In tal senso, la scelta di una “tie breaker rule” fondata su un criterio gerarchico, sul modello delle persone fisiche, sarebbe stata la scelta da un lato più equilibrata sotto il profilo sostanziale, dall’altro maggiormente idonea a garantire al contribuente quel sufficiente grado di certezza sul piano procedimentale a vedersi risolto un potenziale conflitto impositivo, adesso affidato alle Amministrazioni finanziarie degli Stati contraenti, certamente poco propense a rinunziare alla localizzazione nel proprio territorio di un soggetto in relazione al quale ciascuna di esse non fa che attuare legittimi criteri di appartenenza nazionali. In tal senso, la procedura amichevole dovrebbe pertanto essere assistita da forti garanzie per il contribuente, dovendosi concludere in un termine ragionevole e sfociare in una procedura arbitrale in caso di relativo fallimento.

5 Conclusioni.

Dall’esame delle sopra evidenziate interrelazioni tra le nozioni di residenza fiscale e di stabile organizzazione, è emerso come buona parte delle problematiche che si pongono conseguano all’assunzione da parte del legislatore nazionale dell’oggetto principale quale elemento costitutivo della nozione di residenza fiscale. A tale proposito, si è detto che il criterio dell’oggetto principale, risulta per lo più sconosciuto ad altri ordinamenti; che esso è ignorato anche a livello di convenzioni internazionali, dove la “tie breaker rule” si è da sempre basata sul criterio del place of effective management; che la centralità di tale ultimo criterio è stata confermata anche in occasione del recente update, fatta salva l’infelice formulazione della procedura amichevole, che pur astrattamente idonea a comprendere nel concetto di “any relevant factor” anche il luogo di svolgimento dell’attività, è comunque irrilevante in parte qua in considerazione dell’indistinto coacervo di criteri cui essa fa riferimento; che, infine, l’osservazione formulata dall’Italia in sede di Commentario OCSE possa ritenersi “neutralizzata” da un’interpretazione orientata alla conservazione del testo convenzionale.

(65) Vedi L. HINNEKENS, Revised OECD-TAG Definition of Place of Effective Management in Treaty Tie-Breaker rule, in Intertax, 2003, p. 314 ss.

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A livello internazionale, il binomio “residenza fiscale-stabile organizzazione” presenta invero sufficienti tratti distintivi. Se volessimo adottare un paragone anatomico, la prima costituisce la “testa”, la seconda il “braccio”. La “prova del nove” è nella stessa definizione di stabile organizzazione di cui all’art. 5 del Modello OCSE (ed ONU), laddove (par. 1) essa viene riferita alla sede per mezzo della quale l’impresa svolge in tutto o in parte la sua attività. Pur potendosi certamente ipotizzare anche un’attività della stabile organizzazione svolta in Stati diversi da quello di sua localizzazione, è tuttavia da ritenere che una siffatta norma riconduca al concetto di stabile organizzazione (anche) l’ipotesi dell’esclusiva localizzazione produttiva nel territorio dello stato in cui essa è ubicata, che non sarebbe di per sé idonea ad elevare la “stabile organizzazione” al superiore gradino di “residenza fiscale”, come invece il “mero” oggetto “principale” (e non anche necessariamente esclusivo) è suscettibile di determinare in base alla normativa italiana. Tuttavia, la c.d. “general rule” di cui all’art. 5, par. 1 dei Modelli OCSE ed ONU è stata sostanzialmente recepita, in occasione della Riforma Ires di cui al d.lgs. 344/2003, nell’art. 162 del t.u.i.r., che identifica il profilo dinamico della stabile organizzazione nello svolgimento parziale o totale dell’attività del soggetto cui essa appartiene. In considerazione dell’evidente incompatibilità logica così venutasi a creare, nel sistema del t.u.i.r., tra una definizione di residenza che dà rilevanza (almeno) allo svolgimento della prevalente attività del soggetto in Italia da un lato, ed una (ad essa successiva) di stabile organizzazione che dà rilevanza allo svolgimento anche integrale dell’attività del soggetto sempre in Italia dall’altro, ci si potrebbe pertanto chiedere se tale incompatibilità non debba risolversi in termini di abrogazione tacita, peraltro proprio nella esaminata prospettiva – comparata ed internazionale – che relega la rilevanza qualificatoria del luogo di svolgimento dell’attività sul solo piano della stabile organizzazione (66).

(66) Per gli stessi motivi, la medesima incompatibilità potrebbe ipotizzarsi tra l’art. 73, co. 3 t.u.i.r. e la definizione convenzionale di stabile organizzazione, da risolvere, in base ai noti principi sul rapporto tra fonti, nel senso della prevalenza della seconda sulla prima (e, dunque, con riferimento anche ai periodi di imposta anteriori all’entrata in vigore dell’art. 162 t.u.i.r.). Si tratta di un profilo in teoria irrilevante, atteso che il riferimento esclusivo nella “tie breaker rule” al POEM sarebbe di per sé sufficiente a localizzare la residenza nello Stato in cui si trova quest’ultimo nonostante la presenza dell’oggetto principale in Italia, ma in realtà un problema potrebbe nascere dall’osservazione apposta dall’Italia in merito all’interpretazione da fornire al POEM. L’impasse da essa potenzialmente derivante dovrebbe tuttavia essere “neutralizzata” attraverso gli argomenti che si sono sopra esaminati, stante l’impossibilità, come si dirà immediatamente nel testo, di individuare una sovrapposizione tra i due concetti tale da affermare un effetto abrogativo. Resterebbe ferma, in ogni caso, la possibilità di un concreto conflitto di “qualificazione”, questo invece sì da risolvere a favore della norma convenzionale (stabile organizzazione) in danno della norma interna (residenza fiscale).

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A tale quesito pare tuttavia doversi dare risposta negativa se, come si è visto, sia possibile ipotizzare l’esistenza dell’oggetto principale in Italia anche in mancanza di stabile organizzazione, come avverrebbe nel caso in cui tutta l’attività sia svolta in un determinato stato, avvalendosi, ad esempio, di agenti indipendenti. Nel caso, invece, di mera sovrapposizione “qualificatoria”, il relativo conflitto dovrà risolversi a favore della norma successiva, privilegiando la configurazione della fattispecie in termini di stabile organizzazione anziché di residenza fiscale, con le connesse conseguenze in termini sostanziali e procedimentali.

Prof. Sebastiano Maurizio Messina Professore Università di Verona

Stabile organizzazione e consolidato fiscale *

* La relazione, non pervenuta in tempo per l’inserimento nel volume, appena disponibile verrà pubblicata sul sito www.uckmar.net

Prof. Marco Miccinesi Professore Università Cattolica di Milano

Stabile organizzazione e responsabilità*

* La relazione, non pervenuta in tempo per l’inserimento nel volume, appena

disponibile verrà pubblicata sul sito www.uckmar.net

Prof. Franco Roccatagliata (*) Professore College of Europe di Bruges

Mercato Unico UE e diritto di stabilimento della stabile organizzazione: ossimoro o pleonasmo?

“Freedom of establishment for the permanent establishment” (Libertà di stabilimento per la stabile organizzazione).

1 Premessa

Indubbiamente, l’impatto dell’espressione in lingua inglese è ben maggiore di quello in italiano. La curiosa traduzione italiana del termine permanent establishment - su cui si è già avuto modo di pronunciarsi in passato (1) - fa perdere un bel po’ d’assonanza al titolo dell’intervento. Andando oltre al gioco di parole, in questo piccolo contributo all’ennesima prestigiosa iniziativa del professor Uckmar - su di un tema che non è certo sfuggito alla sua attenta a pionieristica analisi (2) - si cercherà di mettere a fuoco l’incidenza dell’ordinamento giuridico dell’Unione europea (UE) sul concetto di ‘stabile organizzazione’ e sulla sua evoluzione e si proverà a delineare una definizione di stabile organizzazione ai fini dell’applicazione delle imposte dirette nel mercato unico dell’Unione, basandosi innanzitutto sulla legislazione ed i documenti delle istituzioni europee e lasciando ad altri interventi di questa giornata di Convegno il compito di analizzare in dettaglio l’apporto fornito a questo tema dalla numerosa giurisprudenza della Corte di giustizia dell’UE (3). In sintonia con il titolo del presente contributo, dopo aver tracciato un quadro del soggetto in ambito comunitario, si metterà a confronto il concetto di natura fiscale di ‘stabile organizzazione’ con la nozione di ‘stabilimento’ (l’elemento principale per la determinazione dell’esercizio dell’omonima libertà del Mercato interno), evidenziando gli aspetti d’interdipendenza tra i due concetti. Non mancherà qualche divagazione sul tema e rapide incursioni in altri rami del diritto, d’interesse europeo.

* Professore a contratto di Diritto tributario europeo al College of Europe di Bruges (Belgio) e membro del Tax Institute dell’ULg - Université de Liège (Belgio). Per contattare l’autore: [email protected]. 1 ROCCATAGLIATA, F. “Nozione comunitaria di stabile organizzazione: armonizzazione o coordinamento fiscale?”, in Rivista di diritto tributario internazionale, 1, 2002, p.31. 2 UCKMAR, V., “L’evoluzione, con particolare riguardo all’ordinamento italiano, del concetto di «stabile organizzazione» delle imprese operanti nell’ambito di più Stati”, in L’ordinamento tributario e la politica di stabilizzazione. L’evoluzione del concetto di stabile organizzazione, 1967, 129. 3 Cfr., tra gli altri, gli interventi di Amatucci, Carinci, Corasaniti, Melis, ecc. raccolti in questo volume.

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Infine, restando in tema di libertà fondamentali (4) del Mercato interno contenute nel Trattato sul Funzionamento dell’UE (TFUE), si concluderà l’intervento con alcune riflessioni personali sull’equivalenza - vera o presunta, dal punto di vista del contribuente - dell’applicazione del ‘diritto di stabilimento’ e della ‘libera prestazione di servizi’ nel campo tributario, sul ruolo-chiave che i concetti di ‘stabile organizzazione’ e/o ‘stabilimento’ giocano in questo contesto e sulle possibili vie per giungere ad una nozione condivisa nel mercato unico.

2 Il concetto di ‘stabile organizzazione’ ai sensi della legislazione UE

Nelle relazioni precedenti di questo Convegno è stato ampiamente analizzato che cosa debba intendersi per ‘stabile organizzazione’ nelle legislazioni fiscali nazionali che disciplinano la tassazione del reddito transnazionale e quale sia la portata di questa costruzione giuridica nel diritto tributario internazionale, in particolare, nel cosiddetto diritto convenzionale. È stato, dunque, chiarito il ruolo della stabile organizzazione come centro d’imputazione di situazioni giuridiche e punto di riferimento cruciale per la localizzazione del reddito e la conseguente applicazione dell’imposta nei rapporti transfrontalieri. A questo proposito, è stata giustamente ricordata la centralità degli articoli 5 e 7 del Modello di convenzione fiscale dell’OCSE e dell’annesso Commentario. Come tutti i principi di fiscalità internazionale che trovano la loro consacrazione nel Modello OCSE, s’è visto che anche la figura della stabile organizzazione non risponde in modo diretto ad un’esigenza dei cittadini (intesi come contribuenti) ma svolge principalmente la funzione di strumento idoneo a determinare un’equa ripartizione della sovranità impositiva tra gli Stati; una funzione che, tra l’altro, gli è stata legittimamente riconosciuta dalla stessa Corte di giustizia dell’UE (5). In sostanza, le disposizioni che gli Stati negoziano nelle convenzioni fiscali - che sono strumenti (trattati bilaterali) di diritto pubblico internazionale - ripartendo la sovranità impositiva tra gli Stati in modo concordato, consentono ai cittadini di

4 Articolo 26, comma 2, del TFUE: Il mercato interno comporta uno spazio senza frontiere interne, nel quale è assicurata la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali secondo le disposizioni dei trattati. 5 Corte di giustizia, sentenza del 15 maggio 2008, causa C-414/06 (Lidl Belgium GmbH), punti 21-22 e il commento di BERGERÈS, M.-C. “Déduction des pertes des établissements stables et droit communautaire” in Revue de Droit Fiscal, 39, 2008, p.36 (512); da ultimo, sentenza del 4 luglio 2013, causa C-350/11 (Argenta Spaarbank NV contro Belgische Staat), punti 12 e ssg., pur con i limiti indicati al punto 58. Si veda, altresì, la sentenza della Corte di giustizia del 6 settembre 2012, causa C-18/11 (The Commissioners for H.M.’s Revenue & Customs contro Philips Electronics UK Ltd), punti 26 e ssg.

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beneficiare di una sostanziale riduzione dei casi di doppia imposizione, aumentando pertanto la sicurezza (giuridica) delle operazioni transfrontaliere. Dal punto di vista giuridico i soggetti delle convenzioni fiscali restano comunque, in prima istanza, gli Stati contraenti, e i contribuenti beneficiano soltanto in modo indiretto dei vantaggi convenzionali (6). Nel diritto dell’Unione europea lo scenario cambia radicalmente. Occorre subito chiarire un suo elemento distintivo rispetto al diritto internazionale: la sua efficacia per i cittadini dell’Unione (7). La libertà di operare in più paesi dell’UE attraverso uno stabilimento secondario è sancita dall’articolo 49 del TFUE (8) ed è un diritto che può essere direttamente invocato da tutti i cittadini e da tutte le imprese dell’Unione europea e che non può subire limitazioni, men che mai di natura fiscale (salvo in casi estremamente circoscritti). Questo a livello di grandi principi. Se però si guarda la legislazione secondaria dell’UE, gli ambiti applicativi del diritto tributario sono molto più limitati di quanto si possa comunemente pensare. Il TFUE prevede espressamente (all’articolo 113) la possibilità di armonizzare la legislazione fiscale in materia di IVA e altre imposte indirette. Ciò, agli occhi del legislatore costituente, sembrava indispensabile per favorire la ‘libera circolazione delle merci’ - la libertà fondamentale che, in quegli anni, era al centro dei suoi pensieri - ma per quanto riguarda la fiscalità diretta (che, al momento della creazione delle disposizioni costituzionali europee non sembrava particolarmente interferire con la predetta libertà) mancano nel

6 I contribuenti determinano le loro scelte economiche anche in base al costo fiscale delle operazioni transnazionali e, poiché l’impatto delle disposizioni contenute nelle convenzioni bilaterali su tali operazioni è spesso decisivo, hanno tutto il diritto di vederle applicate in modo corretto e univoco, anche quando - come nel caso delle disposizioni sulle stabili organizzazioni - tali norme possono presentare obiettive difficoltà interpretative. Senza voler fare, in questa sede, l’analisi della natura di tale diritto, è difficile negare che attualmente esista un problema di come tutelarlo in modo efficace. Che gli Stati contraenti siano, di fatto, i veri (soli?) soggetti giuridici delle convenzioni contro le doppie imposizioni pare proprio evidente, ad esempio, constatando la scarsa efficacia della cd. procedura amichevole. 7 Generalmente, un’efficacia diretta, come si vedrà meglio al punto 4 di questo contributo. 8 Articolo 49 del TFUE: Nel quadro delle disposizioni che seguono, le restrizioni alla libertà di stabilimento dei cittadini di uno Stato membro nel territorio di un altro Stato membro vengono vietate. Tale divieto si estende altresì alle restrizioni relative all’apertura di agenzie, succursali o filiali, da parte dei cittadini di uno Stato membro stabiliti sul territorio di un altro Stato membro. La libertà di stabilimento importa l’accesso alle attività autonome e al loro esercizio, nonché la costituzione e la gestione di imprese e in particolare di società ai sensi dell'articolo 54, secondo comma, alle condizioni definite dalla legislazione del paese di stabilimento nei confronti dei propri cittadini, fatte salve le disposizioni del capo relativo ai capitali.

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Trattato disposizioni ad hoc. Se qualche misura fiscale è stata comunque adottata, lo si deve soprattutto ad un utilizzo ‘mirato’ dell’articolo 115 del TFUE (o per meglio dire, del suo predecessore, l’articolo 94 del TCE, relativo all’istituzione ed al buon funzionamento del mercato interno) quale base giuridica. Insomma, è ancora, in via principale, il diritto internazionale - e in particolare il diritto tributario convenzionale - che regola la maggior parte dei rapporti fiscali tra le imprese degli Stati membri. Pertanto le problematiche relative al concetto di ‘stabile organizzazione’, già esaminate in tale ambito, trovano identico riscontro anche nel quadro interpretativo del diritto dell’Unione europea. Tuttavia, è chiaro che le disposizioni dei trattati bilaterali tra Stati membri non devono essere contrarie (o interpretate in modo contrario) ai principi fondamentali del TFUE, in particolare per quanto riguarda concetti basilari come il ‘diritto di stabilimento’, la ‘libera prestazione di servizi’ o la ‘non discriminazione’. Alla Corte di Giustizia dell’Unione europea il compito di valutare il rispetto di tali principi. Ed essa - come si è ampiamente visto in questo Convegno - non ha mancato di farlo anche in materia di tassazione delle stabili organizzazioni (9). Passando ora al primo punto del nostro intervento, occorre innanzitutto porsi una domanda: esiste una ‘nozione comunitaria di stabile organizzazione’? E, in caso di risposta affermativa, come si configura? Possiamo ricavarla dal diritto dell’UE - primario o derivato - senza necessariamente ricorrere all’interpretazione offerta dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia? Fino a pochi anni fa la legislazione UE in materia fiscale utilizzava il termine ‘stabile organizzazione’ a più riprese, ma ometteva regolarmente di darne un’esplicita definizione. Col senno di poi, non saremmo così certi che si trattava di una mera dimenticanza.

Per meglio comprendere l’esegesi legislativa comunitaria in materia, occorre risalire indietro nel tempo. Andando a rivedere le vecchie proposte di direttiva non approvate dal Consiglio si ricava un primo progetto di

9 Proprio uno dei primi casi ‘storici’ in cui la Corte di giustizia è stata chiamata a pronunciarsi sulla compatibilità di una legislazione fiscale nazionale con il diritto dell’UE è legato alla tassazione delle stabili organizzazioni: v. sentenza della Corte di giustizia del 28 gennaio 1986 nella causa 270/83 (Commissione europea contro Francia ‘avoir fiscal’); si veda altresì, sempre agli albori della giurisprudenza della Corte in materia di fiscalità diretta, le famose sentenze nelle cause C-330/91 (Commerzbank) e C-307/97 (Compagnie de Saint-Gobain ZN contro Finanzamt Aachen-Innenstadt). Si tratta comunque di casi in cui non era in discussione la natura ‘stabile’ dell’insediamento, ma soltanto il trattamento fiscale (a giudizio della Corte, contrario ai principi del Trattato) operato dallo Stato membro d’accoglienza verso una sede permanente (270/83), una succursale (C-330/91) o un centro di attività stabile (C-307/97), per utilizzare alcune delle numerose varianti utilizzate nella versione italiana delle sentenze sopra indicate.

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definizione. La proposta di direttiva sulle fusioni internazionali del 1969 (10), infatti, ne contiene una in gran parte mutuata dal Modello OCSE vigente all’epoca della proposta (la versione 1963): per ‘stabile organizzazione’ si deve intendere lo stabilimento permanente, cioè l’impianto fisso ove si svolge, in tutto o in parte, l’attività d’una società (cd. stabile organizzazione ‘materiale’) o dell’agente che abbia il potere di concludere contratti per conto della società che rappresenta, sempre che tale potere venga da lui esercitato abitualmente (cd. stabile organizzazione ‘personale’). Anche la proposta di direttiva del Consiglio del 1991 (11), relativa al riconoscimento delle perdite delle stabili organizzazioni - poi ritirata dalla Commissione - non brillava per originalità: la nozione di stabile organizzazione in essa contenuta (articolo 2) ricalcava infatti anch’essa quella del Modello OCSE (questa volta la versione 1977): rientra nella nozione di stabile organizzazione qualsiasi stabilimento permanente di affari tramite il quale un’impresa di uno Stato membro eserciti in tutto o in parte la sua attività. Passiamo ora dai progetti legislativi allo iure condito e, anche se non è l’oggetto principale di questo intervento, cominciamo, per una mera questione temporale, con la fiscalità indiretta. Per quanto riguarda il diritto tributario effettivo dell’UE, con la cd. sesta direttiva IVA (12) troviamo infatti il concetto di stabile organizzazione utilizzato per la prima volta in un’importante strumento armonizzativo: si veda in particolare, l’articolo 9 della predetta direttiva, oggi trasposto nell’articolo 44 (e seguenti) della direttiva 2006/112/CE (13), la disposizione

10 Commissione delle Comunità europee, Proposta di direttiva riguardante il regime fiscale comune da applicarsi alle fusioni, alle scissioni e ai conferimenti d’attivo che hanno luogo per società di Stati membri diversi; COM(69)5 del 16 gennaio 1969. 11 Commissione delle Comunità europee, Proposta di direttiva del Consiglio relativa alla contabilizzazione, da parte delle imprese, delle perdite subite dalle stabili organizzazioni e dalle affiliate situate in altri Stati membri, COM(90)595 del 20 gennaio 1991. 12 Sesta direttiva 77/388/CEE del Consiglio, del 17 maggio 1977, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati Membri relative alle imposte sulla cifra di affari - Sistema comune di imposta sul valore aggiunto: base imponibile uniforme, G.U.C.E. L145 del 13 giugno 1977 p.1. 13 Direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, G.U.C.E. L347 dell’11.12.2006, p.1. L’articolo 44 recita: Il luogo delle prestazioni di servizi resi a un soggetto passivo che agisce in quanto tale è il luogo in cui questi ha fissato la sede della propria attività economica. Tuttavia, se i servizi sono prestati ad una stabile organizzazione del soggetto passivo situata in un luogo diverso da quello in cui esso ha fissato la sede della propria attività economica, il luogo delle prestazioni di tali servizi è il luogo in cui è situata la stabile organizzazione. In mancanza di tale sede o stabile organizzazione, il luogo delle prestazioni di servizi è il luogo del domicilio o della residenza abituale del soggetto passivo destinatario dei servizi in questione.

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normativa principale per la determinazione del luogo d’imposizione delle prestazioni di servizi. Ai fini del dibattito odierno, meritano di essere sottolineate certe modifiche formali intervenute in alcune versioni linguistiche nel ‘passaggio di consegne’ tra la direttiva 77/388/CEE e lo strumento giuridico che ha preso il suo posto, la direttiva 2006/112/CE, entrambe preposte a disciplinare il sistema comune dell’IVA. Il centro di attività stabile dell’articolo 9 della direttiva del 1977 è divenuto stabile organizzazione nel testo italiano della direttiva del 2006. Parallelamente, nella versione inglese si è passati dal fixed establishment al permanent establishment. Invariata, invece, la terminologia della versione francese: établissement stable era nel 1977 e tale è rimasta nella direttiva del 2006. In sostanza, nella vigente versione (2006), ci si è allineati - almeno nelle tre lingue esaminate - alla terminologia normalmente utilizzata in materia di fiscalità diretta nelle convenzioni bilaterali ispirate al Modello OCSE (14). Tuttavia, anche nella direttiva 2006/112/CE - come d’altronde nella 77/388/CEE - mancava un’esplicita definizione legislativa del concetto. Se fino a poco tempo fa il vuoto giuridico interpretativo era colmato dall’ampia giurisprudenza della Corte di giustizia in materia (15), attualmente, il regolamento applicativo 282/2011 (16) vi ha posto rimedio in modo organico, consolidando l’interpretazione della Corte in un atto legislativo. Per l’articolo

14 Il legislatore italiano, al momento della trasposizione della sesta direttiva IVA nella normativa nazionale aveva già provveduto a trasformare (linguisticamente) il centro di attività stabile in stabile organizzazione. V. l’articolo 7, comma 3 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, considerando, evidentemente, i due termini come equivalenti. Per una visione critica di tale scelta, PISTONE, P., “Centro di attività stabile e stabile organizzazione: l’IVA richiede un’evoluzione per il XXI secolo?”, in Rivista di diritto tributario, 1, 1999, p.12. 15 Corte di giustizia, sentenza del 4 luglio 1985, causa C-168/84 (Gunter Berkholz contro Finanzamt Hamburg-Mitte-Altstadt). Al punto 18 la Corte precisa … il riferimento di una prestazione di servizi ad un centro di attività diverso dalla sede viene preso in considerazione solo se tale centro d’attività abbia una consistenza minima, data la presenza permanente dei mezzi umani e tecnici necessari per determinate prestazioni di servizi. Con la sentenza del 17 luglio 1997, causa C-190/95 (ARO Lease BV contro Inspecteur van de Belastingdienst Amsterdam) la Corte delinea ulteriormente la sua interpretazione dell’articolo 9 della sesta Direttiva: … affinché un centro d’attività possa essere utilmente preso in considerazione … è necessario che esso presenti un grado sufficiente di permanenza e una struttura idonea, sul piano del corredo umano e tecnico, a rendere possibili in modo autonomo le prestazioni di servizi considerate … (punto 16); v. altresì la sentenza della Corte del 20 febbraio 1997 (Commissioners of Customs and Excise contro DFDS A/S), punto 20. 16 Regolamento di esecuzione (UE) n. 282/2011 del Consiglio, del 15 marzo 2011, recante disposizioni di applicazione della direttiva 2006/112/CE relativa al sistema comune di imposta sul valore aggiunto, G.U.U.E., L77 del 23.3.2011, p.1.

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11, comma 1, del predetto regolamento … la «stabile organizzazione» designa qualsiasi organizzazione, diversa dalla sede dell’attività economica … caratterizzata da un grado sufficiente di permanenza e una struttura idonea in termini di mezzi umani e tecnici atti a consentirle di ricevere e di utilizzare i servizi che le sono forniti per le esigenze proprie di detta organizzazione (o di fornire i servizi di cui assicura la prestazione, articolo 11, comma 2). In materia di fiscalità diretta, sia per le ragioni storiche cui si è già fatto sopra riferimento, sia, soprattutto, per le grandi difficoltà incontrate nel raccogliere l’indispensabile consenso unanime degli Stati membri (oggi ben 28), la legislazione secondaria dell’Unione non si è potuta sviluppare in modo conseguente alle numerose proposte legislative presentate dalla Commissione europea. Il travagliato ‘pacchetto’ approvato all’inizio degli anni ’90 (le direttive ‘madre-figlia’ e ‘fusioni’ e la cd. ‘convenzione arbitrale’, le cui proposte originali risalivano a vent’anni prima) è stato in seguito integrato da ben pochi altri strumenti legislativi (principalmente le direttive ‘interessi e royalties’ e ‘risparmio’). La direttiva 90/434 (17), che regolamentava gli aspetti fiscali delle fusioni transnazionali, agli articoli 5 e 10, utilizza l’espressione stabile organizzazione senza tuttavia illustrarne i contenuti. La direttiva 2009/133/CE (18), che l’ha sostituita, codificando i diversi interventi legislativi e giurisprudenziali che si erano succeduti nel tempo, non ha ritenuto di integrarla per questo specifico aspetto, nonostante la centralità del concetto di stabile organizzazione in questo genere di riorganizzazioni d’impresa (19). La direttiva 90/435 (20) in materia di regime fiscale delle società collegate (cd. ‘madre-figlia’), inizialmente non contemplava le stabili organizzazioni.

17 Direttiva 90/434/CEE del Consiglio, del 23 luglio 1990, relativa al regime fiscale comune da applicare alle fusioni, alle scissioni, ai conferimenti d’attivo ed agli scambi d’azioni concernenti società di Stati membri diversi; G.U.C.E. L225 del 20.8.1990, p.1. 18 Direttiva 2009/133/CE del Consiglio, del 19 ottobre 2009, relativa al regime fiscale comune da applicare alle fusioni, alle scissioni, alle scissioni parziali, ai conferimenti d’attivo ed agli scambi d’azioni concernenti società di Stati membri diversi e al trasferimento della sede sociale di una SE e di una SCE tra Stati membri.; G.U.U.E. L310 del 25.11.2009, p.34. 19 La direttiva, all’articolo 2, offre una definizione di quasi tutti i termini ‘tecnici’ utilizzati, da «società conferente» a «ramo d’attività», ma sulla nozione di stabile organizzazione curiosamente glissa, nonostante poco tempo prima, aggiornando la direttiva madre-figlia, il legislatore comunitario si fosse comportato in modo diverso (v. paragrafi seguenti). 20 Direttiva 90/435/CEE del Consiglio, del 23 luglio 1990 concernente il regime fiscale comune applicabile alle società madri e figlie di Stati membri diversi; G.U.C.E. L225 del 20.8.1990, p.6.

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Soltanto con le modifiche apportate dalla direttiva 2003/123/CE (21), che ne ha allargato il campo d’applicazione (22), ne è stata introdotta una definizione (articolo 2, comma 2). Tale definizione è stata poi confermata nella rifusione della ‘madre-figlia’ operata dalla vigente direttiva 2011/96/UE (23), che, all’articolo 2, punto b), precisa che ai fini dell’applicazione della direttiva per “stabile organizzazione” debba intendersi … una sede fissa di affari situata in uno Stato membro, attraverso la quale una società di un altro Stato membro esercita in tutto o in parte la sua attività, per quanto gli utili di quella sede di affari siano soggetti a imposta nello Stato membro nel quale essa è situata ai sensi del pertinente trattato fiscale bilaterale o, in assenza di un siffatto trattato, ai sensi del diritto interno. Infine, una definizione di stabile organizzazione sostanzialmente simile a quella vista per la direttiva ‘madre-figlia’ si trova anche nella direttiva 2003/49/CE (‘interessi e royalties’): Ai fini della presente direttiva si intendono per … c) «stabile organizzazione»: una sede fissa di affari situata in uno Stato membro, attraverso la quale una società di un altro Stato membro esercita in tutto o in parte la sua attività (24). Sulla base dei testi legislativi sopra descritti possiamo affermare che esiste un concetto unitario di stabile organizzazione in ambito UE? In tutta franchezza sembrerebbe legittimo avanzare qualche dubbio. Certamente, in modo pragmatico, è opportuno non dare troppa importanza al nomen juris utilizzato (soprattutto quando - come sempre avviene nel diritto dell’UE - questo è il frutto di traduzioni da altre lingue). Di conseguenza, le espressioni ‘stabile organizzazione’, ‘centro stabile d’attività’, ‘sede fissa d’affari’ o ‘insediamento permanente’, in ambito UE - come d’altronde anche in ambito internazionale - non indicano necessariamente concetti diversi. A questo proposito, l’esempio dell’articolo 38 della direttiva 2006/112/CE è senz’altro significativo: in tale contesto normativo il legislatore comunitario utilizza i termini stabile organizzazione e centro di attività stabile in modo

21 Direttiva 2003/123/CE del Consiglio, del 22 dicembre 2003, che modifica la direttiva 90/435/CEE concernente il regime fiscale comune applicabile alle società madri e figlie di Stati membri diversi; G.U.C.E. L7 del 13.1.2004, p.41. 22 Si veda in particolare l’ottavo ‘considerando’ della suddetta direttiva: il pagamento delle distribuzioni di utili a, e il ricevimento degli stessi da una stabile organizzazione della società madre dovrebbe dar luogo al medesimo trattamento applicabile tra una società figlia e la sua società madre. Dovrebbe essere contemplato il caso in cui una società madre e la propria società figlia sono nel medesimo Stato membro e la stabile organizzazione è in un altro Stato membro. 23 Direttiva 2011/96/UE del Consiglio, del 30 novembre 2011, concernente il regime fiscale comune applicabile alle società madri e figlie di Stati membri diversi (rifusione); G.U.U.E. L345 del 29.12.2011, p.8. 24 Articolo 3, punto c) della direttiva 2003/49/CE del Consiglio, del 3 giugno 2003, concernente il regime fiscale comune applicabile ai pagamenti di interessi e di canoni fra società consociate di Stati membri diversi, G.U.C.E. L157 del 26.6.2003, p. 49.

