Fabio Giovannini - Serial Killer Nel Cinema

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Fabio Giovannini

SERIAL KILLER!I grandi assassini seriali del cinema

Macabro Show E-book

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Serial Killer – Igrandi assassini seriali del cinemaCopyright © 1994/2001 di Fabio Giovannini

© 2001 Macabro Show E-bookI Edizione Elettronica - dicembre 2001

CopertinaEmiliano Ardolino

MACABRO SHOWIl Sito delle Storie dell’Orrore

www.macabroshow.com

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Prefazione

I “mostri” della cronaca nera sollecitano sempre un interesse morboso, accantoalla paura sorge la curiosità. In Italia è successo con il mostro di Firenze, maricordo che già molti anni orsono in America era avvenuta una vicenda simile,quella di Son of Sam. In realtà si chiamava David Berkowitz, e agì tra il 1976 e il1977 soprattutto nel Bronx, fino a che non venne catturato e condannato a 365anni di carcere. Come Jack lo Squartatore, anche Berkowitz si divertiva amandare lettere alla polizia, firmandosi “Sam”. Ero a New York in quel periodo,e mi ricordo che in città cresceva ogni giorno la paura. Si diceva che il maniacoprediligesse vittime femminili con i capelli neri e lunghi, e così molte ragazze siaffrettarono a tagliarsi i capelli al più presto. Non si usciva più da soli, masempre in gruppo.

Ecco, questa è la paura del serial killer, una figura che può essere annidataovunque nella giungla d’asfalto delle nostre città. Ma personalmente la cronacanera, con i suoi veri delitti e i suoi massacri reali, non mi ispira. Se alcune miestorie somigliano a vicende raccontate dalla cronaca si tratta solo di coincidenze.Non sono nemmeno particolarmente attratto dalla lettura degli articoligiornalistici su omicidi e assassinii.

Però è certo che oggi i confini tra l’invenzione e la realtà sono indefinibili. Iveri serial killer cominciano a sollecitare trasposizioni cinematografiche efficaci,e questi personaggi diventano persino simpatici, o possono commuovere comenel film Henry Pioggia di sangue.

In questo libro di Fabio Giovannini, attraverso molti materiali interessanti eanalisi acute, scoprirete che per portare sullo schermo le imprese di assassini eserial killer non basta mostrarne le azioni raccapriccianti o le biografie violente.È necessaria una grande arte cinematografica.

Dario Argento

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Premessa

Una nuova paura investe da qualche anno il nostro tempo. È una paura senzavolto, perché può scaturire dai gesti omicidi della persona più insospettabile. Edè una paura egualitaria, perché può coinvolgere chiunque, anche se i deboli e gliemarginati sono come sempre più esposti.

È la paura del serial killer.Una volta lo chiamavano mass murderer (omicida di massa), oggi si è

trasformato ed è diventato seriale: uccide a ripetizione, in delitti unificati dalrisultato finale – la morte – ma sempre differenti nelle modalità di esecuzione.

Il serial killer è soprattutto colui che uccide senza motivo. Questo tipoparticolare di assassino ammazza vittime che non conosce, verso le quali nonpuò avere nessun rancore o odio individualizzato. Le sue vittime sono anonime,come anonimo è lui stesso, l’assassino. Può essere ricco o proletario,apparentemente sano oppure chiaramente pazzo, indifferentemente di alto o dibasso quoziente intellettuale.

Chiunque può cadere nella rete del serial killer, e chiunque può essere unserial killer.

È difficile catturare un serial killer proprio per l’improponibilità di modelliben definiti per la sua personalità. E anche perché il serial killer in generemantiene una perfetta lucidità nel crimine, che gli consente di lasciarepochissime tracce e di eclissarsi nel magma umano della metropoli senza essereidentificato.

Il serial killer è quasi sempre un uomo, anche se esistono assassine seriali,che infieriscono soprattutto su anziani o malati (l’infermiera assassina delMisery di Stephen King, pur non essendo una killer seriale, ne potrebbe essereun esempio emblematico, con numerosi riferimenti nella cronaca nera). E questiuomini nascondono una miscela di voyeurismo e misoginia: non si accontentanodi “fare del male” alle donne (o a vittime del proprio stesso sesso, quandoagiscono in direzione omosessuale), ma vogliono anche contemplare le agonie ele sofferenze, tanto che spesso si dotano di telecamera per riprendere i propridelitti.

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Nascosti nelle ombre della metropoli, sfuggenti e inconoscibili, diventanoassassini molto loquaci, dopo l’arresto. Anzi, tendono ad attribuirsi molti piùdelitti di quanti ne abbiano effettivamente commessi.Come ogni mito, anche il mito contemporaneo del serial killer è corredato dasuoi specifici riti. Il rito del delitto può avere caratteristiche variabili: può essereaccompagnato, preceduto o seguito da violenze sessuali, così come puòescludere ogni vessazione di questo genere verso la vittima. E a volte il rito sipuò concludere con lo squartamento e la cannibalizzazione.

Sempre attento a fagocitare i miti e i riti, il cinema si è appropriatorapidamente della figura del serial killer. Agli spettatori piace vedere uccideresullo schermo, il rito antico del supplizio e delle esecuzioni in pubblicopermane, incruento, nella realtà simulata del cinematografo. O sulle pagine dicarta della letteratura di consumo. [Rimando, per tutti gli aspetti letterari, aicapitoli sullo splatterpunk nel mio libro Cyberpunk e Splatterpunk, Datanews,Roma 1992 e 2001]

Tra l’altro, le vicende imperniate sugli assassini seriali “funzionano” bene dalpunto di vista narrativo: “L’indagine sulle gesta di un serial killer permette diconiugare la violenza e il thrilling del giallo hard-boiled con la razionalità delgiallo “scientifico” all’inglese: tanto più efferate le uccisioni, anzi, tanto piùlegante sarà il disegno che le scandisce, tanto più disastrata la psichedell’omicida tanto più alessandrino o barocco il suo sistema di segni.” [MicheleMari, Nel silenzio degli innocenti, in “Corriere della sera”, 9 febbraio 1992]

La premessa dei serial killer cinematografici più recenti era stata anticipatadal rovescio della medaglia del serial killer: il giustiziere metropolitano. Che sia il“giustiziere della notte” di Charles Bronson o l’ispettore Callaghan di ClintEastwood, il cinema aveva già offerto le imprese seriali di moderni cavalieri delBene, impegnati a fare piazza pulita di coloro che ritengono nemici dello statusquo, i delinquenti, i criminali. Senza rispetto per nessuna legge (come il serialkiller), senza conoscere chi uccidono (come il serial killer), ammazzando inquantità sempre crescente (come il serial killer). Si tratta di assassini seriali chesono convinti di stare dalla parte giusta, spesso sono addirittura stipendiatidallo stato che concede loro la bondiana “licenza di uccidere” (è il casodell’ispettore Callaghan, ma ancora di più della Nikita di Luc Besson).

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Per i giustizieri della notte e della metropoli le platee cinematografiche hannodimostrato nei decenni passati una indulgenza e persino una accondiscendenza atratti discutibile. Allo stesso modo, i serial killer ripugnano e spaventano, maspesso suscitano una simpatia complice. In questo fascino del serial killer staanche l’ambiguità della metafora dell’omicida seriale. È vero che il serial killerrompe tutti i codici, e quindi è un “trasgressore” che piace, ma è anche vero chec’è qualcosa di terribilmente inquietante in questa simpatia.

Al contrario dei vecchi “mostri” della letteratura e del cinema gotico, questiassassini non hanno nessuna motivazione esplicita per i loro delitti. I mostriclassici, invece, ammazzavano sempre per qualche motivo: per vendicarsi dellapropria bruttezza, per saldare un conto con la società che li aveva respinti oferiti, oppure per effetto di una irresistibile maledizione, e così via.

Il serial killer contemporaneo, invece, ammazza senza ragione, anche alcinema. Uccide degli sconosciuti. Tanti sconosciuti.

E del resto anche loro stessi, i serial killer del cinema, sono tanti, davverotanti. I veri “eroi” di questo filone abbiamo imparato a conoscerli per nome, ed ègià un segno preoccupante di confidenza: da Jack (lo squartatore, naturalmente)a Norman, Jason, Leatherface (un soprannome, questa volta), Michael, Freddy,Henry e Hannibal. Ma questi sono solo i più celebri, quelli che hanno avuto piùfortuna. Accanto a loro il cinema ha regalato decine di altri personaggi negativiintenti alle uccisioni seriali. Il primo è stato il Peter Lorre di M (M, il mostro diDuesseldorf, di Fritz Lang), che trovava ispirazione nella cronaca nera. Poi, nel1968, era stata la volta di un altro vero assassino reclutato dal cinema, con ilvolto di Tony Curtis, per The Boston Strangler (Lo strangolatore di Boston, diRichard Fleischer). E altrettanto lunga è stata la schiera degli assassini inventatidirettamente dal cinema. Già Psycho aveva dato origine da solo a una progeniequasi infinita di maniaci omicidi (indimenticabili quelli della trilogia Hammer:Maniac, Paranoiac, Fanatic). Ma prima ancora, nel 1959, si era già fattoconoscere il pazzo con la cinepresa interpretato da Carl Boehm in Peeping Tom(L’occhio che uccide, di Michael Powell).

Tra il giallo e il fantastico è sempre esistita una zona di confine, in cuil’assassino, tipico personaggio del giallo, diventa sempre più centrale e in cui lapaura e l’orrore sono i primi ingredienti. Il cuore del film, così, non riguarda tan-to chi è l’assassino, ma cosa fa l’assassino, come uccide e perseguita le sue vit-

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time. Questo cinema “alla lama di coltello” è alla base di un nuovo genere di filmd’azione, che deve molto al giallo e al mystery tradizionali, ma che è parente delfantastico e del gotico, e privilegia l’omicidio e gli effetti speciali sanguinari, tal-volta a scapito dell’“intreccio”.

Il cinema “alla lama di coltello”, che ha visto tra i suoi frequentatori piùillustri registi come Brian De Palma, John Carpenter o da noi Dario Argento, hale sue origini alla fine degli anni Cinquanta, con l’avvento del colore, unamaggiore elasticità della censura e l’affermarsi di nuove tendenze nel cinemafantastico e del terrore.

Lo psycho-thriller degli anni Ottanta ha raccolto l’eredità di questo lungopercorso. I suoi antenati risalgono a due decenni prima, ai tentativiindimenticabili di un cinema spesso di serie B, privo di grandi mezzi finanziari,precedente alla introduzione del make-up tecnologico e dei vari fx. [Su questosotto-genere si rinvia a F. Giovannini – A. Tentori, Pioggia di sangue. Il cinemapsycho-thriller americano, Falsopiano, Alessandria 1997]

Tutti gli artefici dello psycho-thriller recente si ispirano o trovanosuggestione nelle vecchie pellicole di maestri spesso conosciuti solo ai cultoridel genere. Si pensi all’importanza di William Castle e Herschell Gordon Lewis,quasi ignoti al grande pubblico europeo, e di Mario Bava, oggetto di culto percinefili amanti del maudit.

Castle, Lewis e Bava anticipano alcuni dei luoghi comuni principali delgenere, portando alle estreme conseguenze le allusioni presenti nei film di AlfredHitchcock. Dove la macchina da presa di Hitchcock si fermava, Lewis e Bavacontinuavano. Il troppo sobrio Hitchcock non consente allo spettatore di vedereil coltello che affonda nelle carni di Janet Leigh: Castle, Lewis e Bava invececoncedono allo sguardo della cinepresa tutto il possibile (per il loro tempo). Eun intero periodo e uno “stile” del cinema del terrore degli anni Sessanta eSettanta, quello incarnato dall’horror inglese e dalla Hammer, ha passato iltestimone a Pete Walker, che ha inserito il moderno maniaco omicida dentroatmosfere gotiche in film come La casa del peccato mortale (1975) e Chi vive inquella casa? (1977).

Gli anni Ottanta offrono così molti assassini inediti, ma radicati nei percorsidel cinema horror e thriller del passato. La prima novità a caratterizzare il nuovofilone che attraversa il decennio è proprio il ricorso crescente e indispensabile a-

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gli effetti speciali, ai tecnici e agli artisti del make-up, di cui Tom Savini è statoil rappresentante più tipico. Dopo un predominio della fantascienza come sedeper la sperimentazione e l’utilizzo degli effetti speciali, durato per tutti gli anniSettanta, il decennio successivo si è invece delineato come fase perl’appropriazione di queste tecniche da parte del genere horror e del cinema “allalama di coltello”.

Accanto a licantropi, fantasmi e mutanti, sui quali inventare ogni uso dellattice e delle nuove tecnologie elettroniche, riappaiono i maniaci omicidi, grandiprotagonisti di un filone più realistico, fatto di delitti concreti commessi dauomini concreti. Lo stesso Dario Argento nel corso degli anni Ottanta torna,dopo alcune precedenti incursioni nel paranormale con Suspiria e Inferno, adoccuparsi di assassini terreni, concreti. È un maniaco omicida, e non unapresenza irreale o mostruosa, ad uccidere in Tenebre (1982) e poi in Opera(1987), Trauma (1993), La sindrome di Stendhal (1996) e Nonhosonno (2000).

Nel rito del delitto di questa nuova fase dello psycho-thriller si innestano igiochi e gli effetti creati dagli esperti di trucchi e di make-up. Ciò che fino aglianni Settanta era impensabile diventa possibile: ogni più terribile mutilazione eoffesa alla carne può essere vista, grazie a latex e protesi animabilielettronicamente.

Eppure anche nelle possibilità tecnologiche per il cinema alla lama di coltelloci sono ancora dei campi inesplorati e dei potenziali (imprevedibili) sviluppi fu-turi, legati soprattutto alle innovazioni nelle tecniche cinematografiche di ripresae nell’intreccio crescente con le possibilità infinite del digitale. Lo stesso DarioArgento, agli inizi degli anni Ottanta, si lamentava di non riuscire ancora a trova-re nella tecnica un supporto sufficiente alla propria fantasia: “Gli effetti specialisono una componente essenziale del mio cinema. Non sacrifico ad essi la mia i-dea della paura (un intreccio tutto mentale di paranoie e di oscure fantasie), mali curo, li discuto con i tecnici, li invento, perché voglio che producano il massi-mo dell’impatto visivo. Il sangue conta poco, l’importante è che il truccos’aggiunga alla suspense senza sopraffarla. Qui, naturalmente, entra in giocol’estro del regista, la capacità di mettere in scena il terrore sfruttando le risorsedell’incubo più di quelle del realismo. Purtroppo la mia immaginazione va spes-so oltre le possibilità tecniche del cinema. La cinepresa, non dimentichiamolo, è

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quasi la stessa di sessant’anni fa. Che frustrazione.” [Dario Argento, Sono bel-lissimi giochi, in “l’Unità”, 1 maggio 1982]

Ma al di là dell’uso di effetti speciali e tecniche nuove, il cinema psycho-thriller degli anni Ottanta evidenziava anche moderne e articolate scelte dicontenuto e nuovi modelli.

Uno dei destinatari fondamentali di questo cinema è stato rappresentato peroltre un decennio dai teen-ager, come già in altre fasi del cinema fantastico edell’orrore. E molti protagonisti principali diventano quindi ragazzi e ragazzini,possibilmente sotto i vent’anni e talvolta sotto i sedici. La scelta di un targetcon età di questo tipo costringe a non eccedere nei fotogrammi erotici e nel nudo(pur sempre presenti parzialmente e in allusioni). Ragioni di marketinginducono ad evitare, semplificando, per gli americani il certificato X e per gliitaliani il divieto ai minori di diciotto anni.

Gli ambienti preferiti per i delitti del maniaco omicida diventano allora lescuole e le familiari case borghesi dove gli studenti si illudono di trovareprotezione: in questo tipo di psycho-thriller sono molto importanti le ragazze-vittime-eroine, in cui far identificare un settore di pubblico emergente, quellofemminile (Jamie Lee Curtis è stata agli inizi degli anni Ottanta il prototipo dellaragazza perseguitata dall’omicida, ma capace di rivalsa). Per chi non è più mino-renne, o sta superando l’adolescenza, il luogo privilegiato del crimine diventa lavacanza estiva o la gita scolastica, immancabilmente turbata dai colpi di accettae dalle coltellate di un assassino misterioso. E dopo il risorgere recente del filonecon Scream, ecco alzarsi l’età dei protagonisti per rivolgersi a studentiuniversitari e neo-laureati (come insegna il film Valentine), in nome delfenomeno sociologico che vede, nelle società industrializzate, un notevoleprolungamento dei comportamenti adolescenziali.

Questo riferimento a un pubblico giovane o giovanissimo induce il cinemapsycho-thriller a concentrarsi su paure e “minacce” dell’infanzia edell’adolescenza: l’esempio più macroscopico è insito negli stessi titoli di mol-tissimi film, a carattere proibitivo (da Non aprite quella porta a Non entrate inquella casa). Scrive Pietro Piemontese che questi film “sintetizzano personaggidella tradizione fantastica e ripetono i messaggi dei divieti parentali agli adole-scenti: non bisogna uscire di sera, non si deve disubbidire ai genitori, non biso-gna frequentare i luoghi proibiti, bisogna stare attenti a chi si frequenta e soprat-

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tutto tenersi lontano dal sesso. Per chi disubbidisce è l’incubo. Per le donne checedono al desiderio è la morte, invariabilmente, fin dalle novelle di Perrault.”[Pietro Piemontese, Remake. Il cinema e la via dell’Eterno Ritorno, Castelvec-chi, Roma 2000, p.270]

I limiti di questo cinema dedicato a una fascia generazionale cosìcaratterizzata si sono riflessi anche sulla qualità. Talvolta è proprio quando ilgenere fuoriesce da questo immediato riferimento adolescenziale che riesce adare qualche prova più impegnativa. Quando si sono cimentati nelle strade delcinema alla lama di coltello registi come Brian De Palma è stato per infrangereogni gabbia precostituita a misura di spettatore “minorenne” o eminentementegiovane. De Palma si rivolge a un pubblico adulto, giocando su infinitevariazioni dei temi hitchcockiani e indicando alcune strade per uno psycho-thriller non costretto al puro susseguirsi di delitti.

La linea “hitchcockiana” è quella che guarda a uno spettatore maturo, ancheper il gioco dell’identificazione. Anthony Perkins rappresentava sullo schermole angosce di un pubblico che è cresciuto con lui, che è invecchiato insieme aNorman Bates e non ha perso i propri tratti psicotici e folli. Così come altriitinerari dello psycho-thriller ripropongono l’identificazione con il poliziotto ol’investigatore (vedi Manhunter e per altri versi Vivere e morire a Los Angeles),lasciando il “killer” in una dimensione oscura, orrida e repellente.

Ma mentre alcuni cineasti hanno guardato al filone poliziesco tradizionaleper innovarlo (l’uomo in difficoltà contro un assassino che fa parte di un pianocospirativo: Blow Out o Omicidio a luci rosse), altri hanno ripensatosoprattutto alla figura dell’assassino. Lo “squartatore” (memore di quelpersonaggio presente a intermittenza per tutta la storia del cinema che è Jackthe Ripper) dilaga e compie massacri sempre più espliciti nella formula diidentificazione che propongono.

Negli anni si sono moltiplicati gli assassini cinematografici che diventano eroipopolari. La forza di questa popolarità è moltiplicata dalla scelta seriale: unassassino che ha successo non mancherà di tornare sul luogo del delitto (la salacinematografica) più e più volte, in una quasi interminabile catena di remake.

Molti di questi assassini seriali affondano le loro origini nel bianco e nero diPsycho (Norman Bates, lo psicopatico assassino interpretato da Anthony Per-kins, risorge a colori nelle sequele Psycho II e Psycho III, nel televisivo Psycho

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IV e nel remake del 1998) o nei fotogrammi artigianali e quasi dilettanteschi diNon aprite quella porta (Leatherface, faccia di cuoio, interpretato nel film capo-stipite da Gunnar Hansen, colpisce ancora in tre film successivi). E MichaelMyers, l’assassino di Halloween la notte delle streghe, ritorna più volte dopo ilsuo esordio nel 1978.

Ma gli anni Ottanta si aprono con il primo capitolo di una delle serie piùlunghe nella storia del cinema: Venerdì 13. I film di questa saga eranocaratterizzati dalla perdita di senso del delitto, e dalla sostanziale inessenzialitàdell’assassino (poiché tutto si concentra nell’atto, nel rito dell’accoltellamento edel massacro). Nonostante l’iniziale successo di pubblico del filone Venerdì 13,il cinema si è trovato rapidamente nella necessità di trovare una via di uscita. Perevitare che la fortuna del genere si arenasse di fronte all’esaurimento diinvenzioni per l’atto omicida, era necessario ripartire dall’assassino più chedalle sue gesta. È in questo modo che nasce la vera rivelazione degli anniOttanta, l’unico astro nuovo in un museo di criminali che ripetevano se stessiall’infinito: Freddy Krueger.

La genialità dell’ideazione di Krueger sta nel rimettere lo spettatore dallaparte dell’assassino. Troppo bombardato da fotogrammi di sangue, incapace diprovare più brividi nelle vesti soggettive della vittima, allo spettatore degli anniOttanta viene consegnato un personaggio ambiguo come il decennio in cui ènato: è l’uomo cattivo dei sogni infantili, che quindi fa paura, ma è anche iltrasgressivo e simpatico villain che tutti vorrebbero essere.

Grazie a Krueger si preparava la strada a un altro serial killercinematografico, forse il più suggestivo che finora abbia attraversato gli schermi.Si tratta di Hannibal Lecter, lo psichiatra cannibale del film pluripremiato Ilsilenzio degli innocenti e poi del sequel Hannibal, con il quale la saga si affacciaal Duemila. Lecter non ha bisogno di trucchi sul viso per apparire orribile, glibasta fissare la cinepresa con gli occhi celesti e sbarrati dell’attore AnthonyHopkins. E anche i macabri rituali del delitto non vengono mostrati allospettatore, ma quasi sempre suggeriti, evocati. Nel nuovo millennio non serverendere visibile la paura nel cinema, i nostri terrori sono già tanto, troppovisibili nella cronaca di ogni giorno, nei telegiornali e nella vita quotidiana.

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Nelle pagine che seguono non ci occuperemo di tutti i “maniaci omicidi” chehanno solcato gli schermi, per i quali occorrerebbe una intera enciclopedia, masolo dei “veri” serial killer del cinema, cioè quegli assassini che sono ritornatipiù volte a colpire in diverse pellicole. Personaggi “seriali”, dunque, peromicidi “seriali”. Ma per capire i meccanismi cinematografici attraverso cui èstato possibile trasformare gli assassini seriali in immaginario, la galleria diritratti dei grandi assassini di celluloide (Jack, Norman, Leatherface, Michael,Jason, Freddy, Henry, Hannibal e la loro recente progenie) è preceduta daiprofili di sei maestri del “cinema alla lama di coltello”, e cioè Alfred Hitchcock,William Castle, Herschell Gordon Lewis, Mario Bava, Pete Walker e DarioArgento.

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I PADRI DEL GENERE

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Alfred Hitchcock:

il maestro

Una analisi del serial killer cinematografico non può che aprirsi con un breveomaggio ad Alfred Hitchcock. Sul regista inglese si sono ormai scrittiinnumerevoli volumi e a lui sono stati dedicati saggi approfonditi. Non è certoquesta la sede per aggiungere qualcosa alla bibliografia su Hitchcock, ma solo lanecessaria opportunità per ricordare il debito verso questo regista da parte diquanti hanno portato sullo schermo gli assassini seriali dei nostri anni.

Hitchcock non ha mai girato un film veramente imperniato sul serial killersecondo l’accezione odierna, se si esclude The Lodger, del 1926, dedicato a Jacklo Squartatore ma che ruota attorno al classico tema hitchcockianodell’innocente accusato ingiustamente (e per altro lo stesso Jack è quisoprannominato Il Vendicatore e non Lo Squartatore). Eppure nella produzionecinematografica di Hitchcock (e anche negli episodi televisivi da lui diretti nellaserie “Alfred Hitchcock Presents”) si trovano tutti gli ingredienti e gli schemiche riappaiono nei lavori di altri registi sul serial killer.

Innanzitutto Hitchcock apre la strada agli sviluppi successivi del cinemadedicato al serial killer perché mette in scena la pazzia. I suoi assassini svelanospesso un lato bestiale, di predatori, che non si collega a possessionidemoniache ma a più concreti tormenti psicologici. Il doppio volto di tanti suoiassassini, secondo il modello vittoriano del dottor Jekyll e mister Hyde, finiscesempre per avere una spiegazione psichiatrica. Il prototipo di tutti i film su unassassino che viene presentato come caso psichiatrico è proprio il suo Psycho(1960), e va detto che la diagnosi proposta alla fine del film sembrava davverogiustapposta e poco convincente. Ma una spiegazione, una razionalizzazionedel delitto appariva a Hitchcock indispensabile.

In secondo luogo Hitchcock insegna le tecniche della paura cinematografica,nella sua originale versione fatta di ambiguità e di confusione dello spettatore: lasuspense hitchcockiana serve da impianto per innumerevoli film thrilling, anchequei thrilling che prendono le mosse dagli atti brutali ed efferati di un assassino

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seriale. Questa tecnica della paura cinematografica aveva delle basi molto preci-se. Come non ricordare, in Blackmail del 1929, il terrore indotto da una sempli-ce parola (knife, coltello), ascoltata ossessivamente da una ragazza che la senteripetere in una conversazione? o la scoperta improvvisa e inaspettata di un pu-gnale piantato nella schiena di una donna in Il club dei trentanove (1935)?

In questa tecnica della paura c’era anche una attenzione particolare al ruolodello spettatore, alla sua identificazione nei personaggi che agiscono sulloschermo. Era, in sintonia con i tempi, un ruolo ancora di identificazione assolutacon la vittima. Se il protagonista dell’episodio pauroso era un uomo, si trattavadi identificarsi nella sua ricerca di riscatto da una accusa infamante e falsa. Seviceversa il protagonista era una donna, allora il ruolo era quasi sempre di eroinain pericolo, che finisce spesso per essere uccisa o minacciata di morte (perquanto non manchino alcune rare femmine minacciose, come la governanteindimenticabile di Rebecca la prima moglie, del 1940).

Anche molte delle sequenze hitchcockiane in cui appaiono dei delitti hannofatto scuola. Non si tratta solo delle sequenze di Psycho, ma di piccoli gioiellisanguinari annidati nelle altre pellicole del regista. E Hitchcock non esitònemmeno davanti agli espedienti tecnologici più spettacolari, come iltridimensionale, quando girò nel 1954 Il delitto perfetto in tre dimensioni,anticipando, con la famosa scena delle forbici, il futuro uso del 3D perspaventare le platee con pugnali e forconi che sembrano fuoriuscire dalloschermo.

Ma Hitchcock resta il regista del “suggerire più che mostrare”. Il suo cinema,essendo al confine tra mainstream e film di genere, non poteva osare troppo.Alfred Hitchcock è l’uomo delle pulsioni represse, dell’orrore che c’è, ma nonvuole farsi vedere. Tutti i suoi film sono attraversati da un sottile filo dierotismo, evidenziato soprattutto nelle algide attrici bionde che il registasceglieva con cura per essere perseguitate ed offese. Ma la visione dell’omicidioera sempre pulita, senza squarci sanguinolenti, senza visione esplicita delmomento truculento del delitto. La famosa scena della doccia in Psycho varicordata proprio perché il coltello che si abbatte sulla ragazza nuda non si vedemai affondare nella carne, anche se molti spettatori testimoniano di “aver visto”la perforazione della vittima.

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Troppo gentiluomo e troppo legato al suo perbenismo inglese, Hitchcocknon si poteva spingere più in là. Ci penseranno i suoi imitatori a varcare le so-glie che lui non aveva voluto e potuto oltrepassare. Così William Castle offriràmolta più macelleria (laghi di sangue, teste mozze, colpi di accetta, pugnalate...),e darà più soddisfazione al voyeurismo dello spettatore. Sarà a sua voltasorpassato solo dall’incontenibile Herschell Gordon Lewis, che con i suoibanchetti di sangue toccherà più da vicino il modello e le caratteristiche delcinema pornografico. In Italia gli imitatori di Hitchcock sceglieranno subito lastrada del sesso intrecciato all’orrore, una strada battuta soprattutto da MarioBava, ma anche da Riccardo Freda che arriverà a inventare un dr. Hichcocknecrofilo come estremo omaggio/strumentalizzazione del mito di AlfredHitchcock. A questi suoi epigoni Hitchcock ha lasciato il compito di mostrare ildelitto nei suoi dettagli macabri e sanguinosi, anche se lui stesso non si erasottratto a immagini forti: basterebbe ricordare il bambino scaraventato su uncancello in Io ti salverò, già nel lontano 1945, o il rasoio pronto ad uccidere ilvecchio psichiatra in Marnie.

Nemmeno quando, con la maggiore rilassatezza censoria degli anni Settanta,l’orrore poteva sposarsi direttamente con la sessualità e con il nudo, Hitchcockvolle sottomettersi a questa moda, per quanto una delle sue ultime pellicole,Frenzy del 1971, sia superiore a tutti i suoi film precedenti per violenza ederotismo esplicito, avvicinandosi più di ogni altra opera hitchcockiana al temadel serial killer.

In Frenzy, infatti, il voyeurismo dello spettatore ottiene più soddisfazione, elo stesso assassino uccide in serie con violenza esibita e con caratteristiche affinia quelle degli omicidi più sanguinari della cronaca nera e quindi del serial killercinematografico posteriore. Ma Hitchcock si allontanava dai percorsi successividel serial killer cinematografico proprio perché cercava comunque unaspiegazione al delitto. Spesso è la vendetta a muovere la mano dei suoi assassini(come in Rebecca), oppure è una pazzia che mantiene una logica per quantodemenziale. Il serial killer vero e proprio, invece, sfugge ad ogni motivazione e aogni spiegazione. Per Hitchcock solo gli animali potevano essere così pericolosie insidiosi. E infatti gli unici veri assassini seriali del suo cinema sono gli uccellidel film omonimo. In Gli uccelli del 1963, infatti, la minaccia dei feroci pennuti èsenza motivo, colpisce chiunque, secondo ragioni assolutamente inconoscibili.

