Robert Swindells - Serial Killer

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Robert Swindells SERIAL KILLER traduzione di Mario Bellinzona MONDADORI

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Criminologia

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Robert Swindells

SERIAL KILLER

traduzione di Mario Bellinzona

MONDADORI

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… il tipo di gente in cui si inciampa uscendo da teatro.

Sir George Young

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Capitolo primo

Potete chiamarmi Link. Non è il mio vero nome, ma è quello che do ogni volta che qualcuno me lo chiede. Il che succede di rado. Perché sono invisibile. Uno dei tanti. In questo preciso istante sono seduto nel vano di una porta e os-servo i passanti. Neanche mi guardano. Temono, a ragione, che voglia qualcosa da loro. Preferiscono non vedermi, di-menticarsi della mia esistenza. Di me e di quelli come me. Siamo la prova vivente che qualcosa non va. Creiamo disor-dine.

Se avete un po' di tempo, vi racconterò la storia della mia affascinante vita.

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Consegne giornaliere 1

Shelter. Sì. Mi piace. Sia per il suono sia per il significa-to. "Riparo", vuol dire. Fa pensare a un riparo contro il ven-to gelido. È quello che cerca chiunque finisca a vivere per strada. Quello che desidera. Trovi un riparo e tutto si siste-ma. Be'... in riga, ragazzi! Io sono pronto.

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Capitolo secondo

La mia affascinante vita. Come no.Nato il 20 marzo 1977 a Bradford, nello Yorkshire. Una

famiglia felice, più o meno come tante altre, finché nel '91, quando avevo quattordici anni e facevo le superiori, papà se l'è filata con una telefonista. La faccenda mi ha incasinato gli studi, ma non è certo per quello che sono finito così. No. La colpa è di Vincent. Il caro, vecchio Vince. L'amico di mia madre. Dovreste vederlo. Insomma, mamma non è certo uno schianto, ma Vincent! Tanto per cominciare, avrà cinquan-t'anni ed è uno di quei tipi che vestono giovane e parlano giovane, ma sono soltanto patetici perché hanno i capelli gri-gi e la pancia. Come non bastasse, a Vince piace alzare il go-mito. Immagino che neanche papà fosse uno stinco di santo, ma almeno non beveva come una spugna. Dovreste vedere in che stato rincasano, Vince e mamma. Sghignazza come un ebete e se ne sta lì a brancicare mamma e a biasciare che do-vrei chiamarlo papà. Papà. Quel ciccione idiota non lo chia-merei papà neanche fosse l'ultimo uomo sulla faccia della Terra. Ma a mandarmi in bestia è il suo modo viscido di guardare la mamma, o quando se ne esce con doppi sensi tipo "Ora sì che ci vuole un lettuccio comodo". Papà non

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parlava mai di sesso, neanche sfiorava l'argomento, e invece questo zotico mi lancia sguardi allusivi, mi fa l'occhiolino per vedere se me la prendo, e mamma ride e gli dà una gomi-tata e dice: — Ma lo sai che sei tremendo? — Mi dà il volta-stomaco.

L'ha plagiata, ecco. È anche per questo che lo odio. Mamma era tranquilla e soddisfatta. La sera non usciva quasi mai. Sembrava non le interessasse. Le bastava la sua fami-glia, credo. C'era sempre quando avevamo bisogno di lei, e penso che ci amasse. Me e Carole, intendo.

Oh, lo so: secondo voi parlo di mamma come se non avesse diritto a una vita sua. Non è vero. Ne ha tutto il dirit-to. Ma perché proprio Vince?

A proposito, Carole è mia sorella. Ha quattro anni più di me e mi ha sempre coccolato e quando il caro, vecchio Vince si è installato da noi e mamma ha cominciato a cambiare, ho ringraziato il cielo che ci fosse lei. Era una brutta situazione, ma grazie a Carole riuscivo a sopportarla. Poi, una sera che mamma doveva lavorare fino a tardi, successe qualcosa fra Carole e Vince. Sul momento non capii e Carole non me ne ha mai parlato, ma un'idea ce l'ho. Comunque, Carole disse qualcosa a mamma e ci fu una lite furibonda e alla fine se ne andò di casa. Andò a vivere col suo ragazzo e io restai solo. Avevo sedici anni. Ce la feci a resistere fino al diploma, non di più. Passai gli esami per un pelo, ma trovare un lavoro era impossibile e lo Stato non destina fondi ai neodiplomati. Sono sicuro che mamma mi avrebbe aiutato finché avessi

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trovato qualcosa, ma dopo un po' Vince cominciò a brontola-re che campavo a sue spese. Non campavo affatto a spese sue... mi sarei impiccato, piuttosto. Quelli erano soldi di mamma, ma lui continuò a darmi contro, giorno dopo giorno, finché una sera che ero uscito con gli amici mi chiuse fuori di casa. Neanche era casa sua, ma lui chiuse a chiave la porta e impedì a mamma di aprirla. Andai a passare la notte da Ca-role e quando, il giorno dopo, tornai a casa Vince me le suo-nò perché ero rimasto a dormire chissà dove, mentre mamma moriva di preoccupazione. Se qualcuno cerca un bastardo fatto e finito, posso fornirgli l'indirizzo di Vince.

Di sicuro, con me si comportò da vero bastardo. Mamma non prese le mie difese, credo che avesse paura di lui. Così me ne andai. Avreste fatto lo stesso, al mio posto. Chiunque l'avrebbe fatto. E così, eccomi in questo androne che è diven-tato la mia camera da letto, con la speranza che un passante impietosito mi allunghi qualche spicciolo per comprarmi da mangiare. Mica male, eh?

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Consegne giornaliere 2

Mi sto abituando al nuovo nome. Lo ammorbidisco con l'uso, come un paio di stivali nuovi. "Buongiorno Shelter" dico al mio riflesso nello specchio del bagno. "Buongiorno Shelter. Sei un diavolaccio niente male, ma sei pigro. Datti una rasata, su." Lo scrivo sul retro di vecchie buste. Shelter. Shelter. Shelter. Comincia a sembrare una firma autentica. Mi rendo conto che tutto questo ha poco a che fare col reclu-tamento e forse può sembrare che io stia perdendo tempo. Rimandando.

Non è così. Mi gusto l'attesa, ecco tutto. Non c'è fretta. I vagabondi mica spariscono e l'attesa è la parte migliore del-la festa.

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Capitolo terzo

Non sono venuto subito a Londra. Non ho una casa e nemmeno un lavoro, d'accordo, però mica sono scemo. Lo sapevo che a Londra le strade non sono lastricate d'oro. Sa-pevo che c'erano centinaia di senzatetto - migliaia, in effetti - che dormivano per strada e chiedevano la carità. Ma è pro-prio questo il vantaggio, capite? A Bradford saltavo subito agli occhi perché non eravamo in molti. Qui, invece, la poli-zia è abituata a veder dormire i ragazzi nei portoni e di solito li lascia in pace. A Bradford mi facevano levare le tende ogni ora o quasi. Non riuscivo mai a dormire. Quanto a soldi, era anche peggio. A Bradford, la gente non è abituata agli accat-toni. Reagisce con imbarazzo, allunga la strada pur di evitar-li.

E per giunta continuavo a incontrare gente che conosce-vo. Vicini. Ex compagni di scuola. Una volta vidi persino uno dei miei professori. E se non vi è mai successo d'incon-trare un vecchio conoscente mentre chiedete l'elemosina, nemmeno v'immaginate come ci si sente.

All'epoca non stavo fuori tutte le notti. C'era almeno quello, di buono. Un paio di volte la settimana andavo da mia sorella a farmi un bagno, a mangiare un pasto caldo e a

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dormire in un letto. Il guaio è che ero sempre più trasandato - normale, visto che usavo sempre gli stessi vestiti e oltretutto ci dormivo dentro - e Chris, il ragazzo di Carole, cominciò a scocciarsi. Non me lo diceva apertamente, ma glielo leggevo negli occhi, glielo sentivo nella voce e immaginavo che, dopo ogni mia visita, Carole si sciroppasse una scenata paz-zesca. Così, data la situazione, decisi che era ora di mettermi in viaggio.

Suona bene, eh? Ora di mettermi in viaggio. Sembra una di quelle vecchie canzoni con il tipo che non riesce a fermar-si in nessun posto. Conosce una ragazza innamorata persa di lui, ma dopo un po' sente di dover tornare "sulla strada" e così si carica in spalla il sacco a pelo e si rimette in viaggio, lasciandola in lacrime. Romantico, vero?

Balle. Deprimente, ecco che cos'è! Deprimente e pauro-so. Lasci un posto noto e t'incammini indifeso verso l'ignoto. Sei al verde. Senza mezza prospettiva di lavoro. Senza un in-dirizzo dove qualcuno sia pronto ad accoglierti. Ti ritrovi in mezzo a gente dura, violenta. Squilibrati, anche. La tua vita è in pericolo giorno e notte. Soprattutto la notte. Ci sono indi-vidui così disperati o fuori di testa che ti darebbero una col-tellata o una botta in testa per rubarti il sacco a pelo e i pochi spiccioli che hai in tasca. E ce ne sono altri che cercano d'in-filarsi nel tuo sacco a pelo perché sei così carino e hai una pelle così morbida. E non puoi rifugiarti da nessuna parte, perché la gente se ne sbatte di te. Se ne frega. Sei solo l'enne-

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simo barbone, e un barbone in più o in meno non fa differen-za.

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Consegne giornaliere 3

Sono uscito, stasera. In metropolitana fino a Charing Cross e poi quattro passi in giro... Un giro d'ispezione, per così dire. Ero certo di trovarli, e li ho trovati. Centinaia di furfanti pulciosi stravaccati dovunque: sembrava d'essere in un porcile. Ho marciato lungo lo Strand e li ho visti sdraiati nei portoni, persino in quelli delle banche e del Tribunale. Una piccola canaglia impudente (diciassette anni al massi-mo) mi ha persino chiesto del denaro. — Hai moneta? — mi ha detto. L'ho squadrato da capo a piedi e ho risposto: — Moneta? Sei settimane in divisa, bello mio, e saresti nuovo di zecca! — Ma la mia risposta non ha avuto effetto. Quello ha ghignato e mi ha augurato la buonanotte. Un petardo dove so io, ecco che gli ci vorrebbe. Quello lo sveglierebbe di sicuro. Quello, o sei mesi di caserma.

Il servizio militare. Ecco cosa ci vuole. Li prendeva tutti: teppisti, motociclisti in pelle, cocchi di mamma. E li trasfor-mava, perdio se li trasformava! In sei settimane. Uscivano in parata e non si vedeva neanche mezzo teppistello, ve l'assi-curo, e neanche mezzo giubbotto di pelle. Soldati. Uscivano tutti soldati. Senza eccezione.

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Quella era la mia missione: trasformare marmocchi fo-runcolosi in soldati. In veri uomini. E ci riuscivo. Anno dopo anno.

Sicuro. E sapete come mi hanno ringraziato? Ve lo dico io, come. Sbattendomi fuori. Ventinove anni di servizio e quelli mi sbattono fuori. Ragioni mediche, dice la scheda. Congedato per ragioni mediche. Ma io sto benone. Benone. Ho quarantasette anni e sono sano come un pescecane.

Ragioni mediche. È soltanto una scusa, ovvio. Lo so io perché mi hanno sbattuto fuori. L'hanno fatto perché la loro missione è l'opposto della mia. Credono che non lo sappia, e invece lo so. Fanno tutti parte del complotto, capite? C'è un complotto, in preparazione da un sacco di tempo, per desta-bilizzare il Paese riempiendolo di barboni, drogati e ubria-coni. Ci sono coinvolti politici di spicco, uomini dell'eserci-to, pubblici ufficiali e persino la Chiesa. Vogliono inondare il Paese di alcolizzati criminali e straccioni e farlo andare a fondo, conciarlo peggio del peggio che ho visto in tanti anni di servizio. Cosa volete che sia, per loro, la carriera d'un sergente maggiore? Niente. Niente di niente.

Ma non riusciranno a fermarmi. Oh, no. Hanno abolito il servizio militare obbligatorio e mi hanno sbattuto fuori perché non potessi più trasformare la spazzatura in veri uo-mini. Ma posso sempre raccoglierla, la spazzatura, no? Fare pulizia. Questo mica possono impedirmelo, e io lo farò. Per-dio se lo farò.

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Capitolo quarto

Dov'eravamo rimasti? Ah, sì, ci sono. Ora di mettersi in viaggio.

Da quando avevo finito la scuola, avevo risposto a un sacco d'inserzioni. Uffici. Supermercati. Ristoranti e tratto-rie. Pompe di benzina. Di tutto. Quasi ovunque volevano gente con esperienza. Certe inserzioni arrivavano a sconsi-gliare i disoccupati di rispondere. Avevo cominciato a man-dare le prime domande di assunzione in agosto e avevo fatto un paio di colloqui ma, come ho detto, a furia di dormire ve-stito mi era venuta un'aria trasandata. Per Natale avevo l'a-spetto di un vero barbone. Sapevo che, conciato così, non mi avrebbe mai assunto nessuno e cominciai a sprofondare nella depressione.

Il giorno di Natale non fu un successo. Lo passai da Ca-role. Gentile da parte sua e di Chris, ma fu il peggior Natale della mia vita. Tanto per cominciare, il mio regalo. Carole e mamma, sì, mi avevano comprato un sacco a pelo di gran lusso: trapuntato, impermeabile e via dicendo. Doveva esser-gli costato una fortuna e sapevo che l'avevano fatto con le migliori intenzioni, ma quel regalo significava anche qualco-

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s'altro. Significava che, ai loro occhi, ero un barbone e pro-babilmente lo sarei stato per tutta la vita. Che almeno stia co-modo! Non mi ero mai sentito peggio, ma non glielo lasciai capire. E devo ammettere che quel regalo si è rivelato molto utile.

Insomma, Natale passò e, a Santo Stefano, mamma si portò dietro Vince. Era evidente che Carole non aveva mai raccontato a Chris la verità su Vince, altrimenti lui non l'a-vrebbe mai lasciato entrare in casa sua. Comunque, mamma e Vince vennero a cena e rimasero fino all'una del mattino e, ovviamente, si ubriacarono tutti. Tutti tranne me. E quando fu ubriaco fradicio, Vince attaccò a fare battute su di me. Il fantasma dei Natali passati, mi definì. Non chiedetemi per-ché. Avrei dovuto vergognarmi, disse, a star li a ingozzarmi a spese di mia sorella, coi capelli lunghi e conciato come uno straccione. Ero uno scroccone, un parassita e uno scansafati-che, disse, e avrei fatto meglio a cercarmi un lavoro invece di star lì con quella faccia da funerale a rovinare le feste a tutti quanti.

Non c'era un'atmosfera da 'pace in Terra', ve l'assicuro. Quanto alla 'buona volontà', non è che abbondasse. Ma la cosa peggiore fu che nessuno prese le mie difese. Nemmeno mia sorella. Così capii che non ero un ospite gradito, da quelle parti.

Il 28 dicembre mi feci prestare da Carole i soldi per un biglietto di sola andata per Londra. Carole venne alla stazio-ne a salutarmi e, prima che salissi sul treno con zaino e sacco

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a pelo in spalla, mi abbracciò. Il primo abbraccio che ricevet-ti in seguito fu quello di un vecchio ubriacone puzzolente ai Lincoln's Inn Fields, quando gli diedi venti pence perché mi lasciasse in pace.

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Consegne giornaliere 4

Sono le sette di sera e la giornata è risultata proficua. Molto proficua. Il segreto della vittoria sta nella pianifica-zione e nei preparativi. Nel mio caso, la pianificazione è sta-ta meticolosa e i preparativi accurati.

Ho acquistato un gatto. Il tocco finale. Intendiamoci, io non sopporto le bestie che si leccano il culo e spargono peli dappertutto, ma bisogna ammettere che una casa con un gatto ha un che di rassicurante. Un gatto fa pensare al calo-re di una tranquilla vita domestica. Un uomo con un gatto è incapace di fare del male, giusto?

L'ho chiamato Saffo. Un tocco da maestro, che suggeri-sce un certo grado di cultura. Non so neanche se quella be-stiaccia sia maschio o femmina, e nemmeno m'interessa. L'importante è che un tizio con un gatto di nome Saffo dà una precisa immagine di sé. Di persona affabile e un po' saccente. Si presume che uno così sia vagamente conscio del fatto che, mentre lui dorme al caldo, c'è gente in ben altre condizioni. Sarà anche un sempliciotto impacciato, ma ogni tanto la sua coscienza gli dice di fare qualcosa, di offrire un tozzo di pane e un letto per la notte a qualche poveraccio tutto solo, violini esclusi.

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Shelter e Saffo, dunque. Sembra quasi una serie televisi-va: Shelter e Saffo, ovvero Gli Invincibili. È tutto pronto. Il reclutamento può avere inizio.

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Capitolo quinto

Londra, dicevo. Londra.Feci uno sbaglio dietro l'altro. Come la maggior parte

della gente, la prima volta che arriva a Londra. Il problema è che, fatto lo sbaglio, è praticamente impossibile riparare il danno.

Arrivai che era inverno inoltrato. Non fu un'idea brillan-te, d'accordo, ma a casa non ci resistevo più. Comunque, se avessi saputo allora quello che so adesso, avrei stretto i denti ancora per un po'... fino a marzo o aprile, magari. Provate a passare una notte nell'androne di un negozio in pieno inverno e capirete il perché.

Quando scesi dal treno avevo centocinquanta sterline: quello che mi restava dei miei risparmi, più un biglietto da venti che Carole mi aveva infilato in tasca senza farsi vedere da Chris. Centocinquanta. Non male, eh? A me non sembra-va niente male. Per prima cosa, mi sarei trovato una stanza da qualche parte. Niente di straordinario, sia chiaro. E poi avrei cercato un lavoro. Anche in questo caso, niente di straordinario. Avrei accettato qualsiasi cosa, tanto per comin-ciare. Ero proprio ingenuo. Un bimbo in fasce. Le cose mica filano così lisce, ma io non lo sapevo.

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Uscii baldanzoso dalla stazione, zaino e sacco a pelo in spalla, pronto a iniziare una nuova vita. Così quella era Lon-dra. La capitale. Gigantesca, travolgente, piena di opportuni-tà. Nessuno ti conosce. Nessuno sa da dove vieni e qual è il tuo passato. Sei una pagina bianca, puoi inventarti un'identità nuova.

Iniziai alla grande, o almeno così credetti. Uscii dalla sta-zione e svoltai a destra, a caso, alla ricerca di un posto dove sistemarmi. A un tratto, nella via che stavo percorrendo, no-tai una fila di negozi al pianoterra di un condominio. C'erano dei foglietti, appiccicati alla vetrina di un giornalaio e, quan-do mi avvicinai, vidi che erano offerte e richieste di vario ge-nere: Vendesi questo e quello; cercasi baby sitter; riparazioni a prezzi stracciati. Un annuncio diceva: "Camera e prima co-lazione, perfetto per lavoratore, affitto trattabile". La parola 'trattabile' era scritta 'tratabile' e la calligrafìa sembrava quel-la di un bambino di sei anni, ma la cosa non mi fece né caldo né freddo. C'era un indirizzo. Entrai nel negozio e mi feci spiegare come arrivarci. Dovevo rifarmi tutta la strada all'in-contrano.

Il posto era uno schifo e l'affitto non era poi tanto 'trata-bile'. — Cinquanta la settimana — disse il tizio. Aveva una faccia da ratto. — Due settimane anticipate — continuò — e guarda che ti faccio un favore. Vogliono tutti un mese.

— Sto cercando lavoro — spiegai. — Non ho molti soldi. Non possiamo trattare sull'affitto? (Ve l'ho detto che ero in-genuo.)

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—Trattare? — stridette. — Vatti a trattare fuori da questa casa, ragazzo. Cinquanta la settimana: prendere o lasciare.

Presi... e quello fu il secondo errore. Oh, lì per lì ero al settimo cielo, lo ammetto. Ero a Londra da neanche un'ora e avevo un letto su cui sdraiarmi e un tetto sopra la testa. Se solo avessi saputo che c'erano altri posti dove avrei potuto tentare. Gli ostelli delle associazioni di carità, per esempio: lì, oltre a un letto e un pasto caldo, puoi ricevere aiuto e sug-gerimenti preziosi, sempre che tu riesca a entrarci. Ma, come ho già detto, non lo sapevo.

