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TRACCE Percorsi internazionali di storia contemporanea Collana diretta da Deborah Paci Tutti i volumi della collana sono sottoposti a referaggio anonimo

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TRACCE

Percorsi internazionali di storia contemporanea

Collana diretta daDeborah Paci

Tutti i volumi della collana sono sottoposti a referaggio anonimo

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Nella stessa collana:

Elisa Grandi, Deborah Paci (a cura di)La politica degli esperti.

Tecnici e tecnocrati in età contemporanea

Jacopo Bassi, Gianluca Canè (a cura di)Sulle spalle degli antichi.

Eredità classica e costruzione delle identità nazionali nel Novecento

Luca G. Manenti, Deborah Paci (a cura di)Irredentismi.

Politica, cultura e propaganda nell'Europa dei nazionalismi

Deborah Paci (a cura di)La storia in digitale.Teorie e metodologie

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CLIONEI SOCIALISMI REALI

Il mestiere di storico nei regimi comunisti dell’Europa orientale

a cura diStefano Santoro e Francesco Zavatti

EDIZIONI UNICOPLI

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ISBN: 9788840021096

Prima edizione: luglio 2020

Copyright © 2020 by Edizioni Unicopli, via Andreoli, 20 - 20158 Milano - tel. 02/42299666http://www.edizioniunicopli.it

Fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume dietro pagamento alla Siae del compenso previsto dall’art. 68, comma 4, della legge 22 aprile 1941, n. 633, ovvero dall’accordo stipulato fra Siae, Aie, Sns e Cna, Confartigianato, Casa, Claai, Confcommercio, Confesercenti il 18 dicembre 2000.

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INDICE

p. 7 Introduzione di Stefano Santoro e Francesco Zavatti

19 Parte prima CONTROLLO, COMPROMESSO E RESISTENZA

21 Il mestiere di storico nell’Europa dell’Est tra stalinismo e destalinizzazioni di Francesco Zavatti

37 Le politiche storiografiche dell’Unione Sovietica verso i paesi slavi del blocco orientale. Strutture formali ed istituzionali, 1945-1989 di Jan Szumski

59 La scrittura della storia nella Repubblica democratica tedesca attraverso il prisma della destalinizzazione sovietica. Controversie storiografiche e politiche intorno alle opere dello storico Jürgen Kuczynski di Paul Maurice

73 Gli storici sotto il peso della pressione politica, tra sottomissione e resistenza. Alcune riflessioni sul contesto bielorusso di Anna Zadora

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Indice6

p. 97 Parte seconda STORIOGRAFIE A CONFRONTO

99 Nonostante la Cortina di ferro. Un tentativo di spiegazione riguardo al fenomeno delle somiglianze metodologiche tra alcuni storici polacchi e l’ambiente delle «Annales» francesi (1956-1989) di Patryk Pleskot

121 Karl Drechsler, uno storico tedesco(-orientale) della Guerra fredda di Ghislain Potriquet

135 L’immagine dei tatari di Crimea nelle opere di Aleksey Novoselsky e Bohdan Baranowski. Uno studio comparativo sull’interpretazione della storia da parte dei sovietici e dei comunisti polacchi di Sait Ocaklı

151 Parte terza USO PUBBLICO DELLA STORIA

153 Clio e i miti nazionali in Europa orientale durante il “socialismo reale” di Stefano Santoro

177 Rappresentazioni di unità e di frattura nei Balcani. La narrazione delle relazioni fra Albania e Jugoslavia da parte del socialismo albanese prima e dopo la crisi del Cominform di Daniel Perez

199 La Resistenza vista dal cinema della Rdt (1949-1969) di Perrine Val

213 Appendice BUSSOLE

235 Bibliografia 281 Indice dei nomi 291 Gli autori

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CLIO E I MITI NAZIONALI IN EUROPA ORIENTALE DURANTE IL “SOCIALISMO REALE”

Stefano Santoro

Uso pubblico della storia e mitologia nazionale

L’uso pubblico della storia nei paesi del “socialismo reale” fu fre-quentemente caratterizzato da riferimenti al patrimonio mito-simbo-lico nazionale preesistente alla creazione di quei regimi, ma che questi ultimi furono spesso disponibili a valorizzare allo scopo di garantir-si un più largo consenso fra le masse1. L’utilizzo della mitologia na-zionale permetteva infatti di mobilitare la popolazione, escludendo i “nemici” della patria, di stabilire una solidarietà fra connazionali e di rafforzare quindi una condivisa gerarchia di valori (Schöpflin 1997, 22). In Europa orientale, fra Otto e Novecento, il concetto di appar-tenenza nazionale in senso etnico e la mitologia che a questa appar-tenenza dava consistenza nell’immaginario collettivo si erano radicati – secondo una linea interpretativa largamente accettata2 – in misura maggiore rispetto all’Europa occidentale, dove l’elemento civico ten-deva a prevalere su quello etnico/identitario. In base a questa visione, quindi, al liberalismo individualistico occidentale si sarebbe contrap-posto fin dalla seconda metà del XIX secolo un esclusivismo etno-na-zionale orientale, che avrebbe costituito una pre-condizione ideale per

1 Il concetto di “uso pubblico della storia” ha avuto una vasta risonanza soprat-tutto a partire dall’Historikerstreit relativo ai crimini del nazismo, che ha coinvol-to diversi intellettuali tedeschi negli anni Ottanta del Novecento (Habermas 1987, 98-109). Riferendosi alla memoria del comunismo nei paesi dell’Est dopo il 1989, Marcello Flores ha scritto che «il crescente uso pubblico della storia non può che essere legato, forse, a una continua distruzione e creazione di miti» (Flores 1995, 239).

2 Negli ultimi anni alcuni studiosi hanno contestato l’esistenza di una dicoto-mia fra nazionalismi civici ed etnici (ad esempio, Shulman 2002). Pur condividen-do l’esigenza di evitare interpretazioni riduttive o troppo rigide, si ritiene che l’idea di un maggiore sviluppo del nazionalismo etnico nell’Europa orientale conservi una sua fondatezza.

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la creazione di miti di appartenenza collettivi (Kohn 1956; Sugar 1969; Smith 1991, 1-18; Kellas 1998, 90-91). In base alla lettura prevalente-mente etnica del nazionalismo centro ed est-europeo, il senso di ap-partenenza etnico/nazionale sarebbe stato storicamente più presente e pervasivo in Europa orientale a causa del ritardo nella formazione di stati-nazione in quella vasta area geografica, subordinata a impe-ri multinazionali, che non avevano permesso o avevano ostacolato lo svilupparsi di élite su base nazionale. Cosicché, mentre in Europa oc-cidentale l’idea di nazione veniva generalmente associata al liberali-smo politico, in Europa orientale essa tendeva a radicalizzarsi e, negli anni fra le due guerre mondiali, ad alimentare posizioni etnocratiche o parafasciste. La volontà di autoaffermazione delle élite dirigenti, per lungo tempo tenute ai margini del potere o da questo escluse, avrebbe quindi spinto queste stesse élite ad individuare un nemico nazionale, interno (minoranze) o esterno, allo scopo di assicurarsi una più larga base di consenso nelle masse. In una prima fase, coincidente in Euro-pa orientale con il periodo in senso lato definibile come risorgimen-tale – fra la seconda metà dell’Ottocento e la Prima guerra mondiale – le élite locali avevano fatto leva anche su idealità liberali, allo scopo di sostenere il diritto all’indipendenza del proprio paese dall’oppres-sione dell’impero multinazionale o comunque da gruppi nazionali che all’interno di quell’impero rivestivano un ruolo privilegiato (ad esem-pio i magiari dopo il compromesso del 1867). Successivamente, tutta-via, ottenuta la propria indipendenza nazionale, queste élite tesero a mettere da parte il discorso liberale e a fare leva piuttosto su idealità nazionaliste radicali, le sole davvero funzionali alla creazione di un largo consenso popolare. Come ha efficacemente scritto Liah Green-feld, si verificò in tal modo un progressivo scivolamento da un nazio-nalismo a cui non era alieno anche un elemento “individualistico-li-bertario” ad un nazionalismo “collettivistico-autoritario” (Greenfeld 1994, 11; Crampton 1997, 1-38; Santoro 2014, 7-21). Fu in questa fase, coincidente grossomodo con il periodo interbellico, che questo tipo di discorso nazionalista fece ampiamente ricorso all’uso pubblico della storia, tramite la costituzione o il potenziamento di istituti culturali preposti all’esaltazione unidirezionale delle rispettive storie nazionali e l’avvio di programmi scolastici orientati ad una lettura oleografica e agiografica del proprio patrimonio mito-simbolico nazionale3.

