Fare Storia Tracce del nostro passato nel quartiere...

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Scuola Secondaria di Primo Grado “Galileo Ferraris” Sede “Guglielmo Marconi” A. S. 2013/2014 Fare Storia Tracce del nostro passato nel quartiere Crocettadi Modena Attività di laboratorio a classi aperte 3^ I, 3^ L, 3^ M, 3^ N, 3^ O, 3^ P

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Scuola Secondaria di Primo Grado “Galileo Ferraris”

Sede “Guglielmo Marconi”

A. S. 2013/2014

Fare Storia

Tracce del nostro passato

nel quartiere “Crocetta” di Modena

Attività di laboratorio a classi aperte

3^ I, 3^ L, 3^ M, 3^ N, 3^ O, 3^ P

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Introduzione

Il progetto didattico ha proposto attività laboratoriali, opportunamente strutturate per coinvolgere gli

allievi in un percorso di studio e ricerca storiografica.

Progettare e portare a compimento un’attività laboratoriale permette, infatti, di stimolare

l’autonomia, la ricerca e la responsabilità degli alunni, costruendo e solidificando, nelle diverse fasi

del lavoro, una forte interattività tra docente e allievi e tra allievi stessi.

Il laboratorio storico, in particolare, permette di riconnettere i saperi acquisiti attraverso le lezioni

frontali con quello che si apprende in situazione laboratoriale, potenziando le abilità nelle procedure

di uso delle fonti, di produzione delle informazioni, di trattamento e organizzazione delle

informazioni attraverso la ricerca storico-didattica.

Il laboratorio ha permesso agli alunni di sperimentare il “mestiere dello storico”1 confrontandosi

con testi specializzati, documenti, fonti scritte, iconografiche, materiali e orali.

Premessa

Il percorso didattico è stato condiviso e progettato nella monodisciplinare di Storia, e nell’ambito di

un lavoro di autoformazione su didattica e Nuove Indicazioni Nazionali per il curricolo di Storia,

che attribuiscono una notevole importanza all’approccio laboratoriale, agli intrecci disciplinari e

alla conoscenza del proprio territorio come fondamentale elemento per l’educazione alla

cittadinanza attiva. Nei traguardi di competenza disciplinare è presente un riferimento specifico (e

nuovo) al saper mettere in relazione aspetti del patrimonio culturale con i fenomeni studiati; inoltre,

diventa centrale il tema del digitale come fonte e come strumento di produzione.

In linea con queste nuove indicazioni, e con i traguardi per lo sviluppo delle competenze di Storia,

si è sperimentata un’attività di laboratorio finalizzata all’approfondimento di un tema

contemporaneo, destinato agli alunni delle classi terze.

1 Espressione ripresa dal titolo di un celebre saggio di Marc Bloch Apologia della storia (o il mestiere di storico).

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Obiettivi

Conoscere la realtà modenese e del quartiere Crocetta durante la guerra e l’occupazione

nazifascista e le sue storie di Resistenza.

Raccogliere le testimonianze orali di chi ha vissuto nel quartiere in quell’epoca storica.

Dedurre conoscenze storiche dalla lettura e interpretazione delle fonti.

Usare fonti di tipo diverso, anche digitali, per ricavare conoscenze.

Comprendere il testo storico e rielaborarlo.

Produrre testi utilizzando conoscenze selezionate da fonti diverse.

Argomentare su conoscenze apprese usando un linguaggio specifico.

Collocare la storia locale in relazione con quella nazionale, europea e mondiale.

Metodologia

Ricerca bibliografica.

Ricerca autonoma e guidata attraverso testi cartacei e digitali.

Registrazione video e/o fotografica dei luoghi da analizzare.

Consultazione, decodifica e trascrizione delle fonti.

Ascolto e trascrizione delle testimonianze orali.

Collegamenti interdisciplinari

Il percorso didattico ha consentito diversi collegamenti con altre discipline:

Cittadinanza e Costituzione: per la riflessione sulle conseguenze di qualsiasi guerra, per la

comprensione dei fondamenti e dei principi su cui si basa la Repubblica Italiana, per la

costruzione di una cittadinanza consapevole del passato.

Italiano: per la lettura, l’analisi e la rielaborazione dei documenti e delle testimonianze, per

la produzione scritta e orale.

Geografia: per la conoscenza del luogo in cui si vive, per la comprensione delle relazioni tra

situazioni ambientali, culturali e socio-politiche

Struttura dei contenuti

Classe Argomento Docenti coordinatori

III I–III O

Il quartiere Crocetta dalle origini

ai bombardamenti

Masetti A. e Giansanti M.

III L –III M La villa Pentetorri Riccò E. e Carrasso J.

III N La Popolarissima Piazza M.

III P Il campo di prigionia (TODT) Sgarbanti C.

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Bibliografia

Montedoro L. (a cura di), La città razionalista. Modelli e frammenti. Urbanistica e architettura a

Modena, 1931-1965, RFM Edizioni, Modena 2004.

Nuzzi O., La Crocetta. Il quartiere delle vie d'acqua e della strada ferrata, cuore produttivo e porta

d'ingresso della città, Arcadia Edizioni, Modena 2005.

Nuzzi O., Le pietre raccontano. Storie di caduti per la libertà, Edizioni Edicta,, Fidenza 2007.

Silingardi C., Montanari M., Storia e memoria della Resistenza modenese, Ediesse, Roma 2006.

Silingardi C., Una provincia partigiana. Guerra e resistenza a Modena 1940-1945, Franco Angeli.

Pinelli R., Parole ribelli, Nuova Grafica, Modena, 1985.

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CAPITOLO 1

La Crocetta: cenni storici e storiografici dal primo

sviluppo industriale ai bombardamenti del 1944.

PARTE PRIMA

La Crocetta: cartografia e sviluppo industriale

dal XV secolo alla prima metà del XX secolo

1. Lo sviluppo urbano attraverso alcune carte storiche

1.1. Area urbanizzata di Modena tra XV e XVI secolo

Nel corso della storia la città di Modena ebbe numerose evoluzioni urbanistiche.

Nel 1400, la cinta muraria di Modena era piuttosto modesta, di forma quadrata,

veniva attraversata per il lungo dalla Strada Claudia (attualmente via Emilia) passando per la porta a

est chiamata Porta di Bologna. A sud invece le porte erano tre: una che si faceva attraversare dalla

Strada di Vacilio; un’altra attraversata dalla Strada che traversa la Palude e l’ultima che si apriva

accanto a Canalchiaro. Nel 1546, sotto il dominio di Ercole II era stato fatto un ampliamento

chiamato "Addizione Erculea", o di "Terranova", che corrisponde alla parte nord della città murata

(cioè dalla zona di Piazza d’Armi alla zona dei Giardini Ducali).

Figura 1 Le mura di Modena nel XVI secolo (fonte: Archivio di Stato di Modena)

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1.2. Area urbanizzata di Modena tra XVII e XVIII secolo

Dopo il 1630 nella parte a Nord venne fatto un ampliamento di mura. Questa zona si chiamava

“Cittadella”. Nel 1684 la pianta della cinta muraria di Modena prese un aspetto definitivo. Le mura

erano disposte in modo pentagonale, esse erano inoltre munite di baluardi.

Figura 2 Modena verso la metà del XVII secolo (fonte: Archivio di Stato di Modena)

Figura 3 Modena e le sue mura fortificate nel 1752 (Fonte: Archivio di Stato di Modena)

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1.3. Area urbanizzata di Modena nel XIX secolo.

Nella prima metà del XIX secolo, Modena è un abitato interamente racchiuso nelle mura erculee

che ancora dispone di vasti spazi verdi nel quartiere cinquecentesco detto Terranova. All' esterno

delle mura ci sono insediamenti sparsi ( per lo più abitazioni contadine).

Figura 4 Modena nel 1770: dove oggi c’è la Crocetta era tutta campagna! (Fonte: Archivio di Stato di Modena)

Figura 5 Mura di Porta Bologna

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Come si può vedere da queste immagini, Modena nel passato era circondata da mura e percorsa da

canali: la Darsena era il porto fluviale della città, qui confluivano tutti i canali e si congiungevano al

Po e di lì al mare e a Venezia.

A Modena c’erano due darsene

una interna (dove oggi c’è corso Vittorio Emanuele) e una esterna (poi interrata nel 1936)

che si trovava tra gli attuali quartieri Crocetta e Sacca.

L’attuale quartiere Crocetta sorge quindi in una zona che un tempo era fuori dalle mura della

città.

Figura 6 Darsena e naviglio interno alle mura cittadine

Figura 7 Porta Castello o Barriera Vittorio Emanuele

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1.4. Area urbanizzata di Modena nel 1881-1893

Fuori dalle mura, fra lo scalo merci della stazione ferroviaria (costruita nel 1859) e la darsena del

Naviglio, si localizzano grandi depositi e opifici: il polo economico e commerciale si sposta attorno

alla stazione.