Mi misi a cercare lavoro. Sul serio. Per prima cosa, il mattino dopo, andai all'Ufficio di Collocamento. La donna allo sportello mi disse che dovevo andare all'Ufficio di Av-viamento al Lavoro perché non avevo ancora diciotto anni. Mi disse anche di rivolgermi all'Assistenza Sociale. Andai all'Ufficio di Avviamento al Lavoro e riempii un modulo. Mi domandarono di dov'ero e io risposi del nord. Non volevo es-sere troppo preciso, casomai il vecchio Vince decidesse di venire a cercarmi. Diedi il mio nuovo indirizzo, ma la situa-zione era identica a quella che avevo lasciato: lavoro zero, neanche come apprendista. Andai all'Assistenza Sociale e riempii un altro modulo. Spiegai che avevo bisogno di qual-che consiglio e mi fecero parlare con un tizio. Gli dissi che, avendo anticipato due settimane di affitto, mi restavano solo cinquanta sterline e che mi serviva un lavoro. Mi fece un sacco di domande sul perché me n'ero andato di casa. Gli spiegai di Vince, Chris e tutto il resto. Mi disse che, per deci-

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dere se avessi diritto a un sussidio, ci sarebbero volute alcu-ne settimane.

Fu allora che cominciai a provare una certa ansia. Avevo una stanza per due settimane al massimo. Non potevo giurar-ci, ma avevo l'impressione che Faccia-di- ratto non fosse tipo da accettare ritardi nei pagamenti. Se nel giro di due settima-ne non avessi cominciato a guadagnare, mi sarei ritrovato in mezzo a una strada.

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Consegne giornaliere 5

Ho dato inizio al reclutamento ed è stato facile come bere un bicchiere d'acqua. Neanche sono dovuto andare lon-tano. Il mio appartamento, mio e di Saffo, è in Mornington Place e la prima recluta l'ho trovata vicino alla stazione di Camden. Poco più di un chilometro, a esagerare. Va detto che era una notte da lupi. Freddo, pioggia e vento tagliente. Indossavo un parka, un copripantalone impermeabile e sti-vali pesanti, e anche così faceva un freddo cane. Come do-vesse sentirsi quel tizio nel suo giaccone jeans lacero e in-zuppato, mi vengono i brividi solo a pensarci. Era l'una e mezza, quindi doveva essere lì da un paio d'ore buone a ge-larsi. Per questo è stato tutto così facile.

Ecco che cosa ho fatto. Mi sono accovacciato di fronte a lui. — Che c'è, amico? Un periodo scalognato? — gli ho detto sorridendo. Un sorriso da buono, un capolavoro. Ero pronto ad affrontare qualsiasi reazione. Voglio dire, quello poteva anche insospettirsi, pensare che fossi frodo, per esempio. Ma a quanto pare l'idea neanche l'ha sfiorato. Mezzo rimbecillito dal freddo, probabilmente. Ha aperto gli occhi, mi ha guardato, ha aggrottato la fronte e ha bofon-chiato: — Chi sei?

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Era scozzese.— Io? — altro sorriso. —Mi chiamo Shelter. Lavoro al-

l'ostello in Plender Street.Fatta! — Ostello? — mi chiede. — Che tipo di ostello?— Per i giovani — ho risposto. —Del Comune. Forse

hai sentito parlare di noi. — Impossibile, visto che "noi" non esistevamo. Mi ero inventato tutto. Parte dei preparativi.

Ha abboccato subito. — C'è un letto libero? — dice. Ho scosso la testa, con quell'espressione afflitta che avevo pro-vato e riprovato davanti allo specchio. — Non stanotte, pur-troppo. Tutto esaurito. Forse domani, se vieni sul presto.

—Ah — dice, ammosciato. Pensa alle lunghe ore gelide che lo aspettano.

Gli ho lasciato il tempo di pensarci su e poi, come mi fosse venuto in mente lì per lì, ho aggiunto: — C'è un divano comodo a casa mia, se ti accontenti. — Se ti accontenti. Che tocco da maestro. Ha funzionato.

— Sicuro? — dice, rianimato. Basta guardarlo per capi-re che cosa pensa. Pensa: "Questo tizio lavora in un ostello. Letti caldi. Cibo. Stanotte non c'è posto, ma se domani arri-vo insieme a lui ho un letto assicurato, giusto?" — Sicuro? — ripete. Sfodero di nuovo il mio sorriso. — Sicurissimo. Nessun problema. Non abito lontano. Vieni.

Nient'altro. Mi sono incamminato, con lui che mi trotte-rellava dietro come un cagnolino. Pioveva a dirotto. Quando siamo arrivati a casa, era fradicio. Gli ho presentato Saffo e, dopo avergli mostrato il bagno, gli ho detto di togliersi i

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vestiti bagnati e gli ho dato della roba comprata apposta per V occasione : felpe pesanti e pantaloni di velluto, il tipo di roba che usano quelli con la faccia da buoni. Poi sono anda-to in cucina a riscaldare la minestra e, mentre quello era se-duto sul divano a ingozzarsi, gli sono scivolato alle spalle e ho messo fine alle sue sofferenze.

Crudele? Non direi. Non ha più né freddo né fame, ora. Nessuno lo voleva, nessuno sentirà la sua mancanza, e c'è un barbone in meno a sporcare i marciapiedi.

Tanto di guadagnato, no?

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Capitolo sesto

Avevo visto un sacco di film dove il protagonista, il classico vagabondo, trova lavori occasionali ovunque vada. Lavare i piatti. Tagliare la legna. Spazzare. Mi sembrava as-surdo non poter trovare un lavoro del genere in una metropo-li come Londra. Insomma, la città è strapiena di ristoranti, caffè e pub. Durante le prime due settimane, devo aver pro-vato almeno in duecento posti. Niente. Niente di niente. Ave-vo cercato lavoro dappertutto, dai caffè più luridi agli alber-ghi più raffinati, compresa l'intera gamma fra i due estremi. I piedi mi si erano riempiti di vesciche. Quasi mi mancava la forza di alzarmi dal letto, la mattina. Andavo sempre a piedi, per risparmiare, e vivevo a base di panini al formaggio e tè, eppure, quando Faccia-di-ratto venne a chiedermi i soldi del-l'affitto, mi erano rimaste solo nove sterline e pochi spiccioli.

Era venerdì sera. Le otto in punto. Ero appena rientrato. La stanza era gelata e mi stavo scaldando davanti a una stu-fetta elettrica che funzionava a moneta, quando sentii bussa-re. Aprii la porta e me lo trovai davanti. Disse due parole sol-tanto: "Sera" e "Affitto".

— E' solo venerdì — protestai. — Ho pagato fino a lune-dì.

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Scosse la testa. — È venerdì che si paga l'affitto, bello.—Ma io sono arrivato lunedì — protestai. — E ho antici-

pato due settimane. La stanza è mia fino a domenica sera.Si mosse così in fretta che non ebbi il tempo di fare un

passo indietro. Un secondo prima era a un metro di distanza, un secondo dopo la sua mano mi stritolava il colletto della camicia e la sua faccia era a un centimetro dalla mia. — Sen-ti, bello — sibilò. — La camera è mia. Sono io che faccio le regole. L'affitto si paga oggi. Se hai i soldi, paga. Se non li hai, ti do due minuti per fare i bagagli e sparire. — Mi spinse nella stanza e mi seguì, lasciando la porta aperta.

Provai a ragionarci, gli dissi che aspettavo una risposta dall'Assistenza Sociale. Si mise a ridere. — Tu aspetta pure — ringhiò. — Io nemmeno ci penso. — Gli spiegai che cer-cavo lavoro e aggiunsi che ero sempre stato tranquillo e ave-vo tenuto la stanza in ordine. Tutto inutile. Mi ripetè di fare i bagagli e sparire, e si piantò lì in attesa, a braccia conserte.

Non potei far altro che obbedire. Quando ebbi finito, gli passai accanto sfiorandolo e dissi: — Te la farò pagare. Pri-ma o poi, in un modo o nell'altro, te la farò pagare. — La sua risata mi echeggiò nelle orecchie mentre scendevo le scale.

Ecco come sono finito così, in mezzo a una strada, insie-me ai ragazzi senzatetto che avevo già visto durante i miei giri alla ricerca di un lavoro. Gli stessi cui avevo dato qual-che spicciolo la settimana prima, quando avevo creduto che le cose si sarebbero sistemate. Adesso ero uno di loro, all'ini-zio di un viaggio senza ritorno.

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Consegne giornaliere 6

È il momento di fare una breve dissertazione sul tema 'uccisione'. Uccisione di esseri umani. Omicidio, in parole povere.

Sì, è così che lo chiamerebbero. Se mai lo scoprissero, il che non accadrà. Omicidio. Uccisione volontaria di un esse-re umano da parte di un altro essere umano. Il fatto è che sono stato addestrato a uccidere. Quand'ero soldato, la mia funzione principale era uccidere, far fuori, eliminare, quegli esseri umani che svolgevano attività poco gradite alle auto-rità del mio Paese. Ed è qui che le cose si fanno confuse. È qui che il confine si fa più labile. Un soldato che uccide i ne-mici del proprio Paese non commette omicidio. Non viene chiuso in carcere. Anzi, se lo fa particolarmente bene, riceve una medaglia. E allora perché io, eliminando questi schifosi barboni, sono considerato un assassino? Assurdo. Non sono un assassino, sono un soldato senza uniforme che uccide per il proprio Paese. Il guaio è che il Paese non approva, e allo-ra mi tocca agire clandestinamente. Devo celare la mia atti-vità e questo porta alla domanda più difficile: CHE FARE DEL CADAVERE?

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I soldati in uniforme non hanno di questi problemi. Non devono nascondere i cadaveri delle loro vittime. Al contra-rio, li mettono in fila, li contano e li immortalano come in una battuta di caccia al fagiano. L'unica differenza è che poi non li mangiano. Li gettano in una fossa, li coprono di terra ed è finita lì. Nessun problema. Se invece non avete l'unifor-me, come nel mio caso, se siete quello che definiscono un as-sassino, fare sparire il cadavere è una bella gatta da pelare... la parte più difficile di tutta l'operazione.

Uccidere è facile. Facilissimo. Soprattutto se siete stati addestrati a farlo, anche se chiunque è in grado di riuscirci, applicandosi un po'. Ma molti assassini hanno mandato tutto all'aria al momento di far sparire il cadavere. È un dato di fatto.

Hanno provato di tutto. Bagni nell'acido. Squartamenti. Stivali di cemento e un fiume profondo. Di tutto. Inutile. Pri-ma o poi il cadavere, o anche solo una sua parte, viene ri-trovato. E, col cadavere, l'assassino.

Non sarà il mio caso. No. Perché io, a differenza della maggior parte dei cosiddetti assassini, ho pianificato tutto. Il mio appartamento è a pianterreno e, sotto le assi del pavi-mento, c'è un posticino comodissimo... piuttosto spazioso, in effetti. E perfettamente ventilato: ci fa un bel fresco, laggiù, anche in piena estate. È importante, questo. Non scenderò in particolari, dato che l'argomento non è molto piacevole: ba-sterà dire che i cadaveri tenuti in un luogo caldo tendono a rivelare la loro presenza dopo un paio di giorni al massimo.

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Ma io ho questo posto perfetto - il mio frigorifero domestico, lo chiamo - ed è li che giace il nostro amico di ieri sera. Come ho detto, non sente più freddo, ora, e non sta tra i pie-di a nessuno. È tutto molto più ordinato, no?

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Capitolo settimo

Trovai un androne. Un bell'androne profondo, così pro-fondo che la luce dei lampioni e delle vetrine di fronte non arrivava alla porta. Così profondo che dalla strada era impos-sibile vedermi.

Erano le nove e si gelava. Seduto sul sacco a pelo, lo zai-no fra le gambe, osservavo il rettangolo di luci, movimenti e colori in fondo a quella specie di tunnel. Continuava a passa-re un sacco di gente, ma nessuno guardava dalla mia parte. Nessuno si accorgeva di me. Al di là della strada si vedeva l'imbocco di una stazione della metropolitana, un'edicola e un incrocio. Pensavo al mio ex padrone di casa, Faccia-di-ratto, che non sapeva neanche scrivere correttamente 'tratta-bile'. Pensavo a come un giorno l'avrei sorpreso in una viuz-za buia e immaginavo quello che gli avrei fatto. Ero furioso e scosso, ma non particolarmente infelice. Non ancora. Il mio anonimato era una consolazione. Almeno, non mi avrebbe visto nessuno che mi conosceva. Lì ero solo uno dei tanti. E non dovevo più preoccuparmi per l'affitto. Mi sentivo... libe-ro, credo. Non avevo ancora sperimentato l'altra faccia della medaglia: i morsi della fame, il freddo costante e il problema di riuscire ad andare in bagno senza perdere di vista la came-

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ra da letto. Fu proprio così che persi il mio androne, e non solo quello.

Come ho detto, avevo trovato quella bella sistemazione verso le nove e, per un po', ero rimasto seduto a guardare il mondo passarmi davanti. Non stavo troppo male, ma verso le undici ero infreddolito, stanco, con le chiappe intorpidite e la vescica piena da scoppiare. "Nessun problema" pensai. La stazione era lì di fronte. E nella stazione c'era di sicuro un bagno. Mi bastava attraversare la strada. Chiaramente, mi sa-rei dovuto portare dietro la roba. Volendo, potevo anche la-sciarla lì, ma è un rischio che uno preferisce non correre quando possiede soltanto uno zaino e un sacco a pelo.

Così, alle undici e un quarto mi alzai, mi caricai la roba in spalla e mi diressi verso la stazione. Scoprii che i cessi de-gli uomini erano a metà del marciapiede uno, ma siccome non c'erano barriere proseguii tranquillo, superando un grup-po di barboni seduti sulle panchine. I bagni erano in fondo a una scala che sprofondava sotto i binari. Mentre la scendevo di corsa, mi rianimai all'idea del sollievo imminente. Fu allo-ra che mi ritrovai davanti al primo imprevisto. L'ingresso ai bagni era chiuso da una sbarra. Per entrare, servivano dieci pence. Misi giù zaino e sacco a pelo e mi frugai nelle tasche. Una moneta da cinquanta pence e due da venti. Neanche una da dieci. C'era un gabbiotto di vetro, perciò doveva esserci anche un guardiano. — C'è nessuno? — chiamai. Da un mo-mento all'altro, la situazione rischiava di diventare imbaraz-zante. Nessuno mi rispose. Non si muoveva una foglia. Mi

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guardai intorno, lanciai la mia roba oltre la sbarra e con un salto fui dall'altra parte. Provai un sollievo indescrivibile. Ero ormai a metà dell'opera quando, da dietro la porta di un cesso, spuntò la testa di un nanerottolo sulla cinquantina, con un berretto a visiera e una cicca fra le labbra. — Ehi! — gracchiò. — Hai pagato?

— N... no — balbettai. Mi aveva fatto bagnare i pantalo-ni. — Non avevo...

— Non me ne frega di cosa non avevi, ragazzo.Aveva la voce roca di chi si fuma almeno sessanta siga-

rette al giorno. All'inizio avevo avuto l'intenzione di farmi cambiare i venti pence, ma il suo atteggiamento mi mandò in bestia. Decisi di saltare di nuovo la sbarra e risparmiare dieci pence. — Sono al verde — dissi, tirando su la lampo.

Il tizio si piantò davanti alla sbarra. — Tu non te ne vai senza pagare. — Quando parlava, la sigaretta ballonzolava facendogli cadere la cenere sulle scarpe. Lo guardai negli oc-chi. — Levati di mezzo, nonno.

Scosse la testa. E giù cenere. Feci un passo avanti, ro-teando lo zaino. Lo schivò e cercò di colpirmi alla testa. Evi-tai il colpo, lo scostai con uno spintone e saltai dall'altra par-te.

Mi sentivo invincibile, un vero duro, ma pensai che fosse meglio filare. Già m'immaginavo il vegliardo che telefonava alla polizia ferroviaria. Salii le scale di corsa e uscii in stra-da.

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Ma, quando tornai nel mio androne, scoprii che qualcuno mi aveva soffiato il posto. Non me ne accorsi finché inciam-pai nei piedi del nuovo inquilino e quello schizzò su come una molla. Un armadio a tre ante per un metro e ottanta di al-tezza. — Che ti serve, bamboccio? — Dall'accento, doveva essere di Liverpool.

— Io... c'ero prima io. — Oddio, non potevo dire una cosa più stupida. Mi mollò una ditata in pieno petto. — Spa-risci, piccolo, o ti faccio sparire io.

— Ma io ero qui già da due ore — protestai. — Ero an-dato un momento in stazione per...

— Sparisci. Via!Era ovvio che me ne dovevo andare. Quello non era un

vecchietto catarroso che si poteva buttare giù con un soffio. Quello sì che era un vero duro. Mi voltai con un groppo in gola e la sensazione che avrei passato il resto della vita a far-mi mettere i piedi in testa. — Non è giusto — borbottai.

Che idiota. Non è giusto! Se me ne fossi andato via subi-to, non si sarebbe accorto dell'orologio che avevo al polso. Mi afferrò il braccio. — Bell'orologio. Molla.

— No! — L'orologio era l'unico tesoro che mi fosse ri-masto: me l'aveva regalato mamma prima di conoscere Vin-ce. Con uno strattone tentai di liberarmi, ma l'altro rafforzò la presa. — Molla, o ti spacco la faccia!

Per un istante pensai di gridare, chiamare aiuto, ma an-che se c'era un sacco di gente per strada sapevo che non sa-rebbe servito. Chi rischierebbe un cazzotto o una coltellata

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per aiutare un barbone? Mi tolsi l'orologio e glielo diedi, lot-tando per trattenere le lacrime. Quello ghignò. — Grazie, bamboccio. Molto gentile. E ora sparisci!

Sparii.

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Consegne giornaliere 7

È come lanciarsi col paracadute. Dopo il primo lancio diventa una cosa normale, ma non bisogna montarsi la testa. Controllare ogni volta l'equipaggiamento. Verificare la pro-cedura. Sapere cosa va fatto. Non cadere in trappola.

E la trappola in cui cadono i serial killer è quella della schematicità. Ogni omicidio rientra in uno schema preciso, e questo suggerisce che sia un'unica persona a commetterli. È un elemento che aiuta la polizia, perché dice qualcosa dell' omicida. Per esempio, se tutte le vittime sono messicane, si cercherà qualcuno che odia i messicani. Se tutti i corpi ven-gono ritrovati nelle stazioni della metropolitana, si cercherà qualcuno che bazzica spesso da quelle parti. È una trappola, capite? Una trappola che l'omicida si costruisce con le pro-prie mani.

E a questo che devo prestare particolare attenzione. Non posso fare a meno di seguire uno schema, dal momento che tutti i miei clienti sono dei barboni. È inevitabile. Certo la polizia non ritroverà i corpi nelle stazioni della metropolita-na, e nemmeno altrove. Non sono così stupido. Ma lo sche-ma è inevitabile, perciò devo creare la massima varietà pos-sibile senza venire meno al compito che mi sono assegnato.

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Il reclutamento di ieri sera differiva da quello preceden-te per diversi aspetti. In primo luogo, la recluta era una don-na. Non l'ho scelta perché mi piacciono le donne, e nemme-no perché le odio. Le donne posso prenderle come lasciarle. L'ho scelta perché il suo predecessore era un uomo, tutto qui. E non l'ho scelta vicino alla stazione di Camden, perché questo sarebbe rientrato in uno schema preciso. Sono anda-to fino a Piccadilly Circus e, mentre passeggiavo per Soho, l'ho vista uscire dal Regent Palace. Conciata da far paura. Persino dall'altra parte della strada si vedeva quant'era sporca. Ed era uscita da quell'albergo come se fosse stata una duchessa. Ovviamente vi si era intrufolata per usare il bagno, ma è un mistero come avesse fatto a non essere bloc-cata all'istante dalla sorveglianza. Comunque, lasciai che si allontanasse un po' prima di avvicinarmi e toccarle una spalla.