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indistinto e - a parere di chi scrive - lo fa proprio per eliminare ogni dubbio sulla loro l’equivalenza (25). Ma se è vero che espressioni diverse possono riferirsi a un medesimo concetto giuridico, è vero anche il contrario: la stessa espressione (‘stabile organizzazione’) se utilizzata in ambiti diversi, può avere contenuti distinti. In tale evenienza, sarà il contesto giuridico in cui si trova utilizzata che aiuterà a chiarire, caso per caso, quale contenuto effettivamente attribuirgli. Non a caso il legislatore comunitario si è premunito in questo senso e - sia nella direttiva 2003/49, sia nella 2003/123 - ha ritenuto opportuno indicare che la sua definizione di stabile organizzazione trova un limite naturale nei fini dell’applicazione della direttiva in questione. In conclusione, anche se, al momento, una (anzi, più d’una) definizione del concetto all’esame di questo convegno si riscontra nella legislazione europea, resta tuttavia difficile poterla trasporre tout court all’insieme della legislazione comunitaria esistente. Si pensi, per esempio, agli aspetti strutturali … umani e tecnici cui fa riferimento il regolamento applicativo 282/2011 sopra citato, relativo all’IVA, e ai problemi che potrebbero insorgere qualora lo si volesse applicare in materia di fiscalità diretta (per esempio, per certi aspetti legati all’imposizione del commercio elettronico). D’altronde è difficile immaginare che un concetto che non trova una sua uniforme definizione nell’ambito delle legislazioni fiscali nazionali (e che anzi, in qualche caso, non trova affatto una definizione legislativa) la ottenga facilmente in sede d’Unione, ove per vedere approvato un provvedimento in questa materia occorre l’accordo unanime di tutti gli Stati membri. Ovviamente, il fatto che sia difficile accordarsi su un concetto talmente importante come quello di ‘stabile organizzazione’, non vuole dire che non sia utile (anzi, necessario) farlo, almeno in un ambito territoriale limitato come l’Unione europea ed in un contesto giuridicamente omogeneo come la fiscalità diretta, per le ragioni che si tenteranno di illustrare nei successivi punti di questo intervento.

3 Mercato interno, esercizio del diritto di stabilimento e stabile organizzazione

Conformemente alle regole del diritto tributario internazionale, anche all’interno dell’Unione, quando un’impresa esercita un’attività economica in uno Stato membro diverso da quello della sua sede - o, per meglio dire, della

25 In caso di cessione di gas mediante il sistema di distribuzione del gas naturale, o di energia elettrica ad un soggetto passivo-rivenditore, il luogo della cessione si considera situato nel luogo in cui il soggetto passivo-rivenditore ha fissato la sede della propria attività economica o dispone di una stabile organizzazione per la quale i beni vengono erogati, ovvero, in mancanza di tale sede o centro di attività stabile, il luogo del suo domicilio o della sua residenza abituale (Direttiva 2006/112/CE, articolo 38, comma 1). (grassetto aggiunto dall’autore).

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sua sede sociale, amministrazione centrale o centro di attività principale (26) nell’Unione - lo Stato membro ove tale attività è esercitata ha il diritto di tassarne gli utili che ne derivano. Tuttavia, su base unilaterale (attraverso le norme interne che regolamentano la fiscalità transfrontaliera) o su base di reciprocità (attraverso le convenzioni fiscali contro le doppie imposizioni), normalmente, gli Stati tracciano un limite importante alla loro sovranità impositiva sugli utili prodotti sul proprio territorio: se l’attività economica dell’impresa estera non è esercitata attraverso una ‘stabile organizzazione’ gli utili così prodotti saranno sottoposti ad imposizione esclusivamente dallo Stato membro ove l’impresa ha la sua sede e residenza fiscale ordinaria. Pertanto, al fine di determinare quale Stato membro abbia il diritto di tassare gli utili di un’impresa che esercita un’attività transfrontaliera, la nozione di ‘stabile organizzazione’ è fondamentale nell’UE tanto quanto nel resto del mondo. Proprio per questa sua funzione di ‘punto d’equilibrio’ tra due sovranità, entrambe interessate all’imposizione di uno stesso soggetto giuridico e dello stesso elemento del reddito, il concetto di ‘stabile organizzazione’ nell’UE è influenzato dall’evoluzione legislativa sviluppatasi nel quadro dell’articolo 115 del TFUE per assicurare il buon funzionamento del Mercato interno (27), ma al tempo stesso, in quanto concetto (autonomo e storicamente ben delineato) del diritto internazionale tributario, quest’ultimo ramo del diritto può ambire, a sua volta, a condizionarne l’interpretazione anche all’interno delle frontiere comunitarie, perfino nell’applicazione del diritto secondario dell’Unione, specialmente quando questo si ispira in maniera esplicita agli strumenti del diritto internazionale tributario (28). Nonostante questi fenomeni osmotici tra il diritto tributario internazionale e il diritto dell’UE è opportuno segnalarne ancora una volta gli importanti tratti distintivi. Innanzi tutto i contorni della nozione di ‘stabilimento’ determinata ai fini dell’applicazione dell’omonima libertà, possono non coincidere con quelli della ‘stabile organizzazione’, come si vedrà più in dettaglio nel punto seguente. Inoltre, il diritto dell’UE, grazie soprattutto agli innumerevoli interventi interpretativi della Corte di giustizia, può contare su un principio di ‘non discriminazione’ dalla portata ben più ampia di quella prevista dal diritto tributario internazionale (29) e di questa evoluzione giurisprudenziale

26 Articolo 54 del TFEU. 27 Evoluzione legislativa descritta nel precedente punto di questo intervento. Si veda la chiara visione in proposito formulata ante litteram da GARCÍA PRATS, A., El establecimiento permanente, 1996, 439. 28 Nelle conclusioni di questo intervento si tenterà di indicare come tale influenza potrebbe addirittura essere rovesciata. 29 Essendo entità non-residenti per definizione, le ‘stabili organizzazioni’ non sono mai in the same circumstances, in particular with respect to residence ai sensi del primo comma del Modello OCSE; tuttavia, il terzo comma, specificamente rivolto alle ‘stabili organizzazioni’ attenua notevolmente questa prima esclusione, ma pone a sua

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hanno indubbiamente beneficiato le stabili organizzazioni insediate nell’UE. Va però precisato che il percorso verso la totale uguaglianza di trattamento richiesta dalla ‘libertà di stabilimento’ è ancora, in parte, da percorrere e deve inoltre conciliarsi con altri principi ugualmente riconosciuti come degni di attenzione da parte del diritto dell’UE (30). A questo proposito, la Commissione europea ha costantemente rilevato che certe ineguaglianze di trattamento nelle attività transfrontaliere sono particolarmente evidenti proprio nel caso delle stabili organizzazioni (31). Il fatto che la semplice esistenza di una frontiera politica fra la stabile organizzazione e la sua sede principale abbia come conseguenza - almeno in certi Stati membri - l’indeducibilità (dagli utili della sede centrale) delle sue eventuali perdite, crea un ostacolo intollerabile al funzionamento del Mercato interno. Il fatto, poi, che molti Stati (ognuno a suo modo) vi abbiano, almeno in parte, posto rimedio non rende il problema meno gravoso, anzi, in qualche modo ne mette ancor più in evidenza le incongruenze, contribuendo all’ennesima frammentazione di quello che dovrebbe essere un ‘mercato unico’. Se, infatti, le perdite delle stabili organizzazioni non possono essere compensate con gli utili della sede, si può configurare una disparità di trattamento rispetto ad un’equivalente situazione puramente interna e, in volta nuovi limiti. Il Commentario dell’articolo 24 del Modello OCSE chiarisce esplicitamente che l’eliminazione delle discriminazioni fiscali per opera delle convenzioni fiscali si limita a situazioni specifiche ben individuate. Per il primo paragrafo del predetto Commentario (così come modificato nella versione del 2010) le disposizioni dell’articolo 24 hanno per obiettivo la ricerca di un giusto equilibrio tra la necessità di impedire una discriminazione ingiustificata e quella di riconoscere le distinzioni legittime, for that reason, the Article should not be unduly extended to cover so-called “indirect” discrimination. Anche se mancano riferimenti espliciti, l’ombra lunga della giurisprudenza della Corte di giustizia (da Sotgiu in avanti, soffermandosi in particolare su Saint-Gobain) si staglia alle spalle di questa frase del Commentario OCSE. Per una diversa e approfondita disamina dell’applicazione del principio (EU) di non-discriminazione alle ‘stabili organizzazioni’ cfr. CISTERNINO, C. “The Impact of Freedom of Establishment on the Taxation of Permanent Establishments”, in Diritto e Pratica Tributaria Internazionale, 2005, p.905. 30 Si pensi alla ‘coerenza dei sistemi fiscali’ riconosciuta, ad esempio, come una legittima giustificazione al trattamento apparentemente discriminatorio delle stabili organizzazioni in materia di riconoscimento delle perdite transfrontaliere; v. Corte di giustizia, sentenza del 23 ottobre 2008, causa C-157/07 (Krankenheim Ruhesitz am Wannsee), punti 43-46. 31 Commissione delle Comunità europee, Orientamenti relativi all’imposizione fiscale delle imprese, SEC(90)601 del 18.5.1990; Comunicazione a seguito delle conclusioni del Comitato Ruding del 27 luglio 1992, SEC(92)1118; La politica tributaria nell’Unione europea, Documento di discussione per la riunione informale dei Ministri Ecofin del 20 marzo 1996, SEC(96)487. Commissione europea, Verso un mercato interno senza ostacoli fiscali, COM(2001)582 del 23.10.2001; Trattamento fiscale delle perdite in situazioni transfrontaliere, COM(2006)824 del 19.12.2006; Doppia imposizione nel mercato unico, COM(2011)712 dell’11.11.2011.

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sostanza, un ostacolo per un’impresa nell’esercizio della libertà di stabilimento, dissuadendola dall’impiantare una stabile organizzazione in un altro Stato membro (32). Sul piano comunitario si è cercato di porvi rimedio a più riprese. Dapprima, per esempio, introducendo nel 1989 il cd. ‘metodo della reintegrazione’ nella proposta di Statuto della cd. societas europaea e, in seguito, cercando di estendere questa soluzione a tutte le imprese (indipendentemente dalla loro forma giuridica) che esercitavano attività transfrontaliere tramite stabili organizzazioni, con la proposta di direttiva del 1991 (33). Si trattava tuttavia di disposizioni ‘armonizzative’ dei regimi fiscali degli Stati membri che la Commissione tentava di lanciare sulla scia del successo ottenuto con l’approvazione delle direttive ‘madre-figlia’ e ‘fusioni’ e forte del sostegno ottenuto dal Comitato Ruding, che tra le sue Raccomandazioni includeva esplicitamente l’adozione rapida del progetto di direttiva relativo alla contabilizzazione delle perdite delle stabili organizzazioni. Ma come è stato spesso ripetuto da qualche attento osservatore della scena europea, a voler armonizzare le legislazioni fiscali degli Stati membri si rischia di fare la fine del sarto che pretende di adattare un unico vestito a persone di taglia diversa. Difficilmente accontenterà tutti i suoi clienti (34). D’altronde, che esistessero importanti differenze (si potrebbe dire, ‘filosofiche’) nelle strutture dei sistemi fiscali di tassazione delle imprese degli Stati membri - sia nelle aliquote nominali, sia nelle modalità di determinazione della base imponibile - lo ammetteva già lo stesso Comitato Ruding, addirittura nelle premesse del suo Rapporto. Il caso della societas europaea, è altresì emblematico dei limiti incontrati dall’azione dell’Unione nella sua spinta armonizzativa. Senza entrare nei dettagli di una proposta che ha visto la luce dopo ben quarant’anni di gestazione, ai fini che qui più ci interessano è sufficiente ricordare che uno dei nodi cruciali (anche se non il solo) che hanno a lungo ostacolato la sua

32 La Commissione incoraggia vivamente quegli Stati membri che non autorizzano la contabilizzazione delle perdite subite dalle sedi stabili in un altro Stato membro a rivedere la loro legislazione fiscale in modo da promuovere la libertà di stabilimento sancita dal trattato (COM(2006)824, cit., punto 4). In effetti, una simile disparità di trattamento può costituire un ostacolo alla libertà di stabilimento e come tale è vietata dall’articolo 49 del TFUE; v. Corte di giustizia, sentenza del 14 dicembre 2000 nella causa C-141/99 (A.M.I.D.). Per un commento ragionato della giurisprudenza della Corte di giustizia in materia, si rinvia a DOUMA, S. Optimization of Tax Sovereignty and Free Movement, 2011, IBFD, Part III, Chap.8. 33 Proposta di direttiva del Consiglio relativa alla contabilizzazione, da parte di imprese, delle perdite subite dalle stabili organizzazioni e dalle affiliate situate in altri Stati membri, COM(90)595 del 24 gennaio 1991. 34 Rendiamo implicitamente omaggio a Patrick Dibout - un vero maestro del diritto europeo che ci ha recentemente lasciati - prendendo a prestito questo paragone che era solito usare nei suoi interventi.

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approvazione è stato proprio il suo regime fiscale. I cambi di strategia operati dalla Commissione per arrivare a un risultato positivo sono significativi delle difficoltà incontrate. Si è cominciato con lo stralciare dalla proposta originaria il trattamento fiscale delle perdite delle stabili organizzazioni della societas europaea (così come le altre misure fiscali in essa contenute) con il duplice obiettivo di agevolare una rapida adozione del suo Statuto e, nel contempo, fare della detrazione delle perdite della stabile organizzazione (con successiva tassazione dei suoi utili attraverso il reintegro nei risultati della casa-madre) uno strumento di cui avrebbero potuto beneficiare tutte le imprese europee. Nonostante le buone intenzioni, ci sono voluti ben altri dieci anni per approvare il predetto Statuto (35), mentre la successiva proposta sulle perdite delle stabili organizzazioni - come detto - non si è mai trasformata in una direttiva.

4 La ‘stabile organizzazione’: tra diritto di stabili mento e libera prestazione dei servizi

Nell’Unione europea, il processo d’individuazione dello Stato membro - diverso da quello della sua sede principale - in cui una persona giuridica si è ‘installata in modo permanente’, non risponde soltanto all’esigenza di determinare la ripartizione del potere impositivo tra gli Stati membri (come nel diritto convenzionale) ma va ben oltre, permettendo altresì una corretta applicazione delle libertà fondamentali riconosciute dal diritto dell’UE ai cittadini ed alle imprese comunitarie. Il Mercato interno offre alle imprese dell’Unione, senza alcuna restrizione e indifferentemente, la possibilità di creare una filiale o una succursale in uno Stato membro diverso da quello della sua sede principale (la libertà di stabilimento prevista dall’articolo 49 TFUE) o di esercitare la sua attività in uno Stato membro utilizzando come punto di partenza uno stabilimento situato in un altro Stato membro (la libera prestazione dei servizi di cui all’articolo 56 e seguenti del TFUE) (36). Le due libertà hanno un’applicabilità diretta già dalla fine del ‘periodo transitorio’, cioè, da oltre quarant’anni. L’applicabilità diretta dei due articoli del TFUE presuppone che i cittadini dell’Unione abbiano il diritto di essere trattati come i cittadini nazionali e che essi possano richiedere alle giurisdizioni nazionali competenti di far valere i loro diritti. Ogni

35 Regolamento (CE) 2157/2001 del Consiglio dell’8 ottobre 2001, relativo allo Statuto della società europea, G.U.C.E. L294 del 10.11.2001, 1. 36 Articolo 56 del TFUE: Nel quadro delle disposizioni seguenti, le restrizioni alla libera prestazione dei servizi all’interno dell’Unione sono vietate nei confronti dei cittadini degli Stati membri stabiliti in uno Stato membro che non sia quello del destinatario della prestazione ... per un’analisi approfondita della distinzione tra le due libertà: DEFALQUE, L. La libre prestation des services et le droit d’établissement, Institut d’Etudes européennes, marzo 2004.

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discriminazione basata sulla nazionalità è quindi proibita. In altre parole, gli Stati membri sono tenuti a modificare le loro disposizioni nazionali che limitano tali due libertà, ivi comprese le disposizioni nazionali che si applicano indistintamente agli operatori nazionali e stranieri, qualora esse ostacolino o rendano meno attraente l’esercizio di tali libertà dando luogo a ritardi o a costi supplementari (37). Per un’impresa comunitaria l’esercizio dell’uno o dell’altro diritto fondamentale non è tuttavia senza conseguenze, in particolare per l’applicazione delle disposizioni interne degli Stati membri alle sue attività. Per molti settori economici lo ‘stabilirsi’ in uno Stato membro ha per effetto la necessità di conformarsi in misura completa alle disposizioni nazionali dello Stato d’accoglienza e limiti importanti al cd. ‘principio di mutuo riconoscimento’ che caratterizza invece la ‘libera prestazione dei servizi’ (38). In alcuni settori particolarmente sensibili della vita economica europea, il diritto dell’UE è intervenuto specificamente per disciplinare in modo più dettagliato l’accesso a questa libertà (39). Quando un’attività è esercitata come libera prestazione di un servizio con la presenza del prestatore di servizio sul territorio dello Stato membro della prestazione, la nozione di ‘prestazione dei servizi’ si distingue essenzialmente dal ‘diritto di stabilimento’ nella misura in cui la prima ha essenzialmente un carattere temporaneo mentre il diritto di stabilimento

37 Corte di giustizia, sentenza del 21 giugno 1974, causa 2/74 (Reyners), per la libertà di stabilimento, e sentenza del 3 dicembre 1974, causa 33/74 (Van Binsbergen) per la libera prestazione dei servizi; v. Parlamento europeo, Note sintetiche: la libertà di stabilimento, la libera prestazione dei servizi e il riconoscimento reciproco delle qualifiche, 2006. Per una panoramica (mirata ai temi di questo Convegno) della giurisprudenza fiscale della Corte di giustizia in materia di diritto di stabilimento, si rinvia a PISTONE, P., “ ‘Enterprise’, ‘Business’ and ‘Business Profits’ in EU Tax Law”, in MAISTO G. (eds.) The Meaning of “Enterprise”, “Business” and “Business Profits” under Tax Treaties and EU Tax Law, 2011, IBFD, Chap.1 e O’SHEA, T. “Freedom of establishment tax jurisprudence: Avoir Fiscal re-visited”, in EC Tax Review, 6, 2008, p.259; ARGINELLI, P. “The Discriminatory Taxation of Permanent Establishments by the Host State in the European Union: a Too Much Separate Entity Approach”, in Intertax, 2, 2007, p.82. 38 Qualcosa di simile a quanto parallelamente accade in materia fiscale (sia in termini di obblighi amministrativi, sia per quanto riguarda la determinazione del reddito) come conseguenza della distinzione - senz’altro meglio nota tra i fiscalisti - tra soggetti fiscalmente residenti e non-residenti. 39 Si pensi, ad esempio, al settore bancario. La direttiva 2006/48/CE, all’articolo 4, punto 3, offre una sua definizione di succursale (una sede di attività che costituisce parte, sprovvista di personalità giuridica, di un ente creditizio e che effettua direttamente, in tutto o in parte, le operazioni inerenti all’attività di ente creditizio e norme specifiche per il suo insediamento in un altro Stato membro; direttiva 2006/48/CE del Consiglio relativa all’accesso all’attività degli enti creditizi ed al suo esercizio (rifusione); G.U.U.E. L177 del 30.6.2006, p.1.

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presuppone un’installazione a carattere permanente nello Stato membro d’accoglienza. Ciò lo si deduce dal testo stesso del TFEU, che, all’articolo 57, ultimo comma (40), prevede che nel caso in cui un prestatore di servizi si sposti in uno Stato membro diverso da quello della sua base, per l’esecuzione della sua prestazione, può esercitare a titolo temporaneo la sua attività nello Stato membro in cui la prestazione è fornita (41). La Corte di giustizia si è pronunciata più volte sul concetto di ‘stabilimento’ in contesti non fiscali. Secondo la Corte la nozione di stabilimento di cui agli articoli [49] e seguenti del Trattato implic[a] l’esercizio effettivo di una attività economica per una durata di tempo indeterminata, mercé l’insediamento in pianta stabile in un altro Stato membro (42). La nozione di stabilimento ai sensi del Trattato, così come interpretata dalla Corte, è molto ampia e implica la possibilità per un’impresa comunitaria di partecipare, in maniera stabile e continuativa, alla vita economica di uno Stato membro diverso dal proprio Stato di origine e di trarne vantaggio, favorendo così l’interpenetrazione economica e sociale nell’ambito della Comunità (43). Già nel 1978, la Corte giudicava inoltre che … la nozione di succursale, di agenzia o di qualsiasi altro stabilimento implica un centro operativo che si manifesti in modo duraturo verso l’esterno come un’estensione della casa madre, provvisto di direzione e materialmente attrezzato in modo da poter trattare affari con terzi, di guisa che questi, pur sapendo che un eventuale rapporto giuridico si stabilirà con la casa madre la cui sede trovasi all’estero, sono dispensati dal rivolgersi direttamente a questa e possono concludere affari nel centro operativo che ne costituisce l’estensione (44) In quanto alla ‘prestazione di servizi’ - sempre secondo l’interpretazione dell’articolo 57 del TFUE da parte della Corte di giustizia - il carattere temporaneo della prestazione è il suo elemento costitutivo più importante e

40 Articolo 57 del TFUE: Ai sensi dei trattati, sono considerate come servizi le prestazioni fornite normalmente dietro retribuzione, in quanto non siano regolate dalle disposizioni relative alla libera circolazione delle merci, dei capitali e delle persone ... Senza pregiudizio delle disposizioni del capo relativo al diritto di stabilimento, il prestatore può, per l’esecuzione della sua prestazione, esercitare, a titolo temporaneo, la sua attività nello Stato membro ove la prestazione è fornita, alle stesse condizioni imposte da tale Stato ai propri cittadini (grassetto aggiunto dall’autore). 41 Commissione europea, Comunicazione interpretativa Libera prestazione dei servizi e interesse generale nel settore delle assicurazioni (2000/C 43/03), G.U.C.E. C43 del 16.12.2000, 8. 42 Corte di giustizia, sentenza del 25 luglio 1991, causa C-221/89 (Factortame), punto 20. 43 Corte di giustizia, sentenza del 30 novembre 1995, causa C-55/94 (Gebhard), punto 25. Al punto 26 della sentenza appena indicata la Corte ribadisce il carattere temporaneo della prestazione di servizi. 44 Corte di giustizia, sentenza del 22 novembre 1978, causa 33/78 (Somafer SA c. Saar-Ferngas AG), punto 2 della pronuncia.

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va valutato in funzione della durata della prestazione, della sua frequenza, della sua periodicità e della sua continuità. Tuttavia, tale carattere temporaneo non esclude la possibilità per il prestatore di servizi di dotarsi nello Stato membro d’accoglienza di una qualche forma di infrastruttura, qualora tale infrastruttura sia necessaria ai fini del compimento della prestazione (45). Particolarmente interessante appare poi il passaggio della Corte sotto riportato, per le evidenti analogie con l’interpretazione convenzionale della cd. ‘stabile organizzazione personale’ di cui all’articolo 5, commi 5 e 6, del Modello OCSE: … qualora un’impresa … di uno Stato membro sia permanentemente presente in un altro Stato membro, ad essa si applicano le disposizioni del Trattato sul diritto di stabilimento, anche se la sua presenza in quest’ultimo Stato non ha assunto la forma di una succursale o di una agenzia, ma si manifesta tramite un semplice ufficio, gestito da personale dipendente dall’impresa, o tramite una persona indipendente, ma incaricata di agire in permanenza per conto dell’impresa alla stessa stregua di un’agenzia (46). Per stessa ammissione della Commissione europea (47), non è sempre agevole tracciare la linea di demarcazione fra le due nozioni di prestazione di servizi e di stabilimento e certe situazioni si rivelano particolarmente difficili da classificare, in particolare quando le imprese si avvalgono per l’esercizio della loro attività, di un’infrastruttura permanente nello Stato membro della prestazione. Sulla base della giurisprudenza sopra evocata, la Commissione, per chiarire la portata - in materia di diritto assicurativo - dell’utilizzo di persone indipendenti nel paese d’accoglienza, in una sua Comunicazione interpretativa ha precisato che per considerare che i legami fra una persona indipendente - ad esempio un intermediario indipendente - e un’impresa di assicurazione sono di natura tale da comportare l’assoggettamento dell’impresa al regime di stabilimento invece che a quello applicabile alla libera prestazione di servizi, occorre che tale persona indipendente soddisfi cumulativamente le tre condizioni seguenti: i) essere soggetta alla direzione e al controllo dell’impresa di assicurazione che essa rappresenta, ii) avere il potere di impegnare l’impresa di assicurazione e iii) disporre di un mandato permanente. Solo dunque nell’ipotesi in cui la persona indipendente agisca come una vera e propria estensione dell’impresa di assicurazione ciò può comportare l’assoggettamento dell’impresa stessa al regime applicabile allo stabilimento di una succursale (48).

45 Causa C-55/94 (Gebhard), cit., punto 27. 46 Corte di giustizia, sentenza del 4 dicembre 1986, causa 205/84 (Commissione c. Germania), punto 21. 47 Commissione europea, 2000/C 43/03, cit.; punto 3, significativamente intitolato: la zona grigia. 48 Commissione europea, 2000/C 43/03, cit., 9.

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Come si è già accennato, l’applicazione di una libertà o l’altra non è senza conseguenze economiche per le imprese che operano in modo transfrontaliero. Si pensi, ad esempio, agli obblighi amministrativi con i relativi costi di messa in conformità e le eventuali sanzioni previste dalle legislazioni tributarie nazionali. È evidente che l’individuazione di una presenza stabile sul territorio di uno Stato membro dell’UE di un’impresa che abbia la sua sede principale in un altro Stato membro (sia essa una ‘stabile organizzazione’ riconosciuta ai sensi della vigente normativa fiscale oppure - più in generale - una qualsiasi forma di ‘stabilimento’ previsto dalle normative societarie dell’Unione) può comportare una restrizione al diritto fondamentale alla libera prestazione dei servizi. Infatti, nonostante il carattere esplicitamente residuale - di norma di chiusura - rispetto alle altre libertà, riservato dal TFUE alla prestazione dei servizi, come la Corte ha avuto modo d’affermare, un’applicazione particolarmente ‘ampia’ delle altre libertà a suo discapito potrebbe costituire di fatto la negazione stessa di tale libertà. Con la conseguenza di privare di ogni effet utile l’articolo 59 del TFUE, il cui scopo consiste per l’appunto nell’eliminare le restrizioni della libera prestazione di servizi da parte di persone non stabilite nello Stato nel cui territorio dev’essere fornita la prestazione. Tale requisito [lo stabilimento] può essere ammissibile soltanto qualora sia provato ch’esso costituisce una condizione indispensabile per raggiungere lo scopo perseguito (49). Nonostante, al momento, non si sia ancora sviluppata una giurisprudenza su questo tema specificamente applicabile alle disposizioni fiscali, sembra evidente che un’interpretazione assai estesa delle disposizioni relative all’individuazione delle stabili organizzazioni di imprese comunitarie potrebbe, in effetti, essere contraria al diritto dell’UE proprio per questo rischio di svuotamento delle disposizioni in materia di libera prestazione dei servizi. Con questo non si vuole certo spezzare una lancia in favore di costruzioni fiscali, a volte artificiali o finalizzate ad eludere le imposte dovute nello Stato membro ove si esercita l’attività - come, ad esempio, i contratti di commissionaire - ma semplicemente richiamare ad una corretta applicazione delle libertà alla base del buon funzionamento del Mercato unico (50). Sapendo inoltre, che certe misure con finalità anti-abusive, in principio contrarie a tali libertà, se proporzionate, possono comunque trovare una loro

49 Corte di giustizia, causa 205/84 (Commissione c. Germania), cit., punto 52. 50 Conseil d’État (corte suprema amministrativa francese), sentenza del 31 marzo 2010, n. 304715 (Zimmer Ltd); GOUTHIÈRE, B., “Zimmer: ‘Commissionaire’ Agent Is Not a Permanent Establishment”, in European Taxation, 8, 2010, p.350. Più recentemente: Tribunal Supremo (corte di cassazione spagnola), sentenza del 12.1.2012, n. STS 201/2012 (Roche Vitamins Europe Ltd).

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giustificazione secondo il diritto dell’UE come interpretato dalla giurisprudenza (51).

5 Conclusioni

Il concetto di ‘stabile organizzazione’ è l’elemento-chiave per dirimere le pretese tra due sovranità impositive; lo ‘stabilimento’ rappresenta invece, normalmente, l’equivalente punto d’equilibrio tra due libertà (concorrenti) del Trattato. Tuttavia, se la nozione di ‘stabilimento’- per la sua natura comunitaria e grazie alla Corte di giustizia - può contare su un’interpretazione uniforme nell’UE, il controllo sulla nozione di ‘stabile organizzazione’ è ben più frammentato. Questa stessa espressione la possiamo trovare - come già visto nel secondo punto di questo intervento - sia in diversi provvedimenti di legislazione secondaria dell’UE (a portata e contenuti distinti); sia nel diritto convenzionale, anche se, a volte, con contenuti diversi da quelli tracciati dagli stessi Modelli OCSE o ONU (52); sia, infine, nelle legislazioni fiscali interne. Di conseguenza, le autorità amministrative e giurisdizionali preposte ad applicare, a interpretare o a dirimere le dispute sui concetti contenuti nei diversi provvedimenti cambiano secondo l’origine e la natura degli stessi. Poche sono pertanto le speranze d’arrivare, senza un intervento esterno, a un’applicazione uniforme di concetti pur sostanzialmente simili. È interesse comune dell’Unione europea che continui ad esistere una tale frammentazione nel mercato unico? Qual è l’impatto, in termini economici, dell’assenza di un concetto comune sul predetto mercato?