Quest’area subisce una trasformazione con l’abbattimento delle mura (1882) e la bonifica dei

terreni circostanti le rive del Canale Pradella. Il “piano edilizio generale” varato nel 1883, scaturito

dall’esigenza di decongestionare e risanare l’antico centro storico, segna l’espansione degli

insediamenti residenziali nelle zone in linea con le mura. La popolazione si insedia soprattutto ad

est della città storica, fra S. Caterina e S. Agnese, e prende gradualmente forma il polo industriale di

Modena, a partire dagli anni Novanta e fino alla vigilia della grande guerra, con officine

meccaniche, siderurgiche e chimiche.

Agli inizi del ‘900 viene abbattuto il Ghetto ebraico e iniziano i lavori per la demolizione delle

mura cittadine che proseguiranno a fasi alterne fimo al 1915 quando, a causa della guerra, verranno

interrotti.

Figura 8 1863-1890: si notano la nuova stazione ferroviaria e la Darsena esterna alle mura cittadine (in alto a

destra); nella seconda pianta notiamo che la zona Nord, tra la darsena e la stazione, si popola sempre di più.

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1.5. Area urbanizzata di Modena nel 1933-1935

L’area urbanizzata di Modena aggiornata al 1935 registra l’espansione oltre le mura urbane (già

abbattute), con un incremento maggiormente significativo nel settore orientale ed una generale

tendenza a disporsi in profondità nel territorio sulla direttrice delle strade radiali, in particolare la

via Emilia e la via Giardini. L’espansione della città è più evidente nell’area di S.Agnese e

Madonnina, nei cunei fra le diramazioni viarie e in misura minore verso Baggiovara e Portile.

Tra il 1924 e il 1945 gli insediamenti industriali non cessano di concentrarsi di là dalla strada

ferrata, lungo l’asse ideale che corre da S. Caterina alla Sacca, con le officine Fiat trattori e Orsi a

Nord, mentre l'edilizia residenziale si sviluppa a raggiera, da Est a Sud Ovest, entro i due assi viari

della via Emilia verso S. Lazzaro e della via Giardini.

Figura 9 Modena nel 1903-1904. Al posto delle mura sono state costruite importanti vie di comunicazione

(Giovanni D’Alesio, 3^I)

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2. La Crocetta e lo sviluppo industriale della zona Nord di Modena

Figura 10 Veduta aerea dell’Accademia (anni ’30-‘40) e della zona Nord di Modena: dietro, sulla sinistra, si

vedono la manifattura tabacchi e altre fabbriche e a seguire la campagna; sulla destra il tempio monumentale; al

centro viale Vittorio Emanuele

2.1. La conceria Donati

Già in epoca ducale intorno al porto di Modena sul Naviglio erano sorti magazzini e attività

artigianali. Nel XIX secolo nella zona c’erano già un salumificio, un magazzino del sale e una

importante conceria. Di conseguenza tutta la zona era sempre stata attiva e affollata, popolata da

operai, facchini, artigiani e barcaioli. Dopo la seconda rivoluzione industriale in quelle zone

iniziarono a sorgere numerose fabbriche, e la parte nord di Modena divenne la zona industriale della

città.

Sin dal Medioevo Modena era famosa per la lavorazione del pellame e del cuoio. La conceria

Donati fu fondata nel ‘700 dall’omonima famiglia, una delle più antiche e importanti della comunità

ebraica modenese; il cui capostipite, Donato Donati, abitava a Finale Emilia e si era trasferito a

Modena nel 1606. La conceria era nota come Conceria Donati o come Conceria Pellami. Fu

ripetutamente ammodernata, tanto che nella seconda metà dell’Ottocento era considerata la migliore

di tutte le concerie modenesi di quel periodo. Si trovava vicino alla ferrovia, nella zona nord di

Modena, all’esterno delle mura. Fu colpita e distrutta durante il bombardamento degli alleati del 14

febbraio del 1944, lungo la ferrovia, e non fu più ricostruita; al suo posto sorsero le ex scuole

Marconi e la polisportiva Villa D’Oro.

(Alex Ganassi, 3^O)

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2.2. OCI Fiat

Nel 1915 venne aperta la manifattura «proiettificio modenese» per la produzione bellica (in via

Razzaboni). Quando la Fiat di Torino acquistò il proiettificio vi costruì poi, nel 1928, la OCI Fiat

(Officina Costruzioni industriali) che si occupava della costruzione di macchine agricole e trattori,

anche se, durante la seconda guerra mondiale, la sua produzione si concentrò su carri armati, bome

e lanciafiamme.

Inoltre, nel 1942, fu affiancata dalla Fiat Grandi Motori, specializzata in macchine utensili, che però

venne subito chiusa nel 1950.

Negli anni '70 l'OCI Fiat venne trasferita definitivamente da Torino a Modena, mentre la sede degli

uffici, il magazzino ricambi e il centro prove furono spostati a San Matteo, sulla strada Canaletto.

Infine, dopo l'acquisizione della Ford e della New Holland, si è formata un'azienda unica con

stabilimenti a Modena, in Olanda e negli Stati Uniti.

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2.3. Maserati

La società Anonima Officine Alfieri Maserati sorse a Bologna nel 1914, per volere di tre dei

sette fratelli Maserati, ovvero: Alfieri, Ettore ed Ernesto, ma morto Alfieri l’Azienda dovette

affrontare diverse difficoltà finanziarie. Tutta via il modenese Adolfo Orsi, nel 1939, acquistò il

pacchetto azionario dell’Azienda, trasferendo la produzione a Modena in via Ciro Menotti, dove

si trova tutt’ora.

Poco lontano sorgeva anche la prima officina Ferrari (ora Casa Museo Enzo Ferrari). Tuttavia,

durante la Seconda guerra mondiale la Ferrari spostò la produzione a Maranello per evitare i

danni dei bombardamenti.

In quello stesso periodo la Maserati, come l’OCI Fiat, iniziò a produrre armi per la guerra,

concentrando la produzione su fresatrici, torni, alesatrici ed inoltre sperimentando veicoli

elettrici a tre poi a quattro ruote.

Nel 1945 la Maserati arrivò a contare 350 dipendenti, ma con le difficoltà economiche del

dopoguerra i posti di lavoro si ridussero a 170.

Quando nel 1975 subentrarono nell’Azienda l’industriale De Tomaso e la GEPI (un ente

pubblico) facendo aumentare le produzioni, fecero diventare Modena famosa in tutto il mondo.

Figura 11 La prima officina della Maserati, negli anni '40

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Figura 12 La sede attuale vicino al cavalcavia di Ciro Menotti

Figura 13 In questa immagine di Google Maps vediamo l'area del centro storico e in verde l'area occupata dalla

Maserati; più a ovest riconosciamo la stazione ferroviaria e l’area industriale della Crocetta

(Ilaria Bignoni, 3^O)

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2.4. La “Fabbrica Italiana Serrature Corni”.

Come abbiamo visto, per molti anni Modena è stata una "piccola" città, circondata da un' area

agricola molto estesa . Nel corso degli anni tutto è cambiato, fino ad arrivare ad essere una grande

città ricca di industrie.

Quella immensa area agricola divenne presto industriale, vi costruirono diverse industrie e, tra le

tante, l'industriale Fermo Corni nel 1907 aprì la "Fabbrica Modenese Utensileria e Ferramenta

Corni Bassani e C".

Fermo Corni era un imprenditore italiano. Per lunghi anni fu presidente della Camera di

Commercio di Modena. Il primo agosto del 1907 si ebbe l’inaugurazione della fabbrica: 50 operai

cominciarono la produzione di pedivelle per biciclette, pattini a rotelle, chiavarde per ferrovie.

In realtà era nata come una bottega padronale, ma con il passare degli anni si sviluppò, nonostante

avesse difficoltà a reperire manodopera che conoscesse un po’ di meccanica. Il fondatore allora

pensò, con l’aiuto dello Stato, di offrire alla città di Modena (1916) una scuola dove si insegnasse

cultura elementare e professionale. Aumentando sempre di più le richieste e non potendo disporre

di manodopera qualificata, Fermo Corni pensò di far venire alcuni tecnici dalla Germania per

costruire un’industria sua in Italia.

Nel 1910 gli operai erano aumentati a 300 e Fermo Corni venne insignito dell’onorificenza di

Cavaliere del lavoro.

Dopo poco incominciò a produrre serrature e chiavi in serie; per la chiave e per il nottolino, che

erano fusi in ghisa malleabile, bisognava ricorrere alle fonderie della Germania, però Corni voleva

rendersi autonomo, perché comunque gli rallentava il processo di lavorazione, quindi, negli anni

Venti, decise di installare un forno per la fusione della ghisa malleabile. Gli operai aumentarono

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sempre di più. Per lo più era l’unica fabbrica di serrature che c’era in Italia, e per alcuni anni

Modena ne ebbe il monopolio.