Ogni stato-nazione, o che ambiva ad auto-rappresentarsi come una nazione – a dispetto delle spesso consistenti minoranze etniche

3 Sul ruolo della manualistica scolastica nel processo di “riscrittura della sto-ria”, si veda Petrungaro 2006.

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che ospitava – costituitosi in Europa orientale nel periodo compreso fra il Congresso di Berlino del 1878 e la Conferenza di pace di Parigi del 1919-20, impostò quindi, con la collaborazione dell’élite intellet-tuale accademica e non, una sistematica costruzione e valorizzazione dei propri miti nazionali, allo scopo di alimentare il culto della patria etnicamente intesa nelle masse popolari, spesso ancora legate ad una mentalità sovranazionale da “sudditi dell’impero”. Questa operazione prevedeva la cernita e l’esaltazione di personaggi chiave della mitolo-gia nazionale inseriti in una acritica visione teleologica, che dall’anti-chità portava, attraverso una serie di lotte contro i nemici del popolo “eletto”, alla vittoria finale ed alla conquistata o riconquistata indipen-denza. I valori simbolici che fungevano da catalizzatori intorno all’i-dea di nazione (considerata sempre uguale a se stessa dall’antichità al tempo presente) erano spesso quelli religiosi, da leggersi secondo lo-giche rigidamente dicotomiche come opposizione fra due religioni dif-ferenti (tipicamente cristiani vs musulmani) o come contrapposizione di natura confessionale (ad esempio cattolici vs ortodossi) (Petrovich 1980). In base a questo tipo di discorso, ad esempio, il cattolicesimo rappresentava il fattore unificante del popolo polacco nel corso di tut-ta la sua storia, avendogli consentito di mantenere una salda coscienza nazionale a partire dalla prima unificazione polacca nel 1024, affron-tando le successive invasioni di prussiani, lituani, tatari; di giungere alla seconda unificazione nel XIV secolo ed all’unione con la Lituania, di andare incontro alla nuova scomparsa dello stato polacco con le spartizioni di fine Settecento e di approdare infine alla rinascita del-la Polonia nel 1918. Anche per gli slovacchi il cattolicesimo costituiva l’essenza della loro identità nazionale: dalla dissoluzione della Grande Moravia nel decimo secolo fino al 1918, gli slovacchi dovettero oppor-si alla minaccia turca, all’hussitismo ceco, all’oppressione magiara e, anche successivamente, nel contesto della repubblica cecoslovacca interbellica, parte dell’élite slovacca continuò a rappresentarsi come baluardo nei confronti dell’agnosticismo religioso e della deriva so-cialdemocratica di Praga. Naturalmente il discorso del nazionalismo ungherese era costruito intorno alla difesa dell’Europa cristiana dai turchi ottomani e, nel periodo interbellico, si focalizzava soprattutto sul revanscismo riguardo la Transilvania, annessa alla Romania nel dicembre 1918, la cui appartenenza al “magiarismo” era messa fuori discussione. Viceversa, la Grande Romania ostentava le radici pura-mente daco-romene della Transilvania e si arrogava la funzione sto-rica di antemurale dell’Europa cristiana e latina davanti allo slavismo orientale, in quanto discendente diretta della civiltà romana (Hagen-doorn – Pepels 2000).

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Marxismo e nazione

Marx ed Engels non dedicarono analisi specifiche alla nazione, tuttavia in molti loro scritti, anche privati, erano presenti delle con-siderazioni sulla questione nazionale che non assunsero però una strutturazione organica e definitiva, per cui i teorici marxisti dalla fine dell’Ottocento fino alla Prima guerra mondiale affrontarono que-sto tema in modo diverso e in alcuni casi divergente. Per Marx il sog-getto del processo storico non erano le nazioni ma la classe operaia, mentre l’analisi di questo processo doveva soffermarsi sulle modalità della produzione piuttosto che sulle identità nazionali. La tradizione marxista, fra Otto e Novecento, interpretando in modo non univoco il pensiero di Marx rispetto al tema nazionale, ha oscillato dalla negazio-ne di un’esistenza oggettiva delle nazioni, considerate mere proiezioni degli interessi della classe dominante borghese, a una posizione che ne riconosceva l’importanza quale elemento indispensabile di moder-nizzazione. L’esistenza della nazione era quindi in quest’ottica giusti-ficata solo in quanto motore del progresso economico-politico e per questo motivo, nella stessa riflessione marx-engelsiana, solo le grandi «nazioni storiche» dell’Europa occidentale, reputate espressione di una civiltà superiore, avevano dignità di costituirsi in stati-nazione. Al contrario, i popoli dell’Europa centro-orientale – con l’eccezione di tedeschi, ungheresi e polacchi – venivano sbrigativamente liquidati come «nazioni senza storia», «nazionalità morenti», le quali, conside-rate uno strumento dell’espansionismo zarista, avrebbero dovuto es-sere fatalmente assimilate dalle nazioni più forti e moderne. E in ogni caso, nel pensiero di Marx, la nazione era un mezzo di modernizzazio-ne, non un fine, pertanto il suo giudizio sui movimenti nazionali era tendenzialmente disincantato e pronto a smascherare la retorica pa-triottica borghese: nel caso del Risorgimento italiano, da lui osservato con attenzione, non mancavano considerazioni piuttosto sferzanti sui patrioti, giudicati sostanzialmente delle pedine nelle mani dell’impe-rialismo francese. Inoltre, le nazioni venivano associate ad una precisa fase storica, quella “borghese”, e pertanto l’avvento del socialismo ne avrebbe segnato il definitivo superamento (Davis 1967; Haupt – Weil 1974; Connor 1984; Szporluk 1988; Pécout 1999, 13).

Fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del secolo successivo, il movi-mento socialista che si riconosceva nella Seconda internazionale, in gran parte allineato sulle posizioni del revisionismo, pur continuan-do in linea teorica a proclamarsi internazionalista, riuscì a dimostrare una notevole capacità di adattamento alle istituzioni della nazione e dello stato borghesi, tanto da esaurire ben presto ogni velleità di reale

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antagonismo rispetto allo status quo politico-sociale. Inoltre, anche i marxisti ortodossi riconoscevano – così come aveva fatto Marx – un valore progressivo all’idea nazionale proprio in quanto idea borghe-se che, se portata al suo pieno sviluppo, avrebbe contribuito a creare le precondizioni della rivoluzione socialista. In base a queste convin-zioni, allora largamente accettate, il proletariato non avrebbe dovuto opporsi, almeno in una prima fase, all’idea di nazione, al fine di age-volare la modernizzazione borghese della società, che avrebbe a sua volta consentito la successiva realizzazione del socialismo, dove pre-sumibilmente le nazioni stesse sarebbero poi scomparse. Un originale percorso per conciliare socialismo e nazione fu individuato dall’au-stromarxismo di Otto Bauer e Karl Renner: anch’esso, tuttavia, auspi-cando la via dell’“autonomia culturale” per le nazionalità dell’Impero, che avrebbe dovuto essere ristrutturato su base federale (congresso di Brünn del Partito socialdemocratico austriaco, 1899), si muoveva evidentemente all’interno della dimensione nazionale, accettandone pienamente le logiche (Kann 1950, 197-207; Lagi 2011, 109-124).