La presentazione riassuntiva dei risultati di una consultazione pubblica lanciata dalla Commissione europea nel 2010 offre una prima risposta a quest’ultima domanda. Stando ai risultati di questa indagine, le dispute transfrontaliere tra Stati membri dell’UE, relative alla contestata esistenza di una ‘stabile organizzazione’ sono al quinto posto, in termini meramente

51 Corte di giustizia, causa C-157/07 (Krankenheim Ruhesitz am Wannsee), cit., punti 43-46. 52 Per esempio, negli accordi sottoscritti dall’Italia, manca, in genere, la lettera f) del paragrafo 4 del Modello OCSE, che tende ad escludere la configurazione di una stabile organizzazione nell’ipotesi di esercizio combinato delle attività di cui ai punti da a) a c) dello stesso paragrafo, pur non esistendo un’esplicita riserva italiana in merito nel Modello OCSE. In sostanza, per l’Italia, l’esercizio congiunto di attività quali deposito, esposizione, pubblicità e informazione, non è, di per sé, sufficiente a configurare una stabile organizzazione ed è pertanto necessaria una verifica, caso per caso, sulla presenza o meno delle condizioni necessarie alla sua esistenza. V. DEL GIUDICE, M. “La stabile organizzazione nel diritto interno, nel diritto convenzionale e nelle Convenzioni stipulate dall’Italia”, monografia in allegato a Il Fisco, 45, 2008, p.8009.

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numerici, tra le cause generatrici di doppie imposizioni, e addirittura al secondo posto (dopo le doppie imposizioni conseguenti alle correzioni sui ‘prezzi di trasferimento’) in termini di importo del reddito contestato (53). Tuttavia, trovare una soluzione europea a questo genere di problemi è, almeno per il momento, assai complicato. Com’è noto, grazie al principio dell’unanimità, la fiscalità diretta resta un baluardo inespugnabile della sovranità degli Stati membri e, allo stato attuale del processo di costruzione europea, per ottime ragioni. In assenza di un diverso e più marcato ruolo del Parlamento europeo in materia fiscale, la rinuncia all’unanimità sottrarrebbe, infatti, i provvedimenti fiscali approvati dall’Unione a un sostanziale controllo parlamentare, facendo così venire meno uno dei principi-base degli ordinamenti democratici (no taxation without representation). Nonostante ciò, occorre domandarsi se risponde davvero alle esigenze del mercato unico e dei suoi principali utenti - i cittadini dell’Unione - lasciare che gli Stati membri, attraverso interpretazioni difformi di un medesimo concetto, demarchino in modo autonomo le loro frontiere economico-fiscali, arrivando addirittura a mettere in pericolo una corretta applicazione di due libertà riconosciute dal TFUE. Al momento però, più che possibili ravvicinamenti legislativi, si sta manifestando qualche nuova spinta centrifuga. In sede di gruppi di lavoro del Comitato affari fiscali dell’OCSE (ove sono rappresentati ben 21 dei 28 Stati membri dell’Unione europea) da qualche tempo sembra profilarsi una certa tendenza - manifestata da parte di più d’un delegato - a richiedere un progressivo allargamento della definizione di stabile organizzazione, accompagnata da una certa, voluta, flessibilità interpretativa, in funzione anti-abuso (54), un trend manifestatosi altresì nella giurisprudenza di alcuni paesi membri dell’Organizzazione (55) che rischia di provocare un aumento dei casi

53 Commissione europea, Direzione Generale TAXUD, Consultazione sulle convenzioni contro le doppie imposizioni nel mercato interno: casi concreti di doppia imposizione, 27 aprile 2010. Le risposte alla consultazione pubblica e la presentazione riassuntiva dei risultati sono disponibili sul sito web della Commissione europea (http://ec.europa.eu/taxation_customs/common/consultations). Data la natura volontaristica dei contributi ricevuti dalla Commissione e l’impossibilità di verificarne in modo approfondito la correttezza, l’attendibilità di questa statistica è puramente indicativa, ma è comunque sintomatica dell’esistenza di un problema di fondo. 54 OCSE, Centre for Tax Policy and Administration, Interpretation and application of Article 5 (Permanent Establishment) of the OECD Model Tax Convention - Public discussion draft, 12 ottobre 2011; v. per esempio, punti 105-106; v. altresì, ANDRESEN U. e KIESEL, H. “Un-taxed Profit between Head Office and Permanent Establishment Does Not Constitute a Criminal Tax Offence - A German Example”, in Intertax, 6-7, 2013, p.387; DIERCKX F., “Belgium: How ‘Permanent’ Should a ‘Material Permanent Establishment’ Be?”, in European Taxation, 1, 2009, p.34. 55 Il noto caso italiano Philip Morris (Cass. 7682/02) e le conseguenti modifiche recentemente introdotte nel Commentario del Modello OCSE hanno addirittura obbligato l’Italia ha introdurre un’osservazione al predetto Modello, per sottolineare

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di doppia imposizione e del conseguente contenzioso internazionale. Non sembra però questa la via migliore per combattere l’utilizzo abusivo (che certamente esiste!) dei concetti contenuti nelle convenzioni fiscali, tanto più che lo stesso Modello OCSE legittima i mezzi per impedire tali forme di circonvenzione delle norme internazionali, senza necessità di cambiare i contenuti dei concetti-base del diritto tributario internazionale per porvi rimedio (56). E’ possibile, nell’Unione europea, trovare il modo di frenare questi rischi di frammentazione del mercato unico e, al tempo stesso individuare soluzioni tali da garantire un’applicazione più uniforme del concetto di ‘stabile organizzazione’? (57) A conclusione di questo intervento, tra le numerose possibilità che sono state già evocate, anche in questo Convegno, se ne vogliono indicare tre, molto diverse tra di loro (se si esclude la comune incertezza sulle possibilità di una loro concreta applicazione): una legislativa, affidata al Consiglio dell’Unione e all’approvazione degli Stati membri; una pratica, affidata alla buona volontà delle amministrazioni fiscali degli Stati membri e al coordinamento informale delle loro politiche fiscali ed infine una giurisprudenziale, indicando cioè una pista che potrebbe essere seguita dalla Corte di giustizia nell’interpretare il diritto dell’UE. Cominciamo con la soluzione più radicale, la proposta di direttiva della Commissione sulla base imponibile consolidata comune per le imprese

l’impossibilità del paese a sottrarsi all’evoluzione interpretativa della Corte suprema in materia di cd. ‘stabili organizzazioni multiple’; LOVISOLO, A., “La stabile organizzazione nel nuovo Modello OCSE, in Corriere Tributario, 2006, p.109. Per una recente e accurata analisi del soggetto, si rinvia a VALENTE P. e VINCIGUERRA L., Stabile organizzazione occulta, IPSOA, 2013, p.10 e ssg. 56 Si rinvia, in proposito, all’ampio Commentario dell’Articolo 1 del Modello OCSE (paragrafi 7-26) sulle modalità per evitare un utilizzo non corretto delle convenzioni fiscali. La lotta all’evasione fiscale è una delle ragioni imperative d’interesse generale che possono giustificare un limite all’accesso a un diritto fondamentale riconosciuto dal TFUE? La Corte di giustizia, in materia di fiscalità diretta, ha spesso respinto questa giustificazione. Restando in tema di ‘stabili organizzazioni’, si veda, ad esempio, la sentenza del 12 dicembre 2002, nella causa C-324/00 (Lankhorst-Hohorst GmbH), punto 37. 57 Recentemente, anche la Confédération Fiscale Européenne si è posta queste domande e ha cercato di offrire soluzioni (diverse da quelle citate nelle conclusioni di questo intervento); CFE, Opinion Statement on an EU definition of Permanent Establishment, luglio 2013. Un interessante percorso parallelo per giungere ad un concetto EU di ‘residenza fiscale’ è stato ipotizzato da CERIONI L., “Tax Residence Conflicts and Double Taxation: Possible Solutions?”, in Bulletin for International Taxation, 12, 2012, p.347 (v. in particolare, p.354 e ssg.).

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(CCCTB), spesso presentata, a torto o a ragione, come la panacea per tutti i problemi dei gruppi di imprese europei (58). Com’è noto la proposta intende rimediare ad alcuni ostacoli fiscali che rappresentano un grave intralcio per la crescita nel mercato unico. Come la Commissione europea aveva già sottolineato da tempo, in assenza di norme comuni, l’interazione tra i diversi sistemi fiscali nazionali conduce spesso ad una doppia imposizione, ad oneri amministrativi supplementari e ad elevati costi di compliance (59). A questa situazione che disincentiva gli investimenti nell’Unione, cerca di porre rimedio, almeno parzialmente, la cd. proposta sulla CCCTB, che prevede un regime di regole comuni (opzionali) per calcolare la base imponibile delle società che sono fiscalmente residenti nell’UE (e delle succursali ubicate nell’UE di società di paesi terzi). Il quadro fiscale comune prevede regole per il calcolo dei risultati fiscali di ciascuna società (o succursale), il consolidamento di tali risultati, qualora vi siano altri membri del gruppo, e la ripartizione della base imponibile consolidata tra ciascuno Stato membro ammissibile. Nel quadro previsto della CCCTB, i gruppi di società si atterrebbero a un unico insieme di regole fiscali e interagirebbero con una sola amministrazione fiscale. E’ evidente che il consolidamento rappresenta l’elemento essenziale di questa proposta, e costituirebbe il mezzo per superare il principale ostacolo fiscale che le stabili organizzazioni devono affrontare all’interno dell’Unione: il riconoscimento, e l’eventuale compensazione delle perdite (60). La proposta prevede anche una definizione di ‘stabile organizzazione’ (curiosamente, proprio all’articolo 5) che ricalca, ça va sans dire, quella dell’articolo 5 del Modello OCSE (2010).

L’introduzione della base imponibile consolidata comune rappresenterebbe un passo importante nella realizzazione di un effettivo mercato interno e, per quanto riguarda le ‘stabili organizzazioni’, in caso di opzione da parte del gruppo, garantirebbe un’applicazione uniforme, eliminando alla radice possibili conflitti interpretativi sul contenuto della nozione (o sull’eventuale

58 Commissione europea, Proposta di direttiva del Consiglio relativa a una base imponibile consolidata comune per l’imposta sulle società; COM(2011)121 del 16.3.2011. 59 Commissione europea, Verso un mercato interno senza ostacoli fiscali, COM(2001)582 del 23.10.2001. Si veda, in particolare la Comunicazione, Coordinamento dei sistemi di imposizione diretta degli Stati membri nel mercato interno, COM(2006)823 del 19.12.2006. 60 IHLI, U., “Permanent establishment in EU Direct Taxation” in CFE Forum 2011: Permanent Establishments, Bruxelles, 7 aprile 2011 disponibile sul sito web della CFE (http://www.cfe-eutax.org/node/2568). Per altri possibili vantaggi fiscali di cui beneficerebbero le stabili organizzazioni, nel quadro delle varie proposte CCCTB succedutesi nel tempo, si rinvia a KEMMEREN E., “Exemption method for PEs and (major) shareholdings best services: the CCCTB and the internal markets concerned”, in EC Tax Review, 3, 2008, 118.

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libertà applicabile) e sulla parte degli utili ad essa attribuibile. Tuttavia, ben che la proposta sia già da qualche tempo sul tavolo del Consiglio, il meno che possa dirsi è che, per il momento, non incontra l’unanime consenso dei 28 Stati membri dell’Unione. Un’altra recentissima iniziativa della Commissione europea potrebbe anch’essa contribuire, seppur in modo meno formale, a ridurre le incertezze sulla nozione di ‘stabile organizzazione’. Nel 2011, affrontando il tema della doppia imposizione nel mercato unico, la Commissione osservava come la doppia imposizione fosse spesso la conseguenza di interpretazioni contrastanti tra gli Stati membri (61). L’istituzione europea sottolineava pertanto la necessità di giungere nell’Unione europea, ove possibile, a un’interpretazione comune di taluni concetti contenuti nelle convenzioni contro le doppie imposizioni vigenti tra gli Stati membri (62). E aggiungeva: a seconda dei casi, può essere opportuno tener conto di concetti identici o simili previsti dalla legislazione dell’UE, in quanto specifica dimensione del problema diffuso a livello dell’Unione. Data la loro importanza per il mercato internazionale, è utile discutere tali questioni a livello di Unione europea. A questo proposito, la Commissione chiedeva espressamente agli Stati membri di valutare i potenziali benefici derivanti dall’istituzione di un forum di rappresentanti degli Stati membri al fine di discutere sulle varie espressioni utilizzate nelle convenzioni fiscali e, eventualmente, elaborare uno strumento di soft-law, un codice di condotta, in grado di indirizzare una comune interpretazione nell’Unione delle sopra citate nozioni giuridico-fiscali (che vanno dalla residenza fiscale agli interessi, passando per la stabile organizzazione), che hanno una valenza significativa per il mercato interno e per il diritto secondario dell’Unione in materia fiscale. Vista l’accoglienza positiva che il Consiglio ha riservato alle diverse iniziative e/o prese di posizione della Commissione europea in materia di lotta alla doppia imposizione e (soprattutto) alla doppia non-imposizione, la Commissione ha recentemente dato seguito al suo progetto di creare il gruppo di esperti annunciato nella Comunicazione del 2011 sopra citata. Va tuttavia osservato che, tenuto conto delle recenti iniziative del G8, del G20 e dell’OCSE contro la frode e l’evasione fiscale (63), le priorità delle istituzioni europee sono in parte cambiate, e l’idea originaria di creare un Forum sulle

61 Commissione europea, Doppia imposizione nel mercato unico, COM(2011)712 dell’11.11.2011, punto 5.3. 62 COM(2011)712, cit., punto 5.3., p.10-11; che cita espressamente, tra tali concetti, il caso degli insediamenti permanenti (sic, nella solita, infelice, traduzione italiana di permanent establishments). 63 Dichiarazioni finali dei Capi di Stato del G20 di Los Cabos, Messico, (19.6.2012), punto 48; dicharazione del G8 di Lough Erne, Irlanda del Nord (18.6.2013), punti 1-4; OCSE, Addressing Base Erosion and Profit Shifting (cd. Rapporto BEPS) del 12.2.2013 e Action Plan on Base Erosion and Profit Shifting del 19.7.2013.

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doppie imposizioni ha dovuto cedere il passo ad un ben più ampio organismo (la cd. Platform) (64) che prevede sempre, espressamente, tra le sue finalità, di occuparsi di una migliore e più coerente applicazione dei concetti contenuti nelle convenzioni fiscali, al fine di ridurre la conflittualità ed i casi di doppia imposizione (65), ma come quinto dei suoi cinque obiettivi, lasciando, al momento, la precedenza alla lotta alla cd. ‘ pianificazione fiscale aggressiva’ e alle altre forme di doppia non-imposizione, decisamente più alla moda in questi tempi di caccia disperata alle risorse per le esangui casse degli Stati membri dell’Unione. La prima riunione della Platform si è tenuta lo scorso giugno e si è limitata a trattare gli aspetti organizzativi. Quando in autunno l’attività del gruppo di esperti entrerà nel vivo, sarà interessante scorrere l’ordine del giorno delle riunioni e verificare se, eventualmente, sarà devoluto a un sotto-gruppo di lavoro l’approfondimento delle tematiche legate all’interrelazione dei concetti del diritto tributario internazionale con il diritto dell’Unione europea. Un accenno infine anche alla ‘pista’ giurisprudenziale. Apparentemente più complicata per quel che riguarda il ragionamento giuridico, ma sicuramente più facile da attuare, soprattutto se la si compara alle difficoltà politiche da sormontare per giungere ad un’approvazione unanime, in sede UE, d’un provvedimento legislativo in materia fiscale. Il punto di partenza del ragionamento si basa sull’osservazione che la nozione di ‘stabilimento’ legata all’omonima libertà può contare all’interno dell’UE, su un rigoroso controllo della Corte di giustizia che ne assicura un’applicazione uniforme. La nozione di ‘stabile organizzazione’ invece, come s’è visto, non gode di altrettanta sicurezza giuridica. Tuttavia, non è detto che questa situazione non possa cambiare, almeno per quel che riguarda l’applicazione del concetto di ‘stabile organizzazione’ in materia di fiscalità diretta. Ipotizziamo qui di seguito come e perché ciò potrebbe accadere. Oltre quindici anni fa, proprio esaminando una questione di natura fiscale, la Corte ha affermato la propria competenza [ex Articolo 267 TFUE] a interpretare il diritto dell’UE anche qualora quest’ultimo non disciplini direttamente la situazione di cui è causa, ma il legislatore nazionale abbia deciso, all’atto della trasposizione in diritto nazionale delle disposizioni di una direttiva, di applicare lo stesso trattamento alle situazioni puramente interne e a quelle che rientrano nella direttiva, di modo che ha modellato la

64 Commissione europea, Decision on setting up a Commission Expert Group to be known as the Platform for Tax Good Governance, Aggressive Tax Planning and Double Taxation; C(2013)2236 del 23.4.2013. 65 Articolo 2 (Tasks): … (e) to discuss practical insights provided by tax authorities, as well as business, civil society and tax practitioners, and to elaborate on possible ways to address more efficiently the current double taxation problems affecting the smooth functioning of the internal market.

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sua normativa sul diritto comunitario (66). In sostanza, poiché nel caso di specie il legislatore olandese, al fine di disciplinare gli aspetti fiscali delle fusioni tra imprese nazionali, aveva utilizzato esattamente la medesima nozione di ‘fusione mediante scambio di azioni’ contenuta nella direttiva 90/434/CEE, la Corte ha considerato che … quando una normativa nazionale si conforma, per le soluzioni che essa apporta a situazioni puramente interne, a quelle adottate nel diritto comunitario, al fine, in particolare, di evitare che vi siano discriminazioni nei confronti dei cittadini nazionali o … eventuali distorsioni di concorrenza, esiste un interesse comunitario certo a che, per evitare future divergenze d’interpretazione, le disposizioni o le nozioni riprese dal diritto comunitario ricevano un’interpretazione uniforme, a prescindere dalle condizioni in cui verranno applicate (67). Il legislatore comunitario ha introdotto in diverse direttive l’espressione ‘stabile organizzazione’ e quando si è trattato di definirla, si è limitato a riprendere la nozione già elaborata dal diritto tributario convenzionale nell’articolo 5 del Modello OCSE. Certo, in questo caso, si è di fronte ad un’ipotesi ben distinta da quella descritta nella causa Leur-Bloem: in realtà non è il legislatore nazionale (o i negoziatori degli accordo bilaterali) che ha modellato la sua normativa sul diritto comunitario, ma semmai il contrario! Tuttavia le ragioni (e preoccupazioni) che hanno portato il giudice europeo a dichiararsi competente sussistono in eguale - se non maggiore - misura: anche in questo caso. Infatti, l’interpretazione di un concetto normativo di origine non comunitaria (68) - ma di contenuto formale identico a quello previsto da una disposizione comunitaria - rischia di essere interpretato in modo divergente ed esiste pertanto un interesse comunitario certo a che … le disposizioni o le nozioni riprese dal diritto comunitario ricevano un’interpretazione uniforme (69).

66 Corte di giustizia, sentenza del 17 luglio 1997, causa C-28/95 (Leur-Bloem), punti 16 e ssg. 67 Corte di giustizia, causa C-28/95 (Leur-Bloem), cit., punto 34. 68 Un concetto che, tra l’altro, data la sua origine convenzionale, ha effetti ben maggiori sul mercato interno, in quanto, per definizione, non si limita a disciplinare situazioni puramente interne. 69 A nostro avviso, sarebbe comunque saggio non discostarsi troppo dalla nozione di ‘stabile organizzazione’ elaborata dalle istituzioni internazionali quali l’OCSE o le Nazioni Unite e trovare il modo di conciliare le esigenze del Mercato interno con le scelte ormai consolidate del diritto internazionale. Per facilitarne l’applicazione e prevenire il contenzioso sarebbe forse opportuno basarsi, di preferenza, su elementi concreti e incontestabili, quali per esempio, la ‘presenza fisica’ citata in diverse decisioni della Corte di giustizia in materia di fiscalità indiretta, al fine di evitare il rischio di una non giustificata (fatale?) attrazione fiscale di semplici prestazioni di servizio verso lo Stato membro ove l’attività è svolta, che potrebbe comportare gravi limitazioni dei diritti fondamentali dei cittadini dell’UE riconosciuti dal TFUE.

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In sostanza, secondo l’ipotesi che si è appena esposta, poiché la nozione di ‘stabile organizzazione’ nelle direttive sopra enunciate e nelle convenzioni bilaterali ha una matrice comune nel Modello OCSE, la Corte di giustizia potrebbe essere chiamata a verificare la conformità al concetto UE di ‘stabile organizzazione’ dell’interpretazione datane nelle predette convenzioni bilaterali (almeno in quelle tra Stati membri). Se poi, la Corte, nel fare questo - come sarebbe probabile - si volesse ispirare alla sua giurisprudenza in materia di (diritto di) ‘stabilimento’ ecco che potremmo addirittura assistere, a livello di Unione europea, ad un avvicinamento dei due concetti che renderebbe di gran lunga più semplice la vita economica delle imprese (e delle loro varie forme di ‘stabilimento’) che operano nel mercato interno.

Prof.ssa Livia Salvini Professoressa Università Luiss di Roma

La stabile organizzazione nelle imposte sui redditi

e nell’iva: analogie e differenze

1 La questione.

Della coincidenza o meno delle nozioni di stabile organizzazione nelle imposte sui redditi e nell’IVA si discute da molto tempo, e naturalmente questa discussione ha risentito dell’evoluzione normativa che ha interessato anche in tempi recenti le due imposte. Probabilmente l’origine della questione sta nel fatto che, a fronte dell’assenza di definizioni generali di s.o. in fonti legislative tanto interne quanto sovranazionali, sia il TUIR quanto il d.p.r. n. 633/1972 in materia di IVA utilizzavano la medesima locuzione “stabile organizzazione” 1. Ciò benché la VI direttiva IVA, nell’art. 9, impiegasse invece la locuzione “centro di attività stabile” 2 del prestatore, in alternativa al criterio della sede, per indicare il luogo di una prestazione di servizi 3. Nonostante la (apparente) coincidenza delle due nozioni, è sembrato fin da subito evidente che nelle due diverse imposte la s.o. svolge una funzione differente; che, poi, da tale differente funzione dovessero discendere anche differenze di carattere sostanziale tra le due nozioni, appare per taluni profili questione ancora non pacifica. Nell'IVA, la s.o. – con riferimento alle prestazioni di servizi - assolve la funzione di mezzo di collegamento di un soggetto passivo non residente con il territorio di uno Stato; essa dunque consente di localizzare le operazioni secondo le ordinarie regole di territorialità applicabili ai soggetti ivi residenti, nella logica di assoggettare a tassazione l’operazione nello Stato in cui avviene il consumo. Questa localizzazione ovviamente vale in via esclusiva, in modo da evitare doppie imposizioni o nessuna imposizione sulla medesima 1 Prima che si venisse precisando, sia in ambito comunitario che in ambito interno, che la nozione di s.o. ai fini IVA è differente da quella relativa alle imposte sul reddito, facendo leva sull’efficacia normativa delle singole convenzioni contro le doppie imposizioni una parte della dottrina riteneva che la nozione di s.o. da esse accolta (peraltro non sempre uniforme) e ispirata dal modello OCSE dovesse valere anche ai fini IVA. 2 La stessa espressione è impiegata dalla VII e dalla XIII Direttiva IVA in materia di rimborsi. 3 Per individuare il luogo delle cessioni di beni, invece, come è noto rileva, come regola generale e salve eccezioni, il luogo dove il bene si trova e quindi in questi casi l’esistenza di una s.o. non è di per sé determinante. Si veda peraltro oltre sul punto.

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operazione e da evitare conflitti di competenza tra gli Stati membri. Con le regole previgenti, l’esistenza di una s.o. – o meglio, di un centro di attività stabile – del prestatore del servizio era dunque determinante ai fini dell’applicazione dell’imposta nello Stato in base alla regola generale, fondata appunto sul luogo del prestatore. Come è noto attualmente vige, sempre in termini generali, la regola opposta e quindi ai fini della territorialità diviene rilevante l’esistenza di una s.o. del committente 4, se le prestazione è ricevuta da tale s.o. Naturalmente, laddove un’operazione soggetta ad IVA in Italia sia imputabile ad una s.o., quest’ultima assume tutti i relativi obblighi e diritti, ed in primis, se del caso, la veste di debitore dell’imposta. Con riferimento alle cessioni di beni per le quali valgono criteri oggettivi di territorialità, la funzione svolta dalla s.o. che interviene nell’operazione è invece solo quella di imputazione delle relative situazioni soggettive attive e/o passive ai fini dell’applicazione dell’imposta. Nelle imposte sui redditi, invece, la presenza di una s.o. serve a consentire al Paese di stabilimento di effettuare il prelievo sui redditi di impresa ivi prodotti 5, fermo restando che essi sono imputabili (anche) alla casa madre non residente e che sono quindi di norma imponibili (anche) nel Paese di residenza di quest'ultima, salvi i meccanismi (esenzione o credito di imposta) per evitare le doppie imposizioni. Il che è invece tipico di un'imposta personale, basata sul criterio di tassazione del reddito mondiale.

2 Sulla nozione di s.o.

Benché, come si è accennato, non vi fossero fino a tempi relativamente recenti definizioni normative di s.o. né ai fini IVA né nel TUIR, una differenza tra le due nozioni si è venuta ben presto delineando mediante il raffronto tra la nozione OCSE ai fini delle imposte sui redditi e quella elaborata per l’IVA dalla Corte di Giustizia. In particolare, la CGUE fin dalla sentenza Berkholz del 1985 (causa C-168/84) e in una nutrita serie di successive pronunce 6 ha chiarito che per considerare, ai fini del luogo di tassazione di una prestazione di servizi, un centro di attività diverso dalla sede del soggetto è necessario che detto centro abbia una consistenza minima, data dalla presenza permanente dei mezzi umani e tecnici necessari per rendere le prestazioni. In particolare, sembra (la Corte non si dilunga mai sul punto) che la necessità della presenza umana venga fatta discendere dalla stessa nozione di centro di attività organizzata. “Non v’è organizzazione – dice l’Avvocato generale nella causa Berkholz – ossia complesso ordinato di beni e di persone, che non implichi divisione del lavoro. Il prestatore di servizi dovrà disporre sia di mezzi materiali, sia di collaboratori che lo aiutino a sfruttarli e gestirli”. Dalla giurisprudenza 4 La Dir. 112/2006 attualmente utilizza la locuzione “stabile organizzazione” in luogo della precedente “centro di attività stabile”. 5 E, prima ancora, di qualificarli come redditi di impresa. 6 Tra le quali si segnala la sentenza ARO Lease, causa C-190/95.

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comunitaria sembra emergere insomma che non vi è un motivo specifico, interno al sistema dell’IVA, che ha condotto a ritenere necessaria la contemporanea presenza del fattore umano e di quello materiale; si tratta invece dell’elaborazione del concetto di organizzazione in modo del tutto autonomo rispetto al concetto di s.o. delineato in sede OCSE. Ed infatti, la Corte si muove nell’ambito esclusivo della direttiva IVA senza confrontare la nozione di centro di attività stabile/ s.o. da essa fornita con quella desumibile dal modello di convenzione OCSE; nozione, quest’ultima, espressamente ritenuta non pertinente in quanto relativa all’imposizione diretta (sentenza FCE Bank, causa C-210/04). L’indipendenza dei due concetti di s.o. si manifesta qui in tutta la sua evidenza, poiché nell’ambito delle imposte sul reddito è sempre stata invece ritenuta sufficiente solo l’organizzazione materiale per configurare una s.o., anche in assenza di fattori umani, così come una organizzazione personale in assenza di elementi materiali. Pertanto, è possibile che un non residente possieda in Italia una s.o. ai sensi del TUIR (per es. una macchina che eroga servizi senza personale addetto alla manutenzione e al funzionamento, fattispecie oggetto della sentenza Berkholz) che ai fini IVA non è considerata tale. Nella giurisprudenza interna, anche per la questione che ci occupa un necessario punto di riferimento è costituito dalla sentenza Philip Morris (Cass. n. 7689/2002). In quella occasione è stato infatti precisato che la nozione di s.o. in materia di IVA non è analoga a quella applicabile nelle imposte sul reddito, perché essa deve essere assoggettata ad interpretazione adeguatrice in base alla nozione, contenuta nella VI Direttiva, di “centro di attività stabile”, così come delineata dalla giurisprudenza comunitaria. Ne risulta pertanto confermato che ai fini IVA è necessaria sia l’organizzazione personale che quella materiale. Questa conclusione è ora confermata dalle fonti normative. In materia di IVA, il Regolamento n. 282/2011 ha previsto, all’art. 11, che la s.o. è “qualsiasi organizzazione …. caratterizzata da un grado sufficiente di permanenza e una struttura idonea in termini di mezzi umani e tecnici …” 7. L’uso della congiunzione chiarisce dunque definitivamente che è necessaria la compresenza dei due “mezzi”. Da parte sua, l’art. 162 TUIR conferma invece che – in armonia con le definizioni OCSE - anche un’organizzazione solo personale (comma 6) o solo materiale può costituire s.o.

Dato il riferimento, contenuto nel Reg. IVA cit., ad una “struttura idonea”, sarà però sempre necessario, come è stato da tempo messo in luce dalla dottrina a commento della giurisprudenza comunitaria, che si operi una valutazione caso per caso in relazione all’attività concretamente svolta dalla società non residente nel territorio dello Stato. Nell’ambito di questa

7 Si deve ritenere, in virtù del rinvio fatto dall’art. 11 Reg. all’art. 192 bis Dir. 112/2006 riguardante i debitori di imposta, che tale nozione valga non solo ai fini delle prestazioni di servizi, ma anche delle cessioni di beni.

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valutazione potrebbe emergere che l’idoneità sussiste benché il mezzo umano, ovvero quello tecnico, sia estremamente ridotto; con la conseguenza di avvicinare la nozione di s.o. IVA a quella applicabile nelle imposte sui redditi. La differenza tra le due nozioni di s.o. tende a sfumare anche nei casi di s.o. occulta. Ed infatti, potrebbe essere sufficiente che una società residente svolga per una società non residente del medesimo gruppo un’attività diretta alla conclusione di contratti da cui scaturiscono prestazioni di servizi (ipotesi sostanzialmente coincidente con quella della s.o. personale prevista dall’art. 162 comma 6 TUIR) per far ritenere che essa costituisca una s.o. ai fini IVA. L’organizzazione di mezzi umani e tecnici necessaria per configurare una s.o. sarebbe in questo caso integrata dalla società che costituisce la s.o. occulta. Questa conclusione, che sembra trovare qualche fondamento anche nella giurisprudenza comunitaria 8, è corroborata, nella giurisprudenza interna 9, da una sostanziale sovrapposizione tra la nozione di s.o. IVA e quella recata dall’art. 5 mod. OCSE, nonostante la formale adesione alla tesi della difformità delle due nozioni di s.o.; sovrapposizione che, come si è visto, non è comunque legittimata, in termini generali, dalla Corte di Giustizia. E resta comunque fermo che ai fini IVA (ed a differenza di quanto accade per le imposte sui redditi), come si vedrà oltre, non è sufficiente l’esistenza di una s.o. nel territorio dello Stato per predicare la riconducibilità ad essa delle operazioni attive effettuate, essendo comunque necessario che tali operazioni transitino materialmente per la s.o.