La fabbrica nel 1921 assunse il nome di Fabbrica Italiana Serrature Corni & C. Con un capitale

sociale che arrivava ad un milione di lire suddiviso in azioni da £ 100.

Nel 1924 venne aggiunta la fonderia per la lavorazione della ghisa. A questo punto espanse la

produzione: invece di produrre solo chiavi, iniziò a produrre anche pezzi per le ferrovie, per

automobili, macchine agricole, elettromotori, materiali di isolamento. Durante la guerra la fonderia

Corni lavorava per il Silurificio, per l’Isolotta Fraschini (automobili), per la Bianchi (biciclette) e

inoltre aveva la licenza delle case madri americane di fornire i pezzi di ricambio per le macchine

agricole.

Figura 14 L'interno delle fonderie, quando erano in funzione. L’esterno delle fonderie che costeggiavano i binari

ferroviari

Dopo la guerra allacciò rapporti con la Fiat Auto, iniziò la produzione dei cilindri Piaggio per lo

scooter Vespa, e lavorò per la Lamborghini, e per Bianchi.

Negli anni Ottanta del Novecento iniziò il declino. Le fonderie vennero chiuse nel 1991.

La fabbrica di serrature Corni è stata acquistata dalla Yale, che nel 2004 ha definitivamente chiuso

lo stabilimento di Modena.

Figura 15 Nuovi grattacieli costruiti dove prima c'erano le fonderie

(Francesca Di Matteo, 3^I)

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PARTE SECONDA

«Perché ci bombardano?»

1944: i bombardamenti alleati sulla città

1. Introduzione. I “bombardamenti alleati”: un ossimoro difficile da

comprendere Giorgio Albarani, il presidente dell''Istituto storico di Modena, in un recente articolo è

tornato a illustrare alcuni aspetti dei bombardamenti Anglo-Americani, a partire dalle

domande della gente di allora; una di queste era : «gli alleati erano buoni o solamente

altri cattivi?»

Del resto a Modena le vittime dei bombardamenti americani furono centinaia: civili,

donne e bambini.

Alcuni documenti si possono trovare sulla Cronaca di Modena del 14 Maggio 1944

sulle pagine della Gazzetta dell'Emilia, quotidiano, come tutti, sottoposto a rigida

censura da parte del governo fascista.

Fonte storica: Cronaca di Modena, in Gazzetta dell'Emilia, 14 maggio 1944

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La vita quotidiana era controllata anche dai nazisti, i quali attuavano rastrellamenti e

azioni di contro-guerriglia in provincia contro i partigiani, ma la contro-aerea della

RSI non poteva contrastare le fortezze volanti americane che portavano 1 tonnellata

di bombe ciascuna.

Ma per cercare di dare una risposta alle domande di allora, che potrebbero essere

anche quelle di oggi, dobbiamo leggere anche i volantini degli stessi Alleati che

lasciavano cadere sulla città per tentare di dare una spiegazione ai cittadini modenesi

e d'Italia delle loro azioni distruttrici.

A questi facevano da controcanto i volanti partigiani, in particolare quelli del Gruppo

per la Difesa delle Donne che, a loro volta, cercavano di capire e di spiegare cosa

stava accadendo ed esortavano la popolazione a resistere e a combattere il nemico

nazifascista.

Cronaca Pedrazzi: documento dattiloscritto conservato presso l'Istituto Storico di Modena

Un'altra importante fonte documentaria per comprendere come furono vissuti i

bombardamenti del 1944 a Modena è la Cronaca di Adamo Pedrazzi, il quale al

tempo dirigeva la Poletti; lui era un fine osservatore della vita quotidiana e descrisse

minuziosamente i luoghi, le abitazioni colpite e rase al suolo durante i

bombardamenti, restituendoci l'atmosfera di quei terribili giorni.

(Matteo Borghi, 3^I)

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2. I bombardamenti su Modena

Durante la seconda guerra mondiale Modena è stata, per tre volte, soggetta a

bombardamenti degli Alleati.

Il primo avvenne il 14 febbraio del 1944, il secondo avvenne il 13 maggio del 1944 e

l’ultimo il 22 giugno dello stesso anno.

L'Istituto Corni colpito dalle bombe degli Alleati

Il bombardamento del 14 febbraio colpì maggiormente i rioni operai.

Sulla Cronaca di Modena si racconta che il popolo modenese reagì con un contegno

esemplare; subito dopo il bombardamento ebbe inizio una solidale opera di soccorso

verso le vittime; furono più di cento i morti e più di trecento i feriti.

Questo attacco, secondo la stampa di regime, mostrò chiaramente la barbarie dei

liberatori.

Il secondo terribile bombardamento, a tre mesi esatti dal primo, colpì il centro della

città: case civili, chiese, ospedali, rioni popolari furono presi di mira «ferocemente

dalla furia cieca e indiscriminata degli anglo-americani».

Una bomba colpì un lato del Duomo e fu lesionato il palazzo Arcivescovile.

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Porta Principe: bombardamento sul Duomo di Modena

su Cronaca di Modena, in Gazzetta dell'Emilia, 13 maggio 1944

Accorsero subito, senza preoccuparsi della propria incolumità, il Caporal Maggiore

Salvatore Lombardo e Michele Antinoro e l’impiegato dell’Amministrazione

Provinciale Antonio Poggi. Immediatamente dopo il bombardamento arrivarono a

Modena il delegato regionale del partito fascista repubblicano, che fece le

condoglianze da parte del partito.

«L’incursione ha dato nuovamente prova del terrorismo incontrollato del nemico che

non rispetta nulla, in nome di una vantata democrazia e di una proclamata libertà,

sotto i cui drappi si nasconde la ferocia beduina di cento razze bastarde». Così la

stampa di regime spiegava l’accaduto; «Le bombe sganciate sono state l’antipasto

forte che fa prevedere quale potrebbe essere la colazione ed il pranzo che ci

servirebbero se i liberatori vincessero, ma non vinceranno la guerra. Modena, antica e

generosa, sopporterà, ancora una volta, nobilmente e orgogliosamente, la sciagura,

com’è negli usi dei popoli forti e di alta civiltà».

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Piazza Duomo dopo le bombe del giugno 1944; in primo piano gli accessi ai rifugi

Il terzo e ultimo bombardamento, avvenuto il 22 giugno, ha colpito soprattutto case

operaie e alcune case civili. Durante il breve, ma intenso bombardamento, furono

distrutti Palazzo Campori, la scuderia Branchini, le scuole Campori, lo stadio

Marzani, la piscina ed il campo da tennis.

C’è stato solamente un morto e pochi feriti che sono stati prontamente soccorsi.

Cronaca di Modena, in Gazzetta dell'Emilia, 22 giugno 1944 con foto di Palazzo Campori

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In ogni articolo sui bombardamenti, si può notare come la stampa di regime trametta

messaggi offensivi per mettere in cattiva luce in tutti i modi i “liberatori”; inoltre in

ogni articolo compare il ringraziamento al popolo per essere stato contegnoso ed

esemplare e un ringraziamento a tutti per il solidale e veloce soccorso davvero

efficiente. Compare inoltre un’incitazione e un incoraggiamento per quanto riguarda

le sorti della guerra. La stampa di regime era totalmente parziale e poco obbiettiva in

quanto incoraggiava e metteva sotto una buona luce il fascismo e le azioni che esso

compiva.

(Barbara Guerrieri, 3^O)

3. L'Italia fascista e il territorio modenese.

Il gruppo degli Alleati, mandò moltissimi volantini di minacce o precauzioni alla

popolazione italiana. In alcuni di essi si spiega che finché non verrà fatta giustizia

contro la Germania nazista, loro bombarderanno senza tregua i ponti, i porti e le

industrie, arrivando a distruggere l'intera Italia.

Gli Alleati accentuano l'attenzione sul loro atteggiamento benefico. Cioè spiegano

che le azioni causate dal gruppo non vanno a colpire l'intera popolazione, ma solo i

gerarchi fascisti, che hanno identificato l'Italia con la Germania nazista.

Veniva proposto agli italiani di fare una scelta: tra la pace che gli Alleati vogliono

portare e la distruzione che i tedeschi e fascisti provocano alla città.

Nel volantino distribuito dalla "Quinta Armata" si esordisce con una frase benevola:

"amici italiani".

Volantino della Quinta Armata dell'esercito americano

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Il gruppo alleato tenta di spiegare che sono «costretti» a puntare le loro armi contro il

monastero di Montecassino; avvertendo la popolazione di mettersi in salvo. Ma la

gente, la popolazione di Modena, continuava a non capire; la confusione regnava.