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Nel celebre dialogo tra François Truffaut e Alfred Hitchcock c’è unpassaggio significativo:“HITCHCOK: Non avrei girato Gli uccelli se si fosse trattato di avvoltoi o diuccelli da preda; quello che mi è piaciuto è che si trattava di uccelli comuni, diuccelli di tutti i giorni. Capisce cosa voglio dire?TRUFFAUT: Tanto più che questo è ancora una volta riferibile al suoprincipio: dal più piccolo al più grande, tanto a livello figurativo cheintellettualmente. Dopo aver fatto vedere dei graziosi uccelli che strappano gliocchi degli uomini, deve fare una storia di fiori il cui profumo avvelena lagente...!H.: No, no! Bisogna far vedere dei fiori che mangiano gli uomini.T.: Fino dal 1945, quando si parla della fine del mondo, si pensa evidentementealla bomba atomica. Non ci si aspetta che al posto della bomba atomica ci sianomigliaia di uccelli...H.: È per questo che lo scetticismo verso la possibile catastrofe è espresso dauna donna anziana, l’ornitologa; è una reazionaria, una conservatrice, non puòcredere che una cosa grave potrebbe succedere con degli uccelli.” [F. Truffaut, Ilcinema secondo Hitchcock, Pratiche Editrice, Parma 1985, pp.235-236]

Ecco, Alfred Hitchcock era a sua volta troppo conservatore per applicare lostesso schema agli uomini. Non può credere che degli esseri umani compianoazioni aggressive senza alcuna motivazione, e in questo non coglie la portatainquietante e trasgressiva del serial killer, che uccide a caso ed è nascostonell’appartamento accanto, educato e gentile, ma anche capace di improvvisafuria omicida.

Saranno i successori di Hitchcock a rompere queste cautele conservatrici e amostrare sugli schermi tutta la potenza destabilizzante e terrorizzante del serialkiller. Assumendo la lezione del maestro Hitchcock, ma spesso per ribaltarla eoltrepassarla.

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Filmografia

1922Always Tell Your WifeWoman to Woman

1923The White Shadow

1924The Passionate Adventure

1925The BlackguardThe Prude’s FallThe Pleasure Garden

1926The Mountain EagleThe Lodger

1927DownhillEasy VirtueThe Ring (Vinci per me!)

1928The Farmer’s WifeChampagne (Tabarin di lusso)

1929Harmonia Heaven (Cielo d’armonia)The Manxman (L’isola del peccato)Blackmail

1930Elstree CallingJuno and the PaycockMurderMary

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1931The Skin Game (Fiamma d’amore)

1932Rich and StrangeNumber SeventeenLord Camber’s Ladies

1933Waltzes from Vienna (Vienna di Strauss)

1934The Man Who Know Too Much

1935The Thirty-Nine Steps (Il club dei trentanove)

1936The Secret Agent (Amore e mistero / L’agente segreto)Sabotage

1937Young and Innocent

1938The Lady Vanishes

1939Jamaica Inn (La taverna della Giamaica)

1940Rebecca (Rebecca, la prima moglie)Foreign Correspondent (Il prigioniero di Amsterdam)

1941Mr. and Mrs. Smith (Il signore e la signora Smith)Suspicion (Il sospetto)

1942Saboteur (Sabotatori / Danger)

1943Shadow of a Doubt (L’ombra del dubbio)

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Lifeboat (I prigionieri dell’oceano)

1945Spellbound (Io ti salverò)

1946Notorius (Notorius, l’amante perduta)

1947The Paradine Case (Il caso Paradine)

1948Rope (Il nodo alla gola)

1949Under Capricorn (Il peccato di Lady Considine / Sotto il capricorno)

1950Stage Fright (Paura in palcoscenico)

1951Strangers on a Train (L’altro uomo / Delitto per delitto)

1952I Confess (Io confesso)

1954Dial M for Murder (Il delitto perfetto)Rear Window (La finestra sul cortile)

1955To Catch a Thief (Caccia al ladro)

1956The Trouble with Harry (La congiura degli innocenti)The Man Who Know Too Much (L’uomo che sapeva troppo)

1957The Wrong Man (Il ladro)

1958Vertigo (La donna che visse due volte)

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1959North by Northwest (Intrigo internazionale)

1960Psycho (Psyco)

1963The Birds (Gli uccelli)

1964Marnie (id.)

1966The Curtain (Il sipario strappato)

1969Topaz (id.)

1971Frenzy (id.)

1975Family Plot (Complotto di famiglia)

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William Castle:

il gusto per l’eccesso

Per William Castle la carriera di maestro del brivido inizia davanti allo specchio,quando, da bambino, passava ore e ore a fare smorfie per imitare il make-up diLon Chaney nel Gobbo di Notre Dame. A sei anni, poi, l’esperienza cruciale: unvicino di casa mangia dei funghi avvelenati, e il piccolo William assiste a tutti imomenti dell’agonia, fino all’arrivo dell’ambulanza. “Questo episodio mi hacreato una ossessione per gli aspetti spaventosi dell’orrore”, dichiarerà Castle inseguito.

Con queste premesse il ragazzino americano, nato a New York il 24 apriledel 1914, non poteva che diventare uno dei più abili artigiani dell’horror, l’uomoche dedicherà gran parte della sua vita a terrorizzare il pubblico cinematograficodi tutto il mondo. Cinque anni dopo la morte dei genitori, Castle (il cui verocognome di origine tedesca suonava Schloss) decide di fare l’attore, e riesce aentrare nel mondo dello spettacolo spacciandosi per il nipote del produttoreSamuel Goldwyn. Rivela subito le suo preferenze, e a meno di vent’anni dirigela versione teatrale di Dracula, con Bela Lugosi, oltre ad altri classici del terrorea teatro (da The Last Warning a The Cat and the Canary).

È in quel periodo che William Castle rivela il suo vero talento: quello diinventore di trovato pubblicitarie, di vulcano di idee per incuriosire gli spettatorie far parlare la stampa, anticipando di molti anni i meccanismi dell’universomassmediale più recente. Castle non ha scrupoli, e per attrarre l’attenzione suun suo lavoro teatrale escogita una incredibile macchinazione. L’attrice di un suospettacolo era tedesca, e allora bastò divulgare la falsa notizia che Hitler rivolevain Germania a ogni costo quella donna ed imbastire una storia del tutto fittizia diattentati alla vita dell’attrice per ottenere un risalto di stampa eccezionale. I piùmaligni arrivano a raccontare che Castle imbrattò di nascosto il teatro con dellesvastiche, per rendere ancor più credibile l’operazione.

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Era il primo passo verso la sua proclamazione a “Re del Gimmick (il truc-co)”, che verrà definitivamente consacrata con l’apertura di una propria casa diproduzione, nel 1957.

Due anni prima, Castle dopo aver diretto una interminabile serie di film diserie B e di telefilm, assistendo alla proiezione dei Diabolici di Clouzot, scopreuno spazio ancora incontaminato per il cinema americano. In quegli anni negliStati Uniti non era stato girato un suspense efficace come quel prodottoeuropeo, cupo e inquietante, al confine tra il film del terrore, il giallo e il drammapsicologico. Castle investe allora tutti i suoi risparmi per produrre da solo unnuovo film, tratto dal singolare libro The Marble Forest scritto da dodici autoridiversi. Nasce cosi Macabre, girato in sei giorni e capostipite di una nuova venacinematografica. A riprese ultimate, però, Castle si accorse di non essereClouzot e che il film non era certo un capolavoro noir: un ricco signore, questala trama, moriva di paura alla vista del cadavere mummificato di una bambina, egli orchestratori dell’evento potevano intascarne l’eredità.

Serviva una trovata per risollevare le sorti di un film girato con abilità maimplacabilmente di serie B. Con una telefonata ai Lloyds di Londra, Castlestipulò una assicurazione di 1000 dollari sulla vita degli spettatori che fosseromorti di paura durante la proiezione del film, e riempì le locandine con questoavviso. Capì anche che il film doveva puntare sugli aspetti autoironici, eaggiunse alla pubblicità una serie di strip di sano umorismo nero (“Abbiamodovuto impiccare il cameraman perché non rivelasse il terrificante finale”, dicevaad esempio una vignetta). Tutto il cinema di William Castle manterrà questoequilibrio tra terrore e humour, giocando sull’ambiguità tra paura e riso. Non siandava a vedere un film di Castle per “pensare”, ma per divertirsi, alternando lerisate ai brividi di spavento. Del resto non si trattava che di esplicitare unarealtà che tutti i frequentatori di sale dove si proiettano film del terrore benconoscono: per spezzare la tensione o ridimensionare la paura si ride e siironizza sulle vicende terrificanti che passano sullo schermo.

Negli stessi anni in Inghilterra, un altro regista, Terence Fisher, studiava tuttii mezzi per non far ridere lo spettatore alla prima apparizione di Dracula nelsuo Dracula il vampiro, e dall’altra parte dell’oceano Castle invece puntavatutto proprio sull’equivoco tra spavento e umorismo.

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Con questa linea produttiva ben presente, William Castle continuò a dirigeree produrre altre piccole macchine da divertimento. Prima La casa dei fantasmi(fotografata secondo l’immaginario procedimento Emergo: in realtà tutto siriduceva all’emergere di uno scheletro dallo schermo, alle “prime” del 1958), poiIl mostro di sangue (girato in PerceptoVision, cioè alcune sedie della sala diproiezione venivano fatte vibrare con una leggera scossa elettrica) infineThirteen Ghosts (con il metodo Illusion-O: venivano distribuito delle lenticolorate che permettevano di vedere apparizioni di fantasmi altrimenti nonpercepibili).

Questa prima serie di film del terrore di Castle si colloca a metà strada tra“giallo” e soprannaturale, ma con una costante allusione a entità occulte ofantastiche. Il modello è però quello delle apparenze fantastiche che nascondonouna macchinazione umana, al modo di certi romanzi di John Dickson Carr. Delresto Castle si era fatto le ossa negli anni Quaranta girando moltissimipolizieschi talvolta tratti da celebri serie radiofoniche. Suo è The Mark of theWhistler, basato su un racconto di Cornell Woolrich, e nel “giallo” castleianovanno ricordati anche The Crime Doctor’s Warning e The Crime Doctor’sGamble, così come The Whistler, Voice of the Whistler e The Fat Man.

I suoi fantasmi sono quasi sempre architettati da criminali per far impazzire(o morire) di paura miliardari o mogli fastidiose. Eppure Castle lascia unmargine di equivoco, in cui l’elemento soprannaturale fa la sua ricomparsa. Nelfilm Il mostro di sangue, ad esempio, si inventa il ‘tingler’, un microorganismoche provocherebbe la morte da spavento, e in Thirteen Ghosts il finale sembraconfermare che i fantasmi della casa infestata esistono veramente, nonostante lastoria fosse sempre imperniata (come in La casa dei fantasmi e nel successivo Ilcastello maledetto) su un “vero” assassino che si maschera dietro falseapparizioni spettrali.

Il “realismo” di William Castle aumenta dopo il successo dello Psycho diAlfred Hitchcock, che dimostrava come un buon brivido macabro può scaturireanche da una storia di follia e non necessariamente di fantasmi. Castle si affrettaad imitare il grande Hitch, guadagnandosi il soprannome di “Hitchcock junior”,o più modestamente di “Hitchcock dei poveri”. Ma su questa parentela conAlfred Hitchcock si potrebbe discutere, o almeno si potrebbe rimettere indiscussione una semplice linea discendente di Castle da Hitchcock.

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Se tutto un nuovo genere di film del terrore, violento, con esposizioni senzapudore di accoltellamenti e cadaveri, incentrato su un maniaco omicida e sudeviazioni sessuali, trova un suo antenato illustre e originario in Psycho, a benvedere proprio William Castle potrebbe dividere questa paternità con AlfredHitchcock.

Psycho impressiona con la mummia della madre, ma Castle aveva anticipato itempi con la bambina mummificata di Macabro. Sempre Castle con qualcheanno di anticipo aveva osato indulgere con la camera sugli omicidi, aprendo unanuova estetica dell’ammazzamento. Ed è proprio il “Re del gimmick” ad averesviluppato ed estrapolato da Hitchcock soprattutto la violenza, il pugno nellostomaco dello spettatore, la centralità del delitto e del suo rito sacrificale.Il thriller sanguinario o le propaggini recenti dello splatter movie possonoindubbiamente trovare lontani riferimenti nel cinema hitchcockiano, ma devonoammettere un diretto debito alle trovato e ai trucchi di Castle.

Castle osa dove Hitchcock si ritrae. La Joan Crawford che brandisceun’accetta in Cinque corpi senza testa avrebbe fatto solo una fugace apparizionein un film di Hitchcock, mentre Castle si diverte a insistere sull’esposizionedell’arma, sulla paura non tanto derivante da situazioni, ma da oggetti e da cose.Sono ‘cose paurose’ i cadaveri, spesso smembrati, che appaiono continuamentenel cinema di Castle, e sostituiscono con la loro presenza materiale le atmosferedel suspense hitchcockiano. In questo, Castle è anticipatore del thriller ‘duro’degli anni Settanta e Ottanta più di Hitchcock.

Del vecchio maestro inglese, Castle si limito in realtà a fare la parodia. InHomicidal, infatti, il faccione lucido di William Castle compare all’inizio delfilm in una esplicita presa in giro dei telefilm presentati da Hitchcock, e là doveHitch si limitava ad aprire e chiudere il breve telefilm, Castle esagera comesempre: ricompare come voce fuori campo per annunciare il ‘Fright Break’, uninvito ad uscire dalla sale per gli spettatori impressionabili prima delle scene piùspaventose, e tenta poi di reiterare la scena della doccia di Psycho e iltravestimento di Perkins inventandone assurde varianti.

Agli americani questo gusto per l’eccesso piacque, e in molte città degliStates il modesto Homicidal incassò più di Psycho. Castle si accorse cheattaccarsi come un parassita demitizzante alle fortune di Hitchcock era un buonaffare.

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Prese, oltre che ad apparire nei propri film, a rapinare idee dal bagagliohitchcockiano. Infine riuscì a reclutare Robert Bloch, sul cui romanzo ora basatoPsycho, e gli fece sceneggiare Cinque corpi senza testa e Passi nella notte. Alcontrario di Hitchcock, però, che con mezzi più imponenti poteva scegliereattori di grido o lanciare giovani promesse, Castle si doveva limitare al riciclo divecchie star come la Crawford o Barbara Stanwyck, quando non ebbe più neisuoi ranghi l’economico Vincent Price.

Alla pancia e alle guance cadenti di Hitch, il nostro Castle provò a sostituirela propria figura imponente, il sigaro da produttore hollywoodiano, el’espressione divertita e insinuante. L’imitazione riuscì solo in parte, e la suapopolarità come regista subì presto un declino, che nel 1967 lo indusse alasciare la macchina da presa. Castle diventò così solo un produttore, insediatoal dodicesimo piano di un grattacielo di Beverly Hills, sempre più astutonell’indovinare come promuovere un film anche quando non vale niente.

Si volle prendere una sola rivincita sui suoi detrattori, producendoRosemary’s Baby di Roman Polanski, un ottimo risultato per le sue finanze efinalmente un prodotto che usciva dalla serie B. Gli costò caro solo in terminipsicologici: terrorizzato dalla sua superstizione, convinto dell’esistenza deldiavolo, Castle si senti perseguitato da una oscura maledizione dopo l’uscita delfilm, e le crisi nervose cui rimase soggetto lo costrinsero a lunghe terapiepsichiatriche.Ma non si fermò. Inventò ancora un gimmick (l’Ultrasonic Sound of Terror, unsuono angoscioso inserito in una serie TV del 1972) e tentò di ricreare glischerzi degli anni Cinquanta facendo sussultare il pavimento del cinema allaprima di Bug!, la sua ultima fortunata produzione del 1975.

Nel 1974 aveva voluto però concludere la sua carriera di regista con un cantodel cigno, girando Shanks, stranissimo film interpretato dal mimo MarcelMarceau. Un horror muto a base di morti viventi animati da un pazzo, delicatocome una fiaba per bambini, ma contemporaneamente truculento.

Non ebbe nessun riconoscimento per questo film anomalo, a suo mododemenziale, e tornò così alla produzione.

William Castle è morto il 31 maggio del 1977. La sua ricerca del brivido ad o-gni costo era ormai terminata da qualche anno. L’unico rimpianto ad averlo ac-compagnato alla tomba è quello di non essere riuscito a realizzare il “gimmick

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supremo”, un trucco che nei suoi sogni doveva investire contemporaneamentetutti e cinque i sensi dello spettatore.

Castle immaginava un pubblico cinematografico che, vedendo e ascoltando ilfilm, sentisse l’odore delle bare scoperchiate, assaporasse la nebbia di uncimitero e percepisse la stretta di dita misteriose. Un sogno irrealizzato o unlascito per il futuro cinema del terrore?

Filmografia

1943The Chance of a LifetimeKlondike Kate

1944The WhistlerShe’s a Soldier TooWhen Strangers MarryThe Mark of Whistler

1945The Crime Doctor’s WarningVoice of the Whistler

1946Just Before DawnThe Mysterious IntruderThe Return of RustyCrime Doctor’s Manhunt

1947The Crime Doctor’s Gamble

1948Texas, Brooklyn, and HeavenThe Gentleman from Nowhere

1949Johnny Stool PigeonUndertow

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1950It’s a Small World

1951Hollywood StoryCave of OutlawsThe Fat Man

1953Serpent of The NileFort TiConquest of CochiseSlaves of BabylonCharge of the LancersDrums of TahitiJesse James vs. the Daltons

1954The Iron GloveBattle of Rogue RiverThe Saracen BladeThe Law versus Billy the KidMasterson of KansasThe Americano

1955New Orleans UncensoredThe Gun that Won the WestDuel on the Mississippi

1956The Houston StoryUranium Boom

1957Macabre (Macabro)

1958House on Haunted Hill (La casa dei fantasmi)

1959The Tingler (Il mostro di sangue)

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1960Thirteen Ghosts

1961Homicidal (Homicidal)Mr Sardonicus

1962Zotz!The Old Dark House (Il castello maledetto)

196313 Frightened GirlsStrait-Jacket (5 corpi senza testa)

1964The Night Walker (Passi nella notte)

1965I Saw What You Did (Gli occhi degli altri)

1966Let’s Kill Uncle (Gioco mortale)The Busy BodyThe Spirit is Willing (Il fantasma ci sta)

1967Project X (Anno 2118: Progetto X)

1974Shanks (Shanks)

William Castle ha inoltre prodotto The Lady from Shanghai (La signora diShanghai, 1967) di O. Welles, Rosemary’s Baby (id., 1968) di R. Polanski, Riot(1969) di B. Kuhk, Bug! (Bug, l’insetto di fuoco, 1975) di J. Szwarc. È apparsocome attore in Shampoo (id., 1975) di H. Ashby, The Day of the Locust (Ilgiorno della Locusta, 1975) di J. Schlesinger e nel film per la TV TheSexsymbol.

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Nel 1939 ha scritto i dialoghi per Music in My Heart di J. Stanley e nel 1942 ilsoggetto di North to the Klondike di E. C. Kenton.Alla sua figura è dedicato il film di Joe Dante Matinée (id., 1993).

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Herschell Gordon Lewis:

il prestigiatore dell’orrore

Una ragazza torna a casa e comincia a spogliarsi, seguita dalla macchina da presain ogni movimento. Va in bagno, e si immerge nella vasca. Improvvisamente incontrocampo appare uno strano personaggio armato di un enorme coltellaccio,che pianta nel viso della ragazza e le cava un occhio. L’assassino se ne va e ilcadavere galleggia nella vasca da bagno piena di sangue.

Questa raccapricciante variazione della hitchcockiana “scena della doccia”apre il film Blood Feast, prima dei titoli. Siamo nel 1963, e le platee non sonoabituate a sequenze shock come questa. Psycho si è limitato a qualche rivolo disangue (tra l’altro, in bianco e nero), e solo la Hammer inglese ha osato di più,sin dal 1957, ma sempre basandosi su trame soprannaturali e su ammazzamentifantastici opera di vampiri o mostri irreali. Qui, invece, ad operare è un essereumano, dalla faccia banale, che uccide in modo iperrealistico.

Blood Feast ha fatto storia, nel cinema dell’orrore, e ha fatto da trampolinoper uno strano regista, Herschell Gordon Lewis, destinato dopo questo film atuffarsi per un decennio in un mare di sangue. Con quel film nasce ufficialmentequello che oggi viene definito “splatter movie”, e che a volte è indicato anchecon il termine “gore”. La serie Venerdì 13, Non aprite quella porta e il ciclo diNightmare devono tutti qualcosa al vecchio Lewis e ai suoi film sanguinolenti.

Nato a Pittsburgh il 15 giugno 1926, Herschell Gordon Lewis nei primissimianni Sessanta abbandona l’insegnamento e si diverte a girare film. Acquista unpo’ di mestiere e sceglie subito un settore specifico del cinema a bassissimocosto, quasi amatoriale: i “nudies”. È Lewis che dirige, nel 1961, quello che lastoria del cinema erotico considera il primo nudie in 35 millimetri, Lucky Pierre.Accanto a Lewis c’è Dave Friedman, il produttore che accompagnerà Lewisanche nelle sue scorribande horror.

Dopo aver diretto qualche altra pellicola nei campi nudisti della Florida, Le-wis si accorge che i suoi filmetti economici a base di donne nude diventanosempre più ripetitivi e cerca di scoprire, con il partner Friedman, quale altro

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sottogenere può essere realizzato con pochi soldi e con esiti concorrenziali neiconfronti delle major.

La furbizia del duo Lewis-Friedman era proprio questa: confezionareprodotti che le grandi compagnie non avrebbero mai potuto mettere in listino.Bastava qualche centinaio di dollari per coprire zone completamente franche delmercato. Con le donne nude era andata bene, ma ora occorreva qualcosa d’altro.Erano gli anni in cui Roger Corman su budget limitati stava tentando di rifondareil gotico cinematografico americano, attraverso la serie di pellicole ispirate airacconti di Edgar Allan Poe, ed erano gli anni dell’inglese Christopher Lee nelleparti dei più svariati mostri, in Inghilterra.

Cosa c’era, ancora sotto la serie B, nel buco nero della serie Z, che né laHammer, né Corman e nemmeno William Castle, per non parlare di Hitchcock,avrebbero mai osato mostrare al pubblico? C’erano quelle che gli americanichiamarono le 3D, che non sono le tre dimensioni ma le iniziali di disfigurement,dismemberment e disembowelment, che in italiano potrebbero diventare le 3S(sfigurare, smembrare, sventrare). Quello che il cinema non aveva ancora osatoera il realismo della macelleria, l’occhio voyeuristico sugli atti dell’assassino.

In otto giorni, a Miami, Lewis gira Blood Feast, imperniato sui delitti di unpazzo che tenta di portare in vita una divinità egiziana sacrificandole gli organiinterni di alcune belle ragazze. L’esperienza nei nudies aveva messo in contattoLewis con il giro delle conigliette di “Playboy” e delle Playmates, che venneroreclutate in gran numero per finire sotto le armi da taglio del pazzo di BloodFeast. Connie Mason passa così dalle pagine del rotocalco di Hefner aglisquartamene di Blood Feast, dove interpreta l’unica superstite (e userà ancora ilsuo smagliante sorriso in Two Thousand Maniacs!, il secondo gore di Lewis),mentre un’altra ragazza di “Playboy” dovrà farsi strappare il cervello in unastrada isolata. “Poiché non aveva cervello, ne usammo uno finto...” è la battutache Lewis amava ripetere per sdrammatizzare quella sequenza: e l’attricettadoveva essere veramente svampita per presentarsi sul set con i capelli pettinatida una bella permanente, pur sapendo a cosa andava incontro per girare quellascena.

Alla ennesima stellina di “Playboy” veniva strappata la lingua, una semplicelingua di pecora, non un sofisticato trucco in lattice di futuribili specialisti delmake-up. Tutta la macelleria dei film di Lewis era macelleria nel vero senso della

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parola. Solo il sangue era finto (secondo una formula inventata da Lewis eFriedman che aveva un unico difetto: era indelebile!), e tutte le altre interiora chefuoriuscivano dalle pance delle fanciulle erano semplici frattaglie animali com-prate dal macellaio. In Color Me Blood Red, il terzo film della cosiddetta ‘GoreTrilogy’ di H. G. Lewis, un intero frigorifero venne riempito di frattaglie, el’unico inconveniente fu un guasto al frigo, che costrinse la troupe a girare inmezzo a un terribile fetore di carne marcia. Con una testa di vacca simularonouna testa umana, e per la scena in cui un uomo viene fatto a pezzi da un moto-scafo buttarono in acqua chili e chili di interiora, con lo spiacevole effetto di ri-chiamare stormi di gabbiani che resero impossibili le riprese.

Questi aneddoti da voltastomaco costellano la carriera di Lewis, dal 1963legata irreparabilmente al cinema dell’orrore ‘duro’. La critica stroncòovviamente Blood Feast, ma il successo di pubblico fu enorme, e questo inAmerica è quel che conta. Il film successivo, Two Thousand Maniacs!, piùapprezzato dalla critica, ebbe in compenso un’accoglienza di pubblicoleggermente inferiore di Blood Feast, pur riconfermando Lewis come unamacchina eccellente per fare quattrini. Con il primo film H. G. Lewis pensava diavere già fatto “troppo”, e così in Two Thousand Maniacs! si permise qualchescrupolo moralistico, rifiutandosi di usare un vero mutilato per la scena in cui aun uomo vengono staccate braccia e gambe legate a quattro cavalli. Questosecondo “gore” era leggermente spostato su tematiche soprannaturali, perché visi immagina che gli spettri di una città sudista riappaiano per sterminare tutti ituristi nordisti che capitano loro a tiro. Ma il gruppo di assassini venuti dalpassato non ha niente di soprannaturale, non sono zombi né hanno fattezzemostruose, assomigliano piuttosto ai volti reali ma impressionanti della famigliafolle di Non aprite quella porta. E così le zoommate della cinepresa possonodilettarsi su veridici colpi di accetta che staccano membra e su dita mozzate inprimissimo piano.

Senza dimenticarsi di realizzare sequenze suppletive per qualche horrorgirato da suoi amici, Lewis nel 1966 dirige il terzo atto della trilogia, Color MeBlood Red, imperniato su un artista pazzo che usa il sangue per dipingere. Ilpezzo forte del film era rappresentato dalla sepoltura di una ragazza sul cuicorpo passeggiano i vermi: si trattava di soli 24 vermetti, noleggiati a caroprezzi da un allevatore americano che ne pretese la totale restituzione.

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Gli attori continuavano ad essere completamente incapaci, scelti quasisempre tra gli amici del regista. Lewis diceva che i suoi attori avevano “talentoquanto una scarpa vecchia”, ma non se ne rammaricava perché nel suo cinemasaper recitare è inessenziale. L’importante è avere attori con lo stomacosufficientemente forte da sottoporsi senza esitazioni alle sequenze “gore”. Ilpeggior risultato dal punto di vista degli attori venne con A Taste of Blood, unaincursione nel filone dei vampiri, dove anche l’unico attore professionista, SidReeth, recitò talmente male che H. G. Lewis dovette tagliare quasi tutti i suoidialoghi. E lo stesso Lewis si trovò nella necessità di apparire dall’altra partedella macchina da presa, nel ruolo di un marinaio, al posto di un attore che nonsi presentò in scena.

Ormai H. G. Lewis era diventato uno specialista, e anche le sue permanentidivagazioni nel genere “sexy” o nel film di azione e di violenza risentivano dellesue inclinazioni all’orrore. Anche se con meno dettagli, e scegliendo spesso ilfuori campo, film come The Stuff’ll Kill Ya non esitano a trattare di lapidazioni,crocifissioni e teste che scoppiano. E i giovani teppisti di Just for the Hell of It(un film molto amato da Lewis) costringevano la pubblicità a promuovere lapellicola con lo slogan “Violence and Vandalism”, preannunciando a ragione isanguinosi avvenimenti di cui il film era costellato. Incidentalmente si puòsempre mettere un po’ di redditizio “gore”, anche quando le vicende trattano dibande rock o di sette di fanatici religiosi.

Ma le incursioni in altri generi non allontanarono mai a lungo Lewis dalcinema horror. Qualcosa di hitchcockiano aveva il rapporto madre-figlio di TheGruesome Twosome, dove una vecchietta affitta camere a belle ragazze per farlepoi scotennare dal figlio demente. Quando mammina regala al suo pargoletto uncoltello elettrico lui non si limita più a staccare il cuoio capelluto alle suevittime, ma le sgozza direttamente.

Dopo il successo di She Devils on Wheels, un film sulle violenze di criminaliin motocicletta, e dopo le avventure macabre di un uomo sfigurato da un cavodell’alta tensione che gli fornisce poteri extrasensoriali in Something Weird, H.G. Lewis si dedicò a quello che è forse il suo capolavoro: Wizard of Gore.

Definito da Daniel Krogh e John McCarthy, nel loro The Amazing HerschellGordon Lewis, and His World of Exploitation (Fantaco, Albany, NY 1983)“una variazione pirandelliana sul tema dell’Illusione contro la Realtà”, Wizard of

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Gore è la storia di un mago-prestigiatore che dopo i trucchi sul palcoscenico sidiverte a tagliare veramente in due le ragazze per le strade della città. Quando ilprestigiatore lascia il teatro, fa a pezzi le donne nello stesso modo in cui simula-va trafitture o squartamenti per il suo pubblico.