3 Sulla soggettività della s.o.

Sotto il profilo della soggettività non dovrebbero invece manifestarsi elementi di differenziazione tra s.o. ai fini IVA e ai fini delle imposte sul reddito; questa affermazione richiede però una corretta delimitazione del concetto di soggettività passiva, soprattutto nell’IVA. Per quanto attiene queste ultime, è indubbio che la s.o. non è considerata, neanche nella prospettiva dello Stato in cui essa è stabilita, un soggetto passivo di imposta 10. Chiaro è in questo senso l’art. 73 TUIR che indica tra i 8 La Corte di Giustizia, nella sentenza DFDS (causa C-260/95), ha ritenuto che una società costituisse una s.o. di una società non residente del medesimo gruppo benché la prima si limitasse a svolgere per la non residente un’attività di agente. La necessaria compresenza di mezzi umani e tecnici sarebbe stata appunto rinvenibile nell’organizzazione della s.o. occulta. Tuttavia, come ben precisato nella sent. Daimler e Widex (cause C-318/11 e 319/11), in cui la Corte ha ammonito a non travisare la sent. DFDS, è comunque necessario che le operazioni transitino effettivamente per la s.o., per quanto occulta, non essendo sufficiente la mera esistenza della s.o. nel territorio dello Stato per far presumere il transito delle operazioni attraverso di essa. 9 Recentemente, Cass. n. 9166/2011. 10 Si fa qui riferimento alla s.o. palese, priva di soggettività giuridica sia di diritto civile che ai sensi del TUIR, in quanto organizzazione appartenente a terzi (la casa

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soggetti passivi le società non residenti. Come prevede l’art. 151, che rinvia all’art. 23 quanto alla individuazione dei redditi prodotti in Italia da non residenti, ai fini della determinazione del reddito complessivo deve tenersi conto anche dei redditi di impresa prodotti in Italia mediante s.o. L’esistenza di quest’ultima rileva insomma solo ai fini della determinazione della base imponibile, ed è la casa madre non residente il soggetto tenuto agli adempimenti formali (in primis, la presentazione della dichiarazione ex art. 4 d.p.r. n. 600/1973) e sostanziali. Anche fini IVA la s.o. non è dotata di soggettività passiva, come si evince dell'art. 9 par. 1 Dir. n. 112/2006, secondo cui è soggetto passivo chi esercita “ in modo indipendente e in qualsiasi luogo un’attività economica”. Da un lato, dunque, la soggettività passiva è ricollegata all’esercizio dell’attività ovunque svolta, e dunque senza delimitazioni e frammentazioni territoriali. Dall’altro, come ha precisato la CGUE nella citata sentenza FCE Bank, l’essenziale requisito dell’indipendenza non è ravvisabile in una s.o.; con la conseguenza che s.o. e casa madre sono un soggetto unico, e che non sono configurabili rapporti giuridici che diano luogo ad operazioni rilevanti ai fini IVA tra l’una e l’altra 11. Sotto questo profilo manifesta tuttavia la sua rilevanza la diversa funzione che la s.o. svolge ai fini delle imposte sul reddito. Ed infatti la funzione di ripartizione della base imponibile dell’unico soggetto non residente tra due diversi Stati fa sì che il reddito imputabile alla s.o. debba risultare da una contabilità separata da cui risultino i fatti di gestione che interessano le s.o. A tali fini si configurano, mediante una fictio puramente fiscale non consentita nel sistema IVA, operazioni intrasoggettive, da valutare sulla base del valore normale. E’ infine il caso di rilevare, sul punto, che la conclusione sulla carenza di soggettività IVA della s.o. non è smentita dal fatto che la s.o. è individuata dall’art. 17 d.p.r. n. 633/1972 come soggetto debitore dell’imposta nel caso in cui le operazioni avvengano per il tramite di una s.o. Da un lato infatti, in termini generali, l’art. 17 (impropriamente rubricato “soggetti passivi”) madre). Nel caso di s.o. occulta, costituita da una società appartenente allo stesso gruppo della casa madre residente in Italia, la conclusione peraltro non muta, nel senso che è sempre la casa madre il soggetto passivo di imposta (e destinatario degli atti di accertamento relativi alla s.o. occulta– v. oltre) e non la società italiana. 11 Ed infatti, come si vedrà nel par. succ., l’attribuzione alla casa madre o alla s.o. delle operazioni IVA svolte nei confronti dei terzi avviene in termini materiali e non giuridici, dal momento che rapporti giuridici con i terzi possono fare capo solo alla casa madre. Tuttavia, con riferimento alla sua qualità di debitore di imposta e di titolare di tutti gli adempimenti strumentali, la s.o. deve ritenersi suscettibile di avere rapporti con terzi, e segnatamente con il fisco, ma sempre in quanto emanazione della casa madre. La non alterità soggettiva tra s.o. e casa madre va confermata anche con riguardo al trasferimento di beni dalla casa madre non residente alla s.o. Ed infatti, tale trasferimento è assoggettato ad imposta in quanto semplice introduzione di beni nel territorio dello Stato, a seconda dei casi come cessione intracomunitaria o come importazione, indipendentemente dal (non configurabile) trasferimento di proprietà tra casa madre e s.o.

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individua solo il soggetto tenuto a corrispondere l’imposta all’Erario (ad es., mediante il meccanismo del reverse charge) ed ai relativi obblighi formali, e non il soggetto passivo dell’imposta, come definito dagli artt. 4 e 5 che individuano il requisito soggettivo delle operazioni soggette ad IVA. Dall’altro, è lo stesso art. 17 a disporre inequivocabilmente, nel suo comma 4, che le regole ordinarie dettate per le operazioni effettuate da soggetti non residenti non si applicano “per le operazioni effettuate da o nei confronti di soggetti non residenti, qualora le stesse siano rese o ricevute per il tramite di stabili organizzazioni nel territorio dello Stato”. Dunque, riassumendo, ai fini IVA la s.o. non è soggetto passivo di imposta – tale essendo comunque la casa madre -, ma è individuata (per le operazioni da essa effettivamente poste in essere e secondo le ordinarie regole di territorialità) come soggetto debitore dell’imposta nei confronti dell’Erario, e quindi come soggetto titolare delle situazioni soggettive proprie del rapporto di imposta. Titolare che invece, ai fini delle imposte sul reddito, è comunque la casa madre. Naturalmente la diversa titolarità del rapporto di imposta si riflette anche nell’eventuale procedimento di accertamento: ai fini delle imposte sui redditi l’atto di accertamento andrà intestato e notificato alla casa madre, presso il domicilio eletto, mentre ai fini IVA destinataria dello stesso sarà la s.o. La già criticata tendenza della Corte di Cassazione ad obliterare gli indubbi profili di divergenza tra le due nozioni di s.o. qui in esame si è manifestata anche in una recente sentenza (Cass. n. 16106/2011) in cui – in luogo di estendere indebitamente, come è stato fatto in altre occasioni, all’IVA concetti propri delle imposte sul reddito – è stato innovativamente applicato alle imposte sul reddito, “attesa la sostanziale unitarietà, quanto agli aspetti strutturali, della nozione” di s.o., il criterio, elaborato in materia di IVA, secondo cui la pretesa impositiva va fatta valere, e quindi l’accertamento va notificato, alla s.o. (anche in questo caso si trattava di una s.o. occultata in una società residente) e non alla casa madre. Si tratta evidentemente, per quanto si è detto, di una conclusione non condivisibile (e tra l’altro destinata a creare non pochi problemi all’A.F. che di norma, correttamente, individua per l’IRES quale soggetto accertato la casa madre).

4 Sulla “forza di attrazione” della s.o.

Da quanto fin qui rilevato derivano infine sostanziali differenze tra le due tipologie di s.o. quanto alla c.d. “forza di attrazione” delle stesse. Ai fini IVA, né in linea di principio generale, né – secondo una corretta applicazione dei principi comunitari – con riferimento all’aspetto peculiare, benché caratterizzante, del diritto al rimborso dell’IVA assolta sugli acquisti, sussiste (o dovrebbe sussistere) alcuna forza attrattiva della s.o. Pertanto, come da tempo ribadito dalla giurisprudenza comunitaria ed ora chiarito dal Reg. cit., è necessario che le singole operazioni, attive e passive, transitino materialmente per la s.o., essendo quest’ultima quell’organizzazione di mezzi

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umani e materiali che è idonea a “ricevere ed utilizzare” i servizi che le sono forniti e a “fornire i servizi di cui assicura la prestazione”. Restano invece direttamente imputabili – in primis, ai fini dell’applicazione delle norme sulla territorialità - alla casa madre tutte le operazioni che non siano materialmente effettuate dalla s.o., nonostante la presenza di quest’ultima nel territorio dello Stato (art. 17, comma 4, d.p.r. n. 633/1972). La linearità di questo principio appare tuttavia compromessa nella tormentata vicenda delle norme interne in materia di rimborso diretto a non residenti (art. 38 bis2 d.p.r. cit.), che attualmente prevedono il rimborso non possa comunque essere richiesto da un non residente che abbia in Italia una s.o. 12. Ne consegue che la s.o. dovrebbe esercitare il diritto di detrazione anche per gli acquisti di beni e servizi effettuati ed utilizzati non da essa, bensì dalla casa madre, ed anche nel caso in cui essa s.o. non abbia effettuato operazioni attive. La conformità di questa disposizione alle regole comunitarie ed ai principi più volte affermati dalla Corte di Giustizia sembra messa in dubbio dalla recente sentenza Daimler e Widex, cit. che – affermando il diritto di ottenere il rimborso diretto in uno Stato da parte di una casa madre non residente che ha nel territorio di tale Stato una s.o. la quale non svolge nel periodo di imposta considerato operazioni attive – sembra ritenere essenziale, ai fini della detrazione da parte della s.o., che gli acquisti siano stati da essa effettuati e che i beni e servizi acquistati siano stati anche da essa utilizzati. Ai fini delle imposte sui redditi, invece, opera (salve naturalmente diverse previsioni convenzionali) il principio per cui il reddito imponibile in Italia delle società non residenti con s.o. è determinato sulla base di un conto economico “relativo alla gestione delle stabili organizzazioni e delle altre attività produttive di redditi imponibili in Italia” (art. 152, comma 1, TUIR). Per effetto di questa norma la disciplina del reddito di impresa si applicherebbe a tutti i redditi di fonte italiana della società non residente, e non solo a quelli conseguiti mediante la s.o. Ne conseguirebbe – ma le concrete modalità di applicazione di questo principio vanno attentamente vagliate – che la forza attrattiva al reddito di impresa ed alla tassazione in Italia (se non già prevista da altre regole sulla territorialità) vale anche per i redditi isolati, derivanti da beni, attività, ecc. che non hanno alcun collegamento con la s.o. 13.

12 Precedentemente l’art. 38 ter prevedeva che anche in presenza di s.o. la casa madre dovesse utilizzare la procedura di rimborso diretto per gli acquisti da essa direttamente effettuati in Italia. Questa norma è stata ritenuta non conforme alle Direttive IVA in materia di rimborsi dalla Corte Giustizia, Commissione/Italia, causa C-244/08. 13 V. anche, in questo senso, l’art. 151, comma 2, TUIR, per il quale concorrono alla formazione del reddito della s.o. anche le plusvalenze e le minusvalenze – ma non i redditi? - dei beni destinati o comunque relativi alle attività commerciali esercitate nel territorio dello Stato, ancorché non realizzate attraverso una s.o.

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Alcuni riferimenti bibliografici

CENTORE, Il rimborso IVA diretto è ammesso anche in presenza di una stabile organizzazione, in Corr. Trib. 2012, 3545; D’ALFONSO, La nozione di stabile organizzazione nelle imposte sui redditi e nell’IVA, in Rass. Trib. 2003, 1279; FIORENTINO, Stabile organizzazione, centro di attività stabile e “nozioni minime” in tema di soggetti passivi e soggettività tributaria, in Dir. Prat. Trib. 2005, 871; GALLO, Contributo all’elaborazione del concetto di “stabile organizzazione” secondo il diritto interno, in Riv. Dir. Fin. 1985, 385; MANTOVANI, La stabile organizzazione IVA, in La stabile organizzazione delle imprese industriali e commerciali, a cura di MAYR e SANTACROCE, Milano 2013, 433 ss.; PISTONE, Centro di attività stabile e stabile organizzazione: l’IVA richiede un’evoluzione per il XXI secolo?, in Riv. Dir. Trib. 1999, III, 2; PROIETTI, Stabile organizzazione occulta ed imposte dirette: profili critici in punto di soggettività tributaria, in Rass. Trib. 2012, 653; PURI, La stabile organizzazione nell’IVA, in Riv. Dir. Trib. 2001, 239.

Prof. Salvatore Sammartino Professore Università degli Studi di Palermo

Stabilimenti ed impianti in Sicilia di imprese aventi sede fuori dal territorio della Regione

SOMMARIO: 1 Considerazioni introduttive - 2 Le prime norme di attuazione, mai applicate, dell’art. 37 dello Statuto della Regione Siciliana - 3 Le successive norme emanate nel 2005 - 4 Le ultime disposizioni emanate nel 2013 - 5 Osservazioni critiche - 6 Notazioni conclusive

1 Considerazioni introduttive

La destinazione delle imposte sui redditi, prodotti in stabilimenti ed impianti in Sicilia di imprese aventi sede fuori dal territorio della Regione, si inserisce nella più vasta problematica attinente all’autonomia finanziaria della Regione Siciliana e ai conseguenti rapporti tra quest’ultima e lo Stato. Le norme di carattere generale che disciplinano tale autonomia finanziaria sono contenute negli artt. 36, 37 e 38 dello Statuto della Regione Siciliana approvato con Regio Decreto legislativo nel 1946 e integralmente convertito in legge costituzionale della Repubblica a far data dal 10 marzo 1948. Si tratta, quindi, di norme aventi pari dignità rispetto a quelle contenute nella nostra carta Costituzionale entrata in vigore il 1° gennaio 1948. L’attenzione viene qui rivolta all’art. 37, che detta la regola secondo la quale spetta alla Regione l’imposta commisurata alla quota di reddito riferibile a stabilimenti ed impianti situati in Sicilia, appartenenti a imprese industriali e commerciali che hanno la sede centrale fuori dall’isola. L’art. 37, altresì, dispone che tale imposta è “riscossa dagli organi di riscossione della Regione”, ma nulla precisa in ordine ai criteri di determinazione di tale quota di reddito. Trattandosi di norme recanti principi, come è proprio di ogni legge costituzionale, si è resa e si rende necessaria la produzione di norme di attuazione. Tali norme vanno introdotte secondo una particolare procedura che, ai sensi dell’art. 43 dello Statuto, nel rispetto della logica pattizia che caratterizza i rapporti tra lo Stato e la Regione, prevede la redazione ad opera di una commissione paritetica, organo ritenuto di rilevanza costituzionale, composta da quattro membri di cui due nominati dalla Regione e due dallo Stato, l’approvazione del Consiglio dei Ministri e la successiva pubblicazione sotto forma di decreto legislativo, senza alcun passaggio parlamentare. Il necessario utilizzo di tale particolare procedura consente di affermare che nessuna norma di attuazione dello Statuto, quale che sia l’esigenza che la solleciti ancorché emergente da norme contenute in leggi statali, può essere introdotta seguendo una procedura diversa, e che l’eventuale dissenso tra i

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membri di nomina regionale e quelli di nomina statale comporta necessariamente il mantenimento delle norme di attuazione in vigore. Per un periodo fin troppo lungo, dal 1948 al 1965, i rapporti finanziari tra lo Stato e la Regione sono stati regolati, pur sempre in via provvisoria, dal D. Lgs. 12 aprile 1948, n. 507, con effetto retroattivo dal 1° giugno 1947. Finalmente, con D.P.R. 26 luglio 1965, n. 1074, sono state approvate le norme di attuazione dello Statuto in materia finanziaria, tuttora vigenti, pur essendo intervenuti, nell’arco di quarantotto anni, dal 1965 ad oggi, mutamenti radicali del sistema tributario. Si pensi, a titolo esemplificativo, alla riforma degli anni settanta che, per quanto ci interessa, con riguardo alle imposte sui redditi, ha comportato la soppressione dell’imposta di ricchezza mobile e di altri tributi diretti e l’introduzione dell’IRPEF (imposta sul reddito delle persone fisiche) e dell’IRPEG (imposta sul reddito delle persone giuridiche), oggi IRES (imposta sul reddito delle società). Tante altre modifiche sono intervenute nel tempo, che sarebbe lungo e superfluo elencare, tra le quali va ricordata, ad esempio, l’introduzione di diverse imposte sul reddito sostitutive di quelle generali.

2 Le prime norme di attuazione, mai applicate, dell’art. 37 dello Statuto della Regione Siciliana

L’art. 7, tuttora in vigore, del D.P.R. 26 luglio 1965, n. 1074, reca disposizioni attuative dell’art. 37 dello Statuto. Tali disposizioni possono così sintetizzarsi: 1) le imprese industriali e commerciali interessate sono sia quelle private che quelle pubbliche; 2) spetta all’ufficio fiscale competente in relazione alla sede centrale dell’impresa, che è fuori dal territorio della Regione, procedere al riparto dei redditi, allora soggetti ad imposta di ricchezza mobile, fissando la quota riferibile agli stabilimenti ed impianti situati in Sicilia. Tale ufficio dovrà comunicare il riparto all’ufficio fiscale nel cui distretto ricadono gli stabilimenti e gli impianti al fine di consentire ad esso l’iscrizione a ruolo, allora modalità privilegiata di riscossione delle imposte sui redditi; 3) l’ufficio competente in relazione alla sede centrale procede al riparto d’intesa con l’ufficio nel cui distretto si trovano gli stabilimenti e gli impianti situati nell’isola. I contrasti tra gli uffici in sede di riparto vengono risolti dal Ministro delle Finanze d’intesa con l’Assessore delle Finanze della Regione Siciliana. È facile osservare che l’esigenza dell’intesa conferma la logica pattizia che ha caratterizzato la nascita dello Statuto; 4) spettano alla Regione i tributi sui redditi di lavoro dei dipendenti delle imprese industriali e commerciali addetti agli stabilimenti situati nel territorio della Sicilia; 5) si segue la stessa procedura, ai fini del riparto, nel caso di imprese che hanno la sede centrale in Sicilia e stabilimenti ed impianti fuori dal territorio

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regionale. In tale ipotesi procede al riparto l’ufficio operante in Sicilia d’intesa con quello nel cui distretto fuori dal territorio regionale di trovano gli stabilimenti e gli impianti. L’intesa tra gli uffici ai fini del riparto non è stata mai raggiunta e forse neppure mai tentata. Le imposte sui redditi sono state e sono interamente riscosse dagli uffici competenti sul territorio in cui l’impresa ha la sede centrale, dapprima mediante iscrizione a ruolo e poi soprattutto attraverso il versamento diretto, a seguito dell’introduzione della regola dell’autotassazione. L’art. 37 dello Statuto non ha mai trovato applicazione. Se si considera che sono trascorsi 65 anni dalla sua entrata in vigore, è agevole constatare che la Regione ha subito un danno rilevantissimo, ove si consideri che è infinitamente maggiore il numero, oltre che la consistenza, delle imprese che hanno la sede centrale fuori dalla Sicilia e stabilimenti nell’isola rispetto a quelle che hanno la sede centrale nella Regione e stabilimenti fuori del suo territorio. 3 Le successive norme emanate nel 2005

Su conforme delibera della Commissione paritetica, alla quale unicamente, ai sensi dell’art. 43 dello Statuto, spetta il compito di determinare le norme di attuazione dello Statuto, è stato emanato il decreto legislativo 3 novembre 2005, n. 241, recante disposizioni relative all’attuazione dell’art. 37 dello Statuto e al simmetrico trasferimento di competenze dallo Stato alla Regione. Il decreto legislativo, nel suo articolo unico, impone allo Stato, che incassa l’intera imposta sul reddito versata dalle imprese che hanno la sede centrale fuori dal territorio della Sicilia, di trasferire alla Regione la quota ad essa spettante riferibile agli stabilimenti ed impianti situati nell’isola. Nello stesso articolo è previsto che “simmetricamente sono trasferite alla Regione competenze previste dallo Statuto fino ad ora esercitate dallo Stato”. Viene altresì stabilito che le modalità applicative dei trasferimenti verranno definite con decreto dirigenziale del Ministero dell’Economia e delle Finanze d’intesa con l’Assessorato regionale del bilancio e delle finanze. È facile osservare che tale decreto nulla dispone in ordine ai criteri di determinazione dell’ammontare delle somme che lo Stato deve trasferire alla Regione, né precisa l’arco temporale da prendere in considerazione, se cioè la norma debba trovare applicazione solo dal 2005 in poi o se invece debba riguardare anche periodi pregressi. Né in tale decreto è stabilito entro quale data debba essere emesso il decreto dirigenziale recante le modalità applicative. Posto che per le modalità applicative si rinvia al decreto dirigenziale di cui si è detto, è da ritenere superato, ancorché formalmente non abrogato, l’art. 7 del citato D.P.R. n. 1074/1965 nella parte in cui attribuiva il potere di riparto

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all’ufficio fiscale competente in relazione alla sede centrale dell’impresa, d’intesa con l’ufficio, situato in Sicilia, nel cui distretto è collocato lo stabilimento. Neppure a seguito di tale Decreto legislativo 3 novembre 2005, n. 241, si è data concreta attuazione all’art. 37 dello Statuto: sono trascorsi inutilmente quasi altri otto anni. La causa di tale inerzia va ravvisata soprattutto nella difficoltà di interpretare in modo univoco l’espressione “Simmetricamente sono trasferite alla Regione competenze previste dallo Statuto fino ad ora esercitate dallo Stato”. C’è da chiedersi quali siano tali competenze sino ad ora esercitate dallo Stato, da attribuire per il futuro alla Regione. L’interpretazione proposta dallo Stato è quella secondo la quale, contemporaneamente al trasferimento delle somme dallo Stato alla Regione, debbano essere attribuite a quest’ultima le funzioni, con le relative spese a suo carico, fino ad ora svolte dallo Stato, ma di competenza della Regione secondo lo Statuto (a titolo esemplificativo, la sanità penitenziaria, il servizio del rifornimento idrico delle isole minori, le grandi derivazioni di acque pubbliche, taluni servizi ferroviari per il trasporto locale, etc.). L’interpretazione di segno diverso è quella secondo la quale la simmetria attiene esclusivamente alle imposte sui redditi e non investe le funzioni amministrative attinenti ad altri settori. Spetta alla Regione il gettito delle imposte sui redditi prodotti negli stabilimenti situati nel suo territorio e simmetricamente essa è tenuta ad assolvere il servizio di riscossione e a sopportarne le spese. A sostegno di quest’ultima interpretazione va richiamata la sentenza della Corte Costituzionale n. 145 del 7.5.2008. La Corte era chiamata a pronunziarsi, su ricorso della Regione Siciliana, sulla legittimità costituzionale, tra le altre, della norma contenuta nell’art. 1, comma 661, della L. 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2007), in tema di obbligo per le Regioni a statuto speciale, e quindi anche per la Sicilia, di concorrere al riequilibrio della finanza pubblica con misure finalizzate a produrre un risparmio per il bilancio dello Stato anche mediante l’assunzione dell’esercizio di funzioni statali. A giudizio della Regione, il citato comma 661 prevedeva il trasferimento di funzioni alla Regione senza il contestuale trasferimento di risorse economiche idonee a consentire lo svolgimento di tali funzioni, in violazione del criterio di simmetria previsto dal D. Lgs. n. 241/2005. La Corte ha rigettato la questione di costituzionalità e, interpretando espressamente la norma contenuta in tale decreto legislativo, ha precisato che le “competenze” da trasferire alla Regione sono esclusivamente quelle relative alla riscossione dell’imposta sul reddito attribuito agli stabilimenti ed impianti, siti in Sicilia, di imprese industriali e commerciali aventi la sede centrale fuori del territorio della Regione. Va condivisa l’interpretazione della Corte Costituzionale, certamente autorevole ancorché non vincolante trattandosi di una pronuncia di rigetto

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della questione di costituzionalità. La “simmetria” può investire da un lato le entrate e dall’altro le spese sostenute per realizzarle: essa non può riguardare da un lato entrate e dall’altro spese del tutto estranee alle entrate, da sostenere per l’assolvimento di altri compiti. Ma neppure l’autorevole interpretazione della Corte Costituzionale ha favorito l’applicazione del D. Lgs. n. 241/2005 e quindi l’attuazione dell’art. 37 dello Statuto.

4 Le ultime disposizioni emanate nel 2013

Le ultime disposizioni in tema di attuazione dell’art. 37 dello Statuto della Regione Siciliana, sono quelle contenute nell’art. 11 del D.L. 8 aprile 2013, n. 35 convertito nella L. 6 giugno 2013, n. 64. Il citato art. 11 reca nella rubrica, tra l’altro, “misure per l’equilibrio finanziario della Regione Siciliana” ed è ricompreso nel capo III di un atto legislativo destinato a disciplinare una pluralità di materie. I commi 1, 2, 3 e 5 del citato art. 11 rivestono particolare interesse. Nel primo periodo del primo comma, il legislatore si limita a parafrasare, ed è assolutamente superfluo, il contenuto dell’art. 37 dello Statuto. Quindi, si procede ad una diversificata regolamentazione, che può così sintetizzarsi: a) per l’anno 2013, il gettito spettante alla Regione è determinato nella misura forfettaria di quarantanovemilioni di euro (secondo periodo del comma 1 del citato art. 11); b) per gli anni 2014 e 2015 (comma 2 dell’art. 11), il gettito verrà determinato secondo le modalità applicative che verranno stabilite, ai sensi del citato D. Lgs. n. 241/2005, dal decreto dirigenziale del Ministero dell’Economia e delle Finanze, d’intesa con l’Assessorato regionale dell’economia della Regione Siciliana. In definitiva, si conferma il contenuto del D. Lgs. n. 241/2005 con l’unica aggiunta che il decreto dirigenziale va emanato entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore del decreto legge. Com’era più che prevedibile, il decreto dirigenziale non è stato ancora emesso ed il termine di 30 giorni è ampiamente spirato. Va rilevato che il decreto dirigenziale potrà essere emanato anche successivamente ai sensi del D. Lgs. n. 241/2005, tuttora in vigore, in cui non è previsto alcun termine. Ove tale decreto non venisse emesso, in assenza di modalità di quantificazione, nessuna somma potrà essere restituita alla Regione; c) per l’anno 2016 e successivi (primo periodo del comma 5 dell’art. 11) si applicano le stesse regole previste per gli anni 2014 e 2015 a condizione che si provveda “alla ridefinizione dei rapporti finanziari fra lo Stato e la Regione Siciliana ed al simmetrico trasferimento di funzioni ancora svolte dallo Stato nel territorio regionale”. Le modalità da seguire, per pervenire a tale ridefinizione e al trasferimento delle funzioni sono quelle previste dallo

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Statuto, e quindi attraverso la Commisione paritetica, secondo la logica pattizia, nonché quelle contenute nel D. Lgs. n. 241/2005, cioè attraverso il citato decreto dirigenziale; d) dal 1° gennaio 2016 (secondo periodo del comma 5 dell’art. 11) è sospesa l’efficacia delle disposizioni che prevedono l’attribuzione di somme alla Regione per gli anni 2013, 2014 e 2015 sino a quando non sia completata la procedura di cui alla precedente lettera c), cioè sino a quando non siano ridefiniti i rapporti finanziari tra lo Stato e la Regione e non sia avvenuto il trasferimento alla Regione di funzioni ancora svolte dallo Stato nel territorio siciliano. Ne consegue che, se al 1° gennaio 2016, per una qualsiasi ragione, non siano state ancora di fatto corrisposte alla Regione le somme dovute per gli anni 2013, 2014 e 2015, tali somme, quand’anche già quantificabili, non potranno più essere erogate alla Sicilia sino a quando (e potrebbero trascorre lunghissimi anni o decenni) non sia completata la citata procedura; e) alla copertura degli oneri a carico dello Stato per gli anni 2013, 2014 e 2015 (comma 3 dell’art. 11) si provvede: 1) con la conseguente riduzione di talune autorizzazioni di spesa, e precisamente quelle di cui all’art. 1, comma 114, terzo periodo della L. 23 dicembre 2005, n. 266, e all’art. 5, comma 3/ter del D.L. 30 settembre 2005, n. 203, entrambe relative all’erogazione in favore della Regione Siciliana del contributo di solidarietà nazionale previsto dall’art. 38 dello Statuto; 2) con l’utilizzo delle risorse statali spettanti alla Regione Sicliana, ai sensi dell’art. 61, comma 2, del D. Lgs. 31 marzo 1998, n. 112, per investimenti nell’edilizia agevolata. Va segnalato che il citato comma 3 dell’art. 11 prevede la copertura non soltanto per l’anno 2013, per il quale nel comma 1 è determinato l’importo in via forfettaria di € 49.000.000,00, ma anche per gli anni 2014 per la somma di € 50.200.000,00 e 2015 per l’ammontare di € 52.800.000,00, per i quali la quantificazione del gettito è rimessa al citato decreto dirigenziale. Ne consegue che mentre la copertura per l’anno 2013 è integrale e a titolo definitivo, quella per gli anni 2014 e 2015 ha carattere meramente previsionale.