«Perché ci bombardano?», si legge in un volantino dell'associazione che nacque a

quell’epoca, il “Gruppo per la difesa della donna" (GDD) presente anche a Modena.

Sono stati analizzati due volantini, nei quali si accentua l'attenzione su quella

domanda, cercando di dare una possibile risposta.

Nel primo volantino il "gruppo per la difesa della donna" spiega che i

bombardamenti, che avvenivano nel territorio modenese, erano fatti perché le

fabbriche lavoravano per i tedeschi. Il “GDD” proponeva allora scioperi nelle

fabbriche e libertà e indipendenza della patria.

La città bombardata. L'incredulità delle donne

Anche nel secondo volantino si ritrova la stessa domanda: «perchè ci bombardano?».

Qui si fa forte il sentimento materno; infatti si spiegava che i fascisti erano gli

assassini dei loro figli e dichiaravano morte ai tedeschi ed ai fascisti traditori.

(Vittorio De Simone, 3^O)

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4. La città sotto le bombe. Dalla “Cronaca Pedrazzi”

Era lunedì 14 febbraio quando la zona della città, considerata tabù, fu colpita dalla

forza «devastatrice» degli Anglo-Americani. I loro cacciabombardieri non

rispettarono gli accordi col Regno d‘Italia che gli imponevano di non bombardare su

zone civili abitate. E' quello che emerge dalla Cronaca Pedrazzi, un'importante fonte

documentaria, nello specifico un diario, grazie alla quale si possono meglio

comprendere come furono vissuti i bombardamenti del 1944 a Modena e utile anche

per capire la vita quotidiana di allora. Pedrazzi era un fine osservatore e descrisse i

luoghi, le abitazioni colpite e rase al suolo durante i bombardamenti.

« ...Gli alati distruttori partono in masse notevoli, si dispongono in linea frontale

abbracciante un qualche centinaio di metri d'estensione, quindi procedono in linea

retta cercando che siano inclusi entro l'ampia zona da colpire gli obbiettivi industriali

e le ferrovie.» (dalla Cronaca Pedrazzi, pag. 611). Questa citazione ci fa capire che

l’intento degli Alleati era “buono”, ma una volta sganciate le bombe la storia

cambiava perché furono martoriate abitazioni civili mentre gli obiettivi principali

rimasero completamente intatti.

1944: La città sotto le bombe degli alleati

Questo provocò la rabbia dei cittadini modenesi, che contestarono fortemente il modo

di bombardare americano. Pedrazzi dice che se veramente avessero voluto colpire

una determinata zona, avrebbero potuto benissimo mirala, salvando le abitazioni.

Erano le ore dodici e venti minuti quando suonò l'allarme, era il momento delle

incursioni. Ma la gente ormai non dava più ascolto agli allarmi che si ripetevano, a

volte rivelandosi falsi. I primi cacciabombardieri si diressero verso Sassuolo, degli

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altri verso Cognento, altri ancora a Rubiera, gli ultimi verso le fabbriche FIAT.

Pedrazzi spiega che tutti gli obiettivi furono mancati, ma le bombe colpirono case

civili, rovinando così la vita di molte persone. Da questo si intuisce che anche il

morale delle persone fu stremato. «... Fumo e lamenti,urla di gente che fugge poichè

costà sia sui campi che lungo le fosse stavano rifugiati persone in buon numero.»

(dalla Cronaca Pedrazzi, pag. 617).

Il cacciabombardiere “Pippo” in un'immagine dell'epoca

Via Ruffini fu massacrata dagli americani perché sede dell' Officina Fiat Motori e

della Maserati Candele, della Fio e del Pastificio Braglia... questa zona era fitta di

fabbriche, quindi il bersaglio fu colpito: la fabbrica macchine agricole Giusti, lo

Stabilimento delle vinacce, l'OCI FIAT, le Fabbriche Concimi Chimici e molte case

della località Sacca furono rase al suolo. Invece la Stazione delle Ferrovie rimase

intatta, mentre le case adiacenti al cavalcavia furono in buona parte distrutte e anche

quelle del quartiere Crocetta.

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Disposizione degli aerei per i bombardamenti

A questo punto la città era costernata, i morti furono parecchi. Questo fece scaturire

nei cittadini modenesi un forte sentimento di disprezzo, odio e maledizione contro chi

aveva scagliato le bombe, ovvero i cosiddetti liberatori.

1944: La città sotto le bombe degli Alleati

Secondo la visione di Pedrazzi l’ opera di soccorso ai feriti fu immediata.Volontari

della Croce Rossa e dell’UNFA cercarono con tutte le loro forze di salvare qualche

digraziato sepolto sotto le macerie e costruirono un obitorio improvvisato nella

Chiesa di S. Agostino. « Nessuno può giurare sulle intenzioni e sulla condotta degli

altri; non si poteva quindi, logicamente, aspettarsi che gli Anglo-Americani volessero

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risparmiarci forse perché v’è fra noi chi li stima e apprezza, ma se del caso, costoro,

possono mutare parere. Siano gli Inglesi, siano gli Americani, se ne infischiano di noi

e dei nostri begli occhi, quando torna il loro conto, picchiano e devastano anche nella

casa del padrone loro, come dunque volete credere che noi fossimo fra i tanti i soli

immuni dal flagello devastatore?». (dalla Cronaca Pedrazzi, pag. 623).

Lo stato d’animo della gente non era assolutamente provato, anzi molti cominciarono

a pensare che piuttosto che essere deportati nei campi di lavoro in Germania,

preferivano raggiungere le vette in montagna e mettersi in mano ai ribelli.

Con gli ultimi bombardamenti gli americani avevano raso al suolo numeroso

fabbriche producendo un rallentamento delle produzioni, ma ciò, ci dice Pedrazzi,

portò di conseguenza ad un aumento della disoccupazione, dando così adito alla

inscrizione delle persone colpite dal licenziamento nelle liste rosse degli operai da

inviarsi in Germania.

Era sabato 24 febbraio quando i cittadini trovano la città tappezzata di volantini di

varia natura. Il più letto fu il manifesto emanato dal 42° Comando Militare

Provinciale, che riproduceva integralmente il Decreto Ministeriale del 18 febbraio

1944 in ordine alla renitenza dei giovani delle classi chiamate al servizio, (cioè coloro

che disobbedirono alla chiamata al servizio militare) nonché riguardante

l’allontanamento di parecchi giovani già incorporati nelle diverse armi. Si avvisava

anche che la pena di morte è comminata ai disertori e ai renitenti. Questo vuol dire

che i soldati ormai erano stanchi di praticare la guerra, una guerra inutile dal loro

punto di vista e perciò preferirono ammutinarsi.

Alla Fabbrica Maserati Candele ci fu un'azione di polizia, tutti gli uomini, le donne

furono perlustrati minuziosamente per accertarsi che nessuno era in possesso di armi.

Ciò vuol dire che iniziarono le opere di rastrellamento anche in città. <Alle ore 15,

l’altoparlante fa il giro della città annunciando a voce sonora che il coprifuoco è

portato alle ore 20!>. Venerdì mattina una vera retata di uomini e giovani fu inviata

alla Questura. Qui ricevettero un perentorio ordine di presentarsi alle ore tali, nel tal

luogo per un servizio di guardia degli enti pubblici. Ciò vuol dire che i tedeschi

cercavano di proteggere gli enti, facendolo fare agli stessi cittadini che ci tenevano

maggiormente e che già da tempo avevano maturato forti sentimenti negativi nei

confronti degli Alleati.

(Chiara Nicolini, 3^I)

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Bibliografia:

Carte storiche tratte da:

- http://urbanistica.comune.modena.it/prg/qc/cartastorica/CartaStorica.htm

Testi tratti e rielaborati da:

- Olimpia Nuzzi, La Crocetta. Il quartiere delle vie d'acqua e della strada ferrata, cuore

produttivo e porta d'ingresso della città, Arcadia Edizioni, Modena 2005.

- Cronaca Pedrazzi, dattiloscritto conservato presso Istituto Storico per la Resistenza di

Modena.

- Gazzetta dell’Emilia, febbraio-maggio 1944 (conservata presso Istituto Storico per la

Resistenza di Modena).

- R. Pinelli, Parole ribelli. I volantini della Resistenza modenese, Nuovagrafica, Modena,

1995.