La Prima guerra mondiale mise immediatamente in chiaro quan-to il socialismo europeo fosse integrato nella dimensione nazionale, quando tutti i partiti che si richiamavano alla Seconda internazionale – tranne quello russo, serbo e, con alcuni distinguo, italiano – aderiro-no alle “unioni sacre” proclamate dai governi borghesi. Il movimento comunista nato alla fine della guerra, denunciando il fallimento stori-co della socialdemocrazia, che quella guerra non aveva saputo evitare, si propose – con l’intenzione di attingere in modo autentico al verbo marxista, dopo il “tradimento” della Seconda internazionale – come una forza “antisistema” e quindi indifferente se non ostile al concetto di nazione. Secondo Lenin, la coscienza nazionale e il nazionalismo erano essenzialmente espressione dell’ideologia borghese e per tale motivo incompatibili con l’internazionalismo del proletariato (Nimni 1991, 70-95). Tuttavia, anche il comunismo della Terza internaziona-le ebbe in realtà posizioni non univoche nei confronti della nazione, adattando le proprie mutevoli prese di posizione agli interessi di Mo-sca. Lenin, in modo per alcuni versi simile al presidente americano Wilson, aveva sostenuto alla fine della guerra il diritto all’autodeter-minazione dei popoli oppressi dagli Imperi e, coerentemente, aveva concesso, con il trattato di Brest-Litovsk del marzo 1918, l’indipen-denza a Finlandia, Paesi baltici, Ucraina e Polonia. Tuttavia, il Parti-to comunista dell’Unione Sovietica avrebbe poi negli anni successivi alternato concessioni all’autonomo sviluppo nazionale dei popoli che ne facevano parte, con repressioni e deportazioni su larga scala. Lo stesso atteggiamento da parte dei capi sovietici continuò dopo la Se-

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conda guerra mondiale, per cui i diritti nazionali all’interno del “cam-po socialista” sarebbero stati rispettati o conculcati in funzione della preservazione del sistema comunista negli “stati satelliti” e quindi del controllo di Mosca su tutta l’area dell’Europa orientale (Cattaruzza 2005, 9-32). Ai fini del consolidamento del consenso interno allo sfor-zo bellico antitedesco, da parte sua l’Urss staliniana fece ampio ricorso al tema nazionale nel corso della Seconda guerra mondiale, signifi-cativamente definita già nel 1941 dalla propaganda sovietica “grande guerra patriottica” (Romano 1997; Van Ree 2002, 49-57).

Socialismo reale, patriottismo socialista, nazionalismo

Se in una prima fase, quella delle cosiddette “democrazie popolari” (1945-48), l’Unione Sovietica aveva concesso forme di governo alme-no all’apparenza pluralistiche, con i partiti comunisti locali insediati nelle posizioni chiave, dal 1948, anche attraverso colpi di mano e arre-sti degli oppositori (i casi più evidenti in Ungheria e Cecoslovacchia), i paesi dell’Europa orientale furono costituiti in stati monopartitici forgiati sull’esempio sovietico (Rothschild – Wingfield 2000, 75-78).

Con la presa del potere dei partiti comunisti, gli etno-miti e gli etno-simboli elaborati o ri-elaborati dalle storiografie e dalle élite dall’Ottocento fino alla Seconda guerra mondiale avrebbero dovuto essere rimpiazzati da una lettura “internazionalista” della storia che evidenziasse la fratellanza esistente fra i popoli del blocco socialista, facendo piazza pulita dell’“imperialismo” e dello “sciovinismo”. La re-sistenza alle truppe di occupazione dell’Asse nel corso della guerra era stata fatta anche nel nome di un patriottismo nazionale, che tuttavia secondo i comunisti non aveva nulla a che fare con il patriottismo in-terclassista “borghese”, il quale mascherava gli interessi delle classi dominanti. Si trattava per l’appunto di un “patriottismo socialista”, in cui il ricorso al concetto di nazione aveva la funzione di rimarcare, ad esempio, il significato della resistenza opposta agli invasori tedeschi e ai loro alleati. Il patriottismo era insomma complementare all’ide-ologia, nel cui nome si era combattuta l’oppressione nazi-fascista: i fascisti erano nemici non solo in quanto tali, ma anche in quanto ne-mici della patria. Specialmente nei primi anni del dopoguerra, quindi, i regimi al potere – con la benedizione dell’Urss – continuarono a fare uso del patriottismo, anche per presentarsi ai rispettivi popoli come degni eredi della migliore storia nazionale.

L’espulsione della Jugoslavia dal Cominform nel giugno del 1948 e l’accusa di “nazionalismo” lanciata da Stalin contro Tito, segnaro-

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no un’accelerazione da parte sovietica nel processo di omologazione politica delle “democrazie popolari” dell’Europa orientale. I leader comunisti caduti in disgrazia e condannati durante questa ondata repressiva, quali il romeno Pătrăşcanu, il polacco Gomułka (che nel 1956 sarebbe ritornato al potere), il bulgaro Kostov e l’ungherese Rajk, accusati di “deviazionismo di destra”, “nazionalismo borghese” o “ti-toismo”, erano eliminati poiché ritenuti non più politicamente affida-bili da Mosca e dai suoi diretti e più fedeli referenti nei paesi satelliti (Kemp 1999, 119-120; Bottoni 2011, 160-164).

Dalle nuove costituzioni ai codici penali, gli Stati socialisti furo-no ridotti a copie dell’Urss, con una radicale epurazione del personale della pubblica amministrazione, allo scopo di attuare una completa rottura con il passato “borghese” di quelle nazioni. La tradizione do-veva lasciare il posto alla “rivoluzione” e i miti nazionali avrebbero dovuto essere sostituiti da nuovi miti ispirati ai destini del progresso sociale capitanato dalla classe operaia sotto la guida dei partiti comu-nisti e di Stalin. Questa politica di uniformizzazione utilizzò a piene mani la cultura e l’istruzione con l’obiettivo di costruire una nuova lettura della storia nazionale, che avrebbe dovuto proporsi come al-ternativa a quella accettata ed esaltata fino ad allora. A questo scopo furono radicalmente riformate le istituzioni culturali, a partire dalle accademie delle scienze con i loro istituti di ricerca dipendenti, a cui fu affidato successivamente il compito di pubblicare delle “storie nazio-nali” ufficialmente approvate dal partito e funzionali alla sua politica (Brunnbauer 2011, 358-361).

Negli anni successivi quindi, e in modo non uniforme nei diver-si paesi, i miti nazionali furono messi provvisoriamente da parte. Al posto delle vecchie teleologie nazionali le nuove direttive puntavano piuttosto ad evidenziare la dialettica marxisticamente presente nelle storie dei diversi popoli, imponendo di studiare i momenti “rivoluzio-nari” e di rottura dell’ordine politico-sociale: le rivolte contadine me-dievali, l’abolizione della servitù della gleba nell’Ottocento, la nascita e lo sviluppo del movimento operaio e socialista (Connelly 2000, 126). Nuovi miti sostituirono vecchi miti: in Cecoslovacchia, ad esempio, la data del 5 maggio 1945, che commemorava l’inizio dell’insurrezione di Praga contro gli occupanti nazisti, andò a sostituire quella del 28 ot-tobre 1918, giorno della proclamazione dell’indipendenza della Ceco-slovacchia alla fine della Prima guerra mondiale (Abrams 2005, 139-155). In Romania, la storiografia nazionale fu riscritta sotto la guida di Mihail Roller, autore di una Storia della Romania che demoliva ideo-logicamente tutto il processo di unificazione romena, mettendo sotto accusa la partecipazione della Romania alla Prima guerra mondiale,

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definita un “conflitto imperialista”, e la stessa unione della Transilva-nia e della Bessarabia alla Grande Romania. Fino al 1955 il manuale di storia per le scuole scritto da Roller, che rileggeva in chiave marxista e antinazionale la storia della Romania, fu adottato come testo unico in tutti gli istituti scolastici del paese (Georgescu 1983, 24-25; Boia 2002, 115-120; Pleşa 2006, 165-177).

La morte di Stalin nel 1953, il XX Congresso del Pcus tre anni dopo e in particolare l’apertura del nuovo segretario del partito, Nikita Chruščëv, alla possibilità per i paesi del blocco orientale di intrapren-dere delle “vie nazionali al socialismo”, segnarono l’avvio di una riva-lorizzazione delle specificità nazionali e di una riscoperta dei rispettivi miti nazionali. Questo comportò in tutta l’Europa orientale una nuova svolta nel rapporto fra sistema socialista e uso pubblico della storia, che si concretò in un’ibridazione fra ideologia marxista e nazionali-smo, anche se tale termine continuava a restare bandito e sostituito dal più progressista “patriottismo” (Crampton 1997, 307-325). Come ha evidenziato Martin Mevius, comunismo e nazionalismo si rivela-rono in realtà pienamente compatibili: il “patriottismo socialista” permise, in differente grado nei diversi paesi del blocco socialista, di integrare nel sistema gestito dal partito unico le masse, altrimenti lon-tane o ostili nei confronti dei comunisti, spesso considerati un corpo estraneo alla nazione stessa. Se è vero che in generale le “culture po-litiche” dei popoli dell’Europa orientale, che largo spazio davano alle narrazioni nazionali, erano molto distanti dal sistema valoriale del comunismo sovietico (Kramer 2009b, 68-69), d’altra parte, alla pro-va dei fatti, l’inconciliabilità fra internazionalismo comunista e culto della nazione si sarebbe dunque rivelata un falso mito (Mevius 2011a, 1-24). Ad una prima ondata di snazionalizzazione e sovietizzazione, che aveva portato ad esempio al cambiamento di nome di molte città dei paesi dell’Est in omaggio al dittatore georgiano (come Oraşul Sta-lin in Romania, Sztálinváros in Ungheria, Stalinstadt nella Rdt, Stali-nogród in Polonia), seguì dopo la morte di Stalin un alacre recupero dei rispettivi patrimoni mito-simbolici nazionali. Significativamente, fra il 1956 e il 1961 tutte le città i cui nomi erano stati intitolati a Stalin – tranne, comprensibilmente, la città di Kuçovë (Qyteti Stalin) della stalinista Albania, ritornata al suo nome originario appena nel 1990 – tornarono a fregiarsi del loro nome storico. Inoltre, le direttive dei vari partiti, dalla seconda metà degli anni Cinquanta e in modo ancora più marcato negli anni Sessanta, furono indirizzate al recupero ed all’esal-tazione degli elementi fondativi dell’identità nazionale. Il mito della fratellanza fra i popoli del socialismo – che continuò ad essere usato nella retorica “ufficiale” di quei regimi – lasciò così sempre più spazio