— Mi scusi. — Si voltò di scatto.— S... sì?— Sicurezza dell'albergo — dissi seccamente. — Regent

Palace. — Con quel completo e quell'impermeabile, ero per-fetto per la parte. — Lei era nell'albergo, poco fa, vero?

Annuì, con lo sguardo di un animale braccato.— Sì. Sono andata in bagno. Perché?— C'è stata una serie di furti, ultimamente. Devo chie-

derle di tornare con me all'albergo.— Furti? — Aveva un'aria disperata. — Non ne so nien-

te, io, di furti. Avevo solo bisogno del bagno. Sono rimasta

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dentro appena un minuto. — Poveraccia. Conciata com'era, non ce l'avrebbe mai fatta a restare li abbastanza da com-mettere un furto.

— Spiacente — dissi — ma deve venire con me per ri-spondere ad alcune domande. Non ci vorrà molto.

— Oddio! — esclamò, mordendosi un labbro. — Senta... ho già abbastanza guai. Non ho casa, non ho lavoro, non ho soldi. Non ho rubato niente. Perché non mi perquisisce e mi lascia andare?

Stava per prorompere in lacrime, come scrivono nei ro-manzi rosa. Decisi che era il momento di dare il tocco finale. La squadrai con aria pensosa. — Be', mica avrei qualcosa in contrario a perquisirti — dissi in tono significativo. — Hai detto che non hai una casa, giusto?

Annuì. Vidi la speranza albeggiarle negli occhi.—E c'è un tempaccio, stasera. Che ne diresti di passare

la notte al coperto? — Geniale. — In un bel letto caldo?—Che vorresti dire? — Lo sapeva benissimo, quello che

volevo dire. Sorrisi e lei disse: — Vuoi che io...?Alzai le spalle. — Era solo un'idea, fiorellino. Tu ti eviti

un po' di guai e io... — Sorrisi di nuovo.Esitò, ma non ci mise molto a capire che non aveva al-

ternative. Probabilmente pensò che l'avrei fatta accusare di furto, se avesse fatto la puritana. Annui abbassando lo sguardo e mormorò: — D'accordo.

Il resto fu facile. Taxi. Casa. Saffo. Vestiti asciutti. Mine-stra. Eterno riposo.

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Sono così carini, fianco a fianco, che non riesco a smet-tere di guardarli. Mi sa che mi sto rammollendo.

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Capitolo ottavo

Arrancai in Pentonville Road lanciando occhiate negli androni. Senza orologio, mi sentivo il polso nudo. Aggiunsi alla lista l'armadio di Liverpool. Faccia-di-ratto e Armadio-di-Liverpool. Andando avanti così, rischiavo di diventare un serial killer.

A un certo punto ne trovai libero uno piuttosto profondo. Entrai esitante, chiedendomi se fosse un posto sicuro. E se ci dormiva già qualcun altro? Uno tipo Armadio-di-Liverpool? Qualcuno che magari poteva innamorarsi del mio zaino e del mio sacco a pelo e portarmeli via. O accoltellarmi e prender-seli. D'altra parte si era fatto tardi, anche se non sapevo di preciso che ore fossero. Di certo, mi dissi, se qualcuno dor-misse qui regolarmente, sarebbe già arrivato. E poi ero stan-co morto. Avevo bisogno di sdraiarmi, e dovunque fossi an-dato avrei avuto lo stesso dubbio. Così...

Mi ero appena infilato nel sacco a pelo, la testa sullo zai-no, quando arrivò. Sentii dei passi e pensai: "Non fermarti. Va' avanti, ti prego, non fermarti". Ma i passi si fermarono e capii che mi stava osservando. Aprii gli occhi. Era solo un'ombra sulla soglia. — È tuo, 'sto posto? — gracchiai. Do-manda idiota. Avrebbe risposto di sì anche se non lo fosse

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stato. Quello che avrei dovuto dirgli era sparisci. Mi chiesi quanto fosse grosso.

— No, amico, non è mio. — Aveva una voce calma, gen-tile. — Ma se ti stringi un po', ci sta anche il mio sacco a pelo. — Mi spostai e lui si sistemò accanto a me, così vicino che quasi ci sfioravamo. Era una bella sensazione avere qual-cuno accanto. Sentivo di dover dire qualcosa, così domandai: — È da molto che vivi così? — augurandomi che non si of-fendesse.

— Sei, sette mesi — rispose. — E tu?— Prima notte.Ridacchiò. — Si vede. Di dove sei?— Del nord.— Di Birmingham, io.— Si sente. — Fu un rischio, la mia battuta sul suo ac-

cento, ma lui rise di nuovo. — Ginger — si presentò, e rima-se in attesa che facessi altrettanto.

Però io non volevo dirgli come mi chiamavo. Non volevo dirlo a nessuno. Taglio netto, chiaro? Nuova vita. E poi lui mica mi aveva detto il suo vero nome. Ginger è un sopranno-me.

— Link — dissi. L'avevo letto su un cartello. Thames-link: è una linea ferroviaria.

— Ah sì? — ribatté con un tono da non-ti-credo-ma-va-bene-lo-stesso. — Ce l'hai una cicca, Link?

— Non fumo. — Per la prima volta in vita mia, mi di-spiacque non essere un fumatore.

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Ginger ridacchiò. — Fumerai.— Perché?— Mai avuto fame, eh? Fame da lupi, intendo.— No.— Be' quando hai una fame da lupi, il fumo aiuta.— Hai fame, Ginger?— Un po'. Perché? Hai qualcosa da mettere sotto i denti?— Ho uno Snicker nello zaino. Ti va?— E tu?— Non ho fame. — Non era vero, ma forse avevo trova-

to un amico e non volevo perderlo. Aprii lo zaino e frugai finché ebbi ritrovato la barretta di cioccolato. — Tieni.

— Grazie. Sicuro che non ne vuoi?— No.— Metà.— No, è tutto tuo. — Richiusi lo zaino e mi sdraiai a oc-

chi chiusi, ad ascoltarlo mangiare. Aveva proprio fame. Si sentiva. Quando ebbe finito, disse: — Va meglio, adesso, 'notte, Link.

— 'notte, Ginger.Fu così che conobbi Ginger.

Mi addormentai e fui svegliato da qualcuno che mi tira-va calci nella schiena, neanche tanto delicatamente, e diceva: — Forza, amico. Muoviti. — Aprii gli occhi e li richiusi all'i-stante, accecato da una torcia elettrica. Dapprima pensai che Ginger avesse cambiato idea e non volesse più dividere con

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me la stanza da letto, ma poi capii che era la polizia. Mi tirai su. Era ancora buio. Mentre uscivo dal sacco a pelo, un fred-do glaciale mi penetrò nelle ossa.

Erano due agenti, un uomo e una donna. Dopo averci svegliati, fecero un passo indietro e restarono a controllare che riavvolgessimo i sacchi a pelo e li legassimo agli zaini. — Dimentichi qualcosa — grugnì l'uomo, puntando il fascio di luce sull'involucro appallottolato del mio Snicker. Ginger lo raccolse e se lo infilò in tasca. Pensavo che ci avrebbero arrestati, ma appena fummo pronti ad andarcene, si rimisero in marcia illuminando tutti gli androni man mano che ci pas-savano davanti.

— Che ore sono? — domandai, istupidito dal freddo e dal sonno.

Ginger alzò le spalle. — Più o meno le sei.— Perché ci hanno fatto alzare?— Perché? — Fece una smorfia. — Eravamo sdraiati da-

vanti all'ingresso di un negozio. E al proprietario non avreb-be fatto piacere trovarci qui.

— Che facciamo?— Come stai, a soldi?— Ho nove sterline e qualche spicciolo.— Ti va un caffè? Con qualcosa da mettere sotto i denti?— Altroché. — Ero affamato. — E tu?Sorrise. — Non sentirti obbligato a sfamarmi solo perché

abbiamo dormito nella stesso androne. E non dire a nessuno che hai nove sterline, o non le avrai per molto.

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Andammo in un locale che restava aperto anche di notte. L'orologio alla parete segnava le sei e venti. Eravamo gli unici clienti.

C'ingozzammo di panini e caffè, e chiacchierammo. Gin-ger mi domandò che pensavo di fare. Gli dissi che cercavo un lavoro in attesa che l'Assistenza Sociale prendesse una decisione sul mio caso. Ma, quando gli spiegai le circostanze che mi avevano portato a Londra, Ginger scosse la testa. — Perdi tempo, amico. Diranno che è colpa tua se sei diventato un senzatetto, perché hai lasciato volontariamente la casa di tua madre.

— Vuoi dire che non mi daranno un sussidio?— Neanche il becco d'un quattrino, credimi.— Ma... se non trovo lavoro... se ci metto un po'... come

faccio a vivere?Scoppiò a ridere. — Imparerai ad arrangiarti. Non gliene

frega niente a nessuno, capisci? Questa è la prima cosa che devi imparare. — Sorrise. — Perché credi che tanti ragazzi chiedano l'elemosina? Perché si divertono?

Scossi la testa. — È così che vivi, tu? Chiedi l'elemosina?

— Già. Tutto il giorno, ogni giorno. E a volte non riesco neanche a tirare su abbastanza da comprarmi un panino.

— Vuoi dire che la maggior parte della gente non dà niente?

— Indovinato.

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— Così, quando finirò i soldi, anch'io mi metterò a chie-dere l'elemosina?

— Fossi in te, non aspetterei che finiscano i soldi. Come dicevo, certi giorni non riesci a tirare su niente. Io comince-rei subito, se fossi in te.

Restammo al caldo fino all'arrivo dei primi clienti. A quel punto, il proprietario del locale cominciò a guardarci male.

— Andiamo — disse Ginger. — O finirà per cacciarci. — Si alzò e si rimise lo zaino in spalla. — Qui dietro ci sono dei bagni niente male. Ti faccio strada.

Usammo il bagno e lasciammo il locale allo spuntare del-l'alba. Seguii Ginger attraverso la folla del mattino, sperando che mi avrebbe permesso di restare con lui. Mi dava la sen-sazione di sapere parecchie cose che dovevo assolutamente imparare per sopravvivere in quella giungla fredda e stermi-nata.

Era una mattina umida, con un vento subdolo che ti pas-sava da parte a parte come una lama. Pensavo che Ginger cercasse un posto dove sistemarci, un posto al riparo dal ven-to e pieno di passanti, invece continuammo a camminare. Andavamo verso sud e pensai: "Se l'Inghilterra non fosse un'isola, potremmo arrivare a piedi in Spagna o in Africa, un posto caldo, al sole". Dopo un po', domandai: — Dove stia-mo andando? — e lui rispose: — Non ha importanza. Con un tempo così, bisogna continuare a muoversi.

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Ormai era pieno giorno e per strada c'era un sacco di gente. Mi accorsi che molti passanti cambiavano direzione per non passarci vicino. Di tanto in tanto, anche Ginger cam-biava direzione per intercettarne qualcuno. — Scusa, amico, hai moneta? — Quasi sempre il tizio proseguiva senza dargli niente.

Tanto per fare qualcosa, mi misi a studiare le varie rea-zioni. Certi tiravano dritto con sguardo inespressivo, come se neanche si fossero accorti di Ginger. Altri facevano una smorfia rabbiosa, stringevano le labbra e proseguivano sprezzanti, con l'aria di chi avesse appena ricevuto un'offesa. C'era poi chi scuoteva la testa, chi si frugava in tasca e chi scrollava le spalle, esprimendo mimicamente l'assenza di monete dalle proprie tasche; e c'erano anche quelli che mu-gugnavano qualcosa d'incomprensibile, così non riuscivi mai a capire se dicessero "mi spiace non ho moneta" o "vai a quel paese". A un certo punto Ginger accostò un tizio dall'aria se-vera, militaresca, che lo squadrò da capo a piedi con disgusto e disse: — Moneta? Sei settimane in divisa, bello mio, e sa-resti nuovo di zecca! — Di tanto in tanto, però, qualcuno ti-rava fuori qualche spicciolo. I donatori erano di due tipi: quello sprezzante e quello afflitto. Il tipo sprezzante guarda-va Ginger dall'alto in basso, infilava una mano in tasca, tira-va fuori degli spiccioli, glieli dava dicendo: — Tieni — e proseguiva a testa alta. Il tipo afflitto reagiva con imbarazzo, frugandosi nelle tasche e, tirando fuori una manciata di mo-nete, diceva qualcosa tipo: — Mi dispiace... è tutto quello

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che ho — oppure: — Mi spiace, ma vede ho già dato prima... a un ragazzo. — Poi gli metteva i soldi in mano e si al-lontanava con un sorriso dispiaciuto. Uno di questi mi guar-dò con aria ansiosa, incerto se dare qualcosa anche a me.

Facemmo diversi chilometri, quella mattina, finché Gin-ger si fermò davanti a un cancello in ferro battuto.

— Eccoci arrivati, amico.— Sembra una chiesa — dissi.Rise. — È una chiesa. St. James. Qui almeno possiamo

stare seduti al riparo dal vento.— Davvero?— Certo. Durante il giorno puoi anche sdraiarti su una

panca, se vuoi. Di notte è chiusa.Entrammo in chiesa. Era splendida, dentro: interni imma-

colati, bianco e oro, vasi di fiori, legno levigato. E c'era sol-tanto un ubriacone malconcio, che seduto ricurvo su un ban-co in fondo bofonchiava fra sé. Neanche si accorse di noi. Risalimmo la navata centrale e ci sedemmo su una panca, to-gliendoci lo zaino dalle spalle. Era un sollievo potersi sedere. Una sensazione straordinaria, essere finalmente al riparo da quel vento glaciale. Mi sembrava incredibile che fossimo po-tuti entrare così facilmente. Mi sentivo imbarazzato, un in-truso. Forse avrei dovuto pregare, ma Ginger mi strizzò l'oc-chio e cominciò a contare quanto era riuscito a raccogliere.

— Una sterlina e settantaquattro — annunciò. — Possia-mo avere panini al formaggio per pranzo, vecchio mio. I pa-nini al formaggio sono la fine del mondo, qui.

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— Qui? — Pensavo che mi stesse prendendo in giro.— Sì, qui. C'è un bar attaccato alla chiesa.— Ma va' !— Altroché! Va' a vedere, se non mi credi.Scossi la testa. — Sei tu l'esperto. Ti credo. Però quei

soldi sono tuoi, non miei. Io non ho fatto niente.— Chi ha pagato la colazione, stamattina?— Io, ma...— Niente ma. Io pago e tu compri la roba. — Sorrise. —

Hai l'aria più rispettabile di me. Ti prenderanno per un turi-sta.

C'era sì, il bar, e facevano dei panini al formaggio che erano veramente la fine del mondo. Mangiammo in chiesa, e questo mi parve un po' blasfemo, ma poi mi dissi che in fon-do anche Gesù mangiava a casa della gente e perciò il fatto che noi mangiassimo a casa Sua non l'avrebbe infastidito. Ero felice, credo. Avevo un amico, la pancia piena e un tetto sopra la testa. Che si può chiedere di più?

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Consegne giornaliere 8

È successo di nuovo. Mi stavo recando nel quartiere dei teatri per una perlustrazione, quando mi si sono avvicinati due barboni e uno, il più trasandato, mi ha chiesto della mo-neta. Gli ho risposto come al solito e, allontanandomi, li ho sentiti ridere. Spero che non perdano il senso dell'umorismo, perché potrebbero averne bisogno molto presto. Non dimen-tico mai una faccia, io, e la prossima volta che c'incontrere-mo, si vedrà chi ride ultimo.

Perdio se si vedrà.

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Capitolo nono

Restammo in chiesa fino alle due. Non faceva molto caldo, ma almeno eravamo al riparo dal vento. Poi Ginger disse: — Vorrei tentare di tirar su qualcosa intorno a Trafal-gar Square. Vieni anche tu?

Annuii. — Se a te sta bene. Sarebbe ora che ci provassi anch'io, e mi sarà più facile sapendo che sei in zona.

Approvò. — D'accordo. Facciamo così: tu piazzati da-vanti all'uscita della National Gallery. Anche se non siamo proprio in alta stagione, da quelle parti i turisti non mancano mai.

Risalimmo Piccadilly e, in fondo a Haymarket, girammo a sinistra. La National Gallery non era particolarmente affol-lata, ma c'era un continuo andirivieni di gente che entrava e usciva dal museo. Nonostante il freddo, qualcuno si era per-fino seduto sulla scalinata d'ingresso. Ginger mi lasciò da-vanti all'entrata. Lo guardai allontanarsi e mescolarsi alla fol-la, poi cercai di concentrarmi sulla mia nuova attività.

L'inizio fu drammatico. Veramente drammatico. Per un po' restai fermo a osservare i passanti, sforzandomi di capire quali fossero i possibili donatori. Dio solo sa che cosa stessi cercando: un'espressione gentile, immagino, una persona

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che, a giudicare dalla faccia, non mi avrebbe mandato a quel paese. Un'idea sciocca, ovviamente. Alla fine presi il corag-gio a due mani e pescai un tizio a caso. — Sparisci — rin-ghiò, salendo di corsa i gradini. I cinque minuti successivi li sprecai pensando a quanto mi avevano ferito quelle parole. Mi sentivo rifiutato. E mi chiedevo come mai un essere uma-no sensibile alle bellezze dell'arte fosse così insensibile ai sentimenti di un suo simile. L'avevo presa come un fatto per-sonale. Errore gravissimo. Dopo un po' me ne resi conto e cominciai a fermare gente a casaccio, senza aspettarmi nien-te, augurando buona giornata anche a quelli che non mi da-vano un soldo. Smussai la punta della mia sensibilità nel duro terreno della loro indifferenza, finché diventai anch'io indifferente e a quel punto fu tutto più facile.

Mi diedi da fare sino alla chiusura del museo, stando un po' in piedi e un po' seduto sui gradini. Avevo i piedi intorpi-diti ed ero mezzo congelato, ma non mi arresi e, quando il museo chiuse e la gente scivolò via, contai gli spiccioli rac-colti e scoprii che avevo tirato su quasi quattro sterline. At-traversai la piazza di gran carriera e trovai Ginger sdraiato su una panchina. Sentendomi arrivare, sollevò la testa.

— Com'è andata?— Tre sterline e ottantuno pence. Tu?— Due e quarantaquattro, e sono congelato. Mangiamo

qualcosa.Prendemmo un trancio di pizza e una coca a testa. Men-

tre Ginger guardava da un'altra parte, comprai un pacchetto

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di sigarette e un accendino da quattro soldi e glieli diedi. — Sei fuori di testa, amico — mi disse. — Manco fumi, tu.

A sera, il vento si rafforzò, portando con sé raffiche ta-glienti di nevischio. Avrei dato qualsiasi cosa pur di tornare nella chiesa di St. James, ma Ginger mi ricordò che a quell'o-ra l'avremmo trovata chiusa. Finimmo per sdraiarci sullo Strand, nell'androne di un negozio di roba orientale, infagot-tati nei nostri sacchi a pelo, in attesa che chiudessero i teatri. — Laggiù — disse Ginger, battendo i denti — ci sono delle nicchie belle profonde. Perfette per passarci la notte. Però bi-sogna arrivarci presto.

Accese una sigaretta, fece un tiro e me la passò. Esitai e lui ridacchiò, buttando fuori il fumo. — Forza. Tanto ai ses-santa non ci arrivi lo stesso, vivendo per strada.

Feci un tiro e mi prese un attacco di tosse. Ginger scop-piò a ridere. — Vedi? Sei già più di là che di qua.

Se credete che per dormire all'aperto basti trovare un luogo asciutto dove sdraiarsi, con la sicurezza di non essere cacciati via dagli sbirri, vi sbagliate. Non è colpa vostra, chiaro. Se non ci avete mai provato, non potete sapere che cosa significhi, così cercherò di darvene un'idea.

Tanto per cominciare, vi trovate un posto. Dovunque sia (a meno che si tratti di una casa abitata da abusivi o di qual-che edificio fatiscente), avrà probabilmente un pavimento di pietra, piastrelle, cemento o mattoni. Duro e freddo, cioè. E magari anche angusto, come sono di solito gli androni dei

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negozi. Comunque, diciamo che vi siete trovati un posto. Se siete così fortunati da avere un sacco a pelo, lo srotolate e vi infilate dentro.