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Capitolo 2 Il quartiere Crocetta e la Villa Pentetorri

Dall’analisi dei documenti al testo storiografico

Villa Pentetorri o Villa Rainusso Il 27 febbraio 1941 a Modena vicino alla stazione ferroviaria, circondata da alberi, sorgeva la villa delle Pentetorri, già proprietà degli Estensi, che la abitavano raramente. Caduti gli Estensi la proprietà fu acquistata da Elia Rainusso il quale non l’abitò mai e morendo la lasciò alle opere Pie di Santa Maria Ligure. Il modenese Guido Corni chiese che fosse concessa per trent’anni all’Istituto per le malattie tropicali a scopo scientifico. Corni, nei suoi anni di governo della Somalia, aveva capito l’importanza di questo istituto per lo studio delle malattie tropicali. Il professor Giuseppe Franchini, che nel 1923 aveva fondato a Bologna la prima scuola di patologie coloniale, con Guido Corni, decise il trasferimento dell’istituto da Bologna a Modena dove poteva avere più indipendenza per studiare le malattie tropicali e di parassitosi dei malati reduci dall’Africa nonché preparare medici ed infermieri. Questa iniziativa fu approvata dall’Università di Modena e dal Duce. L’istituto dal 1930 al 1938 era un centro importante dove si susseguivano corsi frequentati anche da alunni stranieri. Al professor Franchini seguirono Paolo Proberi e Giovanni Serra. La villa fu inaugurata con un solenne rito dal magnifico rettore dell’Università e altre autorità tra cui il ministero della guerra dell’Africa italiana. Nella villa c’erano i laboratori, l’ambulatorio, il museo, la biblioteca, l’aula per le conferenze e gli uffici e si mantenevano in vita anche parassiti vari a scopo scientifico. L’istituto era intitolato a Giuseppe Franchini ed era, secondo il giornalista Guidotti, un centro che poteva costruire, combattere e vincere le varie battaglie e costruire le varie “razze” umane. Il 13 maggio 1944 vi fu una grave incursione aerea su Modena che colpì il lato del Duomo, il palazzo arcivescovile, varie chiese, il tempio dei caduti in guerra, il portico del Collegio, il palazzo delle poste e altri vari edifici e case popolari. Il 20 maggio 1944 la Gazzetta Dell’Emilia riporta la foto della villa Rainusso quasi completamente distrutta dal bombardamento, e il titolo fa capire che era un obiettivo bellico degli Anglo-Americani, “i liberatori”. In realtà l’istituto per le malattie tropicali e la collezione non furono distrutti perché erano stati trasferiti nel 1943 al Foro Boario, in seguito ad una causa intentata dal Pio Lascito Rainusso contro l’Università di Modena. Le collezioni nel 1963 furono trasferite nel nuovo policlinico. Ora si trovano in una scuola del museo Anatomico.

(Gruppo di alunni di 3 L e di 3 M)

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Foto tratta da “Gazzetta dell’Emilia”, 27 febbraio 1941

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Immagine tratta da “Gazzetta dell’Emilia”, sabato 20 maggio 1944

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Articolo tratto da “Gazzetta dell’Emilia”, 14 maggio 1944

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Articolo tratto da “Gazzetta dell’Emilia”, 27 febbraio 1941

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La storia raccontata da Franco Bellei

La 3 L e la 3 M incontrano un ex partigiano

Franco Bellei, un ex partigiano, è venuto a raccontarci la sua storia… Tanto per cominciare, è nato a Modena nel 1929 e ha iniziato ad andare a scuola nel 1935. Ha deciso di continuare gli studi, prima al “Corni” per tre anni e, in seguito, per altri due, ha frequentato la scuola di Bastiglia. Allora, frequentare la scuola voleva dire andarci quando era possibile, quando non c’erano né bombardamenti né allarmi. Nella scuola a Bastiglia incontrò il maestro Nello Rovatti, che seguiva i ragazzi in un doposcuola. L’uomo cercò di convincere i giovani a unirsi ai partigiani (che lui stesso dirigeva),per potere cacciare i tedeschi. Così, diciassette ragazzi, tra cui Bellei, di un’età compresa tra i quindici e i diciassette anni, iniziarono a collaborare con i partigiani, formando il gruppo dei “Giovanissimi”. Questi fingevano di aiutare i tedeschi a montare le linee telefoniche, per poi, di notte, andarne a tagliare i fili, che dopo sotterravano nei campi del padre di Franco. Portavano poi le mele ai prigionieri che si trovavano in Cittadella; dentro alle mele mettevano dei messaggi per indicare le vie di fuga. Quasi tutte le sere dicevano ai genitori che sarebbero andati a giocare, lasciandoli così ignari della loro attività di partigiani. La popolazione aveva due principali paure: i bombardamenti dell’aereo “Pippo” e i rastrellamenti, dove fu ucciso anche un amico di Franco, Mauro Capitani, ad Albareto. Il ventidue aprile, una domenica mattina, finalmente Modena venne liberata dai partigiani, ma presto la gioia venne sostituita dalla preoccupazione che i tedeschi potessero uccidere i cittadini o potessero fare scoppiare un incendio in città. Fortunatamente non diedero segni di vendetta e la città si tranquillizzò. Franco e i suoi familiari erano preoccupati per la sorella, che era uscita per portare il latte alla cascina, ma non le successe nulla di male. Finita la guerra, dissotterrarono i fili che avevano nascosto sotto terra e li portarono nelle case che ancora non avevano l’elettricità. In seguito Franco trovò, tramite un amico, un lavoro come addetto alle macchine frigorifere. Nel frattempo riuscì a trovare casa in Via Nonantolana, dove andò ad abitare con la sua famiglia. Qui riuscì a condurre una vita normale, anche se credo che, come è successo a tutti, quelle atrocità gli rimasero in mente. Ala fine della guerra ebbe alcuni riconoscimenti per avere svolto attività partigiane. La città di Modena ottenne la medaglia d’oro. Non bastano poche righe per raccontare la vita di una persona, men che meno quella di un partigiano; bisogna ascoltarla direttamente, essere testimoni di ciò che dicono, in modo che vengano ricordate tutte le esperienze orribili, ma allo stesso tempo bellissime, che hanno vissuto questi eroi. Ogni classe dovrebbe avere la possibilità di incontrarli e di sentire con le proprie orecchie la storia raccontata dal loro punto di vista e non da un libro.

Testo di Greta Bianco (fonte orale: racconto di Franco Bellei).

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Capitolo 3 Edilizia popolare a Modena

A causa delle attività che nei secoli si erano sviluppate presso la Darsena e il Naviglio

di Modena, l’area Nord della città aveva sempre ospitato case di lavoratori alternate a

luoghi di lavoro.

Fino al Settecento nessun governo si era posto il problema di costruire case popolari

per lavoratori o di pensare ad un quartiere operaio. I lavoratori erano soprattutto:

artigiani che vivevano nel piano superiore del vano destinato alla bottega, o nella

bottega stessa; servitori che vivevano con i loro signori; braccianti che vivevano in

campagna.

Fu il duca Francesco III che si occupò per primo dei diseredati facendo trasformare il

grande arsenale in Albergo dei Poveri (oggi, Palazzo dei Musei); poi gradualmente

comparvero i primi edifici popolari, tra essi il Pallamaglio, enorme edificio, a tre

piani, con lunghi corridoi a ringhiera, classico fabbricato “ad alveare”, senza servizi

igienici e destinato ad accogliere molte famiglie.

1. Il Pallamaglio, primo esempio di edilizia popolare Il grande fabbricato fu chiamato così perché nella zona in cui sorgeva anticamente si

giocava a pallamaglio, un gioco simile al golf. Anche quando essa fu sistemata e

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molte strade presero il nome di patrioti e personaggi celebri del Risorgimento, la

stradina che congiungeva via Palestro a via Bonasi continuò a chiamarsi Pallamaglio,

in ricordo del gioco antichissimo che nella zona era praticato.

I quartieri operai

Con l’Unità d’Italia il controllo sugli spazi urbani e le opere pubbliche non fu più

solo un problema locale, ma divenne di carattere nazionale.

Nella seconda metà dell’Ottocento, a Modena, tra gli altri problemi si pose anche

quello di pianificare quartieri popolari in periferia dove alloggiare sia gli operai sia i

poveri che avrebbero dovuto andarsene dai quartieri del centro della città, come ad

esempio dalla zona del ghetto che occupava quell’area che è oggi Piazza Mazzini.

Nel 1907 nacque l’Istituto Autonomo Case Popolari (IACP) di Modena con lo scopo

di offrire abitazioni a buon mercato alla popolazione operaia modenese.

Erano gli anni in cui si andavano diffondendo le idee del socialismo e si guardava con

sospetto al ceto operaio, perciò lo si voleva isolare per contenerne il potenziale

sovversivo. In realtà i raggruppamenti di case popolari ottennero l’effetto opposto:

consolidarono i legami tra le famiglie che condividevano la stessa situazione sociale,

crearono un senso di grande solidarietà e permisero una maggiore diffusione di quelle

idee politiche che la borghesia del tempo temeva.