Il gioco dello splatter movie è proprio di muoversi al confine tra verità etrucco: le interiora palpitanti di un film di Lewis devono sembrare talmente vereda far pensare a un delitto concreto e non a un make-up. E l’uso di frattaglieanimali spinge ancora oltre l’equivoco, al modo di successivi epigoni come ilRuggero Deodato di Cannibal Holocaust. Lo spettatore deve restare stupitoproprio come di fronte a un prestigiatore, che pianta la spada nella suaassistente, pur non uccidendola veramente.

Il mago Montag di Wizard of Gore mette in atto ciò che sulla scena è solofinzione: trafigge, schiaccia sotto una pressa, sega in due le ragazze. Nel film ètutto finto, eppure appare incredibilmente realistico. Persino l’interpreteprincipale, il giovane Ray Sager più volte utilizzato da Lewis, ha meno ditrent’anni pur impersonando un uomo cinquantacinquenne, grazie a capelli ebaffi grigi. E altrettanto posticce sono le budella che fuoriescono dalle vittime,un semplice amalgama di organi animali, cera e profilattici pieni di sangue finto.

Eppure l’ambiguità permane. Nessuna scena venne girata in studio, e quindisono veri i cimiteri e soprattutto è vera la camera mortuaria in cui si svolge unasequenza di Wizard of Gore, con veri cadaveri. Per complicare il dilemma trarealtà e finzione, Lewis si è divertito a far precipitare il finale del film nella piùtotale assurdità. Montag, invitato in Tv, ipnotizza tutti eccetto Jack, ungiornalista che non lo stava guardando durante l’esperimento. Jack uccide ilmago, ma quando torna a casa dalla sua fidanzata si trasforma in Montag, esventra la ragazza a mani nude. La fanciulla in realtà è una strega, e Montagviene condannato a ripetere in eterno i suoi delitti...

Ormai il lato demenziale del “gore” di H. G. Lewis stava emergendo sempredi più. E l’ultimo film di Lewis, The Gore-Gore Girls (facile gioco di parola suGo-Go Girls), rappresenta l’apice del genere e il più grande sconfinamentonell’auto-ironia. Girato in tre settimane come il precedente Wizard of Gore,questo film ha più di una sequenza in comune con il cinema di Dario Argento.La scena iniziale, ad esempio, potrebbe stare a pieno titolo in un film del registaitaliano: una ballerina viene sbattuta con il viso contro uno specchio, poi è ac-

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coltellata e colpita in viso da una accetta. L’assassino, inoltre, è una donna sfi-gurata, che alla fine del film si getta da una finestra e un’automobile le schiacciala testa, come nella morte di Gabriele Lavia in Profondo rosso.

The Gore-Gore Girls segue lo sterminio di un gruppo di spogliarelliste,uccise a una a una nei modi più incredibili. Una di loro è presa a martellate intesta mentre mastica un chewing gum, e dalla bocca le esce una bolla di gommada masticare piena di sangue (Lewis usò un profilattico, perché la vera gommanon reggeva il peso del sangue finto). Una fanciulla ha il volto arrostito da unferro da stiro, un’altra ha la testa fritta nell’olio bollente, e infine a una dellevittime vengono strappati i capezzoli, dai quali sprizza latte in un bicchiere dachampagne...

H. G. Lewis non poteva inventare niente di più eccessivo, e si ritirò. Intornoal 1980 si parlò addirittura di un suo disastro economico e di un tentativo disuicidio. In realtà sembra che Lewis abbia vissuto vicende meno drammatiche, eoggi è un affermato pubblicitario che scrive libri sulle vendite via Internet. Nonha perso, per altro, il desiderio di tornare al cinema (si sono ventilati titoli comeGalaxy Girls o Gore Feast e di recente è stato annunciato Blood Feast 2). Ma lasua carriera cinematografica si è fermata di fatto nel 1972, quando ormairischiava di essere confinato nelle sale a luci rosse, bollato dai “certificati X”della censura americana. In Europa, comunque, i suoi film hanno avuto una sortemolto contrastata, in Italia e in Francia ad esempio non è mai riuscito a farsidistribuire. E però il suo pionieristico cinema “splatter” ha fatto scuola,Cronenberg e Romero hanno preso lezione anche da lui.

Lewis, che girava gli ammazzamenti dei suoi film in tempo reale, spessoutilizzando tre cineprese contemporaneamente per non dover ripetere una scenadi squartamento, ha saputo utilizzare fino alle estreme conseguenze lepossibilità dell’occhio cinematografico, facendolo scivolare sulla lama delleaccette, portando il guardonismo sin dentro le viscere dei corpi umani. Su trameche imitavano le tradizioni del “giallo” o del classico film del terrore, Lewiscollocava festini di sangue senza eguali, per far strillare le coppiette ai drive-in ei maniaci del rosso sangue nel buio della sale di periferia. Come un prestigiatoredell’orrore lasciava al suo pubblico la sensazione di essere testimone integraledell’omicidio.

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Filmografia

1963Blood Feast

1964Two Thousand Maniacs!

1966Color Me Blood RedThe Gruesome Twosome

1967A Taste of Blood

1968Something WeirdJust for the Hell of ItShe Devils on Wheels

1970Wizard of Gore

1971The Stuff’ll Kill Ya

1972The Gore-Gore Girls (Blood Orgy)

Moltissimi sono i film non-horror di Lewis, tra i quali vanno ricordati inumerosi “nudies”, spesso firmati con pseudonimi (come Sheldon Seymour oSeymour Sheldon): The Prime Time; Living Venus; Lucky Pierre; Nature’sPlaymates; B-O-I-N-N-N-G!; Daughters of the Sun; Goldilocks and the ThreeBares; Suburban Roulette; Year of the Yahoo; Miss Nymphets Zap-In; A Girl, ABoy & The Pill; Bayou - Poor White Trash.

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Mario Bava:

la centralità dell’omicidio

Gli autori del cinema thrilling, anche nelle sue varianti più dure e violente, hannosempre avuto in sorte di venire prima o poi paragonati ad Alfred Hitchcock.Mario Bava non è sfuggito a questo destino, diventando nel linguaggio deigiornalisti “l’Hitchcock di Cinecittà”. Ma per Bava anche il caso ha volutorimarcare la parentela artistica con Hitchcock. Il 26 aprile 1980 un attacco dicuore interrompe la vita e la carriera cinematografica di Mario Bava: tre giornidopo anche Alfred Hitchcock muore.

In realtà, le similitudini tra il cinema di Bava e quello di Hitchcock sonosottili. Bava era un regista un po’ misantropo, restio alle interviste e allefotografie, e solo una volta volle davvero imitare Hitchcock, o meglio l’abitudinedi Hitchcock a fugaci comparsate nelle proprie pellicole con una apparizione-cammeo molto ironica in Le spie vengono dal semifreddo. Per il resto il cinemadi Bava è del tutto altro e autonomo.

Mario Bava era nato a San Remo il 13 luglio 1914, figlio di un bravofotografo cinematografico, Eugenio Bava, molto dotato anche come scultore.Sarà proprio il padre Eugenio a scolpire il cadavere di cera dell’episodio Lagoccia d’acqua nel film I tre volti della paura. Anche Mario dimostròprecocemente una passione artistica, un vero amore per i colori e le immagini.Vorrebbe fare il pittore, ma presto è attratto dal cinema. Nel 1939 dirige lafotografia per alcuni cortometraggi di Roberto Rossellini, poi collabora semprecome capo operatore con Camerini, Soldati, Monicelli, Risi. Infine un brevesodalizio con Riccardo Freda lo orienta contemporaneamente verso la regia everso i territori del cinema d’azione, con sfumature chiaramente gotiche efantastiche.

È così che si specializza nei luoghi di confine tra l’orrore e il giallo, pur nonrinunciando a incursioni in tutti i generi di cui Cinecittà diventa il paradiso findai primi anni Sessanta, dal western al peplum, dalla fantascienza alle prime av-

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visaglie del sexy (è suo il censuratissimo Quante volte... quella notte tratto dalRashomon di Kurosawa).

Mario Bava è l’unico regista italiano ad avere lavorato con le principali stardel cinema horror inglese e americano: gira film con Christopher Lee, BorisKarloff, Vincent Price, Barbara Steele e l’ex divo ‘nero’ Joseph Cotten. DiBarbara Steele, in realtà, è proprio Bava il padrino che la lancia come vampinsostituibile del gotico anni Sessanta. Dopo la sua apparizione nella Mascheradel demonio, il capolavoro di Bava del 1960, il viso della Steele passerà alservizio di Roger Cornìan e rapidamente diventerà una presenza ricorrente nelcinema del terrore di quegli anni. E non si tratta dell’unica ‘scoperta’ di Bava.Nel 1972 con Gli orrori del castello di Norimberga lancia Nicoletta Elmi, unabambina dai capelli rossi e dal viso inquietante che riapparirà di lì a poco in Ilmedaglione insanguinato di Massimo Dallamano, poi in Profondo rosso diDario Argento, per diventare infine la misteriosa (e ormai adulta) bigliettaia delcinema maledetto in Demoni di Lamberto Bava.

I film più celebrati di Bava, soprattutto all’estero e in Francia in particolare,restano quelli molto magici e fantastici come La maschera del demonio (1960) e1 tre volti della paura (1964). Il primo imitava i film inglesi di vampiri allaTerence Fisher, ma con un gusto tutto italiano e con la trasgressione del ritornoal bianco e nero. Tratto dal Vij di Gogol, una storia russa di streghe che Bavaleggeva ai figli terrorizzandoli, La maschera del demonio aveva una caricatalmente violenta, pur nella cornice totalmente fantastica, che ne bloccò permotivi censori la distribuzione in Inghilterra per ben otto anni. E questatendenza all’intreccio tra erotismo e brutalità veniva confermata da I tre voltidella paura, film a episodi (montati in successioni diverse dai distributori, tantoall’estero quanto in Italia) che mischia fantastico e mistery grazie all’ottimasceneggiatura a cui collaborò anche Alberto Bevilacqua. Oltre a una storia divampiri, tratta da un racconto di Aleksej Tolstoi, e a una terribile vicenda direvenant, il film ospita Il telefono, piccolo capolavoro del brivido a base dicoltellate e strangolamenti in una stanza da letto claustrofobica.

Nonostante l’originalità da autore che Bava imponeva a tutte le sue incursio-ni nei generi, i suoi film sembravano destinati a seguire le mode e i successi al-trui. Non c’è exploit d’oltreoceano che Bava non abbia tentato di ripetere in sal-sa italiana. Imitazioni erano i primi peplum o i film di ispirazione nordica. Bava

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girò una pellicola sui vichinghi dopo il successo di I vichinghi di Richard Flei-scher. Ercole al centro della Terra si intitolò così per seguire le fortune del con-temporaneo Viaggio al centro della Terra. E La ragazza che sapeva troppo cer-cava di importare il rinnovato successo di Alfred Hitchcock dei primissimi anniSessanta alludendo senza inibizioni al celebre Uomo che sapeva troppo. PersinoDiabolik viene proposto solo dopo il successo del Barbarella di Roger Vadim,che aveva dimostrato la possibilità di trasporre profittevolmente sul grandeschermo i cosiddetti fumetti per adulti. E la lista potrebbe continuare con Lamaschera del demonio, che arrivava sulla scia dei film inglesi di marca Hammer,o con uno dei suoi primi film come Caltiki, il mostro immortale che sempredella Hammer aveva imitato il fantascientifico L’astronave atomica del dottorQuatermass. Talora questa subordinazione ai film di cassetta angloamericanipoteva portare a crisi drammatiche tra il regista e i produttori. È il caso del pe-nultimo lungometraggio di Bava giunto nelle sale, La casa dell’esorcismo. Que-sta volta il titolo venne realmente imposto dalla produzione, per seguire a ruotail record di incassi dell’Esorcista di William Friedkin. Ma Bava non accettò dibuon grado in questa occasione, lui che aveva anticipato la moda delle ragazzineindemoniate con la bambina posseduta di Operazione paura del 1966 (imitatapersino da Fellini nel suo episodio per Tre passi nel delirio).

Su Lisa e il diavolo, come originariamente si intitolava il futuro La casadell’esorcismo, Bava riponeva in realtà grandi aspettative. Aveva curato il filmmeticolosamente, per la prima volta un produttore gli aveva dato carta biancaper girare un film interamente a sua discrezione e senza limiti di nessun tipo. In-sieme al figlio Lamberto si era divertito a riempire il film di citazioni colte (alcu-ni dialoghi sono costruiti con frasi di Dostoevskji), di raffinate necrofilie e diallusioni familiari e autobiografiche (sono presenti riferimenti al padre Eugenio,alla sorella e alla figlia Elena). Il film venne presentato al Festival di Cannes del1973 ed ebbe in sala una buona accoglienza, ma venne ritenuto troppo sofistica-to per il pubblico tradizionale del cinema d’orrore. Così il film non venne distri-buito. Si chiese a Bava di riprendere alcuno scene aggiuntive e di cambiare il fi-nale, proprio per adeguarsi meglio al filone demoniaco allora in voga. Mario Ba-va si rifiutò di girare le nuove scene, frenato anche, si dice, da una certa vena disuperstizione che gli impediva di assistere tranquillamente a rituali satanici e ainvocazioni blasfeme. Il film fu massacrato, e quello che nelle intenzioni del re-

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gista doveva essere il risultato migliore di una lunga carriera cinematografica finìper trasformarsi in uno dei tanti film di possessioni diaboliche della prima metàdegli anni Settanta.

Paradossalmente anche l’ultimo film di Bava, Shock, doveva apparire comeuna imitazione. Il paradosso stava nel fatto che ad essere imitato in questo casoera proprio il principale discepolo di Bava, il giovane Dario Argento che avevaappena riempito le sale con Profondo rosso. Bava riutilizza persino laprotagonista preferita di Argento, Daria Nicolodi (che appare anche nel film diBava per la tv La Venere d’Ille), e non esita a intermezzare il film con unmotivo musicale infantile molto simile a quello di Profondo rosso. Ma più chedi imitazione, a questo punto, si poteva parlare di omaggio e di esplicitopassaggio delle consegne. Ormai anziano, Bava capiva che la sua scuola avevagià dato i natali a una nuova leva di registi per il thrilling all’italiana, e cheArgento era il suo continuatore più dotato.

Ma tra tante rincorse dei successi di altri, Bava può vantare almeno unagrande anticipazione. Nel fantascientifico Terrore nello spazio del 1965 avevainfatti diretto una lunga sequenza ambientata dentro una astronave abbandonatache ricorda in tutto e per tutto l’idea-base del futuro Alien. L’unica differenzaera la palese mancanza di mezzi per gli effetti speciali, realizzati con specchiettie modellini artigianali, in tutta economia. Del resto Bava era un mago delrisparmio. Grazie alla sua competenza in trucchi fotografici ed effetti speciali,riusciva a trasformare 20 comparse di un qualsiasi film mitologico in ben 240soldati di una apparente scena di massa. Per girare Diabolik, poi, spese talmentepoco che De Laurentiis volle subito utilizzare i capitali avanzati per produrreun seguito del film, e solo l’ostinato rifiuto di Bava (che contro la volontà delproduttore voleva inserire almeno qualche goccia di sangue in un film dedicato alcapostipite dei fumetti neri) impedì di arrivare a un probabile Diabolik colpisceancora. E la ossessione del risparmio portava talvolta ai confini delladisorganizzazione e all’improvvisazione: Vincent Price rimase scandalizzatodalla facilità con cui durante le riprese delle Spie vengono dal semifreddo andòperduto il nastro delle voci e si dovette ricostruire il testo dal movimento dellelabbra.

Confortati da questa sua attitudine all’economia, con Bava i produttori si ac-corgono che anche un film italiano del terrore può “vendere”. Non tutta la car-

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riera di Bava è stata però coronata da successi economici. Diabolik andò moltobene, ma Shock nel 1977 deluse il box office, tanto che dopo questo fallimentoBava voleva spostarsi sulla fantascienza, per imitare per l’ennesima volta i suc-cessi delle majors e seguire il filone spaziale aperto da Guerre stellari (ma inse-rendo nella trama un bel numero di delitti...). E per cause economiche uno deisuoi film è rimasto inedito. Si tratta di Cani arrabbiati, una variazione intelli-gente sul tema dei film sui sequestri di persona e sul cittadino che si fa giustiziada sé dei primi anni Settanta. Tratto da una storia di Ellery Queen, il film rac-contava di tre banditi (uno dei quali era interpretato da Don Backy) che persfuggire alla polizia prendono in ostaggio un uomo e una bambina su un’auto dipassaggio. L’uomo (un tipico cittadino medio con il volto tranquillo di RiccardoCucciolla) però reagisce e uccide i banditi. Ma ecco il colpo di scena: dopo aversgominato i banditi, l’uomo fa una telefonata e chiede un riscatto alla famigliadella bambina che si trovava con lui sull’automobile. Non è un onesto cittadinovittima della violenza urbana, ma un rapitore. Purtroppo il film non è mai arri-vato sugli schermi, a causa del fallimento del produttore, e una complicata storiadi diritti ne impedisce tuttora la distribuzione. Cani arrabbiati usava in modotradizionale un paesaggio italiano, come terreno d’azione della delinquenza co-mune, ma la grande abilità di Bava è stata di riuscire a rendere adatti a vicended’orrore anche i consueti scenari italiani, che non hanno la spontanea utilizzabi-lità di contesti più ‘spettacolari’ come quelli americani o inglesi. Roma e i suoidintorni sono il teatro prescelto per le storie più efferate: come nei successivifilm di Argento, appena la capitale è deserta può fare veramente paura. La pro-vincia romana di Cinque bambole per la luna d’agosto o le ville del Circeo diReazione a catena, la casa di Enrico Maria Salerno utilizzata per Shock (dovetra l’altro recita il figlio di Salerno, Nicola): sono tutte rielaborazioni del tentati-vo avviato da La ragazza che sapeva troppo, dove la scalinata di Trinità deiMonti o le architetture mussoliniane della capitale riuscivano ad adattarsi egre-giamente al clima di incubo del film. Non è più indispensabile uno scenario goti-co per il terrore cinematografico. Riprese notturne e un sapiente uso dei colori(anche attraverso una peculiarità di Bava: l’uso di luci colorate per le riprese ininterni) possono sostituire i panorami inquietanti degli Stati Uniti o della GranBretagna. Un ambiente mediterraneo si adatta alle esigenze dell’orrore, comedimostra anche Il rosso segno della follia, girato in Francia e in Spagna, in parti-

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colare presso la villa del Generalissimo Franco (dove venne concesso alla troupedi effettuare riprese “a condizione di non sporcare di sangue la scalinata”...).

Un critico italiano oggi insospettabile di simpatie per Bava, e soprattutto peri generi cinematografici di cui Bava era maestro, dimostrò invece nel lontano1963 una non comune percezione delle qualità del regista, mettendo in luceproprio la capacità di rendere impressionante anche una scenografia urbanaapparentemente tranquilla. È Goffredo Fofi a scrivere per la rivista francese“Midi-Minuit Fantastique” un lusinghiero apprezzamento per i primi passicinematografici di Bava: “La lezione di Hitchcock è assimilata perfettamente: iluoghi più impensati diventano il teatro di omicidi drammatici e misteriosi; comeil palazzo dell’O.N.U. di North By Northwest o le piccole chiese barocche diVertigo, la Roma dei turisti e delle cartoline diventa un luogo per sparatorie esgozzamenti in La ragazza che sapeva troppo... L’abilità di Bava nel crearedelle atmosfere di tensione, da cui ci si attende il terrore, ma impregnatecomunque di paura silenziosa, abbonda in questo film, ma fermandosi però làdove Bava dovrebbe cominciare, cioè al momento del fantastico puro”. [G. Fofi,Terreur en Italie, in “Midi-Minuit Fantastique” n. 7, settembre 1963, pp.82-83]

Non solo le terre di Edgar Allan Poe o di Arthur Conan Doyle, dunque, pos-sono creare incubi e paure. Anche la cultura mediterranea ha le sue chance. Lostesso Bava diede di sé una definizione che, anche se lo allontana dalla matrice i-taliana, lo colloca pienamente nella tradizione mediterranea. Nell’intervista alquotidiano francese “Libération”, apparsa postuma il 7 maggio 1980 e diventatagiustamente celebre, il regista affermava: “I miei film rimandano alla mitologiagreca, dalla frigidità di La ragazza che sapeva troppo all’incesto di La mascheradel demonio, fino al masochismo di La frusta e il corpo. Io sono troppo grecoper un italiano, sono più eretico che cattolico”. Gli scenari italianissimi di Laragazza che sapeva troppo diventano la base di partenza per il successivo im-pegno di Bava ai confini del giallo e del film del terrore, Sei donne perl’assassino. È il 1964 e una ventata di violenza attraversa i veicoli della comuni-cazione popolare in Italia. Dopo il fortunato exploit del fumetto Diabolik, e-scono in quell’anno altre due testate, Kriminal e Satanik, che seminano il panicotra i benpensanti per la miscela di sesso e violenza che le caratterizza. In questoclima, grazie a Bava, nasce il ‘thrilling all’italiana’ (ammesso che questa defini-

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zione bilingue sia soddisfacente). Sei donne per l’assassino è la grande eccezio-ne nella produzione di Bava. Non imita alcun precedente, e viceversa innova einventa un sottogenere destinato in futuro a diventare autonomo e a contaminareanche i cineasti americani. Dell’insegnamento di Hitchcock trattiene solo il gustoper il terrore, ed elimina tutti i ‘fronzoli’, i dialoghi, le storie d’amore. È un sus-seguirsi di immagini destinate unicamente a fare paura, anzi a terrorizzare. E nonsi tratta solo di una paura “intellettuale”, ma fisica, condita con l’esposizione diuna violenza che difficilmente in precedenza aveva attraversato gli schermi ita-liani. Come in molto cinema di un decennio dopo, in Sei donne per l’assassinosi assiste a una serie di omicidi a catena senza un motivo apparente. A uccidereè un assassino mascherato, di cui lo spettatore impara a riconoscere soprattuttoi guanti di pelle nera (un’altra costante che un regista come Dario Argento, ad e-sempio, non ha più abbandonato).

L’assassinio diventa un balletto, di cui è quindi importante la coreografia, eBava con scrupolo si serve dell’illuminazione e degli ambienti per creare i“luoghi” necessari al rito del delitto. Il momento dell’omicidio non è più unaccessorio relativo, come nel giallo classico che inizia proprio dopo che l’attodelittuoso è avvenuto o si limita a prevenirlo. L’omicidio, quindi la violenza,diventa centrale. E questo richiede anche un iperrealismo nella descrizione delcrimine e della conseguente agonia della vittima che mai il cinema si erapermesso di mostrare. Ai “fumetti neri” si lascia il bianco e nero della tradizionegotica e il cinema si impadronisce del colore, per evidenziare il sangue (che, vadetto, in Sei donne per l’assassino è ancora scarsissimo rispetto a successivilavori anche dello stesso Bava) e seguire le orme della scuola Hammer, la casaproduttrice inglese i cui film vennero definiti ‘da incidente stradale’ perl’insistenza nelle immagini colorate di mostruosità, ferite, sofferenze fisiche.

Ha scritto Pascal Martinet nella sua pionieristica monografia su Mario Bava,proprio a proposito di Sei donne per l’assassino: “Bava crea un’estetica dellamorte e del crimine. Al diavolo la logica. Importa solo la descrizione grafica dellaviolenza: carni torturate, graffiate, bruciate, catturate dalla crudeltà dellamacchina da presa che si diverte a precedere l’attimo in cui l’assassino colpisce.Assassino senza volto, primo di una lunga tradizione, e la cui assenza difisionomia rimanda ai nostri incubi archetipici”. [Pascal Martinet, Mario Bava,Filmo n. 6, Edilig, Paris 1984, p. 72]

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Con La ragazza che sapeva troppo e Sei donne per l’assassino il coltellodiventa il feticcio di Mario Bava. Tra tutti gli oggetti capaci di uccidere, Bavatrova che l’arma bianca è la più cinematografica. Se non è il coltello,l’importante è che si tratti di oggetti taglienti, un’ascia, un paio di forbici. Ma ilvero culto è comunque per il pugnale, per la lama su cui si può riflettere unvolto come nel Rosso segno della follia. Bava non limiterà al cinema del terrorequesta sua predilezione per le lame. Anche quando evade dal genere restasempre affascinato dalle possibilità della cinepresa di fronte a un coltello. Nel1966, ad esempio, dirige con il nome di John M. Old un film di vichinghi, Icoltelli del vendicatore, nel quale Cameron Mitchell interpreta Rurik, un uomospecializzato nell’uccidere i nemici lanciando coltelli a ripetizione (a ‘raffica’,come suggerisce un altro titolo del medesimo film). E nella Frusta e il corpo ilpugnale sporco di sangue è conservato come una reliquia, secondo il giustotrattamento da riservare a un feticcio.

Il sadismo insuperabile di Sei donne per l’assassino permette a Bava ditrasformare anche le unghie in un sostitutivo del coltello, rendendole micidialifino a diventare artigli, un altro “metodo” per gli ammazzamenti che la serieNightmare negli anni Ottanta recupera e dilata oltre ogni immaginazione.

Come La ragazza che sapeva troppo prepara il capolavoro di Sei donne perl’assassino, così Cinque bambole per la luna d’agosto precorre l’interessanteReazione a catena (Ecologia del delitto), anticipatore delle tendenze americaneverso un cinema del terrore sempre più violento e distinto dal giallo o dal gotico.Cinque bambole prepara il terreno a un nuovo passo avanti nel cinema thrilling.I delitti sono sempre più centrali nella storia, la cui congruenza perdedefinitivamente di senso. Per quanto vagamente ispirato alla concatenazione diomicidi di Dieci piccoli indiani, il film di Bava non si basa sulla scopertadell’assassino, ma sull’inventiva macabra nel delitto stesso (da citare almenol’episodio di Edwige Fenech infilzata in un albero). Gli omicidi si susseguonointorno alla solita vicenda di eredità, ma con la preminenza del gusto necrofilosu quello ‘giallistico’. Si inaugura la stagione del “cinema-macelleria”, e nel modopiù esplicito e chiarificatore: le vittime vengono chiuse in sacchi di plastica eappese come animali in una cella frigorifera, senza lasciare niente di allusivo nelriferimento alla “macelleria”.

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Con Reazione a catena i primi passi nello splatter all’italiana si sviluppanoulteriormente. I delitti aumentano fino a una dozzina, sul filo dell’ennesima sto-ria di eredità che però diventa qui un mero pretesto per mostrare un susseguirsidi omicidi con lance, cesoie, ganci, mannaie. Lo stile del film è riassunto dallafigura dell’entomologo che infilza insetti proprio come vengono trafitti gli essereumani nelle altre scene del film (se si esclude Laura Betti, che finisce invecedecapitata...). Negli Stati Uniti si sono accorti subito che il film si caratterizzavacome una innovativa incursione nello splatter e lo hanno ribattezzato LastHouse on the Left Part 2, spacciandolo per il seguito di uno dei primi successidello splatter movie statunitense. Qualche parentela, anche in questo casoanticipatrice, con il cinema ultraviolento e sanguinario a stelle e strisce il nostroBava la cominciò a dimostrare fin da Caltiki, quando utilizzò intestini di animaliper il suo mostro, proprio come il suo collega Herschell Gordon Lewis farà di lìa qualche anno nei suoi innumerevoli “gore” a base di orge sanguinolente. Aconferma di questo intreccio tra i film di Bava e le strade più ‘dure’ del cinemadel terrore americano scrive Tim Lucas: “Reazione a catena può essere definitouna tragedia elisabettiana... Vista oggi, la violenza di questo film risulta potenteed esplicita quanto un moderno ‘splatter’. In America le copie di Reazione acatena, distribuito anche sotto il titolo Twitch of the Death Nerve, furonoprogressivamente accorciate nel corso degli anni per esaudire le richieste dellacensura”. [Tim Lucas, Bava’s Terrors, in “Fangoria” nn. 42/43, 1985]

Lo splatter c’era veramente, al punto da proporre il duplice ammazzamentodi una coppia nell’identico modo truculento che verrà mostrato qualche annodopo in uno degli episodi della serie Venerdì 13.

Questa capacità di colloquio e di anticipazione con le tendenze statunitensidel genere ha permesso alla lezione di Bava di essere assunta da innumerevoli a-depti. Persino il suo gusto per l’autocitazione (in Il rosso segno della follia, adesempio, su un televisore passano le immagini di I tre volti della paura) è oggiun’abitudine per i nuovi maestri del film del terrore. Joe Dante, uno dei più do-tati registi americani delle ultime generazioni, ha un vero e proprio culto per Ba-va, dei cui film colleziona poster e fotografie. Oggi Bava è uno dei pochissiminomi di registi italiani che negli Stati Uniti, almeno tra gli appassionati del gene-re, significano qualcosa. Negli ultimi anni della sua attività Bava aveva ottenuto

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popolarità tra il pubblico americano appassionato di cinema fantastico con ilsuo vero nome, ma per lungo tempo le regole non scritte della distribuzione ita-liana e delle esigenze estere gli avevano imposto pseudonimi americaneggianti.Dopo essersi firmato John Foam (foam è la traduzione approssimativa di ‘bava’in inglese) e persino Marie Foam (per gli effetti speciali di Caltiki), preferirà ri-correre più volte allo pseudonimo John M. Old, con il quale fra l’altro firmerà ilcelebre La frusta e il corpo, uno dei film più perseguitati dalla censura di tutti ipaesi all’alba degli anni Sessanta. Il gioco degli pseudonimi è continuato a lungo,persino il figlio Lamberto ha ereditato dal padre questo “alias”, celandosi sottoun più che esplicito John Old Jr. E con lo pseudonimo, Lamberto Bava ha eredi-tato anche la passione per un cinema efferato e violento, fantastico e misterioso,come dimostrano i suoi film Macabro, La casa con le scale nel buio o la fortu-nata serie Demoni. La terribile dinastia dei Bava continua.