5 Osservazioni critiche

La disciplina contenuta nell’art. 11 del D.L. n. 35/2013, esposta nel paragrafo precedente, si rivela complessa e articolata. Le norme si presentano di difficile lettura e suscitano non poche perplessità, anche sotto il profilo della legittimità costituzionale. Valgano le seguenti considerazioni: 1) l’utilizzo del decreto legge è da censurare sotto il profilo della legittimità costituzionale. Appare estremamente difficile sostenere che si sia di fronte ad un caso straordinario di necessità e d’urgenza ai sensi dell’art. 77 della Costituzione: si tratta di norme di attuazione dello Statuto della Regione Siciliana vigente sin dal 1946. Il ricorso al Decreto legge poteva considerarsi costituzionalmente legittimo ove fosse stata disposta l’erogazione immediata

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di somme, dallo Stato alla Regione, a titolo provvisorio e salvo conguaglio, ai sensi dell’art. 37 dello Statuto; 2) trattandosi di norme di attuazione dello Statuto in materia finanziaria, esse andavano determinate dalla Commissione paritetica di cui all’art. 43 del medesimo Statuto. Il mancato intervento di tale Commissione dà luogo alla censura di illegittimità costituzionale per contrasto con il citato art. 43, che, si ripete, è norma di rango costituzionale. Sono, infatti, certamente norme di attuazione dello Statuto, sia quella che fissa in modo forfettario l’importo dovuto dallo Stato per il 2013, sia quella che integra il dettato del D. Lgs. n. 241/2005, a suo tempo emanato a seguito delle determinazioni della Commissione paritetica, fissando il termine di 30 giorni dalla data di entrata in vigore del Decreto legge per l’emanazione del più volte citato decreto dirigenziale. Lo Stato, in definitiva, ha operato autonomamente attraverso lo strumento del Decreto legge, al di fuori della logica pattizia che sta alla base dei rapporti tra lo Stato e la Regione Siciliana; 3) la “ridefinizione” dei rapporti finanziari tra lo Stato e la Regione Siciliana, prevista a decorrere dal 2016 investe tutti i rapporti finanziari, nel loro complesso, disciplinati a livello di principi dagli artt. 36, 37 e 38 dello Statuto. La norma che prevede tale “ridefinizione” è meramente programmatica per lo Stato, ove si consideri che, comunque, secondo la logica pattizia tale “ridefinizione” non può che avvenire attraverso la Commissione paritetica; 4) anche la previsione del simmetrico trasferimento di funzioni è da ritenere, per le stesse ragioni, norma di natura programmatica. Va segnalato che qui si usa il termine “funzioni” e non “competenze”, locuzione quest’ultima adottata nel D. Lgs. n. 241/2005, con esclusivo riferimento alle entrate da percepire da parte della Regione, e indicativa esclusivamente, secondo l’autorevole interpretazione della Corte Costituzionale, del servizio della riscossione dell’imposta relativa alle quote di reddito riferibili agli stabilimenti ed impianti situati nel territorio della Sicilia. Il termine “funzioni”, collegato ai rapporti finanziari tra lo Stato e la Regione nel loro complesso, lascia chiaramente intendere che, contemporaneamente alla ridefinizione di tali rapporti, dovranno essere trasferite alla Regione le funzioni, con le conseguenti spese, che ad essa competono in virtù dello Statuto e che, alla data del trasferimento, siano ancora svolte dallo Stato; 5) la sospensione, a far data dal 1° gennaio 2016, dell’efficacia delle disposizioni applicabili per gli anni 2014 e 2015, si traduce in una pesante sollecitazione nei confronti della Regione ad accogliere le proposte dello Stato in tema di ridefinizione complessiva dei rapporti finanziari e di trasferimento di funzioni ancora svolte dallo Stato nel territorio regionale. Si assiste ad una manifesta forzatura della logica pattizia; 6) la disciplina della copertura degli oneri conseguenti alla futura restituzione alla Regione delle imposte, che verranno riscosse dallo Stato, sulle quote di

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reddito riferibili gli stabilimenti ed impianti in Sicilia, merita di essere ampiamente criticata. Lo Stato si propone di restituire le somme dovute ai sensi dell’art. 37 dello Statuto riducendo, nel contempo, i debiti nei confronti della stessa Regione Siciliana derivanti da pregresse leggi. Si dà formalmente applicazione all’art. 37 dello Statuto e nel contempo si nega attuazione a leggi pregresse, creando un clima di manifesta incertezza nei rapporti tra lo Stato e la Regione Siciliana e impedendo di fatto a quest’ultima una corretta programmazione. In particolare, la riduzione del contributo di solidarietà nazionale, previsto dall’art. 38 dello Statuto e fissato dall’art. 1, comma 114, della L. 23 dicembre 2005, n. 266, comporta la violazione del citato art. 38, che è norma di rango costituzionale. Se, infatti, nel 2005 il contributo è stato quantificato in una determinata misura, ritenuta adeguata per consentire l’esecuzione di lavori pubblici, la successiva riduzione ad opera dell’art. 11, comma 3, del D.L. n. 35/2013 è prova della inadeguatezza del contributo e quindi della violazione dell’art. 38 dello Statuto. Va segnalato, altresì, che la riduzione di tale contributo al fine di consentire allo Stato di corrispondere le somme dovute ai sensi dell’art. 37 dello Statuto, comporta di fatto un mutamento di destinazione degli importi che percepirà la Regione, da spese di investimento a spese correnti; 7) se un merito può essere riconosciuto alle norme emanate nel 2013, è quello non di aver consentito l’applicazione, secondo modalità certe e sicure, dell’art. 37 dello Statuto, ma di aver semplicemente portato all’attenzione degli organi competenti il tema della definizione dei rapporti finanziari, nel loro complesso, tra lo Stato e la Regione Siciliana. In una prospettiva di soluzione vanno tenute in considerazione anche le norme in tema di federalismo fiscale contenute nella legge n. 42/2009 e in particolare quelle inserite nell’art. 27 dedicato al coordinamento della finanza delle Regioni a Statuto speciale. C’è da augurarsi che in tempi brevi si possa pervenire ad una chiara e definitiva disciplina dei rapporti tra lo Stato e la Regione Siciliana, nell’interesse delle due parti, e si possano per il futuro evitare le controversie, in passato frequenti, davanti alla Corte Costituzionale.

6 Notazioni conclusive

Nessuno dei provvedimenti recanti norme di attuazione dell’art. 37 dello Statuto della Regione Siciliana, compreso il più recente del 2013, si rivela adeguato a consentire la piena e definitiva applicazione della prescrizione statutaria. Nessuno dei provvedimenti contiene una disciplina esaustiva, suscettibile di consentire l’effettiva percezione delle somme spettanti alla Regione. In ogni provvedimento si rinvia ad atti successivi, legislativi o amministrativi, sistematicamente mai emanati.

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Le espressioni utilizzate in tali provvedimenti sono sempre le stesse, quelle contenute nell’art. 37 dello Statuto, senza alcuna specificazione, ad eccezione di quella introdotta dall’art. 7 del D.P.R. n. 1074/1965, in cui è precisato che le imprese industriali e commerciali possono essere sia private che pubbliche. Dopo ben 65 anni dall’entrata in vigore dello Statuto si ha la netta sensazione che è mancata e manchi tuttora la “volontà politica”, rispettosa della logica pattizia, di applicare il più volte citato art. 37. Certamente la parte che non ha interesse o comunque ha un minore interesse a dare attuazione all’art. 37 è lo Stato. Quest’utlimo infatti ha riscosso da sempre tutte le imposte sui redditi prodotti dalle imprese che hanno la sede legale fuori dal territorio della Sicilia, compresa la parte riconducibile agli stabilimenti ed impianti in Sicilia, imposte certamente di maggiore entità rispetto a quelle interamente riscosse dalla Regione sui redditi delle imprese aventi la sede centrale in Sicilia e stabilimenti fuori dal territorio dell’isola. Ne consegue che una qualsiasi attuazione dell’art. 37 dello Statuto si traduce in una restituzione di somme alla Regione per il futuro e dovrebbe altresì comportare per il passato la corresponsione di un importo, sia pure forfettariamente determinato. L’unica norma, immediatamente operativa, che potrebbe comportare l’effettivo incasso di somme da parte della Regione è quella contenuta nel secondo periodo del primo comma dell’art. 11 del D.L. n. 35/2013, che prevede l’erogazione da parte dello Stato della somma, determinata forfettariamente, di € 49.000.000,00 per l’anno 2013. Ma la norma è suscettibile di censura costituzionale, perché la quantificazione è unilaterale, esclusivamente ad opera dello Stato, e quindi in violazione dell’art. 43 dello Statuto che prevede l’intervento della Commissione paritetica. Chi scrive non è a conoscenza di scritti che abbiano per oggetto l’esame dell’art. 37 dello Statuto e delle norme di attuazione che si sono susseguite nel tempo. Non resta che tentare un’interpretazione dell’art. 37 dello Statuto tale da consentire la sua applicazione, tenendo conto della struttura del sistema tributario oggi vigente e delle odierne modalità di riscossione delle imposte sui redditi. La locuzione “imprese industriali e commerciali” va intesa in senso soggettivo: si tratta dei soggetti, siano essi persone fisiche o enti collettivi di qualsiasi natura (società di persone o di capitali, fondazioni, associazioni, consorzi, etc…), con o senza personalità giuridica, privati o pubblici, che svolgendo in via esclusiva, principale o marginale, un’attività commerciale, producono reddito d’impresa ai sensi dell’art. 55 e seguenti del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 recante il Testo Unico delle imposte sui redditi. L’art. 37 dello Statuto non distingue tra i soggetti che svolgono l’attività d’impresa: ne consegue che l’interprete a sua volta non è abilitato ad operare distinzioni e quindi non può limitare, sotto il profilo soggettivo, la sfera di applicazione della norma.

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La circostanza che nell’art. 37 dello Statuto è usata l’espressione “imprese industriali e commerciali” non può indurre a ritenere che si debbano ricomprendere solo le imprese impegnate nella produzione e nello scambio di beni, con esclusione di quelle che forniscono servizi. Invero l’uso del termine “commerciali” evoca l’art. 2195 del Codice civile e ricomprende quindi anche le attività destinate alla produzione di servizi. Una corretta lettura consente di non escludere nessuna delle attività produttive di reddito d’impresa, da sottoporre, in quanto tale, a tassazione secondo la disciplina vigente. I tributi interessati sono l’IRPEF e l’IRES nonché le imposte sostitutive di esse che abbiano per oggetto redditi d’impresa. Nessun problema, ai fini della distribuzione del gettito tra lo Stato e la Regione, si pone per l’IRES e per le imposte sostitutive atteso che si tratta di tributi proporzionali. Con riguardo all’IRPEF, che è un tributo progressivo, spetterà alla Regione una quota corrispondente alla percentuale che rappresenta il reddito riferibile agli stabilimenti e impianti situati in Sicilia rispetto al reddito complessivo imponibile al quale si applicano le aliquote del tributo. Non è agevole cogliere il significato che oggi possono assumere i termini “stabilimenti” e “impianti” adottati nello Statuto nel 1946. Non appare utilizzabile la nozione di stabile organizzazione che risponde ad altre esigenze, presenta aspetti sia internazionalistici che fiscali, investe il tema della doppia imposizione e solleva problematiche che riguardano anche la possibile autonoma soggettività passiva. “Stabilimenti ed impianti” stanno ad indicare strutture stabili, tendenzialmente durevoli nel tempo, senza altra particolare caratterizzazione, destinate ad essere utilizzate per lo svolgimento, con continuità, di un’attività produttiva di reddito d’impresa. Si tratta di spazi e attrezzature che hanno una specifica destinazione. La presenza della struttura sul territorio della Sicilia segnala la produzione di ricchezza all’interno di tale territorio e quindi l’idoneità del reddito, ove esistente, ad essere sottoposto a tassazione con gettito da far confluire nelle casse della Regione affinchè concorra alla copertura delle spese di quest’ultima. Tale conclusione appare coerente con la logica che informa l’intero Statuto, caratterizzata da una spiccata autonomia sia sul versante delle entrate che su quello delle spese. Se il gettito delle imposte sui redditi prodotti in Sicilia confluisce interamente nelle casse della Regione, non vi è motivo per escludere che alla stessa possano essere destinati i tributi commisurati al reddito riferibile alle strutture presenti in Sicilia, ancorché appartenenti a soggetti che hanno la sede fuori dal territorio regionale. L’espressione “sede centrale” va intesa come domicilio fiscale che ai fini della applicazione delle imposte sui redditi, ai sensi dell’art. 58 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, coincide, salvo casi eccezionali, con la residenza anagrafica per le persone fisiche e con la sede legale per i soggetti diversi dalle persone fisiche. In definitiva, l’art. 37 dello Statuto intende fare

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riferimento a quelle strutture situate in Sicilia, in cui si produce reddito d’impresa, appartenenti a soggetti che hanno il domicilio fiscale fuori dal territorio regionale. Merita di essere affrontato, infine, il problema della quantificazione della quota del reddito d’impresa riferibile agli stabilimenti ed impianti situati in Sicilia. L’economia aziendale conosce una pluralità di metodi, più o meno complessi, per calcolare il reddito riferibile alle diverse unità produttive che fanno capo allo stesso soggetto. Non compete a chi scrive individuare il metodo più corretto. Al fine di evitare che la ricerca del criterio più idoneo possa contribuire a rinviare ulteriormente nel tempo l’applicazione dell’art. 37 dello Statuto, sia consentito proporre l’adozione della regola già normativamente prevista ai fini dell’IRAP per la distribuzione della base imponibile quando l’attività è esercitata nel territorio di più regioni. Tale regola è contenuta nell’art. 4, comma 2, del D. Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446 e fa riferimento, sostanzialmente, alle retribuzioni corrisposte al personale addetto con continuità nelle strutture presenti in ciascuna regione. In tale norma si fa esplicito riferimento agli “stabilimenti”, stesso termine utilizzato dall’art. 37 dello Statuto, oltre che a cantieri, uffici o basi fisse operanti per un periodo non inferiore a tre mesi nel territorio di ciascuna regione. Il criterio valevole ai fini dell’IRAP ben si presta, per il riferimento alla stabilità ed alla continuità, ad essere utilizzato per l’applicazione dell’art. 37 dello Statuto. L’utilizzo del parametro delle retribuzioni del personale dipendente ben si collega alla previsione contenuta nell’art. 7 del D.P.R. n. 1074/1965, secondo la quale spettano alla Regione i tributi sui redditi di lavoro dei dipendenti addetti alle strutture situate nel territorio della Sicilia. Il compito della distribuzione del reddito d’impresa e della relativa imposta, tra la parte riferibile agli stabilimenti ed impianti situati in Sicilia e la restante parte, non può che essere attribuito al soggetto che produce il reddito che, alla stessa stregua di quanto avviene ai fini dell’IRAP per la distribuzione del valore della produzione netta tra le diverse Regioni, vi provvederà in seno alla dichiarazione dei redditi. Oggi la modalità privilegiata di riscossione, fatto salvo il caso patologico della successiva iscrizione a ruolo, è quella del versamento diretto preceduta dalla quantificazione, ad opera dello stesso contribuente della base imponibile e del tributo dovuto. Ne consegue che tale distribuzione non può essere attribuita agli uffici fiscali, che potranno intervenire solo in sede di controllo della dichiarazione; né può essere utilizzato in via ordinaria lo strumento dell’iscrizione a ruolo come avveniva in passato.

Prof. Filippo Sgubbi Professore Università di Bologna

Relazione sui profili penali*

* La relazione, non pervenuta in tempo per l’inserimento nel volume, appena disponibile verrà pubblicata sul sito www.uckmar.net

Dott. Alberto Vanni

La stabile organizzazione. Gli orientamenti della giurisprudenza dell’ultimo decennio

SOMMARIO: 1 Premessa - 2 Nozione di stabile organizzazione - 3 Tipi di stabile organizzazione - 4 Stabile organizzazione materiale - 5 Stabile organizzazione personale - 6 Stabile organizzazione ai fini Iva - 7 Rimborsi Iva - 8 Onere della prova dell’esistenza di una stabile organizzazione - 9 Elementi indiziari

1 Premessa

La presente rassegna tratta l’ultimo decennio di giurisprudenza italiana sulla stabile organizzazione dalle note sentenze Philip Morris1 a oggi e vuole rimanere aderente alle pronunce giurisprudenziali preferendo riportane i passaggi più interessanti piuttosto che riferirne de relato il contenuto perdendo la genuinità della riflessione dell’interprete.

2 Nozione di stabile organizzazione

Anzitutto la stabile organizzazione (di seguito, S.O.) è un concetto fiscale nel senso che la relativa nozione rileva agli esclusivi fini del diritto tributario. [S]otto il profilo giuridico - infatti - la stabile organizzazione non è un'entità autonoma e distinta rispetto alla casa madre della quale costituisce una mera diramazione amministrativa, ma dal punto di vista fiscale è considerata un'entità separata2. E lo specifico fine perseguito dal diritto tributario è quello di identificare un centro di imputazione di situazioni giuridiche dell'impresa non residente, sia per la definizione del presupposto dell'imposta, sia per gli obblighi strumentali all'applicazione del tributo. Il concetto di stabile organizzazione viene utilizzato per determinare il diritto di uno Stato contraente di assoggettare a tassazione gli utili di un'impresa avente sede nell'altro Stato contraente. Questa prospettiva è finalizzata a consentire allo Stato in cui la stabile organizzazione è localizzata di esercitare i propri diritti impositivi sul reddito prodotto nel proprio territorio3. Con la S.O. non si è voluto elaborare un concetto di imputazione e localizzazione di materia imponibile che sia polivalente ed estendibile a tutti i rapporti tributari, ma si è inteso confinare l’applicazione di questa nozione ai

1 V. Cass. 7 marzo 2002, n. 3367 , caso Arizona Tobacco Products Gmbh & Co, e Cass. 25 luglio 2002, n. 10925, caso Intertaba SpA, in Big Suite IPSOA. 2 V. Commiss. Trib. Reg. Lombardia, Sez. XVIII, sent., 12 giugno 2012, n. 62, in Big Suite IPSOA. 3 V. Commiss. Trib. Reg. Lombardia n. 62/2012, cit.

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soli rapporti di diritto tributario internazionale, volti a identificare non un soggetto del diritto e ma un mero centro di imputazione di redditi che l’impresa estera percepisce sul territorio dello Stato. [D]el resto, l'ormai risalente e non contraddetta giurisprudenza delle SS.UU. - afferma la Cassazione4 - è nel senso che la qualificazione di reddito quale reddito d'impresa dipende dal requisito soggettivo dell'esercizio di impresa commerciale da parte del percipiente, a prescindere da qualsiasi altro diverso requisito (essendo la ricorrenza della stabile organizzazione semplice condizione di localizzazione del reddito medesimo e di sua imponibilità in Italia) ed, inoltre, che, per poter scindere (e diversificare nel trattamento fiscale) le componenti del reddito d'impresa di un soggetto straniero e privo di autonoma organizzazione nel territorio dello Stato, è necessaria una specifica disposizione di legge (v. la previsione la previsione di cui al d.p.r. n. 598 del 1973, art. 22, comma 2, nonché quella di cui al d.p.r. n. 597 del 1973, art. 19, comma 1, n. 9, introdotta dal d.p.r. n. 897 del 1980, art. 31, e, con riferimento al successivo regime di cui al d.p.r. n. 917 del 1986, la previsione di cui all'art. 112, comma 2)5. La necessità di elaborare questa nozione è stata avvertita dalla comunità internazionale desiderosa di individuare criteri generalmente condivisi di ripartizione del potere impositivo fra gli Stati. In tal modo un’impresa residente in uno Stato ed operante in uno diverso Stato è tenuta ad assolvere l’obbligazione tributaria in detto secondo Stato a condizione che integri i requisiti della stabile organizzazione. Sarà la disciplina della S.O. a stabilire se la materia imponibile generata dall’impresa estera nello Stato in cui non è residente sia iva sottoposta a tassazione. Al riguardo, nella tassazione dei redditi delle società e degli enti non residenti il criterio di collegamento tra ordinamento tributario e fattispecie regolata, a differenza di quanto accade per le società residenti, è quello "reale", fondato, cioè, sul principio dell'imposizione su base territoriale, desumibile dal d.p.r. n. 917 del 1986, art. 20 (ora 23). Ed invero, dal combinato disposto degli artt. 20 ed 87 del decreto cit. si considerano prodotti nel territorio dello Stato i redditi di impresa che derivino da attività svolte nel territorio nazionale mediante "stabile organizzazione", la quale - proprio in quanto dato fenomenico a carattere non transeunte - è di per sé idonea a dare luogo ad una regolarità e sistematicità di produzione di redditi nel territorio nazionale, che sola vale a giustificare l'assoggettamento della società estera ad imposizione in Italia, quanto al reddito di impresa6.

4 Cfr. Cass. 7184/83, in Big Suite IPSOA. 5 Cfr. Cass. sent., 21 aprile 2011, n. 9197, in Big Suite IPSOA. 6 Cfr. sentenza di Cass. 17 gennaio 2013, n. 1118, in Big Suite IPSOA.

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Con ciò non si vuole lasciare intendere che se un’impresa estera genera reddito7 ai fini delle imposte dirette (o fatturato ai fini Iva) in uno Stato in cui non ha residenza, si rendono applicabili le regole in materia di S.O. in detto secondo Stato su tutto il reddito (o fatturato) ivi generato, perché la nozione di S.O. non ha alcun potere di attrazione8. Occorre, come meglio si vedrà in seguito, vagliare volta per volta se la materia imponibile localizzata entro i confini di uno Stato sia imputabile ad un determinato centro d’affari, riferibile all’impresa estera, o sia direttamente riferibile alla stessa impresa estera. L’attenzione del fenomeno non è solo sul centro d’imputazione/localizzazione e sulle sue caratteristiche ma è sul legame sotteso fra la materia imponibile individuata e il suo centro d’imputazione. Un’impresa estera, infatti, può anche avere una stabile organizzazione in Italia ma non necessariamente la ricchezza ivi generata è necessariamente riconducibile alla medesima stabile organizzazione e non alla casamadre estera. Ciò dipenderà dalla portata interpretativa che volta per volta sarà data alla nozione di stabile organizzazione al fine di ricomprendervi oppure escludervi i componenti reddituali generati dall’impresa estera.

3 Tipi di stabile organizzazione

Fin ora si è parlato al singolare di stabile organizzazione ma occorre precisare che non esiste un unico tipo di S.O. ma ve ne sono diversi. Innanzitutto, avendo al riguardo al tipo di imposta considerata è opportuno effettuare una prima classificazione distinguendo la S.O. ai fini delle imposte dirette e la S.O. ai fini Iva. Nel primo caso, ossia ai fini dell’imposte dirette (Ires e Irap), occorre risalire alla nozione di S.O. elaborata in sede OCSE, poi mutuata nell’ordinamento nazionale, secondo cui essa si distingue a sua volta in due sottotipi: l’una definita S.O. materiale, l’altra definita S.O. personale. [L] a nozione in parola, nell'accezione che ne fornisce il modello OCSE ricomprende - per vero - due ampie categorie di ipotesi: 1) quelle riconducibili alla figura di stabile organizzazione "materiale" (par. 1-4 dell'art. 5 modello OCSE), contraddistinta dall'esistenza di una struttura

7 V. Cass. 21 aprile 2011, n. 9166 secondo cui si è "escluso che la struttura organizzativa debba essere di per sè produttiva di reddito, ovvero dotata di autonomia gestionale o contabile (Cass. n. 7682, n. 7689 e n. 10925 del 2002)”. 8 Salvo quanto si vedrà al paragrafo 5 in materia di Iva e al paragrafo 6 in materia di rimborso Iva richiesto da un’impresa estera che deve essere priva in Italia di stabile organizzazione e/o rappresentante fiscale.

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fissa, dotata di beni materiali e di personale9, mediante la quale l'impresa estera svolge la propria attività economica nel territorio dello Stato; 2) quelle riconducibili alla nozione di stabile organizzazione "personale" (par. 5-6 dell'art. 5 modello OCSE), caratterizzata dalla presenza di un'attività negoziale a favore dell'impresa estera, non sporadica od occasionale, posta in essere con carattere di abitualità da intermediari qualificati, aventi il potere di vincolare l'impresa estera, i quali concludano in nome e per conto di tale impresa contratti diversi da quelli di acquisto di beni10. Analogamente, ai fini della normativa interna, la definizione [di S.O., n.d.r.] è attualmente - a seguito della novella del 2003 (d.lgs. n. 344 del 2003, in vigore dell'1.1.2004) - contenuta nel d.p.r. n. 917 del 1986, art. 162, che ne individua due forme: a) la prima, consistente in "una sede fissa di affari per mezzo della quale l'impresa non residente esercita in tutto o in parte la sua attività sul territorio dello Stato" (comma 1); b) la seconda, che si traduce nell'esistenza, nel territorio dello Stato che esercita il potere impositivo, di un "soggetto residente o non residente che nel territorio dello Stato abitualmente conclude in nome dell'impresa contratti diversi da quelli di acquisto di beni" (comma 6)11. La pressoché identità di disciplina interna e internazionale in materia di S.O. è ormai pacifico, atteso che la norma ha recepito - dunque - la definizione che della "stabile organizzazione" aveva fornito il modello Ocse contro le doppie imposizioni, dalla quale il concetto in parola deve essere desunto - secondo un diffuso orientamento dottrinale e giurisprudenziale - in relazione

9 In realtà, come meglio si vedrà al paragrafo 5, per la configurabilità di una S.O. materiale non è necessaria la presenza di personale ma è sufficiente la presenza di locali a disposizione dell’impresa estera. 10 V. Cass. n. 1118/2013 cit. Un’analoga distinzione è operata con riguardo alla nozione convenzionale di S.O. nel caso della Convenzione Italia- Svizzera per evitare le doppie imposizioni, firmata a Roma il 9 marzo 1976, e ratificata con legge n. 943 del 23 dicembre 1978, in vigore dal 27 marzo 1979, la Cass. sent., 9 aprile 2010, n. 8488 afferma che è infatti univoca la interpretazione dell'art. 5 della Convenzione italo - svizzera [...] consistente nella previsione di una duplice ipotesi di sussistenza di una stabile organizzazione: - una tratta da elementi oggettivi e materiali, di cui al comma 2 (con le precisazioni di cui al co. 3); - una seconda di cui al comma 4, derivata dalla presenza nel territorio di uno stato contraente di un rappresentante di una impresa dell'altro stato contraente dotato di determinati poteri.

Ne deriva che non è necessaria la sussistenza di entrambe le ipotesi considerate, nel senso che la esistenza anche di una sola di esse è idonea a concretizzare il presupposto impositivo. 11 V. Cass. n. 1118/2013 cit.

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alle fattispecie, come quella oggetto del presente giudizio, insorte prima della suindicata riforma del 2003. E così pure deve farsi riferimento all’elaborazione internazionale a seguito di detta riforma del 2003 perché come appunto dispone l’art. 4, comma 1, lett. a), della legge delega di tale riforma, la nozione interna di S.O. si richiama ai criteri desumibili dagli accordi internazionali contro le doppie imposizioni. Con riferimento all’Iva, come si vedrà meglio al paragrafo 5, la S.O. si configura solo se sussistono congiuntamente i predetti requisiti materiale e personale. La Suprema Corte, sulla scorta della giurisprudenza comunitaria, ha - infatti - più volte statuito (sentenze n. 3367, 3368 e 7682/ 2002), che l'esistenza del duplice presupposto è richiesta soltanto per la configurazione di un “centro di attività stabile” ai fini dell'Iva, mentre tale regola non opera ai fini dell'imposizione sul reddito, per la quale è configuratale anche, oltre a quella c.d. “materiale”, la c.d. “stabile organizzazione soggettiva o personale”12. Più precisamente, in tema di Iva, la nozione di stabile organizzazione di una società straniera in Italia va desunta dall'art. 5 del modello di convenzione Ocse contro la doppia imposizione e dal suo commentario, integrata con i requisiti prescritti dall'art. 9 della sesta direttiva CEE n. 77/388 del Consiglio del 17 maggio 1977 per l'individuazione di un centro di attività stabile, il quale, così come definito dalla giurisprudenza comunitaria, consiste in una struttura dotata di risorse materiali ed umane, e può essere costituito anche da un'entità dotata di personalità giuridica, alla quale la società straniera abbia affidato anche di fatto la cura di affari (con l'esclusione delle attività di carattere meramente preparatorio o ausiliario, quali la prestazione di consulenze o la fornitura di "know how").13 Secondariamente, per distinguere il caso in cui la S.O. si nasconda o meno all’interno di un soggetto del diritto tributario che si è palesato al Fisco italiano, si è elaborata la nozione di S.O. occulta.

12 V. Cass. sent. 9 aprile 2010, n. 8488, in Big Suite IPSOA. 13 V. Cass. pen. Sez. III, 29 maggio 2012, n. 20676, in Big Suite IPSOA. Nello stesso senso si segnalano altre sentenze fra cui Cass. 21 aprile 2011, n. 9166, che adopera pressoché le stesse parole, secondo cui la nozione di stabile organizzazione di una società straniera in Italia va desunta, come costantemente affermato da questa Corte (ex multis, Cass. n. 17206 del 2006 e n. 3889 del 2008), "dall'art. 5 del modello di convenzione OCSE contro la doppia imposizione e dal suo commentario, integrata con i requisiti prescritti dall'art. 9 della sesta direttiva CEE n. 77/388 del Consiglio del 17 maggio 1977 per l'individuazione di un centro di attività stabile, il quale, così come definito dalla giurisprudenza comunitaria, consiste in una struttura dotata di risorse materiali ed umane, e può essere costituito anche da un'entità dotata di personalità giuridica, alla quale la società straniera abbia affidato anche di fatto la cura di affari (con l'esclusione delle attività di carattere meramente preparatorio o ausiliario, quali la prestazione di consulenze o la fornitura di "know how").