Si discusse molto sul modello abitativo: fu rifiutata la grande abitazione collettiva

con sovrapposizione di più piani che concentrava più famiglie ad alveare e fu escluso

anche il modello inglese di un’abitazione per famiglia. Alla fine si scelse un

compromesso progettando moduli di tre o quattro piani.

Nel 1908 fu inaugurato il primo quartiere popolare in Villa Santa Caterina, tra via C.

Menotti, viale Reiter e via Ricci. I servizi arrivarono nel 1913 quando fu costruito un

edificio con la sala riunioni per gli inquilini.

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2. Primo quartiere popolare di Villa S. Caterina Negli anni successivi venne costruito un secondo modulo di alloggi destinati ad

accogliere altre famiglie.

Testi rielaborati da Lisa D’Agostino e tratti da:

Nuzzi O., La Crocetta. Il quartiere delle vie d'acqua e della strada ferrata, cuore produttivo e porta

d'ingresso della città, Arcadia Edizioni, Modena 2005.

Immagini: tratte da Appendice iconografica, in Nuzzi O., La Crocetta. Il quartiere delle vie d'acqua

e della strada ferrata, cuore produttivo e porta d'ingresso della città, Arcadia Edizioni, Modena

2005 e dal sito del Comune di Modena:

http://www.comune.modena.it/lecittasostenibili/atlante-delle-architetture-del-900-di-modena/le-

101-architetture/101schede/aggruppamento-villa-santa-caterina

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La Popolarissima

Nel 1934 il Comune assegnò allo IACP un terreno sulla via Nonantolana su cui

costruire abitazioni molto economiche per famiglie particolarmente povere. Lo IACP

bandì il concorso per il progetto di un edificio popolarissimo, di massimo 4 piani,

suddiviso in unità abitative piccolissime, con cantina, sistema fognario, un servizio

d’acqua potabile, lavanderie e un posto dove i bambini potessero giocare. Doveva,

inoltre, essere molto moderno. Nessun progetto arrivò al primo posto perché nessuno

soddisfò pienamente i criteri richiesti dalla commissione giudicatrice che assegnò la

seconda posizione agli architetti Monari e Rossi Barattini. Nel 1937, dopo qualche

modifica al progetto originale, l’edificio fu realizzato dalla Società Cooperativa

Costruttori Edili, S.A. Cooperativa Muratori, Cementisti, Fumisti. Il complesso era

costituito di due corpi a “L” di quattro piani, leggermente distanziati tra loro sul

fronte affacciato su via Nonantolana, e di un terzo corpo più basso sul lato opposto.

Le case poterono essere acquistate a prezzi molto modesti.

Nacque così la Popolarissima, un complesso di case popolari con una capienza di

circa 350 persone suddivise in 90 appartamenti di 25-30 metri quadrati.

1. Vista del cortile interno del complesso in un’immagine degli anni Trenta

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2. Prospetto sud-est sul cortile

Inizialmente doveva essere una foresteria per operai pendolari, ma fu presto

trasformato in un condomino per famiglie povere e numerose. Ogni appartamento

comprendeva una cucina con lavandino con acqua corrente e fornello a carbone, WC

con sciacquone, un unico stanzone con tavolo, sedie, vari letti e armadi separati da

tende e tramezzi; il riscaldamento era con stufa a legno.

Nel dopoguerra, il Piano di Ricostruzione del 1947, oltre a ribadire la specificazione

industriale dell’area, la inserì tra quelle bisognose di urgente ripristino.

Tra gli anni ‘40 e gli anni ’60 la crescita non pianificata dei quartieri popolari si

configurò come “un’espansione semispontanea e distorta”, assecondata dal Piano

Regolatore del 1958.

Anche gli anni ’70 furono un periodo critico, caratterizzato da una progressiva

condizione di degrado. Solo dal 1978 l’Amministrazione è intervenuta con opere di

risanamento e riqualificazione.

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Testi rielaborati da Denzel Rossin e tratti da:

Nuzzi O., La Crocetta. Il quartiere delle vie d'acqua e della strada ferrata, cuore produttivo e porta

d'ingresso della città, Arcadia Edizioni, Modena 2005;

Leoni G., Maffei S. (a cura di), La casa popolare, storia istituzionale e storia quotidiana dello

IACP, 1907-1997, Electa, Milano 1998;

Montedoro L. (a cura di), La città razionalista. Modelli e frammenti. Urbanistica e architettura a

Modena, 1931-1965, RFM Edizioni, Modena 2004 .

Immagini: tratte da Nuzzi O., La Crocetta. Il quartiere delle vie d'acqua e della strada ferrata,

cuore produttivo e porta d'ingresso della città, Arcadia Edizioni, Modena 2005, e dal sito città

sostenibile:

http://www.cittasostenibile.it/lecittasostenibili/atlante-delle-architetture-del-900-di-modena/le-101-

architetture/101schede/popolarissima

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Chi erano gli abitanti della Popolarissima?

Erano famiglie povere di lavoratori, operai e artigiani che vivevano come in una

piccola comunità con i vicini. C’erano tanti bambini perché le famiglie allora erano

numerose. Noi abbiamo incontrato due di quei bambini, ormai diventati anziani, che

per noi hanno raccontato una storia d’altri tempi.

I nostri testimoni: Silvia e Romano

Incontriamo Silvia e Romano mercoledì 16 Aprile. Li incontriamo nel cortile della

Popolarissima, la loro vecchia casa. Sin dall’inizio ci è chiaro che, pur non essendo

più giovani, sono due signori pieni di vita e vogliosi di trasmettere tutto ciò che

hanno vissuto. Inizia a parlarci Silvia, autrice di una poesia chiamata appunto “La

Popolarissima”, che racconta l’esperienza vissuta lì. Silvia ci parla della sua infanzia

passata all’interno di questo caseggiato, di quanto ci fosse amicizia, solidarietà e

comprensione tra le più diverse famiglie e realtà. Silvia dice: “Quando ero piccola, i

miei genitori andavano a lavorare e lasciavano me e mio fratello nel cortile. Ci

sorvegliavano gli anziani del luogo, anche se non ci conoscevano. Mio padre, essendo

in guerra, non poteva saperlo, ma mia madre si fidava degli anziani di questo posto e

per questo sapeva di lasciarci in mani sicure. In questa casa c’era un rapporto di

cordialità e amicizia con tutti. Condividevamo momenti belli, momenti di fatica,

come il dover aiutare il vicino a portare in cantina la legna, e anche momenti brutti,

come la morte di una persona cara. Quando moriva qualcuno, un familiare passava

per le case a chiedere un “soldino”, un’offerta per contribuire alla spesa dei funerali.

Era un modo per aiutarci e sostenerci. In quel periodo eravamo tutti molto poveri e

non si viveva tanto bene, ma in qualche modo l’aiuto delle persone compensava tutto

questo. Non c’erano molti soldi e tutti noi avevamo parecchie difficoltà, ma tutte le

persone che vivevano qui erano sempre pronte a dare una mano, bambini compresi”.

Questo racconto ci ha colpito moltissimo e ci ha fatto notare la differenza tra i

condomini di adesso e quelli di allora, facendoci preferire quelli di allora. Ci siamo

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resi conto di quanto sarebbe bello avere un rapporto del genere con le persone che

abitano nello stesso palazzo o via. Nella mia via, come nel mio condominio, non ho

mai riscontrato nulla di simile: ho sempre visto persone che a malapena si salutano e

non condividono nulla con gli altri.

Dopo il discorso introduttivo di Silvia, subentra Romano che inizia a parlarci della

Resistenza e di come sia stata vissuta all’interno di questo caseggiato. Cerca di farci

comprendere quanto fosse duro partecipare anche solo col pensiero a questo

movimento in contrapposizione al regine. Ci racconta anche di ‘’Pippo’’, cioè

dell’aereo degli Alleati a cui la popolazione aveva dato questo nome; “Pippo”

sorvolava la città e, appena avvistava una luce, lanciava un grappolo di bombe. “Si

doveva sempre rispettare l’oscuramento- dice Romano- e il coprifuoco. Erano anni

difficili”. Romano ci parla anche della volta in cui si rischiò la vita proprio lì, a casa

loro, alla Popolarissima. “Anche da questa casa era uscito uno spiraglio di luce,

quindi Pippo aveva rilasciato il suo grappolo di bombe. Fortunatamente l’ordigno

cadde nel fosso qui di fianco. Se si fosse abbattuto anche solo due metri più in qua

avrebbe distrutto tutto”.