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ad una rivitalizzazione dell’alterità nazionale e delle linee di frattura storiche esistite fino alla Seconda guerra mondiale, pur compatibil-mente con la tenuta del “campo socialista”. In Ungheria quindi si pote-vano nuovamente celebrare miti “borghesi” ottocenteschi dell’epopea risorgimentale antiasburgica, quali Lajos Kossuth e gli eroi del 1848, i comunisti cecoslovacchi ricorsero alla storia nazionale esaltando il riformatore religioso medievale Jan Hus come un proprio precursore, mentre i comunisti della Germania orientale recuperarono il panthe-on della storia e della cultura tedeschi – da Martin Lutero a Federico il Grande a Goethe – per accreditarsi davanti alla popolazione ed alla rivale Rft come gli autentici eredi del germanesimo (Fulbrook 1997; Brinks 2001).

I paesi socialisti utilizzarono il proprio patrimonio mito-simbolico nazionale soprattutto allo scopo di integrare le masse nel regime, che fino ad allora era stato spesso percepito come a-nazionale o anti-na-zionale, visto lo scarso radicamento che i partiti comunisti general-mente avevano avuto in passato (una notevole eccezione era costituita dalla Cecoslovacchia e in parte dalla Bulgaria) (McDermott 2015, 12-15; Crampton 1997, 225) e il peso che i quadri del partito legati diretta-mente alla figura di Stalin – i cosiddetti “moscoviti” – avevano assunto rispetto a quelli formatisi nella clandestinità ma rimasti sul suolo na-zionale anche durante l’occupazione delle forze dell’Asse. Integrazione significava rivolgersi a tutto il popolo e non solo ad una classe sociale: più propriamente, la classe operaia, con i cui destini si era identificato tradizionalmente il partito comunista, veniva sussunta nel più vasto concetto di nazione, che a sua volta coincideva, nel discorso pubblico, con lo stato socialista. In tali condizioni, cadevano progressivamen-te le preclusioni di natura ideologica nei confronti della narrazione patriottica forgiata nel corso dell’Ottocento dalle élite della cultura e della politica4. Gli studi accademici si spinsero fino a riprendere vecchi topoi etnogenetici già ampiamente trattati dalle rispettive storiogra-fie nazionali, depurandoli semmai dal pathos romantico che li aveva contraddistinti in origine e ammantandoli di una patina di scientismo “positivista”. Per questa via, se i comunisti romeni esaltavano gli anti-chi daci come fondatori della “nazione romena”, i bulgari riscopriva-no i traci e gli albanesi si fregiavano della funzione fondamentale di difensori della civiltà europea dalla barbarie ottomana (Brunnbauer 2011).

4 Sul tema dell’“invenzione della tradizione” dalla fine del Settecento in poi, cfr. i classici Hobsbawm 1991 e Hobsbawm – Ranger 1994.

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La comunità nazionale e il pericolo ebraico

Dalla seconda metà degli anni Cinquanta l’uso dei miti della storia nazionale da parte dei partiti comunisti al potere in Europa orientale ai fini della creazione di consenso trovò una perfetta fusione con l’on-nipresente fraseologia marxista. Walter Kemp ha sottolineato il ruolo cruciale svolto dalla mitologia nazionale nella costruzione del potere comunista in Europa orientale: per controllare la nazione e garantirsi il consenso delle masse, i partiti comunisti si riscoprirono difensori delle rispettive storie nazionali e delle specifiche tradizioni culturali dei loro popoli. I partiti comunisti capirono infatti ben presto che è possibile «mantenere il potere controllando lo stato», ma che è neces-sario «assicurarsi l’appoggio della nazione per avere legittimazione e autorità» (Kemp 1999, 6-7). La riscoperta della dimensione nazionale avveniva con il consenso dell’Urss, che reputava indispensabile favo-rire il radicamento politico e sociale dei partiti “fratelli” nei diversi contesti nazionali. Per raggiungere questo obiettivo i partiti comu-nisti spesso non esitarono ad attingere a stereotipi ed a pregiudizi a base etnico-religiosa che avevano radici antiche e che erano poi stati riplasmati in epoca contemporanea dalle forze politiche tradiziona-liste. Inoltre, anche se l’Unione Sovietica, attraverso i propri istitu-ti culturali, quali l’Istituto per gli studi orientali di Mosca o la Voks – organizzazione che si occupava di mantenere i contatti in ambito culturale fra l’Urss e gli altri paesi – condizionò fin dai primi anni del dopoguerra i piani di istruzione universitaria del “campo socialista”, i margini di autonomia a livello nazionale non vennero mai del tutto meno. Tali margini furono spesso usati dai partiti comunisti al potere in Europa orientale per sterilizzare il portato “internazionalista” del marxismo-leninismo e per esaltare invece i particolarismi nazionali (Connelly 2000).

Il pericolo ebraico ha rappresentato un elemento centrale nella co-struzione del nazionalismo moderno in Europa centro-orientale a par-tire dall’Ottocento, costituendo gli ebrei l’“altro” per eccellenza contro cui mobilitarsi in difesa della comunità nazionale (Volovici 1991, 1-20; Oişteanu 2009; Petersen – Salzborn 2010) ed è stato poi utilizzato allo stesso fine da alcuni regimi comunisti dell’Europa orientale. Nel 1949 era ufficialmente iniziata in Urss una dura campagna contro il “cosmopolitismo”, nel nome del patriottismo socialista russo, che pre-se ben presto la chiara forma di una mobilitazione diretta contro il sionismo – ma che si sostanziò di antisemitismo – tanto da riprendere o superare le leggende relative a fantomatiche cospirazioni ebraiche elaborate dall’Ochrana nella Russia zarista. Furono colpiti in partico-

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lare giornalisti, intellettuali e docenti universitari, oltre che membri del partito al potere (Graziosi 2008, 91-98). L’attacco al “cosmopoliti-smo” dilagò in tutta l’Europa orientale, innestandosi su un terreno fer-tile, costituito da popolazioni tradizionalmente proclivi alla diffidenza nei confronti degli ebrei e ben disposte verso la nuova campagna anti-semita indirizzata anche contro esponenti ebrei dell’élite comunista, i quali fungevano così da capri espiatori del risentimento popolare nei confronti del regime. Tali accuse e le relative persecuzioni che furono scatenate contro rappresentanti di spicco del comunismo est-europeo, ma che miravano anche a scardinare alla base le tradizionali strutture comunitarie ebraiche – circoli culturali, scuole, ospedali –, avevano l’obiettivo di compattare la popolazione nel nome del “patriottismo socialista” sotto le insegne del partito. Furono così inscenati dei pro-cessi-farsa contro personalità quali il segretario generale del partito comunista cecoslovacco Rudolf Slánský ed altri importanti esponenti della gerarchia comunista cecoslovacca, il ministro degli Esteri rome-no Ana Pauker ed altri membri di ministeri-chiave della Romania, il capo dei servizi di sicurezza ungheresi Gábor Péter e molti dei suoi collaboratori di origine ebraica (Bottoni 2011, 160-164).