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Più precisamente, se l’impresa estera non opera in Italia per il tramite di una o più consociate o collegate14 residenti, si possono configurare15 in Italia i tipi ordinari di S.O. materiale, personale e ai fini Iva. Se, invece, l’impresa estera opera in Italia per il tramite di una o più consociate16 o collegate residenti, presso le stesse si possono nascondere altrettante o poù S.O. occulte a cui è riconducibile l'attività compiuta dalla struttura nazionale al fuori del proprio ordinary business nel suo complesso17. Tuttavia, affinché la struttura nazionale non venga considerata dipendente (e cioè una stabile organizzazione) occorre: a) che essa abbia un'indipendenza giuridica ed economica; b) in secondo luogo, quando agisce per altra impresa, deve farlo nell'ambito del proprio ordinario settore di affari "... in the ordinary course of his business ..." 18. Ma sarebbe scorretto ritenere, come alle volte è avvenuto, che tutto quanto viene svolto da un’impresa estera per il tramite di sue consociate residenti e che ecceda l’ordinary business o oggetto sociale delle stesse consociate residenti, costituisca stabile organizzazione occulta19. Anche per detta ultima 14 Qui non si fa riferimento alla nozione civilistica di collegamento di cui all’art. 2359 c.c., ma ci si riferisce ad una nozione ampia comprensiva di qualsiasi rapporto - di fatto e di diritto - fra la struttura nazionale e l’impresa estera. 15 Cfr. Cass. 21 aprile 2011, n. 9166, in Big Suite IPSOA, secondo cui il concetto di stabile organizzazione "non è incompatibile con la personalità giuridica di cui la stessa sia eventualmente fornita, poiché l'autonoma soggettività giuridica non assume rilievo quanto all'imputazione dei rapporti fiscali, per cui non è possibile dubitare dell'attribuibilità ad una società, ai fini dell'Iva, del ruolo - palese od occulto - di stabile organizzazione materiale di soggetto non residente, soltanto in ragione della sua personalità giuridica" (Cass. n. 6799 del 2004). 16 Cfr. Cass. sent., 22 luglio 2011, n. 16105, in Big Suite IPSOA, secondo cui sul piano giuridico nulla osta a che anche una società di capitali possa fungere da stabile organizzazione di società estera. 17 Cfr. secondo la sentenza di Cass. 7 marzo 2002, n. 3367, in Big Suite IPSOA. Nel citato passaggio la sentenza afferma altresì che l'indagine, soprattutto quando mirante ad accertare l'esistenza di una stabile organizzazione occulta o, comunque, non formalmente costituita, deve quindi riguardare l'attività compiuta dalla struttura nazionale al fuori del proprio ordinary business nel suo complesso. Sul piano della prova, ciò comporta che gli elementi rivelatori dell'esistenza di una stabile organizzazione devono essere considerati globalmente e nella loro reciproca connessione. 18 V. Cass. n. 3367/2002, cit. 19 La sentenza di Cass., 25 luglio 2002, n. 10925, in Big Suite IPSOA, sul punto afferma che secondo il Commentario al Modello OCSE (sub art. 5, paragrafo 4, punto 24) se un'impresa ha delegato ad una propria struttura funzioni di management, anche relativamente ad una limitata area di operazioni, gli affari regionali in tal modo condotti danno luogo ad un place of management, secondo il paragrafo 2, lettera a), del Modello di convenzione. L'indagine, soprattutto quando mirante ad accertare l'esistenza di una stabile organizzazione occulta o, comunque,

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tipologia di S.O., infatti, devono sussistere tutti i presupposti di almeno una delle S.O. ordinarie. Deve quindi configurarsi una stabile organizzazione materiale, personale o un centro di attività stabile rilevante ai fini Iva, con il solo ulteriore elemento caratterizzante che si deve trattare di una S.O. nascosta dietro lo schermo di un soggetto del diritto tributario residente, legato all’impresa estera20. Da qui l’evidente definizione di S.O. occulta. Da ultimo, a seconda del numero di imprese estere per cui la S.O. opera, si può configurare la c.d. S.O. plurima se le imprese estere sono due o più. Ciò può avvenire anche all’interno di un unico gruppo21. La Suprema Corte ha infatti elaborato il principio di diritto secondo cui una società di capitali con sede in Italia può assumere il ruolo di stabile organizzazione plurima di

non formalmente costituita, deve quindi riguardare l'attività compiuta dalla struttura nazionale al fuori del proprio ordinary business nel suo complesso. 20 Secondo la sentenza di Cass. n. 10925/2002 cit., il fatto che il Modello OCSE abbia espressamente inserito la cosiddetta anti-single entity clause o Antiorganschaftsklausel, a differenza di precedenti convenzioni contro la doppia imposizione (si veda l'art. 11, paragrafo 1, della Convenzione Italia e Francia 6 dicembre 1965, ratificata e resa esecutiva con L. 9 agosto 1967, n. 766) non deve, però, far dimenticare che il fenomeno delle stabili organizzazioni occulte trova un più favorevole terreno di coltura all'interno dei gruppi multinazionali, nei quali la strategia unitaria del gruppo può assumere forme di utilizzazione delle società controllate talmente penetranti da far diventare queste ultime, pur dotate di uno status di soggetti autonomi, vere e proprie strutture di gestione dell'impresa esercitata da altre società. [...] La giurisprudenza di questa Suprema Corte ha più volte escluso (sentenze 27 novembre 1987, nn. 8815 e 8820; 19 settembre 1990, n. 5580) che la struttura organizzativa de qua debba necessariamente essere di per sé produttiva di reddito ovvero dotata di autonomia gestionale o contabile, requisiti che invece hanno le succursali o sedi secondarie previste dall'art. 2506 del codice civile, le quali costituiscono solo una species tipica di stabile organizzazione. 21 Secondo la sentenza di Cass. n. 3367/2002, cit. pare, inoltre, fondato su un errore di prospettiva l'assunto, condiviso dai giudici di secondo grado, secondo cui non sarebbe ipotizzabile una organizzazione stabile di un gruppo di società. Tale assunto parte dall'ovvia constatazione che il gruppo come tale non può essere - almeno allo stato attuale dell'ordinamento italiano – un centro di riferimento globale di rapporti giuridici, anche sul piano dell'ordinamento tributario, ma non può condurre alla conclusione che una o più società del gruppo non possano esercitare un'attività di gestione (management) attraverso una struttura operante nello Stato della fonte, come parte integrante di un più vasto programma, facente capo ad un gruppo. [...] Quale necessaria premessa metodologica è necessario considerare che, secondo il Commentario al mod. O.C.S.E. (sub art. 5, par. 4, punto 24), se un'impresa ha delegato ad una propria struttura funzioni di management, anche relativamente ad una limitata area di operazioni, gli affari regionali in tal modo condotti danno luogo ad un place of management, secondo il par. 2, lett. a), del modello di convenzione.

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società estere appartenenti allo stesso gruppo e perseguenti una strategia unitaria22.

4 Stabile organizzazione materiale

Benché il comma 1 dell’art. 162 t.u.i.r. e l’art. 5 del Modello di convenzione Ocse prescrivano che per la sussistenza di una S.O. materiale è richiesta (i) l’esistenza di una sede d’affari, (ii) la fissità di tale sede, (iii) l’esercizio dell’attività d’impresa mediante la sede medesima23-24, non mancano in giurisprudenza pronunce oscillanti che aumentano o riducono il numero di tali requisiti. Così in un’occasione la Suprema Corte ha ritenuto che l’esercizio dell’attività d’impresa può essere anche solo potenziale, affermando che per l'imponibilità del reddito d'impresa del soggetto non residente, è necessaria quindi: una presenza che sia incardinata nel territorio dell'altro Stato contraente e dotata di una certa stabilità; una sede di affari capace, anche solo in via potenziale, di produrre reddito; un'attività autonoma rispetto a quella svolta dalla casa madre, dovendo aggiungersi che, ai fini dell'applicazione delle imposte dirette, la relativa indagine deve essere condotta non solo sul piano formale, ma anche - e soprattutto - su quello sostanziale (cfr. Cass. n. 20597 del 2011)25. Non mancano in giurisprudenza pronunce di avviso opposto che si concentrano, invece, su aspetti più formali di dettaglio. Così in un’altra occasione un giudice di prime cure ha ritenuto che una postazione lavorativa26 sembrerebbe configurare una S.O. materiale salvo poi richiedere l’ulteriore requisito dell’autonomia contabile affermando che la "stabile

22 V. Cass. n. 3367/2002, cit., che ha aggiunge che in tal caso la ricostruzione dell'attività posta in essere dalla società nazionale, al fine di accertare se si tratti o meno di attività ausiliaria o preparatoria, deve essere unitaria e riferita al programma del gruppo unitariamente considerato. 23 E. Della Valle, La nozione di stabile organizzazione nel nuovo Tuir, in Rass. trib., 2004, 1597. 24 In questi stessi termini si è espressa la Commiss. Trib. Prov. n. 32/2011 cit. secondo cui gli elementi essenziali che configurano la "stabile organizzazione materiale" sono: 1) l'esistenza di una sede di affari, 2) la sede d'affari deve essere fissa, 3) l'impresa non residente deve svolgere la propria attività in tutto o in parte per mezzo della sede fissa d'affari. V. anche. Commiss. Trib. Prov. Vercelli Sez. IV, sent., 28 aprile 2010, n. 39, in Big Suite IPSOA. 25 Cfr. Cass. n. 1103/2013 cit. 26 Nel caso trattato dalla citata pronuncia [l]a Società di diritto portoghese, per adempiere, all'incarico si era avvalsa dell'opera del Signor M.G.C. al quale veniva messo a disposizione una postazione di lavoro presso la sede della ITALBROKERS srl composta da una scrivana, un telefono fisso, un computer ed un fax.

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organizzazione" in stato estero, se non diversamente prescritto, deve essere dotata di autonomia contabile e di una forma di esistenza. Ciò comporta, a prescindere della forma realizzata, l'acquisizione del codice fiscale/partita IVA e, almeno, l'iscrizione al REA, elementi questi non rinvenuti presso la CCIAA dall'Ufficio né forniti dalla ricorrente27. Individuare una S.O. materiale è però facilitato grazie alle c.d. positive list e alla negative list contenute rispettivamente ai paragrafi 2 e 3 dell’art. 5 del Modello di Convenzione Ocse (o ai commi 2-3, quanto alla positive list, e ai commi 4-5, quanto alla negative list, dell’art. 162 Tuir). Così, ad esempio, è pacifico che ai fini delle imposte dirette, in forza dell'art. 162 Tuir, comma 2, lett. c), anche la presenza, sul territorio italiano, di un semplice ufficio (nella specie, il luogo fisico in cui il S. o chi per lui provvedeva alla "gestione globale" degli immobili) integra la "stabile organizzazione", idonea a determinare la soggettività tributaria passiva28. Ove però si configurino fattispecie complesse non chiaramente identificabili entro la prima o la seconda delle liste normativamente previste la Suprema Corte si avvale del Commentario al modello di Convenzione Ocse che con riguardo agli uffici prevede, più in generale (sub art. 5, par. 4, punto 24) che, se un'impresa con ramificazioni internazionali affida ad un'installazione funzioni di managing, e in particolare quelle di controllo e di coordinamento delle attività svolte dalla stessa impresa ("supervisory and co-ordinating functions for all the departments of the enterprise located within the region concerned"), a tale struttura non potrà essere riconosciuto lo status di agente indipendente, ma di un "ufficio", secondo l'ipotesi prevista alla lettera e) del catalogo contenuto nel par. 2 dell'art. 5, costituendo la detta attività una parte essenziale delle operazioni d'affari dell'impresa29. Con riguardo ai mezzi elettronici, è stato invece ritenuto che un c.d. Outsourcing Center, globalmente nella sfera fissa d'affari della società estera situato presso uffici siti in Italia costituisce una S.O. materiale. Per "sede d'affari" il Commentario comprende - infatti - ogni luogo, (con attrezzature ed altro); può trattarsi, in buona sostanza, ex plurimis di beni mobili o immobili situati nel territorio dello stato, con o senza presenza dell'elemento umano30. Sempre in tema di programmi elettronici, un server configura una stabile organizzazione quando è impiegato da parte del soggetto estero per la completa realizzazione dell'attività di impresa sul territorio ove il server è ubicato e quando è nella piena ed esclusiva disponibilità" del soggetto cui l'attività di impresa, globalmente considerata, è direttamente riferibile e 27 Cfr. Commiss. Trib. Prov. Genova Sez. IV, sent., 8 novembre 2012, n. 326, in Big Suite IPSOA. 28 V. Cass. civ. 27 novembre 2006, n. 25063, in Big Suite IPSOA. 29 Cfr. Cass. n. 3367/2002, cit. 30 V. Commiss. Trib. Prov. Milano Sez. III, 7 febbraio 2011, n. 32, in Big Suite IPSOA.

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quindi nel caso di specie non ricorrono le condizioni per configurare una stabile organizzazione mediante un server; rilevando tuttavia che il modello organizzativo adottato [era] molto vicino a quello tracciato dall'art. 5 del modello OCSE secondo cui è stabile organizzazione la sede fissa di affari in cui l'impresa esercita in tutto o in parte la sua attività con la duplice caratteristica dell'esistenza di una installazione fissa in senso tecnico (locali, materiali, attrezzature) e lo svolgimento, per mezzo di tale struttura, di una attività economica31. Riguardo, invece, all’acquisto e al possesso di immobili in Italia talune sentenze della Suprema Corte del 1987, relative alla cessione di un esteso appezzamento di terreno di interesse turistico hanno sostenuto che la possibilità di configurare una S.O. nell’acquisto e nel possesso di immobili in Italia deve escludersi “quando il possesso si esaurisca nella mera gestione dell’immobile (come accade, ad esempio, se l’acquisto realizzi unicamente un investimento di capitale), ma non quando l’immobile sia strumentale all’esercizio e dell’attività d’impresa ovvero costituisca esso stesso l’oggetto di un’attività d’impresa (come accade, ad esempio, nel caso in cui un suolo venga acquistato per lottizzarlo e rivenderlo ovvero, in generale, per lucrare la differenza di plusvalori attraverso la rivendita. Il requisito va allora ritenuto esistente non già per il possesso di bene immobile - che di per sé può assumere rilievo solo ai fini dell’elemento della stabilità dell’installazione in Italia - bensì in relazione all’attività che si svolge avendo la disponibilità dell’immobile, che vale ad individuare l’esistenza di una stabile organizzazione o perché di essa l’immobile costituisce uno degli elementi (ad esempio, sede di un’attività commerciale) o perché essa è necessariamente implicata dall’attività che ha ad oggetto l’immobile”32. Più recentemente in un obiter dictum di una recente sentenza sembra essersi persa la suesposta finezza concettuale affermando laconicamente che comprova la tesi della stabile organizzazione la comune struttura burocratica/amministrativa, atta a gestire l'aspetto immobiliare33. In un diverso caso in cui la sentenza di merito aveva, invece, ritenuto sussistente una stabile organizzazione in Italia di un impresa estera che affittava in Italia immobili e macchinari, la Cassazione ha rilevato che non per forza l’impresa estera ha ivi svolto attività commerciale ed ha ivi una S.O., rilevando, inoltre, che il luogo in cui il prestatore ha stabilito la sede della propria attività economica costituisce il punto di riferimento preferenziale della sua stabile organizzazione. E si può prendere in considerazione un altro centro di attività, a partire dal quale viene resa la prestazione di servizi o nel quale viene svolta l'attività di produzione, solo nel

31 V. Commiss. Trib. Reg. Marche, Sez. II, 24 giugno 2011, n. 44 in Big Suite IPSOA. 32 V. Cass., sez. I, 27 novembre 1987, nn. 8815 e 8820, in Big Suite IPSOA. 33 Cfr. C.T.P. Milano n. 32/2011, cit.

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caso in cui il riferimento alla sede non conduca ad una soluzione razionale dal punto di vista fiscale o crei un conflitto con un altro Stato membro34.

5 Stabile organizzazione personale

La Corte Suprema ha enunciato la ratio dell'estensione del concetto di "stabile organizzazione" alle ipotesi di persone che agiscono nel territorio dello Stato per conto dell'impresa estera. Essa risiede nella considerazione che la presenza di detta impresa in un determinato Stato, e la sua partecipazione alla vita economica che vi si svolge, può attuarsi - oltre che mediante una sede fissa di affari, con le dotazioni materiali suindicate - anche mediante un intermediario, o una rete di intermediari, che le consentano di svolgere la propria attività di impresa, ad onta dell'assenza, nel territorio in considerazione, di una stabile organizzazione "materiale"35. La predetta pronuncia indaga, poi, sulla relazione fra questa speciale ipotesi di S.O. e quella materiale e conclude che la convenzione contro le doppie imposizioni - prima ancora che venisse elaborata una nuova formulazione dell’art. 162 d.p.r. n. 917 del 1986, - ha, dunque, posto sullo stesso piano le due fattispecie, al fine di rendere fiscalmente neutra la scelta delle modalità con le quali la presenza dell'impresa estera all'interno dello Stato viene a determinarsi. D'altro canto, è di tutta evidenza che il limitare il potere impositivo in questione alla sola sussistenza di una stabile organizzazione "materiale", avrebbe dato luogo ad un abuso legislativo difficilmente giustificabile anche sul piano costituzionale, stante la suscettibilità anche dell'intermediazione negoziale "personale" suindicata a realizzare una presenza nel territorio nazionale, idonea a determinare la produzione di un reddito imponibile. Donde l'opzione - ora anche normativa - per una parificazione delle due ipotesi sul piano dell'imposizione, con riferimento al reddito di impresa prodotto in Italia in forza di attività esercitate, anche mediante meri intermediari, da società non residenti nel territorio nazionale. La sopracitata pronuncia ha, dipoi, elencato alcuni elementi sintomatici di una SO personale individuandoli, quanto meno, nei seguenti: a) svolgimento di un'attività contrattuale di rilievo economico significativo in Italia, ad opera della [società estera]; b) spendita del domicilio fiscale in Italia, da parte di detta società; c) perdurante residenza e domicilio in [Italia] del legale rappresentante e del procuratore ad acta della [società estera]; d) titolarità, in capo alla contribuente, di conti bancari e di dossier titoli in aziende di credito italiane; e) transito su detti conti di poste economicamente rilevantissime, connesse all'attività della società estera36.

34 V. Cass. 11 marzo 2003, n. 3570, in Big Suit IPSOA. 35 V. Cass. n. 1118/2013, cit., par. 3.2. 36 V. Cass. n. 1118/2013, cit.

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Sennonché poiché nessuno dei sopraelencati elementi colpisce nel segno in quanto non dimostra come richiedono le norme nazionali e internazionali che un agente concluda contratti in Italia per conto dell’impresa estera, ha comunque rilevato che è desumibile dagli elementi suesposti, se correttamente valutati in maniera globale e nella loro reciproca connessione, una stabile organizzazione di natura personale, che si concretava soprattutto nel compimento di atti di natura contrattuale da parte del legale rappresentante della società [estera]. In altre occasioni la S.C. non si accontentata di considerazioni generali fondate su taluni elementi astrattamente sintomatici e ha preferito verificare in concreto se l’agente ha effettivamente posto in essere un’attività negoziale per conto dell’impresa estera. Ai fini dell’accertamento dell’esistenza di una S.O. personale occorre, infatti, acclarare se l'agente operante in Italia abbia concluso contratti che vincolano l'impresa estera, indipendentemente dal fatto che quei contratti siano stati effettivamente conclusi "a nome dell'impresa"37. Può anche verificarsi la seguente ipotesi in cui è risultato che l'agente promuoveva e riceveva ordini che sono stati inviati direttamente ad un deposito dal quale i beni sono stati consegnati e dove la società estera regolarmente approvava le operazioni, sicché poteva concludersi che non vi era alcun "attivo coinvolgimento" della società committente nella conclusione dei contratti proposti dalla commissionaria38. Nella suddetta ipotesi sembrerebbe quindi che fosse solo l’operatore italiano a svolgere un ruolo attivo nella conclusione dei contratti e che invece la casamadre estera svolgesse un ruolo passivo. Da qui la qualifica dell’operatore interno quale S.O. della società estera. Ma altre volte è, piuttosto, necessario che solo l’attività svolta dalla casamadre sia attiva e che l’attività svolta dall’intermediario residente sia di mero nuncius o di segretario che riceve le dichiarazioni di volontà dei clienti e al più le riferisce alla casamadre estera. Altre volte ancora si pretende che non esista alcun intermediario residente o, se esiste, che non partecipi a nessuna trattativa commerciale. Anche se questa visione è senza dubbio estrema e contraria alla logica dei gruppi multinazionali che certamente hanno tutta la convenienza che gli ordini di acquisto provenienti da un dato Paese siano ricevuti da persone che parlano la stessa lingua dei clienti e che, soprattutto, conoscono e vivano nello stesso mercato di riferimento. In tale ultimo senso l’interpretazione seguita dalla S.C. si fa sottile e osserva che secondo l'art. 5, par. 5, del Modello OCSE, non possono ritenersi soggetti indipendenti le strutture aventi il potere di concludere contratti in nome dell'impresa ("an authority to conclude contracts in the name of the

37 V. Cass. civ. sez. V, sent., 9 aprile 2012, n. 3769, in big Suite IPSOA. 38 V. Cass. n. 3769/2012, cit.

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enterprise"). Tale potere, secondo il Commentario (sub art. 5, par. 5, punto 33), non deve essere inteso nel senso di una rappresentanza diretta, ma comprende anche tutte quelle attività che abbiano contribuito alla conclusione di contratti, anche se gli stessi siano stati conclusi in nome dell'impresa. Autorevole dottrina internazionale non ha mancato di sottolineare che l'espediente di separare la materiale attività di conclusione di contratti da quella di formale stipulazione degli stessi ("split-up of business responsibilities on the hand and legal authority on the other") può essere considerata come elusione fiscale (tax circumvention) dovendosi ritenere prevalente, per l'applicazione del paragrafo 5, la sostanza sulla forma. In altre parole, l'accertamento del potere di concludere contratti deve essere riferito alla reale situazione economica, e non alla legge civile, e lo stesso può riguardare anche singole fasi, come le trattative, e non necessariamente comprendere anche il potere di negoziare i termini del contratto39. Secondo la predetta pronuncia, quindi, la partecipazione alle trattative o l’espletamento di altre attività che favoriscono la stipulazione di contratti da parte di un intermediario residente per conto dell’impresa estera non determinano l’insorgere di una S.O. se non quando l’operazione è stata architettata per preminenti finalità elusive. Si ritiene che resti quindi salva la facoltà di dimostrare le valide ragioni economiche in virtù delle quali la collaborazione di un intermediario residente - anche in presenza di interpretazioni così estensive della nozione di S.O. personale come è avvenuto nella sentenza testé citata - vale ad escludere la sussistenza di una S.O. La questione è controversa e proprio sulla partecipazione alle trattative si susseguono alterne pronunce. In un caso di notevole gravità e di allarme sociale che coinvolge fattispecie penali la S.C. ha ritenuto che la partecipazione alle trattative è elemento indiziario dell’esistenza di una S.O. personale. Tale pronuncia ha infatti affermato che nessuna rilevanza può infatti essere riconosciuta alla recente modifica dell'art. 5 del commentario Ocse, in virtù della quale la sola partecipazione a trattative contrattuali nell'interesse della società straniera non è sufficiente per individuare nella struttura sussidiaria una stabile organizzazione, in quanto, a parte il valore non normativo del commentario, tale modifica ha costituito oggetto di riserva espressa da parte del Governo italiano, secondo la quale nell'interpretazione del modello di convenzione l'Italia non può disattendere quella data dai propri giudici

39 V. Cass., sez. V, sent., 25 luglio 2002 (ud. 20 dicembre 2001) n. 10925, in big Suite IPSOA. Le stesse esatte parole sono state riportate nella sentenza di Cass. sez. V, 7 aprile 2002, n. 3367, relativa ad un fatto correlato.

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nazionali" (Cass. civ. sez. 5 n. 17206 del 28.7.2006 (rv. 592321) conf. n. 7689 del 2002 Rv. 554720 e più di recente sez. 5 n. 3889 del 15.2.2008)40. Per converso, in un’ipotesi ordinaria in cui è stata data debita importanza all’interpretazione generalmente riconosciuta a livello internazionale di S.O. è stato, invece, rilevato che la partecipazione alle trattative è attività ausiliaria. Al riguardo la S.C. ha affermato che per quanto concerne, inoltre, le caratteristiche della cosiddetta agent permanent establishment, il Commentario Ocse (fonte interpretativa che non può non essere riconosciuta come di primaria rilevanza anche nel nostro Paese, che peraltro siede in tale organizzazione) precisa che non costituisce prova dell'esistenza di una stabile organizzazione la mera circostanza che una persona di un'impresa estera abbia assistito o anche partecipato a delle negoziazioni in un altro Stato (paragrafo 5.33). Posto che questa Commissione condivide i principi enucleati in sede Ocse, si che non si ritiene sufficiente la partecipazione ad una trattativa perché si possa parlare della presenza di una stabile organizzazione personale (occorre che la partecipazione abbia una ruolo decisivo per la conclusione dell'affare e tale circostanza va provata dall'amministrazione finanziaria), nel caso di specie, sulla base dell'analisi dei rapporti contrattuali, anche tale partecipazione pare essere del tutto eventuale e non determinante. [...] In definitiva nelle attività indicate nel contratto non è in alcun modo ravvisabile il potere di concludere contratti, elemento cruciale per l'individuazione di una stabile organizzazione e la sola, eventuale, partecipazione agli incontri è, al contrario, un fattore che evidenzia al più il carattere ausiliario del servizio reso41. Come una spada di Damocle pendono, però, le osservazioni presentate dal Governo italiano in sede di revisione del Commentario al Modello Ocse del 2004 che, al fine di salvaguardare l’orientamento giurisprudenziale interno in materia di S.O. personale che da pochi mesi si era affermato con riguardo alla note sentenze Philip Morris, ha scelto di frenare gli effetti della modifica al Commentario; modifica che ha inteso privare di rilevanza la partecipazione alle trattative. Apparentemente il Governo italiano ha seguito una linea dura consistente nel ravvisare sempre la sussistenza di una S.O. ove una figura riconducibile all’impresa estera partecipi in Italia alle trattative fra un cliente e la stessa impresa estera. Un certo filone giurisprudenziale ha seguito questa linea dura affermando che come già osservato nella sentenza della sezione n. 17206/06, non hanno alcun rilievo le modifiche al paragrafo 33 del Commentario, introdotte nel 2004, secondo cui la partecipazione alla fase delle trattative da parte di

40 V. Cass. pen. sez. III, sent., (ud. 26 maggio 2010) 28 luglio 2010, n. 29724, in Big Suite ISPOA. 41 V. Commiss. Trib. Reg. Lombardia, sez. XXVIII, sent., 31 marzo 2011, n. 37, in Big Suite ISPOA.

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agenti non muniti di poteri di rappresentanza non sarebbe elemento sufficiente a costituire una stabile organizzazione personale. Infatti, anche a prescindere dall'osservazione inserita dal Governo italiano (par. 45.10 del Commentario), secondo cui, nell'interpretazione del Modello di Convenzione, l'Italia non può disattendere quella data dai propri giudici nazionali, pare opportuno rilevare che, comunque, anche nell'ottica della modificazione, resta ferma la nozione di “stabile organizzazione personale” in senso formale prevista dal modello Ocse, nell'interpretazione della giurisprudenza di questa Suprema Corte42. In realtà, per come è stata costruita l’osservazione inserita al Governo italiano pare ragionevole considerare il solo elemento della partecipazione alle trattative come una clausola aperta e modulabile a seconda delle circostanze del caso. Vi sono, infatti, molteplici modi di partecipare alle trattative che un’impresa estera sta conducendo con un cliente residente ed è ragionevole ritenere che ove la partecipazione sia scarsamente significativa e comunque non sia determinante per la conclusione dell’affare, i canoni interpretativi seguiti dalla giurisprudenza italiana portino ad escludere la configurabilità di una S.O. personale43. In ogni caso come ha rilevato la S.C., relativa al noto caso CEPU, per riscontrare la sussistenza di una S.O. personale sono sufficienti gli elementi oggettivi, mentre i "legami di natura soggettiva" (idonei a corroborare un convincimento già sufficientemente motivato col richiamo delle caratteristiche oggettive della organizzazione) varrebbero a corroborare il convincimento del giudice, quali meri indizi44. Fra detti criteri di natura oggettiva vi sono quelli reddituali volti riscontrare l’esistenza di una S.O. personale nel caso in cui l’agente residente ritragga un reddito derivante dall’attività svolta per conto dell’impresa non residente. Secondo i giudici di legittimità, infatti, la società residente che cura di fatto gli affari di un’impresa estera assume la qualifica di S.O. e ciò perché chi ha effettivamente svolto l’attività generatrice di reddito e/o di fatturato è stata la società residente. Al riguardo si è affermato che nella motivazione della sentenza n. 17206/2006 di cui è stata in precedenza riportata la massima, veniva evidenziato, altresì, che i giudici di merito avevano "correttamente affermato 42 V. Cass. n. 8488/2010, cit. 43 Così secondo la Cass. sez. V, sent., 21 aprile 2011, n. 9166, in Big Suite IPSOA, la partecipazione alle trattative costituisce niente di più che un indizio, rilevando fra l’altro che la prova dello svolgimento di tale attività da parte del soggetto nazionale può essere ricavata, oltre che dagli elementi indicati dall'art. 5 del modello di convenzione OCSE, anche da elementi indiziari, quali l'identità delle persone fisiche che agiscono per l'impresa straniera e per quella nazionale, ovvero la partecipazione a trattative o alla stipulazione di contratti, indipendentemente dal conferimento di poteri di rappresentanza". 44 V. Cass. civ. sez. V, sent. 7 ottobre 2011, n. 20597, in Big Suite IPSOA.

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che anche una distinta società italiana può svolgere il ruolo di stabile organizzazione di una società straniera, e che l'esercizio - da parte della società italiana - di attività dirette alla produzione di reddito in Italia da parte della società [estera] consisteva nella conclusione di contratti, come dimostrato dall'esame della documentazione bancaria, dalla quale risultavano diversi conti intestati alla [società estera] sui quali transitavano regolamenti di vendite fatte in (omissis)". Si ha, allora, stabile organizzazione di una società straniera in Italia quando questa abbia affidato, anche di fatto, la cura dei propri affari in territorio (omissis) ad altra struttura munita o no di personalità giuridica. Si prescinde, quindi, dalla fittizietà o meno della attività svolta all'estero dalla società medesima. Quel che interessa accertare, ai nostri fini, è se essa abbia una stabile organizzazione (secondo la nozione sopra delineata) in Italia45. Tuttavia non è condivisibile prescindere totalmente dalla fittizietà dell’attività svolta dall’impresa estera perché è logicamente scorretto qualificare come S.O. un’impresa che non opera per alcuna effettiva casamadre estera. Nella pronuncia suesposta il giudice avrebbe, inoltre, ben potuto disporre accertamenti all’estero avvalendosi del sempre più importante strumento dello scambio d’informazioni. D’altra parte, con riferimento ai gruppi multinazionali, la Commiss. Trib. Reg. della Lombardia ha ravvisato che una controllata residente è S.O. personale della controllante estera se lavora gratuitamente e le commissioni per le vendite che detta controllata effettua vengono tutte percepite dalla controllante estera. Più precisamente la convenzione tra i soggetti operanti nei diversi Stati postula che l’attività della società nazionale è quella di promuovere le vendite della società [estera] conseguendo, nel proprio interesse, i ricavi costituiti dalle commissioni di vendita, derivanti dalle prestazioni di servizi resi alla committente, a nulla rilevando il perseguimento di interesse economico da parte di quest'ultima; il che nulla ha di patologico nella dinamica delle relazioni economiche; mentre l'attività svolta dalla società nazionale non è risultata essere stata svolta senza corrispettivo e quindi, nell'esclusivo interesse della società [estera]46. La sopportazione di costi per contratti stipulati dalla controllante a suo esclusivo beneficio costituiscono, inoltre, indice di una partecipazione della controllata ad attività estranee al proprio ruolo e la qualificano quale stabile organizzazione personale della prima. Così in un caso in cui l’intermediario residente aveva disposto dei prodotti della [casamadre] senza specifico mandato in proposito [...] e aveva compiuto operazioni di factoring aventi ad oggetto la cessione di crediti della [casamadre], sostenendone per intero gli oneri e senza successivamente ribaltarli in capo alla committente, la S.C.

45 V. Cass. n. 29724/2010, cit. 46 V. Commiss. Trib. Reg. Lombardia, sez. XXVI, 29 ottobre 2012, n. 139, in Big Suite IPSOA.

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conclude affermando che tutti questi elementi (ed in particolare la sopportazione di costi per contratti stipulati dalla controllante a suo esclusivo beneficio) costituivano sintomo di una partecipazione della commissionaria di vendita ad attività estranee al proprio ruolo, circostanze che invece -paradossalmente- la Commissione di appello aveva ritenuto sintomatiche dell'autonomia della società italiana47. Si tratta di una conclusione importante che deriva dalla prassi internazionale giacché detti atti finiscono per rientrare nell'ambito di ciò che il Commentario OCSE (al par. 38.748) definisce come "attività che economicamente attengono alla sfera della suddetta impresa piuttosto che a quella delle proprie operazioni commerciali". Quanto agli effetti giuridici che l’attività negoziale della S.O. personale produce nei confronti dell’impresa estera è discutibile, e specialmente scarsamente condivisa da parte della dottrina internazionale49, l’affermazione della citata sentenza della Commiss. Trib. Reg. Lombardia secondo cui non è S.O. il commissionario che non spende il nome del committente (impresa estera) perché non lo vincolerebbe difettando la contemplatio domini. Eppure la sentenza rileva che quanto al presupposto della stabile organizzazione, con cui la [società italiana] eserciterebbe l'attività in modo abituale, deve rilevarsi che l'esistenza del potere di concludere contratti, in nome della committente, non evidenzia, in base alla natura del contratto inter partes tale potere, prospettatosi la non conoscenza del soggetto committente da parte dei clienti-acquirenti, che stipulavano i contratti con la commissionaria. In definitiva, non veniva a determinarsi, nella specie, alcun vincolo in capo alla committente in relazione all'operato della commissionaria, nei confronti dei terzi, configurandosi il contratto di commissione, quale sottotipo, come mandato senza rappresentanza per assenza della contemplatio, producendo gli effetti giuridici relativi nel patrimonio della commissionaria50.

