Europa Plurale Rivista per un Federalismo globale - n°1/2007

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PERSONAGGI A proposito di Alexandre Marc / Gilda Manganaro Favaretto SGUARDI SUL FEDERALISMO Dalla partecipazione all’autogoverno della comunità locale: verso il federalismo municipale solidale / Alberto Magnaghi Le identità locali nell'era globale: il federalismo antidoto al totalitarismo / Alain De Benoist OSSERVATORIO Informazione: potere di costruire la verità? / Francesco Lauria Erto 2004/2005/2006 / Emiliano Oddone Per un Partito Democratico antioligarchico / Claudio Giudici DOCUMENTI Manifesto programmatico di Comunità / Movimento di Comunità – Adriano Olivetti NOTA POLITICA Vicenza e la crisi del potere / Francesco Lauria Per costruire insieme un’Europa plurale L’Europa oggi ha bisogno di nuove idee e nuove prospettive. Il processo di integrazione, così come lo si è conosciuto, ha esaurito la sua spinta propulsiva e la sua capacità di mobilitare il cuore e la mente dei cittadini europei. Europa Plurale – Movimento per un Federalismo Globale, partendo dal patrimonio morale ed ideale del Federalismo Integrale, vuole essere non solo un laboratorio di idee nuove, ma un soggetto in grado di porre sul campo proposte realmente alternative per la costruzione dell’Europa del futuro. Renditi protagonista di questo progetto: partecipa alla costruzione dell’Europa plurale! Per informazioni [email protected]

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PERSONAGGI A proposito di Alexandre Marc / Gilda Manganaro Favaretto

SGUARDI SUL FEDERALISMO Dalla partecipazione all’autogoverno della comunità locale: verso il federalismo municipale solidale / Alberto Magnaghi Le identità locali nell'era globale: il federalismo antidoto al totalitarismo / Alain De Benoist

OSSERVATORIO Informazione: potere di costruire la verità? / Francesco Lauria Erto 2004/2005/2006 / Emiliano Oddone Per un Partito Democratico antioligarchico / Claudio Giudici

DOCUMENTI Manifesto programmatico di Comunità / Movimento di Comunità – Adriano Olivetti

NOTA POLITICA Vicenza e la crisi del potere / Francesco Lauria

Per costruire insieme un’Europa plurale

L’Europa oggi ha bisogno di nuove idee e nuove prospettive.

Il processo di integrazione, così come lo si è conosciuto, ha esaurito la sua spinta propulsiva e la

sua capacità di mobilitare il cuore e la mente dei cittadini europei.

Europa Plurale – Movimento per un Federalismo Globale, partendo dal patrimonio morale ed ideale del Federalismo Integrale, vuole essere non solo un laboratorio di idee nuove, ma un soggetto in grado di porre sul campo proposte realmente alternative

per la costruzione dell’Europa del futuro.

Renditi protagonista di questo progetto: partecipa alla costruzione dell’Europa plurale!

Per informazioni

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Nota Politica VICENZA E LA CRISI DEL POTERE Era mia intenzione, con questo editoriale spiegare la partecipazione di Europa Plurale alla manifestazione per la Pace e contro il raddoppio della Base militare Dal Molin a Vicenza. La situazione politica è in queste ore precipitata, ma credo che alcune letture possano essere rafforzate dagli ultimi eventi e non confutate. La manifestazione, come ha ben scritto il vicentino Ilvo Diamanti, è passata: affollata, festosa, tranquilla, io aggiungerei, plurale e molteplice. No, non erano le bandiere della sinistra radicale o della Cgil, o la presenza di amministratori e deputati locali di Ds e Margherita in dissenso con i rispettivi partiti, a rendere particolarmente significativa la manifestazione: non erano quelli i settori in cui trovare pienamente l’anima di questo corteo. Le rivendicazioni semplici e dirette dei cittadini di Vicenza parlano un linguaggio universale: in nome della difesa dell'ambiente e della qualità della vita, della richiesta di democrazia reale e del rifiuto della guerra globale. Ai cittadini di Vicenza si affiancavano le bandiere (tantissime) delle comunità della Val di Susa e di molti altri luoghi che hanno saputo attivare mobilitazioni consapevoli, non localistico-corporative al fine di salvaguardare e promuovere quella che il sociologo Aldo Bonomi definisce nei suoi scritti: “la coscienza di luogo”. Per questo la manifestazione di Vicenza con la sua identità comunitaria, aperta ad una rete di comunità, fa paura. Fa paura perché parla ai Poteri cardine di una democrazia più formale che sostanziale per cui il rapporto con i territori e con la vita delle persone è un impaccio, un orpello. E’ la politica della rappresentazione che si scontra con il suo scollamento dal concetto di rappresentanza, dalla sua lontananza ormai antropologica con i territori e le relazioni; con la sua interessata e colpevole rinuncia ad una dinamica di mediazione comunitaria.

Il messaggio positivamente sovversivo della manifestazione di Vicenza sta nello slogan che l’ha accompagnata: “Il futuro è nelle nostre mani”. Poco prima della caduta del Governo Prodi il Presidente della Repubblica Napolitano pronunciava frasi molto dure, negando il valore aggiunto democratico di questa e di altre mobilitazioni (che non si esauriscono in un corteo, ma, ad esempio nel caso della Val di Susa, hanno una complessa e affascinante storia più che decennale) rifugiandosi in un perentorio: “a decidere sono comunque le istituzioni”. Le ore successive ci hanno dimostrato che sono proprio quelle istituzioni che devono “comunque decidere” ad

Francesco Lauria Presidente Europa Plurale –

Movimento per un Federalismo Globale

Il messaggio positivamente sovversivo della manifestazione di Vicenza sta nello slogan che l’ha accompagnata: “Il futuro è nelle nostre mani”.

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essere fragili come un castello illusorio, come un miraggio evanescente. E’ la Politica delle Istituzioni e dei partiti nelle ore della “crisi del potere” a doversi interrogare. Non può più usare la mobilitazione di Vicenza come un’alibi per le proprie contraddizioni irrisolte ma deve prendere atto della propria inesorabile e autodistruttiva autoreferenzialità ed incapacità di ascolto. La posta in gioco è alta: la democrazia reale si rigenererà solo se rincontrerà la partecipazione; la società dei flussi e dell’insicurezza ritroverà un’anima ed un orizzonte di senso solo se reincontrerà i luoghi e le relazioni comunitarie.

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Sguardi sul Federalismo - 1 DALLA PARTECIPAZIONE ALL’AUTOGOVERNO DELLA COMUNITÀ LOCALE: VERSO IL FEDERALISMO MUNICIPALE SOLIDALE* “Federazioni fra piccole unità territoriali, come tra uomini uniti da lavori comuni nelle loro rispettive corporazioni, e federazioni tra città e gruppi di città costituiscono l’essenza stessa della vita e del pensiero in quest’epoca. Il periodo compreso fra il X e il XVI secolo della nostra era potrebbe dunque essere descritto come un immenso sforzo per stabilire l’aiuto e l’appoggio reciproco in vaste proporzioni, il principio di federazione e d’associazione essendo applicato in tutte le manifestazioni della vita umana ed in tutti i gradi possibili” ((Piotr Alexeevic Kropotkin 1902) Democrazia partecipativa e autogoverno

Nel testo “Il diritto federale” Carlo Cattaneo scriveva: “ Ogni popolo può avere molti interessi da trattare in comune con altri popoli; ma vi sono interessi che può trattare egli solo, perché egli solo li sente, perché egli solo li intende. E v’è inoltre in ogni popolo anche la coscienza del suo essere, anche la superbia del suo nome, anche la gelosia dell’avita sua terra. Di là il diritto federale, ossia il diritto dei popoli; il quale debbe avere il suo luogo, accanto al diritto della nazione, accanto al diritto dell’umanità” (Cattaneo 1973) Questo ragionamento sembra quasi anticipare il concetto di “coscienza di luogo” (“coscienza del suo essere”, per Cattaneo) che ho posto alla base di una concezione della democrazia partecipativa che veda la crescita della società locale, dei suoi istituti di codecisione inclusiva e di partecipazione, della sua capacità di esprimere autoriconoscimento dei suoi valori, dei suoi giacimenti patrimoniali (“che egli solo li intende”), della sua identità,

* Questo testo, pubblicato sul n° 3/2006 di Democrazia e Diritto, costituisce una rielaborazione della relazione introduttiva: “Dai municipi alle province, alle regioni: evoluzione delle esperienze partecipative e ruolo delle autonomie locali verso l’autogoverno” tenuta al Convegno Organizzato dalla Rete del Nuovo Municipio e dalla Provincia di Milano su: Federalismo e partecipazione: dal municipio all’Europa. Milano 20-21 ottobre 2006

Alberto Magnaghi Presidente Rete del Nuovo

Municipio

Questo ragionamento sembra quasi anticipare il concetto di “coscienza di luogo” (“coscienza del suo essere”, per Cattaneo) che ho posto alla base di una concezione della democrazia partecipativa

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come condizione per la crescita di forme di autonomia e di autogoverno (Magnaghi 2000, Becattini 1999). Ma, “egli solo” chi? Anche su questo punto ho più volte chiarito, per dissipare equivoci, che, in un territorio abitato da molte culture, da cittadinanze plurali, è l’autoriconoscimento dei soggetti che si relazionano e si associano per la cura dei luoghi l’atto costituente di elementi di comunità; ovvero la comunità è una chance, non un dato storico riservato agli autoctoni, ma un progetto delle genti vive, degli abitanti di un luogo, che deriva dall’ interazione solidale fra attori diversi in una società complessa, che sono in grado di reinterpretare l’anima del luogo per attivare nuove forme di produzione e consumo fondate sulla convivialità, la solidarietà e l’autosostenibilità. Dunque il luogo appartiene a chi se ne prende cura: in molti casi estremi, dopo i guasti antropologici creati dalla società del fordismo, l’”anima del luogo” ( Bonesio 2002, Decandia 2004, Hillman 2004) è riconosciuta e coltivata proprio dagli ospiti, dagli “stranieri”, mentre molti “locali”, presunti custodi “dell’avita sua terra” si attardano a praticare, guidati da immaginari esogeni di salvifiche modernizzazioni, il “localismo vandalico”, ovvero il consumo scriteriato e autodistruttivo delle proprie risorse patrimoniali. A partire da queste premesse ho indicato il concetto di autosostenibilità delle società locali (nelle molte declinazioni riguardanti la sovranità alimentare e energetica, il governo collettivo dei beni comuni, i modelli produttivi e di consumo a valenza etica fondati sulla valorizzazione durevole delle risorse, l’inclusione sociale, sul riconoscimento del mondo rurale come produttore di beni e servizi pubblici ecc), come presupposto essenziale per trasformazioni del modello di sviluppo capaci di produrre relazioni solidali e non gerarchiche fra società locali. A questo fine ho proposto di assumere le politiche e le azioni verso l’ autosostenibilità in una duplice direzione: da una parte verso la riduzione dell’impronta ecologica (condizione essenziale per poter tenere relazioni di scambio solidali e non gerarchiche con altre regioni del nord e del sud del mondo); e dall’altra verso la crescita di forme di autogoverno attraverso la sottrazione progressiva ai grandi apparati tecno-finanziari e produttivi della globalizzazione economica degli strumenti del loro dominio omologante e distruttivo sul “diritto dei popoli”. Ipotizzo in altri termini che una democrazia locale, ecologica, solidale, capace di tessere reti federative dal basso possa costituire un importante antidoto ai modelli imperial-militari della globalizzazione economica (Magnaghi 2004). In questa prospettiva viene configurandosi una visione della democrazia partecipativa che non la interpreta solo come uno strumento di rivitalizzazione della vita

In un territorio abitato da molte culture, da

cittadinanze plurali, è l’autoriconoscimento

dei soggetti che si relazionano e si

associano per la cura dei luoghi l’atto

costituente di elementi di comunità

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democratica a fronte della crisi della democrazia rappresentativa; anche questo; ma soprattutto la interpreta come uno strumento di “liberazione” della vita quotidiana individuale e collettiva dalle sovradeterminazioni e coazioni del mercato, verso l’autodeterminazione degli “stili” di produzione, di scambio, di consumo. Il distacco ormai crescente e riconosciuto fra crescita economica e benessere1 fa si che la democrazia partecipativa si riproduca quotidianamente come coagulo di interessi sociali locali relativi alla qualità della vita contro scelte economiche, territoriali, ambientali, infrastrutturali non più riconosciute come portatrici di benessere. E questo forse giustifica le molte resistenze, negli enti di governo del territorio, ubriachi a destra come a sinistra di crescita economica,

di privatizzazioni e globalizzazioni competitive, ad attivare precorsi strutturati di democrazia partecipativa in grado di trattare i modelli conflittuali della partecipazione: prevale in molti casi la sensazione che aprire alla partecipazione significhi mettere a nudo ideologie e interessi ormai stellarmente estranei al “comune sentire” delle popolazioni locali. Se questa è la posta in gioco della partecipazione (rimettere il benessere e la felicita pubblica al centro delle politiche istituzionali locali), è evidente l’importanza dei percorsi di maturazione culturale e pratica in questi anni dei processi partecipativi: da un insieme scollegato e episodico di consultazioni, bilanci partecipativi, sociali e di genere, arene deliberative, percorsi negoziali su singoli problemi su cui caso per caso si cercano soluzioni a conflitti, verso un percorso di progressiva costruzione di reti di reti volte a connettere, confrontare, creare osmosi fra le diverse esperienze2 fino al configurarsi, nelle esperienze amministrative più avanzate, della proposta della democrazia partecipativa come pratica ordinaria di

1 Fra i molti indicatori che di benessere che da anni sanciscono, per i paesi del nord del mondo, la divaricazione fra il PIL e il benessere segnalo il Quars, indice per la qualità regionale dello sviluppo, promosso dalla Campagna Sbilanciamoci (Sbilanciamoci 2006) 2 Nel convegno nazionale della Rete del Nuovo Municipio di Milano (provincia di Milano 20-21 ottobre 2006) sono state proposte da diverse associazioni ai municipi una serie di azioni riassunte in un decalogo, sui temi del federalismo dal basso, delle economie solidali, sulla ripubblicizzazione dei servizi pubblici e dei beni comuni, sulla produzione locale di energia, sul consumo di suolo zero, sulla cooperazione decentrata, ecc; www.nuovomunicipio.org

Il distacco ormai crescente e riconosciuto fra crescita economica e benessere fa si che la democrazia partecipativa si riproduca come coagulo di interessi sociali locali relativi alla qualità della vita contro scelte non più riconosciute come portatrici di benessere