Filmografìa

19561 vampiri (diretto in collaborazione con Riccardo Freda)

1957Le fatiche di Ercole (diretto in collaborazione con Pietro Francisci)

1958Ercole e la regina di Lidia (diretto in collaborazione con Pietro Francisci)

1959Caltiki, il mostro immortale (diretto in collaborazione con Robert Hampton -Riccardo Freda)La battaglia di Maratona (diretto in collaborazione con Jacques Tourneur e BrunoVailati)

1960La maschera del demonio

1961Ercole al centro della TerraGli invasoriLe meraviglie di Aladino (diretto in collaborazione con Henry Levin)

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La ragazza che sapeva troppoLa frusta e il corpo

1963I tre volti della paura

1964Sei donne per l’assassino (ex L’atelier della morte)

1965La strada per Fort AlamoTerrore nello spazio

1966Operazione paura

1966I coltelli del vendicatore (ex Raffica di coltelli)Le spie vengono dal semifreddo (ex I due mafiosi dell’FBI)

1968Diabolik

1968-1969L’Odissea (episodio ‘Polifemo’)

1969Il rosso segno della follia (ex Un’accetta per la luna di miele)Roy Colt e Winchester Jack

1969-1973Quante volte... quella notte (ex Una notte fatta di bugie)

1970Cinque bambole per la luna d’agosto

1971Ecologia del delitto (ex L’antefatto /Reazione a catena)

1972-1975La casa dell’esorcismo (ex Lisa e il diavolo / Il diavolo e i morti)

1972

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Gli orrori del castello di Norimberga

1974Cani arrabbiati (ex L’uomo e il bambino)

1977Shock (ex Al 33 di via dell’Orologio fa sempre freddo)

1978La Venere d’Ille (tv)

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Pete Walker:

sociologia dell’assassino

Proprio quando la casa produttrice Hammer vedeva vacillare le proprie fortunebasate sulla specializzazione nel cinema gotico, gli schermi inglesi salutaronol’apparizione degli strani film di Pete Walker. Era il 1974, e i vecchi vampiridella Hammer stavano per essere definitivamente rinchiusi nelle loro bare, dopoquasi vent’anni di successi. Un giovane regista, produttore indipendente, siaffacciava sulla scena per raccogliere l’eredità britannica della gloriosa stagioneHammer.

Ma il contesto doveva essere del tutto nuovo, e il background dell’anticoorrore cinematografico andava rifondato. Innanzitutto, niente mostrisoprannaturali e vecchi miti riesumati. Molta violenza, molto sesso, moltosangue rosso, nella perfetta tradizione Hammer, ma tutto calato nella realtàquotidiana nei nostri giorni, nelle strade normali e comuni dell’Inghilterracontemporanea.

A partire dal 1974 Walker rappresenta la migliore promessa del cinema delterrore inglese (promessa in gran parte non mantenuta), tanto da vedersiattribuita subito la solita definizione di “Hitchcock britannico”. Con Hitchcockcondivide in realtà solo il narcisismo, che lo porta a fare brevi apparizioni neipropri film: è un portiere in Greta in 3D, uno degli interpreti di The Flesh andBlood Show, un ciclista in House of Whipcord, e dà la sua voce al personaggio dimister Brunskill in Frightmare. Le pellicole di Walker diventano in breve piccolicult-movie per intenditori, che apprezzano la sua inventiva nelle reiterate mortiviolente e le geniali trovate capaci di rinnovare un genere in apparente declino.

Si inaugurava una nuova tendenza del cinema “gotico” degli anni Settanta: ilfilone degli assassini, al posto dei mostri fantastici. Frankenstein, Dracula el’uomo lupo avevano fatto il loro tempo, e le loro potenzialità terribili eranostate spremute fino all’ultima goccia. Bisognava voltare pagina.

Pete Walker si assunse l’onere di anticipare i tempi, proponendo coraggio-samente un nuovo stile per la paura. La sua formazione di cinemaniaco lo aiuta-

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va. Da ragazzino arrivava a vedere cinque film alla settimana, e a dieci anni sicomprò un proiettore 8mm per proseguire in casa le visioni preferite. Figlio diun noto attore comico specializzato in monologhi (Syd Walker) e di una balleri-na di fila, presto gli si aprirono le porte dello spettacolo e a quattordici anni ini-ziò a lavorare nel music hall, al Window Theatre. Poi le prime particine cinema-tografiche, in particolare in Exodus (1960) di Otto Preminger e Behave Yourself(1962) di Michael Winner. È proprio Preminger che lo aiuta a contattare le a-genzie di Hollywood dove a soli diciannove anni si trasferisce. Fa l’attore, il di-stributore, infine gira una interminabile serie di cortometraggi di trenta minutiper la Heritage.

Sono tutti “girlie”, filmetti erotici per proiezioni private pieni di ragazzenude: Walker sostiene di averne girato quasi quattrocento. Nel 1966 tenta diuscire dal sottobosco del cortometraggio e dirige una pellicola di cinquantaminuti, I Like Birds, commedia sexy realizzata in soli sei giorni e con un budgetdi 6.000 sterline. La Rank apprezza il breve film di Walker e lo distribuisce: ilsuccesso è immediato, anche negli Stati Uniti. Finalmente il giovane regista puòdedicarsi al suo primo vero film, senza fuoriuscire dal genere delle commedieerotiche in cui ormai è specialista. Nasce così Strip Poker, storia di gangster espogliarelli girata in due settimane, e subito dopo altre pellicole analoghe (tra cuiCool It Carol, che viene considerato dagli appassionati uno dei migliori filmsexy inglesi).

Il genere erotico comincia però ad andare stretto a Pete Walker, che si distraecon un film d’azione (Man of Violence) e poi con un primo ingenuo thriller, DieScreaming Marianne, con riprese in esterni girate in Portogallo e lapartecipazione di Susan George, la stellina di Straw Dogs (Cane di paglia) e dimolti violenti film britannici. Per vivacizzare il genere sexy, intanto, riutilizzauna vecchia cinepresa tridimensionale e realizza in meno di un mese Greta in3D, che avrà un ottimo successo commerciale. Le tre dimensioni vengono usateanche per l’ultimo quarto d’ora di The Flesh and Blood Show, un horror eroticoche rappresenta la prima vera incursione di Walker nel cinema alla lama dicoltello.

Dopo l’ennesima commedia su ordinazione della Hemdale, Tiffany Jones,Walker capisce che il cinema erotico sta virando verso l’hard core. Per sfuggirealla radicalizzazione del genere stringe allora una collaborazione con l’uomo che

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gli consentirà di dirigere i suoi capolavori. È lo sceneggiatore David Mc Gilli-vray, critico tra l’altro per il “Monthly Film Bullettin”. Sulla base di soggetti o-riginali di Walker, l’abile Mc Gillivray costruisce una serie di quattro film delterrore che segnano l’ultimo sussulto di vitalità di questo genere nell’Inghilterradegli anni Settanta e contemporaneamente anticipano le novità in procinto di af-fermarsi oltreoceano.

Il primo film della quadrilogia è House of the Whipcord del 1974, seguitorapidamente da Frightmare e poi da House of the Mortal Sin e Schizo. Si trattadi quattro film omogenei per ispirazione e taglio narrativo. La grandeinnovazione del duo Walker-Mc Gillivray consiste nel superare il vecchioimpianto psicologico dei film imperniati su un maniaco assassino, per scegliereapertamente una lettura sociologica. Non sono tanto oscure pazzie a scatenaregli omicidi, ma motivazioni sociali, fanatismi religiosi, errori e storture delleistituzioni totali.

In House of the Whipcord un vecchio giudice cieco, con l’aiuto di una ex-direttrice carceraria, imprigiona arbitrariamente nel suo castello seicentescoalcune ragazze colpevoli a suo parere di delitti che la società permissiva nonconsidera più come tali. Nel castello, sotto la copertura di una clinica privata, leragazze vengono torturate, lasciate senza cibo, frustate e infine “giustiziate”. Lacecità del giudice è già di per sé una allusione alle storture di una interpretazionedeformata della giustizia, mentre tutto il film tende a rendere visualmente (edemozionalmente) gli orrori prodotti da chi ritiene di infliggere punizioni atroci“a fin di bene”. In Spagna, al Festival di Sitges del 1975, il pubblico dedicòscroscianti applausi al film, interpretandolo come una allegoria della situazionespagnola e identificando il generalissimo Franco nel vecchio giudice.

Grazie al successo di House of the Whipcord, sia dal punto di vista economi-co (era costato solo 60.000 sterline) sia critico (nonostante si tratti di una pro-duzione indipendente e di genere il film riceve gli apprezzamenti del prestigiosoBritish Film Institute), Walker può continuare la sua macabra critica sociale.Nel successivo Frightmare è la psichiatria ad essere messa sotto accusa. Inca-paci di curare una coppia di assassini che si erano dedicati al cannibalismo, i di-rigenti di una clinica psichiatrica liberano i due sanguinari pazienti. Naturalmen-te, una volta in libertà, simulando una vita normale i due vecchi uccidono ancora,trascinando anche la figlia in una spirale di delitti ripugnanti.

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Ma è probabilmente House of the Mortal Sin il vero capolavoro di Walker.Deciso a fare i conti con la propria educazione cattolica, il regista ha costruitouna vicenda ai confini della satira anticlericale. Il grifagno padre Meldrum,succube di una madre paralitica e arteriosclerotica, si diverte morbosamente achiedere in confessione i particolari più intimi della vita sessuale dei suoi fedeli.Una giovane “peccatrice”, poi, diventa oggetto di ricatti e di minacce, fino ascatenare una lunga serie di omicidi, tutti eseguiti con l’aiuto di oggetti-simbolodel cattolicesimo. Si assiste così a strangolamenti per mezzo di un rosario, ateste fracassate da un bruciatore d’incenso, a ostie avvelenate che uccidonodurante la comunione... Convinto che la vita dei preti sia “contro natura”, PeteWalker ne evidenzia le estreme conseguenze e aggiunge alla precedente orribile“casa” della legge una “casa” della religione. Scrive Gerard Biard: “Difficilmentedissociabili, House of Whipcord e House of Mortal Sin fanno il processo a dueforme di giustizia che la nostra società ha creduto bene di normativizzare: la giu-stizia legale e la giustizia divina; sotto la copertura di questi due poteri sonocommessi i crimini più atroci”. [G. Biard, Pete Walker: L’horreur est humaine,in “Nostalgia” n.5, 1983]

In Schizo, del 1976, il ragionamento di Walker si fa più ambiguo. Il punto dipartenza è il pregiudizio: un uomo uscito di prigione è ritenuto dallo spettatoreun pericoloso assassino, fino alla soluzione finale. Tutti gli omicidi che il filmpresenta inducono a credere che l’artefice dei delitti sia lo strano ex-carceratodalla faccia equivoca (si tratta di Jack Watson, che da giovane apparve in brevicaratterizzazioni di furbo e sordido popolano in film come La vendetta diFrankenstein, dove interpretava un losco uomo delle pulizie, e Il sangue delvampiro, dove era un ghignante galeotto), e solo in conclusione verrà rivelatoche la “vittima designata” è in realtà la vera e schizofrenica assassina. È lei cheha ucciso da bambina la propria madre (in un flashback direttamente ispirato aProfondo rosso di Dario Argento) e ha fatto incarcerare un innocente, ed è leiche ha continuato a uccidere. In questo caso, la critica di Walker si incentrasull’ingiustizia della legge e sul meccanismo facile con cui si può condannare chirisponda alle caratteristiche più banali del potenziale delinquente.

Walker ha dichiarato che i suoi film erano “segnali d’allarme, servivanod’avvertimento, avrebbero dovuto far riflettere la gente.” Si trovò invece strettotra l’indifferenza dei critici e gli attacchi dei benpensanti. E non riuscì a riabili-

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tarsi nemmeno con la sua successiva conversione moderata (tentando di reinter-pretare i propri film come antagonisti del lassismo e del “socialismo liberale”che in quegli anni, a suo dire, stava paralizzando l’Inghilterra: vedi l’intervista diWalker a “L’Ecran Fantastique” n.39, novembre 1983). Eppure il regista erastato addirittura vicino alla sensibilità punk, se è vero (come rivela Steve Chib-nall, Making Mischief: The Cult Films of Pete Walker, FAB Press, Guildford1998) che Walker doveva dirigere l’ultimo film dei Sex Pistols, A Star is Dead,mai realizzato per la dissoluzione del gruppo.

Le trasgressioni di Walker, comunque, erano troppo crude per consentire unaaccoglienza indolore. I suoi criminali restano quasi sempre liberi alla fine delfilm, pronti a continuare le proprie imprese, in una società impossibilitata adifendersi dagli stessi mostri che ha creato. Non si salva nessuno dalle stoccatedi Pete Walker. L’uomo che il pubblico ritiene senza dubbio un assassino inSchizo è un vecchio, e vecchi sono il giudice e la direttrice di House ofWhipcord, il prete e la sua famiglia malsana di House of Mortal Sin, la coppiacannibale di Frightmare. Walker respinge la consueta identificazione delpericolo sociale con il giovane, e utilizza come assassini gli anziani, coloro cui lasocietà ancora attribuisce maggiore autorevolezza. Ecco perché l’attrice preferitadi Walker è Sheila Keith, che appare nei primi tre film della quadrilogia e ritornain altre due pellicole successive (The Comeback e House of the Long Shadows).La Keith, nota in Inghilterra per aver preso parte alla serie televisiva comicaMoody and Pegg, è la sadica che comanda le guardie in House of the Whipcord, èla guercia miss Barbazan, amante e governante del prete assassino di House ofthe Mortal Sin, e la donna cannibale di Frightmare (dove interpreta di fatto ilruolo principale). E padre Meldrum da parte sua era impersonato da AnthonySharp (già apparso in Die Screming Marianne), un viso da vecchio avvoltoioche sostituiva degnamente Peter Cushing e Lee J. Cobb ai quali Walker avevainizialmente proposto la parte.

Conclusa la sua quadrilogia ed esaurita la collaborazione con Mc Gillivray,Walker torna a dirigere film routinari. Inoltre, si ostina a ripetere per ben tre vol-te lo stesso film. In The Flesh and Blood Show aveva già tentato una rilettura diDieci piccoli indiani della Christie, mettendo un gruppo di attori nel teatro di u-na cittadina balneare deserta, d’inverno, e facendoli morire ad uno ad uno. Lostesso tema dell’isolamento e delle morti misteriose in un luogo chiuso ritorna in

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The Comeback del 1977: un cantante pop si isola in una villa per comporre intranquillità e viene invece turbato da apparizioni e delitti apparentemente operadi un mostro soprannaturale, in realtà orditi per vendetta da due vecchietti terri-bili (in particolare dalla satanica Sheila Keith). Dopo una breve pausa con il ri-torno all’erotismo di Home Before Midnight del 1978, Walker si dedica a unastoria ancora simile alle precedenti: questa volta è una scommessa che porta ungiovane a farsi ospitare in una sinistra villa di campagna e ad assistere a tragiciavvenimenti. Il film è House of the Long Shadows, tratto da Seven Keys to Bal-dpate, un giallo del 1917 di Earl Derr Biggers, ricco di colpi di scena e di ribal-tamenti, da cui George M. Cohen trasse un’opera teatrale e che il cinema avevagià utilizzato nel 1930, nel ‘35 e nel ‘47.

Ma la grande particolarità di House of the Long Shadows non stava tantonella storia, quanto nei suoi protagonisti. Pete Walker si assumeva infatti ilmerito di riunire per questa pellicola le grandi star dell’horror cinematograficodel passato: John Carradine, Vincent Price, Peter Cushing e Christopher Lee(oltre alla immancabile walkeriana Sheila Keith). Se non avesse avuto seriproblemi di salute anche la mitica Elsa Lanchester di The Bride of Frankensteinsarebbe stata della partita. Un manipolo di “mostri sacri” calati purtroppo in unfilm che ha subito molte manipolazioni nel montaggio e una sfortunatadistribuzione.

L’idea era nata da un colloquio tra Walker e Menahem Golan della Cannon,con il quale il regista intendeva realizzare Deliver Us From Evil per lasceneggiatura di Michael Armstrong. Invece Golan propose a Walker diaffiancare le quattro stelle dell’horror ancora in vita, su una storia cheassomigliasse il più possibile a The Old Dark House (di cui era impossibileottenere i diritti). Proprio Walker che si era affermato come reazione al goticotradizionale del cinema anglosassone aveva in destino di celebrare l’olimpo deigrandi interpreti di quell’epoca indimenticabile: l’allora attivissimo e venerandoCarradine di centinaia di horror commerciali, Price attore prediletto di RogerCorman, Cushing e Lee coppia fissa della scuderia Hammer.

Ma fermandosi a metà strada tra l’omaggio cinefilo e la commedia nera,House of the Long Shadows dimostra i limiti di Walker, dopo la separazione daMc Gillivray. Il regista resta un inconsueto esempio di cineasta indipendente,che ha quasi sempre prodotto i propri film e ha saputo precorrere le strade del

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nuovo cinema del terrore duro e violento. Per quanto poco incline a mostrarebagni di sangue, Walker ha aggiunto deliranti tasselli al mosaico del cinema allalama di coltello (da non dimenticare gli omicidi con un ferro da calza in Schizo econ una falce in The Comeback...), senza restare chiuso nel rituale riferimentoad assassini psicopatici privi di motivazioni. Il suo è un cinema di confine, in e-quilibrio tra il gore e i classici del brivido (Walker è un grande ammiratore dellevecchie pellicole in bianco e nero della Universal e della Rko). È l’esito attualiz-zante e cinico delle antiche favole di marca Hammer, quindi la porta di passaggiotra il gotico e lo splatter. I mostri mitici come Frankenstein e Dracula passano iltestimone ai serial killer metropolitani.Filmografia

1967I Like Birds

1968Strip PokerSchool of Sex

1970Man of ViolenceCool It CarolDie Screaming, Marianne (Marianna, fuga dalla morte)

1972The Four Dimension of Greta (Greta in 3D)The Flesh and Blood Show

1973Tiffany Jones

1974House of Whipcord (...e sul corpo tracce di violenza)Frightmare (Nero criminale)

1975House of Mortal Sin (La casa del peccato mortale)

1976Schizo (La terza mano)

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1977The Comeback (Chi vive in quella casa?)

1978Home Before Midnight

1982House of the Long Shadows (La casa delle ombre lunghe)

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Dario Argento

ovvero la donna-cinepresa-killer

Dario Argento, come Alfred Hitchcock, non si è mai dedicato al vero e proprioserial killer, all’assassino che uccide casualmente e senza alcun motivo vittimesconosciute. Ma come Hitchcock anche Argento ha lasciato un segno indelebilenel cinema che si è dedicato agli omicidi seriali. Del resto, fin dal suo primo filmArgento è stato definito “l’Hitchcock italiano”, per la crudezza violenta di certesituazioni delle prime pellicole argentiane, e nello stesso tempo per l’attenzionea una dimensione esistenziale/psicologica. Ma Argento, grande ammiratore delregista inglese, non si sente l’erede di Hitchcock: “Forse ho ereditato il suopubblico, – dice Argento – ma non certo le sue tematiche. Tra me e Hitchcock cisono anche differenze di morale e di nevrosi. Hitchcock è puritano mentre iosono libertario fino ai limiti dello sberleffo.” [dichiarazione apparsa in F.Giovannini, Dario Argento. Il brivido il sangue il thrilling, Dedalo, Bari 1986,p.164]

Comunque, agli inizi della carriera di Argento, quando le lodi del suo cinemaerano confinate nelle pubblicazioni di genere, la rivista di fumetti “Horror”(nell’agosto 1971) rintracciava un altro riferimento cinematografico del nostroregista: Roman Polanski. Scriveva Francesco Metrangolo in un articolo dal titoloIl regista timido: “Polanski aveva iniziato a turbare i sonni tranquilli dellospettatore con la sua risata macabra e graffiante. Argento ne accetta la lezioneper parlare della morte, a metà strada tra il delirio onirico ed il senso cosciente diessa, le ossessioni angosciose, l’inquietudine e il raccapriccio. Il dramma dellamorte viene dilatato a dimensioni che possono sembrare illogiche a prima vista,come assurdo ed illogico in fondo si presenta il morire, per l’uomo abituato avivere.”

Per l’Italia, invece, tra i maestri di Argento c’è indubbiamente un altro can-tore del serial killer, Mario Bava, che come abbiamo visto aveva anticipato mol-te atmosfere e situazioni utilizzate poi da Argento, e ha manifestato lo stessoamore per la cura tecnica delle riprese. Ma il vero riferimento artistico per Ar-

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gento va rintracciato in America. Al serial killer cinematografico americano Ar-gento ha regalato intuizioni e modelli originali, tutti europei e mediterranei, manegli Stati Uniti ha anche trovato continua ispirazione. Del resto lo stesso Al-fred Hitchcock, cui il nome di Argento viene spesso apparentato, era regista bri-tannico, ma trapiantato in America, dove ha girato tutti i suoi film più famosi.Argento si è collegato esplicitamente a un’onda horror che ha attraversato gliStati Uniti negli anni Settanta: l’onda di George Romero, Tobe Hooper e JohnCarpenter. Con questi autori è così iniziato uno scambio di riferimenti, citazioniincrociate, collaborazioni. Sono emerse anche nuove leve che fin dall’inizio han-no manifestato un debito chiaro verso il cinema di Argento (è il caso, ad esem-pio, di Sam Raimi).

Argento può rallegrarsi di essere uno dei pochi nomi italiani che il pubblicocinematografico americano conosce, anche al di fuori della ristretta élite deicinefili. La prima firma autorevole ad apprezzare Dario Argento in America èstata non a caso quella di Stephen King, che nel suo libro Danse Macabrelodava i deliri cinematografici del regista italiano, soprattutto per il filmSuspiria. Ma anche la critica specializzata ha capito le qualità di Argento. Valgaper tutti il libro Nightmare Movies del critico e scrittore inglese Kim Newman(Harmony, New York 1988), che nel capitolo dedicato agli “Autori” del cinemafantahorror contemporaneo citava solo quattro nomi: il primo è quello di DarioArgento, accanto a Larry Cohen, David Cronenberg e Brian De Palma. Lostesso Newman riconosce l’esistenza di un preciso “stile” argentiano, tanto cheaccosta ai film di Argento le pellicole di Peter Greenaway, definite “una sorta diterribile mutazione di un giallo di Dario Argento”.

Nonostante questi avvicinamenti progressivi alla dimensione internazionale,che hanno portato Dario Argento a realizzare il suo dodicesimo film comeregista, Trauma, proprio negli Stati Uniti, il suo modo di fare cinema restafortemente installato nella tradizione italiana. Anche tra Argento e Romeropermane un diverso modo di intendere il cinema, nonostante la pluriennalecollaborazione tra i due. Ognuno di loro affronta il lavoro cinematografico allapropria maniera. E Argento difficilmente riesce ad accettare un’impostazione“americana” che santifica la produttività: il suo posto è nello stile dei registieuropei, che tendenzialmente mette al primo posto non il profitto, ma il valorecomplessivo dell’opera.

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Per questo suo spirito indipendente Argento ha sempre rifiutato le proposteamericane di dirigere film sceneggiati da altri, né ha accettato di sottoporsi allevarie regole consuete del modello produttivo tradizionale nel cinemastatunitense. Agli inizi degli anni Novanta, però, Dario Argento ha deciso ditentare un maggior accostamento alle caratteristiche della costruzione dei film inAmerica. La scommessa era alta: mantenere l’autonomia, e la capacità ditrasgressione, consentita dagli spazi produttivi che sono stati a lungo peculiaridel cinema italiano, e unirla alla altissima competenza tecnica, ad esempio, deglisceneggiatori americani. È nato così il film Trauma, con la collaborazione di unosceneggiatore statunitense (lo scrittore di horror T. E. D. Klein) e con l’uso ditutte le sofisticate novità tecnologiche disponibili negli Usa soprattutto per ilmontaggio. Trauma è il risultato proprio di questo incontro e questacontaminazione di intelligenze. Da parte sua Argento ha portato in America lapropria precisa concezione dell’assassino, che è una concezione profondamentemediterranea ed europea.

Può essere utile soffermarsi su Trauma, per capire il debito dei serial killercinematografici americani verso Argento, dato che si tratti di una sorta di summadi tutto il cinema precedente del regista romano. Come Brian De Palma avevacelebrato se stesso in Doppia personalità, così Dario Argento sembra divertirsial gusto dell’autocitazione in Trauma.

Il film si apre significativamente con un primissimo piano su una ghigliottinadi carta, sulle note di una canzone della Rivoluzione francese, con una indirettacitazione di quel film anomalo nella carriera di Argento che fu Le cinquegiornate. Poco dopo assistiamo a una seduta spiritica, allo stesso modo diProfondo rosso, che è il film della filmografia argentiana qui più citato. AProfondo rosso alludono le reiterate apparizioni di piccoli rettili, così come lamorte conclusiva provocata da una catenina, o il delitto con l’ausilio di unascensore. Viceversa la pioggia, che costella i delitti di Trauma, ci rimanda aSuspiria e Inferno.

Gli stessi luoghi di Trauma evocano le precedenti fatiche di Argento. La casasul lago ci riporta a Phenomena, gli scenari americani (Minneaoplis) a Due oc-chi diabolici, e le piazze affollate a Tenebre. E in perfetto stile argentiano sfila-no sullo schermo due star recuperate dalla storia del cinema americano. Innanzi-tutto Piper Laurie, biondina di tante pellicole degli anni Sessanta, passata trion-

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falmente all’horror con Carrie, il film di De Palma tratto da Stephen King, e quidi nuovo in un ruolo di madre minacciosa e traumatizzante. Poi Brad Dourif, in-dimenticabile nevrotico di Qualcuno volò sul nido del cuculo, qui in una breveapparizione cui conferisce gli sguardi allucinati di Anthony Perkins.

Ma Trauma è un omaggio a se stesso da parte di Argento anche perché siavvicina al modello “impossibile” di film che il regista ha auspicato in unaintervista: “Se fosse per me il film lo farei tutto da me. Interpreterei tutto, fareile parti di uomo e di donna, di bambino e di vecchio... Se avessi tempo, denaro epossibilità di sbagliare, i film li farei completamente io, travestendomi io stessoe interpretando tutti i ruoli.” [in Dario Argento: Il brivido il sangue il thrilling,cit., p.154]

Ecco, con Trauma Dario Argento è quasi riuscito a coronare il suo sogno,mettendo davanti alla cinepresa sua figlia Asia, nella parte dell’anoressicadiciassettenne Aura Petrescu, una ragazza che rivela negli sguardi e nel corpo laparentela con il regista e che tornerà a interpretare altre due pellicole del padre,La sindrome di Stendhal e Il fantasma dell’opera.

Ma Trauma è soprattutto un catalogo dei “luoghi comuni” del serial killerargentiano. Innanzitutto proprio l’assassino si presenta come uno psychokiller,continuando dunque la linea del delitto in serie, ma non totalmente gratuito:l’assassino di Trauma decapita con il suo cappio meccanico non casualmente,ma seguendo una precisa lista di vittime predestinate. Infermiere e medicicoinvolti nell’episodio da cui scaturisce tutto l’incubo di Trauma sono gliobiettivi scelti dal killer: qualcosa di diverso, va ripetuto, dal tipico serial killerche invece ammazza senza ragione. Tutti gli assassini di Argento, compresi idue giovani pazzi in La sindrome di Stendhal e Nonhosonno, seguono questometodo delittuoso, riconducendo le sceneggiature argentiane, anche le piùirrazionali, nei confini del “giallo”, che prevede comunque un’indagine in gradodi dedurre l’identità del criminale, fino alla scoperta finale.

L’assassino del resto è il vero protagonista di tutti i film di Argento. Argentovuole farci paura, e quindi in alcuni casi ci mette dalla parte della vittima, terro-rizzati dall’avvicinarsi di un omicida inafferrabile (emblematica, in questo senso,la sequenza sul treno che apre Nonhosonno). Ma sempre più spesso siamo noia vedere con gli occhi dell’assassino, a immedesimarci nell’ignoto personaggioche ammazza e ferisce. Dario ha capito che i tempi cambiano, anche a questo

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proposito: “Una volta il pubblico odiava l’assassino, oggi si fa il tifo perl’assassino. Sono cambiate le storie raccontate dal cinema o è cambiata la gente?e quando il pubblico spera che l’assassino non venga catturato lo fa per simpa-tia verso un criminale o solo perché desidera che il film non finisca?”

In realtà è lo spettatore stesso che diventa l’assassino, nei film di Argento. Ela paura si fa più forte perché siamo noi a commettere quegli atti proibiti eviolenti che vediamo nel buio della sala cinematografica.

I delitti nei film di Argento sono compiuti dalle armi più diverse: chiodi,oggetti contundenti, vetri, corde... Ma lo strumento privilegiato resta l’arma dataglio, il coltello o quel rasoio che in Tenebre strappa una maglietta bianca ecolpisce all’interno il corpo svelato come da un sipario. Infine la cinepresa-boia:Argento ci fa vedere l’impossibile, ci fa guardare dal punto di vista del coltello,come se un occhio immaginario fosse incastonato nella lama. La cinepresa, adesempio, diventa l’occhio del pendolo che taglia in due una donna nell’episodioIl gatto nero di Due occhi diabolici. E sempre più la cinepresa si spinge dentroai corpi, nelle gole, negli squarci. È la cinepresa che uccide.