47 V. Cass. 3769/2012, cit. 48 Secondo il par. 38.7 del Commentario all’art. 5 del Modello di Convenzione OCSE Persons cannot be said to act in the ordinary course of their own business if, in place of the enterprise, such persons perform activities which, economically, belong to the sphere of the enterprise rather than to that of their own business operations. Where, for example, a commission agent not only sells the goods or merchandise of the enterprise in his own name but also habitually acts, in relation to that enterprise, as a permanent agent having an authority to conclude contracts, he would be deemed in respect of this particular activity to be a permanent establishment, since he is thus acting outside the ordinary course of his own trade or business (namely that of a commission agent), unless his activities are limited to those mentioned at the end of paragraph 5. 49 V, Hans Pijl, Agency Permanent Establishment: in the name of and the Relationship between Article 5(5) and (6), in Bullettin for International Taxation, 2013, No. 1. 50 V. Commiss. Trib. Reg. Lombardia n. 139/2012, cit.

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Nonostante la diffusione dell’orientamento sostanzialista, è infatti indubbio che l’espressione “in name of” usata dall’art. 5, par. 5, del Modello Ocse, e l’equivalente espressione “concludere contratti in nome dell’impresa” di cui all’art. 162, comma 6, Tuir, secondo un’interpretazione letterale o formalista implica che una S.O. esiste solo allorché abbia effettivamente speso il nome dell’impresa estera. Quanto, infine all’attività preparatoria e ausiliaria svolta da un’agenzia tale da escludere la sussistenza di una S.O. personale, la Commiss. Trib. Reg. Friuli-Venezia Giulia ha utilmente, rilevato che dall'esame del contenuto del contratto esistente tra [la società italiana] e [la società estera], emerge che i servizi prestati dalla società estera (...) alla [società italiana] consistevano, essenzialmente, in attività promozionale tipica dell'agente (acquisizione di nuovi clienti e mantenimento dei contratti con gli stessi, studio dei mercati sul territorio dalla stessa rappresentati), e da attività ausiliarie alla esecuzione dei contratti con i clienti acquisiti (comunicazioni ed avvisi su possibili problemi ed incidenti, informazioni ed assistenza agli autisti per luoghi di carico e scarico ad uffici doganali), nonché in attività secondarie ed accessorie a quella principale dell'agente (proteggere gli interessi di (...) sui territori rappresentati e dare avviso di cambiamenti normativi attinenti alle gestioni delle rappresentanze nei paesi di competenza, attività di riscossione attinenti ai trasporti dalla stessa trattati)51. Certamente dette attività sono preparatorie o ausiliarie a condizione che non dissimulino attività di altra natura ed, infatti, la sentenza afferma che in sostanza, a fronte di un contratto che sotto il profilo formale si atteggia come un contratto di agenzia stipulato tra una società italiana ed una società estera per promuovere le conclusioni di contratti o ricerca di clienti per una società estera, e fornire attività accessorie alla esecuzione dei contratti stessi, dalla attività investigativa stessa non è emersa con certezza la prova di una simulazione contrattuale che, oltretutto, se fornita avrebbe portato probabilmente a concludere che era proprio la stessa società (...) a costituire stabile organizzazione in Italia di (...), o di (...), società entrambe [estere]. Un altro caso è dato da un persona fisica, rappresentante fiscale italiano di due società svizzere con l’87% dei clienti in Italia che sembrava ivi svolgere attività commerciale per via dei frequenti pagamenti con il telepass sulle autostrade italiane. Dopo che gli fu contestato di essere una S.O. personale, il giudice adito ha rilevato che le presunzioni utilizzate dall'Ufficio non presentano i requisiti della gravità, della precisione e della concordanza previsti dall'art. 2729 del Codice Civile; ciò anche perché di converso alcuni clienti italiani [avevano] dichiarato che i contratti venivano conclusi in Svizzera52.

51 V. Commiss. Trib. Reg. Friuli-Venezia Giulia sez. XI, sent. 23 marzo 2011, n. 33, in Big Suite IPSOA. 52 V. Commiss. Trib. Prov. Como, sez. IV, 20 giugno 2012, n. 66, in Big Suite IPSOA.

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6 Stabile organizzazione ai fini Iva

La S.O. quale strumento di localizzazione e imputazione della ricchezza che un’impresa estera ha generato sul territorio nazionale opera anche con riguardo all’imposta sul valore aggiunto. In tal modo la S.O. costituisce il criterio da seguire per localizzare una porzione del fatturato di un’impresa estera in Italia ed attribuirlo ad un c.d. centro di attività stabile che conseguentemente è tenuto ad assolvere agli obblighi caratteristici in materia di Iva. Si tratta di un criterio di derivazione prettamente comunitaria, essendo l’Iva un’imposta armonizzata. Al riguardo, al fine di individuare il concetto di "stabile organizzazione" nello Stato di un soggetto domiciliato e residente all'estero, al quale si richiama il d.p.r. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 7, comma 3, occorre fare riferimento non alle convenzioni internazionali in materia di imposte sui redditi, bensì alla disciplina comunitaria uniforme in materia di Iva dettata dalla direttiva del Consiglio del 17 maggio 1977, n. 77/388/CEE, il cui art. 9, n. 1, contiene il richiamo alla nozione di "centro di attività stabile", da intendere come una struttura organizzata di mezzi e di persone alle dipendenze del soggetto non residente53. Non per questo sono però da trascurare gli influssi del diritto internazionale elaborato in sede Ocse poiché come evidenzia la medesima sentenza sopraccitata, la nozione di "stabile organizzazione" di una società straniera in Italia va desunta dall'art. 5 del modello di convenzione Ocse contro la doppia imposizione e dal suo commentario, integrata con i requisiti prescritti dall'art. 9 della sesta direttiva CEE n. 77/388 del Consiglio del 17 maggio 1977 per l'individuazione di un "centro di attività stabile", il quale, così come definito dalla giurisprudenza comunitaria (cfr. Corte di Giustizia UE sez. VI sentenza 17/7/1997, in causa C-190/95, ARO Lease BV c/Inspecteur der Belasting Grote Ondernemingen te Amsterdam, consiste in una struttura dotata di risorse materiali ed umane, e può essere costituito anche da un'entità dotata di personalità giuridica, alla quale la società straniera abbia affidato anche di fatto la cura di affari (con l'esclusione delle attività di carattere meramente preparatorio o ausiliario, quali la prestazione di consulenze o la fornitura di "know how"). Altre nozioni di S.O. ai fini Iva non sembrerebbero, invece, ammesse in quanto deve, peraltro, escludersi che la nozione di stabile organizzazione delineata dal modello Ocse - opportunamente integrata, ai fini dell'applicazione dell'Iva, con quella, più restrittiva, prevista dall'ordinamento comunitario - debba identificarsi con quella di autonoma unità produttiva o unità aziendale di servizio (come ritenuto dai giudici di

53 V. Cass. n. 10802/2012 cit.

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primo grado), non essendo tale nozione - ancora più restrittiva di quella comunitaria - fondata su alcun decisivo argomento testuale o sistematico54. Affinché l’impresa estera sia tenuta in Italia ad assolvere al tributo in menzione occorre, dunque, riscontrare se sussistono i requisiti del centro di attività stabile che secondo il richiamo dell’art. 9, n. 1, della sesta direttiva, va inteso come "una struttura organizzata di mezzi e di persone alle dipendenze del soggetto non residente"55. Più nel dettaglio nel caso Telecom si è affermato che detto centro di attività stabile, secondo l'interpretazione della Corte di Giustizia (si veda, fra le altre, la sentenza 17 luglio 1997, in causa C - 190/95, Aro Lease BV contro Inspecteur van de Belastingdienst Grote Ondernemingen te Amsterdam) richiede l'impiego di risorse umane e materiali, non essendo sufficiente la presenza di impianti (quali macchine di distribuzione automatica o oleodotti) nel territorio in cui l'operazione è compiuta56. Venendo alla caratteristiche del centro di attività stabile, la giurisprudenza di merito ha molto chiaramente delineato che esse vanno individuate nei seguenti elementi: a) l'esistenza nello Stato di un centro di imputazione di situazioni giuridiche, costituito da elementi materiali (locali) e personali (dipendenti); b) la stabilità di tale installazione, che deve prestarsi ad una utilizzazione durevole e non occasionale; c) la connessione della stessa all'esercizio normale dell'impresa; d) la sua idoneità produttiva, intesa come capacità di produrre reddito di per sé, indipendentemente dall'attività svolta dall'impresa non residente57. Data la contemporanea presenza dell’elemento umano e tecnico ne consegue che come di recente confermato dai giudici di legittimità nel campo dell'applicazione dell'Iva non è utilizzabile la nozione di stabile organizzazione personale, prevista dall'art. 5, par. 5, del mod. Ocse58,

54 V. Cass. n. 3367/2002 cit. In realtà, non sono ammesse altre nozioni di S.O. in senso peggiorativo rispetto a quelle Ue. Cfr. Cass. civ. 6 dicembre 2002, n. 17373, secondo cui pur trattandosi di disciplina dettata da convenzioni internazionali […] , la stessa - secondo una consolidata giurisprudenza della Corte di Giustizia - incontra sempre il limite delle libertà fondamentali riconosciute dal Trattato CE e del rispetto del principio di non discriminazione, previsto dall'art .12 (ex 6) del Trattato CE e contenuto anche nell'art. 25 della convenzione tra Italia e Stati Uniti d'America del 17 aprile 1984. In forza di tale principio non può ammettersi una nozione di stabile organizzazione applicabile ai rapporti tra i due Paesi più sfavorevole alle imprese di quella dettata dall'ordinamento nazionale e da quello comunitario per i rapporti tra i Paesi membri dell'Ue. 55 V, Cass. 21 aprile 2011, n. 9166, in Big Suite IPSOA. 56 V. Cass. n. 10802/2012 cit. 57 V. Commiss. Trib. Prov. Pesaro sez. I, sent., 2 luglio 2010, n. 197, in Big Suite IPSOA. 58 Cfr. Cass. n. 10802/2012 cit.

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facendo quest’ultima esclusivo riferimento all’elemento umano (e non anche a quello tecnico). Si può rilevare che le caratteristiche del centro di attività stabile si sono evolute rispetto a quando nel caso Philip Morris, con riferimento alla nozione di S.O. desunta in via interpretativa dall’art. 5 Mod. Ocse 1977, si era affermato che l'art. 5 del modello. 1977 Ocse di convenzione in tema di doppia imposizione diretta richiede uno spazio immobiliare ben individuato, utilizzato dall'impresa non nazionale; per quanto riguarda gli elementi personali, lo stesso art. 5, par. 5, richiede che chi agisce in Italia abbia il potere di firma e di rappresentanza, pur se limitato alle attività preparatoria e di trattative. Occorre, insomma, il quid pluris richiesto da Cass., n. 2229/9559. Di diverso avviso è infatti la giurisprudenza successiva, secondo cui anche nel campo Iva il mero svolgimento di attività preparatorie e ausiliarie esclude la sussistenza di una S.O. e, al riguardo, afferma che la stabile organizzazione nel sistema dell'Iva richiede la combinazione di mezzi umani e tecnici che consentano l'effettuazione di operazioni Iva rilevanti, risultando quindi evidente che la mera esistenza di installazioni o uffici utilizzati per attività ausiliarie e preparatorie non costituisce stabile organizzazione. Anche la Corte di Cassazione ha fatto propria questa interpretazione, confermando che ai fini Iva per verificare l'esistenza di un centro di attività stabile entrambi i presupposti - mezzi umani e tecnici - devono essere verificati (Cass. sentenze nn. 3167, 3368 e 7682 del 2002)60. Così detta sentenza prosegue sostenendo che non è sufficiente a integrare il c.d. centro di attività stabile avere una presunta linea telefonica e il domicilio fiscale presso uno studio legale61. A nulla rileva, dipoi, che detto centro sia eventualmente fornito di personalità giuridica poiché l'autonoma soggettività giuridica non assume rilievo quanto all'imputazione dei rapporti fiscali, per cui non è possibile dubitare dell'attribuibilità ad una società, ai fini dell'Iva, del ruolo - palese od occulto - di stabile organizzazione materiale di soggetto non residente, soltanto in ragione della sua personalità giuridica (Corte Cass. n. 6799/2004 cit.) 62.

59 V. Cass. n. 3367/2002, cit. 60 V. Commiss. Trib. Reg. Lombardia n. 37/2011, cit. 61 Sul punto, Commiss. Trib. Reg. Lombardia, sent., 31 marzo 2011, n. 37, in Big Suite IPSOA, afferma che secondo l'Ufficio, in particolare, il rinvenimento di un contratto di servizi tra le due consociate, unitamente all'esistenza di un domicilio fiscale e di una presunta linea telefonica della società estera in Italia dovrebbero essere condizioni sufficienti per dimostrare l'esistenza di una stabile organizzazione ai fini Iva in Italia. [...] Ebbene nel caso di specie non è possibile ravvedere l'esistenza di mezzi tecnici ne tantomeno umani. L'ufficio non ha dotato la propria contestazione di adeguati supporti probatori e motivazionali a tal fine, né ha svolto una accurata analisi della contrattualistica intercompany, cruciale in tale ambito. 62 V. Cass. n. 10802/2012. cit.

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Quanto alla prova dell’esistenza di una S.O. ai fini Iva la predetta sentenza afferma che la prova dello svolgimento di tale attività da parte del soggetto nazionale può essere ricavata, oltre che dagli elementi indicati dall'art. 5 del modello di convenzione Ocse, anche da elementi indiziali, quali l'identità delle persone fisiche che agiscono per l'impresa straniera e per quella nazionale, ovvero la partecipazione a trattative o alla stipulazione di contratti, indipendentemente dal conferimento di poteri di rappresentanza (cfr. Corte Cass. 5^ sez. 28.7.2006 n. 17206; id. 5^ sez. 15.2.2008 n. 3889: id. 5 sez. 21.4.2011 n. 9166), o ancora dalla circostanza che la società non residente si avvalga di molteplici società od imprese residenti ove queste non percepiscano dai committenti/cessionari corrispettivi per l'esercizio della attività svolta ma regolino "internamente" i rispettivi rapporti con la società non residente in base alla attività svolta così da risultare -se pure formalmente distinte- economicamente integrate in una struttura unitaria strumentale alla attuazione degli scopi commerciali della casamadre non residente (cfr. Corte Cass. 5^ sez. 7.10.2011 n 20597). Nello stesso senso63 si sono espresse altre pronunce, salvo poi aggiungere che si ha stabile organizzazione di una società straniera in Italia quando questa abbia affidato, anche di fatto, la cura dei propri affari in territorio italiano ad altra struttura munita o no di personalità giuridica. Si prescinde, quindi, dalla fittizietà o meno della attività svolta all'estero dalla società medesima essendo necessario accertare se essa abbia una stabile organizzazione (secondo la nozione sopra delineata) in Italia64. Una volta riscontrata la sussistenza di un centro di attività stabile, esso è il solo soggetto onerato ad effettuare gli adempimenti prescritti per i soggetti

63 La Cass. n. 20676/2012 cit. afferma che la prova dello svolgimento di tale attività da parte del soggetto nazionale può essere ricavata, oltre che dagli elementi indicati dall'art. 5 del modello di convenzione Ocse, anche da elementi indiziaria quali l'identità delle persone fisiche che agiscono per l'impresa straniera e per quella nazionale, ovvero la partecipazione a trattative o alla stipulazione di contratti, indipendentemente dal conferimento di poteri di rappresentanza. 64 V. Cass. pen., 29 maggio 2012, n. 20676, in Big Suite IPSOA, la quale fissa, in realtà, due ulteriori elementi di fatto volti a dimostrare la sussistenza di una S.O. ai fini Iva, ossia la c.d. irragionevolezza del ciclo produttivo e la c.d. continuità della gestione imprenditoriale. Il caso verteva sull’asserito transito a San Marino di merci prodotte e, infine, vendute in Italia al fine di effettuare un asserito controllo di qualità. In tal caso l’ente impositore anziché concentrarsi sulla fittizietà o meno dell’asserito controllo di qualità ha preferito ritenere che la società sammarinese svolgesse in Italia detta attività perché altrimenti sarebbe stato aziendalisticamente irragionevole muovere le merci dall’Italia a San Marino per il solo controllo di qualità se non dovuto ad una mera scelta di convenienza fiscale, mentre le figure apicali della società estera e di quelle interne coinvolte nell’operazione erano le stesse; da qui la rilevata continuità della gestione.

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passivi dell’imposta, i quali, pertanto non devono essere assolti dalla casamadre. In particolare, si applica la regola generale di cui all'art. 7, primo comma, del d.p.r. n. 633/72, per cui gli obblighi Iva devono essere assolti dalla stabile organizzazione che effettua la prestazione rilevante ai fini dell'Iva. Ciò comporta che il principio della cosiddetta "forza di attrazione" della stabile organizzazione, per effetto del quale il soggetto non residente con stabile organizzazione nel territorio dello Stato deve procedere alla fatturazione registrazione e dichiarazione, vale ovviamente solo per quelle operazioni materialmente effettuate dalla stabile organizzazione (e non anche per quelle realizzate direttamente dalla casa madre estera) (Cfr. Cass. n. 3570 dell'11.3.2003). Soccorre altresì allo stesso proposito altra autorevole statuizione della Suprema Corte (Cass. n. 6799/2004) secondo cui " la stabile organizzazione, in quanto obbligata al pagamento ed alla rivalsa dell'imposta, costituisce l'unico centro di imputazione fiscale delle operazioni riferibili al soggetto non residente; è la sola legittimata a presentare la dichiarazione annuale, nella quale vanno determinate l'imposta dovuta o l'eccedenza da computare in detrazione nell'anno successivo ed a formulare l'eventuale richiesta di rimborso". In definitiva dunque la "stabile organizzazione", una volta che sia stata riconosciuta quale soggetto passivo nazionale ai sensi dell'art. 21, 1° comma del d.p.r. n. 633/72 in quanto operante effettivamente nel territorio nazionale, deve essere intesa come "autonomo soggetto Iva, con conseguente obbligo di emettere la fattura". Tale impostazione del resto non ha fatto altro che anticipare il nuovo "identikit europeo" dei soggetti passivi Iva venuto a determinarsi a partire dal 1° gennaio 2010 dopo le modifiche apportate dalla Direttiva CEE n. 2008/08, con l'obiettivo dichiarato di fissare come luogo dell'imposizione quello in cui avviene il consumo effettivo del servizio: una delle nuove definizioni presenti nel riformato art. 7 del d.p.r. n. 633/72 riguarda per l'appunto il soggetto passivo stabilito nel territorio dello Stato, tra cui sono state fatte rientrare le "stabili organizzazioni" nel territorio dello Stato di soggetti domiciliati e residenti all'estero. Ai fini Iva pertanto - sia per quanto riguarda il principio di territorialità che per quanto concerne la figura del debitore d'imposta - l'aggettivo "stabilito" non individua solamente la posizione di colui che possegga in Italia il domicilio o la residenza, bensì anche quella del soggetto domiciliato e residente all'estero che comunque dispone in Italia di una "stabile organizzazione"65. Tale orientamento è stato avallato dalla giurisprudenza di Cassazione rilevando che dal complesso della disciplina dettata dal d.p.r. 26 ottobre 1972, n. 633, e, in particolare, dalla disposizione contenuta nell'art. 17, comma 4, di detto decreto, si ricava che, quando ricorrono il requisito oggettivo dell'esercizio abituale di un'attività commerciale - richiesto

65 V. Commiss. Trib. Prov. Pesaro n. 197/2010, cit.

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dall'art. 4 del decreto medesimo - e quello territoriale della stabilità in Italia di una organizzazione del soggetto non residente, gli obblighi e i diritti relativi alle operazioni effettuate da o nei confronti della "stabile organizzazione" non possono essere adempiuti o esercitati, nei modi ordinari dal soggetto non residente, direttamente o tramite un suo rappresentante fiscale. La "stabile organizzazione" nello Stato, infatti, in quanto obbligata al pagamento ed alla rivalsa dell'imposta, oltre che al rispetto dei doveri formali di fatturazione delle operazioni attive e di registrazione delle fatture passive costituisce in tal caso l'unico centro di imputazione fiscale delle operazioni riferibili al soggetto non residente e la stessa rappresenta anche la sola legittimata a presentare la dichiarazione annuale, nella quale vanno determinate l'imposta dovuta o l'eccedenza da computare in detrazione nell'anno successivo e formulata l'eventuale richiesta di rimborso (cfr. Corte Cass. 5^ sez. 6.4.2004 n. 679966) 67. Un'altra rilevante tematica che riguarda gli adempimenti ai fini Iva a cui in certi casi non è tenuta la S.O. concerne i servizi che questa rende alla casamadre estera. Come hanno rilevato la Cassazione e, in precedenza, la Corte di Giustizia68, l'art. 2, n. 1, e art. 9, n. 1, della sesta direttiva del Consiglio 11 maggio 1977, 77/388/CEE, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari […] , devono essere interpretati nel senso che un centro di attività stabile, che non sia un ente giuridico distinto dalla società di cui fa parte, stabilito in un altro Stato membro e al quale la società fornisce prestazioni di servizi, non deve essere considerato un soggetto passivo in ragione dei costi che gli vengono imputati a fronte di tali prestazioni69.

66 Sul punto la Cass. 6 aprile 2004, n. 6799, ha invece affermato che quando un soggetto residente all'estero eserciti abitualmente un'attività commerciale attraverso una sua "stabile organizzazione" in Italia (art. 17, comma 4, del d.p.r. 26 ottobre 1972, n. 633), gli obblighi e i diritti relativi alle operazioni effettuate da o nei confronti della stabile organizzazione non possono essere adempiuti o esercitati, nei modi ordinari, dal soggetto non residente, direttamente o tramite un suo rappresentante fiscale. La stabile organizzazione nello Stato, infatti, obbligata al pagamento ed alla rivalsa dell'imposta, oltre che al rispetto dei doveri formali di fatturazione delle operazioni attive e di registrazione delle fatture passive, costituisce l'unico centro di imputazione fiscale delle operazioni riferibili al soggetto non residente e la stessa rappresenta anche la sola legittimata a presentare la dichiarazione annuale, nella quale vanno determinate l'imposta dovuta o l'eccedenza da computare in detrazione nell'anno successivo e formulata l'eventuale richiesta di rimborso. 67 V. Cass. n. 10802/2012, cit. 68 Corte Giust., sentenza 23 marzo 2006, C - 210/04, FCE Bank plc, Racc. 2006 I-02803 69 V. Cass. 12 gennaio 2007, n. 526, in Big Suite IPSOA.

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Tale affermazione costituisce un dictum della Corte di Giustizia, vincolante nei confronti del giudice nazionale, secondo la quale le prestazioni di servizi eseguite da una società a favore di una propria struttura secondaria priva di personalità giuridica, quale una filiale, anche se situata in altro Paese membro dell'Unione Europea, non può ritenersi soggetta ad Iva anche se alla struttura secondaria viene addebitato un costo dalla casa madre70. Ma affinché il servizio che la S.O. svolge nei confronti della casamadre non sia imponibile ai fini Iva è necessario che detta casamadre rimborsi alla S.O. esclusivamente i costi del servizio reso e non corrisponda un prezzo superiore, o mark up, perché altrimenti non si tratterebbe di una mera operazione a rilevanza interna compiuta da un’impresa operante in diversi Stati membri ma costituirebbe l’esercizio di un’attività commerciale imponibile attraverso cui si trasferisce fatturato da uno Stato membro all’altro all’interno dell’Unione71. Da ultimo, l’origine storica della non debenza dell’Iva in tali operazioni è stata desunta dall’unitarietà civilistica tra società non residente e stabile organizzazione, richiamando le determinazioni assunte nella 62a riunione, in data 14 novembre 2000, del Comitato dell'imposta sul valore aggiunto, istituito ai sensi dell'art. 29 della Sesta Direttiva, secondo il quale l'unitarietà del soggetto comporta che non assumano rilievo ai fini i.v.a. i rapporti interni tra impresa o società non residente e la propria stabile organizzazione nel territorio dello Stato o viceversa. A tale orientamento, come emerge dalla relazione illustrativa del Governo, si sarebbe ispirata la riforma contenuta nel d.lgs. 19 giugno 1999, n. 191, (conosciuto come "decreto sull'identificazione diretta"), contenente le norme di trasposizione della direttiva 2000/65/CE, relativa alla determinazione del debitore dell'imposta sul valore aggiunto; il d.p.r. n. 633 del 1972, art. 21 menziona tra le indicazioni che devono essere contenute in fattura l'ubicazione della stabile organizzazione per i non residenti72.

7 Rimborsi Iva

Il concetto di S.O. ai fini Iva assume rilievo anche in materia di istanza di rimborso dell’imposta che le imprese estere hanno assolto durante lo svolgimento della loro attività sul territorio nazionale. Al riguardo, in tema di Iva, l'art. 38-ter del d.p.r. 26 ottobre 1972, n. 633, prevede il diritto dei soggetti domiciliati e residenti negli Stati membri della

70 V. Cass. n. 526/2007, cit. 71 Secondo la Cass. n. 526/2007 cit. occorre, infatti, verificare che vi sia un semplice riaddebito di costi sostenuti dalla casamadre per attività destinate alla stabile organizzazione, senza alcun mark-up. 72 V. Cass. n. 526/2007, cit.

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CEE al rimborso dell'imposta soltanto nel caso in cui essi siano privi di stabile organizzazione in Italia e di rappresentante nominato ai sensi del secondo comma del precedente art. 17 d.p.r. 26 ottobre 1972, n. 633. Poiché gli uffici finanziari, a norma dell'art. 35 del medesimo d.p.r. 26 ottobre 1972, n. 633, attribuiscono un numero di partita Iva, tra gli altri, ai soggetti che "istituiscono una stabile organizzazione" nel territorio dello Stato, se può ammettersi che dall'attribuzione della partita Iva ad un soggetto che l'abbia richiesta derivi, per ragioni di ordine logico-giuridico, la presunzione dell'esistenza di stabile organizzazione, ciò tuttavia non comporta, tenuto conto che si tratta di una situazione di fatto, che tale presunzione sia assoluta. Pertanto, al soggetto, cui sia stata attribuita la partita Iva, che agisca per il rimborso di cui al citato art. 38-ter d.p.r. 26 ottobre 1972, n. 633 non è precluso di offrire la dimostrazione della mancanza in concreto di quegli elementi di ordine personale e materiale, che all'evidenza contrassegnano la nozione di stabile organizzazione73. Tale ultima pronuncia costituisce un precedente che ha fatto giurisprudenza in materia di rimborsi Iva che è stato avallato dai pronunciamenti successivi secondo cui questa Corte ha già chiarito che "dall'attribuzione della partita Iva a un soggetto che ne abbia fatto richiesta deriva, per ragioni di ordine logico-giuridico, la presunzione della esistenza di stabile organizzazione" (Cass. n. 7703/2005). La presunzione suddetta non è di ordine assoluto, sicché non è precluso, a colui che agisca per il rimborso a norma del d.p.r. n. 633 del 1972, art. 38-ter, di offrire la dimostrazione della mancanza in concreto di quegli elementi di ordine personale e materiale, che contrassegnano la nozione di stabile organizzazione74. Tuttavia in un obiter dictum la S.C. aggiunge che non appare di alcuna rilevanza, agli specifici fini, la circostanza valorizzata dal giudice di merito per sostenere l'ammissibilità del ricorso alla procedura di rimborso nel caso di specie, che cioè l'operazione commerciale, da cui deriva il credito d'imposta, sia stata effettuata non avvalendosi del nominato rappresentante fiscale75. Se è, invece, l’asserita S.O. a presentare l’istanza di rimborso, essa è onerata a dimostrare di essere effettivamente in possesso dei requisiti di una S.O. Al riguardo, se - ai fini del riconoscimento della non assoggettabilità ad Iva delle prestazioni erogate a favore della casamadre - la succursale italiana non è stata riconosciuta come entità organizzativamente "autonoma ed indipendente" dalla società non residente, la stessa succursale, tuttavia, per essere legittimata a richiedere il rimborso di imposta in luogo della casamadre, deve possedere i requisiti minimi per costituire una '"stabile organizzazione" - ai sensi del d.p.r. n. 633 del 1972 - ovvero, come prevede

73 V. Cass. sent., 13 aprile 2005, n. 10604, in Big Suit IPSOA. 74 V. Cass. ord., 30 novembre 2012, n. 21380, in Big Suit IPSOA. 75 V. Cass. n. 21380/2012, cit.

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la VI direttiva n. 388/77/CEE e la 8^ direttiva n. 79/1072/CEE, per caratterizzarsi come "un centro stabile di attività" (cfr. Corte Cass. 5^ sez. 8.3.2004 n. 4639; id. 5^ sez. 13.4.2005 n. 7703; id. 5^ sez. 10.3.2008 n. 6310 che in proposito rileva come "il d.p.r. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 38-ter, prevede il diritto dei soggetti domiciliati e residenti negli Stati membri della CEE al rimborso dell'imposta soltanto nel caso in cui essi siano privi di stabile organizzazione in Italia e di rappresentante nominato ai sensi dell'art. 17, comma 2, del medesimo d.p.r.")76. Venendo ora all’onere della prova dell’(in)esistenza di una S.O. in Italia ai fini del riconoscimento del diritto al rimborso Iva, si segnala che il regolamento di esecuzione (UE) n. 282/2011, recante diposizioni di applicazione della direttiva 2006/112/CE sul sistema comune dell'Iva, contiene, nel citato art. 11, previsioni intese a fissare il concetto di stabile organizzazione ai fini dell'applicazione dell'art. 44 della direttiva (e degli articoli seguenti del regolamento stesso), - vale a dire ai fini della determinazione del luogo di stabilimento quanto alle operazioni imponibili nel quadro del generale principio di territorialità; ma nulla aggiunge con riguardo al profilo della ripartizione dell'onere della prova nei giudizi attinenti al rimborso d'imposta; nulla toglie, in particolare, al fatto di doversi comunque ritenere onerata, la società domiciliata e residente negli Stati membri della CE che insta ai fini del rimborso dell'Iva secondo il regime nazionale di cui al d.p.r. n. 633 del 1972, art. 38-ter, (nel testo in vigore pro tempore) per acquisti effettuati nel territorio dello Stato, di fornire la prova - nei termini dalla relazione evidenziati - della esistenza delle condizioni per l'insorgenza del diritto al rimborso77. Con riguardo agli elementi di prova di una S.O., il solo fatto che l’impresa estera disponga in Italia di una partita Iva, in un caso, non è stato ritenuto sufficiente a dimostrare l’esistenza di una sua S.O. e così a precludere il diritto al rimborso. Occorre, infatti, rilevare come tale partita risulti assegnata al ricorrente proprio a seguito di domanda di attribuzione della stessa (allegata, in fotocopia, alle controdeduzioni) dalla quale si evince (vedi quadro H della stessa) che tale partita risulta espressamente assegnata in conseguenza dell'avvenuta nomina del rappresentante fiscale in Italia, "come da annotazione lettera di incarico al Mod. VI dell'Ufficio Iva di Milano". Circostanza, questa, che presuppone - ai sensi del primo periodo del comma 2 dell'art. 17 del d.p.r. n. 633/1972 - l'inesistenza di una stabile organizzazione del soggetto estero nel nostro paese, evidenziando in tal modo una grave e palese incongruenza fra i presupposti sui quali risulta basata detta motivazione ed i risultati ai quali la stessa perviene. […] La non pericolosità fiscale di una simile situazione si deriva poi, a maggior ragione, dalla recente evoluzione della normativa Iva nazionale sopra richiamata che,

76 V. Cass. sent., 28 giugno 2012, n. 10802, in Big Suit IPSOA. 77 V. Cass. ord., 20 luglio 2012, n. 12633, in Big Suit IPSOA.