In Polonia, il radicato antisemitismo non era diminuito dopo la guerra, a dispetto del fatto che il numero degli ebrei fosse dramma-ticamente calato nel corso del conflitto e dell’occupazione nazista da più di tre milioni a 80.000. La destra polacca aveva visto nella presa del potere da parte dei comunisti il frutto della secolare cospirazione ebraica contro l’integrità della nazione, antemurale del cristianesimo cattolico in Europa centro-orientale. La propaganda dei partiti di de-stra nell’immediato dopoguerra faceva abbondante uso della categoria del “giudeo-comunismo”, sovrapponendo pericolo ebraico e comuni-smo sovietico, anche per la presenza di esponenti dell’ebraismo polac-co in alcune posizioni apicali del partito e dello stato. Il partito comu-nista polacco (Partito operaio unificato polacco – Poup) tentò quindi di scrollarsi di dosso lo stereotipo che lo rappresentava come un ricet-tacolo dell’ebraismo anti-polacco, atteggiandosi a difensore dell’inte-grità etnica della patria e facendo uso di simboli nazionali e in alcuni casi cattolici. Benché, in nome dell’egualitarismo socialista, la costitu-zione polacca non consentisse discriminazioni razziali, il partito utiliz-zò a più riprese la fraseologia antisemita già sperimentata nel periodo interbellico dall’estrema destra, cercando di alimentare la rabbia so-ciale verso l’“altro”, per ergersi a protettore del popolo contro il nemi-co interno ed esterno: in questo quadro, il discorso nazionalista, ben rodato e sperimentato in passato dalla vecchia classe dirigente, risultò estremamente funzionale. In momenti di crisi di consenso e di minac-

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cia per la tenuta stessa del regime, in modo particolare nel 1956 e nel 1968, il partito comunista utilizzò in modo consapevole e spregiudi-cato la tematica etnica, accusando ebrei e centri di potere stranieri di complottare contro il popolo polacco. Nel 1956, ad esempio, il segreta-rio del partito comunista Władysław Gomułka, tornato al potere dopo la morte di Bolesław Bierut – l’interprete più autentico dello stalini-smo polacco –, pur avviando una fase di moderata destalinizzazione, seppe avvalersi abilmente di nazionalismo e antisemitismo allo scopo di assicurarsi il consenso della popolazione, oltre che di alcuni settori dello stesso partito e dell’esercito. Verso la metà degli anni Sessanta, Gomułka istituì presso il ministero degli Interni polacco un Diparti-mento per le questioni ebraiche, che aveva l’incarico di controllare gli alti funzionari di origine ebraica. Anche i disordini e le contestazioni studentesche del 1968 furono attribuiti dal segretario del partito e dal ministro degli Interni Mieczysław Moczar a complotti sionisti, offren-do l’opportunità per una radicale epurazione dell’elemento ebraico dalle file del partito. Un ruolo non secondario a questo proposito fu giocato dall’organizzazione cattolica Pax, strettamente controllata dal regime, il cui leader, Bolesław Piasecki, militante dell’estrema destra interbellica, era un prolifico pubblicista antisemita (La Mantia 2006, 262, 271-273; Michlic 2006, 196-261).

Casi analoghi alla Polonia si verificarono fin dall’inizio degli anni Cinquanta, benché in misura diversa, negli altri paesi del “socialismo reale”. Anche in Ungheria, così come nelle altre “democrazie popola-ri”, gli ebrei avevano costituito nell’immediato dopoguerra una parte considerevole dei quadri e della dirigenza dei partiti comunisti, che erano stati infatti percepiti da ampli settori della popolazione come la “quinta colonna” in patria dell’ebraismo internazionale. Essi erano stati accolti in gran numero essendo considerati politicamente affida-bili in quanto, per i loro drammatici trascorsi personali e familiari, na-turalmente antifascisti: sembra che nei servizi di sicurezza ungheresi la presenza di personale ebreo si aggirasse fra il 70 e l’80 per cento (Mevius 2004, 96). I partiti comunisti del “socialismo reale”, amben-do a farsi “nazionali” in contesti fortemente permeati di antisemiti-smo, dovevano quindi prima di tutto allontanare da sé il “corpo estra-neo” rappresentato dalla propria componente ebraica (Gerrits 2009).

Il recupero dei miti tradizionali

Parallelamente a questa dinamica “centrifuga”, fu attivata una di-namica “centripeta”, per mezzo della quale i regimi comunisti si pose-

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ro alla guida di un nazionalismo che all’antisemitismo era strettamen-te correlato e che, come si è visto, era profondamente sentito sia nella borghesia urbana sia, soprattutto, nelle masse rurali, che costituivano la grande maggioranza della popolazione. Come ha notato Antoine Roger, il nazionalismo funse da elemento di mobilitazione delle mas-se contadine, senza soluzione di continuità, nel periodo fascista in-terbellico e bellico come nel periodo comunista postbellico. Il ricorso al serbatoio della storia nazionale e ai miti nazionali era ancora una volta un fondamentale strumento a disposizione dell’élite di governo (liberale, fascista, infine comunista) per assicurarsi il consenso delle masse (Roger 2002).

In Cecoslovacchia il partito comunista mise in atto una rilettura della storia nazionale allo scopo di accreditarsi come il continuatore di una storia gloriosa che si era interrotta con il “tradimento di Mo-naco” da parte delle potenze occidentali e il conseguente smembra-mento del paese ad opera dei nazisti. Il partito comunista si presentò come baluardo di un ritrovato patriottismo e come l’erede delle più grandi figure della storia ceca. Gli intellettuali comunisti cecoslovacchi intesero fiancheggiare la strategia del partito, sottolineando che non si trattava di importare meccanicamente nel paese il sistema politi-co e sociale esistente in Unione Sovietica, ma di adattare il modello socialista al carattere nazionale cecoslovacco. L’immagine del par-tito fu quindi rimodellata in modo da farne un partito patriottico, il cui nazionalismo era diretto innanzitutto contro coloro che venivano identificati come la causa di tutti i mali recenti del paese, ovvero i te-deschi e in particolare i tedeschi cecoslovacchi, la “quinta colonna” del nemico in patria. Con le parole del ministro della Cultura e dell’Istru-zione Zdeněk Nejedlý, i comunisti cechi rappresentavano «la fase più recente» dello «sviluppo della nazione», l’ultimo anello di una catena che collegava al moderno proletariato la piccola nobiltà del Medioevo, il contadino e l’artigiano hussita e i patrioti del “risveglio nazionale”. Su questa linea si impostavano arditi parallelismi fra epoche stori-che molto diverse, spiegando che l’espulsione postbellica dei tedeschi dalla Cecoslovacchia costituiva una sorta di ribaltamento delle conse-guenze della battaglia della Montagna Bianca del 1620, che aveva rap-presentato una cocente sconfitta delle forze boeme da parte del Sacro Romano Impero e degli Asburgo. Ma era in particolare sulla figura del riformatore religioso Jan Hus che gli storici cechi si focalizzavano, sottolineando non la sua spiritualità quanto la sua epica lotta contro l’«imperialismo tedesco», paragonata a quella condotta dai comunisti cechi contro i nazisti. Al tempo presente – si affermava – Hus non sarebbe stato un teologo, quanto piuttosto un leader politico e mol-