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governo in tutti i settori e a tutti i livelli dell’amministrazione locale3 che investe l’amministrazione locale in un cambiamento complessivo delle forme di decisione. I passaggi necessari per dare concretezza nelle pratiche dei municipi a questo obiettivo consistono in sintesi nell’individuare coerenze, relazioni di complementarietà e di integrazione nei livelli decisionali che riguardano: a) l’attivazione di strumenti di ascolto e di valorizzazione delle espressioni di cittadinanza attiva e dei saperi diffusi (expertises) di una società complessa postindustriale, che produce nelle sue molteplici componenti conflitto, ma anche progettualità molecolare, che si avvale di nuovi saperi produttivi, comunicativi, artistici, ambientali, relazionali ecc.; saperi che si vanno esplicando in processi cognitivi innovativi, nell’avanzare di stili di vita attenti alla cura del territorio, del paesaggio e dell’ambiente, nella costruzione di reti comunicative comunitarie; nella crescita di forme di intrapresa a valenza etica, dove le figure di abitante e di produttore si riuniscono nell’autogoverno dei fini e dei mezzi della produzione. Ascoltare e contaminare le politiche pubbliche con le mille forme di saperi della cittadinanza attiva operanti nel territorio significa per le amministrazioni locali accettare altri orizzonti strategici e priorità nelle agende politiche; orizzonti e agende che si definiscono a partire dall’attivazione di strumenti di democrazia partecipativa in grado di affrontare le l’elaborazione delle scelte fondamentali per la vita delle comunità locali e per la loro gestione; a questo fine è necessario che i processi partecipativi siano strutturati, continuativi, intersettoriali, inclusivi, tecnicamente e finanziariamente attrezzati; b) la riformulazione dei ruoli e di modi di operare delle assemblee elettive, degli organi di decisione e della struttura amministrativa degli enti locali, al fine di rendere politicamente e tecnicamente operative le scelte che scaturiscono dai percorsi partecipativi4; c) l’estensione dei tavoli di programmazione negoziale, attualmente riferiti a pratiche consociative fra pochi attori forti, alla complessità delle rappresentanze di interessi presenti nella società contemporanea, con particolare riferimento a politiche inclusive delle rappresentanze degli attori deboli e sottorappresentati, sia nella società urbana che rurale; d) l’attivazione di strumenti di ascolto delle comunità locali che si formano nella mobilitazione autonoma e conflittuale sui temi delle grandi opere, proponendo agenzie

3 si tratta dello slogan riassuntivo che accompagna il percorso partecipativo per la formazione della legge regionale sulla partecipazione della Regione Toscana. Vedi: www. nuovomunicipio.org.; www.regione.toscana.it/partecipazione 4 attualmente si verifica uno scarto molto forte fra l’impegno diffuso della società civile in forme di cittadinanza attiva e gli esiti operativi dei processi partecipativi nelle politiche pubbliche nei diversi campi di trasformazione della città e del territorio, delle politiche ambientali, ecc. La macchina amministrativa, per la sua strutturazione, non è in grado di rendere operative le decisioni scaturenti dai processi partecipativi.

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terze a livello regionale (del tipo del francese Débat public ) che conducano il percorso partecipativo strutturandolo dall’inizio della proposizione del problema, alla discussione sull’utilità sociale della grande opera, alla messa a confronto e alla valutazione di alternative progettuali, alle scelte condivise delle soluzioni; solo in questo modo è possibile rendere pubblici gli interessi in gioco, ridefinire le opzioni e i settori strategici dello sviluppo, armonizzando benessere locale e interesse generale. L’integrazione nei sistemi decisionali pubblici di questi requisiti del processo partecipativo è destinata a determinare un cambiamento generale della forma della politica: non si partecipa solo per indicare ad altri (ceto politico, imprenditori, ecc) cosa dovrebbero fare (elezioni, referendum, arene deliberative, ecc), ma si partecipa per contribuire a produrre direttamente il proprio ambente di vita e di relazione, creando nuovi intrecci fra attività individuali e finalità sociali della produzione e del consumo, estendendo i valori d’uso, i beni comuni non negoziabili, le attività fuori mercato con molteplici forme di scambio. Il nesso inscindibile fra partecipazione e federalismo. La crescita della cittadinanza attiva verso forme di autogoverno locale e il recente sviluppo di processi partecipativi dai municipi ai circondari, alle province, alle regioni5 configurano un percorso che la Rete del Nuovo Municipio ha definito federalismo municipale solidale6 . Questa definizione comporta un assunto centrale: che il federalismo si costituisca “dal basso”, come federazione di reti di municipi che siano a loro volta espressione della sovranità popolare. Il progetto di federalismo municipale solidale affonda le radici in uno scontro nei tempi lunghi della civilizzazioni europee e mediterranee fra sovranità municipale federata in reti sovralocali e centralizzazione statuale: dai conflitti per l’autonomia delle colonie greche (polis) dalla città madre (metropolis), alla federazione delle lucumonie etrusche, al municipio romano interprete della respublica, dei concetti di civitas , di sovranità popolare e dello stato federativo-municipale in epoca repubblicana,

5 La rete del nuovo Municipio ha promosso coordinamenti fra province sul tema “le Province dei Comuni”; insieme alla Regione Toscana ha promosso un coordinamento di 7 regioni sul tema della formazione partecipata delle leggi regionali 6 Vedasi la Relazione di Giorgio Ferraresi al convegno di Bari del novembre 2005 della Rete del Nuovo Municipio, www.nuovomunicipio.org

La crescita della cittadinanza attiva

verso forme di autogoverno locale e il

recente sviluppo di processi partecipativi

dai municipi ai circondari, alle

province, alle regioni configurano un

percorso che la Rete del Nuovo Municipio

ha definito federalismo

municipale solidale

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ai Comuni medievali e alle loro leghe e federazioni, al conflitto nella rivoluzione francese fra costituzione municipale/partecipata e centralistica statuale, fino allo scontro, dopo l’unità d’Italia, fra modelli federativi e modelli centralistici dello stato7. Il federalismo municipale contemporaneo poggia nuovamente, a partire dalla crisi dello stato-nazione, sul concetto di estensione della sovranità del municipio in quanto espressione della sovranità popolare: in una ricerca capillare, che vive nella diffusione dei processi partecipativi, del superamento del ruolo subalterno di “amministrazione locale” (di servizi) cui lo stato moderno di modello inglese centralista ha ridotto la municipalità; e come espressione di nuove forme di autogoverno contro i poteri forti ademocratici della globalizzazione economica. Richiamo a questo proposito la tesi di Silvio Trentin (1987) “Il federalismo come struttura per partecipare”, per rafforzare il concetto che non esiste federalismo se non è espressione di una autonomia e democrazia compiuta a livello di comunità locale. Come ha ampiamente argomentato Daniel Elazar (1993), il federalismo attuato attraverso riforme costituzionali non funziona se non è stato anticipato da comportamenti pratici di tipo autonomista. Questo percorso concreto verso il federalismo, che ha come asse portante e nucleo fondativo la democrazia partecipativa, si pone dunque in antitesi al “federalismo di stato”, che procede dall’alto verso il basso attraverso il decentramento istituzionale (devolution) che produce nuove forme “decentrate” di accentramento e esclusione nel sistema decisionale e che può presentare risvolti egoistici di desolidarizzazione verso il separatismo. Il problema è stato enunciato con chiarezza da Giuseppe Gangemi nella relazione introduttiva al Convegno organizzato dalla Rete del Nuovo Municipio a Bari (Novembre

2005): “Il federalismo deve partire dalle pratiche di autonomia e partecipazione, rafforzarle e diffonderle… “Il federalismo, in quanto struttura per partecipare e far partecipare i cittadini, è finalizzato all’obiettivo di costruire le condizioni per lo sviluppo politico e per lo sviluppo locale, basandosi sulle proprie risorse finanziarie, professionali e politiche, e di sviluppare gli strumenti locali e non, della democrazia deliberativa”8. Dunque un federalismo che promana “dal basso”; anche perché è solo nella dimensione locale (quartiere, municipio, piccola città, paese) che si può esprimere compiutamente la democrazia partecipativa attivando tutte le componenti sociali in forme dirette nel processo: la federazione delle componenti sociali in un processo partecipativo locale è l’atto costituente primario di un

7 su questa ultima fase vedasi: Gangemi 1999 8 www.nuovomunicipio.org. Il tema è ripreso e trattato in Gangemi 2006

Il federalismo municipale contemporaneo poggia nuovamente, a partire dalla crisi dello stato-nazione, sul concetto di estensione della sovranità del municipio in quanto espressione della sovranità popolare

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processo federativo ai livelli superiori di governo, fondato sull’applicazione integrale del principio di sussidiarietà. Per questo motivo, per attivare questi atti costituenti, anche la grande città va scomposta in unità decisionali a misura della partecipazione di tutti, per poter attivare forme conviviali di relazione (nel senso sviluppato da Ivan Illich) in cui ciascuno, riferendosi agli ambiti della vita quotidiana, riesca a esprimere e comunicare il proprio stile di vita, immaginare il proprio futuro e confrontarlo in narrazioni collettive. L’esperienza romana dei municipi come laboratori di democrazia partecipativa (Smeriglio 2006), ha mostrato la fertilità di questo approccio. Solo a partire da percorsi decisionali di cittadinanza attiva a livello della comunità locale è possibile attivare a livelli territoriali più vasti reti non gerarchiche e sussidiali che siano espressione derivata della democrazia di base: province e regioni dei comuni9. Se i Comuni al contrario sono espressione(e/o ostaggi) dei poteri forti, ovvero le politiche locali sono terminali delle strategie del mercato globale (e i crescenti tagli alla finanza locale acuiscono il problema della dipendenza), le reti di comuni si svuotano di significato, risultando semplici crocevia funzionali di reti globali, oggetto e non soggetto di politiche tese alla concentrazione delle imprese, delle istituzioni finanziarie e commerciali, dei gruppi immobiliaristi, delle public utilities, nella ricerca di posizionamento verso l’alto nella competizione globale10.

9 Prendo ad esempio la costruzione della legge regionale toscana sulla partecipazione, in corso dal convegno del 13 gennaio 2006(Firenze): è impossibile un percorso che coinvolga in un unico ambito partecipativo la comunità toscana nel suo insieme. Le molte attività multiscalari attivate (convegni locali e internazionali, workshop, assemblee di quartiere, di comune, di provincia, town meeting, ecc), hanno visto presenti in gran parte livelli rappresentativi “di secondo grado”, vale a dire testimoni privilegiati di percorsi partecipativi locali già in atto ( nei quali la presenza dei cittadini può concretamente attivarsi) e del fitto sistema associativo e di reti civiche presenti in Toscana. 10 E’ utile a questo proposito un esempio sulla applicazione della legge di governo del territorio della regione Toscana (LR 1/2005). È la legge che attribuisce totale autonomia di governo del territorio per i comuni, applicando integralmente il principio di sussidiarietà, fissando a livello regionale criteri e regole di autovalutazione delle politiche locali. In questo caso se i comuni sono espressione, attraverso forme di democrazia partecipativa, di autogoverno della società locale ( e dunque c’e la garanzia di un controllo di tutte le componenti sociali sulle azioni di governo) abbiamo una applicazione piena e positiva del principio di sussidiarietà in chiave neomunicipalista; altrimenti, se il meccanismo decisionale è quello della proposta di legge nazionale Lupi (i grandi operatori industriali, finanziari e immobiliari propongono interventi sul territorio i comuni li recepiscono nei piani con varianti, le province adeguano i piani di coordinamento), è chiaro che l’autonomia data ai comuni diviene licenza di saccheggio del territorio da parte dei poteri forti (Magnaghi, Marson 2005). Gli esempi in Toscana non mancano: da Monticchiello a Pienza, alla Laika a San Casciano, all’Acaquabolla a Montespertoli, al tessuto diffuso degli interessi immobiliari che guidano il consumo di suolo attraverso lottizzazioni, alle grandi opere per l’alta velocità a Firenze, agli inceneritori nella piana, gli ipermercati, le multisale, le espansioni immobiliari mascherate da interventi produttivi e sociali, ecc

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Va ad esempio in questa direzione un’idea di “città metropolitana” perseguita come processo di concentrazione e privatizzazione di servizi, infrastrutture, strutture logistiche per competere nel mercato globale. In un territorio posturbano di reti e di flussi questa visione cerca soluzioni ai problemi di crisi/ristrutturazione della metropoli postfordista (o dell’informazione o della conoscenza) concependo la “modernizzazione” della città metropolitana come aumento di potenza nella competizione globale. Questa crescita è perseguita attraverso l’inclusione gerarchica di città e territori periferici, la realizzazione di grandi opere (megainfrastrutture, piattaforme logistiche, alta velocità) e concentrazioni di impresa e finanziarie per la moltiplicazione degli scambi e la velocificazione di merci e persone nel mercato mondiale, ricercando lo sviluppo di megafunzioni di produzione, di consumo e di loisir da “città globale”. Questo percorso aggregativo di reti e funzioni gerarchiche, di crescita di tecnostrutture e mega-apparati finanziari, di privatizzazione di servizi, crea diseconomie, altissimi costi e nuove povertà, esclusione e disintegrazione sociale: per la concentrazione degli investimenti in megaopere che precludono gli investimenti nel miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni; per l’atomizzazione e precarietà dei lavori, delle relazioni, dei consumi; per il continuo processo di dissoluzione delle relazioni sociali e degli spazi collettivi; per l’aumento dei costi sociali connessi alla mobilità mondiale e regionale di merci/persone legate sostanzialmente a fenomeni di dumping salariale e di dumping ambientale; per l’aumento del degrado ambientale e dei costi sociali e materiali di riproduzione della vita materiale e di relazione (Magnaghi 2006a). In sintesi questo modello fondato esclusivamente sulla competizione economica genera un aumento insostenibile dei costi scaricati sulla collettività facendo crescere il divario fra PIL e benessere, anche nei paesi sviluppati; divario che si risolve in una crescita di povertà assoluta nel sud del mondo, ma anche di povertà relative nella metropoli occidentale. In questo percorso la perdita di sovranità dei diversi livelli dell’amministrazione locale incrementa ulteriormente una spirale perversa di concentrazioni e privatizzazioni di servizi e di beni comuni, allontanando sempre più i sistemi decisionali e le macchine finanziarie dai livelli di decisione accessibili ai cittadini. Tuttavia si può dare una seconda visione di città metropolitana come rete federata policentrica di città, ognuna delle quale espressione di autogoverno della propria cittadinanza attiva, in cui i governi locali hanno come obiettivo competitivo la felicità pubblica, attraverso la gestione sociale dei beni comuni, il riequilibrio fra crescita economica e benessere, attraverso la valorizzazione delle peculiarità dei propri giacimenti