Eppure c’è anche una carnalità e materialità dell’assassino nel cinema diArgento. È importante anche l’identità dell’omicida. E soprattutto il sessodell’omicida.

I film di Argento, infatti, hanno emancipato le donne del cinema fantastico.Da vittime perseguitate e indifese sono state trasformate in carnefici. Argentoha detto basta con il ruolo obbligato delle donne gementi e urlanti di paura ditante pellicole del terrore.

Se l’assassino cinematografico, e il recente “tipo” del serial killer, è quasisempre un uomo, è per altro vero che non è mai mancata – seppure in una sortadi emarginazione e collateralità – la donna assassina, o meglio la “dark lady”, lafemmina seduttiva che porta distruzione e morte.

Questa figura femminile sembra in crescita quantitativa nelle odierneproduzioni cinematografiche. Non si tratta più delle grandi stelle del cinema anniTrenta, riprese in un cupo bianco e nero, con lo sguardo fatale e magari unapeccaminosa sigaretta tra le labbra, ma di attrici sfolgoranti nella bellezzaluminosa del colore e degli schermi panoramici, valorizzate inoltre dalla maggiordisponibilità della censura contemporanea.

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In realtà il modello dell’assassina al femminile nasce proprio in Italia, con ilnostro Dario Argento. Con L’uccello dalle piume di cristallo la donna si è con-quistata il ruolo di assassina, fino ad allora riservato agli uomini. Ma tutti ideboli e i diversi ottengono la stessa curiosa “emancipazione” nel cinemaargentiano. Le certezze si incrinano, le consuetudini si lacerano. Anche unamoglie tranquilla e fedele può rivelarsi una spietata criminale, capace dei piùefferati omicidi in serie.

Argento ha inventato anche una triade di donne ferali, le Tre Madri, MaterTenebrarum, Mater Lachrimarum e Mater Suspiriorum, la cui storia è descrittanell’antico e immaginario Libro delle Tre Madri. Nel film Inferno apprendiamoche l’architetto Varelli costruì le dimore delle tre madri a New York, Roma eFriburgo. “La terra dove le case sono costruite diviene mortifera e pestilenzialecosì che gli edifici intorno e a volte l’intero quartiere ne maleodora. Questa è laprima chiave per aprire il loro segreto... La seconda chiave è occultata neisotterranei delle loro dimore... La terza è sotto la suola delle tue scarpe.” Le TreMadri dovevano costituire il filo conduttore di un ciclo di film argentiani. Forseil ciclo è stato composto da Suspiria (nella figura della Regina Nera), Inferno eTenebre (dove il riferimento è più sfumato), ma in alcune occasioni Argento hadetto che attende ancora di concludere la storia. Intanto, è tornato sulle donneassassine oltre che assassinate anche in Trauma, dove il catalogo femminile deipersonaggi argentiani si complica e si arricchisce ulteriormente.

Dario Argento mette in scena donne assassine dagli inizi degli anni Settanta,con il suo primo capolavoro, L’uccello dalle piume di cristallo. Si può affermareche la Sharon Stone di Basic Instinct non è che una delle tante donne pericolosee micidiali del cinema più recente, queste figure femminili armate di coltello o dipistola che hanno le loro sorelle maggiori proprio nelle assassine del cinemaargentiano.

Argento ha anticipato un vero ribaltamento nel ruolo tradizionale della donnanei gialli e nei thriller. Fino agli anni Ottanta le figure femminili mostravano so-prattutto una grande debolezza di fondo, che doveva porle in situazioni paurosee inevitabilmente dalla parte della vittima. Dalla ragazzina perseguitata da mo-stri e assassini, la tipica protagonista femminile del cinema thrilling è poi diven-tata una donna con la pistola. I due volti femminili più caratteristici di questa e-voluzione della donna cinematografica sono senza dubbio Kathleen Turner e

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Anne Parillaud. La prima è stata vera dark lady in Brivido caldo (1981), e poi èdiventata a sua volta donna-poliziotto in Detective coi tacchi a spillo (1991),mentre la Parillaud è apparsa in Nikita (1990) nella parte di una ex-teppista re-clutata dai corpi segreti dello stato per commettere delitti con “licenza di ucci-dere” e subito dopo ha fatto il salto decisivo, diventando vampira sanguinarianel 1992 per John Landis nel film Innocent Blood (Amore all’ultimo morso).

Probabilmente non è solo sugli schermi cinematografici che si assiste a questetrasformazioni, di cui Argento si è limitato ad essere primo anticipatore. Simoltiplicano infatti anche le assassine letterarie (come in Mary Terror di RobertMcCammon, edito in Italia da Interno Giallo), e la stessa cronaca nera arriva adaffiancare ai serial killer tipicamente maschili anche alcune eccezioni di sessofemminile: soprattutto in Florida e nel sud degli Stati Uniti si sono segnalate daqualche anno numerose apparizioni di donne “assassine seriali”.

Ma nel Terzo Millennio si potrebbe addirittura sostenere che l’assassinocinematografico per eccellenza è androgino, non è né maschio né femmina.L’identità anagrafica (maschile o femminile) di chi commette il delitto nonimporta più. E il maestro di questa relativizzazione dell’identità sessuale delcriminale è stato proprio Dario Argento. Certo, abbiamo detto che la suainnovazione nel cinema thrilling è stata quella di utilizzare quasi sempre donne-assassine, fin dal suo primo film. Ma in realtà lo spettatore scopre chi èl’assassino, e quindi se si tratta di un uomo o di una donna, solo alla fine delfilm. Gli omicidi sono mostrati in abbondanza, ma solo attraverso una manoguantata e gli strumenti del delitto.

Non si può che concordare con quanto scrivono Antonio Bruschini eAntonio Tentori a proposito del cinema di Argento: “Con la sostituzione dellamacchina da presa alla visuale dell’omicida lo spettatore si trova, violentementee senza preavviso, catapultato nell’universo delirante dello psicopatico. (...)Ma, più di ogni altra cosa, si trova costretto a identificarsi con un personaggiodi cui, paradossalmente, non sa assolutamente nulla, neppure il sesso... Perquesto dell’assassino, ora, Argento comincia a mostrarci sempre di meno. Nonpiù una silhouette nera da spaventapasseri, ma semplicemente il dettaglioingigantito di un occhio sbarrato, dilatato sulla propria follia.” [A. Bruschini, A.Tentori, Profonde tenebre, I Libri di Profondo Rosso, Roma 2000, pp. 31-32]

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Dall’androginia è facile passare all’evaporazione di ogni identità autonomadell’assassino. È facile passare all’assassino cibernetico, alla cinepresa-coltello,alla inessenzialità della personalità dell’omicida e alla sua totale identificazionecon l’occhio dello spettatore e quindi con l’obiettivo della macchina da presa. Ilcerchio si chiude, e il killer dallo schermo passa automaticamente in platea.

Filmografia

1970L’uccello dalle piume di cristallo

1971Il gatto a nove code

1972Quattro mosche di velluto grigio

1973Le cinque giornate

1975Profondo rosso

1977Suspiria

1980Inferno

1982Tenebre

1985Phenomena

1987Opera

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1990Due occhi diabolici (episodio Il gatto nero)

1992Trauma

1996La sindrome di Stendhal

1998Il fantasma dell’opera

2000Nonhosonno

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GLI ASSASSINI

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Jack

Tra i grandi protagonisti del cinema “alla lama di coltello” il più imprendibile eleggendario degli assassini è senza dubbio Jack lo Squartatore.

Mito proveniente dalla realtà, Jack lo Squartatore è il capostipite el’antenato di tutte le figure di pluriomicida senza motivazioni apparenti chehanno attraversato gli schermi. Le sue imprese a Whitechapel hanno festeggiatoormai il secolo e moltissimi nipotini di Jack hanno continuato le sue imprese,allungando la scia di sangue e frattaglie inaugurata dal mostro di Londra.

Non che la storia del crimine avesse aspettato Jack per trovare delitti efferatie immotivati, ma l’epoca vittoriana, apice del capitalismo ottocentesco edell’industrializzazione, era lo scenario indispensabile per rendere mitologicauna immagine del Male assoluto come quella di Jack. Nello stesso clima in cuinascono Sherlock Holmes, Dracula e il dottor Jekyll, la cronaca nera siimpegnava a dare vita a un personaggio senza volto, crudele e malvagio oltreogni limite, annidato nelle strade di Londra e pronto a colpire là dove il vizio e lamiseria imperversavano, tra bordelli e osterie malfamate. L’altra faccia delmoralismo vittoriano si presentava in tutto il suo pericoloso orrore.

Jack si è insediato tanto profondamente nell’immaginario proprio perché èrimasto senza volto. Forse un paio di manette ai polsi di un insignificantemaniaco avrebbero fatto perdere il ricordo di quella serie di delitti iniziati il 31agosto del 1888. Jack lo Squartatore non è stato catturato eppure non èscomparso. Jack è immortale, come ci ricorda il celebre racconto di RobertBloch Yours Truly, Jack the Ripper, apparso su “Weird Tales” nel 1943 (cheebbe la fortuna di uno sceneggiato radiofonico, poco dopo la sua uscita sullapopolare rivista di racconti del terrore): il figlio di una delle vittime di Jackcontinua per anni a cercare l’assassino, fino a incontrarlo ai nostri giorni ancoravivo e vegeto. “Ha privato della vita altre centinaia di persone, per prolungarel’esistenza del suo essere infernale. Come un vampiro egli si rinvigorisce con ilsangue. Come un demone, il suo nutrimento è la morte. Egli si aggira furtivo,come uno spirito malefico, in tutto il mondo per uccidere. E astuto,diabolicamente astuto”.

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Ma chi era Jack per il cinema? Qual era il vero volto del massacratore diprostitute? Alle varie risposte romanzesche o della ‘ripperologia’ (disciplinamolto praticata da saggisti e criminologi inglesi) vanno aggiunte le spiegazionisuggerite dai vari sceneggiatori cinematografici. Alle due ipotesi principali (ilduca di Clarence, nipote della regina Vittoria, o l’avvocato John MontagueDruitt) il cinema affianca molte tesi fantasiose.

La serie più lunga di film ispirati dalla vicenda di Jack lo Squartatore è senzadubbio quella del “pensionante”, che prende origine da un romanzo di MarieAdelaide BellocLowndes, trasformato anche in opera teatrale. Circa l’identitàdello Squartatore la serie oscilla tra innocenza e colpevolezza nei confronti delmisterioso ospite della stanza in affitto, che i vicini sospettano di esserel’assassino. A inaugurare il cielo sul “pensionante” pensò proprio AlfredHitchcock nel 1926, con quello che lo stesso regista ha definito “il primo, verofilm di Hitchcock” (in F. Truffaut, Il cinema secondo Hitchcock, PraticheEditrice, Parma 1985, p. 38). Per non rovinare la carriera del protagonista IvorNovello, specializzato in ruoli di “buono”, Hitchcock dovette dimostrarel’innocenza dell’inquilino (sospettato di essere Il Vendicatore, allusione chiaraallo Squartatore). L’inquilino sospetto tornò in un remake del 1932 John Brahme poi nel 1943 sotto la direzione di Hugo Fregonese: lo Squartatore del film diBrahm finisce annegato nelle acque del Tamigi, mentre sfugge a un inseguimentodella polizia. Analogo il destino del signor Slade di Una mano nell’ombra diFregonese, con l’aggiunta di un innamoramento dello Squartatore per la bellaLily (ma senza riscatto possibile per l’assassino).

Per il film Jack the Ripper di Monty Berman e Stanley Baker del 1959, Jackè senza dubbio un chirurgo, e ce ne viene svelata anche la sanguinosa fine,schiacciato da un ascensore. Jack the Ripper utilizza ancora il bianco e nero deivecchi film del terrore, ma concedendo un breve omaggio al nascente stile Ham-mer che richiedeva tinte calde su cui far schizzare il rosso del sangue: la sequen-za finale, infatti, nelle copie originali è a colori. Prodotto e diretto dal duo Ba-ker-Berman, il film si inseriva nel filone in costume, e preferibilmente di epocavittoriana, che il cinema inglese sfruttò a lungo tra gli anni Cinquanta e Sessantaper ambientarvi storie sottilmente erotiche e violente. La stessa coppia Baker-Berman ne diede di lì a poco un altro saggio con Hellfire Club (1961). È il primo

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film, comunque, che abbraccia la tesi di Jack medico, abile con bisturi e disse-zioni.

Sulla stessa linea, in Barbara il mostro di Londra i delitti dello Squartatorevengono attribuiti al bifronte Jekyll-Hyde, in questo caso di sesso femminile ealla ricerca di ghiandole per le sue trasformazioni. Un medico con laboratorioscientifico è anche il Jack di Erotico profondo interpretato da Klaus Kinski,vittima della sua doppia personalità che lo spinge ad uccidere. In L’uomovenuto dall’impossibile lo Squartatore è Stevenson, un amico dello scrittoreHerbert George Wells che non si accontenta dei massacri nella sua epoca e fuggenel futuro con la macchina del tempo per continuare ad ammazzare, prima diessere scaraventato nell’infinito dal prode Wells.

Più legati alla “ripperologia” scientifica i due incontri cinematografici tra Jacklo Squartatore e Sherlock Holmes, in A Study in Terror e Murder By Decree.Nel primo film Holmes scopre il nesso tra i delitti di Jack e l’aristocraticafamiglia Osborne, ma da vero gentiluomo l’investigatore rifiuta di rivelarepubblicamente la sua scoperta: Jack/Osborne muore, ma nessuno saprà mai chetutti gli omicidi erano legati al turpe passato della signora Osborne, che prima disposarsi era stata prostituta.

Nel secondo duello tra il detective di Baker Street e l’assassino diWhitechapel viene invece sposata la vecchia tesi di molti ripperologi secondocui il nome dell’assassino non venne mai scoperto perché faceva parte dellafamiglia reale. Il film non risolve il quesito, ma mostra il prevalere della ragionedi Stato sull’accertamento della verità.

Nuove spiegazioni si ebbero grazie a Michael Caine, protagonista della serieTv di quattro episodi di un’ora ciascuno Jack the Ripper. Intanto con Gli artiglidello Squartatore già sapevamo che Jack ha una figlia, pronta a continuare lacarriera del padre, dopo averlo visto uccidere la moglie sotto i suoi occhi.

La figlia di Jack dimostra che lo Squartatore non finisce di terrorizzare con laconclusione dei suoi delitti londinesi. Resta nei nostri incubi, come in Tre amorifantastici dove lo Squartatore è accostato a Harun el Rascid, personaggio daMille e una notte, e Ivan il Terribile, come conseguenza onirica di una visita alMuseo delle cere. Werner Krauss era il Jack che perseguita una coppia, nel so-gno del protagonista. Si tratta di un episodio dal montaggio velocissimo, tra sce-

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nografie espressioniste alla Caligari, e che il grande critico Siegfried Kracauerconsidera un capolavoro dell’arte cinematografica.

Jack fa morire anche attraverso il semplice feticcio della sua lama, custoditain un altro museo delle cere e utilizzata da nuovi criminali in Il manichinoassassino. La catena di delitti non si conclude mai, e il bisturi insanguinatopassa a nuove mani, grazie a un cinema che si concede sempre maggioriindulgenze al macabro e al sanguinoso. E inoltre Jack è un’icona talmentepopolare da poter apparire persino in serie tv di fantascienza come Star Trek(nell’episodio Wolf in the Fold, scritto da Robert Bloch) o Babylon 5(nell’episodio Comes the Inquisitor)

Jack lo Squartatore è un simbolo di crudeltà, e come tale non può essereadeguatamente “rappresentato” e “visto”. Ogni concretizzazione della suaidentità ignota fa perdere senso alla leggenda. Per questo il miglior Jack delcinema resta quello della Lulu di Pabst, che arriva a conclusione del film peruccidere la donna fatale per eccellenza e poi scomparire nel nulla, sconosciuto eoscuro come prima della sua apparizione, archetipo inspiegabile della violenzasessuale maschile.

Forse proprio l’indeterminatezza di Jack, che nessuno può credibilmentedescrivere o delineare, ha portato ad attribuirgli il volto di ottimi interpreti, masenza scomodare gli attori più amati del genere. Il cinema ha preferito sceglieresecondo un catalogo lombrosiano i suoi Squartatori: un assassino, secondo leregole più ovvie del luogo comune deve avere una ‘brutta faccia’, deve essereripugnante nel fisico così come lo è nel morale, con fattezze che insospettiscanoal solo sguardo. Registi e produttori hanno allora cercato i visi meno rassicurantinegli elenchi dei professionisti del genere. Le star devono avere dei corpi e deivolti efficaci per il terrore e soprattutto la faccia da delinquente. Jack deve avereun ceffo da criminale, anche se magari fa il dottore o è un cittadinoapparentemente irreprensibile. Il cinema ha assunto pienamente per Jack levetuste tesi fisiognomiche di Lombroso e ha deciso che un deviante tantobrutale deve per forza rivelare la sua abiezione già stampata sui lineamenti.

Lo Squartatore è stato impersonato al cinema da alcune delle facce più terri-bili che il grande schermo abbia mai veicolato. All’appello mancano certamentele grandi star del cinema fantastico (non sono stati mai Jack né Karloff o Lugosi,né Price o Carradine, e nemmeno Christopher Lee o Peter Cushing). Però una

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buona schiera di attori inquietanti hanno indossato gli abiti vittoriani dell’ignotoassassino.

Tra i tanti Jack dello schermo almeno quattro meritano un ricordo.Innanzitutto Jack Palance in Una mano nell’ombra, che da villain del cinemawestern è stato spesso arruolato nel cinema thriller o horror (i più esperti loricordano anche nei panni di Dracula e persino in un ruolo sadiano contro lapovera Romina Power in Justine).

Se c’è una faccia cinematografica che non rassicura, questa è la faccia diPalance, nonostante i tentativi di trasformarlo, in vecchiaia, addirittura in buonpoliziotto (ma solo in anni in cui anche il “bene” e la “legge” possono godere diun po’ di ambiguità).

Chi non poteva sfuggire al ruolo di Jack era il cattivo per eccellenza deglianni Sessanta e Settanta: Klaus Kinski. Lo specialista della serie “Z” JesusFranco lo volle per Erotico profondo, permettendo a Kinski di sezionarefanciulle svestite e contemporaneamente di coltivare piantine rare nel tempolibero dalla sua attività di bravo medico. Con il suo bisturi Kinski/Jack siavvicina ai seni nudi delle sue vittime e poi ci fa assistere ad alcune fasi deglisquartamenti, che quasi mai il cinema si era permesso di mostrare. Il film haavuto una tormentata vicenda produttiva, girato dallo spagnolo Franco in unatrasferta svizzero-tedesca (ne hanno tratto vantaggio le riprese in esterni, peruna volta meno mediterranee del solito) e con alcune apparizioni, del tuttoimmotivate e svincolate dallo svolgimento della vicenda, di una delle figlie diChaplin, Josephine.

All’elenco dei Jack dello schermo non manca Udo Kier, arruolato daWalerian Borowczyk per Lulù. Anche Kier non scherza in quanto a facciapatibolare, e il cinema lo ha ben utilizzato in ruoli di pazzo e di mostro. Perricordare solo alcune delle apparizioni dell’attore, Kier è stato per Andy Warholun sanguinoso dottor Frankenstein e poi un isterico Dracula, nella coppia disexy-gore girati in Italia nel 1974. Da parte sua Just Jaeckin lo ha messo accantoa Corinne Clery in Histoire d’O, nella parte del depravato che cede la propriacompagna alle torture e agli amplessi di una strana setta sadica. Ottimopendaglio da forca, allora, anche per impersonare il nostro Jack.

Infine, va doverosamente citato David Warner, un cattivo che ha attraversatotante pellicole degli ultimi decenni lasciando sempre una scia di nefandezze.

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Warner è forse il Jack più “moderno” perché non suscita solo orrore, ma anchesimpatia. Il suo faccione delinquenziale ha qualcosa di accattivante (mai terminefu più adatto...) e quando gli viene messo alle calcagna un altro grugno cinemato-grafico come Malcolm McDowell in L’uomo venuto dall’impossibile non si saproprio per chi fare il tifo. Tra le malvagità commesse da David sullo schermonessuno dimentica almeno i delitti elettronici in Tron.

Solo di recente la storia di Jack ha potuto esplicitare i contenuti erotici,senza sottrarre allo spettatore le implicazioni sessuali dei suoi delitti. PatriciaHighsmith ci ha ricordato che Jack nasce da una società che considera in modoabnorme il ruolo delle donne: “La ‘sindrome dello Squartatore’ è come lamalattia di Parkinson o la sclerosi multipla, può colpire un laureato come unmanovale, e rivela sintomi imprevedibili. Gli squartatori hanno una doppia vitae vengono scoperti dopo molto tempo perché credono di essere nel giusto esembrano persone normali”. [P. Highsmith, Problemi sessuali? Ecco la ricettadello Squartatore, in “Corriere della sera”, 10 gennaio 1988]

Il cinema ha introiettato il lato “maschilista” dello Squartatore, mettendolo aconfronto con donne ridotto a cosa da “smontare”, da fare a pezzi. E haaggiunto una buona dose di voyeurismo. Non dimentichiamoci che la saga diJack lo Squartatore contro Lulu ha permesso anche di assistere a uno dei priminudi integrata di Stefania Sandrelli e probabilmente il primo in assoluto dellatelevisione pubblica italiana. Le ultimissime sequenze dello sceneggiatotelevisivo Lulù (diretto da Mario Missiroli e programmato da Rai Due nelmarzo 1980) mostrano una Sandrelli che corre nuda verso la macchina da presa,per sfuggire alle grinfie di Jack. Meno problemi ebbe Walerian Borowczyk, chenella sua versione di Lulù non ebbe bisogno di Jack per spogliare Ann Bennent,biondina che le critiche ricordano soprattutto per i baffetti chiari e che si agitasenza vestiti ben prima dell’arrivo dello Squartatore.

Se però il nudo è diventato lecito accanto a Jack, qualcosa è ancora impeditoalla visione nella saga cinematografica dello Squartatore. In teoria Jack èl’occasione per scatenare al cinema l’estetica del delitto gratuito, e per alcunevariazioni sul tema della violenza sanguinaria su vittime femminili che l’horrorcinematografico ha abbondantemente sperimentato. Con i progressivi amplia-menti degli spazi consentiti dalla censura il delitto solo suggerito di Jack tende

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ad essere mostrato, ma quasi mai il cinema si è soffermato sui dettagli delle dis-sezioni dello Squartatore.

Non che il cinema del terrore, soprattutto nelle sue varianti gore e splatter,abbia lesinato particolari raccapriccianti e spettacoli sanguinosi o mutilazioni inpieno schermo (come vedremo nelle prossime pagine, i “villain” della serieVenerdì 13 o Freddy della serie Nightmare hanno mostrato al pubblico ogniefferatezza). Ma nei confronti di Jack anche il cinema si ritrae, non osaricostruire completamente i misfatti di un “mostro” realmente esistito, ignoto,senza volto, occulto. Forse il realismo della vicenda di Jack, il suo riproporsi inaltre figure della cronaca nera del secolo successivo, il suo essere ormai simbolodi una riduzione definitiva della donna a cosa, impediscono anche al cinema diessere distaccato e tranquillo di fronte alle gesta dello Squartatore.

Su Jack sono stati scritti innumerevoli libri (solo per il centenario ne circolòquasi una decina), sui suoi omicidi si sa molto, eppure il cinema ha preferitoaffidare ad altri assassini immaginari il compito di presentare sullo schermol’esorcismo dello squartamento a sfondo sessuale. Le dissezioni di corpifemminili, anche l’accanimento sugli attributi sessuali, è quasi un luogo comunedell’horror e del thriller cinematografico. Ma quando non c’è Jack.

Se appare in prima persona una delle tante possibili incarnazioni del veroJack tutto finisce per svolgersi fuori campo, o comunque la macchina da presa aun certo punto smetterà di spiare. Una porzione di mistero, una zona d’ombra,deve essere sempre mantenuta, l’orrore troppo vero e reale di Jack non puòessere reso visibile.

Filmografia

1924 Das Wachsfigurenkabinett (Tre amori fantastici)di Paul Leni con Werner Krauss

1927 The Lodger (Il pensionante)di Alfred Hitchcock con Ivor Novello

1928 Lulu, Die Buchse der Pandora (Lulu)di G. W. Pabst con Gustav Diessl

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1932 The Lodger (noto anche come The Phantom Fiend)di Maurice Elvey con Ivor Novello

1943 The Lodger (Il pensionante)di John Brahm con Laird Cregar

1950 Room to Letdi Godfrey Grayson con Valentine Dyall

1953 Man in the Attic (Una mano nell’ombra)di Hugo Fregonese con Jack Palance

1959 Jack the Ripper (Jack lo squartatore) di Robert S. Baker e Monty Bermancon Ewen Solon

1962 Lulu (Lulù, l’amore primitivo)di Rolf Thiele con Georges Régnier

1964 Das Ungeheuer von London City (Chiamate Scotland Yard 00.75)di Edwin Zbonek con Dietmar Schoennherr

1965 A Study in Terror (Sherlock Holmes: notti di terrore)di James Hill con John Fraser

1971 DrJekyll and Sister Hyde (Barbara il mostro di Londra)di Roy Ward Baker con Ralph Bates e Martine Beswick

1971 Hands of The Ripper (Gli artigli dello squartatore)di Peter Sasdy con Angharad Rees

1971 Jack, el Destripador de Londres (Sette cadaveri per Scotland Yard) di JoséLuis Madrid con Paul Naschy

1972 Terror in the Wax Museum (Il manichino assassino)di George Fenady

1976 Jack the Ripper Der Dirnenmoerder von London (Erotico profondo) di JessFranco con Klaus Kinski

1978 Murder by Decree (Assassinio su commissione)di Bob Clark con Donald Sutherland, David Hemmings

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1979 Time After Time (L’uomo venuto dall’impossibile)di Nicholas Meyer con David Warner

1980 Lulù (id.)di Walerian Borowczyk con Udo Kier

1985 Bridge Across Time (Terrore sul ponte di Londra)di E. W. Swackhamer con Paul Rossilli

1988 Jack’s Back (Delitti perfetti)di Rowdy Herrington con James Spader

1988 Jack the Ripper (Jack lo squartatore) di David Wickes con Ray McAnally

1989 Edge of Sanity (Dr.Jekyll e Mr.Hyde)di Gerard Kikoine con Anthony Perkins

1997 The Ripperdi Janet Meyers con Michael York

2001 Ripper: Letter From Helldi John Eyres

2001 From Hell (From Hell - La vera storia di Jack lo Squartatore)di Albert e Allen Hughes

Sito Internetwww.casebook.org

Norman

L’antenato di tutti i serial killer cinematografici più recenti ha un nome: NormanBates. E un volto: quello dell’attore Anthony Perkins. Un volto vero, di carne edi ossa, senza truccature repellenti in lattice, senza maschere nasconditrici.

Inventato da Robert Bloch in un suo romanzo, poi adattato per lo schermoda Joseph Stefano, il giovane assassino Norman deve il suo successo immortalead Alfred Hitchcock, che lo portò alla fama con il film Psycho, nell’ormailontano 1960.

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Alto, magro, allampanato, Bates fa tenerezza. La sua semplicità lo rendesimile davvero al vicino di casa. Ha un sorriso incerto, segno di timidezza, e inapparenza è buono, persino affettuoso verso chi gli si avvicina nel motel isolatoche gestisce. E in fondo il successo del personaggio deriva dal fatto di apparirecome vittima, un giovane trasformato in pazzo dalle circostanze.

È il ragazzo per bene che obbedisce alla madre a qualsiasi costo, tantoscrupoloso da pulire come un fanciullo ben allevato il sangue delle sue vittimequando gli sporca il bagno o i tappeti di casa. E il suo “amor filiale” lo rendeprotettivo verso il cadavere della madre, e ubbidiente oltre la vita e la morte aisuoi ordini. Norman conserva il corpo mummificato della mamma, ne indossa gliabiti e parla con la sua voce, rimproverando se stesso quando commette qualcheerrore o si lascia tentare dal fascino femminile.

Grazie a Hitchcock il personaggio di Norman Bates è diventatoimmediatamente un mito, accanto ad almeno due immagini rimaste storiche: laragazza assassinata sotto la doccia (Janet Leigh interpretava Marion Crane, laprima vittima di Norman), e la casa gotica sulla collina, dall’architetturavittoriana, che sovrasta il Motel Bates (tuttora un’attrattiva agli studi Universaldi Los Angeles).

La popolarità di questo serial killer immaginario è stata tale che una inchiestasvolta negli Usa dimostrò che 90 americani su 100, sopra i dodici anni di età,conoscevano la storia di Psycho. Da allora a Hollywood cominciò a circolare unprogetto scritto da due autori per far tornare Norman sullo schermo, ma gliintraprendenti sceneggiatori non avevano la titolarità dei diritti, Così solo nel1982 si poté mettere mano, grazie alla casa produttrice Universal che avevafinanziato il film di Hitchcock, a una seconda puntata della saga di Norman. Sitrattava di un film totalmente imperniato sulla figura di Norman Bates, e moltodiverso dal romanzo Psycho 2 scritto nel frattempo da Robert Bloch.

Il secondo capitolo cinematografico della saga di Norman Bates inizia con lascarcerazione del giovanotto dal manicomio in cui era stato rinchiuso, mentre ilbianco e nero della prima pellicola si muta lentamente sullo schermo nei coloridegli anni Ottanta. Sono passati vent’anni e il suo reinserimento è difficile, perle diffidenze sia degli abitanti del villaggio vicino al Bates Motel, sia dellapolizia locale. Eppure trova anche quanti lo prendono a ben volere, ancheperché gli psichiatri lo ritengono guarito.