Tutto bene? Forse sì, forse no. Ricordate la mia prima notte? Armadio-di-Liverpool? Certo. Mi cacciò via e mi fre-gò l'orologio. Be', sono cose che possono succedere ogni not-te, e c'è di peggio. Un ubriacone o un cane potrebbero pi-sciarvi addosso. Succede di continuo: quella che per voi è una camera da letto, per un altro è un cesso. O potreste finire fra le mani di una banda di teppisti ubriachi in cerca di qual-cuno da conciare per le feste. Capita spesso, e se quelli si la-sciano prendere la mano potete anche lasciarci la pelle. Ci sono quelli a cui piacciono i ragazzini e pensano che, se uno è un barbone, è disposto a fare qualsiasi cosa per soldi; e ci sono gli psicopatici, che vi accoltellano solo per prendervi lo zaino.

Così vi sdraiate e tenete le orecchie tese. Eccome. Passi. Voci. Respiri, persino. Non è facile dormire.

Senza contare i lividi. Che lividi? Provate a restare sdra-iati su un pavimento di pietra per mezz'ora. Soltanto mezz'o-ra. Potete scegliere la posizione che preferite e cambiarla fin-ché volete. Non starete mai comodi, ve l'assicuro. Non riu-scirete mai ad addormentarvi, a meno che siate ubriachi fra-dici o esausti. E se lo siete, e riuscite ad addormentarvi, pre-paratevi: quando riaprirete gli occhi, avrete fianchi, spalle, gomiti, caviglie e ginocchia pieni di lividi, soprattutto se sie-te un po' dimagriti per la dieta degli ultimi giorni. E se lo fate

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sei ore per notte, sei notti di fila, vi sentirete come se foste caduti da un treno in corsa.

E il freddo, poi. Se avete provato anche solo una volta a chiudere gli occhi coi piedi gelati, saprete che è impossibile addormentarsi anche sotto una coperta. Dovete trovare un modo per scaldarveli, o rimarrete svegli tutta la notte. E in gennaio, in un androne, coi vestiti fradici, la cosa può risulta-re alquanto complicata. E, anche se ci riuscite, può scapparvi la pipì e allora vi tocca ricominciare da capo.

Questi sono solo alcuni degli svantaggi. Non ho citato i crampi della fame, le emicranie e la febbre, il mal di denti, le pulci e i pidocchi. Non ho parlato della nostalgia di casa, del-la depressione, della disperazione. Non ho descritto come ci si sente a desiderare una ragazza quando le circostanze ren-dono praticamente impossibile conoscerne una, come ci si sente a essere un rifiuto della società, una 'non persona'.

Così restate sdraiati sui vostri lividi, le orecchie tese, cer-cando di scaldarvi i piedi. Vi girate su un fianco e vi fa male l'anca, vi sdraiate sulla schiena e vi si congelano i piedi e il cemento vi distrugge le caviglie. Con uno sforzo immane, decidete di restare comunque immobili per qualche secondo nella speranza di addormentarvi, ma è impossibile. Lo zaino sotto la testa è duro come una pietra e avete il naso che or-mai è un pezzo di ghiaccio. Vi chiedete che ore sono. Potete smettere di stare all'erta, adesso? O potrebbe ancora arrivare qualcuno? Rintocchi lontani. Drizzate le orecchie e contate.

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L'una? "Ma va, non può essere soltanto l'una!" Vi dite. "Sono qui da ore. Che mi sia sfuggito un rintocco?"

E questo cos'è? Sembra un respiro. Un respiro pesante, di un pazzo, magari. Fermo. Buono. Magari non mi vede. Driz-zo le orecchie. È ancora qui? Silenzio. Forse si sta avvicinan-do senza fare rumore. No. Tranquillo. Posso tirare il fiato. Cavolo, ho i piedi congelati.

Un'immagine improvvisa: la mia vecchia stanza, a casa. Il mio letto. Che cosa darei per... no, non devo. Non devo pensarci. Impossibile dormire, altrimenti. Forse, in questo momento, ci dorme qualcun altro. Al caldo, all'asciutto. Al sicuro. Beato lui.

Cibo. Oddio, no, non pensiamo al cibo...!Mamma. Chissà cosa sta facendo mamma. Chissà se si

domanda che fine ho fatto. Come reagirebbe se lo scoprisse? Mi manchi, mamma. E io ti manco? C'è qualcuno che sente la mia mancanza?

Altri rintocchi. L'una e un quarto? Non posso crederci.Gli assistenti sociali staranno esaminando il mio caso?

Hanno un'idea di cosa significhi dormire in un androne? Fi-guriamoci.

E così passa il tempo, un'ora dopo l'altra. Ogni tanto son-necchiate, ma solo pochi minuti per volta. Il freddo, la paura, il dolore sono tali che finite per pregare che venga presto il mattino anche se siete stanchi morti, anche se siete certi che domani non sarà migliore di ieri.

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E la cosa peggiore è sapere che non avete fatto niente per meritarvi tutto questo.

Il mattino dopo tornai all'Assistenza Sociale e scoprii che Ginger aveva ragione. Fui ricevuto da un tizio che mi co-municò le loro conclusioni: se ero diventato un senzatetto, la colpa era mia e perciò non avevo diritto ad alcun sussidio. Non era mia intenzione dare in escandescenze, ma non potei trattenermi. Ero sporco, avevo un freddo cane, una fame be-stiale e i piedi distrutti. Ero così stanco che riuscivo a mala-pena a mettere insieme una frase sensata. Ne avevo fin sopra i capelli, così sbottai. Gli dissi di Vince e mamma, Vince e Carole, Vince e me. Pensavo che avrebbe capito, ma proba-bilmente uno dei leoni in pietra di Trafalgar Square mi avrebbe dato più retta. Restò seduto a guardarmi dietro i suoi occhiali dalle lenti azzurrate e, quando ebbi finito di sfogar-mi, ripetè parola per parola e senza alcuna espressione quello che aveva già detto.

Avevo appuntamento con Ginger davanti al Cleopatra's Needle, l'Obelisco di Cleopatra. Il tempo era orrendo e non me la sentivo di farmi altri chilometri a piedi, così presi la metropolitana a Euston e scesi all'Embankment. Arrivai con un certo anticipo e Ginger non c'era ancora. Passai un paio d'ore a chiedere l'elemosina lungo il fiume, ma raccolsi uni-camente vento e pioggia. Alla fine decisi di rinunciare e an-dai a sedermi sotto un ponte, senza però riuscire a ripararmi dal vento gelido. Ginger mi aveva lasciato due sigarette.

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Chiesi a un tizio di farmi accendere e me le fumai tutt'e due, accendendo la seconda col mozzicone della prima. Stavo morendo di fame e il fumo mi dava un senso di nausea, ma anche, stranamente, di conforto. Quand'ebbi finito le sigaret-te, contai i soldi che mi restavano e scoprii di avere appena quattro sterline. Quattro sterline e sedici pence, per la preci-sione. Avevo assoluto bisogno di mettere qualcosa sotto i denti e trovare un gabinetto, così m'incamminai con la spe-ranza d'incontrare un baracchino di hot-dog o roba del gene-re. Trovare un bagno pubblico non fu difficile e, dopo esser-mi lavato la faccia e le mani, mi sentii un po' meglio. Di mangiare, invece, neanche a parlarne.

Mi ritrascinai fino all'Obelisco di Cleopatra, dove intanto era arrivato Ginger. Stava seduto sullo zaino, con un sacco della pattumiera che gli copriva la testa e le spalle. — È una nuova moda? — gli chiesi.

—Splendido, vero? — Si alzò e fece una piroetta. — Ul-timo grido. Com'è andata?

Glielo dissi e lui scrollò le spalle. — Stando così le cose, dovrai rinunciare a Buckingham Palace e pensare a una solu-zione più raccolta, tipo una scatola di cartone.

Anche lui moriva di fame, così ci trascinammo verso nord in cerca di una pizza. Il sole già tramontava. — Che ne diresti di un posto decente per stanotte, vecchio mio? — pro-pose Ginger, mentre cenavamo seduti in un portone. — Con un tetto sopra la testa e quattro pareti intorno.

— L'Esercito della Salvezza o roba del genere?

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— No. Si sentono cose poco rassicuranti su quei posti. Pieni di pazzi furiosi. Una volta ci ho passato la notte. Da la-sciarci la pelle dalla paura. No, pensavo a Capitan Uncino.

— Chi?— Capitan Uncino.Lo guardai. — Spiegati meglio. Chi è questo Capitan

Uncino?Sorrise. — Non è un personaggio di fantasia, amico. È

un tizio in carne e ossa. Andiamo a berci un caffè e ti dico tutto di lui.

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Consegne giornaliere 9

Il tre è un numero importante. Lo si ritrova ovunque. Tre urrà. I tre moschettieri. Se potessi esaudire tre desideri. Tre civette sul comò. La Santissima Trinità. Le tre armi dell' esercito. I tre porcellini. Un numero importante.

Ho tre reclute, ora. Quando ne avevo una sola, ero un as-sassino; due, un doppio assassino; ora che ne ho tre, suppon-go di essere un pluriomicida o, per essere più precisi, quello che gli americani definiscono un serial killer. Se mi prendes-sero - il che non accadrà - probabilmente farebbero un film su di me.

Naturalmente le ho sistemate alla maniera militare, la più alta a sinistra e la più bassa a destra, e fanno un gran bell'ef-fetto, soprattutto adesso che gli ho tagliato i capelli. Dovrò cercare degli stivali, per loro, qualcosa che si possa lustrare. Al momento, calzano tutti quelle orrende scarpe da ginnasti-ca.

Il reclutamento di ieri sera mi ha dato una particolare gioia. Ma andiamo con ordine. Saranno state circa le otto quando ho dato inizio al pattugliamento serale. Il tempo non era dei migliori - vento e nevischio - proprio la serata ideale per uno che lavora nel mio ramo. Avevo appena sceso le sca-

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le che portano al Grand Union Canal e mi dirigevo verso Ca-mden Lock per controllare la situazione, quando l'ho visto. Una creatura miserevole, macilenta, le spalle cascanti, sparu-ti ciuffi di capelli unti che gli scendevano sul collo. Stava si-stemando dei cartoni sotto i gradini che avevo appena sceso. Era un angolo asciutto e il tizio, chiaramente, vi si stava ac-campando per la notte. Mi sono avvicinato con la mia ma-schera da buono e un'aria preoccupata. — Santocielo — ho esordito — non vorrà passare una notte così in un posto si-mile!

Ha reagito con sospetto. Sicuro. Mi ha fissato dritto negli occhi e ho capito che non era un novellino. — Hai un'idea migliore? — ha ringhiato.

Ho scrollato le spalle, esibendo il mio migliore sorriso innocente. — Non intendevo offenderla — ho detto.

—Ma è così freddo che mi domandavo se avesse già tentato di passare all'ostello di Plender Street.

— Non e' è nessun ostello in Plender Street — ha ribat-tuto. — E comunque a quest'ora gli ostelli sono già strapieni. — Mi ha fissato socchiudendo gli occhi. — E a te che ti fre-ga? A che gioco stai giocando, nonno?

— Nessun gioco. — Altro sorriso innocente. — C'è un ostello in Plender Street. È nuovo, perciò non tutti lo cono-scono. E ci sono ancora posti liberi.

— Com'è che sai tutto di 'sto posto?— Sono il direttore — ho mentito. — Sono io che man-

do avanti la baracca.

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— E come mai non sei lì, allora?Era un furbacchione, questo. Dovevo usare tutto il mio

talento. — Stavo facendo un salto a casa — ho risposto.— A dare da mangiare a Saffo.

— Saffo?— Il mio gatto.Ha starnutito. — Di sicuro quel gatto dorme meglio di

me. E mangia meglio di me. — Continuava a fissarmi.— Così dirigi un ostello?

— Esatto.— E ci sarebbe ancora posto?— Ce n'erano, quando sono venuto via.— Ci dev'essere sotto qualcosa. — Mi guardò di traver-

so. — Quanto costa?— Niente. E non c'è sotto niente. È gratuito. Prima cola-

zione compresa.— Così se vengo con te...Ho sorriso. — Se viene con me, non dovrebbe avere pro-

blemi. Avrebbe il posto assicurato.— Dove abiti?— Poco lontano. Mornington Place. Sa dov'è?Ha annuito. — Sì, lo so. D'accordo, vengo. Spero per le

che tu non stia giocando sporco, nonno, perché se è così ti faccio sputare le budella.

Ha mollato i cartoni, si è messo lo zaino in spalla e ci sia-mo incamminati.

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— Di dov'è lei? — gli ho chiesto, anche se non me ne fregava un accidenti di dove veniva. Sapevo esattamente do-v'era diretto.

— Leicester.— Leicester? Lì non si trova un lavoro neanche a paga-

re, vero?Ha scosso la testa. — Sono andato avanti sei mesi a scri-

vere lettere, fare colloqui. Niente.— Così ha pensato di provare a Londra?— Non subito. Ho provato con l'esercito, prima.Questo sì che mi ha fatto drizzare le orecchie. —L'esercito? — ho chiesto. — E com'è andata?

Ha scrollato le spalle: — Insopportabile. Capoccioni che passano la giornata a urlarti in faccia. A dirti quello che devi fare. E la roba che ti danno da mangiare... Mioddio! Così l'ho mollato.

— Be', non si può dire che piaccia a molti, l'esercito. Pieno di fascisti, è chiaro. — Ribollivo, è ovvio, ma non mi sono lasciato sfuggire una parola. Un'interpretazione subli-me. Capoccioni! Davvero.

— Dei fascisti non so — ha replicato. — Non mi occupo di politica. Ma uno dev'essere alla disperazione per restare fra quella gentaglia. — Ha sputato in un tombino. — Meglio vivere in mezzo a una strada.

D'accordo, amico, ho pensato. Tu ancora non lo sai, ma stai per essere arruolato in un altro esercito. È un piccolo

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esercito, che non si affida ai volontari, e uscirne è alquanto difficile. Perdio se è difficile.

"Sta' attento" mi sono detto. "Questo non è un ingenuo". Ma poi la cosa si è rivelata più semplice del previsto. Il tene-rone si è acquattato in cucina per accarezzare quello stupido gatto e io gli ho lasciato aprire una scatola di KiteKat. Adde-strato a uccidere. Bisogna saper cogliere il momento giusto.

E sapete una cosa? Il ragazzo è migliorato del cento per cento col taglio di capelli che gli ho fatto. La sua mamma sa-rebbe fiera di lui.

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Capitolo decimo

Così presi un caffè al baracchino delle pizze, ne bevem-mo un po' a testa e Ginger mi raccontò di Capitan Uncino.

— Qualche anno fa, 'sto tizio - che in realtà si chiama Probyn - compra per quattro soldi sei barche conciate da fare schifo, con l'intenzione di risistemarle e affittarle a chi vuol fare le vacanze sui canali, ma poi scopre quanto verrebbe a costargli la cosa e decide di lasciar perdere. Ha un'idea mi-gliore. Ha visto un sacco di ragazzi che dormono per strada e pensa: ci sono! Dormitori galleggianti, no? All'asciutto, al ri-paro dal vento, al sicuro dai pazzi furiosi, senza sbirri tra i piedi. Tre sterline a notte. Così strappa via tutto l'arredo per sfruttare al massimo il pavimento o il ponte o come diavolo si chiama, e calcola di riuscire a infilare fino a sessanta ra-gazzi sottocoperta. Sei barche. Trecentosessanta ragazzi a tre sterline a cranio. Mille e ottanta sterline a notte. Certo in pra-tica non funziona proprio così. Non è quasi mai al completo, neanche in inverno, perché non è mica facile trovare tre ster-line e poi alcuni ragazzi non sopportano di stare chiusi lì dentro, ma Capitan Uncino ci guadagna bene lo stesso.

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S'interruppe per bere un sorso di caffè e ne approfittai per chiedere: — Ma ci saranno delle norme da rispettare, no? Contro gli incendi e roba del genere. È legale quello che fa?

Ginger scrollò le spalle. — Incendi, salute, igiene. Proba-bilmente non c'è niente in regola, ma non gliene frega a nes-suno. Lui toglie un po' di ragazzi dalle strade, giusto? E li sbatte sottocoperta, dove i turisti non possono vederli, così l'amministrazione chiude un occhio.

— E dov'è che tiene queste barche?— Vicino a Camden Lock. Cosa ne dici? Dormiamo al

coperto, stanotte?— Non mi dispiacerebbe. È che sono quasi al verde. Tre

sterline per dormire e resto all'asciutto.— Niente paura. — Sorrise. — Ho incontrato un tizio,

oggi. Mi doveva dieci sacchi. Non li aveva tutti, ma me ne ha dati sette. Ci stiamo larghi.

— Dev'essere uno che lavora.— Qualcosa del genere. Vende giornali. Li vende a cin-

quanta pence e se ne tiene trenta. Beato lui. — Mi fissò. — Andiamo, allora?

Annuii e c'incamminammo a testa bassa nel vento gelido, difendendoci alla meglio col sacco della spazzatura di Gin-ger. Due ragazzi smarriti, in cammino verso il paese dei so-gni.

Avete mai visto uno di quei disegni che raffigurano la sezione di una nave negriera? Una di quelle con dentro gli

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schiavi stipati come sardine in ogni centimetro quadrato? Be', la situazione non era molto diversa sulla barca dove fi-nimmo Ginger e io.

Ci eravamo separati dalle nostre sei sterline sull'alzaia che correva lungo il canale, dove Probyn aveva sistemato il suo ufficio sfruttando uno di quei gabbiotti gialli di plastica dei guardiani. A vederlo, non avrei mai pensato che fosse lui Capitan Uncino. Stava su una sedia pieghevole e portava sti-vali di gomma, una cerata, una sciarpa pesante, un berretto di lana e guanti senza dita. Aveva la pelle liscia, la carnagione rosea, occhi chiari e l'aspetto di un uomo sui trentacinque. Arraffò i nostri soldi e sorrise. Aveva piccoli denti bianchi, regolarissimi. Ficcò le banconote in un portafoglio rigonfio che infilò in una tasca interna. Mi stavo chiedendo come mai nessuno lo avesse ancora rapinato, quando sentii un ringhio profondo e vidi un Rottweiler grande come un cavallo sdra-iato ai suoi piedi. Probyn sorrise di nuovo. — Non pensarci nemmeno, ragazzino — disse in tono soave, come se mi avesse letto nel pensiero. Indicò la barca più vicina. — Quel-la — disse. — Attenti a non cadere, quando salite.

Ho già detto che sembrava una nave negriera. Quello che non ho detto è che puzzava anche come una nave negriera. Varcammo un portello e fummo investiti dal fetore di troppi corpi umidi e sporchi e dall'eccessiva concentrazione di gas corporei. Dopo aver sceso tre gradini, cominciammo a in-ciampare nei corpi distesi, cercando uno spazio dove siste-marci alla luce fioca di un'illegale lampada a cherosene. Tro-

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vammo un angolo libero e ci sdraiammo, beccandoci grugni-ti e maledizioni dai corpi vicini.

C'era una cosa buona, comunque: lì, almeno, non sentivi freddo e non dovevi stare sempre sul chi va là. La barca don-dolava sull'acqua e, una volta abituati alla puzza, la sistema-zione era abbastanza gradevole. È incredibile quanto siano morbide le assi di legno quando si è abituati a dormire sul cemento. Mi addormentai quasi subito e sognai di solcare col mio yacht le acque dei tropici sotto un cielo limpidissimo, mentre Vince correva avanti e indietro portandomi bibite ghiacciate e il mio ex padrone di casa, Faccia-di-ratto, mi fa-ceva aria con un ventaglio di penne di struzzo. Un sogno, finché durò. Un incubo, il risveglio.

Vi siete mai accorti della quantità di soldi che la gente spreca per fesserie? Io non me n'ero mai reso conto fino a quel sabato pomeriggio, dopo la notte passata sulla barca, quando Ginger e io decidemmo di fare un giro al mercato.

A quanto pare, il mercato di Camden Lock è famoso, an-che se non ne avevo mai sentito parlare. È proprio di fianco al canale, un'area vastissima, strapiena di negozi e bancarelle che vendono di tutto: cappelli, gioielli, magliette, specchi, candele. Qualsiasi cosa vi venga in mente, lì c'è. Per la mag-gior parte è roba tradizionale di altri Paesi, roba indiana e così via, e ci sono dei bastoncini di incenso che bruciano di continuo, profumando l'intera zona. Il mercato c'è solo du-rante i fine settimana e attira migliaia di persone.