Si può dare una seconda visione di città metropolitana come rete federata

policentrica di città, ognuna delle quale

espressione di autogoverno della

propria cittadinanza attiva

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patrimoniali in forme lente e autoriproducibili11. La ricostruzione della civitas in questa visione richiede azioni di risanamento e riqualificazione delle città e delle reti attraverso la cura delle malattie da ipertrofia, congestione, degrado della qualità della vita e del benessere per la produzione di ricchezza durevole; e la riorganizzazione dei territori delle regioni urbane in reti solidali non gerarchiche di città, ciascuna in equilibrio con il proprio ambiente. Le politiche strategiche di questa visione riguardano la ricostruzione dello spazio pubblico, la riconnessione multifunzionale della città con il proprio territorio agricolo (chiusura locale dei cicli delle acque, dell’alimentazione, dei rifiuti, la riqualificazione delle reti ecologiche, la produzione locale di energia, l’attivazione di reti corte di produzione e consumo, ecc), la crescita della qualità dei nodi urbani nel contesto ambientale e rurale di riferimento, la valorizzazione delle identità urbane, paesistiche, culturali locali. Una città metropolitana di questo tipo non porta i propri abitanti nel baratro della globalizzazione del nulla, della disastrosa corsa verso il basso (Brecher e Costello 1996): sviluppa energie propositive di scambi solidali e non gerarchici con il resto del mondo, in quanto sviluppa autonomia (culturale, economica energetica, ambientale), stili di vita originali, scambio di beni peculiari e irripetibili. I municipi che si muovono in questa direzione acquistano la forza per praticare queste

strategie se si fanno portatori istituzionali degli interessi collettivi della comunità locale, emergenti da forme di democrazia partecipativa ai livelli locali adeguati come pratica ordinaria di governo; allora il federalismo dal basso, la costruzione di reti sussidiali di città a diversi livelli territoriali, esprime la necessaria messa in comune dei problemi, delle pratiche, delle soluzioni di problemi strategici citati alla giusta scala territoriale, senza perdere il filo conduttore dell’autogoverno municipale. Se il comune è espressione della cittadinanza attiva esso è infatti in grado di esercitare autogoverno, e dunque federare entità territoriali socioeconomiche e culturali, dotate di identità, peculiarità, diversità. In questo percorso la federazione non gerarchica di città dovrebbe affrontare, come sostiene Lanfranco Nosi (2005), in ogni suo nodo municipale, la complessità dei campi

11 “questo registro identitario non punta sull’adeguamento passivo all’ordine mondiale, ma piuttosto sulla centralità del territorio locale….è un registro fatto di molte identità locali non ancora sacrificate sull’altare della velocità e della competizione dei flussi e delle reti; che fa proprio l’elogio della lentezza e si realizza nella costruzione di uno spazio più conviviale che conflittuale. In questa ottica riesce a recuperare in maniera più pertinente e duratura l’idea di sostenibilità, senza tuttavia escludere il mercato.” (Quaini 2006)

Se il comune è espressione della cittadinanza attiva esso è infatti in grado di esercitare autogoverno, e dunque federare entità territoriali socioeconomiche e culturali, dotate di identità, peculiarità, diversità

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dell’autogoverno, ovvero il campo politico, economico, sociale e culturale, in cui si collocano, alle scale appropriate delle azioni, i quattro livelli proposti da Alexander Marc(1986): autonomia/autodeterminazione, cooperazione conflittuale, adeguamento/sussidiarietà, partecipazione /organizzazione policentrica. Non si federano strutture clonate dal centro, che parlano tutte la stessa lingua, omologata dalle leggi del mercato mondiale. Autogoverno locale dei beni comuni e federalismo dal basso I municipi che si federano a partire dagli obiettivi di crescita della cittadinanza attiva per l’autogoverno del proprio futuro, si candidano ad esplicitare trasformazioni del modello di sviluppo verso l’autosostenibilità, l’equità, l’elevamento del benessere individuale e sociale, la valorizzazione dei patrimoni ambientali, territoriali e culturali in funzione dell’elevamento del benessere. Estendendo il concetto di cittadinanza attiva dalla rivendicazione di diritti alla produzione sociale di valori d’uso, dal conflitto alla produzione diretta del proprio ambiente di vita, a partire dalla produzione dei beni comuni di vicinato (Gorz 1994), è possibile superare la dicotomia fra uso pubblico e uso privato del territorio e del governo dei suoi beni patrimoniali, reintroducendo il concetto “terzo” di uso comune di molti di questi beni. Questo uso comune dovrebbe riguardare molte componenti territoriali e sociali che sono in via di privatizzazione e di sottrazione alla fruizione e alla gestione collettiva: oltre all’acqua, l’energia, la salute, l’informazione, l’alimentazione, anche le riviere marine, lacustri e fluviali, molti paesaggi agroforestali semplificati, degradati e recintati, molti spazi pubblici urbani (sostituiti da parcheggi, supermercati e centri commerciali); gli spazi aperti interclusi della città diffusa, delle villettopoli e della disseminazione dei capannoni industriali, le gated communities e le città blindate, i paesaggi degradati e anomici delle periferie urbane, la ricca rete della viabilità storica (sostituita dai paesaggi semplificati delle autostrade e superstrade) e cosi via: in una parola il territorio. A tutti questi luoghi sociali del territorio “erosi”, recintati, privatizzati, occorre che i municipi che praticano la democrazia partecipativa come forma ordinaria di governo, federandosi in ambiti territoriali coerenti con la scala dei problemi, restituiscano il valore statutario di bene comune, dotato di autonomia rispetto ai beni privati e pubblici; e che individuino forme di gestione collettiva e comunitaria che consentano di riprendere il significato e i principi (non necessariamente la forma storica) degli usi civici. Questi principi riguardano: l’esistenza della comunità che è costituita da una pluralità di abitanti/produttori di una collettività territoriale che, in molte forme possibili, si associano per

E’ possibile superare la dicotomia fra uso

pubblico e uso privato del territorio e del

governo dei suoi beni patrimoniali,

reintroducendo il concetto “terzo” di uso

comune di molti di questi beni

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esercitare una cura e un uso collettivo dei beni patrimoniali della società locale; la finalità non di profitto, ma di produzione di beni, servizi e lavoro per i membri della comunità e per la fruizione pubblica in generale; l’affermazione di proprietà e forme d’uso collettivo dei beni, che, in quanto tali, conformano le attività di ogni attore allo scopo comune della conservazione e valorizzazione del patrimonio (Nervi 2003), della salvaguardia e valorizzazione ambientale, paesistica, economica del patrimonio stesso in forme durevoli e sostenibili (autoriproducibilità della risorsa). La democrazia partecipativa in questo percorso ha il ruolo di valorizzare il “saper fare” sociale, indirizzando il produrre, l’abitare, il consumare verso forme relazionali, solidali, pattizie e comunitarie, sviluppando reti civiche e forme di autogoverno responsabile delle comunità locali. Per esempio, come scrive Emilio Molinari, “il governo dell’acqua e delle forme energetiche alternative obbligano a pensare ad un modello decentrato, distribuito e differenziato nel territorio, un uso di diffuse e contenute sorgenti alternative, una gestione oculata e comunitaria delle acque, un governo locale (federato?) dell’acqua e della produzione energetica, del suo uso” (Molinari 2005). Il problema principale di questa prospettata inversione di tendenza dei processi di privatizzazione e mercificazione dei beni comuni è infatti che non si può dare una gestione del territorio come bene comune se esso è gestito da una sommatoria di interessi individuali in una società individualistica di consumatori12. E’ necessario dunque

che esistano forme di reidentificazione collettiva con i giacimenti patrimoniali, con l’identità di un luogo, ovvero che sia agevolato un cambiamento politico-culturale attraverso processi di democrazia partecipativa che ricostruiscano propensioni al produrre, all’abitare, al consumare in forme relazionali, solidali e comunitarie13. L’introduzione di questo terzo attore comunitario nella gestione e governo del territorio (attraverso la proprietà collettiva e la gestione comunitaria di beni comuni),

12 “fondamentali sarebbero, ove venisse attuato il ruolo della pianificazione paesistica, la tutela e la valorizzazione della proprietà collettiva….sono proprio le terre collettive a evidenziare che nessun funzionamento, normativa, azione di controllo, riuscirebbero a gestire correttamente l’uso sociale del territorio in assenza di consapevolezza da parte dei residenti e quindi di impegno da parte delle amministrazioni comunali” (Federico 1995) 13 Il processo partecipativo deve consentire di avviare processi di trasformazione di produttori alienati e atomizzati, consumatori passivi, appendici della democrazia televisiva, in cittadinanza attiva in grado di associarsi per la gestione e la produzione dei beni comuni, di decidere sul futuro delle città, di ricomporre le figure di produttore, abitante e consumatore ricostruendo identità comunitarie e relazioni sociali capaci di autogoverno nel progettare collettivamente il futuro e nel praticarlo. L’homo civicus si da in una società civile che si associa e si occupa, attraverso un patto fra individui, gruppi, rappresentanze di interessi, della cosa pubblica.

E’ necessario che esistano forme di reidentificazione collettiva con i giacimenti patrimoniali, con l’identità di un luogo

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favorirebbe una trasformazione politica generale, contenendo i processi di privatizzazione e mercificazione dei beni comuni e riattribuendo all’ente pubblico territoriale il ruolo di salvaguardia dei beni stessi e della valorizzazione del patrimonio civico, come condizione imprescindibile dell’autogoverno dei fattori di produzione e riproduzione del proprio territorio. Dai comuni alle regioni, all’Europa: costruire un percorso “multilivello”denso di reti solidali Si sta verificando, a partire dai processi partecipativi locali uno straordinario processo di costruzione di reti che vanno assumendo il ruolo di far uscire le singole esperienze dal localismo “Nimby”, verso la capacità propositiva di trasformazione del concetto di interesse pubblico e di progettualità alternativa. Come scrive Giulio Marcon “Il “mettersi in rete” … fa parte del tentativo di molte esperienze locali di non rinchiudersi nella dimensione localistica e autocentrata, ma di costruire a partire dal proprio frammento un disegno comune di trasformazione e di innovazione sociale e politica” (Marcon 2006). La costruzione di reti solidali allude a un precorso federativo che pur non negando le peculiarità dei luoghi, dei percorsi partecipativi, degli obiettivi, fa maturare nel confronto e nella relazione non gerarchica, strategie generali di interesse comune. Qualche esempio: la rete notavnopontenomose, (che riguarda comuni, associazioni, comitati, laboratori universitari) oltre a far maturare nelle popolazioni locali la “coscienza di luogo”, ovvero percorsi identitari di reidentificazione con i valori patrimoniali del territorio e dell’ambiente locale che alludono ad una diversa progettualità territoriale, propongono temi più generali come l’abolizione della Legge Obiettivo, la ridiscussione del ruolo e della domanda di mobilità delle merci e dei relativi corridoi strategici, il rapporto fra grandi infrastrutture e territori attraversati; il Nodo Sud della Rete del Nuovo Municipio pone, a partire da vertenze territoriali specifiche, problemi generali per il passaggio concettuale da un ‘Europa continentale ad una visione euromediterranea: questo allargamento geografico, costituisce l’occasione per un cambiamento di concezione degli orizzonti strategici, da una visione della competizione incentrata sull’economicismo neoliberista avviato nel 2000 a Lisbona, verso un ruolo dell’Europa fondato sul riconoscimento di una cultura sociale e identitaria più complessa, che, come propone Tonino Perna si alimenti della molteplicità delle culture mediterranee entro “principi che riconoscano gli stili di vita, le culture locali, le religioni, le culture dell’ospitalità, dell’amicizia, del dono, del meticciato fra culture e etnie diverse, che il mediterraneo incarna come patrimonio di millenni di scambi fra nord e sud” ( Perna 2005). Posso ancora fare esempi di “embrioni” di municipalismo federato che procede dalle forme più varie del “far rete” dei comuni: i coordinamenti delle Agende 21, che tendono ad unificare sul territorio i percorsi partecipativi entro strategie più generali di valorizzazione ambientale e territoriale (è il caso ad esempio del coordinamento delle Agende 21 in Val di Cornia (alta Maremma) che è confluito in un coordinamento dei piani strutturali della valle da parte dei comuni; il Coordinamento nazionale degli enti locali per la pace che,

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oltre a costruire sensibilità contro la guerra e per il disarmo, ha prodotto la crescita delle politiche di cooperazione decentrata; obiettivo perseguito anche dalla Rete dei comuni solidali (Recosol); la Rete delle città dell’asilo che promuove forme locali di pratiche di accoglienza; la Rete dei comuni virtuosi che propone altre economie solidali, finanza etica, consumo responsabile; la Rete delle città slow che propone regole del “ben vivere” fondate sulla develocificazione, attraverso un rinnovato rapporto con i valori territoriali e dell’ospitalità, che presume un’economia al servizio della comunità; le Reti intermunicipali per la gestione dei servizi pubblici; le azioni dell’Anci e di altre associazioni sull’estensione del diritto di voto agli stranieri extracomunitari residenti, e per il diritto di asilo; la Rete dei comuni per il bilancio di genere e per un welfare municipale comunitario; la Rete dei comuni aderenti a DE.CO per la valorizzazione e la certificazione dei prodotti alimentari locali contro processi di omologazione e deterritorializzazione dei prodotti operati dall’industria alimentare e dalle tendenze liberiste dell’UE, e cosi via. Ma giova ancora ricordare che il percorsi di rete hanno investito recentemente i livelli provinciali di governo (ad esempio le Province coordinate nella Rete del Nuovo Municipio sui temi partecipativi e sull’elaborazione di nuovi ruoli delle “province dei comuni” e le proposte di moltiplicazione dei Circondari) e i livelli delle Regioni. Ad esempio la rete delle regioni formatasi sul problema dei CPT (Bari 2005), o sulla applicazione di forme di democrazia partecipativa alla formazione delle leggi regionali (Firenze 2006). Dal confronto delle esperienze delle diverse regioni coordinate su questo tema dalla Regione Toscana (in occasione della preparazione della legge regionale sulla partecipazione) emerge che è già avviata l’organizzazione di processi partecipativi (oltre che concertativi) nell’attività legislativa e promozionale di molte regioni. Queste iniziative spaziano dai sevizi regionali alle agende 21, al piano energetico e territoriale (Friuli-Venezia Giulia),

alle politiche sui migranti, sullo spettacolo, sui bilanci di genere e sociali (Abruzzo), al governo delle coste e alle politiche giovanili (Puglia), alla programmazione strategica e economico-finanziaria (Puglia, Lazio), sul reddito sociale, sulla pace, sulle politiche di genere, sui migranti, sull’uso terapeutico della marijuana (Lazio), al piano territoriale regionale (Emilia Romagna). Si sta cioè profilando, anche se ancora con uno scarto enorme fra enunciati e realizzazioni, una linea di sviluppo della democrazia partecipativa come forma ordinaria di governo dal municipio all’attività legislativa regionale, investendo i principali temi del governo sociale, economico, ambientale del territorio. Il fatto che in molte regioni la partecipazione sia intesa non solo some concertazione, ma anche come investimento diretto della cittadinanza su tematiche importanti permette di

Si sta profilando, anche se ancora con uno scarto enorme fra enunciati e realizzazioni, una linea di sviluppo della democrazia partecipativa come forma ordinaria di governo dal municipio all’attività legislativa regionale

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ragionare in modo concreto sulla partecipazione come tema non settoriale, che induce al cambiamento delle forme della politica e del governo. Se ci riferiamo poi al livello delle reti di città a livello europeo è urgente avviare una rappresentazione dei nodi, delle reti e delle relazioni che caratterizzano lo spazio europeo; in questa rappresentazione andrebbe fatta maggiore attenzione denotativa non solo ai progetti istituzionali (quali INTERREG, URBAN, URBACT, oltre a URBAL o ASIA URBS che guardano anche al rapporto con altre città' di altri continenti14, ecc), e alla riqualificazione dei sistemi urbani policentrici che caratterizzano molte politiche metropolitane europee (Magnaghi, Marson 2004) ma anche a tutte quelle reti di città, di sistemi territoriali locali che si sono andate costituendo su base volontaria. Queste reti non sono solo di tipo competitivo, finalizzate cioè ad elevare il rango delle città piccole e medie nella competizione economica globale (anche se queste hanno avuto un grande sviluppo e determinano politiche sovranazionali)15, ma sono anche una molteplicità crescente di reti che promuovono politiche solidali, coordinando azioni locali, a livello europeo e mondiale, in campo sociale, culturale, ambientale, dei processi partecipativi, della cooperazione decentrata a livello comunale e regionale, della pace, di cui riporto in nota una prima classificazione16, destinate a creare nuovo protagonismo municipale nel contesto decisionale europeo.