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to probabilmente un comunista o quantomeno un simpatizzante dei comunisti. Il nazionalismo ceco del Partito comunista cecoslovacco (Pcs) puntava inoltre a riorientare il baricentro della storia ceca ad est, in direzione dello slavismo orientale e quindi dell’Urss (Abrams 2005, 89-103). Il partito comunista diresse il nazionalismo cecoslo-vacco contro le minoranze linguistiche tedesche nei Sudeti e ungheresi in Slovacchia – etichettate come «reazionarie» – anche in nome di un ben radicato sentimento panslavo, mostrando viceversa benevolen-za nei confronti delle popolazioni “sorelle” slave, cioè i polacchi e gli ucraini (ruteni). Anche il Partito comunista bulgaro, ad esempio, fece leva sul panslavismo, associando alle nazioni slave, quasi su basi di carattere razziale, una maggiore predisposizione nei confronti dell’a-dozione del socialismo e confinando i popoli non-slavi nell’alterità negativa del capitalismo e dell’imperialismo. Per giustificare il fatto che dei vicini non-slavi, come i romeni, facessero parte dello stesso blocco socialista, ci si spingeva all’epoca risorgimentale ed alla comu-ne lotta combattuta nel nome della libertà nazionale contro i turchi ottomani (Sygkelos 2011, 136-139). Nell’ottica dei comunisti cecoslo-vacchi, le minoranze etniche non-slave dell’Europa centro-orientale, quali quelle tedesca e ungherese, portavano la responsabilità collettiva di aver distrutto l’unità territoriale cecoslovacca e di aver collaborato attivamente con l’Asse (Bottoni 2002). Recuperando ed esaltando i padri del “risveglio” ceco e slovacco dell’Ottocento, curiosamente, il Pcs si poneva – probabilmente senza rendersene conto – in rotta di collisione con Engels, che aveva impietosamente bollato i popoli sla-vi dell’Europa centro-orientale come reazionari e i loro movimenti di indipendenza nazionale come «miserabili». I comunisti diventavano così i moderni discendenti degli eroi risorgimentali cechi e slovacchi, di politici ed intellettuali come Palacký, Šafárik, Kollár, ma anche del celebre compositore Bedřich Smetana, che aveva ispirato la propria opera all’esaltazione della nazione boema ed era stato attivo nel parti-to nazionalista dei giovani cechi (Pierre 2017). Nejedlý, in particolare, spese anni della propria vita nello scrivere una monumentale biografia di Smetana, fondando inoltre a Praga un museo dedicato all’autore di Má Vlast (la mia patria). Il Pcs tentò poi di presentarsi quale erede di personalità della storia più recente, come il fondatore della repubblica e suo primo presidente, dall’autunno del 1918, Tomáš Garrigue Ma-saryk, deceduto nel 1937. L’operazione tuttavia si dimostrò piuttosto complessa, poiché, a differenza dei patrioti ottocenteschi, Masaryk era vivo nella memoria dei cecoslovacchi, che avevano presente in modo chiaro le sue salde convinzioni democratiche ed erano quindi in gra-do di riconoscere le indebite forzature storiche attuate dal partito al

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potere. Visto il fallimento, si decise di distruggerne la memoria, ac-cusandolo di anticomunismo e fascismo, oltre che di aver complot-tato per assassinare Lenin (Kemp 1999, 115). All’interno della stessa compagine cecoslovacca, lo storico conflitto fra cechi e slovacchi, te-nuto forzatamente sotto il tappeto dal regime, si ripresentava inaspet-tatamente, come quando nel 1969 il settimanale di Bratislava «Nové Slovo» pubblicò un documento risalente al 1944 e mantenuto fino ad allora segreto dal partito, in cui si affermava che se lo Stato slovacco indipendente non fosse stato edificato su basi fasciste e con l’appoggio del Terzo Reich, da parte dei comunisti non ci sarebbero state obie-zioni ad un suo mantenimento dopo la guerra. Uno degli autori di tale documento era nientemeno che il leader comunista slovacco Gustáv Husák, che nel 1969 avrebbe preso il posto di Dubček a capo del Pcs (Nairn 1997, 150-151).

In modo simile, il Poup si atteggiò a legittimo erede dell’idea na-zionale e, a questo fine, puntò a non enfatizzare le passate fratture interne alla nazione – ad esempio il conflitto di classe –, preferen-do invece fare leva sulla più facile contrapposizione noi/loro di tipo etnico, identificando nemici interni ed esterni e potendo essere così riconosciuto come difensore della nazione polacca. Analogamente ad altri paesi dell’Europa centro-orientale, un ideale nemico interno da combattere era la minoranza tedesca. Già nel maggio del 1945, in un discorso tenuto al plenum del comitato centrale del partito, il segreta-rio Gomułka aveva affermato che bisognava «semplicemente caccia-re i tedeschi e costruire uno stato nazionale». La strategia del Poup fu quindi di sovrapporre marxismo e nazione: borghesi e reazionari erano antipatriottici prima ancora di essere anticomunisti. Insieme ai tedeschi e agli ebrei, altre erano le popolazioni non etniche da discri-minare e possibilmente allontanare: lituani, russi, ucraini e bielorussi. Al contempo, fu organizzato il rientro in patria dei polacchi rimasti al di fuori dei nuovi confini, attraverso imponenti scambi di popola-zione (Fleming 2010, 65). A significativa testimonianza di questo cli-ma, sempre nel 1945, lo storico di orientamento nazionalista Zygmunt Wojciechowski, direttore del prestigioso Instytut Zachodni (Istituto degli affari occidentali) di Poznań, aveva ripubblicato, con l’avallo del-le nuove autorità, un suo volume uscito nel 1933 e dedicato – come recitava il titolo – ai «mille anni di lotta» fra Polonia e Germania. Più che la marcia vittoriosa del comunismo, il volume esaltava la marcia che i popoli slavi finalmente potevano compiere verso ovest, ribal-tando il millenario tentativo dei tedeschi di colonizzare lo slavismo nord-orientale con il loro Drang nach Osten (Górny 2011b, 245-246).

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Il Partito comunista ungherese (Pcu) doveva soprattutto confron-tarsi con un handicap legato alla memoria della Repubblica dei Con-sigli, il regime sovietico ungherese al potere dal marzo all’agosto del 1919, frutto di un compromesso fra socialdemocratici – che ne espri-mevano il presidente, Sándor Garbai – e comunisti, ma dove erano questi ultimi a detenere i ministeri chiave, fra cui quello degli Esteri. Commissario del popolo agli Esteri era Béla Kun, l’esponente più cari-smatico e rappresentativo del regime ungherese, a cui rimase associa-ta l’idea negativa di un radicalismo politico incapace di difendere gli interessi della patria: fu durante questo periodo che l’esercito romeno, appoggiato dall’Intesa, era penetrato nel territorio ungherese giun-gendo fino a Budapest. Anche in politica interna i comunisti ungheresi nel primo dopoguerra avevano deluso gran parte del ceto contadino, imponendo una drastica nazionalizzazione in nome di una collettiviz-zazione forzata che frustrò le aspettative di una riforma agraria. Inol-tre, i nuovi governanti avevano condannato tutto ciò che avesse a che fare con il nazionalismo grande ungherese, manifestando un aperto disprezzo per il pantheon degli eroi magiari, a partire dallo stesso San-to Stefano, fondatore del medievale regno d’Ungheria (Fornaro 1987; Fornaro 2010). Nel secondo dopoguerra, giunti nuovamente al potere, i comunisti ungheresi, con l’appoggio di Mosca, dovettero cercare di ricostruire un consenso intorno alla propria immagine, in modo da evidenziare una profonda differenza fra loro e la repubblica sovieti-ca del 1919. Il Pcu puntò quindi a riappropriarsi dell’idea di nazione, adottando anzitutto il tricolore, in precedenza disprezzato a favore della bandiera rossa, e rivalutando gli eroi nazionali ungheresi, fra cui Santo Stefano, associato simbolicamente fino ad allora all’Ungheria reazionaria interbellica di Miklós Horthy. La propaganda comunista aveva l’obiettivo di rendere il partito il più possibile accettabile alle masse, allontanando da sé ogni sospetto di antipatriottismo e atteg-giandosi a difensore di tutto il popolo magiaro. Il linguaggio della propaganda marxista doveva quindi essere attenuato e affiancato da una fraseologia più accettabile, che recuperasse i miti della nazione, tanto cari al tradizionalismo e affondanti le proprie radici nell’epopea risorgimentale ottocentesca. Alcune parole chiave della fraseologia marxista, come “reazione”, furono addirittura bandite nelle campa-gne, poiché considerate oscure e incomprensibili agli abitanti dei vil-laggi. Allo stesso modo, in una prima fase, ai propagandisti comunisti si spiegava che non avrebbero dovuto attaccare la Chiesa o la figura di Cristo, ma che avrebbero dovuto anzi spiegare come il comunismo fosse in sostanza un frutto moderno del cristianesimo. Presentando-si poi come gli eredi dei patrioti Rákóczi, Kossuth, Petőfi e Táncsics,

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i comunisti ungheresi potevano agevolmente paragonare i tedeschi ai vecchi nemici austriaci del 1848 e commemorare i cento anni dal marzo del 1848 come una nuova liberazione nel nome della libertà e della democrazia contro la reazione. A tale proposito, il futuro mini-stro della Cultura, József Révai, aveva voluto sottolineare la differenza esistente fra lo sciovinismo grande ungherese interbellico di Horthy ed il sano patriottismo comunista, che esaltava la propria nazione nel rispetto dell’amor di patria degli altri popoli, facendosi quindi l’auten-tico interprete degli ideali democratici risorgimentali (Mevius 2004, 69-110).