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Ginger e io decidiamo di fare un giro e lui dice: — Qui i soldi non mancano, vecchio mio. Soldi a palate. Mi si spezza il cuore a vedere come li buttano via. Guarda. — Guardo, e vedo delle grosse candele a strisce colorate tipo arcobaleno, a quattro sterline e venti l'una. — Quattro sterline e venti — sottolinea Ginger con amarezza. — Si rifiutano di darti dieci pence per una tazza di tè, e poi spendono quattro sterline e venti per una porcheria di cera. Mi viene da piangere.

— Perché ci siamo venuti, se ti dà tanto fastidio?Mi strizza l'occhio. — Servizi, vecchio mio. Vieni.Lo seguii su una scala, lungo una passerella, e mi trovai

davanti una fila di bagni immacolati, dove riuscimmo a darci una bella lavata. Ginger ne approfittò per lavare anche un paio di mutande sporche che aveva nello zaino. La gente continuava a entrare e uscire, ma nessuno fece caso a noi. Usai almeno sedici salviettine di carta per asciugarmi, e devo dire che alla fine mi sentivo molto meglio.

Stiamo sorseggiando un bella tazza di tè bollente in un bar del mercato quando entrano tre ragazzi. Ginger li cono-sce e li chiama, e quelli vengono a sedersi insieme a noi. Due ragazzi e una ragazza, ognuno col suo zaino e quella faccia grigia da zombie che ti viene a furia di vivere in mezzo a una strada. Ginger non mi presenta e loro mi ignorano mentre parlano alla velocità della luce e stringono le tazze fumanti fra le mani screpolate. Dove sei stato? Come ti vanno le cose? Hai visto il tizio? Resto zitto e fisso la mia tazza di tè. Provo un senso di... cosa? Gelosia? Forse. Apprensione di si-

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curo. Questi sono amici di Ginger. Hanno fatto delle espe-rienze insieme. Hanno conoscenti in comune. Tutto quello che sa lui, lo sanno anche loro. E se mi pianta in asso e se ne va con loro? Se mi ritrovo ancora solo, posso farcela? So ab-bastanza per riuscire a cavarmela?

A un certo punto salta fuori un nome. Un soprannome. Il Cameriere. — L'hai più visto il Cameriere? — chiede Gin-ger, e la ragazzascuote la testa.

—No — risponde. — È sparito. Il giorno prima era lì nel solito androne e il giorno dopo non c'era più.

—Avrà trovato un lavoro — suggerisce uno dei ragazzi.—O se n'è andato — dice l'altro. Questa frase chiude l'ar-

gomento e la conversazione si sposta su un altro soggetto, la-sciandomi con un interrogativo: come mai l'hanno sopranno-minato così, quel tizio?

Alla fine si alzano tutti e si rimettono lo zaino in spalla. Ginger e io facciamo lo stesso. Nessuno di noi vorrebbe uscire dal bar. Fa un bel caldo, qui dentro, ma il proprietario ci guarda male e non abbiamo i soldi per un altro tè, così ce ne andiamo prima che ci cacci. Fuori dal bar, i tre salutano Ginger e uno di loro mi fa un cenno di saluto, poi se ne van-no mescolandosi alla folla. Ginger è ancora qui, e siccome ne sono felice, sorrido e dico: — Il tizio di cui stavate parlando... perché lo chiamate il Cameriere?

Ginger sorride. — Aveva l'abitudine di bazzicare i bar e, appena vedeva uscire qualcuno, si fiondava al tavolo e infila-va gli avanzi in un sacchetto prima che il cameriere, quello

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vero, arrivasse a sparecchiare. Non gli riusciva, di chiedere l'elemosina. Ecco perché si arrangiava così, ed ecco perché l'abbiamo soprannominato il Cameriere.

Lasciammo il mercato. Mentre ci trascinavamo lungo l'alzaia del canale, continuai a pensare al Cameriere e, dopo un po', dovetti voltare la faccia per non far vedere a Ginger che lottavo contro le lacrime. So che può sembrare stupido. In fondo, nemmeno lo conoscevo quel tizio. Non l'avevo neanche mai visto, ma c'era un pensiero che non mi dava pace. Il pensiero che anni fa c'era questo bambino, no?, e mamma e papà lo adoravano come tutte le mamme e i papà, e gli avevano dato un nome e avevano sognato che cos'a-vrebbe fatto da grande e come sarebbe stata la sua vita e tutto il resto, e non si erano mai immaginati neanche lontanamente che un giorno quel bambino sarebbe diventato il Cameriere, sarebbe vissuto di avanzi e sarebbe stato così insignificante da sparire senza che gliene fregasse niente a nessuno.

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Consegne giornaliere 10

Credo che la montagna sia venuta a Maometto. Ricorda-te i due che mi avevano riso in faccia? Be', stamattina li ho visti a Camden Lock. Parlavano con altra gentaglia della loro risma. Sono certo che fossero loro, non dimentico mai una faccia. Spero due cose soltanto: che si siano trasferiti in questa zona, e che prima o poi si dividano. Non fraintende-temi: sono in gamba nel mio lavoro, anche troppo, però non proverei mai a reclutarne due per volta.

Vedete, bisogna conoscere il proprio nemico per poterlo sconfiggere. E io lo conosco molto bene, il mio nemico. L'ho osservato a lungo, ed ecco che cosa ho notato. Un sacco di barboni girano a coppie o a gruppi di tre o quattro e non si mollano mai. Magari di giorno si separano anche, per esem-pio se uno deve andare all'Assistenza Sociale o da qualche altra parte, ma la notte sono sempre insieme, per stare più al caldo o sentirsi più al sicuro o lo sa il diavolo perché. In queste condizioni, avvicinarli è da stupidi, e io non sono stu-pido. Le so, certe cose. Perdio se le so. No. Tipi solitari, ecco quello che mi ci vuole. Persone sole. Perciò ho inten-zione di tenere d'occhio i miei ragazzi dalla risata facile e, quando si separeranno, si vedrà chi riderà per ultimo.

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Capitolo undicesimo

Gli ultimi giorni di gennaio furono drammatici. Per poco non tornai da Vince. Giuro. Continuava a nevicare e i marciapiedi erano coperti di neve mista a fango e per le scar-pe da ginnastica non c'è nulla di peggio. Ginger e io cercava-mo riparo nei sottopassaggi e nei portoni, ma avevamo sem-pre i piedi fradici e congelati. Notte dopo notte, il gelo tra-sformò la fanghiglia in ferro grigio e le suole delle scarpe in blocchi di marmo, rendendoci il sonno impossibile. E se pen-sate che la vista di ragazzi bagnati, fradici e tremanti renda i passanti più generosi, vi sbagliate di grosso. L'effetto fu esat-tamente l'opposto. La gente tirava dritto con aria scocciata e le mani in tasca. Non uno che si fermasse.

Ci venne fame. Una fame da lupi. A stomaco vuoto, il freddo entra nelle ossa e non esce più. Provammo di tutto: pestare i piedi per terra, correre sul posto, alitarci sulle mani, stringerci nei sottopassaggi. Tutto inutile. Giorni e notti si susseguirono, dissolvendosi gli uni negli altri, finché arri-vammo al punto di non sapere più che giorno fosse. Neanche riuscivamo a distinguere il mattino dalla sera. Una volta Gin-ger si fece prestare un pennarello da un giornalaio e scrisse su un paio di cartoni NON HO CASA, NON SONO ALCO-

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LIZZATO, AIUTATEMI VI PREGO. Era importante specifi-care che non eravamo alcolizzati, mi spiegò, perché la gente non fa l'elemosina agli ubriaconi. Ci sedemmo in un sotto-passaggio, infilando le gambe nei sacchi a pelo e appoggian-do i cartelli contro il muro sporco. Ma sarebbe stato lo stesso se avessimo scritto: SONO UNA CAROGNA, UN FAN-NULLONE, PRENDO A CALCI I BAMBINI E VOGLIO SOLO I VOSTRI SOLDI. Tanto, visto il risultato!

Quella notte, ci mettemmo in coda davanti a diversi ostelli, ma c'erano centinaia di ragazzi e trovare un letto al coperto fu impossibile. Mi vennero le allucinazioni e per qualche ora credetti di essere tornato sulla fetida barca di Ca-pitan Uncino. Nei momenti di lucidità avrei dato volentieri il braccio destro pur di tornarci davvero, ma ero sicuro che il Capitano non fosse particolarmente interessato alle braccia destre. Visto com'era andata con gli ostelli, pensammo di ten-tare le stazioni ferroviarie. Camminando, ci saremmo scalda-ti. E poi, una volta arrivati alla stazione di King's Cross o di St. Pancras, avremmo aspettato l'arrivo dell'Esercito della Salvezza. Sapevamo che passava sempre a mezzanotte a di-stribuire panini o brodo caldo. Siccome il cibo era gratis, c'e-ra sempre una calca pazzesca, ma di solito almeno un panino o una tazza di brodo a testa erano assicurati. Fu così che riu-scimmo a sopravvivere fino a febbraio e all'inizio del disge-lo.

A proposito, se vi state chiedendo come mai non avessi più fatto colloqui di lavoro, posso illuminarvi. I miei vestiti

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erano ormai stracci luridi. Le unghie si erano trasformate in lunghi artigli neri, i capelli in una massa arruffata che mi ar-rivava alle spalle. E puzzavo. Certo che volevo un lavoro, avrei ucciso pur di trovarne uno, ma sapevo di non avere la minima speranza che mi assumessero, conciato com'ero. Neanch'io avrei mai assunto uno come me.

Febbraio non portò certo un caldo torrido, ma almeno la temperatura si mantenne quasi sempre sopra lo zero e non pioveva. Anche chiedere l'elemosina divenne più facile. Non facile, ma più facile. Cominciavo ad abituarmi alla vita di strada, o almeno così credevo. E mi sbagliavo. Avrei dovuto capire che era la presenza di Ginger a rendere le cose più fa-cili. Me ne resi conto soltanto il giorno che Ginger sparì.

Un giorno cominciato come tutti gli altri. Ci svegliammo che era ancora buio e, dopo aver raccolto le nostre cose, an-dammo a berci un caffè. In quei giorni dormivamo vicino alla stazione di Camden e c'era un bar che restava aperto tut-ta la notte, il Brazilia. Stavamo lì a scaldarci finché faceva giorno, poi andavamo a chiedere l'elemosina. Quella mattina Ginger disse: — Ho appuntamento con degli amici a Hol-born, stamattina. Ci vediamo più tardi, d'accordo?

Scrollai le spalle. — D'accordo. — Non sapevo chi fos-sero, questi amici, né quando Ginger avesse preso appunta-mento con loro, ma era chiaro che non mi voleva fra i piedi e io non avevo intenzione di discutere. Il modo più veloce di perdere un amico è impicciarsi dei fatti suoi, così feci come se non me ne fregasse. E invece mi fregava. E mi feriva.

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Andai con lui fino alla stazione e lo salutai augurandogli una buona giornata. Ginger sorrise, ricambiò il saluto con un cenno del capo, poi fu spazzato via dal flusso dei pendolari.

Passai la giornata trascinandomi per High Street a chie-dere l'elemosina e a pensare a Ginger e a chiedermi cosa stesse facendo coi suoi amici a Holborn e perché non mi avesse voluto con lui. Forse è uno spacciatore, pensai. Eroina e crack. Ecstasy. O forse ha una ragazza ricchissima, tipo ereditiera o roba del genere, e in questo preciso istante sono chiusi in un attico a mangiare aragosta e sorseggiare cham-pagne. Non ero preoccupato. Non ancora. Era già successo che Ginger sparisse durante il giorno e tornasse col calare della sera, ma non vedevo l'ora che quella giornata finisse.

Ogni volta che passavo davanti all'orologio fuori dalla stazione, lanciavo un'occhiata. Alle cinque e mezzo, smisi di fare su e giù. Alcuni negozi stavano già chiudendo, così ne approfittai per sistemarmi in un androne libero, da dove si vedeva perfettamente la stazione. Ovviamente non avevo idea di quando sarebbe tornato Ginger, ma avevo i piedi di-strutti e dovevo assolutamente sedermi. Da lì si vedeva an-che l'orologio, così potevo tenere d'occhio sia la stazione sia l'ora. Non mi era mai successo di veder passare i minuti così lentamente.

A un certo punto mi addormentai e probabilmente dormii parecchio, perché, quando il freddo mi risvegliò, erano già le undici e la stazione era chiusa. Non c'era modo di sapere se Ginger fosse tornato o no. Controllai in tutti i posti dove an-

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davamo a dormire di solito, ma di lui neanche l'ombra. Non me la sentivo di affrontare la notte da solo, così andai da Ca-pitan Uncino e gli detti fino all'ultimo penny per avere un posto su una barca. Ma questa volta non feci sogni d'oro.

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Consegne giornaliere 11

Spiritoso Numero Uno. Era il nome in codice dell'opera-zione, un'operazione preparata meticolosamente ed eseguita ad arte. E ora è giunto il momento di fare rapporto. In un esercito ben organizzato, ogni operazione è sempre seguita da un rapporto. Una specie di autopsia, se mi è consentita la battuta un po' macabra.

Per prima cosa, la raccolta di informazioni. Il successo di un'operazione dipende sempre da un'accurata raccolta d'informazioni, e la mia è stata un modello di accuratezza. Perdio se lo è stata. Quello che ho fatto è stato scoprire i loro nomi. Una cosa da niente, no? Elementare, ma si è rive-lata una scoperta fondamentale. Non ce l'avrei mai fatta, senza quell'informazione.

Che cos'ho fatto? Semplicissimo. La strategia più sem-plice è spesso la migliore. Li ho pedinati finché si sono divi-si. Come ho già avuto modo di dire, è bene che l'obiettivo sia sempre una persona sola. Be', oggi uno dei due spiritosi, Ginger, ha preso la metropolitana a Camden. Dapprima ho pensato che l'avrebbero presa tutt'e due, ma poi ho visto che si sono separati davanti alla stazione. L'altro barbone (Link, si fa chiamare, come la linea ferroviaria; anche se, nel suo

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caso, Fetenzia sarebbe molto più appropriato) si è messo a chiedere l'elemosina in High Street. Io sono andato a fare un giro, poiché era ovvio che il mio obiettivo non sarebbe ri-comparso prima di un'ora o due. Quando sono tornato sul luogo, mi sono messo a passeggiare guardando le vetrine. Link ciondolava ancora per strada chiedendo soldi, e ho fat-to in modo di stargli alla larga perché non volevo che mi no-tasse.

L'attesa si è rivelata più lunga del previsto e rischiava di risultare perfettamente inutile dal momento che Link non se ne andava mai. Sull'imbrunire ho pensato che mi avrebbe la-sciato libero il campo, e invece niente. Alla fine si è seduto in un androne proprio di fronte alla metropolitana e io ho pensato: fantastico. Accidenti a te, stupido fannullone. Era ovvio che aspettava il suo amico. Stavo quasi per rinunciare, ma per fortuna l'idiota si è addormentato e poco dopo ho vi-sto il mio obiettivo uscire dalla stazione. Era ora di mettere in atto il piano.

Mi metto la mia maschera da buono, attraverso la strada di corsa e lo afferro per un braccio ostentando un'espressio-ne angosciata. — Scusa —farfuglio. — Sei tu Ginger?

—E tu chi sei? Cosa vuoi? — Vede che sono sconvolto, ma reagisce comunque con sospetto. Scuoto la testa.

— Lascia perdere — rispondo. — Conosci un certo Link, vero?

Aggrotta la fronte. — Cos'è 'sta storia? È successo qual-cosa?

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Annuisco e lo tiro per la manica. — Link — balbetto.— Un incidente. Mi ha attraversato la strada all'im-

provviso. Non ho avuto il tempo di frenare.Sgrana gli occhi. — L'hai investito? È morto? — Adesso

è lui che mi afferra per un braccio. — Hai ucciso il mio ami-co, bastardo?

—No, no. — Scuoto il capo, tirandolo per la manica.— Non è morto. O almeno non lo era quando l'ho la-

sciato. Ma è ferito. Chiedeva di te.—Dov'è? In ospedale?—No, a casa mia. È successo proprio davanti a casa

mia.— È ferito, e l'hai lasciato a casa tua? — Mi fissa incre-

dulo. — Ma perché non hai chiamato un'ambulanza, pezzo d'idiota? Potrebbe essere in fin di vita! Portami subito da lui.

Un'interpretazione davvero magistrale, anche se non do-vrei essere io a dirlo. E quello, un ragazzo abituato a vivere per strada, un duro, furbo e sospettoso, mi ha seguito fino a casa come un bambino di tre anni. Naturalmente tutto era già pronto quando siamo arrivati. Avevo sistemato il divano in modo da dare l'impressione che sopra ci fosse un corpo avvolto in una coperta, e ci avevo persino spremuto sopra il sangue di mezzo chilo di fegato di maiale. Ha abboccato alla grande: si è slanciato verso il divano gridandomi di chiamare un'ambulanza e, appena si è chinato per sollevare la coperta, l'ho fatto fuori.

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Così, Spiritoso Numero Uno è sistemato. Un ottimo lavo-ro, ma non ho perso tempo per congratularmi con me stesso. Ho fatto un po' d'ordine, dopodiché ero pronto a mettere in atto il piano successivo: l'operazione Spiritoso Numero Due. Avevo pensato di utilizzare lo stesso stratagemma al contra-rio, ma, quando sono arrivato in High Street, Link detto la Fetenzia non c'era più. Mi sono aggirato un po' in zona, ma non ne ho trovato traccia.

Pazienza. C'è sempre un domani, infondo.Tranne che per Ginger.

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Capitolo dodicesimo

Il giorno dopo, venerdì, lo passai alla ricerca di Ginger. Chiesi anche un po' di elemosina, per tirare su qualche spic-ciolo, ma nel frattempo continuavo a guardarmi attorno. Niente. È successo, mi dissi: è tornato dai suoi veri amici. Eppure, in fondo al cuore, non riuscivo a credere che mi avesse piantato in asso così, senza una parola.

Verso sera cominciò a piovere, così mi riparai in un por-tone e restai seduto lì a guardare la gente che entrava e usci-va da una friggitoria. Di solito il profumo del cibo mi faceva smaniare, ma è probabile che quella sera fossi già mezzo partito. Una voce dentro la testa continuava a ripetere 'Gin-ger, Ginger'. Pensai: "E se fosse in ospedale, incosciente, e nessuno sa chi è? Potrebbe essere passato di qui un minuto fa, magari mi sta cercando anche lui. O ha perso la memoria".

Alla fine, tanto per fare qualcosa, mi alzai e arrancai fino alla stazione. Appena entrato, vidi un ragazzo che vendeva giornali e che conoscevo di vista. Gli passai accanto un paio di volte prima di decidermi a chiedergli: — Eri qui anche ieri sera?

—Sì. — Mi fissò con sguardo interrogativo. — Perché?

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— Io... cerco una persona. Un amico. Avevamo appunta-mento qui, ieri sera. Mi chiedevo se l'avevi visto.

—Vedo gente a non finire tutti i giorni. A centinaia. Com'è il tuo amico?

— Alto. Capelli rossi. Qualche anno più di me. Ha uno zaino verde. Ginger, lo chiamano.

Annui. — Forse l'ho visto. C'era uno così, ieri sera. Me lo ricordo perché discuteva con un tizio di mezza età. Urla-vano. C'entrava un ospedale. Sono andati via insieme.

— Da che parte?— E che ne so? Mica stavo a guardare loro. E poi magari

non era neanche il tuo amico.Esitai. — Senti, me lo faresti un favore?— Dipende.— Se lo rivedi, gli dici che Link lo sta cercando?— Link?— Sì.— Anche quel tizio parlava di un certo Link. Quello di

mezza età. Diceva che Link aveva avuto un incidente.— Ma... sono io, Link. E non ho avuto nessun incidente.

Sicuro che abbia detto proprio così?— Sì, mi pare di sì. L'altro sembrava agitatissimo, lo tira-

va per un braccio e urlava.— E non hai visto da che parte sono andati?— No, amico. Mi dispiace.

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Praticamente non chiusi occhio, quella notte. I pensieri s'inseguivano vorticosamente nella mia testa e avevo una fame da lupi. Fu un sollievo veder sorgere il sole.