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Una ragazza che lavora con lui in un ristorante accetta persino diaccompagnarlo nel vecchio Bates Motel, dove ancora aleggia lo spettroincombente della madre di Norman. Il film è pieno di citazioni dalla pellicolacapostipite, con omaggi continui persino alle scenografie e agli oggetti cheapparivano in Psycho. Il Motel venne in parte ricostruito, e il direttore artisticosi mise a caccia di tutti i reperti del primo film ancora disponibili nei magazzinidi Hollywood. E dal primo film viene recuperata anche l’attrice Vera Miles, cheinterpreta di nuovo la sorella di una delle vittime di Norman.

Il successo di Psycho 2 fu buono, ma non enorme. La distanza qualitativa dalprimo film diretto da Hitchcock si faceva troppo sentire. Eppure nel giro di treanni il produttore Hilton Green (che era stato assistente alla regia per il primoPsycho e aveva poi prodotto lui stesso Psycho 2) mise in cantiere la terzapuntata della serie. Questa volta la regia venne affidata proprio ad AnthonyPerkins, che dimostrò delle capacità davvero rare nel rendere omaggio aHitchcock accogliendone lo stile e l’arte.

Il film prosegue nella trama le indicazioni di Psycho 2, che pure erano moltomacchinose e inventavano una bizzarra sostituzione di persona per la madre diNorman. Nel terzo capitolo il segaligno assassino è ormai accettato dallacomunità in cui vive, dove tutti o quasi lo considerano riabilitato. È dall’esternodi questa piccola comunità solidale che viene il pericolo per Norman, oltre chedall’interno della sua psiche sempre ossessionata dal ricordo del passato. Unmalvivente che si fa assumere alla reception del Motel Bates e una ex-suoratormentata irrompono nella vita di Norman. E provocano lo scatenarsi di nuoveviolenze.

Psycho 3 resta senza dubbio uno dei migliori esempi di sequel capace di in-novare e avvicinarsi al valore della pellicola “madre”. Perkins si dimostra un ot-timo regista fin dai primi minuti del film. Nel corso di un colloquio con l’attore-regista, quando lo incontrai durante il festival del cinema fantastico di Sitges, nel1986, Perkins aveva detto: “In un certo senso Psycho 3 è stato diretto da Nor-man Bates. È un film girato dal punto di vista di Norman Bates. Avevo il pro-blema di saltare continuamente di fronte alla macchina da presa e poi dietro. Sa-rebbe stato snervante se Norman non avesse pensato a dirigere il film mentre iorecitavo la sua parte. È difficile recitare in un film e contemporaneamente dirige-

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re gli attori, curare i movimenti della camera e fare le altre mille cose che il filmrichiede. La presenza di Norman è stata preziosa, tutti i giorni delle riprese.”

Non è da poco, per i reaganiani anni Ottanta in cui Psycho 3 venne girato,assistere a una proiezione che inizia con lo schermo buio, e una voce di donnache urla: “Dio non esiste!”. E subito dopo vediamo una suora precipitare da uncampanile e schiantarsi, in un prezioso gioiello che cita con garbo La donna chevisse due volte di Alfred Hitchcock.

Nel terzo episodio Norman è ancora più complice dello spettatore, che ormailo vede con simpatia esplicita. E Norman è sempre assassino, non ha affattoperso la sua carica omicida. Ed è sempre prigioniero della madre, tanto chenell’ultima sequenza del film lo vediamo accarezzare una mano mummificatadella sua genitrice, una reliquia tenuta nascosta tra gli abiti e sfuggita anche aipoliziotti che lo stanno scortando verso una nuova reclusione.

In Psycho 3 il nostro Norman si innamora, ha una relazione con l’ex-suoraMaureen, fuggita dal convento. Sono due anime sofferenti, che si illudono ditrovare conforto reciproco. Andrà a finire male. Ma evidentemente glisceneggiatori hollywoodiani volevano dare una compagna al mostro, e ciriuscirono nel quarto episodio della saga.

Con Psycho IV vediamo Norman uscito dal manicomio per l’ennesima volta,e sposato con la sua psichiatra. Il film ci porta indietro, ad esplorare l’infanzia el’adolescenza di Norman, i suoi rapporti con la madre. Proprio Norma Bates, lamadre del nostro serial killer della quale avevamo conosciuto solo la mummia insedia a dondolo, è al centro del quarto episodio, interpretata significativamenteda Olivia Hussey, che sullo schermo aveva già impersonato la Vergine Maria.

In perfetta imitazione della casa gotica originale è stato ricostruito in Floridapresso gli Universal Studios un nuovo Bates Motel, ma questa è stata l’unica,vera continuità con la serie. Per il resto il film sembra saccheggiare brutalmenteun mito.

Nei flashback l’attore Henry Thomas, già interprete ragazzino di E. T.,appare nel ruolo di Norman giovane, con un viso rotondo e per bene altamenteimprobabile. Tutta l’ambiguità degli sguardi e dei sorrisi nervosi di Perkins èperduta. Il film è davvero il capitolo finale, e toglie tra l’altro ogni mistero (equindi ogni fascino) alla figura di Norman Bates. Tutto è spiegato, evidenziato,mostrato.

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Il cinema, insomma, ha macinato un suo mito fino alle estreme conseguenze.Eppure il mito di Norman Bates non scomparirà facilmente, anche perchéassociato a quella che si potrebbe definire la maledizione di Psycho: AnthonyPerkins è stato perseguitato dall’identificazione con il suo personaggio, e peranni gli sono state offerte solo partecipazioni a film in cui doveva imitare ilgiovanotto folle della pellicola di Hitchcock. È il caso più evidente di serial killerche si impadronisce del suo interprete, costringendolo a ripetere in innumerevolifilm le sue imprese assassine. Così Perkins ha continuato a uccidere in tantifilm, sia che incarnasse il diabolico Mr. Hyde/Jack lo Squartatore (in Edge ofSanity, del 1987), sia che si trasformasse nel prete omicida di China Blue. E luistesso, Perkins, ha popolato le cronache dei giornali con le sue personaliossessioni, con i suoi comportamenti inquietanti, fino alle voci del 1990 che lodavano malato di Aids, subito smentite, ma poi drammaticamente confermatedalla morte dell’attore nel settembre 1992.

Questa impossibilità di separare Norman da Anthony ha pesato anche sulremake del 1998 del film capostipite, Psycho diretto da Gus Van Sant eprodotto dalla Universal nell’estremo tentativo di rinnovare un mito. L’attoreVince Vaughn purtroppo non ha niente del fascino malsano di Perkins, non nepossiede gli sguardi e tanto meno il physique du rôle.

Ma è tutta l’operazione del remake che non regge il confronto con il “vero”Psycho. Persino la scena della doccia, riproposta con scrupolo certosino, perdedi impatto, se non per l’uso del colore e di una maggiore esposizione di pellenuda. Eppure l’attrice Anne Heche era adatta a incarnare una moderna MarionCrane/Janet Leigh, come vittima predestinata dei tormenti di Norman.

Il fatto è che Psycho non può davvero essere separato dal Norman Bates diAnthony Perkins. All’inizio Perkins reagiva con irritazione a chi lo identificavain Norman Bates, e sottolineava la differenza tra vita e film. Poi ha cominciato agiocare su questa identificazione, tanto da accettare per altre tre volte, dopo il1960, di incarnare il personaggio e da apparire persino nel programma televisivo“Saturday Night Live” in una spassosa parodia.

Nel colloquio con Perkins già citato era lui stesso a teorizzare questa identi-ficazione con Norman: “Il personaggio di Norman Bates è tanto interessante chemi sono accorto subito, fin dal primo film, del fatto che la mia carriera ne sareb-be stata condizionata. La mia somiglianza con Norman Bates è stata per me

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sempre più dolorosa, più esplicita e più stretta fino a che non mi sono sposatoe sono diventato padre di due bambini. Sposarsi e fare figli era qualcosa cheNorman, nella sua tragica situazione, probabilmente non avrebbe mai avuto.Appena la mia vita è cambiata anche Norman si è allontanato da me.”

In realtà sfuggire a Norman Bates non era così facile, e la maledizione diPsycho avrebbe perseguitato Perkins fino alla fine, fino a quella mortedisturbante che l’epidemia più terribile del secolo scorso ha imposto all’attore.

Filmografia

1960 Psycho (Psyco)di Alfred Hitchcock con Anthony Perkins

1983 Psycho II (Psycho 2)di Richard Franklin con Anthony Perkins

1986 Psycho III (Psycho 3)di Anthony Perkins con Anthony Perkins

1990 Psycho IV (id.)di Mick Garris con Anthony Perkins

1998 Psycho (id.)di Gus Van Sant con Vince Vaughn

Sito Internetpsycho-movies.8m.com

Leatherface

Se Norman Bates aveva una identità molto marcata, un viso ben evidente, inse-parabile dall’interpretazione di Anthony Perkins, negli anni Settanta il serialkiller diventa senza volto. Il caso più eclatante è quello di Leatherface, il gigan-

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tesco assassino con la sega a motore del film culto Non aprite quella porta (TheTexas Chainsaw Massacre) diretto nel 1974 da un giovanissimo Tobe Hooper.

Era un film nato per scommessa. Hooper, appena premiato per illungometraggio amatoriale Eggshells, si era messo alla ricerca di quattriniinsieme allo sceneggiatore Kim Henkel. Grazie a un commerciante texano cheinvestì 60.000 dollari, Hooper e Henkel crearono una piccola compagnia, laVortex, e iniziarono le riprese di Texas Chainsaw Massacre. In sole seisettimane e con un cast di attori reclutati in loco nacque un cult per il cinema delterrore, un film diventato padre indiscusso delle pellicole a base di terribiliviolenze, sangue e sequenze “da macelleria”, che alla fine degli anni Settantaavrebbero dato vita al nuovo filone gore e splatter.

Una causa intentata da alcuni membri della troupe contro Hooper e la Vortexcostrinse il film a circolare in copie pirata nei cineclub degli States. Nonostantefosse soprattutto un film dell’orrore, e non un film esplicitamente politico, TheTexas Chainsaw Massacre subì molte traversie censorie, dovute solo in partealla violenza inusitata delle sue immagini, costringendo i cultori a visioni quasiclandestine in 16 mm. In realtà il film rifletteva la realtà sociale dell’epoca, laguerra del Vietnam in primo luogo, ma anche lo scandalo del Watergate, e questofece di Saw, come questo film veniva chiamato spesso in America, un cult-movie non solo per la ristretta cerchia degli appassionati di horror degli anniSettanta.

La famiglia di macellai texani cannibali nascondeva più di un significato, e inparticolare suscitava interesse la geniale invenzione del più demenziale dei serialkiller, Leatherface.

Leatherface, cioè Faccia di cuoio, non ha un volto. Si è appropriato dellafaccia di un altro, strappandogliela dal cranio, e l’ha cucita come una mascherada indossare. È muto, si limita a grugniti, e il suo solo modo di esprimersi èuccidere, fare a fette il primo venuto con la sega a motore.

Leatherface ha le sue motivazioni familiari, più di ogni altro serial killer ci-nematografico. Viene da una famiglia di assassini e di pazzi, da una casa incredi-bile per orrore e immersione nel sangue, una casa di cui è meglio “non aprire laporta”. Insieme a lui agiscono nel delitto i suoi fratelli Chop-Top, demente do-po aver partecipato alla guerra del Vietnam, e Cook, tutti impegnati nella ge-stione di una rosticceria poco raccomandabile, The Last Roundup Rolling Grill,

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in un parco-giochi abbandonato. La famiglia assassina vince persino dei premiculinari per le ottime salsicce che produce (a base di carne umana, naturalmen-te).

L’assenza di volto rende Leatherface precursore indubbio degli altri dueserial killer del cinema americano successivo, l’assassino Myers di Halloween eil Jason di Venerdì 13. Tra tutti i pazzi criminali della sua famiglia era quindidestinato a diventare la vera star. Non a caso quando nel 1980 la New Line hadistribuito nuovamente The Texas Chainsaw Massacre (diventato per i cultorisemplicemente TTCM) ha incentrato la pubblicità proprio sulla figura diLeatherface.

È sulla scorta del successo reiterato del primo film che nel 1986 la Cannon hariproposto la famiglia assassina di Faccia di cuoio con The Texas ChainsawMassacre Part 2. Il film metteva a confronto un parente delle vittimeammazzate nel primo film con la famiglia texana della sega a motore. Il miticoDennis Hopper, con cappello da cow-boy, si incaricava di eliminare l’anomala enociva famigliola: impugna due seghe a motore al posto delle colt, e qualcuno viha visto una parodia dell’allora presidente americano Ronald Reagan. Losceneggiatore era L. M. Kit Carson, sofisticato uomo di cinema e critico radicaledella società americana degli anni Ottanta, noto per aver scritto Paris-Texas diWim Wenders. Ha dichiarato Carson quando uscì il film: “Sono passati più didieci anni dalla prima versione, eppure credo che la famiglia primitiva del primoTTCM sia ancora molto attuale. La società ha continuato a produrre violenza, adistruggere l’ambiente, a creare gente come gli yuppies che faccio morireorribilmente all’inizio del film.” [L’America della sega elettrica, intervista a KitCarson di F. Giovannini, in “Il manifesto”, 7 novembre 1986]

Questa volta Faccia di cuoio era interpretato da Bill Johnson, e la sua ma-schera di pelle umana era curata dallo specialista di effetti speciali Tom Savini.Il personaggio acquisisce maggiore spessore, e si fa protagonista anche di unasequenza commovente, quando cerca di conquistare la simpatia e l’amore di unasua vittima, la bella Stretch (interpretata dall’attrice Caroline Williams). Quasiuna citazione dal mito della Bella e la Bestia, ma immersa in un contesto sangui-nario senza precedenti, è una scena per stomaci forti, che meriterebbe un postod’onore nella storia del cinema alla lama di coltello: il terribile Leatherface“regala” alla sua amata prigioniera la pelle che ha appena strappato dal viso di

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un amico di lei. Il peggio viene quando il ragazzo scuoiato si risveglia e vede difronte a sé Stretch che porta sul volto la sua faccia insanguinata...

Proprio Stretch riesce a confondere e sgominare il pazzo criminaleLeatherface facendo leva sull’attrazione sessuale, ma questo non le eviterà difinire legata in una stanza della macelleria, tra penzolanti cadaveri di yuppie.

La buona accoglienza del pubblico per questa seconda avventura diLeatherface, dove il rumore della sua sega elettrica copriva ogni altra colonnasonora, convinse i produttori a puntare di nuovo su di lui. Era inevitabile quindiche il terzo capitolo della saga di Texas Chainsaw Massacre venisse intitolatoproprio al più dotato dei pazzi criminali che popolano la famiglia texana. Nascecosì il film Leatherface, diretto dal regista Jeff Burr nel 1989. Burr avevaappena terminato le riprese di Stepfather 2, dedicato a un altro leggendario serialkiller del cinema (il “bravo” padre di famiglia, purtroppo pazzo, impersonato daTerry O’Quinn), quando veniva reclutato per portare sullo schermo le gesta diLeatherface.

Lo sceneggiatore del nuovo film era quel David J. Schow considerato uno deicapiscuola dello splatterpunk, e lo script ne dimostra le doti. Pieno di umorismomacabro, il film accetta tutti gli schemi del gore, ma infondendovi una originalitàe una capacità immaginativa in più. Come ha dichiarato il regista Burr,“Leatherface è un film dell’orrore piuttosto brutale, ma credo che l’attenzioneprestata alla scenografia, alla psicologia dei personaggi e l’ironia onnipresente nefacciano un film comunque molto lontano dalla produzione corrente del gore.”[in “L’Ecran Fantastique” n.122, juin 1991]

I pochi mezzi a disposizione della casa produttrice New Line per realizzareLeatherface hanno impedito di assoldare l’interprete originale di Leatherface,Gunnar Lansen: dietro la faccia strappata c’è questa volta R. A. Mihailoff. Manonostante il cambio di attore la carta di identità di Leatherface resta la stessa,ed è tutto un programma. Secondo la pubblicità per il terzo episodio delle sueavventure, Faccia di cuoio è alto due metri e due centimetri, pesa 120 chili. Segniparticolari: sarà il vostro boia.

Ma la saga non era finita. Se gli spettatori italiani nel 1990 hanno trovatonelle sale l’apocrifo Non aprite quella porta 3 di Claudio Fragasso (Clyde An-derson), conosciuto anche con il titolo Night Killer e che niente ha a che fare conla celebre serie, nel 1996 ecco arrivare The Return of the Texas Chainsaw Mas-

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sacre. Questa volta Leatherface, interpretato da Robert Jacks, rivela anche ten-denze al travestitismo, apparendo spesso in abiti femminili (ma conl’immancabile faccia di pelle): è un dato che indica il vero intento del film, cioèdemitizzare la serie. Il compito di tradurre la saga di TTCM in una commediademenziale è stato assunto da Kim Henkel, l’autore del primo episodio. Pur-troppo il risultato era fallimentare. La nuova famiglia assassina non mantiene lepromesse, nonostante l’aiuto di una presenza femminile, la sadica e depravataDarla (Toni Perenski). Né risollevava le sorti del film la vittima principale, in-carnanta dalla già promettente Renee Zellweger. Ridotto a pupazzo, Leatherfacesi limita a piangere, urlare e roteare la solita motosega. Triste epilogo per un no-bile serial killer.

Filmografia

1974 The Texas Chainsaw Massacre (Non aprite quella porta)di Tobe Hooper con Gunnar Hansen

1986 The Texas Chainsaw Massacre Part 2 (Non aprite quella porta 2)di Tobe Hooper con Bill Johnson

1989 Leatherface (in videocassetta: Non aprite quella porta 3)di Jeff Burr con R. A. Mihailoff

1996 The Return of the Texas Chainsaw Massacre (Non aprite quella porta 4)di Kim Henkel con Robert Jacks

Sito Internetwww.geocities.com/SunsetStrip/Palms/6923/TCM.html

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Michael

Se Leatherface copriva il suo vero volto con una maschera di pelle umana, iserial killer del cinema non hanno disdegnato maschere più comuni. Un altrofamoso assassino di celluloide si è accontentato infatti di una maschera dacarnevale, anzi una maschera per la notte di Halloween, quando i ragazziniamericani si travestono da mostri e fantasmi per spaventare i vicini di casa e gliamichetti.

L’assassino che ha indossato questa maschera bianca e inespressiva, fin dal1978, è Michael Myers, creato da John Carpenter per il suo film Halloween, epoi tornato a colpire sotto altre regie.

Michael Myers ha così poca identità che può essere interpretato ogni voltada un attore differente. E la differenza tra gli interpreti sotto la maschera puòessere molto marcata, per età, aspetto e persino statura.

Il pubblico non è interessato alla dimensione umana di Myers, ma solo aisuoi atti. La maschera che porta è giustamente inespressiva, come un manichino.Solo nel primo film c’è qualche elemento individuale nel personaggio, quando adesempio annuisce con soddisfazione di fronte al suo ennesimo delitto. Maniente di più. Myers è solo una macchina per uccidere. Come il Jason della serieVenerdì 13 e come Leatherface, anche Michael Myers non parla.

Eppure John Carpenter nel primo film della serie aveva ricostruito l’episodiocruciale che determinerà la carriera omicida di Myers, per dare qualche spessorepsicologico al personaggio. Michael aveva solo sei anni, eppure già maneggiavaun lungo coltello: di fronte a una sorta di “scena primaria”, cioè a un rapportosessuale della sorella, non esita a uccidere. In questa sequenza Carpenter pone ilpubblico dal punto di vista di Myers, utilizzando la soggettiva, ma presto ilpersonaggio sfugge a ogni complicità dello spettatore, che torna viceversa apalpitare per le possibili vittime del maniaco.

Il film di Carpenter era congegnato proprio come uno scherzo terribile per lanotte di Ognissanti, l’americanissimo appuntamento di Halloween. La stessafortuna del film è connessa con quella ricorrenza, come ci ricorda la fanzine pa-tinata che i fan di Carpenter hanno fondato a Edgerton: “Portato nelle sale

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all’inizio dell’estate del 1978, Halloween sorprendentemente fece solo alzarequalche sopracciglio. L’unico punto importante che gli artefici del film non ave-vano calcolato era proprio la data di uscita. L’estate diede un risultato ovvia-mente povero per Halloween. Non troppo preoccupati, misero subito in cantie-re una nuova uscita, questa volta basandosi su una loro ricerca di mercato.L’unica opportunità che rimaneva era di presentare il film qualche giorno primadella notte di Halloween: così fecero, e la formula funzionò. A migliaia si preci-pitarono nelle sale, ci si passava la voce e si correva immediatamente nel più vi-cino cinema. Il film fece sensazione e vinse.” [The Night He First Came Home!,in “The John Carpenter File!” n.8, july 1989]

Il contesto ideale per una terribile notte di Halloween sembrava proprio lacittadina tranquilla e benestante di Haddonfield, che cambia aspettoviolentemente per fare da teatro alle imprese criminali di Myers. Poco più cheventenne, Myers scappa dal manicomio statale dell’Illinois, e torna ad uccidereproprio per la notte di Halloween, la notte di Ognissanti, il 31 ottobre 1978.Anche lui mascherato, come tutti i ragazzini americani in quella notte magica,Myers dà una interminabile caccia soprattutto alla giovane Laurie (Jamie LeeCurtis), mentre è a sua volta cacciato dallo psichiatra Sam Loomis (ilpolanskiano Donald Pleasence), che lo ha avuto in cura per quindici anni. Vieneapparentemente ucciso, più volte “resuscita”, sembra non poter morire.

Immancabilmente Myers viene riportato in vita per un secondo episodio, adue anni dal primo. Ma nella dimensione temporale cinematografica il tempo siè fermato, e la notte di Halloween prosegue. Myers è ancora deciso a uccidereLaurie (che tra l’altro è la sua sorellastra), finché non muore carbonizzato in unospedale. I produttori dovettero pensare che le sue gesta erano difficili dareiterare, e distribuirono un Halloween 3 che non ha nessun rapporto né con laserie iniziata da Carpenter né con il tema del serial killer.

Ma nel 1988, a festeggiare il decennale dal primo film, con Halloween 4Myers è di nuovo tra noi, e risorge anche quando gli sparano, lo investono ripe-tutamente, lo gettano nel vuoto. Le ustioni riportate in Halloween 2 non lo han-no distrutto, e Myers si rianima proprio nell’ambulanza che lo sta trasportan-do. Dopo aver perseguitato l’adolescente nella prima puntata della saga, ora ten-ta di uccidere una bambina dodicenne, in questa terza “avventura”: è la sua ni-

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potina Jamie, un nome che è un esplicito omaggio alla Jamie Lee Curtis che in-terpretava la vittima prediletta di Myers nel primo Halloween.

Nonostante i tentativi dello psichiatra Loomis, il pazzo Myers tornerà ainseguire Jamie anche in Halloween 5, questa volta aiutato da un suo simile, ildemoniaco Dr. Death. Per quanto la ragazzina percepisca il pericolo e tenti diavvertire i suoi congiunti, nessuno la ascolta, perché la ritengono traumatizzatadalle vicissitudini che ha attraversato. Il bagno di sangue, così, prosegue enemmeno le vere e proprie catene in cui viene imprigionato riescono a fermare idelitti di Myers.

Lo scontro finale tra Michael e il dottor Loomis avviene in Halloween 6. Lanipote Jamie è morta, non senza aver dato alla luce il figlio concepito con ilmicidiale Man in Black. Ma se Loomis non riapparirà più (anche perché nelfrattempo l’attore Donald Pleasence è veramente morto), Michael torna in H20per festeggiare il ventennale della sua prima apparizione. E torna in questaoccasione anche Laurie, la sua sorellastra, che ora ha cambiato nome e si è rifattauna vita. Il film è probabilmente il migliore della serie, dopo il capostipite, edevita tutti i luoghi comuni dei “sequel” o delle autocitazioni. Quanto basta perconsentire ai produttori di mettere in cantiere un futuro Halloween 8.

Coperto dalla maschera bianca, Michael Myers nei suoi sei film ha uccisouna cinquantina di persone, e si colloca quindi tra i più micidiali serial killerdello schermo. Tuttavia questa lunga carriera lo ha lasciatonell’indeterminatezza, il suo personaggio non ha acquistato personalità. NickCastle, il primo attore che ha recitato la parte di Michael Myers, ha benspiegato la similitudine tra questo assassino seriale e un “pupazzo”: “Nonserviva nessuna ispirazione per interpretare Myers. E nemmeno il regista mipoteva dare grandi idee. Se fossi andato da John [Carpenter] e gli avessi chiesto:‘come devo recitare questo?’, lui avrebbe detto ‘cammina e basta’. Persino lamaschera recitava più di me. Interpretare Michael era più o meno una situazionein cui dovevo entrare e uscire dalla scena, e John mi diceva fai questo o faiquello. Mi ha simpaticamente usato come una marionetta per tutto il film.”[Cfr. Mark Shapiro, The Shapes of Wrath, in “Fangoria” n.88, november 1989]

Questa marionetta dell’orrore, non a caso, è stata interpretata da attori diver-si in ogni puntata. John Carpenter mise nei panni di Myers un attore che prestosarebbe diventato un noto regista (Nick Castle ha diretto tra l’altro Il ragazzo

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che sapeva volare), ma gli altri interpreti della serie sono stati meno fortunati.Tra l’altro, spesso si avvicendavano agli stuntman e alle varie comparse che in-dossavano la maschera nelle scene d’azione o nelle cadute più pericolose. Così,Myers è davvero chiunque e nessuno, come molti serial killer. E i tentavi di u-manizzazione compiuti nel quinto capitolo della saga non hanno cambiato moltoa questo proposito. In Halloween 5 vediamo Myers togliersi la maschera e a-sciugarsi una lacrima, e assistiamo alla interpretazione accurata di Don Shanks,abile come mimo e quindi più a suo agio dei suoi predecessori nei panni delserial killer mascherato.

Ma Michael Myers è rimasto un ombra, anzi “the Shape” come è statodefinito il personaggio fin dalla sua prima apparizione. Una forma indistinta.

Filmografia

1978 Halloween (Halloween, la notte delle streghe)di John Carpenter con Nick Castle

1981 Halloween II (Il signore della morte)di Rick Rosenthal con Dick Warlock

1988 Halloween 4: The Return of Michael Myers (Halloween 4)di Dwight H. Little con George Wilbur

1989 Halloween 5: The Revenge of Michael Myers (Halloween 5)di Dominique Othenin-Girard con Don Shanks

1996 Halloween: The Curse of Michael Myers (Halloween 6: La maledizione diMichael Myers)di Joe Chappelle con George Wilbur

1998 Halloween: H20 (Halloween, 20 anni dopo)di Steve Miner

Sito Internetwww.halloweenmovies.com

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Jason

Banale, grossolano, dedicato al pubblico minorenne dei drive in, Venerdì 13 etutta la sua progenie include in sé l’intero catalogo del cinema dedicato al serialkiller. È una sorta di dossier del crimine cinematografico, che della sua serialitàfa il punto di partenza per un immenso elenco di atrocità riprese nel dettaglio.La morte messa in scena dalla serie di Venerdì 13 è talmente ripetitiva da farperdere ogni impatto emotivo alla trama, alla storia: quel che conta è l’attesadella nuova trovata degli sceneggiatori per gli omicidi compiuti dal pazzo Jason(107 vittime, secondo il conteggio effettuato dal sito web a lui dedicato). Il filoconduttore, flebile, è proprio lui, l’assassino, ma la reiterata macelleria di cui ècapace gli fa perdere ogni identità, lo fa diventare solo un prolungamento umanodel coltello o dell’ascia, o di qualsiasi altra arma utilizzi per uccidere.

Jason è un diverso, un ragazzo handicappato che minaccia altri ragazzi. Inquesto è il serial killer più reazionario, fatto per rilanciare paure conservatriciindirizzate agli adolescenti americani.

Vuole nascondere la propria diversità e la propria bruttura, e per questoindossa una maschera da hockey. La sua figura storpiata viene vista quasiesclusivamente nel primo film della serie, negli ultimi fotogrammi, quando Jasonriemerge dalle acque del lago per ghermire Alice, l’ennesima vittima. Poi lamaschera calerà sul viso di Jason, e le sue fattezze diventeranno irrilevanti negliepisodi successivi della serie. Non è la sua faccia ad essere importante, perchéquesto è il serial killer senza identità.

Solo nei primissimi episodi si sottolinea l’età di Jason, cioè la comunanza trale vittime (tutte teen-ager) e l’assassino. Poi Jason è solo un nomeconvenzionale, e diventa soprattutto una maschera. Per questo motivo l’attoreche impersona Jason è cambiato nei vari film di Venerdì 13: quello che importasono le azioni compiute da Jason, non il personaggio che le compie.

Dalla tradizione del serial killer Jason eredita una madre pazza e assassina. Èlei, ribaltando lo schema di Psycho, che commette i delitti nel primo episodiodella serie, mentre il figlio Jason è già morto da vent’anni, annegato nelle acque

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di Crystal Lake. Quando salta fuori dal fondo del lago, Jason è poco più che unaapparizione, forse non esiste nemmeno, ma è solo immaginato dalla sua vittima.

Al contrario di Norman Bates, che uccideva su istigazione della madre morta,nel primo Venerdì 13 è il figlio Jason, defunto, che sussurra alla madre l’ordinedi uccidere. Il suo invito “Ki... Ki... Ki... Ma... Ma... Ma...”, sintesi di “Kill,Mommy!” (uccidi, mamma!), è diventata anche il leit motiv delle colonnesonore di tutta la serie, in un coretto macabro scritto dal compositore HarryManfredini.