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recependo le disposizioni comunitarie a suo tempo emesse in tal senso, ha di recente - con il d.lgs. n. 191/2002, modificativo dei commi 2 e 3 dell'art. 17 ed introduttivo dell'art. 35-ter del d.p.r. n. 633/1972 - previsto la facoltà di chiedere l'attribuzione di partita Iva da parte della Amministrazione fiscale italiana ai soggetti comunitari non residenti (a prescindere dalla esistenza o meno di una stabile organizzazione nel nostro paese che, sussistendo, li avrebbe comunque automaticamente equiparati, ai fini fiscali, agli operatori residenti) che intendano assolvere gli obblighi ed esercitare - in un rapporto diretto con il fisco italiano - i loro diritti in materia di Iva connessi ad eventuali operazioni rilevanti ai fini di tale imposta effettuate in Italia, e ciò con effetto a partire dalla data di presentazione della relativa domanda78. Sarebbe infine irragionevole ritenere che la sussistenza di una S.O. di un’impresa estera collegata ad una società residente impedisca a quest’ultima di far salvo il suo diritto al rimborso perché come è stato ribadito la presunta stabile organizzazione non ha posto in essere tutti gli adempienti fiscali previsti a suo carico, poiché la dichiarazione annuale è stata presentata da [la società residente] la quale ha anche presentato la richiesta di rimborso79.

8 Onere della prova dell’esistenza di una stabile organizzazione

In materia di ripartizione dell’onere della prova relativamente alle S.O., trovano applicazione le regole ordinarie del processo tributario. [C]ome per le considerazioni che seguiranno in materia di stabile organizzazione, occorre dire che nel processo, ivi compreso il processo tributario, la prova dei fatti si forma in conseguenza della dialettica processuale, con la conseguenza che il relativo onere probatorio si atteggia a carico dell'una o dell'altra parte in relazione alle deduzioni ed agli elementi probatori offerti da ciascuna di esse80.

78 V. Commiss. Trib. Prov. Roma sez. VI, 26 novembre 2004, n. 481, in Big Suit IPSOA. 79 V. Commiss. Trib. Reg. Liguria sez. VI, 13 febbraio 2012, n. 11, in Big Suit IPSOA. 80 V. la Commiss. Trib. Reg. Toscana n. 65/2012 cit. che ha applicato questa regola processuale attribuendo al contribuente italiano l’onere di dimostrare che, contrariamente a quanto riportato dalla documentazione prodotta dall’Amministrazione Finanziaria, non ha avuto alcun rapporto di fatto con la società estera e quindi non poteva costituire S.O. di quest’ultima. Tuttavia poiché il contribuente nulla ha dimostrato e, anzi, è rimasto irreperibile, ciò ha consentito ai giudici di ritenere che sussistessero i presupposti di una S.O.

In particolare la Commissione ha stabilito che una volta assunta in atti la documentazione in ordine ai rapporti di fatto tra [l’asserito rappresentante] e società [estera], la cui acquisizione deve essere considerata del tutto legittima, non trovando fondamento l'eccezione della illegittimità dell'autorizzazione della Procura della Repubblica motivata con riferimento a rilevanti ma non gravi indizi essendo evidente

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[S]ul piano probatorio, l'accertamento dei requisiti della "stabile organizzazione", vuoi sotto il profilo dell'esistenza in Italia di un centro stabile di attività con dotazione di uomini e mezzi, vuoi sotto quello della partecipazione di un intermediario alla conclusione di contratti, in nome della società estera, anche al di fuori di un potere di rappresentanza in senso tecnico, deve essere condotto - non solo e non tanto sul piano formale - ma anche, e soprattutto, su quello sostanziale. Ai fini del riscontro, da parte del giudice di merito, dell'esistenza di un'organizzazione stabile in territorio nazionale, sia essa di tipo "materiale" o "personale", è necessario - in altri termini - che le situazioni di fatto portate, in concreto, a conoscenza dell'Ufficio, e valutate - come elementi a carattere presuntivo ed indiziario - nella loro globalità, denotino il fine dei soggetti operanti in territorio italiano di esercitare - in modo non sporadico o occasionale - un'attività economica, che può consistere anche nella sola conclusione di contratti in nome e nell'interesse di una società non residente (cfr. Cass. 7682/02, 10925/02, 20597/11)81. In effetti, l’attenzione alla considerazione globale di tutti gli elementi della fattispecie è un leitmotiv diffusamente impiegato per riscontrare la sussistenza di una S.O. Così viene in aiuto la sentenza n. 3368/2001 della Cassazione, dove stabilisce che: "sul piano della prova (...) gli elementi rilevatori dell'esistenza di una stabile organizzazione devono essere considerati globalmente e nella loro reciproca connessione"82. Analogamente si è rilevato che sul piano della prova, ciò comporta che gli elementi rivelatori dell'esistenza di una stabile organizzazione devono essere considerati globalmente e nella loro reciproca connessione83.

che la rilevanza è pur sempre indicativa della gravità riferita al sostantivo alla quale accende, competeva al ricorrente l'onere della prova di dimostrare l'esistenza di altri amministratori o gestori effettivi, in tal modo da escludere o ridurre il rilievo attribuibile altrimenti alla sua condizione: ma tale onere non risulta essere stato assolto, ed anzi costituisce elemento fortemente indiziario la irreperibilità tanto del [l’asserito rappresentante] quanto del [terzo] successiva agli accertamenti. Pertanto, conclusivamente sul punto, è proprio la qualificazione del [l’asserito rappresentante] come rappresentante della società [estera], che consente di ritenere ammissibile il ricorso e di valutarne le ragioni. 81 V. Cass. n. 1118/2013, cit. 82 V. Commiss. Trib. Prov. Milano n. 32/2011, cit. 83 V. Cass. n. 10925/2002, cit. e Commiss. Trib. Reg. Lombardia n. 137/2009, cit.. Cfr. anche la Commiss. Trib. Reg. Lazio, sez. XXVIII, Sent., 18 gennaio 2011, n. 2, in Big Suite ISPOA, secondo cui la questione deve essere risolta tenendo presente il principio di diritto enunciato dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui, in tema di Iva, una società di capitali con sede in Italia può assumere il ruolo di stabile organizzazione di società estere appartenenti allo stesso gruppo e perseguenti una strategia unitaria; in tal caso, la ricostruzione dell'attività posta in essere dalla società nazionale, al fine di accertare se si tratti o meno di attività ausiliarie o

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Inoltre, sul piano della prova, non può - per vero - revocarsi in dubbio che la sussistenza di una "stabile organizzazione", nel senso suindicato, ben possa desumersi - in fatto - anche alla stregua di elementi a carattere indiziario e presuntivo, purché siffatti elementi rivelatori dell'esistenza di una stabile organizzazione vengano, in concreto, "considerati globalmente e nella loro reciproca connessione" (Cass. 10925/02, in motivazione)84. Analogamente [l]a prova dello svolgimento di tale attività da parte del soggetto nazionale può essere ricavata, oltre che dagli elementi indicati dall'art. 5 del modello di convenzione OCSE, anche da elementi indiziari, quali l'identità delle persone fisiche che agiscono per l'impresa straniera e per quella nazionale, ovvero la partecipazione a trattative o alla stipulazione di contratti, indipendentemente dal conferimento di poteri di rappresentanza85. Infine, questa Corte ha, difatti, più volte avuto modo di precisare che le presunzioni semplici costituiscono una prova completa alla quale il giudice di merito può attribuire rilevanza anche in via esclusiva ai fini della formazione del proprio convincimento, nell'esercizio del potere discrezionale, istituzionalmente demandatogli, di scegliere, fra gli elementi probatori sottoposti al suo esame, quelli ritenuti più idonei a dimostrare i fatti costitutivi della domanda o dell'eccezione. In tale prospettiva, pertanto, e con specifico riferimento alla materia tributaria, non è neppure necessaria, ai fini di fondare la pretesa impositiva, l'acquisizione, a conforto, di ulteriori elementi presuntivi o probatori desunti dall'esame della documentazione contabile o bancaria del contribuente, dal momento che, se gli indizi hanno raggiunto la consistenza di prova presuntiva, non vi è necessità di ricercarne altri o di assumere ulteriori fonti di prova. […] Nondimeno, una volta esaurita la fase - da condurre con criterio analitico - dell'individuazione degli elementi indiziari che, presi singolarmente, presentino una positività parziale o almeno una potenziale di efficacia probatoria, il giudice di merito è tenuto, altresì, ad una doverosa valutazione complessiva di tutti gli elementi presuntivi isolati per accertare se essi siano concordanti e se la loro combinazione sia in grado di fornire una valida prova presuntiva, che magari non potrebbe dirsi raggiunta con certezza considerando atomisticamente uno o alcuni di essi. Ne discende che deve ritenersi censurabile in sede di legittimità - sul piano del vizio di motivazione - la decisione in cui il giudice si sia limitato a negare valore indiziario agli elementi acquisiti in giudizio senza accertare se essi, quand'anche

preparatorie - le quali non danno luogo a stabile organizzazione - deve essere unitaria e riferita al programma del gruppo globalmente considerato (Cass. sez. trib., 25 maggio 2002, n. 7689). 84 V. Cass. n. 1118/2013, cit. 85 V. Cass. n. 29724/2010, cit.

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singolarmente sforniti di valenza indiziaria, non fossero in grado di acquisirla ove valutati nella loro sintesi (Cass. 9107/12, 10847/07)86. É dal risultato dell’analisi globale di tutti gli elementi dunque che si può concludere che l’attività svolta in Italia dall’impresa estera non è altro che la replicazione dell’attività commerciale che la stessa svolge (o meno) all’estero ovvero è svolta (o meno) al solo scopo di conseguire un risparmio fiscale. Nel primo senso si è espressa la Suprema Corte secondo cui l’organizzazione produttiva in Italia della società estera - anziché costituita da un unico soggetto giuridico - era articolata in una molteplicità di ditte: formalmente distinte, ma tuttavia economicamente integrate in una struttura unitaria, strumentale al raggiungimento dello scopo commerciale in Italia della "casa madre" non residente87. Nel secondo senso si è espressa la giurisprudenza di merito secondo cui, invece, dall'esame complessivo, [l’impresa estera e quella interna] svolgono la propria attività come un "unicum", formalmente frazionato tra diverse società, al solo fine di fruire dei regimi fiscali più convenienti, sottraendo reddito prodotto in Italia88.

9 Elementi indiziari

Sono una pluralità eterogenea gli elementi che la giurisprudenza in questi ultimi anni ha ritenuto indiziari della presenza di una S.O. e di seguito se ne elenca una breve rassegna. Innanzitutto, è ritenuto elemento indiziario della presenza di una S.O. l’esercizio dell’"l'attività di controllo sull'esatta esecuzione di contratti tra soggetto residente e soggetto non residente la quale non può considerarsi, in linea di principio, ausiliaria è come tale non suscettibile di far assumere alla società incaricata il ruolo di stabile organizzazione in Italia della società straniera, ai sensi dell'art. 5, par. 4, del modello Ocse di convenzione contro le doppie imposizioni" (Cass. n. 10925 del 2002)89. Più discussa è, invece, la questione relativa all’interpretazione del rapporto di controllo che lega due società. Come noto, l’ultimo paragrafo dell’art. 5 del Modello di Convenzione Ocse90 e, parallelamente, l’ultimo comma dell’art. 86 V. Cass. n. 1118/2013, cit. 87 V. Cass. n. 20597/2011, cit. 88 V. Commiss. Trib. Prov. Milano n. 32/2011, cit. 89 V. Cass. 21 aprile 2011, n. 9166, in Big Suite IPSOA. Cfr. Cass., n. 3367/2002 secondo cui l'attività di controllo sull'esatta esecuzione di un contratto tra soggetto residente e soggetto non residente non può considerarsi - in principio - ausiliaria, ai sensi degli articoli 5, par. 4, del Mod. Ocse. 90 Il par. 7 dell’art. 5 del Modello di Conv. Ocse dispone per esteso che The fact that a company which is a resident of a Contracting State controls or is controlled by a company which is a resident of the other Contracting State, or which carries on

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162 Tuir stabiliscono che il rapporto di controllo fra un’impresa estera e la consociata residente “non costituisce di per sé” (“shall not of itself constitute”) motivo sufficiente per considerare una di dette imprese una S.O. dell’altra. Ove, quindi, il solo elemento riscontrato sia il rapporto di controllo nessuna delle due imprese può essere considerata una S.O. dell’altra. In tal senso si è espressa la S.C. affermando che è ovvio che, nella verifica dell'esistenza di un rapporto di dipendenza, occorre tener presente che lo stesso non può essere identificato con la mera appartenenza di una società ad un gruppo perché la stessa possa essere considerata stabile organizzazione di una o più altre società del gruppo. La mera esistenza di un controllo societario non è infatti sufficiente, secondo l'espressa previsione dell'art. 5, comma 7, del mod. Ocse, esattamente richiamato dalla sentenza impugnata, per far ritenere la società controllata una stabile organizzazione della controllante91. Tuttavia, ove al controllo si sommino ulteriori elementi indiziari l’orientamento di Cassazione cambia sostenendo che il principio che una società residente in uno Stato contraente controlli o sia controllata da una società residente nell'altro Stato non costituisce di per sè motivo sufficiente per far considerare una di dette società una stabile organizzazione dell'altra, non esclude il valore indiziario di tale circostanza, ma unicamente la sua autonoma sufficienza probatoria (v. Cass. 11 giugno 2007, n. 13579)92. Così la giurisprudenza italiana frequentemente è orientata a considerare detto elemento un indizio. In questi termini si è espressa la Cassazione nel 2011con un richiamo alla sentenza n. 6799/2004 di questa On.le Suprema Corte, secondo cui il rapporto di controllo ha un valore meramente indiziario ai fini della configurabilità di una stabile organizzazione93. E così anche la giurisprudenza di merito afferma che il controllo azionario non è in sé rilevante per stabilire il grado di dipendenza dell'impresa superiore nei confronti di quella di cui si asserisce lo stato di stabile

business in that other State (whether through a permanent establishment or otherwise), shall not of itself constitute either company a permanent establishment of the other. 91 V. Cass. n. 3367/2002, cit. 92 Nel caso trattato dalla suesposta Cass. n. 13579/2007 l'Amministrazione finanziaria ha volutamente e chiaramente limitato la prova della residenza italiana della società avente sede in svizzera semplicemente in base alla sola deduzione della relazione di controllo sulla controllata italiana. Ma, come si è visto, un tale elemento non è considerato dalla legge sufficiente a far ritenere, ai fini dell'Iva, che la controllata italiana sia "una stabile organizzazione dell'altra". Tale previsione è valida, peraltro, non solo con riguardo alla disciplina dell'Iva ma anche rispetto a quella delle imposte dirette e, come rileva nella specie, dell'imposta di successione. 93 V. Cass. civ. sez. V, 22 luglio 2011, n. 16105, in Big Suite IPSOA.

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organizzazione (par. 38.1 commentario OCSE). Tuttavia esso può costituirne un indizio (cfr. Cass. 6799/04)94. Tuttavia detta ultima sentenza nega che queste considerazioni si estendano anche alla nomina delle cariche sociali e afferma che la collocazione di entrambe le società nel gruppo transnazionale comporta inevitabilmente che, dal vertice, discendano le investiture dei soggetti fisici, operanti alla base. È dunque del tutto ragionevole (e quindi in sé di tenore neutro) che la cariche sociali dell'italiana siano espressione o abbiano quanto meno il gradimento delle cariche sociali delle società a monte nel gruppo. In altri termini, il fatto che gli amministratori e sindaci della partecipata siano indicati dalla partecipante è evento inevitabile, di generale accadimento e quindi privo di rilievo al fine di stabilire se nei fatti esista o meno il carattere di stabile organizzazione95. Eppure non mancano pronunce in cui benché siano stati riscontrati taluni elementi a sostegno della sussistenza di una S.O. ad essi non si somma quello del controllo societario, quasi a volerlo escludere tuout court. Così in un obiter dictum, infatti, la Commiss. Trib. Reg. Lombardia nel 2012 ha affermato che nè, da ultimo, il fatto che la società olandese controllasse la società nazionale può costituire motivo per fare attribuire alla prima una stabile organizzazione in Italia, sostanziandosi, nel caso di specie, il processo di gestione ed esecuzione della vendita, parte di Bo. S.p.A. senza alcuna sottoscrizione dei contratti di vendita in nome della committente e senza gestione del magazzino (processo di gestione degli ordini, risultante dal rapporto in atti)96. Non mancano infine tesi estreme riconducibili alla Cass. n. 3367/2002 secondo cui è proprio la presenza del rapporto di controllo ad essere l’elemento principe su cui fondare la sussistenza di una S.O., pur occulta. In detta pronuncia, infatti, la Cassazione ha affermato che il fenomeno delle stabili organizzazioni occulte trova un più favorevole terreno di coltura all'interno dei gruppi multinazionali, nei quali la strategia unitaria del gruppo può assumere forme di utilizzazione delle società controllate talmente penetranti da far diventare queste ultime, pur dotate di uno status di soggetti autonomi, vere e proprie strutture di gestione dell'impresa esercitata da altre società97. Venendo ad elementi indiziari di altro tipo, la giurisprudenza di merito ha ritenuto che la presenza in Italia di un conto corrente dell’impresa estera è un indice della presenza di una S.O. e aveva sostenuto che l'art. 51, 2° comma, n. 2, seconda parte, del d.p.r. n. 633/72 stabilisce una presunzione circa la pertinenza ad operazioni imponibili dei movimenti su conti correnti bancari -

94 V. Commiss. Trib. Reg. Lombardia n. 137/2009, cit. 95 V. Commiss. Trib. Reg. Lombardia n. 137/2009, cit. 96 V. Commiss. Trib. Reg. Lombardia n. 139/2012, cit. 97 V. Cass. n. 3367/2002, cit.

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che nella specie è risultato intestato proprio alla società lussemburghese - in relazione ai quali non sia stata fornita la dimostrazione dell'estraneità della società estera a tali operazioni. Come affermato da una consolidata giurisprudenza (vedansi, fra tutte, Cass. n. 8422/2002; n. 14421/2005; n. 18421/2005) tale norma non si limita a prevedere un mero indizio, da valutarsi pur sempre nel quadro d'insieme degli altri elementi tratti dall'attività dell'impresa, ma pone a carico di quest'ultima una presunzione "de jure". Ragione per cui anche la presenza di movimenti bancari riferibili al soggetto estero, in relazione ai quali quest'ultimo non abbia fornito la prova della loro estraneità ad operazioni imponibili, può legittimare la pretesa erariale, posto che in linea di fatto l'individuazione dell'esistenza di una stabile organizzazione può chiaramente poggiare anche sull'elemento, chiaramente sintomatico, dell'avvenuta scoperta del conto corrente intestato alla società estera (vedansi, sul punto, Cass. sez. V., n. 17206 del 25.1.2006; n. 22853 del 25.10.2006). Ne consegue quindi che l'Amministrazione Finanziaria può fondare l'accertamento anche solo esclusivamente sulla presenza di movimenti bancari riferibili al soggetto estero, in relazione ai quali quest'ultimo non abbia fornito la prova della loro estraneità ad operazioni imponibili, senza dover svolgere ulteriori indagini98. Tale pronuncia dà inoltre rilievo al concetto di “residenza valutaria” sostenendo che un ulteriore e decisivo elemento a convalida della tesi erariale può inoltre evincersi dalla vigente normativa valutaria, come codificata dal d.p.r. n. 148 del 31.3.1988, secondo cui "ai fini dell'applicazione delle norme valutarie sono considerate residenti... omissis... le persone giuridiche, le associazioni e le organizzazioni senza personalità giuridica che hanno sede all'estero e sede secondaria in Italia, limitatamente alle attività esercitate in Italia con stabile organizzazione". Da tale precetto si deduce, chiaramente, che è possibile per una società estera aprire un conto corrente bancario presso un istituto di credito operante nel territorio nazionale, a condizione tuttavia che ivi risulti una "residenza valutaria" individuabile nell'esistenza di una "sede effettiva" ovvero di una "stabile organizzazione" della società estera99. Per contro, si è in seguito pronunciata altra giurisprudenza di merito escludendo la rilevanza indiziaria del conto corrente dell’impresa estera e sostenendo di non condividere che i requisiti della stabile organizzazione si evinc[ano] dall'esistenza in Italia di un conto corrente intestato alla [società estera]. La giurisprudenza richiamata dai primi giudici non è dirimente in quanto nelle sentenze citate il conto corrente non è richiamato quale elemento sintomatico e decisivo al fine di individuare una stabile organizzazione in Italia, ma solo in quanto era stato effettuato un

98 V. Commiss. Trib. Prov. Pesaro Sez. I, 2 luglio 2010, n. 197, in Big Suite IPSOA. 99 V. Commiss. Trib. Prov. Pesaro n. 197/2010, cit.

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"accertamento bancario" ex art. 51 del d.p.r. n. 633/1972 ed i primi giudici hanno confuso tra nozione di stabile organizzazione e la materia dell'accertamento bancario100. Non è neppure rilevante la presenza di un magazzino e lo svolgimento dell’attività di consegna di merci che, invece, costituiscono attività preparatoria e ausiliaria. Al riguardo la sentenza da ultimo citata ha accolto la richiesta della parte secondo cui è da escludersi la rilevanza del magazzino e delle operazioni di consegna ai fini dell'individuazione di una stabile organizzazione sostenendo che l'immagazzinamento della merce in boxes già intestati ai clienti di [società estera] e la sua successiva consegna è attività irrilevante, ai fini dell'individuazione di una stabile organizzazione in quanto considerata attività "ausiliaria e preparatoria" dal Commentario Ocse101. V’è poi chi si è soffermato su un requisito implicito degli elementi indiziari, ossia la loro rilevanza, ed al riguardo ha affermato che condividendo e facendo propria, per quanto possa qui rilevare (a prescindere dalla sua (non) efficacia nel presente contenzioso) la decisione di quella commissione anche nella parte in cui, riportandosi ad una pronuncia della Suprema Corte (Cass. 8.7.2006, n. 17206), afferma che "per qualificare una società residente quale stabile organizzazione in Italia dell'impresa estera è necessario che la prima svolga attività di una certa rilevanza e non di carattere meramente preparatorio o ausiliario"; e, ancora, che "per accertare il compimento di operazioni imponibili possono essere utilizzati anche elementi indiziari, quali l'identità delle persone fisiche che agiscono per l'impresa estera e quella nazionale ovvero la partecipazione a trattative o la stipulazione di contratti, anche a prescindere da un effettivo potere di rappresentanza"102. Ciò premesso, la pronuncia suesposta segnala, inoltre, un elenco di possibili elementi rilevatori di un’attività di compravendita di automobili svolta da una S.O. affermando che dalla rilevanza, concordanza e concretezza dei molteplici elementi di fatto ricavabili dalla sentenza n. 10/1/07 del 26 febbraio 2007 della Commissione Tributaria di primo grado di Bolzano (esistenza di due uffici arredati e collegati in rete con la sede di Monaco; presenza di fornitori (concessionari) in gran parte italiani, presso i quali i clienti sceglievano le autovetture, e di clienti tutti italiani; numerosi conti correnti in Italia; soci/amministratori con residenza e interessi commerciali e familiari in Italia) anche questo collegio ritiene di poter desumere che la (...) con sede in Monaco di Baviera, che svolgeva attività di compravendita di automobili - aveva una stabile organizzazione nel territorio dello Stato italiano; precisamente in Brunico - (...) presso la quale operava.

100 V. Commiss. Trib. Reg. Marche sez. II, 24 giugno 2011, n. 44, in Big Suite IPSOA. 101 V. Commiss. Trib. Reg. Marche n. 44/2011, cit. 102 V. Commiss. Trib. I grado Trento sez. II, 29 aprile 2010, n. 40, in Big Suite IPSOA.

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Con riguardo al franchising è stato, invece, escluso che fra franchisor o franchisee sussista necessariamente un rapporto di S.O. e casamadre e si è evidenziato che in tali casi c'è un soggetto imprenditoriale certamente autonomo, che, per contratto, è tenuto a vendere prodotti contrassegnati da marchi noti, con certe caratteristiche e offrendo servizi, che abbiano standard comuni; in modo che la clientela abbia la sensazione e la sicurezza di acquistare prodotti e servizi della marca nota. Ciò non significa però che il venditore in franchising sia una longa manus della casa madre; ma solo che, se vende prodotti o servizi con quel marchio, deve osservare standard qualitativi uniformi e uniformemente conosciuti e ricercati dal mercato. Il fatto, poi, che ci siano in tutto il "mondo" (...) delle linee guida perché, per esempio (come pare sia nel caso di specie) non si ecceda in regalie alla clientela o non si spenda oltre certi limiti per pubblicizzare il prodotto, non appare sufficiente per affermare quello stretto legame di dipendenza aziendale tra periferia e centro, che pretende l'Amministrazione103. Un altro interessante elemento atto ad escludere la sussistenza di una S.O. è per la già citata C.T.R. Lombardia n. 137/2009 il fatto che se è la società residente a sostenerne i premi assicurativi per il suo rischio d’impresa, ciò induce a ritenere che detta società abbia autonomia e indipendenza rispetto alla controllante estera e non costituisca una sua S.O104. Tornando sul tema legato al sostenimento di rischi d’impresa, la Corte di Cassazione ha evidenziato che il Commentario precisa, inoltre (punto 38), che un importante criterio che contraddistingue le strutture dipendenti è la non assunzione, da parte delle stesse, del rischio imprenditoriale per le attività esercitate nell'interesse dell'impresa105. Sempre la Cassazione, nel caso Boston Scientific, dà invece rilievo alla fonte reddituale con cui si sopportano i rischi d’impresa e conferma quanto ritenuto dalla Commissione Regionale nella parte in cui è pervenuta alla conclusione che BS spa - avendo sopportato in via del tutto autonoma i rischi d'impresa della vendita di prodotti del genere di cui si è detto; avendo avuto una propria struttura commerciale ai cui costi ha fatto fronte con le commissioni

103 V. Commiss. Trib. Reg. Lombardia n. 137/2009, cit. 104 V. la C.T.R. Lombardia n. 137/2009 cit. secondo cui v'è poi un contratto di assicurazione, che esenta da conseguenze per i danni (contrattuali) sopportati a cagione del comportamento dei promotori. Anche qui, il dato se mai dimostra l'assenza e non la presenza della stabile organizzazione. La società italiana (...), infatti, lungi dal disinteressarsi delle conseguenze dannose verso la clientela a causa del mandato ai promotori, si assicura, sopportando i costi del contratto (i premi); difficilmente avverrebbe così se (...), fosse una mera "branch" di (...). Anzi, il fatto che (...) oltre che a vendere prodotti (...), abbia la possibilità (e dunque, ne abbia l'autonomia) di stipulare altri generi di contratti (quelli di factoring e quelli di assicurazione), evidenzia uno status di autonomia di (...), incompatibile con la caratteristica di mera stabile organizzazione. 105 V. Cass. n. 3367/2002, cit.

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che ha ricavato dalla sua attività - non può considerarsi una mera propaggine di BSI BV, ma una autonoma entità imprenditoriale. A tali connotati deve essere poi aggiunto il fatto che il reddito prodotto da BSI BV in virtù dei rapporti commerciali con BS spa è stato comunque sottoposto a tassazione dal Fisco olandese, Paese appartenente all'Unione Europea e perciò provvisto di pressione fiscale non dissimile da quella esistente in Italia, sicché non sarebbe infondato il rischio che tassare in Italia il reddito della BSI BV significhi tassarlo due volte, rischio a fronte del quale resta recessivo il pericolo che un'interpretazione letterale del sistema nei rapporti tra i due Paesi possa finire per agevolare pratiche di elusione fiscale realizzate avvalendosi di meri interposti travestiti da soggetti autonomi, appunto perché - trattandosi di realtà imprenditoriali collocate in paesi omologhi - detto pencolo è di genere meramente apparente106. È, invece, elemento indiziario di una S.O. l’esercizio di fatto di un’attività diversa dall’oggetto sociale dichiarato. Al riguardo, la Cass. n. 3367/2002107 cit. ha rilevato che il fatto che la società italiana avesse esercitato attività assolutamente estranee al proprio oggetto sociale e per le quali non aveva ricevuto un formale mandato (quali l'attività di promozione e, soprattutto, quella di controllo, per conto della società straniera, circa l'esatta esecuzione dei contratti da parte dell'A.A.M.S.), e che tale oggetto sia stato notevolmente ampliato proprio in concomitanza con la verifica (v. Cass. n. 17373/2002). In materia di servizi turistici, si segnalano, in conclusione, taluni elementi indiziari a favore e a sfavore della sussistenza di una S.O. Così la S.C. nel 2013 ha ritenuto sussistente la "stabile organizzazione" in Italia in riferimento alla semplice attività del ricevimento dei turisti, della destinazione ai rispettivi alloggi e della consegna degli ski pass108. La stessa S.C. nel 2012 ha, invece, dato rilevanza al luogo di pagamento dei corrispettivi per i servizi turistici e ha affermato che la ditta individuale "Centro Servizi di (omissis)" non costituiva stabile organizzazione in Italia

106 V. Cass. civ. n. 3769/2012, cit. 107 I presupposti di fatto erano i seguenti: poiché la costituzione di una società palesemente riconducibile ad Arizona Tobacco Products G.m.b.S. & CO., e quindi al gruppo Philip Morris, poteva comportare l'attribuzione piena dei redditi alla medesima, si sarebbe adottata la soluzione di costituire una società con denominazione diversa dall'usuale e con oggetto sociale specifico in cui non figurava il compimento di attività di concorso all'attività produttiva, di assistenza, di rappresentanza, di pubblicità, di controllo, di intermediazione ed altre, di fatto espletate, ma il cui palesamento avrebbe potuto evidenziare l'esistenza di una stabile organizzazione delle società del gruppo che intrattenevano rapporti col Monopolio. D'altra parte, solo nel 1996, quando erano già in corso gli accertamenti da parte degli organi di polizia giudiziaria e tributaria, Intertaba aveva mutato il proprio oggetto sociale. 108 V. Cass. civ. sez V, 17 gennaio 2013, n. 1103, in Big Suite IPSOA.

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delle società tedesche GMBH e GBR, atteso che i turisti tedeschi pagavano i corrispettivi in Germania ed ivi erano incassati da dette società109.

109 V. Cass. civ. sez V, 3 agosto 2012, n. 14068, in Big Suite IPSOA.