A questo punto Silvia inizia parlarci del GAP (gruppo azioni patriottiche) n°1,

facendoci conoscere i giovani che vi presero parte tramite alcune foto che aveva con

sé. I componenti del gruppo erano: William Ghinosi, Peppino Zanfi, Eros Pollastri,

Ermanno Bruschi, Alfonso Bertacca, Ermanno Federzoni, Walter Tabacchi, Camillo

Pedretti. Ci spiega cosa è stato il GAP n°1: un gruppo cittadino che ha partecipato

alla Resistenza attraverso azioni di sabotaggio che hanno rallentato e contrastato le

operazioni dei nazifascisti. Questi ragazzi a volte compivano azioni pericolose e

rischiavano la vita. Dopo l’8 settembre furono in tanti ad aiutare gli ufficiali inglesi

ad uscire dal campo di prigionia, successivamente noto come TODT, che sorgeva di

fianco alla Popolarissima. Silvia ci spiega che anche lei e suo marito Romano

conoscevano questi ragazzi, ma erano inconsapevoli del loro ruolo nella società; le

loro azioni furono note solo a guerra conclusa, nel 1945. Ci viene raccontato da

Romano un tragico episodio che coinvolse Azelio Pignatti, un altro giovane del luogo

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“Azelio era rinchiuso nel campo di prigionia tedesco perché era stato scoperto a

tagliare la rete per cercare di agevolare la fuga di ufficiali inglesi. Suo fratello, invece

giocava con altri ragazzini sulle scale di casa con quello che aveva trovato nei

dintorni del campo, cioè una bomba. Inavvertitamente fece scoppiare questa bomba

riportando ferite molto gravi. Grazie a questa tragedia venne dato ad Azelio il

permesso di uscire per qualche ora per visitare il fratello in ospedale. L’interprete del

campo, mentre gli spiegava di che tipo di permesso si trattava, a gesti gli faceva

capire di non tornare più. In questo modo Azelio ebbe la possibilità di salvarsi; poco

dopo andò in montagna e divenne partigiano”. Terminato il racconto, Romano ci

mostra il luogo in cui esplose la bomba che provocò la morte del giovanissimo

Pignatti.

Abbiamo concluso l’attività con alcune domande, alle quali Silvia ha risposto sempre

con gentilezza e con un sorriso. “Ho vissuto alla Popolarissima per alcuni anni, dopo

di che mi sono trasferita, ma non ho smesso di frequentare questo posto, infatti la mia

bambina ha molte foto in questo cortile perché i miei genitori hanno continuato ad

abitare qui”.

Questa intervista è stata molto istruttiva e interessante perché ci ha permesso di

conoscere com’era il nostro quartiere durante la Seconda guerra mondiale e di

scoprire alcune storie di gente comune che i libri di Storia non raccontano; inoltre, è

stato molto bello vedere la vivacità negli occhi di questi due signori anziani che

hanno ancora voglia di raccontare la loro vita.

Testo di Valeria Santi (fonte orale: racconto di Silvia e Romano).

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Dalla guerra alla Resistenza

Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, la guerra doveva essere finita per noi

italiani; purtroppo però cominciò il periodo più duro.

Già prima delle trattative di pace, la popolazione italiana era allo stremo: i tedeschi

stavano perdendo terreno a vantaggio degli alleati, i bombardamenti erano aumentati

e disordini e scioperi animavano tante fabbriche italiane. Il motivo del malcontento

popolare era il peggioramento delle condizioni di lavoro e la precaria situazione

alimentare: il pane distribuito con la tessera annonaria era raffermo e molti generi di

prima necessità erano introvabili se non al mercato nero. Un altro importante

problema era quello degli alloggi perché molti erano i profughi di guerra che

tornavano dall’Africa e gli sfollati provenienti dalle città bombardate. Questo fino

alla notte tra il 9 e il 10 luglio quando gli anglo-americani sbarcarono in Sicilia,

conquistando rapidamente l’isola. Il 25 luglio, il Gran Consiglio del fascismo e il re

d’Italia Vittorio Emanuele III destituirono Mussolini che fu rinchiuso in una prigione

sul Gran Sasso; lo sostituì come primo ministro un anziano generale, Pietro Badoglio,

che cominciò subito a prendere contatti con gli Alleati per avviare le trattative.

La notizia della caduta di Mussolini suscitò manifestazioni di gioia in tutta Italia:

alcune sedi del partito furono prese d’assalto e, inaspettatamente, i fascisti non

reagirono. Alcuni episodi di violenza avvennero a Carpi, dove un operaio venne

ucciso da un soldato mentre tentava di avvicinarsi alla casa di un ex squadrista. Nei

giorni successivi alla caduta del fascismo tutta l’Italia conobbe un’ondata di

disordini: l’esercito arrestò 1500 manifestanti, ne ferì circa 300 e ne uccise 83. Il 28

luglio, a Reggio Emilia, un reparto dell’esercito aprì il fuoco contro un corteo di

manifestanti: si contarono 9 vittime. Ma, tra l’esercito, ci furono anche persone di

buon senso, infatti a Spilamberto i soldati, che ricevettero l’ordine di sparare a un

corteo di operai scioperanti, spararono in aria, evitando una strage.

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In tutta Italia si formavano dei comitati antifascisti. A Modena il 28 luglio nacque il

Comitato “Italia libera”, mesi dopo, ad ottobre, il Comitato di Liberazione Nazionale

(CLN) della provincia di Modena.

L’8 settembre 1943, dopo l’ufficializzazione dell’armistizio firmato il 3 settembre,

l’Italia venne a sapere che la guerra contro gli anglo-americani era finita; Badoglio

però aveva pronunciato le seguenti parole: “Ogni atto di ostilità contro le forze anglo-

americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però

reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza”. Dunque, il primo

ministro voleva sottolineare la loro ostilità nei confronti dei tedeschi.

Le feste per la fine della guerra durarono ben poco; i tedeschi da tempo avevano

mandato alcune divisioni in Italia e predisposto un piano per il disarmo dell’esercito

italiano. Fu così che la loro presenza diventò un’occupazione vera e propria. Il 12

settembre i tedeschi liberarono Mussolini e lo posero a capo di un nuovo stato, la

Repubblica sociale italiana (RSI) con capitale Salò. L’Italia era divisa in due parti: il

sud sotto la protezione anglo-americana, dove si rifugiarono il re e Badoglio, e il

centro-nord sottoposto all’occupazione nazi-fascista. Fu un periodo molto duro: alla

felicità per l’errata convinzione che la guerra fosse finita subentrò la preoccupazione

per il futuro. Molti soldati italiani si trovano allo sbando e tanti cercavano di sfuggire

ai tedeschi, non sempre riuscendovi. Fu in questo clima che si formarono i primi

gruppi partigiani della Resistenza italiana e modenese.

I partigiani erano persone, di solito giovani o giovanissime, che compivano in città

azioni di disarmo e sabotaggio, in montagna guerriglia armata a scapito degli invasori

tedeschi e dei fascisti, detti repubblichini. Questi ragazzi erano naturalmente affini

alle idee antifasciste e volevano liberare l’Italia dall’occupazione tedesca. Va

ricordato che tra i partigiani c’erano anche delle donne, chiamate “staffette

partigiane”, che portavano i messaggi da una brigata all’altra, ma anche armi e

munizioni; tale compito era assegnato a loro poiché passavano inosservate ai posti di

blocco tedeschi.

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Le azioni partigiane si svolgevano per lo più in montagna perché lì era più facile

agire, nascondersi tra i boschi e trovare riparo e ospitalità presso la popolazione dei

piccoli paesi. Purtroppo però i nazisti compivano numerose rappresaglie sulla

popolazione civile. Ogni volta che i partigiani uccidevano qualche tedesco, essi

rispondevano con una rappresaglia; la proporzione era: dieci italiani per un tedesco.

Così è avvenuto per moltissime stragi italiane, come nel caso di Monchio che

abbiamo avuto modo di approfondire in gita. Nei pressi di Monte Santa Giulia,

infatti, nel marzo 1944 un gruppo di partigiani aveva ucciso una pattuglia tedesca; i

nazisti si vendicarono immediatamente assassinando 136 persone, un vero abominio.

I partigiani di città

Tra le formazioni partigiane non bisogna dimenticare i GAP (Gruppi di Azione

Patriottica o Partigiana) che operavano in città dove sabotavano le vie di

comunicazione o, in generale, tutto quello che poteva aiutare i nazisti e i

repubblichini. Ogni GAP era autonomo e per sicurezza non conosceva le formazioni

degli altri. Il primo GAP di Modena (GAP n° 1) si formò nel caseggiato denominato

Popolarissima, nel quartiere Crocetta. Il GAP n° 1 nacque lì perché il quartiere

Crocetta era sempre stato il quartiere dove abitavano gli operai, quindi il luogo dove

si erano diffuse e mantenute le idee socialiste e comuniste, in netta antitesi del

nazifascismo. Per questo motivo nella zona ci furono molti luoghi importanti per la

Resistenza modenese, come per esempio la falegnameria Baroni, in via Albereto,

vero punto di riferimento per l’antifascismo locale. Dopo l’8 settembre il partito

comunista e le organizzazioni armate trovavano un appoggio sicuro in quell’edificio

perché esso era in una posizione strategica, vale a dire in mezzo alla cosiddetta

“Banden Gefahr”, la zona dei banditi, dove anche il più ardito dei nazisti non osava

andare: nei dintorni c’erano campi e poche case, teatro di molti episodi di Resistenza

attiva e passiva e tutti ne avevano timore. In tutto il quartiere furono molte le persone

che offrirono la propria abitazione come rifugio ai partigiani, molti coloro che

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aiutarono i militari inglesi fuggiti dal campo di progionia n. 47 di via Nonantolana.