Un caso di simbiosi fra comunismo e mitologia nazionale: la Romania

Il caso romeno costituisce l’esempio più significativo dell’uso dei miti nazionali allo scopo di rafforzare la coesione della popolazione in-torno al partito. In Romania, in modo particolare, la fusione fra comu-nismo e nazionalismo, durante l’era Ceauşescu, ha raggiunto, rispetto agli altri paesi del “socialismo reale”, un livello parossistico (Zavatti 2014). Così come dal 1948 i nuovi governanti avevano imposto una rot-tura totale con il passato e un allineamento al protettore sovietico, che si concretizzò sul piano culturale in un rifiuto delle radici latine della lingua romena e in un suo inglobamento forzato nel mondo slavo, oltre che nella fondazione di una serie di istituti di cultura romeno-russa e romeno-sovietica, fra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio del decen-nio seguente si avviò rapidamente un processo inverso. Furono quindi smantellati l’Istituto romeno-sovietico e il Museo romeno-sovietico e a Bucarest fu invece riaperto l’Istituto di studi sud-est europei, che era stato chiuso nel 1948 e che riprese a sua volta le pubblicazioni della «Revue des études sud-est européennes». Sempre su questa linea, fu progressivamente ridimensionato l’apporto slavo alla cultura romena e furono invece riscoperte e valorizzate le origini latine di quel popo-lo. Nella seconda metà degli anni Sessanta, Ceauşescu recuperò nei suoi discorsi ufficiali elementi costitutivi della mitologia nazionale ro-mena, riabilitando l’operato dei governi “borghesi” che avevano por-tato all’unione e alla creazione della Grande Romania, nonché i più importanti simboli dell’epos nazionale, come alcune celebri battaglie della Grande Guerra, ad esempio quella di Mărăşeşti, la rivoluzione del 1848 o i grandi esponenti della cultura romena otto e novecentesca prima condannati, quali Titu Maiorescu e Nicolae Iorga (Georgescu 1983, 40-42; Moga 2007, 49). Secondo Katherine Verdery, l’ideologia nazionalista fu consustanziale e non accidentale rispetto alla Romania

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socialista di Ceauşescu e da questo punto di vista il ruolo degli intellet-tuali e della cultura nel veicolare i miti della storia nazionale romena all’interno dell’ideologia marxista fu centrale. Il regime romeno, nella sua fase “nazional-comunista”, attinse quindi generosamente al pan-theon della mitologia nazionale codificata dall’élite romena dall’Ot-tocento in poi, il cui nucleo gravitava intorno all’idea dell’etnogenesi latina non solo storica ma spirituale del popolo romeno e si radicava in definitiva nel mito della continuità daco-romena, che postulava una discendenza diretta dei romeni moderni dagli antichi daci romaniz-zati da Traiano (Verdery 1995). Per questa via, nel 1980 la Romania socialista si sarebbe spinta fino ad organizzare imponenti celebrazioni in occasione del 2050° anniversario dello “Stato daco unitario” (Geor-gescu 1983, 65; Velimirovici 2015, 223-231).

Negli anni Sessanta, Nicolae Ceauşescu giocò, in chiave patriottica, la carta di una progressiva autonomia dal protettore sovietico, recupe-rando elementi del radicato anti-russismo presente tradizionalmente nel paese dalla fine dell’Ottocento. Di conseguenza, la sottolineatura dell’identità nazionale e il ricorso alla storia romena tornavano cen-trali: «come potrebbe sentirsi un popolo – argomentava Ceauşescu – senza conoscere il suo passato, la sua storia, senza onorare e apprezza-re quella storia?» (Verdery 1995, 117). Analogamente agli altri partiti al potere in Europa orientale, il partito comunista romeno si presen-tava come l’autentico interprete della missione storica della nazione, liberandosi del ruolo giocoforza limitativo di avanguardia della classe operaia e assumendo quello di rappresentante interclassista dell’inte-ra comunità nazionale. Le discipline storiche e la ricerca storiografica furono poste al centro dell’interesse del partito e giocarono un ruolo centrale nella codificazione di una storia nazionale che potesse fun-gere da base ideologica ad uno stato organico, in cui la dimensione collettiva, cementata dall’orgoglio di appartenere ad una “comunità di popolo”, doveva cancellare tutte le differenze individuali e nazio-nali. Evidentemente, in tal modo si riaprivano conflitti mai realmente sopiti di tipo etnico all’interno del campo socialista, ad esempio per quanto riguardava la questione transilvana. Nel 1986 l’Accademia delle Scienze ungherese pubblicò una Storia della Transilvania in tre volumi, dove si sostenevano le tradizionali tesi della storiografia na-zionalista ungherese, per cui all’arrivo dei magiari nel Medioevo non vi sarebbe stata presenza romena in Transilvania. Da parte romena si reagì con una violenta campagna stampa che ribadiva la tesi opposta, per cui i romeni avrebbero viceversa popolato la regione fin dalla fine della dominazione romana. Lo stesso Ceauşescu si pose a capo di que-sta offensiva storico-politica, sovvenzionando la ricerca storica molto

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più di altri settori dell’accademia, a condizione naturalmente che essa toccasse temi diretti a rafforzare la consapevolezza e l’orgoglio nazio-nale romeni (Verdery 1995, 218-224).

Da un certo punto di vista, si può affermare che il “nazional-comu-nismo” e il nazionalismo interbellico avessero in definitiva l’obiettivo comune di costruire uno stato organico e interclassista, fondandolo su una continuità storica ininterrotta: un organicismo sociale basa-to sul concetto di “comunità di popolo”, che si estendesse sia in una dimensione orizzontale (interclassismo), sia in una dimensione verti-cale (continuità temporale) (Szilágyi-Gál 2001, 81-92). Naturalmente, il nazional-comunismo si distingueva dal nazionalismo interbellico soprattutto per il suo tentativo di coniugare la fraseologia marxista con l’idea di comunità nazionale organica. Tale tentativo, che potreb-be sembrare azzardato, considerato che il marxismo pare difficilmente associabile al culto della Volksgemeinschaft, riusciva invece egregia-mente, visto che l’ideologia marxista veniva sostanzialmente svuota-ta, conservandone solo un vuoto involucro, un repertorio sloganistico ampliamente utilizzato a livello propagandistico. Le categorie mar-xiste venivano tuttavia applicate in maniera apparentemente conse-guente alla storia romena, ad esempio presentando il movimento na-zionale romeno di Transilvania come una forza progressista che aveva guidato la lotta del popolo romeno, composto da contadini sfruttati, contro la classe dei magnati latifondisti magiari e il governo di Buda-pest, reazionario e feudale (Santoro 2014, 8). Un esempio illuminante in questo senso sono le celebrazioni approntate dal regime per il bi-centenario della rivolta contadina guidata nel 1784 dal romeno Horea contro l’autorità magiara. Prendendo spunto da un volume dello sto-rico transilvano Ştefan Pascu, intitolato La rivoluzione popolare sotto la guida di Horea, il regime comunista romeno iniziò ad utilizzare in modo martellante il concetto di “rivoluzione” applicandolo ad un fenomeno che fino ad allora era stato piuttosto definito una “rivolta”. Inoltre, la “rivoluzione” di Horea veniva considerata dalla storiogra-fia ufficiale romena come un’anticipazione della rivoluzione francese, che sarebbe divampata un po’ meno di cinque anni dopo: è questo un chiaro esempio di “protocronismo”, ovvero di pretesa primogenitura storica di un certo fenomeno, in questo caso della rivoluzione europea moderna. L’utilizzo del “protocronismo” permetteva di evidenziare al mondo esterno – sia l’Europa occidentale che l’Unione Sovietica – come la Romania fosse una comunità di popolo completamente auto-noma e sempre all’avanguardia, tanto da aver inaugurato l’era della modernità prima ancora delle altre nazioni (Verdery 1995, 224-255). Il regime comunista romeno, che rappresenta il caso più eclatante per

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l’intensità con cui la mitologia nazionale fu utilizzata ma che costitu-isce un modello che accomunava tutti i paesi del “campo socialista” dopo la fine del mito di Stalin e dell’“internazionalismo” comunista imposto ai paesi satelliti nel primo decennio del dopoguerra, seppe compiutamente utilizzare la storia nazionale, ancor più dell’ideologia marxista, al fine di legittimare il proprio controllo sullo stato (Mo-rar-Vulcu 2008, 249-267).