Ma la saga Venerdì 13, sulla base del successo del primo film, aveva bisognodi un serial killer in carne ed ossa, per quanto avvolto da resurrezionisoprannaturali. Così Jason risorge in L’assassino ti siede accanto, la secondapuntata della serie. Per risolvere il problema del volto di Jason, lo si copre conun cappuccio: la maschera da hockey non è ancora venuta in mente aglisceneggiatori. E Jason si avvicina ancora di più al suo predecessore NormanBates. Ora che la madre è morta può imitare l’assassino hitchcockianocustodendo con cura la testa avvizzita della madre, tra candele votive e offerterituali.

Tuttavia le efferate imprese di Jason non hanno nessuna spiegazionepsicanalitica, e del resto lui stesso è una sorta di zombi, risorto non si sa perquale motivo. I suoi crimini sono totalmente gratuiti, se si esclude una certainclinazione repressiva e sessuofobica. Appena i ragazzi che si avvicinano alsuo rifugio in riva al lago trasgrediscono qualche proibizione, la mannaia diJason e le sue innumerevoli “armi bianche” calano su di loro, massacrandoli.Giovanissime coppie in amore vengono trafitte, ragazzi troppo inclini aglischerzi pesanti sono dilaniati, adolescenti che non rispettano le messe in guardiadegli adulti finiscono sventrati.

La scelta del luogo dove Jason agisce è stata una grande trovata deglisceneggiatori. Si tratta di un bosco vicino a un laghetto, dove i ragazzi vanno ingita. È la tipica sede per le tensioni di un adolescente: il distacco dalla famiglia, ilviaggio, i pernottamenti fuori casa, l’autonomia che è anche solitudine e pauradell’imprevisto e del proibito.

Da coetaneo impazzito, Jason diventa incarnazione dell’immaginario puniti-vo di adulti repressori. E allora, nel terzo episodio, cala la maschera da hockey,per nascondere definitivamente il viso e l’età dell’assassino. Ed è questa figura

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mascherata a diventare il marchio di fabbrica della serie: con la maschera da ho-ckey è anche la statuetta smontabile di Jason, prodotta per i fan più accaniti.

Come spesso accade quando un filone segna il passo e mostra elementi dicrisi, i produttori girarono Venerdì 13 parte III in tre dimensioni, per attrarrecon questo espediente gli spettatori che già alla seconda puntata nonmostravano un interesse travolgente per Jason. Il 3D non bastò, e si decise ditentare l’ultima carta, il “capitolo finale”, con un quarto episodio in cuifinalmente Jason viene distrutto, grazie a un ragazzino appassionato di horror,Tommy Jarvis.

Imprevedibile, il box office ricominciava a incoraggiare i produttori, e nel girodi un anno apparve nelle sale il quinto capitolo di Venerdì 13. Ora l’età di Jasonnon ha davvero più importanza: sotto la maschera da hockey questa volta sinasconde un padre di famiglia, diventato folle per la scomparsa del figlio.

Con il sesto episodio, poi, la successione di delitti e di squartamenti approdaall’umorismo esplicito. La vena ironica che si era inoculata negli episodiprecedenti diventa palese humour noir. È l’ultimo scontro tra Jason e TommyJarvis, il giovanotto che nei precedenti due film aveva dato del filo da torcereall’immortale serial killer. Il film successivo, il settimo, vede una ragazza conpoteri soprannaturali nella parte dell’antagonista “buona” di Jason. Lo scenariotorna ad essere quello di Crystal Lake, ma presto i produttori faranno aggirare illoro assassino di successo tra le strade di New York. Alle soglie degli anniNovanta il serial killer non è più annidato nei boschi di Crystal Lake, nel motelfuori mano gestito da Norman Bates o nel deserto del Texas della famiglia con lasega elettrica. Il serial killer è in città, e Jason si sposta a Manhattan percontinuare i suoi delitti, nell’ottavo capitolo della serie. L’attore è Kane Hodder,che riappare anche nella nona avventura Jason Goes to Hell: ormai Jason ètalmente cresciuto che può essere interpretato sullo schermo da un vero eproprio gigante, un attore alto quasi due metri, ben diverso dal ragazzinomacilento e con la testa deforme che emergeva dalle acque del lago nel primoepisodio. La ricetta però è sempre la stessa, ben sintetizzata dallo sceneggiatoreDean Lorey: “Jason come personaggio principale, un mucchio di ferite emacelleria, un po’ di nudo: le cose che sono sempre piaciute ai fans di Venerdì13.” [dichiarazione riportata da Marc Shapiro, I Wrote For A Zombie, in“Fangoria” n.126, september 1993]

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E la saga di Jason non sembra destinata a finire. Da tempo è in cantiere JasonX e soprattutto si lavora a un futuro Jason vs. Freddy, dove i due grandiassassini della serie Friday the 13th e Nightmare dovrebbero incontrarsi.

Filmografia

1980 Friday the 13th (Venerdì 13)di Sean Cunningham con Ari Lehman

1981 Friday the 13th Part 2 (L’assassino ti siede accanto)di Steve Miner con Warrington Gillette III

1982 Friday the 13th Part 3 - 3D (Week-end di terrore)di Steve Miner con Richard Brooker

1984 Friday the 13th - The Final Chapter (Venerdì 13 capitolo finale)di Joseph Zito con Ted White

1985 Friday the 13th Part 5 - A New Beginning (Venerdì 13: il terrore continua)di Danny Steinmann con Richard Wiand

1986 Friday the 13th Part 6: Jason Lives (Venerdì 13 parte VI: Jason vive)di Tom McLoughlin con C.J. Graham

1988 Friday the 13th Part 7 - The New Blood (Venerdì 13 parte VII - Il sanguescorre di nuovo)di John Carl Buechler con Kane Hodder

1989 Friday the 13th Part 8: Jason Takes Manhattan (Venerdì 13 parte VIII.Incubo a Manhattan)di Robert Hedden con Kane Hodder

1993 Jason Goes to Hell: The Final Friday (Venerdì 13 parte IX: Jason vaall’inferno)di Adam Marcus con Kane Hodder

Sito Internetwww.fridaythe13thfilms.com

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Freddy

Il personaggio di Freddy Krueger nasce grazie al regista Wes Craven. Sfuggito auna dura educazione calvinista, Craven giunge negli anni Settanta alla notorietàcon L’ultima casa a sinistra (1972), un film prodotto proprio da quello stessoSean Cunningham che in veste di regista ha inaugurato la serie Venerdì 13 (e delresto Craven e Cunningham avevano lavorato insieme anche per un vecchiodocumentario sexy: il nesso con il porno è una costante tra gli autori di film“alla lama di coltello”).

L’intuizione seriale di Craven ha avuto tanto successo che non solo leimprese di Freddy sono arrivate alla sesta puntata cinematografica, ma si sonoinstallate anche sullo schermo televisivo con una serie di telefilm in cuil’assassino dal volto ustionato è volta a volta protagonista eospite/presentatore.

Freddy Krueger è il maniaco di Elm Street, una strada di villini per bene dellacittadina di Springwood, è il criminale che uccideva e torturava bambini. Freddyritorna dopo venti anni, per continuare ad uccidere impiantandosi nei sogni diadolescenti, e per continuare a spaventare i bambini che cantano filastrocche sulsuo nome (sulla base di un motivetto scritto dallo stesso Wes Craven).

Per colpa dell’assassino che ossessiona i sogni a poco a poco Springwood sispopola, non nascono più bambini, gli adolescenti diminuiscono. Con il suovolto ustionato, dopo che i genitori delle sue vittime gli hanno dato fuoco in unacaldaia, Freddy incarna le paure dell’inconscio, i terrori che riemergono nei“brutti sogni”, il pericolo che attraversa le menti di bambini e adolescenti, senzaabbandonarli nemmeno da adulti. Freddy è l’orco dei primi incubi infantili, maanche la paura concreta che si installa nella vita quotidiana: è l’autista dipullman impazzito che porta alla catastrofe, per esempio.

Non solo ciò che Freddy fa è terribile, ma anche ciò che Freddy è, soprattut-to a causa del viso sfigurato dalle bruciature, opera del mago del make up DavidMiller, già curatore di Terminator. La “maschera” di Krueger, tra l’altro, peggio-rerà nell’orrore nel corso degli episodi successivi della serie, fino a rivelare per-sino un cervello semiesposto, grazie al talento congiunto di Kevin Yagher e

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Mark Shostrom, poi di David Miller. Da complicato trucco facciale, che neces-sitava di ore ed ore di lavorazione, la maschera di Freddy Krueger si va facendosempre più semplice da applicare, anche per accelerare i tempi di produzionedelle innumerevoli sequele. I più acuti appassionati della serie Nightmare in ElmStreet riescono persino a riconoscere dalle fotografie di Freddy le differenze trale varie puntate, identificando i cambiamenti occorsi nel naso, nel cranio, nelleustioni, nel collo...

Se i parenti cinematografici di Freddy necessitano in genere di una semplicemaschera calata sul volto (da manichino per Myers, da hockey per Jason, dipelle cucita per Leatherface), il protagonista dei delitti in Elm Street èinseparabile dal suo viso devastato dalle fiamme. Per il terzo episodio dellaserie, ad esempio, furono utilizzati materiali davvero particolari per il make up,“la Plastilina Roma (un’argilla molo costosa), una verniciatura in Alcote, variesezioni in schiuma di lattice, ben 355 zone auto-adesive, oltre ai più tradizionalitrucchi e cerone per armonizzare il tutto.” [dal dossier Freddy Krueger,compagno infernale, in “Nosferatu” n.3, settembre 1990]

L’arma prediletta da Freddy Krueger è un guanto metallico conprolungamenti in lame d’acciaio, inventato dall’esperto di effetti speciali JimDoyle. Con gli artigli di questo guanto a lame, che ha costruito da sé, Freddydevasta le camere da letto, lacera stoffe e carne. E con i suoi poterisoprannaturali deforma orrendamente i corpi delle vittime, entra negli oggetti(celebre la sequenza in cui la sua lingua spunta nel microfono del telefono). Lasua cattiveria è tale che crea delle pizze con i volti delle sue vittime.

Chi è stato ammazzato da Freddy continua ad albergare nel suo corpo,appare imprigionato nel suo stomaco, piange e si dibatte nella gola e nel toracedell’assassino. E viceversa Freddy abita i corpi di chi vuole perseguitare, puòapparire all’improvviso dall’interno di una vittima, fuoriuscendoneorrendamente. Non si ferma di fronte a nulla, e arriva a infierire su un sordo,staccandogli un orecchio e torturandolo con il suo stesso apparecchio acustico.

La forte personalità dell’assassino della serie Nightmare in Elm Street neces-sitava di un interprete all’altezza del compito. Per questo buona parte del meri-to per il successo della serie va a Robert Englund, che ha incarnato Freddy findalla sua prima apparizione. Identificato completamente con il personaggio, En-glund ha però giocato con la sua “tipizzazione” senza le preoccupazioni di tanti

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altri attori. Ma anche per Englund, arrivato ormai al settimo film della serie, so-no sorte alcune complicazioni. L’attore ha dichiarato: “Io padroneggio sostan-zialmente il personaggio, tanto che mi sto dimenticando di recitarlo. Quando so-no sotto quel trucco, mi sento come se potessi dire qualsiasi cosa a chiunque.Quando sono Freddy, posso bestemmiare davanti ai bambini e poi andarmenevia. Una volta che Nightmare è finito, se io bestemmio davanti ai bambini pro-babilmente finisco in manette.” [dichiarazione raccolta da Marc Shapiro,Freddy’s Dead, in “Fangoria” n.107, October 1991]

Freddy Krueger è stato il primo serial killer cinematografico a diventareoggetto di culto, con i suoi fan club, la moltiplicazione di gadget e oggetti dacollezionare legati alla figura dell’assassino, la dedizione all’attore che lointerpreta. Sono andati in commercio pupazzi montabili di Freddy, giochi datavolo dedicati alle sue imprese omicide, maschere in lattice con le sue fattezze.La fotografia di Freddy Krueger in copertina è stata una garanzia di venditeassicurate per tutte le riviste specializzate, in America come in Europa. El’attrattiva del serial killer che abita negli incubi non si è ancora prosciugata, ilrituale delle sue continue resurrezioni è forse destinato a continuare.

Di fronte a Krueger si ha paura (perché può apparire ovunque, capace dimetamorfosi come è) ma si ha anche complicità piena.

In un cinema di Baltimora dove ho visto la prima di Nightmare 4, adesempio, la platea incitava il nostro assassino, durante le sue più terribili azioni,al grido di “Fred-dy! Fred-dy!”. E gli sceneggiatori hanno capito questacomplicità tra lo spettatore e l’omicida, facendo rivolgere Freddy direttamenteal pubblico con ammiccamenti e strizzate d’occhio.

Il Freddy di Englund destava complice simpatia già nella prima pellicola dellaserie, quando si accanisce sugli amici della giovane Nancy Thompson. E Freddyè un serial killer che risorge: nel secondo episodio torna a Elm Street, nelle stes-se abitazioni che aveva già sconvolto con le sue imprese precedenti, e si impa-dronisce dei sogni e del corpo di una ragazzina, violando l’intimità di una cop-pietta di innamorati. In un itinerario di avvenimenti senza grande rispetto per glispostamenti temporali, il terzo episodio vede poi una Nancy cresciuta e diven-tata dottoressa. Grazie alla sua esperienza “sul campo” si prende cura di altriragazzi che sognano orrori. Una suora rivela a lei e al suo assistente la vera sto-ria di Freddy Krueger, contribuendo ad accentuare lo scavo “psicologico” del

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personaggio. Scopriamo così che Freddy è il frutto di una violenza di gruppo suuna suora da parte di alcuni internati in un manicomio...

Grazie a una fanciulla dotata di poteri soprannaturali che agiscono, comequelli di Freddy, nel sogno, il mostro che abita negli incubi viene sgominato eseppellito, ma presto tornerà a uccidere e perseguitare gli adolescenti,risorgendo dalla terra di uno sfasciacarrozze: nel quarto episodio è una ragazzacon il significativo nome di Alice a ricacciare Freddy nell’aldilà, dopo averintroiettato le energie benefiche dei propri amici ammazzati dal serial killer. Nelquinto episodio la stessa Alice viene addirittura ingravidata da Freddy, dopoaver perso il fidanzato per mano del mostro. E in questa puntata non potevamancare una apparizione della mamma di Freddy, in forma di spettro, dato chetutti i serial killer cinematografici prima o poi svelano un’infanzia difficile, unrapporto incestuoso con la madre.

Le dita a rasoio di Freddy tornavano nel sesto episodio, minacciando sia isoliti teen-ager che alcuni adulti, tanto per allargare il target degli spettatori. Nelfilm, diretto da una donna (Rachel Talalay, che ha seguito la troupe della seriefin dall’inizio, a fianco di Craven), come alla conclusione di una psicoterapiasarà uno psichiatra a determinare la sconfitta di Freddy, aiutando unaprotagonista del film a ripercorrere il proprio passato e a liberarsi di ciò che laossessiona.

In questo episodio, insieme alla consueta quantità di corpi smembrati siassiste a un viaggio in tre dimensioni nel cervello di Freddy: è l’estremaconferma di quanto la serie Nightmare sia il tipico prodotto del cinema horrordegli anni Ottanta, che affidava le sue fortune soprattutto agli effetti specialisempre più sofisticati. Così, a fianco degli esperti di make up per la faccia diFreddy, la serie ha avuto bisogno di un team composito di artisti degli effettispeciali, mettendo al servizio dei vari Nightmare diversi studi specializzati,quasi sempre coordinati da John Buechler.

Con Freddy Krueger il cinema fantastico (fondato sull’irrealtà) e lo psycho-thriller (che ha bisogno di crudezza materiale) si incontrano e si fondono. RobertEnglund, ormai celeberrimo come interprete di Freddy, ha spiegato meglio di o-gni altro questa fusione, in una intervista apparsa sul periodico francese“Vendredi 13” (titolo di cui è inutile sottolineare la sintomaticità): “Alla basedel successo di Freddy credo vi sia il fatto che si tratta di un essere sovversivo

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con una certa sensibilità punk. Freddy è diventato un simbolo: in camera si af-figgono suoi poster. Credo che sia a causa del suo look, con il suo cappello flo-scio e il suo volto bruciato. Non dimentichiamo poi il suo senso dell’umorismo.Tutti questi elementi si alleano all’aspetto illusione/realtà dei film... C’è una sor-ta di atmosfera tipo Ai confini della realtà, dove non si sa più se ci si trova in unsogno o nella dimensione reale. Arriverei a dire che è questa la ragione principaledel successo di Freddy.” [Un succes a double tranchant, in “Vendredi 13” n.6,décembre 1988]

E proprio il sovrapporsi tra realtà e illusione è stata al centro di Nightmare:nuovo incubo, con il ritorno di Wes Craven alla regia. Il film immagina che si stiaper girare una nuova pellicola della saga di Freddy, e mette in scena un’attriceapparsa nei primi episodi della serie, lo stesso Englund e il regista Craven. Ipreparativi del nuovo film, però, sono turbati dagli incubi dell’attrice, in cui leappare la figura persecutoria di Freddy. E così, nel gioco tra i due piani del realee dell’irreale, Freddy si prende l’ultima vittoria, sconvolgendo definitivamenteogni certezza sulla distinzione tra fiction e realtà.

Filmografia

1984 A Nightmare on Elm Street (Nightmare, dal profondo della notte)di Wes Craven

1985 A Nightmare on Elm Street 2: Freddy’s Revenge (Nightmare 2, la rivincita)di Jack Sholder

1987 A Nightmare on Elm Street 3: Dream Warriors (Nightmare 3: I guerrieri delsogno)di Chuck Russell

1988 A Nightmare on Elm Street 4: The Dream Master (Nightmare 4: Il nonrisveglio)di Renny Harlin

1989 A Nightmare on Elm Street 5: The Dream Child (Nightmare 5: il mito)di Stephen Hopkins

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1991 Freddy’s Dead: The Final Nightmare (Nightmare 6 - La fine)di Rachel Talalay

1994 Wes Craven’s New Nightmare (Nightmare: nuovo incubo)di Wes Craven

n.b.: in tutti i film Robert Englund interpreta Freddy

Sito Internetww.nightmareonelmstreet.com

Hannibal

Con la commistione definitiva tra il thriller e l’horror, realizzata dalla serieNightmare in Elm Street, con il connubio tra il film alla lama di coltelloimpiantato nella concretezza del delitto e il fantastico sfrenato, si aprivano glianni Novanta. Ogni genere e ogni tradizione del passato sembravano in séesauriti, e trovavano linfa solo nella contaminazione reciproca e nell’intreccio trai propri temi costitutivi. Arrivati a questo punto limite, si apriva un periodo perinventare finalmente qualcosa, e non limitarsi al riciclo e alla illimitatariproposizione seriale.

Con Il silenzio degli innocenti di Jonathan Demme, e con il trionfo del re ditutti i serial killer, Hannibal Lecter, si voltava finalmente pagina. Nato dallapenna di Thomas Harris, nei due romanzi Red Dragon e The Silence of theLambs, Hannibal Lecter è uno psichiatra e un cannibale, ed è confidenzialmentechiamato “Hannibal the Cannibal”: non a caso, il terso episodio letterario che lovede protagonista prenderà il suo nome come titolo, semplice ed esplicito,Hannibal.

Hannibal Lecter ha al suo attivo già tre apparizioni cinematografiche, tra loroperò incommensurabili. La prima apparizione è stata in Manhunter di MichaelMann, dove si limitava a qualche consiglio da esperto della psiche umana, chiu-so in una prigione di stato. Il vero serial killer protagonista di Manhunter non e-ra Lecter, ma un gigante pelato e iperviolento. Il Lecter di Mann era interpretato

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dall’attore Brian Cox, e appariva vestito di bianco, in una tuta da carcerato, im-prigionato senza speranza nella propria cella.

Con la regia di Jonathan Demme, invece, Lecter acquista le fattezze diAnthony Hopkins, e si dimostra superiore al suo predecessore già per lecaratteristiche della propria prigione. Lecter/Hopkins, infatti, è rinchiuso in unagabbia di vetro, inventata dallo stesso Demme in collaborazione con lascenografa Kristi Zéa. La prigione di Lecter non poteva avere tradizionalisbarre, e i suoi colloqui con l’esterno non potevano avvenire in un banaleparlatorio, troppo visto nei film gialli di tutti i tempi. Per un criminalestraordinario come Lecter serviva una cella speciale. Da questo confinamentototale, fuori dal mondo che si sente minacciato dalla sua diversità pericolosa,Lecter agisce e condiziona.

Hannibal Lecter è il primo serial killer che aiuta la cattura di un suo simile, ilpluriomicida Gumb, detto Buffalo Bill, ossessionato dalla sua incerta sessualitàe impegnato quindi a scuoiare donne per cucirsi una pelle di donna sulla propria.Ma Gumb è l’esatto opposto di Lecter. Isterico quanto Lecter è tranquillo efreddo, tormentato quanto Lecter è lucido e a suo agio nei panni di cannibale,rozzo e volgare quanto Lecter è sopraffino ed educato.

Né la collaborazione che Lecter offre alla polizia per scoprire l’identità diBuffalo Bill è un cedimento ai buoni sentimenti o un patteggiamento con chi lotiene prigioniero. No, si tratta di una sfida. E verso le autorità che lo tengono ingabbia Lecter non è certo tenero. I due poliziotti che lo custodiscono vengonouccisi a morsi e spellati, il suo aguzzino principale scapperà per il mondo dopol’evasione di Lecter, nell’incubo di esserne divorato.

L’Hannibal Lecter di Hopkins è un altro serial killer disgustoso eaffascinante, un mostro che attrae. Perfettamente realistico e privo di latisoprannaturali, Lecter contemporaneamente incarna il Male, il diabolico. È unoscienziato, uno psichiatra, dal quale ci si attenderebbe la cura, la guarigione deinostri mali. E invece questo dottore ha ribaltato il suo ruolo, evidenziandoneforse proprio i caratteri più veri e più nascosti insieme.

E al contrario di altri serial killer, quasi sempre giovani, Lecter è un signore dimezza età. La scelta di Anthony Hopkins si è rivelata perfetta, con quegli occhichiari penetranti e vacui nello stesso tempo, con la calma glaciale, la voceeducata, e poi gli scatti improvvisi di agilità e di crudeltà.

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Hannibal Lecter e Anthony Hopkins sono diventati ormai inseparabili, inparticolare dopo il controverso sequel Hannibal diretto da Ridley Scott, anchese sono state notate alcune fondamentali differenze con altre, passateidentificazioni tra attore e ruolo. Scrive Didier Allouch: “Voi non tratterreteniente di Hopkins uscendo dalla sala. Colui che ossessionerà le vostre notti,colui che lascerà in voi un’indicibile traccia di terrore, colui il cui sguardo vifisserà nell’oscurità, non è Anthony Hopkins, è Hannibal Lecter, Hannibal ilCannibale, il più invitante degli incubi a occhi aperti.” [D. Allouch, Hannibal leCannibale un Killer pas Psycho, in “Impact” n.32, avril 1991]

Perfetto cannibale, il suo rapporto con l’altro è estremamente violento:Lecter uccide l’altro, e poi lo mangia. Nei suoi delitti, poi, sprigiona tutta lacreatività del genio, l’immaginazione dell’intellettuale raffinato che ama l’Italia,la pittura antica, il buon vino. E che si diletta a cucinare il cervello delle vittimetenendole in vita e facendole assistere alle sue prodezze gastronomiche (comeaccade allo sventurato Ray Liotta in Hannibal).

Perfetto psichiatra, Lecter sa capire l’altro da pochissimi indizi, sa catalogaree quindi manipolare dopo un solo sguardo. Lo dimostrano i dialoghi e le intesecon Clarice Starling (interpretata da Jodie Foster e poi da Julianne Moore),giovanissima agente dell’Fbi e vera eroina dei due film. Alla fine il rapporto traLecter e la Starling è di intimità, di complice intesa, quasi di amore, sottolineatodallo sfiorarsi delle loro mani in una delle sequenze più belle del primo film.

Lo psichiatra cannibale scopre i segreti di Clarice fin dal primo incontro, apoco a poco la sottopone a una “analisi”, da vero psicoterapeuta, senzanascondere in Hannibal gli effetti di un immancabile transfer. Lecter dimostra diconoscere la psicologia femminile alla perfezione, anche quando interagisce conun’altra donna del film, la madre senatrice di una delle vittime di Buffalo Bill.

Disturbante, sgradevole, capace di non rifuggire dall’esposizione cruda di ca-daveri putrefatti e morsi cannibalici, Il silenzio degli innocenti è riuscito ciò no-nostante a vincere una valanga di premi oscar. Eppure il film non appartenevacerto alla schiera di pellicole rassicuranti, perbeniste e banali che i giurati degliAcademy Awards sembrano di solito preferire. Jonathan Demme ha da partesua sempre privilegiato i migliori B movies, gli autori misconosciuti, tanto cheha voluto rendere omaggio al grande regista di La notte dei morti viventi, George

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Romero, facendolo apparire brevemente al fianco di Jodie Foster dopo un in-contro della ragazza con Lecter.

Ma la sorpresa per i riconoscimenti “ufficiali” ottenuti dal film ha anche altremotivazioni. Il silenzio degli innocenti è uno dei rarissimi film americani delterrore in cui il serial killer non muore, ma evade e continua a uccidere. E lostesso avviene alla fine di Hannibal, per quanto con un Lecter non piùfisicamente integro.

Il finale del primo film non aveva precedenti per trasgressione alle regole delgenere, con Lecter in vestito chiaro e cappello estivo, che sta per “avere percena un amico” (il suo ex-carceriere), in un gioco di parole allusivo a un nuovopasto cannibalico. Anche i serial killer cinematografici che chiedevanocomplicità allo spettatore dovevano sempre morire alla fine del film, magari perrisorgere in una nuova puntata, ma comunque eliminati dai nostri incubi almenofino al film successivo.

Lecter invece è ancora, e sempre, tra noi.

Filmografia

1986 Manhunter (id.)di Michael Mann con Brian Cox

1991 The Silence of the Lambs (Il silenzio degli innocenti)di Jonathan Demme con Anthony Hopkins

2001 Hannibal (id.)di Ridley Scott con Anthony Hopkins

Sito Internethannibal.n3.net

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Henry

Il tratto di unione tra gli assassini immaginari del cinema fantastico e la cronacanera più brutale è offerto da Henry – Portrait of a Serial Killer, un film del 1986diretto da John McNaughton, che venne distribuito in America con quattro annidi ritardo ed è stato riproposto nelle sale con discreto successo solo dopo itrionfi del Silenzio degli innocenti. Ma nei festival specializzati, e tra il popolodei cinefili horror, Henry mieteva da più tempo i dovuti riconoscimenti (nel1990 ha ottenuto il premio per la migliore regia al festival di Sitges, e l’annodopo ha vinto il festival di Bruxelles).

Così, a cinque anni dalla realizzazione, Henry è diventato un cult e si èconquistato un posto d’onore tra gli assassini seriali cinematografici e non hamancato di suscitare il ribrezzo delle anime belle: Nanni Moretti ha enfatizzatoil suo disgusto per questo film inserendo una battuta contro Henry nel suo Carodiario.

Costato solo 100.000 dollari, il film di McNaughton narra le imprese di unvero serial killer, Henry Lee Lucas (morto di infarto in carcere, nel marzo 2001),e del suo complice Ottis Toole. Una coppia veramente terribile, e destinata agliannali del crimine di tutti i tempi. Henry Lee Lucas si è autoaccusato di 360omicidi, e c’è chi è arrivato ad imputare ai due assassini un totale di quasi millevittime. Ma forse siamo già nel terreno delle leggende metropolitane.

L’Henry del film ha il volto comune e banale dell’attore Michael Rooker, euna cadenza dialettale nella pronuncia. È uno dei tanti sbandati che popolano lenostre città, senza nessuna caratteristica evidente, nessuna trasgressionemarcata. All’inizio assomiglia a un James Dean di provincia, solitario edisincantato.

Meno efficaci, invece, gli interpreti degli altri due film che hanno messo inscena le terribili imprese di Henry. Henry: Mask of Sanity si presenta come undiretto sequel del primo film. Ritroviamo Henry “al lavoro”, intento a commet-tere omicidi nonostante abbia trovato una coppia che lo ospita benevolmentesenza sospettare la sua vera natura. L’attore che interpreta Henry ha una vagasomiglianza con Rooker, ma non eguaglia il predecessore. Senza legami con il

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film di McNaughton, ma direttamente ispirato alla vera storia di Henry Lee Lu-cas (anche se gli è stato cambiato il nome in Daniel Ray Hawkins), è inveceConfessions of a Serial Killer, assurdamente pubblicizzato con un poster in cuiappare un uomo che indossa la maschera di contenzione di Hannibal Lecter inSilence of the Lambs. Girato un anno dopo Henry, il film ha avuto a sua voltadelle traversie distributive ed è apparso solo nel 1993, esclusivamente in video-cassetta. Attraverso la confessione del serial killer si torna indietro alla sua pri-ma giovinezza, permettendo di comprendere le radici della sua follia omicida.Per il resto, gli omicidi assomigliano molto a quelli del film capostipite.

Ma torniamo a Henry – Portrait of a Serial Killer, perché è questa lapellicola che ha lasciato un segno nell’immaginario. Apparentemente tranquillo,Henry svolge il suo mestiere: disinfesta le case da insetti e topi. Nel tempolibero, con la stessa imperturbabilità, uccide tanto delle malcapitate prostitutequanto intere famiglie. Tra i grandi mostri dell’immaginario, quindi, Henryassomiglia soprattutto al licantropo, che sente sorgere in sé una bestialitàincontenibile, e si tramuta in un essere sanguinario. Ma del licantropo Henrynon ha certo i tormenti interiori, il disgusto per le sue azioni incontrollabili: tranormalità e delitto, in Henry, c’è perfetta continuità. Quando si guarda allospecchio, non ci sono peli che crescono sul suo volto o mutazioni orribili inbestia: la sua espressione è sempre la stessa, la sua follia è sempre presente,inamovibile.