14 Il rischio insito dentro molte reti nate da progetti europei è il ‘tempo determinato che caratterizzava la loro esistenza’. Per farvi fronte molte città' si sono trovate unite in Reti permanenti a carattere volontario, con il nuovo rischio di motivazioni lobbistiche sulla UE per ottenere nuovi fondi piuttosto che la condivisione ideale di un disegno o di un approccio olistico alla rigenerazione urbana. 15 Ciò è testimoniato dal fatto che “la grande maggioranza di reti di città si occupa di progettazione, ossia è in grado di sviluppare progetti e avviare interventi” (Perulli 2004). L’evoluzione europea dei modelli di reti di città che affiancano nelle politiche e sovente si sovrappongono agli stati nazionali, sono molteplici: dalle reti funzionali per i piani strategici ( ad es. Barcellona, Lione), alle più di cinquanta reti europee, sovente monotematiche, sui temi della cultura, delle grandi infrastrutture, dell’ ambiente, del turismo, dello sviluppo locale, ecc. Tuttavia se lo scopo delle reti è unicamente la competizione economica, oltre ai noti fenomeni di polarizzazione sociale, che investono anche le “città globali”, si hanno anche processi di forte gerarchizzazione urbana in poche città. “La gara per entrare in questo “club ristretto ha visto finora pochi vincitori e molti perdenti” (Dematteis 1997), in una “disastrosa corsa verso il fondo” (Brecher e Costello 1996), svantaggiando appunto le città periferiche rispetto al cuore continentale come Napoli, Palermo, Atene, Lisbona, per non parlare del sud del mondo. 16 Qualche esempio di reti solidali di città europee e mondiali: Eurocities; la rete di Comuni dell’Alleanza per il clima; la Rete delle Città Educative; la Rete FAL nata a partire dal Forum delle Autorità locali per l’inclusione locale di Porto Alegre ed oggi strutturatasi anche in Commissione sulla Democrazia Partecipativa e l’Inclusione Sociale (CISPD) in seno all’Unione Mondiale delle Città e dei

Se ci riferiamo al livello delle reti di città

a livello europeo è urgente avviare una

rappresentazione dei nodi, delle reti e delle

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L’elenco è ormai esponenziale e costituisce un reticolo molto interessante perché va molto oltre le semplificazioni delle figure territoriali rappresentate nelle mappe ufficiali e che possiamo interpretare come un progetto in fieri di una “geografia dal basso” dell’Europa dei Comuni e delle Regioni, leggibile in filigrana rispetto all’Europa degli stati. Si profila in altri termini un nuovo protagonismo delle città che non solo modifica la geografia dello spazio europeo verso un’alta densità di relazioni multipolari, ma può modificarne i contenuti costituzionali e il sistema decisionale. Il discorso sullo Spazio Europeo e sulla costituzione nasce in fondo da un dialogo fra gli stati, mentre queste reti che già operano, hanno i loro programmi, i loro obiettivi e potrebbero rappresentare una geografia anche parzialmente diversa rispetto a quella istituzionale (Magnaghi 2006b). Quindi l’Europa delle Regioni (Euroregioni) e dei Comuni, affiancandosi e integrando l’Europa degli stati nazione (la cui costituzione è già in crisi), può prospettare nuovi orizzonti programmatici e di ruoli arricchendo i sistemi decisionali attraverso forme di federalismo municipale solidale. L’Europa delle regioni e delle città proiettata in una visione euromediterranea, oltre a configurare in uno scenario diverso il rapporto fra competizione e cooperazione, sviluppando attraverso il riconoscimento multiculturale, reti di economia solidale, attribuirebbe all’Europa un protagonismo diretto sui temi della pace e del co-sviluppo nei rapporti fra mediterraneo, africa e medioriente. In particolare per il sistema italiano, e soprattutto per quello meridionale, la creazione di una zona di scambio e di cooperazione economica e tecnologica con paesi terzi mediterranei significherebbe “passare da una posizione di margine a una di “ponte” verso i sistemi urbani dell’arco mediterraneo e orientale…come precondizioni per sviluppare e trasformare in valori esportabili alcune

Governi Locali (CGLU), la rete della campagna europea delle città sostenibili, sviluppatasi nell’ambito dei processi di Agenda 21, il network Démocratiser radicalement la démocratie che coinvolge alcune città e gruppi organizzati di abitanti in una discussione che parte dalle esperienze di esperienze di bilancio partecipativo; la Rete dei delle Città' Sane; lo European Green Cities Network (EGCN) e l’Edge Cities Network; la Rete delle città europee legate al FALP (il Forum delle Autorita’ Locali della Periferia), la Rete dei Sindaci contro l’Accordo di Privatizzazione dei Servizi (AGCS); lo European Urban Knowledge Network (EUKN); la Rete ‘Living Labs Europe’; il Car Free Cities Network; La Rete dei firmatari della Carta dei Diritti Umani nella città; il Réseau des villes de proximité (APPELLA - 2002); la Rete Megapoles (1997); il Cooperation Network of European Medium-Sized Cities; la Rete Cities of Tomorrow e il New Local Government Network(NLGN); la rete dei comuni dell’Agenda 21 della cultura (Barcellona); la FEDENATUR; l’organizzazione delle città patrimonio dell’Umanità (OVPM); la rete europea per lo sviluppo rurale (ELARD); Mayors for peace e la Association of Peace Messenger Cities, che - a partire dalla loro scala internazionale – in Europa agiscono con le loro campagne come occasione di contatto tra le singole reti nazionali di Enti locali per la Pace, e per il disarmo nucleare; la rete di città aderenti alla Carta di Aalborg, quella delle città' aderenti alla Carta di Aarhus; la Rete delle Città e delle Regioni per l’Economia Sociale (REVES); il Network of European Cities for Local Integration Policies for Migrants (CLIP); la Coalizione Europea delle Città contro il Razzismo; La Rete di Città amiche dei bambini e delle bambine; il Network of European Cultural Capitals; e cosi via.

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potenzialità presenti nella base culturale ed economica delle città del Mezzogiorno” (Dematteis 1997). In queste prospettive una “costituzione federalista dei cittadini europei” che superi l’attuale distanza percepita sia dal testo della costituzione che dalle modalità della sua elaborazione, potrebbe nascere a partire dal federalismo dal basso di reti di città a fini solidali. Come scrive Umberto Allegretti “La forma della rete come forma di relazione prioritaria fra più centri operativi consente di passare da una società di Stato a una multilivello” (Allegretti 2005); mettendo in valore queste energie costituenti “dal basso” l’Europa si potrà dotare di un progetto identitario autonomo che superi il suo status attuale di crocevia di potenze economico-miltari globali, affrontando il bivio posto da Marco Tarchi ”l’Europa ha una alternativa rigida: o dotarsi delle risorse e strutture per una vita autonoma o diventare appendice di un occidente che farà altrove le sue scelte, trascinandola con la forza o per inerzia al servizio dei propri interessi” (Tarchi 2005). Il punto di partenza non è confortante se, come sostiene Isidoro Mortellaro, “ la sua presenza (dell’Europa) oggi nel mondo non mostra capacità alcuna di determinare o influenzare la corsa con isuoi tassi di crescita, tanto meno di indicare una via altra da quella che, stressando rovinosamente il pianeta, lo dispone in un dumping planetario a detrimento dei diritti dell’umanità e della vivibilità generale” (Mortellaro 2005) Il federalismo municipale solidale, che valorizzi ed estenda il complesso sistema “multilivello” di reti solidali di città presenti nel territorio europeo è una delle chiavi concettuali e operative per dare risposte a queste sfide ancorandosi ad una definizione “ad alta risoluzione “ identitaria e sociale dello spazio europeo17: un concetto di Europa che si fondi sulla valorizzazione delle peculiarità delle culture e dei giacimenti patrimoniali locali, attivando un principio di cittadinanza europea che trovi le sue radici nella federazione di regioni e di città autonome organizzate ciascuna con forme di democrazia partecipativa come forma ordinaria di governo.

17 “Non sarà “il popolo in piazza” a elaborare la Carta Costituzionale, ma certo occorre uno spazio pubblico in cui le rappresentanze democraticamente e lette e i/le cittadini/e possano discutere e decidere: una costituzione non può essere il frutto di un trattato fra stati. Sarebbe un’ulteriore inaccettabile fuga dalla democrazia”. (Russo 2005)

Un concetto di Europa che si fondi sulla

valorizzazione delle peculiarità delle

culture e dei giacimenti

patrimoniali locali, attivando un principio

di cittadinanza europea che trovi le

sue radici nella federazione di regioni

e di città autonome organizzate ciascuna

con forme di democrazia

partecipativa come forma ordinaria di

governo

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Sguardi sul Federalismo - 2 LE IDENTITÀ LOCALI NELL'ERA GLOBALE: IL FEDERALISMO ANTIDOTO AL TOTALITARISMO* Sono stato invitato a venire ad esporvi i principi essenziali del federalismo. Credo che il modo migliore di soddisfare questa richiesta sia quello di definire innanzitutto ciò cui il federalismo si oppone nelle sue stesse fondamenta, ovvero l'ideologia giacobina. Storicamente il giacobinismo corrisponde alla forma più estrema dell'ideologia dello Stato moderno, ovvero dello Stato-nazione. Si tratta di un'ideologia che punta a far coincidere in modo rigoroso, a rendere paritetiche su uno stesso territorio, l'unità politica e l'unità culturale, linguistica o etnica, per mezzo dell'azione di un potere centrale titolare di una sovranità esclusiva, depositario dell'interesse di tutti e rappresentante unico dell'insieme dei cittadini. Questa inclinazione all'unità non può che portare a considerare lo Stato e la nazione, la cittadinanza e la nazionalità come dei sinonimi. Benché il termine "giacobinismo" faccia senza dubbio allusione all'operato del Club dei Giacobini all'epoca della Rivoluzione francese, la concezione sottostante è molto più datata. Essa appare infatti con l'Ancièn Regime, e in particolare con la comparsa nel XVI secolo, grazie a Jean Bodin (1520-1596), di una nuova teoria della sovranità. Mentre nel Medio Evo l'autorità sovrana rappresentava solamente l'autorità dalla competenza più vasta, quella alla quale faceva capo il potere ultimo di decisione, con Jean Bodin la

sovranità diventa la facoltà per il principe di porsi al di sopra della legge positiva (legibus solutus), di averne il monopolio e di disporne a suo piacimento. Tale concezione si ispira all'assolutismo papale (e, prima ancora, al modello dell'onnipotenza divina), e si accompagna, d'altra parte, alla diffusione del dritto romano a spese del diritto consuetudinario. Essa porta con sé una nuova teoria della rappresentanza politica, che d'ora in poi agirà come un fattore di unità ed omogeneità. Il principe, lungi dall'essere un delegato o un esecutore, riassume in sé tutti i corpi intermedi.

* Estratto dagli atti del convegno "le Identità locali nell'era globale" 15/10/2005 Varese a cura della

rivista L'insorgente - Traduzione italiana di Giangiacomo Vale. Si ringrazia Sergio Terzaghi per la gentile concessione alla pubblicazione.

Alain De Benoist

Storicamente il giacobinismo corrisponde alla forma più estrema dell'ideologia dello Stato moderno, ovvero dello Stato-nazione

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Sovrano e rappresentante sono una sola persona, poiché lo Stato incarna tutti i mèmbri della società. Al pluralismo medievale, caratterizzato dai rapporti di sudditanza e dalla dispersione della sovranità, succede quindi un blocco monolitico che si riassume nella persona e nel corpo del re. A partire da questo momento, i gruppi sociali non saranno altro che organi passivi della Repubblica. La concezione bodoniana della sovranità getta così le basi dell'assolutismo per diventare poco a poco sinonimo di potere illimitato. Il sovrano, infatti, non solo non è tenuto alla reciprocità del contratto, poiché non ne ha preso parte, ma, avendo ricevuto il suo potere dalla volontà razionale di tutti, si trova nella posizione di colui che può esigere da ciascuno un'obbedienza totale. Dato che la sua legittimità proviene dal fatto che gli altri associati hanno volontariamente rinunciato alla loro sovranità a suo favore, egli non dipende da nessuno e si pone in questo modo al di sopra dei diritti e delle leggi. Il popolo, infine, non può opporglisi poiché, non essendo egli in debito con nessuno, non può essere privato della sua autorità. Meglio ancora, il principe è il solo la cui libertà illimitata derivi dallo stato di natura nel quale egli è rimasto. La sua sovranità è dunque tanto indivisibile quanto assoluta, è istituita come profondamente unitaria e si identifica con lo Stato, essendo ogni divisione o frammentazione del potere interpretata a priori come causa di instabilità e di divisione politica. Nel 1789 la Rivoluzione francese da per la prima volta un significato politico all'idea di nazione abolendo gli ordini dell'Ancien Regime, ma conserva, esasperandola, la stessa tendenza al centralismo, la stessa concezione della sovranità. Essa si limita a trasferire alla nazione le prerogative del principe e l'unità indivisibile che al tempo della monarchia assoluta si attribuivano alla persona del re. L'ossessione dell'unità è più forte che mai. «L'unità è il nostro principio fondamentale, l'unità è la nostra difesa antifederalista, l'unità è la nostra salvezza», non smetteranno di ripetere Saint-Just e Robespierre. L'idea di nazione, pensata come un essere unitario e trascendente la cui unità e la cui indivisibilità sono necessariamente indipendenti da ogni principio esteriore, finisce allora per comprendere la nozione di popolo fino a sostituirvisi, inaugurando una tradizione che, a partire da questo momento, il diritto pubblico di molti paesi non ha più smesso di tramandare. Infine, la concezione rivoluzionaria della sovranità rende sinonimi nazionalità e cittadinanza: d'ora in poi non c'è più un membro della nazione che non sia cittadino (salvo privazione dei suoi diritti civili) né cittadino che non sia membro della nazione. Il popolo è talmente «indivisibile» e unitario da essere divenuto una semplice astrazione, e questo è il motivo per cui la Francia, ancora oggi, non è uno Stato federale e non può riconoscere