Presi un caffè in un locale che restava aperto tutta la not-te e aspettai che aprisse il mercato per andarmi a lavare, spe-rando di trovare Ginger da quelle parti.

Non lo trovai, ma, affacciandomi alla ringhiera davanti ai gabinetti, vidi la ragazza con la quale Ginger aveva parlato al bar. Sembrava sola, stavolta. Scesi le scale di volata e la rag-giunsi davanti a una bancarella di cappelli. Le toccai una mano.

— Ciao.Ricambiò il mio saluto, ma era chiaro che non si ricorda-

va di me.— Sono Link — le dissi. — Ero con Ginger.— Ah, sì. Come sta?— Speravo che me lo dicessi tu.—Non lo vedo da giovedì.—Neanch'io. Era con te che aveva appuntamento, a Hol-

born?Confermò. — Con me, Tim e Ricky, i ragazzi che hai vi-

sto al bar. Ogni tanto ci vediamo al centro di Macklin Street. Ginger non è tornato?

Le riferii quello che mi aveva detto il ragazzo dei giorna-li e lei scosse la testa. — Ginger non conosce nessuno, qui, a parte Capitan Uncino. — Aggrottò la fronte. — Incidente? Ospedale? Sicuro che quel ragazzo non ti prendesse in giro?

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—Sicuro.Fece una smorfia. — Strano.La fissai, ansioso. — Sono preoccupato... scusa, non so

neanche come ti chiami.—Toya. — Un breve sorriso. — Non è il mio vero nome,

ma mi piace.— Sono preoccupato, Toya. Ho cercato dappertutto. Non

so cosa fare.Alzò le spalle. — Non puoi fare niente di niente, Link.

Quelli come Ginger vanno e vengono. Non si fermano mai. Magari ha trovato un lavoro.

—Oh. — Abbassai lo sguardo e con la punta del piede smossi una buccia di banana sporca di fango. — Se lo vedi, puoi dirgli che lo sto cercando?

Annui. — Certo, se lo vedo. Ma ti consiglio di non stare col fiato sospeso ad aspettare che torni.

—Grazie. — Avevo abbastanza soldi per due caffè e avrei voluto offrirgliene uno, ma Toya se ne andò senza neanche salutarmi e io pensai: è questo il segreto. Non per-mettere a nessuno di entrare nella tua vita. Non dipendere da nessuno, perché resterai sempre deluso. Mi voltai. D'ora in poi, mi dissi, mi preoccuperò solo di me stesso. Di nessun al-tro. Una risoluzione che non durò più di quattro minuti.

Andai al bar. Lo stesso di prima. Mi sforzavo di non cercare Ginger, ma continuavo a guardarmi intorno. C'era un tavolino libero. Presi un caffè e mi sedetti.

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Il mio Nuovo Io. Ecco a cosa stavo pensando. Non ho bi-sogno di nessuno. Me la cavo benissimo anche da solo, giu-sto? Giusto.

Trangugiai il caffè avidamente. Si stava bene, nel bar, e fuori c'era un tempo da lupi, perciò era meglio restare lì. Ero a metà tazza quando la vidi entrare.

Una barbona, era evidente, ma la barbona più affascinan-te che avessi mai visto. La prima cosa che notai furono i ca-pelli. Capelli castani, che spuntavano guizzanti come fiamme da sotto il cappellino di lana verde. Anche gli occhi erano splendidi: scuri, grandi, luminosi, come se avesse appena dormito dodici ore di fila. Indossava uno sciupato giaccone impermeabile, logori jeans infangati e scarpe da ginnastica sdrucite, ma la sua bellezza riusciva a cancellare ogni altra cosa.

Attraversando il bar non guardò nessuno, ma tutti guar-darono lei. Non riuscivo a staccarle gli occhi di dosso. Prese una coca e si voltò, cercando un posto libero. I suoi occhi, quegli occhi fantastici, incrociarono i miei, e le sorrisi. Non ho speranze, pensai. Un lurido pezzente come me.

Mi sbagliavo. Si avvicinò al mio tavolo e, con un cenno, indicò una delle tre sedie vuote. — È di qualcuno, quel po-sto? — Aveva un accento scozzese. Scossi la testa.

— Ti spiace se mi siedo? — Annuii in silenzio. Il mio Nuovo Io. Si tolse lo zaino dalle spalle, lo mise a terra accan-to al mio e si sedette. Portai la tazza alle labbra e sorseggiai il caffè tiepido, guardando fuori dalla finestra. Recitavo la

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parte del duro così bene da non crederci. Non era che una finzione, però. In realtà, avevo il cuore a mille e mi romba-vano le orecchie. Feci il possibile per non fissarla inebetito.

La ragazza infilò la cannuccia nel bicchiere di coca e aspirò. Quando mi arrischiai a lanciarle un'occhiata, abbassò subito lo sguardo. Ripresi a sorseggiare il caffè. Sentivo i suoi occhi puntati su di me. Era una sensazione fisica, come due raggi laser. Dopo un po', disse: — È tanto che sei a Lon-dra? — Senza guardarla in faccia, annuii.

—Tanto quanto?—Un anno, un anno e mezzo — mentii. Dopotutto, entro

cinque minuti sarebbe uscita dal bar e non ci saremmo rivisti mai più.

—Davvero? — Sembrava colpita. — Allora sai come ca-vartela.

Scrollai le spalle. — Abbastanza. — Uomo di poche pa-role.

—Come ti fai chiamare?—Link.—Link? È l'abbreviazione di...?—È l'abbreviazione di... ho un altro nome, ma preferisco

farmi chiamare con questo.—Scusa. — Sembrava dispiaciuta. — Io mi chiamo

Gail.—Ciao, Gail. Appena arrivata, eh?—Già.—Da...? Non dirmelo se non vuoi.

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—Glasgow.—Ah-ah. Storie tese?—Già. Il mio patrigno.—Ah... Non dire altro.Mi guardò dritto negli occhi. — Anche tu?—Ah-ah. — Il mio Nuovo Io. Il duro che non permette a

nessuno di entrare nella sua vita. Ed eccomi qua a raccontare la mia storia alla prima venuta solo perché ha bei capelli e occhi penetranti. Svuotai la tazza e spinsi indietro la sedia. — Devo andare.

—Perché? —Scrollai le spalle. — Ho da fare. — Mi alzai. Mi costò

farlo, eccome, ma non avevo intenzione di ritrovarmi davanti a una stazione nella speranza di vederla tornare.

—Non andartene. — Così. Semplice. Diretto. Fu come se un macigno mi s'incendiasse nel petto. Esitai, facendo oscillare lo zaino e guardandola negli occhi. — Che cosa vuoi, Gail?

Anche lei mi fissava. — Ho paura, Link — sussurrò. — No so cosa fare, come vivere in mezzo a una strada.

— Imparerai, Gail. "Ah, sì?" ghignò una vocina nella mia testa. "E la tua dipendenza da Ginger, allora? Il bisogno di aggrapparti a qualcuno?" Mi resi conto che, da quando l'a-vevo vista entrare, era la prima volta che mi tornava in mente Ginger e quella fu una medicina potente. Forse avevamo bi-sogno l'uno dell'altra. Mollai lo zaino e tornai a sedermi.

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Consegne giornaliere 12

Senti, senti. Link la Fetenzia si è innamorato. E ora sono cavoli amari per l'operazione Spiritoso Numero Due.

Ieri, venerdì, ho commesso un errore. Un errore grosso-lano. Se mi fossi concentrato su Link, ce l'avrei fatta. E inve-ce sono andato a cercare gli stivali. Stivali dell' esercito di seconda mano.

Non per me. Oh, no. Non è più tempo di marciare, per me. Per il mio esercito. Gli Orizzontali di Camden, li ho chiamati. Quattro paia, me ne servivano, tutte misure diver-se, e li ho trovati a Bethnal Green. Certo non calzano a pen-nello, ma questo è irrilevante. I miei ragazzi non dovranno fare lunghe marce, perciò non importa se le calzature sono un po' troppo larghe o un po' troppo strette. Basta che siano lustre. E lo sono.

Comunque, ho sprecato un'occasione d'oro, ieri. E sta-mane, quando sono finalmente riuscito a rintracciare il mio obiettivo, quello aveva appena agganciato una sciacquina in un bar del mercato, così la faccenda si fa più difficile del previsto. Dovrò ripiegare. Riorganizzarmi. Studiare una nuova tattica. E io sono la persona giusta per farlo. Perdio se lo sono.

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Capitolo tredicesimo

Quella fra Gail e me fu amicizia a prima vista. Lei mi offri un altro caffè e restammo seduti a parlare, senza più ac-corgerci di quanto avveniva intorno a noi. Incredibile. Quan-do si vive per strada, si finisce per dimenticare le normali esperienze di tutti i giorni. Sapete, cose come avere un lavo-ro, amici, risparmiare per farsi la moto. Non si può comprare un CD, andare a tagliarsi i capelli, prendere appuntamento dal dentista o scegliersi i vestiti. Non si può. Impossibile. Si finisce per appartenere a un'altra specie, e una delle conse-guenze peggiori è che bisogna togliersi di mente le ragazze. Di solito, quando uno vede una ragazza per strada, le sorride, magari le dice qualcosa. La tacchina un po'. Non significa niente e di solito non porta a niente, ma fa parte dell'essere giovani, ecco. Una volta su cento, invece, significa qualcosa e nasce una relazione che può durare oppure no. La cosa im-portante è che ci si sente parte di questo mondo, giusto? Un ragazzo come gli altri. Ma se si vive in mezzo a una strada, non si è più come gli altri. Provate un po' a fare il filo a una ragazza quando siete sporchi e vestiti di stracci, con la faccia bianca come un lenzuolo, i denti neri, ed è evidente che non avete neanche i soldi per offrirle un caffè. Non avete mezza

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speranza. Non solo non si sognerà di fare amicizia con voi, ma neanche vi risponderà con un sorriso. È più probabile che vi lanci un'occhiataccia. Credo che la stessa regola valga an-che per le ragazze. Basta invertire i ruoli. Dopo un po', uno comincia a considerarsi un diverso, qualcuno che vive accan-to alle persone normali ma non è dei loro.

Ecco perché provavo una sensazione tanto strana a tro-varmi seduto in quel bar a chiacchierare con una ragazza splendida. Per la prima volta da mesi non mi sentivo un emarginato. Ero solo un ragazzo che chiacchierava con una ragazza, come succede fra le persone normali. Dimenticai i miei stracci, i capelli arruffati e lo stomaco vuoto. Dimenti-cai gli androni freddi e duri, gli sguardi freddi e duri della gente e il fatto che non avevo i soldi per invitarla al cinema. Ero solo un ragazzo che forse si stava innamorando. Non sa-pevo altro. Non volevo sapere altro. Neppure mi accorsi di aver lasciato il bar finché mi ritrovai seduto su un muretto a tenerla per mano. Un vecchio strambo, passandoci accanto, ci lanciò un'occhiataccia come se stessimo commettendo un crimine o chissà cosa. Era per me l'inizio di un periodo straordinario, e posso solo dire che è una fortuna non cono-scere il futuro.

Insomma, siamo seduti su questo muro e lei dice: — Perché non ci prendiamo delle patatine e andiamo a mangiar-le in riva al canale? — Per essere febbraio, è una giornata

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abbastanza calda, ma c'è un problema. — Sono al verde — le spiego.

—Ce li ho io, i soldi.— Ma devi farli durare. Non è che si tira su molto, chie-

dendo l'elemosina.—Ne ho parecchi.— Non li avrai ancora per molto, se lo urli ai quattro ven-

ti. — Sorrido. — Come fai a sapere che non ho intenzione di rapinarti?

—Provaci. Ma potresti pentirtene.Comprò le patatine e ci sedemmo in riva al canale. Le

dissi: — Ma perché dormi per strada, se hai i soldi? Potresti prenderti una stanza.

— Come hai detto tu, devo farli durare. E comunque sto con te, adesso. Non mi serve una stanza.

La sua risposta mi parve ragionevole oltre che lusinghie-ra, e la presi per buona. Forse avrei dovuto farle qualche al-tra domanda, ma ero cotto e, quando si è così presi, non si fanno tante domande, giusto?

Mangiammo e parlammo a lungo. Era tremendamente curiosa riguardo a quello che lei definiva 'Il Mondo', cioè la vita della strada. Mi subissò di domande e io feci del mio meglio per rispondere a tutte. Non avevo scelta, dal momen-to che mi ero atteggiato a grande esperto. A essere onesti, co-minciavo a pentirmi di averle mentito, non tanto perché mi tempestava di domande, quanto perché mi ero innamorato di

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lei. Ironia della sorte, a pensare quello che accadde poi, ma allora non era ancora successo niente.

Quel giorno non chiesi l'elemosina, e neppure lei. Pas-seggiammo per il mercato a guardare tutte quelle cianfrusa-glie supercostose e la gente che le comprava. Ci prendemmo due coche e mangiammo per la seconda volta, anche se il mio stomaco avvizzito non aveva più fame. Non pensai a Ginger neppure una volta - tranne quando raccontai di lui a Gail - il che è profondamente ingiusto, ma mostra che effetto fa essere innamorati. E così passammo la giornata.

Le avevo parlato anche di Capitan Uncino, e quando sce-se la sera pensai di proporle una notte in barca, ma non lo feci. Primo, sarebbe potuto sembrare sfacciato da parte mia, dal momento che si trattava dei suoi soldi. Secondo, non vo-levo passare la prima notte con lei in mezzo a quella fetida marmaglia. Volevo averla tutta per me, così la portai in uno dei miei androni preferiti.

Non successe niente. Spiacente di deludervi, ma è la pura verità. Non so perché. La malnutrizione, forse, o i patrigni. Sembrava che volessimo solo dormire abbracciati l'uno al-l'altra, e fu così che passammo la notte. Una noia mortale? Vi sbagliate di grosso.

La domenica, Gail disse che voleva provare a chiedere l'elemosina anche lei, così andammo a Charing Cross. Ripen-sai a come mi aveva fatto cominciare Ginger, lasciandomi davanti alla National Gallery mentre lui batteva Trafalgar

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Square. Facemmo la stessa cosa. Personalmente avrei prefe-rito non lasciarla sola, anche se sapevo che non ci saremmo persi di vista. Era un mattino freddo ma asciutto, e c'era pa-recchia gente in giro. Mentre facevo il giro delle panchine, nella mia mente continuavo a vedere una serie di immagini, come in un film. Un film di cui ero il protagonista. Nella pri-ma scena mi vedevo attraversare la strada per andare a ri-prendere Gail e scoprire che era sparita. Seguivano una serie di scene in cui mi ritrovavo in varie situazioni angoscianti: mentre correvo per strade sconosciute, chiamandola dispera-tamente; mentre cercavo di ottenere l'aiuto della polizia, che non voleva saperne; mentre la aspettavo invano davanti alla stazione di Camden. Cercai di allontanare quei pensieri ripe-tendomi che era stata Gail a voler restare con me, il che ren-deva improbabile una sua fuga appena le avessi voltato le spalle. Inutile. Probabilmente ero ancora scottato dalla scom-parsa di Ginger. Non andai avanti per molto a chiedere l'ele-mosina. I piccioni ottenevano risultati nettamente superiori ai miei: loro, briciole di pane e chicchi di grano in quantità; io, niente di niente. Giuro che se mi capita di tornare a Londra, ci vengo travestito da piccione. Dopo mezz'ora decisi di tor-nare da Gail e, strada facendo, riprovai a tirar su qualche sol-do.

Quando arrivai dove l'avevo lasciata, Gail non c'era. Sul-la scalinata non c'era, sul marciapiedi non c'era. Dal panico, mi mancò il fiato. Salii di corsa i gradini e mi guardai intor-no, poi ridiscesi e costeggiai il museo. Avevo appena svoltato

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in St. Martin's Place quando la vidi uscire da una cabina tele-fonica. Il sollievo fu così grande che solo dopo parecchio mi venne in mente di chiederle chi avesse chiamato. — Mia so-rella, a Glasgow — rispose. — Mi ha fatto promettere di te-lefonarle, ogni tanto.

La cosa era plausibile. Annuii. — Anch'io ho una sorella. Carole. Ma non la chiamo mai. Taglio netto, capisci?

— Gliel'avevo promesso...— Mica ti sto criticando. Solo che...— Lo so. — Mi strinse la mano.Sorrisi e ricambiai la stretta. — Quanto hai tirato su?— Non saprei. Non li ho contati. Aspetta. — Infilò una

mano in tasca, tirò fuori due manciate di monete e le contò. — Due sterline e trenta. — Le rimise in tasca. — E tu?

Scossi la testa. — Dodici pence, e dovrei essere l'esperto.—La fortuna del principiante — ribatté lei sorridendo.

— O forse è perché sono una ragazza. — Mi lanciò un'oc-chiata. — Comunque dividiamo, no? Tutto quanto.

E da quel momento in poi dividemmo tutto. Era così fan-tastico che il tempo volava. Quasi non notavo più il freddo. Era ormai primavera quando accadde qualcosa che mi ripor-tò alla realtà.

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Consegne giornaliere 13

Non dovete pensare che me ne sia stato con le mani in mano solo perché Link la Fetenzia continua a sfuggirmi. Vi basterà dare un'occhiata sotto il pavimento per convincervi di quanto sia determinato a liberare il Paese da tutta la marmaglia che lo zavorra.

Attualmente, il mio numero di reclute è salito a sette. Sette! Oh, so di aver fatto una lunga dissertazione quando siamo arrivati a tre, ed effettivamente il tre è un numero im-portante. Ma sette! Il sette potrebbe essere definito un nume-ro mistico, ma non mi dilungherò sul perché. Basti dire che ci sono moltissime cose che c'entrano con il numero sette: i sette peccati capitali, il settimo figlio di un settimo figlio, per non parlare dei sette giorni della settimana e dei Magnifici Sette.

Ho preso anche una recluta di colore, a dimostrare che non c'è discriminazione razziale fra gli Orizzontali di Cam-den. Anche per non cadere nella trappola della schematicità, quell'infausta trappola di cui ho già parlato. Sembra quasi di vederlo, vero? Un poliziotto arrogante che cerca lo sche-ma nascosto dietro la serie di omicidi e nota che tutte le vit-time sono dei bianchi. Questo sì che potrebbe essere un ele-

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mento importante per le indagini. Be', le cose non andranno così! Non c'è nessuno schema, nessun elemento comune, se non il fatto che ogni operazione è stata portata a termine con abilità da manuale.

Hanno di che vantarsi, i miei ragazzi. Stivali lustri e ta-glio perfetto. E se pensate che gli stivali mi tradiranno, se pensate che il tizio del negozio dove li ho comprati potrebbe insospettirsi, vi sbagliate di grosso. Non sono stato così in-genuo da comprarli tutti nello stesso posto. Sono andato in tre negozi diversi. Finora. E andrò presto in altri, perdio se ci andrò. Non lo prenderete tanto facilmente, il vecchio Shel-ter.

Così il lavoro procede. Le reclute aumentano. Nessuno dei miei ragazzi ha fame e tutti hanno un tetto sopra la te-sta... anzi di più, anche un pavimento. A volte sospetto di vi-ziarli.

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Capitolo quattordicesimo

Dov'ero rimasto? Ah, sì: la primavera e il ritorno alla realtà.

Era straordinario stare con Gail. Come ho già detto, quasi non sentivo più il freddo e chiedere l'elemosina era divenuto per noi una specie di gioco, una gara per vedere chi riusciva a raccattare di più.

Sia chiaro, la situazione aveva anche i suoi svantaggi. Tanto per dirne uno, cominciai a essere geloso di Gail. Pos-sessivo. Non sopportavo l'idea di perderla di vista. Con una ragazza così bella, il mio terrore era che arrivasse qualcuno, magari uno con un lavoro, una macchina e una casa, e se la portasse via. Be', sarebbe stata una gara persa in partenza, no? Così, cominciai a volere un lavoro per poterle offrire una casa. Ovviamente lo volevo da sempre, un lavoro, ma adesso era una smania, un'ossessione. La cosa peggiore era che sa-pevo di non avere mezza possibilità. Nessuno mi avrebbe of-ferto un'opportunità, vedendomi in quello stato. Eppure con-tinuavo a sperare e a provare. Ci provai veramente, a trovare un lavoro. Diventai un frequentatore abituale dell'Ufficio di Collocamento, arrivai a rubare dei fogli di carta e scrissi montagne di lettere, comprai francobolli che non potevo per-

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mettermi e feci persino un paio di colloqui, ma senza risulta-to. È che lo capiscono. Se dai come recapito l'indirizzo di un Centro Sociale, capiscono che non hai una casa. Capiscono che non lavori da parecchio e che forse non ce l'hai mai avu-to, un lavoro.