Tra questi anche l’ottico Arturo Anderlini, fucilato dietro via Boccaccio con l’accusa

di aver offerto riparo e rifocillato dei militari.

GAP n° 1

Il GAP n. 1 era formato da William Ghinosi, comandante (anni 18), Peppino Zanfi

(anni 18), Eros Pollastri (anni 16), Ermanno Bruschi (anni 19), Alfonso Bertacca

(anni 20), Ermanno Federzoni (anni 22), a cui si aggiunsero Walter Tabacchi e

Camillo Pedretti. Il gruppo era costituito di giovanissimi che erano prima di tutto

amici. Viene ricordato come un gruppo temerario e sempre armato.

Biografia di Walter Tabacchi

Nacque a Modena il 7 luglio 1917. Abitava alla Popolarissima e si arruolò nella

Marina. Quando nel 1943 fu sorpreso dall’armistizio, rifiutando ogni collaborazione

con l’ex alleato, raggiunse formazioni partigiane e riuscì a tornare a casa. Pochi

giorni dopo era già in contatto con i fratelli Baroni e cominciò a raccogliere armi

disarmando ufficiali; si unì subito al GAP n. 1. Fu una figura eroica durante

l’attentato al colonnello Rossi: venne atterrato da una raffica di mitra che gli spezzò

la spina dorsale; l’attentato fallì e Tabacchi venne catturato dai repubblichini, portato

all’ospedale e interrogato per 5 giorni, dopodiché spirò. Morì senza aver proferito

parola. Stranamente questa testimonianza, data da William Ghinosi, ex comandante

del GAP, non coincide con quello che si legge nella motivazione della Medaglia

d’oro al Valor Militare, la quale afferma che egli morì subito dopo essere stato

atterrato. In ogni caso è stato un eroe, immolatosi per la nostra libertà e, comunque

siano andate le cose, si è meritato la Medaglia d’oro al Valor Militare.

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Testi rielaborati da Diego Ferri e tratti da:

Nuzzi O., Le pietre raccontano. Storie di caduti per la libertà. Circoscrizione 2-Modena, Edizioni

Edicta,, Fidenza 2007;

Silingardi C., Montanari M. Storia e memoria della Resistenza modenese, Ediesse, Roma 2006;

Silingardi C., Una provincia partigiana. Guerra e resistenza a Modena 1940-1945, Franco Angeli,

Milano 1998.

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Capitolo 4

Tracce del passato nel quartiere Torrenova

Passeggiando per il quartiere Torrenova ci si imbatte in una vecchia ferrovia abbandonata: sono

rimasti solo vecchi binari arrugginiti e traversine di legno.

Perché si trova una ferrovia proprio in questo luogo?

Questa curiosità ci è stata svelata grazie al percorso di storia locale che abbiamo intrapreso con la

nostra classe: sono venuti a raccontarci la storia del nostro quartiere dei testimoni della Resistenza

partigiana durante la 2° guerra mondiale. Da questi racconti abbiamo deciso di fare una ricerca

storica consultando documenti di vario tipo dell’epoca, in particolare:

- Fonti documentarie: documenti dello Stato Maggiore Regio – Ufficio di guerra

- Fonti bibliografiche: libri sulla storia del quartiere, biografia di un ex prigioniero

- Fonti orali: racconti di persone che abitavano nel quartiere o nelle vicinanze in particolare la

testimonianza di Azeglio Pignatti

- Fonti visive: immagine e fotografie del quartiere risalenti al periodo studiato

- Fonti multimediali

La ferrovia, che ha suscitato il nostro interesse, era chiamata “la Mariannina” o “Trenein dal cucc”

che in italiano significa treno del cuccio, della spinta perché il treno era così lento che si faceva

prima a spingerlo. Questa ferrovia collegava Mirandola e Modena, per proseguire poi verso Carpi e

il Brennero e venne utilizzata durante la 2° guerra mondiale per deportare ebrei, prigionieri di

guerra e prigionieri politici in Germania.

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All’inizio della seconda guerra mondiale, proprio a fianco della ferrovia, il Ministro della Difesa, fa

costruire una caserma di raccolta per prigionieri di guerra del Commonwealth sotto il controllo della

Croce Rossa, ma venne poi presa dal Comando tedesco e trasformata in un campo di

concentramento per i prigionieri inglesi, neozelandesi e indiani catturati nell’Africa Settentrionale.

Questo campo si chiamava Campo 47, abbiamo trovato notizie e documenti di questo campo sul

sito campifascisti.it. Dai documenti che abbiamo consultato possiamo dire che il campo è entrato in

funzione il 4 novembre 1942, che ospitava prigionieri australiani, canadesi, neozelandesi, indiani,

inglesi, ciprioti, americani. Dai documenti abbiamo potuto vedere che il campo ha ospitato circa

1200 ufficiali e abbiamo trovato dei telegrammi che denunciavano l’evasione di alcuni prigionieri.

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Queste evasioni ci sono state confermate anche dal testimone che abbiamo intervistato: Azeglio

Pignatti. Azeglio all’epoca era un ragazzino poco più grande di noi e con altri amici di notte andava

al campo a tagliare il filo spinato per agevolare la fuga dei prigionieri. Una volta fuggiti, tutto il

quartiere, in particolare i ragazzini e le famiglie che abitavano alla Popolarissima, aiutavano i

prigionieri nascondendoli, dandogli vestiti civili e mettendoli in contatto con chi riusciva a farli

fuggire dall’Italia.

Una sera Azeglio venne colto con le mani sul filo spinato quindi venne catturato, fu il primo

prigioniero delle SS a Modena. Riuscì a fuggire grazie alla morte del fratello. Infatti il fratello più

piccolo, insieme ad alcuni amici, trovò una bomba (spesso dagli aerei venivano lanciate bombe con

varie forme per attirare l’attenzione delle persone) inesplosa e curiosi di capire cosa fosse

provarono ad aprirla con un martello, ma la bomba esplose e causò la morte del bambino e il

ferimento degli altri. I presenti andarono al campo per chiedere l’aiuto dei medici ma i responsabili

del campo rifiutarono il soccorso e gli diedero solo una barella per trasportarlo, ma saputo che

Azeglio era il fratello di uno dei feriti gli concessero il permesso di andare con lui all’ospedale a

patto, però, che tornasse in caserma come prigioniero. Ovviamente Azeglio non fece ritorno, si

rifugiò da dei parenti poi andò in montagna con un gruppo di partigiani.

Uno degli evasi è Alan Flederman di origine sudafricane, imprigionato nel 1943 ed evaso l’8

settembre 1943, che riuscì a scappare con il suo amico Ken Lee grazie ad un astuto piano (aprirono

un varco nel tetto e scesero poi dalle grondaie) e ad alcune famiglie contadine che li hanno ospitati

per un paio di mesi.

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Dopo l’8 settembre 1943, firmato l’armistizio, i tedeschi presero il controllo del campo 47,

deportarono tutti gli ufficiali inglesi, e il campo venne rinominato campo TODT dal nome

dell’ingegnere tedesco che fondò in tutta Europa l’organizzazione TODT per il reclutamento forzato

di operai che lavorassero per i nazisti.

Nel dopoguerra il campo viene saccheggiato dagli abitanti delle zone circostanti. Romano

Sancassani, un altro testimone del quartiere, ci ha raccontato che gli abitanti della zona circostante il

campo avevano inventato una filastrocca che parlava proprio di questi furti: “alla todt c’è una caso

strano, c’è chi gratta piano piano senza far troppo baccano”.

Negli anni ’70 viene raso al suolo per costruire il nuovo quartiere Torrenova.

Bibliografia:

La storia del trenèn dal cucc, tratto dall'opuscolo "LA SGAMBADA" 5^ edizione - anno 1985

Alan Flederman, Ci indicarono la strada, Modena 2003

Olimpia Nuzzi, La Crocetta, Modena

Sitografia:

campifascisti.it

ferrovieabbandonate.it

Classe 3 P: Alessio Buffagni, Simone Medici, Federico Muratori, Marcello Garuti, Siham Falah