Al pluralismo medievale,

caratterizzato dai rapporti di

sudditanza e dalla dispersione della

sovranità, succede un blocco

monolitico che si riassume nella

persona e nel corpo del re

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l'esistenza di un popolo corso o bretone. Così, tanto durante la Rivoluzione che durante l'Ancien Regime, ritroviamo la stessa concezione della sovranità quale «potere assoluto ed eterno» di una repubblica fonte di tutti i diritti e doveri del cittadino. La sovranità dei giacobini non ha più restrizioni di quella di Jean Bodin. I rivoluzionari denunciano il «federalismo» impiegando gli stessi termini usati dalla monarchia assoluta quando ad esempio accusava i protestanti di voler «cantonizzare» la Francia sulla falsariga della Svizzera. Essi lanciano anatemi e lottano contro i particolarismi locali nello stesso modo in cui il potere reale si sforzava in tutti i modi di ridurre l'autonomia dei feudatari. Per legittimare la giustizia rivoluzionaria, essi avanzano gli stessi argomenti usati da Richelieu alle prese con la difesa del potere arbitrario del principe. Con la Rivoluzione la sovranità nazionale si oppone all'assolutismo reale, non certamente rifiutandolo, ma trasferendo alla nazione le prerogative assolute del re. L'esigenza della rappresentanza unica che fa capo alla nazione politica (una sola assemblea deve rappresentare tutti i cittadini) implica che non potrebbero esserci leggi particolari che si applicano ad un gruppo specifico; non ci sono che leggi generali, che si applicano a tutti gli individui al di là delle loro caratteristiche specifiche. La nazione si identifica allora non più con il popolo o con la società, ma con lo Stato. È costituita dallo Stato, e lo Stato coincide con essa. Il principio moderno della cittadinanza non tiene dunque conto di lingua, cultura,

credenza, sesso ecc., insomma di tutto ciò che fa sì che la gente sia fatta in un certo modo e non altrimenti. Tale principio riposa sulla «eguaglianza» degli individui nel solo ambito del sistema politico, mentre tutto ciò che li differenzia viene confinato nella sfera privata. Considerate come contingenti, minori, se non addirittura illusorie, le differenze culturali e le identità collettive vengono viste come politicamente insignificanti e sono tollerate alla sola condizione di rimanere invisibili o prive di effetti nella sfera pubblica. La dottrina ufficiale è da questo momento in poi quella dell’assimilazione, ovvero quella dello sradicamento-digestione: l'Altro deve diventare l'Identico. La modernità politica bandisce gli elementi etnici e culturali dalla sfera politica e li confina nella società civile. È così che le minoranze si trovano private di ogni statuto politico, ed è questo il motivo per cui la generalizzazione del principio dello Stato-nazione si concretizzerà un po' dappertutto nell'oppressione delle minoranze.

La modernità politica bandisce gli elementi etnici e culturali dalla sfera politica e li confina nella società civile. È così che le minoranze si trovano private di ogni statuto politico, ed è questo il motivo per cui la generalizzazione del principio dello Stato-nazione si concretizzerà un po' dappertutto nell'oppressione delle minoranze

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È esattamente a questa concezione che si oppone il federalismo, i cui fondamenti sono il principio di sussidiarietà (o di competenza sufficiente), la ripartizione della sovranità, la democrazia diretta, il riconoscimento dei corpi intermediari delle identità collettive e delle comunità. Il sistema federalista si caratterizza come un sistema di unità politiche strettamente intrecciate, cooperanti e reciprocamente stimolantesi. Il federalismo è infatti il solo sistema nel quale il governo centrale condivide le differenti competenze costituzionali e legislative con le collettività sulle quali ha autorità, facendo in modo che tali competenze si esercitino al livello più basso possibile. I suoi tre principi fondamentali sono l’autonomia, la partecipazione e la sussidiarietà. L’autonomia permette ad ogni collettività di conservare il massimo di libertà d'azione. La partecipazione permette ad ogni livello di collaborare alla fase decisionale. La sussidiarietà permette di far valere in ogni caso la presunzione di competenza in favore del livello più vicino agli interessati. Questo sistema implica una concezione della sovranità che è antitetica a quella di Jean Bodin, e che è quella che è stata esposta, agli inizi del XVII secolo, da Johannes Althusius nella sua opera principale, la Politica methodice digesta (1603). Avversario di Bodin, Althusius (1557-1638), fondandosi su Aristotele, descrive l'uomo come un essere sociale, naturalmente incline alla mutua solidarietà e alla reciprocità (ciò che chiama la comunicazione dei beni, dei servizi e dei diritti). La scienza politica consiste per lui nel descrivere metodicamente le condizioni della vita sociale, da cui il nome di «simbiotica», che usa per descrivere la sua posizione. Contestando l'idea di un individuo autosufficiente, afferma che la società ha il primato sui suoi membri (o «simbiotici»), e che si costituisce attraverso una serie di patti politici e sociali conclusi successivamente, risalendo dalla base, da parte di una moltitudine di associazioni (o «consociazioni») autonome, naturali ed istituzionali, pubbliche e private: famiglie e dinastie, leghe e corporazioni, comunità civili e collegi secolari, città e province etc. Queste «consociazioni» si incastrano le une nelle altre in un ordine che va dal più semplice al più complesso. Gli individui contrattano ad ogni livello, non in qualità di atomi individuali, ma come membri di una comunità già esistente, che non abbandona mai la totalità dei suoi diritti a beneficio di una società più

Il sistema federalista si caratterizza come un

sistema di unità politiche strettamente

intrecciate, cooperanti e reciprocamente stimolantesi. Il

federalismo è il sistema nel quale il governo

centrale condivide le differenti competenze

costituzionali e legislative con le

collettività sulle quali ha autorità, facendo in

modo che si esercitino al livello più basso

possibile

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vasta. Althusius dà in questo modo alla nozione di rappresentanza un senso totalmente differente da quello che le è riconosciuto nel pensiero contrattualista liberale: il contratto sociale non è per lui un atto unico risultante dal libero gioco delle volontà individuali, ma un'«alleanza» (foedus), che integra in un processo continuo di comunicazione «simbiotica» degli individui definiti innanzitutto dalle loro appartenenze. La società globale, alla quale Althusius dà il nome di «comunità simbiotica integrale», si definisce dunque come un'organizzazione ascendente di comunità plurali, esse stesse costituitesi sulla base di associazioni anteriori e di appartenenze multiple, che dispongono di poteri che si accavallano gli uni con gli altri. Il corpo politico è il risultato di questo processo di incorporazione comunitaria, in cui ogni livello trae legittimità e capacità d'azione dal rispetto dell’autonomia dei livelli inferiori. L'azione pubblica mira ad articolare ad ogni livello la solidarietà reciproca e l'autonomia degli attori collettivi, il cui consenso deve essere reso possibile e organizzato in una dialettica aperta del generale e del particolare - essendo l'idea fondamentale che «ciò che dipende da tutti deve essere anche approvato da tutti» («quod omnes tangit, ab omnibus approbetur»). Secondo Althusius, la sovranità o «maestà» appartiene al Popolo e non smette mai di appartenergli. Essa è imprescrittibile perché risiede inalienabilmente nella comunità popolare e perché «non c’è potenza assoluta personale in una comunità». Il popolo può delegarla, ma non può rinunciarvi. «Il diritto di maestà, scrive Althusius non può essere ceduto, abbandonato o alienato da parte di chi ne è il proprietario [...]. Tale diritto è stato stabilito da tutti coloro che fanno parte del regno e da ognuno di essi. Sono costoro che gli danno vita; senza di loro, non può né essere stabilito né essere mantenuto». «Ho restituito i diritti di maestà alla politica. Ma li ho attribuiti al regno, ovvero alla repubblica

o al popolo», precisa ancora Althusius, aggiungendo di non tenere «conto dei clamori di Bodin». Lungi dall'essere separata dal popolo, la sovranità ne è dunque un’emanazione diretta. Il principe non occupa la sua posizione che in funzione del diritto immutabile del popolo ad auto-governarsi. Non c'è altra autorità che quella di cui è investito dal popolo, non sotto forma di un trasferimento di potere che il popolo cederebbe a suo favore, ma attraverso la delega di un potere che il popolo non smette mai di conservare intrinsecamente ed essenzialmente. In altre parole, esso esercita il suo potere sotto il controllo del popolo e non può farne uso che in vista del bene comune, che rimane il suo fine principale. Non governa la società come se ne fosse separato o indipendente. Non è il proprietario della sovranità, ma il suo depositario e, in quanto tale, gode

La società globale, alla quale Althusius dà il nome di «comunità simbiotica integrale», si definisce dunque come un'organizzazione ascendente di comunità plurali, esse stesse costituitesi sulla base di associazioni anteriori e di appartenenze multiple

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solamente dei diritti che le sono inerenti. Di conseguenza, la sovranità non è assoluta, ma è al contrario distribuita o condivisa. Ispirandosi sia al modello imperiale delle antiche "libertà" comunali germaniche, che ai criteri di funzionamento delle associazioni mutualistiche e cooperative delle vecchie città anseatiche, Althusius prevede che ad ogni gradino della società si debbano trovare due serie di organi, gli uni rappresentanti le comunità inferiori, che sono legittimate a mantenere al loro livello tanto potere quanto possono esercitarne concretamente, gli altri rappresentanti il livello superiore, le cui competenze sono sempre limitate dalle prime. Ogni livello nomina i suoi dirigenti, che sono anche i suoi rappresentanti al gradino superiore, sulla base di una delega di potere che può essergli in ogni momento revocata. Essendo le deleghe sottoposte a certe condizioni, il potere del gradino superiore riposa sempre sul consenso dei gradini inferiori. Lo Stato è superiore a ciascuno dei livelli che gli stanno sotto, ma non all'insieme che essi formano essendo riuniti. Il principe stesso, come abbiamo visto, esercita il suo potere sovrano per delega, sulla base di un patto reciproco in cui è considerato il mandatario, e il popolo (la «comunità simbiotica») il mandante. Il potere del principe è senza dubbio un potere supremo, poiché il principe è colui la cui giurisdizione è la più vasta, ma allo stesso tempo è limitato dall'autonomia delle «consociazioni», che gli impedisce di attentare ai poteri particolari di cui queste ultime devono poter godere. Il principio di sovranità è così mantenuto, pur rimanendo subordinato al consenso associativo. La sovranità in Althusius non è in alcun modo sinonimo di una competenza totale, come in Bodin. Essa rappresenta solamente il livello di potenza (puissance), che dispone dei più ampi poteri di autorità, di decisione e di attuazione. Il sovrano non è colui che può fare tutto a suo piacimento, senza rendere conto a nessuno. Egli è colui che dispone di un potere più ampio degli altri, ma può farne uso solo nella misura in cui tale potere gli è riconosciuto o concesso. Ad ogni livello esiste uno «scambio di sovranità», ovvero una differenziazione delle istanze, una spartizione delle competenze che va dal gradino più basso a quello più alto. Mentre la sovranità di Bodin è contemporaneamente una piramide ed una circonferenza la cui intera superficie è disposta in direziono del centro, la sovranità in Althusius è di tipo «labirintico»: essa implica la pluralità, l'autonomia, l'intreccio dei livelli di potere e di autorità. La sovranità di tipo althusiano si è concretizzata in passato in alcune formazioni imperiali o soprannazionali. Ne ritroviamo ancora l'eco in teorici dell'austromarxismo come Otto Bauer e Karl Renner, entrambi partigiani di uno «Stato federativo delle nazionalità», nel quale la sovranità è ripartita a differenti livelli della società

La sovranità in Althusius non è in alcun modo

sinonimo di una competenza totale,

come in Bodin. Essa rappresenta solamente il

livello di potenza (puissance), che dispone

dei più ampi poteri di autorità, di decisione e

di attuazione

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politica. Ma è soprattutto il federalismo che sembra essere oggi la dottrina più in grado di tradurre in fatti concreti l'idea di una sovranità strettamente associata ai principi di autonomia e di sussidiarietà. Il principio di sussidiarietà, che era già la chiave di volta del sistema di Althusius, esige che le decisioni vengano sempre prese al livello più basso possibile, da parte di coloro che ne subiscono più direttamente le conseguenze. Ciò implica dunque che le più piccole unità politiche detengano delle competenze autonome sostanziali e che siano allo stesso tempo rappresentate collettivamente ai livelli di potere più elevati. Non si tratta solamente di «decentralizzare». Nella decentralizzazione, il potere locale non è titolare che della parte di autorità che il potere centrale gli concede: non rappresenta che una delega di questo potere centrale, che rimane il nucleo sostanziale della vita pubblica in una concezione strettamente piramidale della società. Nel caso della sussidiarietà avviene il movimento opposto: il livello locale non delega ai gradini superiori che le responsabilità e i compiti di cui non può farsi carico esso stesso, non rinuncia che alle competenze che non può assumersi, mentre risolve con i suoi propri mezzi tutti i problemi effettivamente di sua competenza, assumendosi lui stesso le conseguenze delle sue decisioni e delle sue scelte. La sussidiarietà rappresenta dunque una spartizione delle competenze secondo il criterio della sufficienza o dell'insufficienza: ogni livello di autorità mantiene le competenze per le quali è sufficiente. Ne consegue che, per esempio, ogni comunità, piuttosto di vedersi imporre un'offerta standardizzata di beni e servizi, deve poter liberamente decidere da sé quali sono i beni e i servizi che crede le convengano. La sussidiarietà è direttamente antagonista della concezione bodiniana della sovranità che riposa, come si è visto, non sul criterio di sufficienza, ma su quello di capacità superiore. In questo schema, lo Stato centrale non può che pretendere tutta l’autorità solo per sé, poiché per principio è supposto essere sempre maggiormente competente. Nel sistema federale la delega si fa, al contrario, a partire dal basso: i gradini inferiori lasciano a quelli superiori unicamente le decisioni che non sono m grado di prendere. Ciò significa che «ogni organo del corpo sociale deve poter perseguire il più liberamente possibile i suoi

propri fini» (Robert Nisbet). Questa è l'idea di sussidiarietà: permettere alla gente di decidere il più possibile da sola in merito a ciò che la riguarda, creando un sistema politico e sociale in cui i problemi possano essere risolti al livello più basso possibile. Il termine essenziale, a questo punto, è quello di autonomia. Così come la concezione federalista della sovranità e della sussidiarietà, implicando una politica del riconoscimento delle identità collettive, si oppone al principio della centralizzazione e al rifiuto giacobino di riconoscere la realtà delle differenze culturali,

Nel sistema federale la delega si fa, al contrario, a partire dal basso: i gradini inferiori lasciano a quelli superiori unicamente le decisioni che non sono m grado di prendere