Conclusione

I partiti comunisti, una volta giunti al potere nei paesi dell’Europa orientale, hanno dovuto fare i conti fin dall’inizio con quella che Wal-ter Kemp ha definito la “cultura politica” preesistente, basata su una simbologia consolidata nel tempo e per questo largamente accettata e assimilata dalla popolazione: quella della nazione (Kemp 1999, 16-17). Fu anche la lezione appresa con il fallimento dei tentativi rivoluzionari del primo dopoguerra – la Repubblica dei Consigli ungherese, l’insur-rezione spartachista a Berlino e la Repubblica dei Consigli bavarese – in cui la rivoluzione sociale si era posta in una posizione di rottura con i miti nazionali, monopolizzati dall’estrema destra nel nome di una “rivoluzione nazionale” (Fornaro 1992; Traverso 2007), a portare i comunisti nel secondo dopoguerra a fare propri i valori nazionali. Laddove il nuovo potere comunista inizialmente si contrappose ai miti della nazione, esso non fu in grado di garantirsi un consenso di massa e continuò ad essere percepito come un corpo estraneo alla comunità etnica. L’adozione dei miti nazionali da parte dei “socialismi reali” non si dimostrò, alla prova dei fatti, di difficile applicazione, anche perché sia il comunismo che il nazionalismo hanno in sé elementi comuni, legati ad un’idea forte modernizzatrice, palingenetica e fideistica al tempo stesso (Smith 1979, 116; Berger 2007, 50). In entrambi i casi, inoltre, si tratta di ideologie anti-individualistiche, che propongono una dottrina della salvezza incentrata sulla dimensione collettiva: eti-ca e comunità vengono in tal modo a coincidere. Chiunque sia repu-tato estraneo a tale entità collettiva – alla nazione intesa come “orga-nismo sociale” – viene considerato, in base a tali coordinate valoriali, ipso facto traditore e perciò nemico dell’intera comunità. L’ostacolo che pareva frapporsi a questo connubio, ovvero l’internazionalismo e la lotta di classe marxisti, svanì molto presto, poiché, come si è avuto modo di vedere, i regimi del “socialismo reale”, che si proclamavano marxisti-leninisti, in realtà fecero un uso essenzialmente esteriore e sloganistico del marxismo. Ciò che invece interessava loro era di at-

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tingere a qualcosa che fosse largamente radicato nel sentire collettivo e condiviso quindi profondamente dalla popolazione, ovvero la mito-logia nazionale. La storia nazionale fu perciò riletta in funzione del di-segno egemonico portato avanti dai partiti comunisti: il comunismo si presentava come l’erede del patrimonio mito-simbolico nazionale per trarne una fonte di legittimazione popolare e non essere più percepito come “loro” ma come “noi”: tutt’uno con la collettività, anzi, massimo difensore dei valori nazionali. I rivoluzionari, una volta giunti al po-tere, capirono in poco tempo che il nazionalismo che avevano sempre combattuto era uno strumento indispensabile per la propria legittima-zione quali nuovi «signori del castello» (Anderson 1996, 161).

Se da un lato la destalinizzazione contribuì – come si è visto – al recupero e alla valorizzazione dei rispettivi miti nazionali, dall’altro consentì nel lungo periodo l’avvio di una maggiore apertura nei con-fronti dell’occidente e di un più intenso interscambio culturale fra gli stessi paesi socialisti. Fu in primo luogo l’influenza della scuola fran-cese delle «Annales», soprattutto in Polonia e Ungheria, a permettere il superamento di una lettura angusta, nazionalista e teleologica della storia, portando a concentrarsi piuttosto su fenomeni transnaziona-li o regionali legati alla longue durée, utilizzando gli strumenti della storia sociale, economica o della storia delle idee. A permettere alla storiografia delle «Annales» una progressiva penetrazione in Euro-pa orientale e nella stessa Urss fu anche il suo essere percepita – con particolare riferimento a Marc Bloch e Fernand Braudel, ma non solo – come più affine alla concezione materialistica della storia rispetto a tutte le altre storiografie occidentali “borghesi”. Furono, non di rado, le stesse categorie concettuali marxiste, una volta depurate dal loro uso strumentalmente nazionalista, a permettere a una nuova leva di intellettuali est-europei di accostarsi alle innovative metodologie di ri-cerca storica che giungevano da occidente e di intraprendere fruttuo-se collaborazioni con affermati studiosi occidentali di orientamento marxista non dogmatico (Pomian 1978; Górny 2011b, 256-259; Burke 2015, 122-123).

La fine dell’Urss e dei regimi comunisti in Europa orientale nel 1989-91 ha avuto come conseguenza la “riscoperta” del tema nazio-nale e la lettura in chiave spesso agiografica delle rispettive storie na-zionali, anche come reazione ai decenni di dominio culturale del mar-xismo-leninismo, che avrebbe imposto un’interpretazione ideologica-mente de-nazionalizzante delle rispettive storie. Come è stato ormai ampiamente dimostrato dalla storiografia degli ultimi anni, una tale interpretazione dei fatti è quantomeno parziale. Se è vero che la fine dei regimi ha portato negli anni Novanta a una volontà di “riprende-

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re il filo della storia” da dove si era interrotto, cioè dall’instaurazio-ne del “socialismo reale” in Europa orientale alla fine della Seconda guerra mondiale, che ha coinvolto opinioni pubbliche, classe politica e intellettuali – operazione che ha implicato un gattopardismo molto diffuso a livello di classe dirigente – è anche vero che il nazionalismo non era scomparso durante le dittature comuniste. Anzi, come si è vi-sto, almeno a partire dagli anni Sessanta in tutti i paesi dell’Est i miti nazionali furono parte integrante del discorso pubblico e ad essi le rispettive storiografie attinsero generosamente. L’apparente frattura rappresentata dal 1989, da questo punto di vista, costituisce piutto-sto una continuità con il passato, comunista ma anche pre-comunista (Tismăneanu 1998, 65-87; Kenney 2008, 42-45). Come hanno effica-cemente scritto Gerrits e Wolffram, la diffusa metafora del “freezer”, in base alla quale il nazionalismo etnico sarebbe tornato in vita dopo essere stato mantenuto “congelato” per più di quarant’anni dalla Pax Sovietica, non riesce a spiegare il radicamento così profondo del sen-timento collettivo di appartenenza nazionale in Europa orientale che, abilmente manipolato da ristrette élite, ha portato ai tragici conflitti etnico-religiosi nei Balcani degli anni Novanta. La grande presa dei “valori” nazionali sulla popolazione degli ex paesi comunisti sarebbe anche dovuta al fatto che la mitologia nazionale non era stata accan-tonata da quei regimi, ma ne aveva anzi costituito uno dei principa-li strumenti di consenso (Gerrits – Wolffram 2005, 13). La fine delle dittature comuniste in Europa orientale ha consentito di riutilizzare il materiale mito-simbolico mantenuto in vita dal “socialismo reale” per dare vita, questa volta in modo aperto, a movimenti e partiti che si richiamavano esplicitamente alla nazione e ai miti ad essa collegati. Il vuoto originato dal crollo di quei sistemi e dell’ideologia che li guida-va, veniva alla fine riempito da discorsi etno-mitici che permettevano di indicare alla popolazione un orizzonte di senso, costituito dall’ap-partenenza a un’entità collettiva e anti-atomistica, ovvero la nazione (Bollerup – Dons Christensen 1997, 49-59).

Superata una prima fase orientata in buona misura alla ripresa acritica dei miti nazionali o, a volte, a una vera e propria apologia del nazionalismo radicale e antisemita interbellico (Costantini 2006), dalla fine degli anni Novanta e con l’inizio del nuovo millennio la sto-riografia dell’Europa orientale si è aperta sempre più a metodologie – come quella comparativa – e a paradigmi interpretativi di deriva-zione occidentale, in alcuni casi applicati meccanicamente, in altri più problematicamente. Questo ha permesso, soprattutto a una nuova ge-nerazione di storici, di superare anguste impostazioni “positivistiche” – che si limitavano spesso a un’acritica ricostruzione fattuale di temi

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usualmente limitati alla sfera politica o militare – ed etnocentriche, aprendosi a prospettive nuove e a nuovi strumenti concettuali e ana-lizzando con metodo critico gli stessi patrimoni mito-simbolici nazio-nali (Laudiero 2004; Mitu 2008; Dobre – Ghiţă 2017).

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