Henry però non perde il controllo, anche quando sente l’irrefrenabileimpulso alla violenza. Ha sviluppato un suo specifico metodo criminale, perchénon agisce mai nello stesso luogo né con la stessa tecnica di omicidio. Ed è unserial killer da manuale: uccide senza nessun motivo, preferibilmente personedel tutto sconosciute (ma in momento di confidenza ammette di avereammazzato anche la propria madre...).

I delitti di Henry iniziano nelle strade degradate di Chicago, e poi si irradianoin un viaggio mortale che attraverso lo spostamento in automobile trasportamorte: la morte data dall’assassino è punteggiata dalle autostrade, come la mortesubita dalle vittime le cui carcasse vengono caricate in auto e poi gettate sullastrada come spazzatura, come detriti. Henry, del resto, non potrebbe che esse-re americano: “Se la Vecchia Inghilterra è stata la ‘culla’ ideale dei mostri solitarie sanguinari ottocenteschi – che hanno trovato nel romanzo gotico la loro aulica

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celebrazione – l’America, nuova Terra Promessa del successo edell’industrialismo rampante, con le sue contraddizioni e schizofrenie, rappre-senta ormai da parecchio ‘l’ambiente naturale’ dei maniaci assassini di fine mil-lennio.” [Aldo Musci, Orrori metropolitani, in “Ordine pubblico” n.9, settem-bre 1992]

Questi assassini metropolitani degli States possono essere degli yuppieannoiati, come nel romanzo di Bret Easton Ellis American Psycho e nel filmomonimo di Mary Harron, ma possono essere anche figure di neo-proletariato edi emarginazione come Henry. Il delitto seriale, insomma, si dimostrapienamente interclassista. Ma Henry è a suo modo un genio del crimine, econtemporaneamente una vittima della sua stessa pazzia. Il percorso di sanguedi Henry sembra senza fine, e arriva a sterminare anche gli ultimi partner, leuniche persone che sembravano contare qualcosa per l’assassino. La solitudinetorna ad essere globale, resa sempre più tale dalle esplosioni psicotiche diviolenza che Henry non può dominare, nonostante il superficiale cinismo e lalucidità nel non lasciare tracce.

Come si è detto, Henry ha il volto comune di qualsiasi drop-out che si aggirinelle metropoli, ma l’abilità del regista McNaughton è stata nel dedicarsi concura anche alla definizione più avanzata del ruolo delle vittime. Nel film Henrysi ribalta infatti una consuetudine del cinema horror imperniato su assassiniseriali: non è tanto il serial killer ad essere inessenziale nell’identità e persino nelvolto, ma è la vittima ad essere nulla. Se attori diversi hanno potuto recitare laparte di Jason o di Leatherface, in Henry tre vittime femminili sono tutteinterpretate da una stessa attrice (da uno stesso corpo), Mary Demas. Quel checonta è vedere delle membra martoriate, non un viso dotato di espressioneindividuale o di una identità. Il vero serial killer non sa “che faccia abbia” la suavittima.

Filmografia

1986 Henry - Portrait of a Serial Killer (Henry Pioggia di sangue)di John McNaughton con Michael Rooker

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1987 Confessions of a Serial Killer (id.)di Mark Blair con Robert A. Burns

1996 Henry: Mask of Sanitydi Chuck Parello con Neil Giuntoli

Sito Internetwww.houseofhorrors.com/henry.htm

Progenie di assassini seriali:Scream e company

Il modello del film su un serial killer che dà origine a uno o più sequel, creandouna catena di episodi, seriali come gli omicidi su cui si incentra, ha avuto in annirecenti una nuova impennata.

Il merito per questa rinascita del serial killer cinematografico è di KevinWilliamson, giovane sceneggiatore che ha convinto la americana DimensionFilms, filiale della Miramax, a riesumare il filone affidando a Wes Craven la regiadi Scream. Il successo straordinario di Scream e dei suoi due seguiti ha avviatouna nuova stagione di serial killer a caccia, preferibilmente, di giovani prede.

Il trionfo tra il pubblico del primo episodio di Scream è stato una sorpresa,anche perché il film aveva una sola star da grosso budget, Drew Barrymore (cheperò muore all’inizio del film), la stellina emergente Neve Campbell comepersonaggio principale (nella parte di Sidney Prescott), e varie facce televisive,che culminavano in Henry Winkler, già Fonzie nei telefilm della serie HappyDays, ma non più sulla cresta dell’onda.

In realtà Scream compiva il miracolo di rivolgersi contemporaneamente aicinefili (solleticati dal gioco continuo di citazioni) e al pubblico adolescente (chesi può identificare nei ragazzi del college di una cittadina californiana). E perquesto miracolo non servivano grandi investimenti produttivi, ma solo ideeoriginali.

Fin dalle prime sequenze incontriamo un serial killer appassionato di cinemahorror, che sottopone a quiz telefonici le sue vittime. La prima a cadere è una

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ragazza che non sa rispondere a una domanda su Venerdì 13, poi seguirannosvariati delitti, tutti ispirati ai film più celebri del genere. La strada scelta èquella della giustapposizione di situazioni umoristiche e ironiche con classichescene di omicidio. Ma soprattutto con un continuo gioco di citazioni e persinoautocitazioni (Wes Craven fa una breve comparsata e non mancano le allusionialla sua serie Nightmare). Si citano icone del terrore visuale (l’assassino agiscecoperto da una maschera ispirata a L’urlo di Edward Munch) e cinematografico(nel finale, ad esempio, i delitti di Halloween si confondono con quelli di Scre-am).

Nella serie Scream il tratto d’unione non è l’assassino, ma la vittimamancata. Il viso di plastica di Neve Campbell ritorna in tutta la trilogia, mentredell’assassino torna solo la maschera, indossata da altri carnefici. C’è in realtàun ulteriore passaggio di fase nell’identificazione tra lo spettatore e l’assassino.Chi guarda il film apparentemente si colloca dal punto di vista della vittima, necondivide le paure. In realtà, a ben analizzare, lo spettatore si trova nella stessacondizione dell’assassino: vede la vittima senza essere visto. Noi vediamo,come l’assassino nascosto, la vittima che risponde al telefono, ne seguiamo glispostamenti, esattamente come il killer. Lo spettatore, dunque, viene posto inuna situazione intermedia, tra l’assassino e la vittima: non sa dove si nasconde ochi è l’assassino, ma osserva chi sta per morire, proprio come l’assassino.

Tuttavia lo sceneggiatore Kevin Williamson ha sottolineato in particolare ilati umoristici delle situazioni-tipo del filone. Uno dei protagonisti, ad esempio,urla: “Non uccidermi, voglio tornare in un sequel!”. La strada parodistica saràaccentuata in Scream 2, dove ricompaiono alcuni degli attori del primo episodioe dove si ripresentano le citazioni (una tv trasmette Nosferatu di Murnau). Tut-to comincia in una multisala cinematografica mentre si proietta Stab, un film chenarra le stesse vicende del primo Scream: ed ecco che la sovrapposizione dipiani, cara a Craven, compare subito, con un omicidio che avviene contempora-neamente a quello che si vede sullo schermo della multisala. Il meccanismo simoltiplica, poi, con Scream 3, sempre diretto da Craven, ma questa volta conuna sceneggiatura di Ehren Kruger, basata sui personaggi creati da Kevin Wil-liamson. Dalla sala cinematografica che proiettava Stab si passa agli studioshollywoodiani dove si sta girando Stab 3, un ulteriore film che si basa sugli orri-bili delitti della cittadina di Scream, perfettamente ricostruita sul set. C’è di

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nuovo Sidney Prescott, che ora vive solitaria tra i monti del Nord California,sempre ossessionata dalla morte della madre. E ci sono di nuovo i delitti, checoinvolgono gli attori del film in lavorazione.

Scream 3 accentua gli elementi farseschi della serie, ma non rinuncia astrizzare l’occhio al cultore di horror. Vengono persino enunciate le tre regoledello “slasher movie”. Uno: l’assassino ha sempre qualcosa di soprannaturaleche può impedire di ucciderlo o eliminarlo definitivamente. Due: non c’èpersonaggio che non possa morire, anche il protagonista principale. Tre: tuttodeve essere spiegato da un avvenimento accaduto in precedenza, nel passato.Effettivamente, queste sono le regole che abbiamo incontrato nelle grandi saghedel serial killer cinematografico: valgono certamente per le serie Venerdì 13,Halloween e Nightmare, mentre la prima delle tre regole non è rispettata dallestorie di Norman, di Hannibal e di Henry, troppo realistiche per consentirevirate soprannaturali. E nemmeno la serie Scream, a ben vedere, rispetta le treregole, perché – in perfetto stile craveniano – si colloca piuttosto nella zona diconfine tra fiction e realtà.

In questo senso, hanno destato scalpore le notizie secondo cui la serieScream avrebbe anche originato dei veri delitti, confermando drammaticamentedi basarsi sull’intreccio tra realtà e finzione. Nell’aprile 2000, a Fontenay-aux-roses (alla periferia di Parigi), un sedicenne appassionato di film dell’orrore haaccoltellato i genitori dopo aver visto Scream 3 al cinema. Appena tornato dallaproiezione, così almeno raccontano i giornali, il giovane Nicolas ha indossatocappa nera e maschera bianca come l’assassino di Scream, poi si è nascosto e haatteso il rientro di mamma e papà. Dopo averli accoltellati e lasciati morenti inun lago di sangue, il ragazzo è saltato dalla finestra della sua camera ed èscappato. Ma al contrario che sullo schermo, i due genitori feriti si sono salvatie il giovane assassino è stato catturato.

Queste ripercussioni sulla cronaca nera non hanno però fermato la creativitàdi Kevin Williamson. Prima di passare dietro la macchina da presa per dirigereKilling Mrs Tingle (2001), dedicato a una sua professoressa di inglese che loperseguitava da ragazzo, Williamson infatti ha creato un altro serial killer chetorna in due episodi: Ben Willis, vestito da pescatore, con impermeabile e cap-pellone nero e dotato di uncino micidiale. Il suo esordio è in So cosa hai fatto (IKnow What You Did Last Summer), regia di Jim Gillespie,al suo primo film.

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Anche qui, come per Scream, gli interpreti sono stati scelti tra le giovani stardella tv, in particolare Sarah Michelle Geller, popolare per il suo ruolo di Buffy,l’ammazzavampiri, o come la formosa Jennifer Love Hewitt, già cantante.

Per festeggiare la ricorrenza del 4 luglio, quattro ragazzi del North Carolinaappena diplomati fanno baldoria in riva al mare, amoreggiando, bevendo eraccontandosi leggende metropolitane spaventose. Al ritorno, investono unosconosciuto, ma decidono di non denunciare il fatto: tutti d’accordo, buttano ilcorpo in mare. Un anno dopo, ecco arrivare ai quattro delle lettere anonime dovesi dice “so cosa hai fatto l’estate scorsa”. Ed ecco cominciare i delitti. Un buonassassino non si lascia troppo a riposo, e infatti Willis torna a colpire in Incubofinale, dove riappare Jennifer Love Hewitt nella parte della ragazza scampataalla morte, ma ora perseguitata da orribili incubi.

Sull’onda del successo di Scream e di So cosa hai fatto, due giovanissimi, ilregista Jamie Blanks (26 anni) e lo sceneggiatore Sylvio Horta (24 anni), hanno aloro volta tentato di rilanciare il mito del killer mascherato con Urban Legend.Questa volta il massacratore è nascosto dal cappuccio di una giacca a vento, cheindossa anche fuori stagione. Il cliché è quello consueto degli studenti minacciatida un misterioso assassino. In questo caso siamo condotti in una immaginariauniversità del New England dove ci sono tutti i “tipi” classici di queste storiegiovanilistiche, la studentessa secchiona, quella sexy, il bel ragazzo, ilgiovanotto che fa gli scherzi, ecc. A metterli di fronte ai pericoli nascostinell’ombra è un docente con le fattezze evocative di Robert “Freddy” Englund(ma nel cast c’è anche Brad Dourif). È lui che racconta la “leggendametropolitana” del professore della Pendleton University che avrebbe ucciso seistudenti molti anni prima. Il fatto è che gli omicidi cominciano ad avveniredavvero, ispirati proprio a leggende metropolitane e coinvolgendo personevicine in qualche modo a Natalie (Alicia Witt, già apparsa in Dune e Twin Peakssotto la regia di David Lynch), una delle ragazze dell’università. Nessuno lecrede, quando comincia a capire che i delitti sono collegati tra loro in modoinquietante, perché tutti respingono questa ennesima “leggenda metropolitana”.Inutile dire che l’assassino seriale armato di ascia c’è veramente e ha a che farecon la vita di Natalie. Tuttavia siamo di fronte a un assassino (questa volta alfemminile) che agisce con un preciso intento vendicativo, e non uccide “a caso”come i veri serial killer.

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Che il mini-filone di Urban Legend sia lontano dalla tradizione del film suiserial killer è confermato dal secondo episodio, Urban Legends: The Final Cut,di John Ottman. Non è un vero e proprio seguito, ma ci si limita a imitarequalche aspetto del primo film e a richiamarlo esplicitamente nel titolo. Questavolta ci trasferiamo alla Alpine University, dove una studentessa sta scrivendouna tesi sulle leggende metropolitane, mentre altri girano film horror e thrillerestremi. Presto le coltellate dei filmini studenteschi si trasformano in veriomicidi.

Urban Legends: The Final Cut non mancava di momenti ironici, nello stile ditutta questa nuova ondata di assassini a puntate. Ma Hollywood si è spinta piùoltre, fino alla demitizzazione del sottogenere. Il titolo originale dellasceneggiatura di Williamson per Scream era Scary Movie: e proprio ScaryMovie si intitola la prima parodia seriale dei killer seriali. Diretto da KeenenIvory Wayans, coadiuvato da altri fratelli Wayans, attivi da tempo nel genere,Scary Movie mette in ridicolo l’intero filone dell’horror-adolenscenziale.Cadono sotto le battute grevi del film, tra allusioni sessuali e schizzi di sangue,le serie Scream, So cosa hai fatto, Urban Legend, ma anche i film-cult TheMatrix e The Blair Witch Project. Prodotto dalla Dimension Films, la stessa deitre Scream, oltre che di Halloween H20 e The Faculty, questa farsa horror ha giàfigliato a sua volta un seguito, l’immancabile Scary Movie 2, questa voltaambientato in una casa infestata da fantasmi.

Quando un filone scivola nella parodia, per mano dei suoi stessi creatori,vuol dire che si sta arrivando a una fase di stanchezza e di non ritorno: eraaccaduto così, negli anni Quaranta, alla Universal, che lasciò i suoi celebri mostrialle gag di Gianni e Pinotto.

Tuttavia i serial killer cinematografici non sembrano ancora demoliti dallerisate di Scary Movie. Tra l’altro, non bisogna dimenticare che di recente il serialkiller è diventato anche serial televisivo, grazie ai telefilm Millennium. Curati dalcreatore di X-Files, Chris Carter, questi episodi dovevano illustrare le paure difine millennio, incentrandosi soprattutto sulla paura per eccellenza che, comeabbiamo visto, è la paura per il serial killer. Al centro dei telefilm c’èun’organizzazione segreta, “Millennium” appunto, che aiuta gli investigatorisulle tracce degli assassini seriali.

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Frank Black, un uomo apparentemente normale, con moglie e una figlia, na-sconde una incredibile capacità di rintracciare serial killer, quasi sintonizzandosisui loro pensieri più reconditi e terribili, intuendo le loro mosse quasi fossedotato di poteri paranormali. Una sorta di maledizione, che Black ha scelto dimettere al servizio di “Millennium”, staccandosi periodicamente dalla suafamiglia appena l’organizzazione lo chiama.

L’attore che impersona Black è Lance Henriksen, già visto in Terminator,Aliens e in innumerevoli B-movie a fosche tinte, e dal volto tormentato esegnato. L’interprete ideale per una serie cupa, macabra, che non risparmia allospettatore visioni sanguinarie raramente concesse dai telefilm. Cadaveri, obitori,omicidi, strade buie e piovviginose: sono queste le immagini ricorrenti diMillennium, girato con professionalità cinematografica e superiore alla media deiserial tv. Ogni episodio si snoda in modo simile. Delitti atroci, un assassinoimprendibile e minaccioso, una caccia ricca di colpi di scena e di pericoli. Ma ilmeccanismo di Millennium è troppo ripetitivo e troppo in debito con Il silenziodegli innocenti, come sottolinea Christophe Corthouts: “Nell’insieme la seriesoffre d’un serio problema di varietà. Di questo passo, la qualità di ogni tramadipende soprattutto dalla personalità dell’assassino seriale che presenta e dellasua ossessione.” [Christophe Corthouts, Les serial killers dans la petitelucarne. Lo choc de “Millennium”, in “Phenix” n. 47, Dossier Les serial killers,1998]

Eppure la violenza metropolitana di Millennium, per quanto ripetitiva, hasuscitato scandalo. Da noi, Italia 1 ha dovuto spostare la trasmissione dalle21.30 alle 22.30 dopo le proteste di alcune associazioni perbeniste. X-Files èforse più estremo e violento di Millennium, ma non parla di mostri “veri”, eallora può andare in prima serata. Il serial killer, invece, inquieta e spaventaproprio perché le sue imprese si mischiano con la realtà, con i terrori tangibili econcreti dei nostri tempi. E per le “anime belle”, allora, il serial killer è sempremeglio nasconderlo, chiudendo gli occhi davanti alla sua esistenza. O, almeno,confinandone la visione nel buio della notte, dove diventa più indistinto.

Filmografia

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La serie Scream

1996 Scream (id.)di Wes Craven

1997 Scream 2 (id.)

2000 Scream 3 (id.)di Wes Craven

La serie I Know What You Did

1997 I Know What You Did Last Summer (So cosa hai fatto)di Jim Gillespie

1998 I Still Know What You Did Last Summer (Incubo finale)di Danny Cannon

La serie Urban Legend

1998 Urban Legend (id.)di Jamie Blanks

2000 Urban Legends: The Final Cut (Urban Legend: Final Cut)di John Ottman

La serie Scary Movie

2000 Scary Movie (id.) di Keenen Ivory Wayans

2001 Scary Movie 2 di Keenen Ivory Wayans

I telefilm Millennium

1996-1999 Millennium (id.)serie tv creata da Chris Carter

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APPENDICI

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Miscellanea del serial killer

L’interesse per i serial killer è ormai un fenomeno di costume e di massa. Suquesti personaggi si è girato nel 1991 un documentario pluripremiato dall’ovviotitolo Serial Killers di Olivier Raffet a cura di Stephane Bourgoin e DominiqueMaret-Dumas. E l’assassino seriale (con il suo seguito di cronisti assetati disangue) è diventato perfino oggetto di satira a partire da una amena pellicola del1992, C’est arrivé près de chez vous (Il cameraman & l’assassino) di RémyBelvaux, André Bonzel, Benoît Poelvoorde. La caccia ai serial killer era anche alcentro della serie tv Millennium, creata da Chris Carter. E anche il teatro si èimpadronito del serial killer, tra l’altro con uno spettacolo del Berliner Ensemblededicato a Wolfgang Schmidt, pluriomicida tedesco, con Der Totmacher,ispirato a Fritz Haarmann e portato in Italia da Juri Ferrini comeL’ammazzatore, o con American Psycho inscenato dall’italiano Teatro Cargo.

Ma all’esterno delle sale cinematografiche il serial killer sta invadendosoprattutto le librerie e le edicole, diventando protagonista assoluto di unatendenza editoriale molto particolare, avviata nei paesi di cultura anglosassone edilagata anche in Europa. Si tratta di tascabili dedicati ad assassini realmenteesistiti e a clamorose indagini poliziesche tratte della cronaca.

Dopo essersi conquistato un posto nelle edicole grazie a numerosi periodicidedicati a casi polizieschi e varie criminologie, il filone “true crime” (criminevero) ha già ottenuto appositi scaffali nelle librerie, accanto ai settori dedicati algiallo o alle biografie di personaggi illustri.

La summa di questo particolare genere editoriale resta Brian Lane, WilfredGregg, The Encyclopedia of Serial Killers, Headline, London 1992. In Italia,invece, è apparsa nel 1993 la collana “I libri neri”, periodico mensile di brevedurata, con traduzioni da “true crime” americani e opere originali. Tra i primititoli, Henry Lee Lucas di Mike Cox. Significativo lo slogan promozionale:“Nulla è più terrificante della realtà”. Così come si moltiplicano gli studi suiserial killer: tra quelli di autori italiani, vanno segnalati almeno Marina Garbesi, Iserial killers, Theoria, Roma-Napoli 1996, e Aa. Vv. Vivere per uccidere –Anatomia del serial killer, Calusca, Padova 1997.

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Da parte sua la casa editrice inglese Headline, che ha pubblicatol’enciclopedia dei serial killer, ha al suo attivo anche un grosso volume sulledonne assassine (Murderous Women di Frank Jones) e una rassegna di oltre 500casi di omicidio avvenuti negli ultimi centocinquanta anni (l’ultima edizione,completamente aggiornata e riveduta si intitola The New Murderers’ Who’sWho).

E sempre a Londra è nata la casa editrice Mondo (una branca della TitanBooks) specializzata in storie vere di assassini e criminali, pubblicate in formatotascabile e stampate in decine di migliaia di copie. Il simbolo della Mondo ètutto un programma: sotto un pianeta terra stilizzato si intrecciano due ossa,come in una bandiera dei pirati. Questo marchio è anche l’immagine di unamaglietta (rigorosamente nera) che può essere acquistata direttamente presso lacasa editrice. La Mondo ha pubblicato tra l’altro un volume su Jeffrey Dahmer,il serial killer cannibale di Milwaukee, scritto da una reporter locale che haseguito il caso fin dall’inizio; una biografia del satanista Anton La Vey; unaricostruzione dei delitti di “Zodiac”, omicida di massa ancora imprendibile; e lastoria di Richard Chase, detto The Dracula Killer, che terrorizzò la Californiaalla fine degli anni settanta dissanguando numerose vittime.

Questa particolare tendenza editoriale del true crime deve rincorrere lacronaca, e produrre libri quasi contemporaneamente alle pagine di “nera”veicolate dai quotidiani. Il cannibale russo Andrei Chikatilo, condannato a morteper aver massacrato circa cinquanta persone, ha avuto già l’onore di vari volumisulla sua vita, uno dei quali dal suggestivo titolo The Red Ripper (lo squartatorerosso, alludendo alla lunga militanza di Chikatilo nelle file del Pcus). In Italiauna biografia romanzata di Chikatilo è stata scritta da David Grieco con il titoloIl comunista che mangiava i bambini (Bompiani, Milano 1994).

Il pubblico a cui si indirizza questa tendenza libraria è molto ampio. Si va daicosiddetti “detective da salotto”, che amano risolvere enigmi polizieschi, eormai stanchi dei crimini fantastici dei romanzi gialli chiedono un plus diveridicità e si rivolgono alle ricostruzioni di delitti reali. E si arriva ai lettori avididi orrore, di splatter iperreale. Una tendenza che è diventata persino“mainstream”, se il principale quotidiano italiano, il “Corriere della sera”,nell’estate 2000 ha allegato dei libri tascabili definiti “Collana serial thriller”.

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Ai serial killer della realtà sono state dedicate anche alcune videocassettedella Columbia Tristar Homevideo dal titolo “Grandi crimini e processi del Ven-tesimo secolo”. I titoli sono indicativi della linea scelta: Lo strangolatore diBoston, Lo squartatore dello Yorkshire, Ted Bunty – assassino gentiluomo,John Christie – l’assassino di Rillington Place, ecc.

Si moltiplicano allo stesso modo i giochi da tavolo per adulti, come TheSerial Killer Boardgame, in cui si possono interpretare quattro diversi serialkiller alle prese con 25 ragazze da massacrare (un gioco ai limiti del lecito...).Serial Killer è anche il titolo di un gioco interattivo della Corrosion Publishing diAurora, Colorado. Si tratta di fascicoli che simulano dossier della polizia suidelitti di immaginari serial killer. Ogni confezione ha un numero di serie che vacitato per telefono alla casa editrice, concorrendo alla vincita di vari gadget suiserial killer.

Un videogioco per computer della Sierra, Police Quest. Open Season,prometteva sulla scatola che con questo gioco si può “penetrare nella mente diun serial killer”. In realtà si agisce nel ruolo di un poliziotto di Los Angeles chesta dando la caccia a un assassino. E in stile altrettanto poliziesco era il giocoper Pc Jack the Ripper, della GameTek.

Per commercializzare la “passione” dei serial killer sono uscite in Americaanche delle riviste specializzate, come “Psycho Killers”: ogni numero è dedicatoa un diverso assassino seriale della cronaca, con documenti, notizie, foto ericostruzioni illustrate. Da segnalare il n.8 dedicato a John Wayne Gacy, chefaceva divertire i bambini vestito da clown (“Pogo the Clown”) e poi uccidevasenza pietà. La rivista ha anche una testata parallela “special” con storie diserial killer in più puntate (né mancano i fumetti, come The Acid Bath Case diStephen Walsh e Kellie Strom, su un serial killer degli anni Cinquanta che uccidedissolvendo le vittime nell’acido, o Devil’s Bite sulle imprese del serial killerJonathan Gabriel).

E tra gli ultimi gadget messi sul mercato, si segnalano le “cards” (figurine)della Mother Productions, che presentano una foto dei principali assassini dellastoria, con la biografia sul retro. In Italia nel 1999 è stata pubblicata una raccoltadi dodici figurine dal titolo Mostri italiani – le figurine dei serial killer italiani(Stampa Alternativa).

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Infine, non si può non citare il commercio semi-clandestino di “reperti” suiveri serial killer, denunciato da un senatore californiano nel luglio 2000: sono invendita peli del torace di Roy Norris, che ha ucciso cinque ragazzi a RedondoBeach, e capelli “autentici al 100%” di Charles Manson.

Tutti questi prodotti sono accomunati da un dato di fondo: si tratta diun’offerta dall’apparenza “documentaristica”, per saziare il desiderio diautenticità, di dettaglio, per scrutare meticolosamente la condizione violenta incui viviamo. È un percorso diametralmente opposto a quello che allarga i confinidel fantastico e immerge persino in realtà virtuali, in simulazioni, in immaginaridilatati. Qui si manifesta una ricerca esasperata di realismo, di crudaverosimiglianza. La cronaca nera si prende una rivincita epocale verso lanarrativa e l’affabulazione.

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13 film

Oltre agli assassini presentati nelle pagine precedenti, ecco 13 serial killer chenon hanno prodotto sequel, ma hanno comunque lasciato il segno.

1931 M (M, il mostro di Dusseldorf) di Fritz Lang1947 Monsieur Verdoux (id.) di Charles Chaplin1959 Peeping Tom (L’occhio che uccide) di Michael Powell1968 The Boston Strangler (Lo strangolatore di Boston) di Richard Fleischer1971 Rillington Place n.10 (L’assassino di Rillington Place n.10) di RichardFleischer1985 Il mostro di Firenze di Cesare Ferrario1987 The Hitcher (id.) di Robert Harmon1993 Kalifornia (id.) di Dominique Sena1995 Seven (id.) di David Fincher1995 Copycat (Copycat: omicidi in serie) di Jon Amiel1999 Summer of Sam (id.) di Spike Lee2000 American Psycho (id.) di Mary Harron2000 The Cell (The Cell - La cellula) di Tarsem Singh

13 libri

Oltre ai titoli citati nel corso del volume, ecco 13 testi utili sul cinema alla lamadi coltello:

Richard Anobile (ed.), Psycho, Avon, 1984Chas Balun, The Deep Red Horror Handbook, Fantaco, 1989Laurent Bouzereau, Ultraviolent Movies, Citadel Press, 1996Mikita Brottman, Meat Is Murder!, Creation, 1998Gian Carlo Castoldi, Gian Luca Castoldi, Guida al cinema splatter, Arnaud,1993

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Maurizio Colombo, Antonio Tentori, Lo schermo insanguinato, Solfanelli,1990William K. Everson, The Bad Guys: A Pictorial History of the Movie Villain,The Citadel Press, 1964Teresa Macrì, Splatter, Stampa Alternativa, 1993John McCarty, Movie Psychos and Madmen, Citadel, 1993Philippe Rouyer, Le cinéma gore, Cerf, 1997William Schoell, Stay Out of the Shower. 25 Years of Shocker Films, Dembner,1986Demetrio Soare, Il cinema thrilling, Fanucci, 1982Michael Weldon, The Psychotronic Encyclopedia of Film, Ballantine, 1983

Nota: Alcune parti di questo volume riprendono e sviluppano miei articoliapparsi sulle riviste “Febbre gialla” e “Profondo rosso” tra il 1987 e il 1992, sulquotidiano “Il manifesto” nel 1993, e sul catalogo Affari sporchi. Il film giallonegli anni ‘80, Club amici del cinema, Genova 1991. Una prima edizione diquesto libro è apparsa per le edizioni Datanews di Roma nel 1994, con il titoloSerial Killer: guida ai grandi assassini nella storia del cinema.

Fabio Giovannini

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SERIAL KILLER!I grandi assassini seriali del cinema

Prefazione di Dario Argento

Premessa

I padri del genere

Alfred Hitchcock, il maestroWilliam Castle: il gusto per l’eccessoHerschell Gordon Lewis: il prestigiatore dell’orroreMario Bava: la centralità dell’omicidioPete Walker: sociologia dell’assassinioDario Argento ovvero la donna-cinepresa-killer

Gli assassini

JackNormanLeatherfaceMichaelJasonFreddyHannibalHenryProgenie di assassini seriali: Scream e company

Appendici

Miscellanea del serial killer

13 film

13 libri

Nota