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linguistiche, etniche e altre, l'idea di una democrazia partecipativa si oppone all'idea di una democrazia puramente parlamentare e rappresentativa. I grandi teorici storici della rappresentanza sono Hobbes e Locke. Per entrambi, infatti, il popolo delega contrattualmente la sua sovranità ai governanti. In Hobbes si tratta di una delega totale e conduce a un monarca investito di un potere assoluto (il «Leviatano»). In Locke, al contrario, la delega avviene a certe condizioni: il popolo accetta di spogliarsi della sua sovranità solamente in cambio di garanzie riguardanti i diritti fondamentali e le libertà individuali. Tanto meno la sovranità popolare è soppressa o sospesa tra due elezioni. Rousseau, da parte sua, considera l'esigenza democratica come antagonista di ogni regime rappresentativo. Secondo Rousseau, il popolo non stipula alcun contratto con il sovrano; i loro rapporti dipendono esclusivamente dalla legge. Il principe non è che l'agente del popolo, che rimane l'unico titolare del potere legislativo. Non è nemmeno investito del potere che fa capo alla volontà generale; è piuttosto il popolo che governa tramite esso. Il ragionamento di Rousseau è molto semplice: se il popolo è rappresentato, sono i suoi rappresentanti che detengono il potere, e in questo caso non è più sovrano. Il popolo sovrano è un «essere collettivo», che non potrebbe essere rappresentato se non da se stesso. Rinunciare alla sua sovranità sarebbe come rinunciare alla sua libertà, ovvero distruggersi con le sue stesse mani. Non appena il popolo elegge i suoi rappresentanti, «è schiavo, non è niente» (II contratto sociale. III, 15). La libertà, in quanto diritto inalienabile, implica la pienezza di un esercizio senza il quale non ci può essere vera cittadinanza politica. In queste condizioni, la sovranità popolare non può essere che indivisibile e inalienabile e ogni rappresentanza non può che corrispondere, di conseguenza, a un'abdicazione. Se si ammette che la democrazia è il regime fondato sulla sovranità del popolo, non si può che dar ragione a Rousseau, la cui opinione su questo punto - ma solo su questo punto - raggiunge incontestabilmente quella di Althusius. La democrazia è la forma di governo che risponde al principio dell'identità dei governati e dei governanti, ovvero della volontà popolare e della legge. Questa identità rimanda all'uguaglianza sostanziale dei cittadini, ovvero al fatto che sono tutti ugualmente mèmbri di una stessa unità politica. Affermare che il popolo è sovrano, non per essenza ma per vocazione, significa che la potenza (autorità) pubblica e le leggi provengono dal popolo. I governanti non

La democrazia è la forma di governo che risponde al principio

dell'identità dei governati e dei

governanti, ovvero della volontà popolare e della

legge. Questa identità rimanda all'uguaglianza sostanziale dei cittadini, ovvero al fatto che sono

tutti ugualmente mèmbri di una stessa

unità politica

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possono dunque che essere degli agenti esecutori, che devono adeguarsi ai fini determinati dalla volontà generale. Il ruolo dei rappresentanti deve essere ridotto al massimo, poiché il mandato di rappresentanza perde ogni legittimità non appena si occupa di fini o progetti che non corrispondono alla volontà generale. Ora, ciò è esattamente l'opposto di ciò che succede al giorno d'oggi. Nelle democrazie liberali il primato è dato alla rappresentanza, e più precisamente alla rappresentanza-incarnazione. Il rappresentante, lungi dall'essere solamente "demandato" ad esprimere la volontà dei suoi elettori, incarna egli stesso tale volontà per il solo fatto che è stato eletto. Ciò significa che trova nella sua elezione la giustificazione che gli permette di agire, non più secondo la volontà di coloro che lo hanno eletto, ma secondo la sua propria volontà - in altri termini, che si considera in qualche modo autorizzato dal voto a fare tutto ciò che giudica buono fare. Tale sistema è all'origine delle critiche che in passato sono sempre state rivolte al

parlamentarismo, critiche che echeggiano al giorno d'oggi, in Europa, tramite tutta una serie di dibattiti sul «deficit di democrazia» e sulla «crisi della rappresentanza». Nel sistema rappresentativo, avendo l'elettore delegato per mezzo del suffragio la sua volontà politica a colui che lo rappresenta, il baricentro del potere risiede immancabilmente nei rappresentanti e nei partiti che li raggruppano, e non più nel popolo. La classe politica forma ben presto un'oligarchia di professionisti che difendono i loro interessi privati, in un clima generale di confusione ed irresponsabilità. A questa si aggiunge oggigiorno, in un'epoca in cui coloro che possiedono un potere di decisione lo traggono molto più spesso dalla nomina o dalla cooptazione che dall'elezione, un'altra oligarchia di «esperti", di alti funzionari e di tecnici. Lo Stato di diritto, le cui virtù - nonostante le ambiguità che può ispirare questa espressione - sono continuamente celebrate dai teorici del liberalismo, non sembra poter porre riparo alla situazione. Basandosi su un insieme di procedure e di regole giuridiche formali, è in effetti indifferente ai fini specifici del politico. I valori sono esclusi dalle sue preoccupazioni, lasciando così libero spazio allo scontro degli interessi. Le leggi hanno autorità per il solo fatto di essere legali, cioè conformi alla Costituzione e alle procedure previste per

Nel sistema rappresentativo, avendo l'elettore delegato per mezzo del suffragio la sua volontà politica a colui che lo rappresenta, il baricentro del potere risiede immancabilmente nei rappresentanti e nei partiti che li raggruppano, e non più nel popolo. La classe politica forma un'oligarchia di professionisti che difendono i loro interessi privati, in un clima generale di confusione ed irresponsabilità

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la loro adozione. La legittimità si riduce allora alla legalità. Questa concezione positivista-legalista della legittimità invita a rispettare le istituzioni in quanto tali, come se fossero un fine in sé, senza che la volontà popolare possa modificarle e controllarne il funzionamento. Ora, in democrazia la legittimità del potere non dipende solo dalla conformità alla legge, e nemmeno dalla conformità alla Costituzione, ma dipende innanzitutto dalla conformità della pratica di governo ai fini che gli sono stati assegnati dalla volontà generale e popolare. La giustizia e la validità delle leggi non farebbero, così, pienamente capo all'attività dello Stato o alla produzione legislativa del partito al potere. Allo stesso modo, la legittimità del diritto non potrebbe essere garantita dalla sola esistenza di un controllo giurisdizionale: perché il diritto sia legittimo bisogna inoltre che risponda a ciò che i cittadini si aspettano da esso e che integri delle finalità orientate verso il servizio del bene comune. Infine, non si potrebbe parlare di legittimità della Costituzione, se non nel caso in cui l'autorità del potere costituente è riconosciuta come sempre in grado di modificarne la forma e il contenuto. Tutto ciò ci porta ad affermare che il potere costituente non può essere totalmente delegato o alienato, che continua ad esistere e rimane superiore alla Costituzione e alle regole costituzionali, anche nel caso in cui queste ultime pervengono da esso. È evidente che non si potrà mai sfuggire totalmente alla rappresentanza, poiché l'idea di maggioranza governante si scontra nelle società moderne con delle difficoltà insormontabili. La rappresentanza, pur non essendo mai un semplice rimedio momentaneo, non esaurisce tuttavia il principio democratico. Essa può essere ampiamente corretta tramite l'applicazione della democrazia partecipativa, detta anche democrazia organica o democrazia incarnata. Un tale riposizionamento appare al giorno d'oggi maggiormente necessario, anche alla luce dell'evoluzione generale della società. La crisi delle strutture istituzionali e la scomparsa dei "grandi racconti" fondatori, la disaffezione sempre maggiore dell'elettorato per i partiti politici di tipo classico, la rinascita della vita associativa, la comparsa l'emergere di nuovi movimenti sociali o politici (ecologisti, regionalisti, identitari), la cui caratteristica comune è non più la difesa di interessi contrattabili ma di valori esistenziali, lasciano intravedere la possibilità di ricreare una cittadinanza attiva a partire dalla base. La crisi dello Stato-nazione, dovuta in particolar modo alla mondializzazione della vita economica e alla diffusione di fenomeni di interesse planetario, da luogo par parte sua a due superamenti: un superamento dall'alto, attraverso diversi tentativi atti a ricreare a un livello sopranazionale una coerenza e un'efficienza nella

La rappresentanza, pur non essendo mai un

semplice rimedio momentaneo, non

esaurisce tuttavia il principio democratico.

Essa può essere ampiamente corretta

tramite l'applicazione della democrazia

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decisione che permetterebbe,almeno in parte, di guidare il processo della mondializzazione ricreando un mondo multipolare; un superamento dal basso, con la sempre maggiore importanza delle piccole unità politiche e delle autonomie locali. Queste due tendenze, che non solo non si contrappongono, ma sono complementari, implicano entrambe che si ponga rimedio al deficit democratico che riscontriamo attualmente. Non è al livello delle grandi istituzioni collettive, entrate oggi tutte più o meno in crisi e incapaci dunque di giocare il loro ruolo tradizionale di integrazione e di intermediazione sociali, che è possibile ricreare una tale cittadinanza attiva. Il controllo del potere non può nemmeno essere appannaggio dei soli partiti politici la cui attività si risolve troppo spesso nel clientelismo. La democrazia partecipativa non può essere oggi che una democrazia di base. Tale democrazia di base non ha lo scopo di generalizzare la discussione a tutti i livelli, ma ha piuttosto lo scopo di determinare, con il concorso del più gran numero, nuove procedure decisionali conformi sia alle sue proprie esigenze, sia a quelle che provengono dalle aspirazioni dei cittadini. Essa non potrebbe nemmeno risolversi in una semplice opposizione della "società civile" alla sfera pubblica, ciò che porterebbe ad un'ulteriore espansione dell'egemonia del privato e a un abbandono dell'iniziativa politica a favore di forme di potere obsolete. Si tratta piuttosto di permettere agli individui di sperimentarsi in quanto cittadini, e non in quanto membri della sfera privata, favorendo per quanto possibile il fiorire e il moltiplicarsi di nuovi spazi pubblici di iniziativa e di responsabilità.

La procedura referendaria (sia che essa risulti dalla decisione dei governanti o dall'iniziativa popolare, sia che il referendum sia facoltativo o obbligatorio) non è altro che una forma di democrazia diretta tra le altre - di cui d'altra parte si è sopravvalutata la portata. Sottolineiamo ancora una volta che il principio politico della democrazia non è quello secondo cui la maggioranza decide, ma quello che vuole che il popolo sia sovrano. Il voto stesso non è che un semplice mezzo tecnico di consultare e di manifestare l'opinione. Ciò significa che la democrazia è un principio politico che non potrebbe confondersi con i mezzi di cui fa uso, così come non potrebbe riassumersi in un'idea puramente aritmetica o quantitativa. La qualifica di cittadino non si esaurisce nel fatto di votare, ma consiste piuttosto nel mettere in atto tutti i procedimenti che permettono di manifestare o rifiutare il consenso, di esprimere un rifiuto o un'approvazione. Conviene dunque esplorare sistematicamente tutte le forme possibili di partecipazione attiva alla vita

Non è al livello delle grandi istituzioni collettive, entrate oggi tutte più o meno in crisi e incapaci dunque di giocare il loro ruolo tradizionale di integrazione e di intermediazione sociali, che è possibile ricreare una tale cittadinanza attiva. La democrazia partecipativa non può essere oggi che una democrazia di base

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pubblica, che sono di per sé stesse delle forme di responsabilità e di autonomia, poiché la vita pubblica condiziona l'esistenza quotidiana di tutti. Ma la democrazia partecipativa non ha solamente una portata politica. Ha anche una portata sociale. Favorendo i rapporti di reciprocità, permettendo la rinascita di un legame sociale, essa può aiutare a ricostituire delle solidarietà organiche oggi indebolite, a ricreare un tessuto sociale disgregatesi a causa del diffondersi dell'individualismo e dell'estremizzarsi del sistema della concorrenza e dell'interesse. In quanto produttrice di socialità elementare, la democrazia partecipativa si accompagna allora alla rinascita di comunità vive, al ricrearsi di rapporti di solidarietà di vicinato, di quartiere, sul posto di lavoro etc. Questa concezione partecipativa della democrazia si oppone radicalmente alla legittimazione liberale dell'apatia politica, che incoraggia indirettamente l'astensione e porta al regno dei gestori, degli esperti e dei tecnici. La democrazia, tutto sommato, consiste più nulla partecipazione del popolo alla vita pubblica che nella forma di governo propriamente detta, cosicché il massimo di democrazia si confonde con il massimo di partecipazione. Partecipare, significa prendere parte, sperimentarsi come parte di un insieme o di un tutto, e assumere il ruolo attivo che deriva da una tale appartenenza. «La partecipazione, diceva René Capitani, è l'atto individuale del cittadino che agisce come membro della collettività popolare». Si capisce così quanto le nozioni di appartenenza, di cittadinanza e di democrazia siano legate. La partecipazione sancisce la cittadinanza, che deriva dall'appartenenza. L'appartenenza giustifica la cittadinanza, che permette la partecipazione. I fondamenti essenziali del federalismo mi sembrano essere dunque questi: una società in cui la libertà e la responsabilità, strettamente legate l'una all'altra, sono ripartite a tutti i livelli in funzione del principio di sussidiarietà; una concezione della sovranità non come potere assoluto e competente su tutto, ma come istituto che ha autorità sulle materie più vaste solamente in ultima istanza; e infine, una concezione della democrazia che riposa in origine non sulla nozione di numero o su quella di delibera parlamentare, bensì su quella di partecipazione più ampia possibile di tutti i cittadini alla cosa pubblica.

La democrazia partecipativa ha anche

una portata sociale. Favorendo i rapporti di

reciprocità, permettendo la rinascita

di un legame sociale, essa può aiutare a

ricostituire delle solidarietà organiche

oggi indebolite, a ricreare un tessuto

sociale disgregatesi a causa del diffondersi dell'individualismo e

dell'estremizzarsi del sistema della

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PERSONAGGI

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Personaggi A PROPOSITO DI ALEXANDRE MARC La figura intellettuale di Alexandre Marc è rimasta a lungo ai margini della cultura politica francese tradizionalmente protesa verso l’idea di “République” una e indivisibile piuttosto che verso le tesi di tipo federalistico che egli è andato proponendo durante l’intero arco della sua vita. Recentemente, però, dopo la morte avvenuta nel 2000, la figura di Marc è stata fatta oggetto di un intero saggio dedicato soprattutto alla sua formazione intellettuale durante gli anni trenta del secolo scorso1. Come è noto, si tratta di un periodo particolarmente importante per la

comprensione dei drammatici eventi che seguiranno specie per quanto riguarda la genesi dei regimi totalitari. All’interno di tale dimensione, lo storico J. Hellman ci descrive Marc come un personaggio coinvolto, suo malgrado, nello spirito decisamente illiberale del suo tempo, lasciando nell’ombra e, in ultima analisi, sottovalutando il suo contributo, nel dopoguerra, a favore della diffusione dell’idea di federazione europea e la sua opera di educazione all’europeismo promossa tra le giovani generazioni, con infaticabile perseveranza per oltre un cinquantennio, attraverso il Centre international de formation européenne (CIFE) e l’Institut des Hautes Etudes Internationales (IEHEI) da lui fondati a Nizza. Eppure il suo impegno verso la costruzione dell’Europa è, in realtà, la diretta conseguenza delle sue convinzioni giovanili, di una originale posizione che potremmo oggi definire “liberal-socialista” e che, pur con diverse sfumature, egli ha perseguito fin da quando, studente a Parigi, si era impegnato alla ricerca della “terza via” assieme a coloro che, dopo il saggio di Loubet del Bayle, sono ora designati come “i non

1 J. Hellman, The Communitarian Third Way. Alexandre Marc and Ordre Nouveau 1930-2000, Montreal &Kingston, MacGill-Queen’s University Press, 2002. Su tale tema precedentemente aveva pubblicato la tesi di dottorato il suo l’allievo Ch. Roy, Alexandre Marce et la jeune Europe (1904-1934): L’Ordre Nouveau aux origines du personnalisme, Nice, Presses d’Europe, 1998.