E non vogliono sapere altro. Hanno così tanti nominati-vi fra cui scegliere. Perché dovrebbero assumere proprio un barbone? Neanch'io lo farei, al posto loro.

Era una tortura, perché ogni volta che mi mettevo a inse-guire un'opportunità di lavoro dovevo lasciare sola Gail. E, finché non la rivedevo, non facevo altro che pensare a lei, terrorizzato all'idea di perderla. Forse è anche per questo che i colloqui andavano male: quelli avevano la sensazione che avessi lasciato la testa per strada. Comunque sia, arrivò apri-le e la mia situazione non era cambiata, ma Gail stava ancora con me e questo, a pensarci, era davvero sorprendente.

Un sabato eravamo seduti sull'alzaia del canale a goderci il sole, quando un tizio di mezza età si avvicinò dicendo: — Scusate, forse potete aiutarmi. — Pensavo avesse perso qual-cosa, ma il tizio spiegò: — Sto cercando mia figlia e mi chie-devo se l'aveste incontrata. Si chiama Tanya. — Tirò fuori una fotografia. — Ecco, questa è lei. — Gail prese la foto e me la passò scuotendo la testa. Era Toya. Annuii. — L'ho vi-sta un paio di volte.

— Dove? — Il tizio per poco non mi saltava al collo. — Dove l'hai vista? Quando?

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— Al mercato di Camden Lock. Però è passato parec-chio.

— Le hai parlato? Ti ha detto dove viveva, dove rintrac-ciarla?

— Penso che dormisse per strada. Non so che zona baz-zichi.

—Era con qualcuno? Un uomo di mezza età, forse?— No. La prima volta l'ho vista insieme a due ragazzi, e

la seconda era sola. — Lo fissai incuriosito. — Perché dove-va essere con un uomo di mezza età?

Il tizio scosse la testa. Ogni volta che apriva bocca, face-va un chiaro sforzo per trattenere le lacrime. — Non lo so. Ho parlato con un tale, ieri sera. Uno che sta in un gabbiotto giallo di plastica, sul fiume. Mi ha detto che forse l'ha vista circa una settimana fa: stava entrando nell'appartamento a pianoterra del palazzo dove abita lui, insieme al proprieta-rio... un tizio tra i quaranta e i cinquanta.

—Le ha dato l'indirizzo? E lei è passato a vedere?—Doveva essere stato Capitan Uncino a dargli quelle

informazioni. L'uomo annuì. — Ci sono stato ieri sera. Ho suonato, ma in casa non c'era nessuno.

—Il tizio nel gabbiotto lo conosce, quest'uomo?—No. Non è da molto che vive lì.—È andato alla polizia?— No. Ci ho già provato mesi fa, quando Tanya se n'è

andata di casa. Non volevano saperne niente. Ha diciott'anni,

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capite? Libera di andare dove vuole. — Soffocò un singhioz-zo. — A sua madre si sta spezzando il cuore.

Poveracci, pensai. Prima fanno scappare la figlia di casa, probabilmente senza volerlo, poi pensano di ritrovarla an-dando in giro per Londra con una foto. Non ci riusciranno mai, ma vorrei che qualcuno facesse lo stesso per me.

— Senta — dissi. — Terremo gli occhi aperti e, se doves-simo incontrarla, le diremo che lei la sta cercando e la con-vinceremo a chiamare a casa, d'accordo?

Era così contento che quasi mi abbracciava. — Grazie, grazie — disse, infilandomi in mano una banconota da cin-que sterline. La mia mano non oppose resistenza.

—Vi ringrazio infinitamente, tutt'e due.Si allontanò, aggrappato alla foto e a una speranza vana.

Gail e io lo guardammo andare via, fingendo entrambi di non aver notato la sua fatica per trattenere le lacrime.

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Consegne giornaliere 14

Un tizio ha suonato alla mia porta, ieri sera alle dieci. La cosa non mi ha preoccupato. Quando si ha la situazione sotto controllo, non c'è di che aver paura. Ho effettuato una rapida ricognizione attraverso le tende e ho individuato un uomo bassino, sui quarantacinque. Era troppo buio per ve-dere che faccia avesse, ma era evidente che era alquanto agitato, così ho deciso di non rivelare la mia presenza. Non tengo mai accese luci forti, la sera. La lampada da tavolo ha una lampadina da sessanta watt e da fuori, con le tende chiuse, non si vede niente. Ne sono certo perché ho control-lato di persona. Bisogna sempre controllare tutto. È la mia regola di vita. Così ho mantenuto la postazione e sono rima-sto in attesa. L'uomo ha suonato altre due volte, poi se n'è andato. Non so chi fosse né che cosa volesse, ma l'istinto mi dice che potrebbe entrarci una delle mie reclute. Potrei an-che sbagliarmi, ma di solito il mio istinto non s'inganna, perciò presterò particolare attenzione nei prossimi giorni.

Perdio se lo farò.

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Capitolo quindicesimo

Probabilmente non ci avremmo più pensato, se non fos-se stato per Nick. Insomma, Capitan Uncino poteva anche essersi sbagliato e si sa che i senzatetto non si fermano mai a lungo nello stesso posto. Mi sarei dimenticato di Toya anche più in fretta di Ginger, se non ci fossimo imbattuti in Nick quello stesso pomeriggio, e chissà che cosa sarebbe potuto succedere, allora!

Nick è il ragazzo che vende i giornali alla stazione di Ca-mden, ma noi lo incontrammo sotto il ponte di High Street.

Avevo appena spillato una sterlina a un americano, quan-do vidi Nick avvicinarsi. — Sono contento di incontrarvi — disse. — È appena successa una cosa strana.

—Non dirmelo — lo interruppi. — Il primo ministro ti ha offerto un letto al numero dieci di Downing Street.

—No, ascolta. Ricordi quando cercavi quel tuo amico un po' di tempo fa?

—Ginger, sì. Perché?—Be', ti avevo detto che l'avevo visto lasciare la stazione

insieme a un tizio di mezza età, giusto?—Giusto. — Un tizio di mezza età. Dov'è che avevo sen-

tito le stesse parole, ultimamente?

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—Be', stamane mi si avvicina un tale con una foto della figlia e mi chiede se l'ho vista.

Annuii. — L'ha chiesto anche a noi. E allora?— Allora senti questa, vecchio mio: io l'ho vista, quella

ragazza. Qualche giorno fa. L'ho vista lasciare la stazione in-sieme allo stesso tizio con cui se n'era andato il tuo amico.

Lo fissai perplesso. — Come sarebbe? Che incontrano questo tizio...

— ... e spariscono. Non ti puzza, la cosa?— Già. Puzza. L'hai detto al tipo della foto?— Certo. E lui mi ha detto che qualcuno ha visto la ra-

gazza entrare in una casa insieme a un uomo.— Lo so. È stato Capitan Uncino. Abita nella stessa casa.

Il tizio è andato a controllare, ma in casa non c'era nessuno. Gli hai consigliato di rivolgersi alla polizia?

— Figurati! Gli direbbero che i barboni non restano mai a lungo nello stesso posto. Non ci sono prove, capisci? Nien-te di concreto.

— Sì, ma...— Lo so. Potrebbe esserci di mezzo un omicidio. Un

doppio omicidio, ma è solo un'ipotesi, amico mio.— E allora che si fa?Nick scrollò le spalle. — Io, se lo vedo, lo riconosco. E il

valoroso Capitano ha l'indirizzo. Suggerirei di tenerlo d'oc-chio per un po', vedere che combina. Se le cose stanno come sospettiamo, quello prima o poi si tradisce. E allora chiamia-mo gli sbirri.

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— E se intanto si porta a casa qualcun altro? Mica pos-siamo tenerlo d'occhio ventiquattr'ore al giorno. — Mi girai verso Gail. — Tu cosa ne pensi?

—Non saprei, Link... Senti, devo fare una telefonata. Mia sorella. Ci vediamo davanti al Brazilia tra dieci minuti e ne riparliamo, d'accordo?

La seguimmo con lo sguardo mentre attraversava la stra-da. Nick sorrise. — Tipa tosta, eh? Le diciamo che un assas-sino gironzola nel quartiere e lei va a telefonare alla sorella. Io non so dove le trovi, Link. — Mi tirò un pugno su un braccio. — Ci vediamo.

Nel sole del pomeriggio, i marciapiedi pullulavano di tu-risti. Arrivato al Brazilia, mi appoggiai al muretto dell'alzaia, chiusi gli occhi e restai fermo a godermi la sensazione del sole sul viso. Sapere allora quello che so adesso mi avrebbe rovinato la giornata.

Quando arrivò Gail, le dissi: — È meglio andare alla po-lizia. — Avevo ripensato a Ginger. Non era da lui sparire così. Mi ero quasi convinto che l'avesse fatto solo perché non ero riuscito a trovare un'altra spiegazione, ma ora...

—Possiamo anche andarci — disse Gail. — Ma non so se ci daranno retta.

Andammo al commissariato di Albany Street e non ci diedero granché retta. Ci volle una vita solo per superare il banco informazioni. Alla fine fummo ricevuti da un sergente. Il sergente Ireson. Ci fece accomodare in una stanzetta, ma, appena cominciai a raccontargli di Ginger e di Toya, m'inter-

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ruppe. — Devo informarvi che, in seguito alla denuncia di un cittadino, il caso in questione è già stato oggetto di inda-gine. Non è emerso niente e il caso è stato archiviato.

—Archiviato? Ma lei ci ha parlato con quel tizio? Gli ha chiesto che ci faceva con la ragazza?

Il sergente aveva un'aria irritata. — Sono state seguite tutte le normali procedure — ringhiò. — Non è emerso nien-te che giustificasse ulteriori indagini e il caso è stato ufficial-mente archiviato. E ora, se volete scusarmi, ho molto da fare.

—Ma che cosa le ha detto quel tizio?—Buona giornata, signore.

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Consegne giornaliere 15

Ah, ah, ah. Ah, ah, ah, ah, ah, ah, ah! Ride bene chi ride ultimo. E l'ultimo, non a caso, sono io. Il nemico ha attacca-to in forze ed è stato respinto.

Ero andato a comprare gli stivali. Ero appena tornato e stavo dando da mangiare a quello stupido gatto, quando sono arrivati loro. Due agenti: un maschio e una femmina. Per un istante ho considerato la possibilità di non aprire, poi mi sono detto: "Perché no? Prima o poi doveva accade-re. Il confronto diretto col nemico, Shelter vecchio mio. Non si batte in ritirata. Non ci si arrende".

Ho dato il meglio di me. Ho messo gli acquisti nell'ar-madio in cucina. Ho aperto la porta sorridendo, li ho invita-ti a entrare e ho offerto loro un caffè, ma non hanno accetta-to. — Posso essere d'aiuto? — Stiamo svolgendo un'indagine su una giovane donna — mi hanno risposto. — Questa don-na.

E mi hanno messo una foto sotto il naso, sperando che sussultassi o altro, insomma che mi tradissi. Niente da fare. — Oh, si — ho risposto con la massima calma. — La cono-sco. Era proprio in questo appartamento, qualche giorno fa. Martedì della settimana scorsa, per essere precisi.

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Be', ovviamente volevano sapere come mai si trovasse qui, in quali circostanze, e a quel punto ho cominciato a re-citare la parte del timido benefattore. — Ah. be' — ho rispo-sto. — Vedete, io mi reputo una persona fortunata. Ho dei ri-sparmi in banca e una buona pensione, e provo una pena immensa per tutti quei poveri giovani che si vedono dormire in mezzo alla strada. Così, di tanto in tanto, ne invito uno qui perché possa farsi un bagno o mangiare qualcosa di cal-do. Non li faccio mai restare per la notte perché... be'... per-ché ho paura che mi aggrediscano nel sonno, ecco, ma di solito do loro una o due sterline, un piccolo aiuto... — Ho scrollato le spalle, sfoderando il mio sorriso più ebete. — È sciocco, lo so, ma mi fa sentire meglio.

— Potrebbe essere pericoloso, signore, per svariate ra-gioni.

—Lo so, agente, ma... —Sorriso ebete.—Così ha dato da mangiare a questa giovane donna e le

ha regalato dei soldi?—Sì.— La ragazza ha per caso accennato al desiderio di an-

darsene da qualche parte?Ho scosso la testa. — Tendono a non parlare di sé, ispet-

tore, e io non sono un impiccione. — Era un semplice agen-te, ma l'ho chiamato apposta ispettore.

— Certo che no, signore. Si ricorda che ora fosse quan-do se n'è andata?

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—Abbastanza tardi. Più o meno le dieci, dieci e mezzo. Pioveva. — Sorriso mesto. — Detesto mandarli via, ma...

— Certo, signore. E non le ha detto dove sarebbe anda-ta?

— No. — Ho aggrottato la fronte, simulando preoccupa-zione. — Voglio sperare che non le sia accaduto niente di grave, ispettore. Era una ragazza così dolce...

— Sì, signore. Di buona famiglia, credo. — I due agenti sono tornati verso la porta d'ingresso. —Non le ruberemo altro tempo, signore. Grazie dell'aiuto, e faccia attenzione a chi fa entrare in casa. C'è in giro parecchia gentaglia, sa?

—Lo so, ispettore. Farò attenzione.Sono rimasto fermo sulla soglia, con in braccio il mio

stupido gatto. Ho aspettato che fossero a metà del vialetto, poi ho detto: — Mi avvertirete se... voglio dire... se la ritro-verete, vero?

— Certo, signore. Buonanotte, signore.— Buonanotte, ispettore. Buonanotte, sergente.Ah, ah, ah. Ah, ah, ah, ah, ah!

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Capitolo sedicesimo

— E ora che si fa? — Stavamo risalendo Parkway. Il sole tramontava. Gail alzò le spalle. — Quello che ha sugge-rito Nick. Teniamo d'occhio questo tizio, sperando che faccia un passo falso.

— Forse dovremmo mettere in guardia gli altri. Tipo... non fidatevi di nessuno.

—Credo che già lo facciano. Piuttosto ci serve sapere che aspetto ha quest'uomo.

—Lunedì chiederemo a Nick d'indicarcelo appena lo vede passare.

—Perché non adesso? O domani?Scossi la testa. — Adesso non c'è. Nick, intendo. Sta in

una casa abbandonata, ma non so dove.—Potremmo tentare di trovarlo da soli, il nostro uomo.

Chiedendo l'indirizzo a Capitan Uncino, per esempio.— Non ce lo darà mai. È anche l'indirizzo di casa sua,

Gail. Penserebbe che vogliamo rifargli l'appartamento da cima a fondo.

Sorrise. — Credo che a me lo dirà, se vado a chiederglie-lo da sola. Tienimi lo zaino e aspetta.

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La aspettai sul ponte che scavalcava il canale. Scendeva la sera e cominciava a fare fresco. Tremavo, non solo per il freddo. Pensavo a Ginger, a Tanya, che preferiva farsi chia-mare Toya, a suo padre che ci aveva detto grazie e mi aveva ficcato in mano una banconota da cinque sterline. Pensavo anche a Gail, a come aveva arricchito la mia vita, ma anche a come suscitasse in me un vago disagio che mi smuoveva qualcosa nel profondo, una sensazione che cercavo di soffo-care o d'ignorare. Una tipa tosta, proprio come l'aveva defini-ta Nick, ma non solo. Tosta, era tosta, però c'era qualcos'al-tro: una grande calma, una padronanza di sé che strideva con la sua condizione. Può sembrare una sciocchezza, ma non era abbastanza smarrita. Probabilmente me n'ero reso conto, ma allontanavo il pensiero. Se era solo un sogno, era un so-gno stupendo e non volevo svegliarmi.

Tornò dopo pochi minuti, sorridente. — Mornington Pla-ce, numero nove — annunciò, rimettendosi lo zaino in spal-la. E in silenzio ci mettemmo in cammino.

La via era piuttosto corta e fiancheggiata da case a schie-ra in stile vittoriano. Il numero nove era un edificio a tre pia-ni. Il giardinetto sul davanti aveva un aspetto trascurato ed era occupato quasi interamente da tre bidoni della spazzatu-ra. Il cancello non c'era. Un vialetto congiungeva il marcia-piede alla porta bianca dell'appartamento a pianterreno. Le finestre erano buie.

—Nessuno in casa — disse Gail. Ci eravamo fermati sul marciapiede di fronte, sotto i platani.

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— Bazzichiamo un po' la zona — mormorai. Quella casa mi dava i brividi. Nella mia testa era come rivedere le imma-gini di un film, con Ginger che seguiva una figura indistinta fino alla porta bianca. "Sarà andata così?" mi chiesi. "E quando, esattamente? Dov'ero io in quel momento? Perché Ginger aveva seguito quell'uomo? Ginger, Toya, e forse altri ancora. Perché?"

Gail aveva un orologio. Aspettammo quarantacinque mi-nuti. Nessuno entrò, nessuno uscì. Al primo piano c'era la luce accesa, e una donna continuava a venire alla finestra. Sembrava ci guardasse. Probabilmente neanche poteva ve-derci, ma la cosa ci rendeva nervosi. Per un senzatetto è sem-pre rischioso bazzicare i quartieri residenziali. Quella donna poteva anche chiamare la polizia. — Andiamocene — dissi. — Riproveremo domani.

Alle otto e mezzo di domenica mattina eravamo nuova-mente sul marciapiede di fronte alla casa. L'aria era asciutta e pungente. Il sole non aveva ancora fatto capolino da dietro le case. Le tende dell'appartamento erano chiuse. Non so cosa avrei dato per dormire fino a tardi insieme a Gail. Come invidiavo i bastardi che vivevano dietro quelle tende. Una bella dormita in un letto comodo, sveglia non prima delle dieci, colazione a base di uova, pancetta, toast e caffè, da gu-stare nel tepore della cucina. Il paradiso, e milioni di persone lo danno per scontato.

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Il nostro uomo, sempre che fosse proprio lui, non rimase a letto fino alle dieci. Poco prima delle nove, la porta d'in-gresso si socchiuse e ne uscì un gatto bianco e nero, seguito da una mano. La mano annaspò in cerca della bottiglia di lat-te davanti alla soglia, la trovò e la prese. La porta si richiuse e un minuto dopo qualcuno aprì le tende. Gail e io ci spo-stammo sull'angolo senza perdere d'occhio il palazzo. Dopo una decina di minuti vedemmo un tizio alto e robusto, sulla quarantina, uscire e chiudersi la porta alle spalle. Indossava un maglione, pantaloni di velluto e aveva capelli cortissimi, biondo cenere. Mentre attraversava il giardino, il gatto saltò giù dal muretto di cinta e corse via. L'uomo svoltò a sinistra e s'incamminò lungo la strada.

—Che si fa? — chiese Gail. — Lo seguiamo?— Meglio di no. Da com'è vestito, non starà fuori per

molto. Sarà andato a comprare il giornale.Non mi ero sbagliato. Dopo cinque minuti, eccolo torna-

re con un rotolo di giornali sotto il braccio. Riattraversò il giardinetto senza accorgersi di noi e rientrò in casa.

—Pensi che sia lui?Gail scrollò le spalle. — Be', di sicuro non era Capitan

Uncino. E dal momento che abita al pianoterra, direi che è il nostro uomo.

—Ma ha un'aria così... normale.— Potrebbe anche essere una persona normalissima,

Link. Non sappiamo ancora se è colpevole di qualcosa, giu-sto? La polizia non ha notato niente di sospetto.

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— Però sappiamo che è stato visto insieme a Ginger e a Toya poco prima che sparissero. E darei volentieri un braccio pur di fare un giro in quell'appartamento.

Gail annuì. — Anch'io, ma è impossibile. Non possiamo fare altro che tenerlo d'occhio.

E così facemmo, andando avanti e indietro sul marciapie-de. A un certo punto ecco arrivare il gatto, che andò a sedersi esattamente al posto della bottiglia del latte. Non vedemmo nessuno aprire le tende al primo piano, ma, ripassando da-vanti alla casa verso le nove e mezzo, notammo che erano aperte. Il sole aveva ormai superato i tetti delle case, mentre noi continuavamo ad andare su e giù. Non volevamo restare fermi troppo a lungo in un punto per paura di attirare l'atten-zione. Del resto, c'è un limite anche al numero di volte che si può ripercorrere la stessa stradina senza farsi notare. Era una noia incredibile, e poi sembrava che il nostro uomo non do-vesse uscire mai, così alle dieci meno un quarto decidemmo di rimandare il tutto alla sera. Il gatto stava ancora davanti alla porta d'ingresso quando ce ne andammo.

Fu proprio il gatto, a fregarmi. Dite quello che volete, ma un gatto ha un che di rassicurante. Insomma, provate a pensare a un tizio che gioca col suo gatto, lo coccola, parla e scherza con lui. Mica vi verrebbe da pensare: "Ecco un uomo pericoloso! Ecco un assassino. Meglio starne alla larga". Pro-babilmente pensereste: "Ma tu guarda, chissà che bonaccio-ne". Comunque, questa è l'unica scusa che giustifichi quanto

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accadde quella sera. Ma forse farei meglio a cominciare dal-l'inizio.

Per prima cosa, la pioggia. La mattina il tempo era stato splendido, ma verso mezzogiorno il cielo si coprì e cominciò a piovere. Gail e io stavamo cercando di tirar su qualche spicciolo in High Street quando caddero le prime gocce, così ci spostammo sotto il ponte della ferrovia e continuammo lì. Il tempaccio non sembrava scoraggiare la gente: il mercato era affollato come sempre e riuscimmo a tirar su un bel gruz-zolo, ma fu proprio la pioggia la causa del nostro litigio.

Non avevamo mai litigato prima. Andavamo d'accordo quasi su tutto. Ma quando cominciò a far buio e proposi di tornare in Mornington Place, Gail disse: — Io non ci vengo. Non con questo schifo.

—Di che schifo parli? Che diavolo dici, Gail?— Questo schifo di pioggia, idiota. Non ho intenzione di

starmene sotto la pioggia fino a chissà che ora, aspettando un cretino che probabilmente deciderà di restarsene a casa all'a-sciutto.

— Ma eravamo d'accordo. Avevamo detto che ci sarem-mo tornati stasera.

— Non pioveva, quando l'abbiamo deciso. E poi ho da fare.

— Tipo? Chiamare tua sorella? Ancora? Mangeremmo meglio tutt'e due se la smettessi di sprecare i soldi al telefo-no.

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— Sono soldi miei, Link. Posso farci quello che mi pare. Comunque non devo chiamare mia sorella. Ho altre cose da fare.

— Cose che non mi riguardano, giusto?— Giusto.—Allora va' a quel paese, fa' pure quello che devi fare,

ma non illuderti che resti ad aspettarti come un cagnolino. Io sono in Mornington Place, se hai bisogno di me.

E fu così che mi ritrovai tutto solo in Mornington Place quando successe la faccenda del gatto.

Una veglia deprimente. Deprimente. Ero ancora più giù di quand'era sparito Ginger. Aspettavo sotto gli alberi goc-ciolanti e pensavo a Gail. Mi dispiaceva che avessimo litiga-to. Io l'amavo. Ma avevo passato l'intera giornata pensando a Ginger, a Toya e al numero nove di Mornington Place. Ave-vo visto un film, un giorno, che s'intitolava "Al numero dieci di Rillington Place" e parlava di quest'assassino che attirava una serie di donne in casa sua per poi ucciderle. Era una sto-ria vera. Il titolo, "Al numero dieci di Rillington Place", ave-va un che di inquietante, e nella mia immaginazione il nume-ro nove di Mornington Place cominciava a ricordarlo parec-chio. Mi ero quasi convinto che in quella casa erano successi fatti orribili e che era compito mio smascherare il colpevole.

Non so che ore fossero quando la porta si apri. Mi sem-brava di essere lì da secoli. Ero fradicio e congelato e quasi sul punto di mollare tutto e andare a far pace con Gail, quan-do improvvisamente lo vidi: il tizio che avevamo tenuto

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d'occhio quella mattina. Il classico tipo ultranormale, che in-dossa pantaloni di velluto, tiene un micio in casa e legge i giornali della domenica. Era in piedi sulla soglia, stagliato contro la luce fioca che filtrava dalla porta socchiusa. Chia-mava sottovoce: — Saffo... pss, pss, pss... qui, Saffo. — Ri-masi immobile sotto i platani. Era evidente che chiamava un gatto, probabilmente quello che avevamo visto al mattino. Dopo qualche minuto, non vedendo arrivare il gatto, il tizio rientrò in casa lasciando aperta la porta e poco dopo tornò fuori con un piattino. Si accoccolò e depose il piattino da-vanti all'ingresso. — Saffo! — chiamò di nuovo, battendo leggermente una forchetta o un cucchiaio contro il piatto. — Forza, Saffo... ora di cena. — Doveva avere un bel freddo a stare lì in maniche di camicia, eppure continuava a chiamare il gatto, insisteva e insisteva, ma del gatto neanche l'ombra. A un tratto si rialzò e attraversò il giardino in pantofole, con in mano una forchetta. Scrutò a destra e a sinistra, chiaman-do il gatto. Io pensai: "E questo sarebbe il mostro? Il serial killer? Uno che sta sotto la pioggia in maniche di camicia a chiamare il suo gatto? Ma fatemi il piacere!". Fu allora che l'uomo si accorse di me.

Capii subito che mi aveva visto, ma non ebbi paura. Come si fa ad avere paura di un tizio che cerca il suo gattino? Ero imbarazzato, casomai. Imbarazzato perché era chiaro che lo stavo osservando. Feci per allontanarmi, ma mi sentii chiamare: — Ehi, scusa...

Mi voltai. — Dice a me?

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— S... sì. Non è che hai visto una gatta? Una gatta bianca e nera.

Feci un cenno di diniego.— Oh, peccato! Odia la pioggia, capisci? La detesta. Ero

convinto di trovarla davanti alla porta ad aspettare, anche perché è l'ora della sua cena. Spero che non le sia... — S'in-terruppe e mi fissò. — Oh, santocielo! Sono mortificato. — Aveva un'aria confusa. — Io sto qui a preoccuparmi della gatta e tu sei bagnato fradicio. Dimmi... non hai una casa, giovanotto?

Scossi la testa.— Ma è terribile. Terribile. — Rimase lì a fissarmi, gi-

rando e rigirando la forchetta fra le dita. Si capiva che non sapeva cosa dire.

— Allora vado — mormorai.— Certo. — Annuì, senza smettere di fissarmi. Poi, men-

tre mi voltavo, disse: — Immagino che tu sia affamato.— Sto bene, grazie. — Mi stavo già allontanando e me

ne sarei andato se proprio allora non fosse riapparsa la gatta, correndo come un fulmine.

— Saffo! — Mi voltai. La gatta si fiondò verso il padro-ne, che la prese in braccio coccolandola, mormorandole qualcosa, sprofondando il viso nel pelo bagnato e infischian-dosene della pioggia. Un vero tenerone. E pensare... tornai a voltarmi.

— Giovanotto?— Sì?

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— Posso offrirti qualcosa da mangiare o... non so... un paio di sterline? — Quasi tremava, ansioso com'era di aiutar-mi e allo stesso tempo preoccupato che la sua offerta potesse offendermi. — Ho un soprabito ancora buono, che non uso più. Te lo do volentieri.

Non avevo fame, ma faceva un freddo cane, ero bagnato fradicio e l'offerta del soprabito mi tentava. Accettai. — Il soprabito sarà più che sufficiente, grazie. — Il tizio sorrise e riattraversò il giardinetto ciabattando, tutto preso a coccolare la gatta. Lo seguii. Più semplice di così!

Entrando, vidi un breve corridoio con una porta a destra e una scala in fondo. Il tizio apri la porta con la mano libera e si fece da parte per farmi passare. — Entra pure, giovanot-to. Sarò da te fra un minuto.

La stanza sapeva di pulito ed era così ordinata da dare l'impressione che nessuno la utilizzasse. Le finestre erano coperte da tende pesanti. L'unica luce proveniva da una lam-pada su un tavolino tirato a lucido. Rimasi in piedi, goccio-lante, sul tappeto immacolato, mentre il tizio portava Saffo in quella che immaginai fosse la cucina. Dopo qualche secondo lo sentii chiedere: — Ti dispiacerebbe prendermi il piattino? Quello davanti all'ingresso?

— Subito.— Scusa se approfitto. — Ridacchiò. — A volte penso

che potrei dimenticarmi la testa da qualche parte, se non ce l'avessi ben salda sulle spalle.

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Ritirai il piattino con la pappa e lo portai in cucina. Il ti-zio aveva avvolto la gatta in una salvietta rosa. — Grazie — disse sorridendo. — Grazie mille. Mettilo pure dove vuoi. Un secondo e ti prendo il soprabito.

Tornai nell'altra stanza, consapevole del fatto che stavo imbrattando il pavimento, lasciando orme dappertutto. Ormai mi ero convinto che tutti i miei sospetti fossero assurdi. La gatta, la fissa dell'ordine. Quell'uomo non avrebbe fatto male a una mosca. Non riuscii a trattenere un sorriso, guardando-mi intorno. Cuscini belli gonfi. Quadri diritti. Mobili lucidi. Un posto per ogni cosa e ogni cosa al suo posto. Ogni secon-do che passava mi sentivo più a mio agio, finché notai l'oro-logio sulla credenza.

Era il mio, senza dubbio alcuno. Quello che, un milione di anni prima, avevo dato ad Armadio-di-Liver-pool. L'avrei riconosciuto dovunque. Con una stretta al cuore, mi avvici-nai per dargli un'occhiata più da vicino e, quando la porta sbatté, lanciai un urlo.

Era entrato senza rumore e ora stava in piedi, la schiena contro la porta e un sorriso diverso sulle labbra. Accennò con la testa alla credenza. — Sono stato proprio sbadato. — Ri-dacchiò, e non era una risata da bonaccione. — Ma tanto non ha importanza. Ormai... — Mi fissò negli occhi e sibilò: — Link, la Ferrovia. Link, la Fetenzìa! Operazione Spiritoso Numero Due. Finalmente. Che ti prende, Spiritoso? Ti sei mangiato la lingua? O te l'ha mangiata il gatto? — Scoppiò a

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ridere e, girando la testa verso la cucina, urlò: — Ehi, Saffo! Gliel'hai mangiata tu, la lingua?

Ero paralizzato dal terrore. Non ci eravamo sbagliati, Gail, Nick e io. Era lui, il nostro uomo. Bastava guardarlo negli occhi per capire che era pazzo. Era completamente fuo-ri di sé e mi aveva chiuso in trappola, come Toya e Ginger e...

— Oh, sì. — Mi aveva letto nel pensiero. — È qui, quel gigante di Liverpool, insieme a tutti gli altri. E promette mol-to bene come recluta. Un gran potenziale. Ha di che vantarsi. Vuoi dare un'occhiata?

— No! — urlai, schiacciandomi contro la credenza. — Voglio tornare a casa. Mi lasci andare.

L'uomo rise di nuovo, scuotendo la testa. — Oh no, ra-gazzo mio. Tu non te ne vai. Mi hai fatto aspettare a lungo, ma finalmente entrerai anche tu a far parte degli Orizzontali di Camden. Vieni a vedere i tuoi compagni d'armi.

— Mi lasci andare! — Sapevo che era inutile, lo sapevo, ma avevo il cervello in acqua. Non riuscivo a dire altro. Lui, intanto si era inginocchiato e stava sollevando un angolo del tappeto. Misurai la distanza che mi separava dalla finestra. "Se riuscissi ad arrivarci, a rompere un vetro" pensai...

—Ecco, guarda. — Aveva ripiegato il tappeto e tolto tre o quattro assi dal pavimento. — Accenderò la luce, così ve-drai meglio. — Si alzò e, mentre si avvicinava all'interrutto-re, mi slanciai verso la finestra. Nell'istante in cui si accese il lampadario, afferrai le tende. L'uomo si voltò, mi vide e, con

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un'imprecazione, corse verso di me. Mi appesi alle tende e ti-rai con forza, strappandole, facendole cadere su entrambi. Singhiozzando terrorizzato, mi liberai, mi sfilai lo zaino dal-le spalle e lo scaraventai contro la finestra. Il vetro s'incrinò anziché andare in frantumi e, prima che potessi riprovarci, l'uomo mi fu addosso.

La forza della follia. Mi era capitato di leggere questa frase da qualche parte, ma soltanto ora ne compresi improv-visamente il significato. Io non sono mingherlino e

quell'uomo aveva molti più anni di me, eppure non riu-scivo a liberarmi. Scalciavo, mi dibattevo, ma lui mi stringe-va in una morsa d'acciaio. Mi sollevò di peso e mi riportò in mezzo alla stanza e, quando fummo davanti al buco nel pavi-mento, mi lasciò cadere a terra gettandosi su di me come un lottatore. Ero bloccato a pancia in giù, con la testa sopra il buco. Un filo di vento salì da sotto, portando con sé un odore dolciastro, nauseabondo. Dopo qualche secondo, i miei occhi si abituarono alla penombra e li vidi.

Erano in sette, sdraiati uno di fianco all'altro, tutti coi ca-pelli tagliati cortissimi: non si capiva se fossero ragazzi o ra-gazze, ma riconobbi Ginger dai vestiti. La faccia era... be', dalla faccia non l'avrei mai riconosciuto. Ebbi un conato di vomito e voltai la testa da una parte. — Mi lasci! — gridai. — Ora vomito!

L'uomo scoppiò a ridere. — Vomita pure, soldato. Tanto ci finirai tu, là sotto, non io.

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Vomitai in quel buco grigio e polveroso e l'uomo rise di nuovo. — Tira fuori tutto — ruggì. — Ti farà bene. — Il suo peso mi schiacciava, mi toglieva il fiato. Vedevo forme scure galleggiarmi davanti agli occhi. Stavo perdendo coscienza.

—Lasciami! — balbettai. — Mi manca il fiato. Aiuto!— Un aiuto, Link. Ma certo! Sono qui apposta. In fondo

è giusto dare una mano alle nuove reclute! — E scoppiò in una risata selvaggia.

Mi stava uccidendo lentamente, asfissiandomi. Con uno sforzo immane, presi un'altra boccata di quell'aria nausea-bonda e tentai l'ultima carta. — Sanno che sono qui — dissi con un filo di voce. — I miei amici sanno che sono qui.

Dubito che mi abbia creduto. Di certo sapeva che, davan-ti alla morte, un uomo è pronto a dire qualsiasi cosa pur di salvarsi. Ma le mie parole gli fecero tornare in mente il lam-padario acceso e le tende strappate, e questo fu la mia salvez-za. Imprecò e si drizzò di scatto. Ansimando e tossendo, ro-tolai lontano dal buco: sapevo di avere solo pochi secondi per riprendere fiato. Il lampadario si spense e, nella luce del-la lampada da tavolo, lo vidi tornare verso di me con un ghi-gno sul viso e un pezzo di filo elettrico teso fra i pugni. Cer-cai di alzarmi, ma avevo le gambe paralizzate. Ricaddi all'in-dietro e mi coprii la gola con le mani. L'uomo si chinò su di me, pronto a strangolarmi, quando si udì il suono della sire-na.

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Mentre lo trascinavano fuori, l'uomo continuava a urlare ai suoi ragazzi di alzarsi e combattere. Ero così stordito che neanche capivo che succedeva. Mi trascinai fino al corridoio. Gli sbirri avevano sfondato tutt'e due le porte per arrivare in sala. Sulla soglia, Gail stava cercando di entrare, ma era stata bloccata da due agenti. Non appena mi vide, esclamò: — Link, grazie al cielo! — Gli sbirri mi lasciarono passare. Gail e io ci abbracciammo forte.

So perfettamente cosa pensate. Ecco che arriva il lieto fine, giusto? Ma aspettate un po'.

— Sei stata tu? — le chiesi. — L'hai chiamata tu, la poli-zia?

Annui. — Ero venuta a cercarti, ma non c'eri. Me ne sta-vo andando, quando ho visto illuminarsi la finestra, le tende cadere e tu che lottavi con... quello. Sapevo di non poter far niente da sola, così sono corsa al commissariato di Albany Street.

— Ma come hai fatto a convincerli? Quando siamo anda-ti insieme, neanche volevano farci passare. Come hai fatto?

— Link. — S'irrigidì e si sciolse dall'abbraccio. — Devo dirti una cosa.

Ma non me la disse. Non fu necessario. Gli sbirri aveva-no appena caricato il pazzo sul furgone, che si stava allonta-nando seguito da due macchine, quando arrivò questo tizio rileccato, con una splendida macchina fotografica e tutta l'at-trezzatura. Attraversò impettito il giardinetto, sorridendo come un babbuino.

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—Louise, tesoro — disse. — Sei un genio.Gail non mi abbracciava più, ormai. Io mi guardai intor-

no, cercando con lo sguardo 'Louise tesoro', ma c'eravamo solo Gail, io e due sbirri, e nessuno dei due aveva una faccia da 'Louise tesoro'. Allora capii. Il tizio parlava con Gail.

Gail aveva un'aria imbarazzata, questo va riconosciuto. — Link — mormorò — questo è Gavin. Gavin, questo è il ragazzo di cui ti ho parlato. — Gavin s'illuminò e mi tese la mano. Lo ignorai e mi volsi verso Gail. — E tu? — sbottai. — Chi sei, tu?

Arrossi. — Mi dispiace, Link. Mi chiamo Louise Bain. Sono una giornalista. Erano...

— Non dirmelo. Erano mesi che davi la caccia a questo pazzo furioso, giusto? Ma non t'importava di quanti ragazzi ci lasciavano la pelle, purché tu e il tuo stupido amico foste presenti al momento dell'arresto.

— Ehi, vacci piano! — strillò il fotografo. — Ti ricordo che ti ha salvato la vita.

Lo fissai dritto negli occhi. — Di' solo un'altra parola e ti ficco quella macchina fotografica dove non batte il sole.

Gail scuoteva la testa. — Ti sbagli, Link. Stavo facendo ricerche sui senzatetto. Non sapevo niente di quest'altra sto-ria. Niente. Devi credermi.

Eccetera eccetera. Io ero talmente sconvolto dalla rabbia e dal dolore che quasi non mi rendevo conto di cosa dicevo. Ricordo che domandai a Gavin perché non scattava qualche foto alle vittime per venderle ai genitori. Gail singhiozzava,

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e io pure. Alla fine mi ficcò in mano un rotolo di banconote. — Buona fortuna, Link — disse fra le lacrime. Mi dispiace. — Gavin, intanto, era risalito in auto e stava mettendo in moto. Gail lo raggiunse e io mi ritrovai solo in una nuvola di fumo azzurrognolo, a guardarla uscire dalla mia vita.

Oh, lo so. Avrei dovuto gettarle in faccia quei soldi. Qualsiasi eroe della tivù l'avrebbe fatto, ma gli eroi della tivù non vivono in mezzo a una strada. Comunque, questo fu il lieto fine.

Sì, ma almeno... giustizia è fatta, no? O no? Shelter (que-sto è il nome che si era scelto, o almeno così sembra dal dia-rio che è stato ritrovato) si becca il carcere a vita, ovvero un tetto, un letto e tre pasti al giorno. E io niente.

Spero soltanto una cosa. Spero che, quando Louise e Ga-vin scriveranno la loro storia, dentro ci sarà un po' di verità, e spero che la legga un sacco di gente. La gente può migliorare le cose solo se sa come stanno davvero le cose. Tutto questo deve finire, un giorno. Spero solo, quando quel giorno arri-verà, di essere ancora vivo.

Nel frattempo non so ancora cosa farò. Non posso restare nella zona di Camden, poco ma sicuro. Troppi fantasmi. Ve-drei continuamente Gail dall'altra parte della strada, o Gin-ger. Potrei tentare Embankment o Covent Garden. Ce ne sono parecchi come me che bazzicano Covent Garden. O po-trei addirittura andarmene da Londra.

Questo è un paese libero, no?