Gilda Manganaro Favaretto

Docente di Storia del Pensiero Politico

Università degli Studi di Trieste

L’impegno di Marc verso la costruzione dell’Europa è la diretta conseguenza delle sue convinzioni giovanili, di una originale posizione che potremmo oggi definire “liberal-socialista” e che, pur con diverse sfumature, egli ha perseguito fin da quando si era impegnato alla ricerca della “terza via” assieme a coloro che sono ora designati come “i non conformisti”

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conformisti”2. Si trattava di un movimento di pensiero piuttosto eterogeneo che, all’insegna del motto ni droite ni gauche, aveva dato espressione al disagio di gran parte della gioventù parigina stretta, da un lato, dal timore della guerra con la Germania, presentita come imminente, e dall’altro dal sentimento di una progressiva perdita della capacità di controllo su una società che “il progresso tecnologico” sembrava disumanizzare tanto negli Stati Uniti, con l’avvento del “fordismo”, quanto nell’Unione sovietica con le collettivizzazioni forzate. A ciò si aggiungeva una certa insofferenza verso le oligarchie della politica e i partiti valutati come strutture incapaci di garantire effettivamente la rappresentanza popolare. Il ni droite ni gauche, dunque, esprimeva tale disagio e, di conseguenza, la necessità per i giovani di ricercare un diverso modo di pensare e costruire il proprio futuro. Marc ne era uno dei protagonisti e reagiva, assieme agli altri, alla paura del conflitto cercando un’intesa con i giovani tedeschi attraverso incontri, scambi personali ed epistolari, convinto che essi potessero essere alla base della costruzione di un “fronte comune della gioventù europea” contro quel mondo delle “cancellerie” che sembrava portarli alla distruzione. Era presente in questi giovani il mito, peraltro diffuso nell’intero continente, della giovinezza interpretata come un elemento salvifico, il solo capace di indicare una via d’uscita tra coloro che venivano definiti “i farisei del nazionalismo” da un lato e gli “internazionalisti stalinisti” dall’altro. L’istanza rivoluzionaria che i giovani esprimevano era generazionale e rivolta contro i potentati economici e politici che, a loro avviso, mantenevano saldamente in mano il potere in ciascuna delle nazioni europee impedendo qualunque mobilità sociale. Moltissime riviste incarnarono allora questo tentativo di “terza via” e la storiografia francese ne ha ampiamente dato conto, giungendo alla conclusione che esso fu un tentativo velleitario e comunque inscrivibile entro il triennio che va dal 1930 al 1933 fino a quando cioè gli avvenimenti politici come la guerra d’Etiopia, il Fronte popolare, la guerra di Spagna disgregarono questa comunità di intenti costringendo molti dei giovani di allora a prendere posizione: mentre un P. Nizan o un H. Lefebure

2 J.L. Loubet del Bayle, Les non-conformistes des années trente, Paris Seuil, 1969

Un movimento di pensiero piuttosto

eterogeneo che, all’insegna del motto ni droite ni gauche, aveva

dato espressione al disagio di gran parte

della gioventù parigina stretta, da un lato, dal

timore della guerra con la Germania, e dall’altro

dal sentimento di una progressiva perdita della

capacità di controllo su una società che “il

progresso tecnologico” sembrava

disumanizzare tanto negli Stati Uniti quanto

nell’Unione sovietica

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aderirono al comunismo altri come Th. Maulnier si schierano su posizioni decisamente più conservatrici. Alexandre Marc invece è quello che, assieme a un piccolo gruppo di amici, non intese rinunciare alla prospettiva del ni droite ni gauche e, pur nelle difficoltà del momento, non si sentì di operare una scelta radicale tra le ideologie, quella comunista, quella fascista, quella nazista ma anche quella liberale che gli apparivano tutte largamente insoddisfacenti. Nel 1933 sotto il suo impulso usciva la rivista “Ordre nouveau” con l’intento di delineare i “tratti concreti” di una società al di là delle ideologie che egli interpretava, tutte, come gabbie liberticide. Un tentativo per molti versi utopico il suo, ambizioso e non privo di ambiguità, che gli valse l’oblio da parte degli ambienti intellettuali della capitale che, del resto, egli abbandonò di lì a poco trasferendosi in Provenza. Il suo obbiettivo è stato quello di progettare una società che fosse in grado di integrare al suo interno l’idea di libertà e quella di solidarietà senza sottomettere una istanza all’altra, ritenendole entrambe contemporaneamente essenziali. Questa loro essenzialità implicava, per Marc, l’esclusione di una qualsivoglia forma di mediazione; egli infatti non pensava a una sorta di combinazione tra liberalismo e socialismo, ma piuttosto alla necessità di una rifondazione di entrambi, di una palingenesi sociale. In ciò egli si distingueva da altri analoghi tentativi in particolare da quello, esperito da Emmanuel Mounier con la rivista “Esprit”, a cui pure aveva inizialmente partecipato in qualità di collaboratore fin dalla sua fondazione nel 1932. La sua adesione era derivata da una apertura all’ecumenismo: il suo essere un esule russo, ebreo d’origine, di formazione culturale insieme tedesca e francese lo portava naturalmente a superare ogni tipo di stereotipo culturale, politico o religioso che fosse. Alla base di questo atteggiamento stava la scoperta della filosofia personalista che egli aveva conosciuta in Germania ascoltando le lezioni di Scheler e diffuso in Francia,

prima ancora di Mounier. Egli vi vedeva la via per valorizzare l’individuo che il comunismo sembrava ignorare senza ricadere nella prospettiva atomistica della società, propria del liberalismo. Marc apprezzava del personalismo la concezione di persona come espressione della natura creatrice presente nell’uomo e in ciò vedeva il legame con Dio da cui l’essere umano derivava la propria dignità e indipendenza. Ma, a differenza di Mounier e di Berdjaeff, in lui l’adesione al personalismo non era tanto espressione di un’esigenza di approfondimento della filosofia esistenziale sul senso del mondo, dell’universale, della divinità quanto piuttosto era l’espressione dell’esigenza che l’uomo uscisse da sé, agisse nel mondo per cambiarlo. Se da un lato ciò fa capire perchè l’approfondimento

Il suo obbiettivo è stato quello di progettare una società che fosse in grado di integrare al suo interno l’idea di libertà e quella di solidarietà senza sottomettere una istanza all’altra, ritenendole entrambe contemporaneamente essenziali

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della tematica personalista lo abbia avvicinato al cattolicesimo a cui nel 1933 si convertì, dall’altro é stato proprio il suo originale modo di intenderlo che lo allontanò dall’interpretazione di un Mounier e di un Maritain. Sono stati soprattutto i suoi accenti a favore della rivoluzione spirituale, della sua volontà di rifondazione ex novo che non persuasero i due teologi per il carattere troppo politico che vi riscontravano, per l’insistenza sul dato della rottura violenta che Marc sottolineava appunto contro ogni ipotesi di mediazione. Ed in effetti l’idea di persona come atto anziché conoscenza e amore sottendeva una concezione idealistico-rivoluzionaria in Marc che si rivelava scettica nei confronti di una possibilità di miglioramento graduale della società. L’atto implicava invece una volontà di rottura anche se egli si sforzava di isolarlo nell’elemento della volontà, a livello meramente spirituale, senza riuscire però a persuadere i suoi interlocutori. E’ proprio da questa incomprensione derivante dal diverso significato attribuito all’idea di persona che si era consolidata in lui l’esigenza di cimentarsi direttamente nel progetto di organizzazione di un nuovo modello di società in cui la persona potesse divenire il concetto architrave per una trasformazione politica e dove degli spazi di libertà e autonomia potessero essere previsti accanto alla solidarietà senza che ciò comportasse concessioni a forme di socializzazione. Marc partiva nelle sue analisi dalla critica sia del liberalismo che del comunismo: a suo avviso, essi erano fungibili tra loro perché espressione di un identico costruttivismo razionalistico, organizzatore della produzione in base alla catena di montaggio, nella versione liberale, e alle pianificazioni forzate, nella visione comunista. Ma denunciava, al contempo, anche l’appello al volontarismo irrazionalista altrettanto pericoloso perché conduceva direttamente ai regimi totalitari a lui contemporanei. Era necessario, dunque, prendere egualmente le distanze dai modelli di società il cui fondamento era l’individualismo metodologico o il materialismo dialettico o, infine, il richiamo idealistico all’idea di nazione o di razza. Per Marc vi era, invece, una sorta di fondazione plurima della realtà e le opposizioni, le contraddizioni sociali non trovavano soluzione in delle sintesi ma solo in nuovi continui e sempre rinnovabili equilibri e forme di coordinazione. Egli chiamava questo fondamento il metodo “dicotomico”, e lo identificava nel federalismo che rappresentava in concreto il modo in cui tali equilibri e coordinazioni si potevano realizzare. Se si accettava una simile prospettiva, allora si poteva evitare, per Marc, il pericolo di trovarsi di fronte all’impasse che conduceva o ad una visione relativistica negatrice di ogni fondamento (quella dell’anarchismo) o alla visione propria dell’assolutismo

Per Marc vi era una sorta di fondazione

plurima della realtà e le opposizioni, le

contraddizioni sociali non trovavano soluzione

in delle sintesi ma solo in nuovi continui e sempre rinnovabili equilibri e forme di

coordinazione

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monistico che, a suo avviso, caratterizzava ogni indagine filosofica. Se c’era una fondazione della realtà questa era plurale e non si lasciava ingabbiare in formule o sistemi definitivi ma solo federare. A livello politico, il federalismo permetteva di superare la concezione liberale che, portata agli estremi, rischiava di misconoscere anche i diritti dell’uomo come faceva il capitalista quando non teneva conto dei diritti dei lavoratori; permetteva altresì di guardarsi dalla tentazione di ridurre l’uomo e il mondo a un sistema globale e unitario alla maniera del comunismo. Entro questo spazio, definito più da ciò che non deve essere che da ciò che è, si colloca, dunque, l’originale tentativo di Alexandre Marc di fare coesistere libertà e socialismo, un tentativo non fatto all’insegna del riformismo ma all’insegna dell’ “andare oltre”, della negazione più che di una precisa volontà di sistema. Pasqual Ory ha osservato che in tale tesi è presente la classica ambiguità di coloro che rimproverano alla filosofia politica del razionalismo laico sia il materialismo che

l’idealismo e che per uscire da questo presunto vicolo cieco propongono la terza via, quella spirituale3. Ma c’è da chiedersi, commenta Ory se questa novità non sia altro che una questione di vocabolario. Certo, alla sostenibilità e giustificabilità di tale metodo che, in ultima analisi come abbiamo detto, sarà inteso genericamente come “federalismo”, Marc cercherà di dare una risposta durante l’intero corso della sua riflessione, non restando, in ultima analisi, neppure lui completamente soddisfatto, ma ciò che qui importa constatare è che il risultato che ne esce è quello legato a una prospettiva che potremmo definire appunto liberal-socialista e non, come si è voluto sottolineare, totalitaria. Se, infatti, si analizzano le sue proposte emerge chiaro che è questo l’obbiettivo che ha sempre perseguito. Innanzitutto per quanto concerne il diritto di proprietà esso é giustificato solo a condizione che si tratti di un diritto “a misura d’uomo” sia quanto a dimensioni che a capacità di controllo sulla stessa. Marc critica infatti tutte le forme di proprietà che sono disgiunte dalla dimensione personale, in primo luogo quella delle società anonime che, dice, non conoscono uomini ma solo azionisti “numerati e intercambiabili”. Allo stesso

3 P. Ory, Troisièmes voies à la française in AAVV, Nouvelle Histoire des Idées politiques, Paris Hachette 1987 pp.451-459.

A livello politico, il federalismo permetteva di superare la concezione liberale che, portata agli estremi, rischiava di misconoscere anche i diritti dell’uomo come faceva il capitalista quando non teneva conto dei diritti dei lavoratori; permetteva altresì di guardarsi dalla tentazione di ridurre l’uomo e il mondo a un sistema globale e unitario alla maniera del comunismo

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modo, però, anche chi pretende di misurare la proprietà sotto veste di salario, in base alla quantità industriale di oggetti prodotti, svaluta il lavoro prestato dalla persona. Il comunismo in modi diversi spossessa l’uomo dalla proprietà né più né meno di come fa il capitalismo: “il capitalismo conduce alla separazione dell’uomo dalla proprietà, ossia allo sradicamento …il comunismo prende quest’uomo sradicato, privato non solo della proprietà, ma anche dell’attaccamento nazionale vero e proprio, della patria regionale, della famiglia e ne fa l’ideale che si chiama proletario”4. In altri termini, per Marc, non c’è soluzione di continuità tra capitalismo e comunismo; quest’ultimo si limita a radicalizzare il processo di spossessamento i cui germi però sono ben presenti anche nel liberalismo. Le nazionalizzazioni e le collettivizzazioni mostrano solo la maggior “logicità” del comunismo nel perseguire tale spossessamento scientificamente intervenendo anche negli ambiti privati: “ il sistema, perchè si tratta di uno solo, finisce nella maggior tirannide che l’umanità abbia conosciuto a causa della coincidenza nelle mani dello stato, anche di quello liberale, della iniziativa politica ed economica. Davanti a questo potere centrale mostruoso l’uomo è privo di tutte le difese naturali: regioni, corporazioni, famiglia e proprietà”5. Dunque, i punti di riferimento per la persona sono rappresentati da questi ultimi istituti che le permettono di realizzarsi direttamente. La società a cui pensa è una società in cui è garantita a ciascuno la possibilità di questa autorealizzazione. Si tratta allora, da un lato, di mettere in atto una serie di misure che diano eguale opportunità di partenza senza, però, garantire il risultato che sarà diverso a seconda dei diversi meriti di ognuno. Dall’altro, si tratta di destrutturare un potere tradizionalmente concentrato nelle istituzioni statali e di diffonderlo sul territorio in modo da consentire la partecipazione allargata. Per quanto concerne il primo aspetto, Marc ricorre alla tesi già sostenuta da Robert Aron e Arnaud Dandieu nel saggio La révolution nécessaire6 cioè la necessità di prevedere un servizio sociale civile obbligatorio per tutti allo scopo di poter finanziare “il minimo sociale garantito” cioè un alloggio, cibo, vesti utili per la sussistenza. Tale servizio civile configura, nella visione di

4 D.Ardouint et a. Marc, Libération de la Propriété, « Ordre Nouveau », décembre 1934, pp. 7-12. 5 Ivi. 6 A. Dandieu et R. Aron, La Révolution nécessaire (1933), Jeanmichelplace, Cahors, 1993.

La società a cui pensa è una società in cui è

garantita a ciascuno la possibilità di

autorealizzazione. Si tratta da un lato, di

mettere in atto una serie di misure che diano

eguale opportunità di partenza, senza

garantire il risultato che sarà diverso a seconda

dei diversi meriti di ognuno. Dall’altro, si

tratta di destrutturare un potere

tradizionalmente concentrato nelle

istituzioni statali e di diffonderlo sul territorio

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Marc, il solo e limitato ambito entro il quale c’è spazio per un settore pianificato dell’economia. Tutti debbono prestare tale servizio civile in modo da garantire la produzione dei servizi di base essenziali. Assolto questo obbligo e provveduto così alle esigenze primarie “incomprimibili”, ciascuno deve poter essere libero di agire nel mercato, e il suo livello di benessere e di realizzazione dipenderà dal merito, dalla capacità e anche dal rischio cui si sottomette. Quanto alle produzioni che richiedono una vasta organizzazione egli propone, riservandosi ulteriori approfondimenti, la formula della corporazione che concepisce come un organo di cooperazione tra gruppi professionali diversi con una sorta di struttura reticolare di comunicazione. La corporazione va intesa come un istituto ben diverso dal modello che a quei tempi proponeva il fascismo. Anzi l’insistenza con cui prende le distanze da quest’ultimo, anche attraverso un articolo pubblicato sul giornale italiano “Il Cantiere” nel 1934, ha come obbiettivo il rivendicare proprio il carattere autonomo della corporazione rispetto al ruolo di organizzatore e controllore che vi esercita lo stato in Italia7. In realtà dietro questa sua concezione di corporazione sta la riflessione sul problema della

rappresentanza per interessi e non politica che derivava in Francia dal pensiero proudhoniano e dal sindacalismo rivoluzionario. Questa prospettiva, che esaltava il dato della rappresentazione come specchio della società e non come delega, è quella a cui Marc si riferisce. Non a caso è a questa stessa matrice culturale che si riallaccia anche l’altro versante della contestazione di Marc, quello riguardante la questione del potere e dello stato il cui solo compito doveva essere quello di garantire l’indipendenza dei singoli e delle comunità. Al tradizionale aspetto ordinatorio e sanzionatorio della struttura statale Marc sostituisce il principio della coordinazione delle funzioni al punto da sostenere, in linea con le tesi di M. Hauriou, di L. Duguit e di G. Gurvitch, contro il positivismo giuridico imperante, che il fondamento del diritto non è da cercare nello stato, ma nei corpi sociali che generano il diritto, mentre lo stato fornisce loro solo il luogo propizio all’esistenza e allo sviluppo. Da ciò la valorizzazione delle piccole comunità: “è dal sentimento irriducibile di attaccamento al proprio ambiente, dal rapporto spontaneo che si stabilisce tra

7 Cfr. A. Marc, Ordre Nouveau e il corporativismo, “Il Cantiere”, 25 agosto 1934.

Dietro la sua concezione di corporazione sta la riflessione sul problema della rappresentanza per interessi e non politica che derivava in Francia dal pensiero proudhoniano e dal sindacalismo rivoluzionario. Questa prospettiva, che esaltava il dato della rappresentazione come specchio della società e non come delega, è quella a cui Marc si riferisce

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essere umano e potenza del suolo e del sangue che deriva il vero patriottismo”8. La patria é quella in cui si riconoscono le proprie radici e non quella struttura artificiale e lontana che coincide con lo stato-nazione; lo Stato va inteso con la s minuscola e perciò non come ente organizzatore ma semplicemente coordinatore delle diverse realtà dei gruppi sociali. Questa coordinazione poteva assumere esclusivamente la forma istituzionale della federazione tra comuni, non quindi la forma del super-stato nella quale si è “travestita” la federazione negli Stati Uniti dove, ad avviso di Marc, serve esclusivamente alla finanza, né in quella delle repubbliche federaliste sovietiche, dove serve a nascondere un produttivismo colonizzatore e una tirannide statale, né, infine, nella versione della Mitteuropa tedesca dove è al servizio dell’imperialismo della razza. Il concetto di federalismo cui fa riferimento fin da queste giovanili ricerche va ridefinito e distinto dai modi in cui è stato realizzato che, per Marc, celano tutti, seppur in diverso modo, un eguale approccio autoritario. Il tentativo di mantenersi coerente al postulato di base ni droite ni gauche, di porsi sempre al di là di “destra e sinistra” vuol dire dunque per lui allargamento della partecipazione ed eliminazione di ogni momento delegato. L’insofferenza nei confronti delle realizzazioni contemporanee gli impedisce, come dicevamo, di dichiararsi a chiare lettere, quale fu in realtà, cioè un liberal-socialista intendendo per tale definizione colui che, consapevole della valenza di entrambe le prospettive cerca il modo di farle coesistere ( liberalismo senza certi eccessi del liberismo, socialismo senza quelli del materialismo). Il suo pregiudizio antiriformista, dichiarato a più riprese più che effettivamente perseguito, unito all’uso di alcuni termini che appartenevano anche alle ideologie che pur combatteva, quali appunto il tema della corporazione, il mito della gioventù o l’insistenza sugli aspetti materiali di sangue e terra legati al concetto di piccola patria, hanno, come dicevamo, indotto J. Hellman a collocarlo tra i simpatizzanti del fascismo e del nazismo. Una simile lettura però se riferita a Marc, risulta poco plausibile perché distorsiva dei fini che egli si è proposto e gli argomenti a sua giustificazione paiono insufficientemente contestualizzati. Se, infatti, ci si addentra alla ricerca del senso che egli ha voluto dare al suo pensiero federalista, peraltro sempre in formazione e mai considerato da lui definitivo, balza evidente che il

8 A. Marc, Patrie, Nation, Etat, “Ordre Nouveau”, juin, 1936, p. 30.

lo Stato va inteso con la s minuscola e perciò

come coordinatore delle diverse realtà dei gruppi

sociali. Questa coordinazione poteva

assumere esclusivamente la forma

istituzionale della federazione tra comuni, non la forma del super-

stato nella quale si è “travestita” la

federazione negli Stati Uniti né in quella delle repubbliche federaliste

sovietiche

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tema di fondo è quello dell’antiautoritarismo. Durante e dopo la guerra, l’intera sua attività culturale continuerà sulla base delle stesse premesse sia quando inviterà tutte le forze disperse degli ex compagni non conformisti a federarsi sotto l’insegna “l’unione o la morte” nel 1937; sia quando, dopo la fine del governo di Vichy, si augurerà che la ricostruzione del tessuto civile e politico della Francia possa essere rifondato proprio su basi federaliste. Ma è in ambito internazionale che la sua tesi troverà un’eco più ampia contribuendo a farne uno dei protagonisti della battaglia per la costruzione dell’Europa. Nel dopoguerra preferirà definirsi “socialista libertario” e quasi per vezzo intellettuale continuerà ad insistere sul termine rivoluzione per sottolineare la necessità del cambiamento dello status quo in direzione della diffusione del potere. Porterà questo atteggiamento anche nelle riunioni che si faranno all’interno del movimento federalista

europeo e si scontrerà allora in particolare con Altiero Spinelli che, invece, partiva da una diversa sensibilità nei confronti del problema dell’Europa. Quest’ultimo, lungi dal pensarla come una struttura di potere diffuso e reticolare, vedeva nel federalismo, come già Hamilton in America, soprattutto un governo centrale forte, seppur limitato quanto a competenze, che avrebbe finalmente consentito di superare le pretese egoistiche dei singoli stati-nazione. Il discorso di Marc, invece, prevedeva la costruzione dell’Europa come il primo passo verso un allargamento che avrebbe portato poi a una federazione mondiale e, restando sul piano teorico, era perciò, spesso, bonariamente considerato un’utopista dallo stesso Spinelli. Tali divergenze non impedirono, comunque, una loro collaborazione sul piano pratico; se è vero che per Marc il federalismo era una bandiera che non poteva esser ristretta ad un ambito solo europeo, ma era un valore da difendere su scala mondiale, è pur vero che, quando la battaglia per la costruzione dell’Europa si rivelava complicata e difficile, egli non esitava ad accettare le mediazioni e financo i compromessi della politica pur di promuovere il processo di unificazione. Il suo agire concreto era esso stesso all’insegna dell’accettazione di quel

Nel dopoguerra preferirà definirsi “socialista libertario” e continuerà ad insistere sul termine rivoluzione per sottolineare la necessità del cambiamento dello status quo in direzione della diffusione del potere. Porterà questo atteggiamento anche nelle riunioni che si faranno all’interno del movimento federalista europeo e si scontrerà allora in particolare con Altiero Spinelli che, invece, partiva da una diversa sensibilità nei confronti del problema dell’Europa

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gradualismo che “teoricamente” diceva di ripudiare9. A conti fatti, la sua era una strategia pienamente consapevole: il richiamo ad “andare oltre”, alla necessità di una rivoluzione spirituale era per lui la maniera di tenere gli animi all’erta in difesa di quella libertà che vedeva continuamente minacciata.

9 Lettera di A.Marc a Luciano Bolis 15 dicembre 1991, ora in “Combat”, febbraio 1993, p. 43-48: “apparentemente Altiero Spinelli ed io ci eravamo confrontati sul piano delle ideologie e, mentre sul piano della tattica le nostre differenze erano assai meno significative. Quanto alla strategia essa ci ha spesso permesso di unire efficacemente i nostri sforzi”.

DOCUMENTI

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Documenti MANIFESTO PROGRAMMATICO DI COMUNITA’ La Direzione Politica Esecutiva del Movimento Comunità, riunitasi a Roma nel gennaio 1953, ha deliberato di rendere pubblica una dichiarazione politica che prenda in esame la situazione italiana e internazionale, allo scopo di precisare in modo esplicito alcuni punti fondamentali delle sue linee d'azione. Secondo la natura e gli scopi del Movimento Comunità, che non è impegnato, al modo dei partiti, nella tattica del giorno per giorno, ma è volto, con i suoi organi di studio e con quelli più propriamente politici, al riesame e al rinnovamento delle strutture stesse del regime democratico, la presente dichiarazione affronta i problemi della vita italiana con una prospettiva molto ampia, in senso che potremmo chiamare strategico o radicale. Un simile impegno non è certamente volontario astrattismo, ma al contrario fa parte integrante del nostro programma politico. Programma aperto. 1. - Le definizioni che del Movimento Comunità si possono dare secondo il linguaggio politico corrente sono insufficienti. Il Movimento Comunità è antifascista, repubblicano, democratico, federalista, cristiano e laico1, socialista e personalista: ma tali caratterizzazioni, se possono servire a situare approssimativamente il Movimento Comunità in un settore dello schieramento culturale e politico italiano, ne indicano la realtà solo in modo generico. L' azione programmatica del Movimento Comunità esula infatti dai limiti tradizionali della «politica» intesa come rapporto di forze, e si fonda su una diversa moralità sociale: «politica» è per noi la possibilità dell'uomo di armonizzare e sintetizzare esigenze e vocazioni diverse, e azione politica è lo sforzo di creare istituzioni che rendano operante tale possibilità. Politica è rapporto attivo, consapevole, armonioso tra l'uomo e l'ambiente del suo operare quotidiano, e azione politica è la ricerca delle condizioni in cui questo rapporto possa avere vita. Di qui, in via d' esempio, il grande valore «politico» che ha per noi l'urbanistica. Di qui soprattutto il nostro rifiuto di distinguere tra morale personale e morale politica. Il nostro rifiuto di subordinare, in ordine alla moralità, i mezzi ai fini. Il rifiuto della violenza se non di fronte alla aperta prevaricazione. La fiducia nella tolleranza come attivo dialogo e non come passiva rassegnazione. Il rifiuto di ogni forma di sfrutamento dell'uomo. Il rispetto assoluto della persona umana. Dovunque ci sia conflitto, per esempio, tra la macchina e l'uomo, tra lo stato e un ente territoriale locale, tra la tecnica e la cultura, tra la burocrazia e il cittadino, tra l'economia

1 «L'indirizzo spirituale del nuovo Stato è rappresentato da quell'insieme di valori spirituali e morali che per accettazione comune si intendono denominare "civiltà cristiana". Pertanto la legge superiore della Comunità è illuminata dall'Evangelo. Questa dichiarazione non implica per nessuno una sottomissione politica all'autorità religiosa, ma il riconoscimento definitivo da parte dei laici, credenti e non credenti, cattolici e non cattolici, dei valori spirituali contenuti nel Vangelo». Proposizioni fondamentali 1949 del Movimento Comunità, n. I.

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del profitto e l'economia del bisogno, tra l'automatismo e il piano, tra il mero piano economico e il piano urbanistico, tra la città elefantiaca e l'insediamento a misura d'uomo, e infine tra l'ipotetico idillio di una società avvenire e la reale angoscia delle «generazioni bruciate», - noi sapremo immediatamente qual' è la nostra parte. A questa morale personalistica (in cui convergono tutti gli elementi più urgenti della morale cristiana, dell'anarchismo, del liberalismo, del socialismo) noi crediamo sia indispensabile rimanere fedeli se si vuole, dalla profonda crisi del nostro tempo, risalire alla gioia della libertà e all' unità dell'uomo. Lotta per un socialismo istituzionale. 2. - Il mondo politico contemporaneo è oggi profondamente diviso da un massiccio contrapporsi di blocchi armati, animati l'uno contro l'altro da uno spirito di crociata. Nel suo richiamarsi ai valori della civiltà cristiana e della libertà personale, il Movimento Comunità si inserisce per sua natura nella cultura occidentale, ma non accetta le premesse dell'attuale schieramento di stati che prende il nome, appunto, di. occidentale. Sotto la egida di tale schieramento si dànno infatti per risolti, una volta per tutte, problemi che invece attendono ancora, nella nostra società, soluzione urgente. Quello che fu chiesto con drammatica evidenza per il mondo comunista, l'habeas animam, non è certamente acquisito nella società capitalistica ed in gran parte degli Stati democratici. I delitti tradizionali del mondo capitalistico, il pauperismo, la disoccupazione endemica, lo sfruttamento in nome del privilegio, si accompagnano oggi in molti stati con una mortificazione crescente della stessa democrazia formale, della libertà di stampa, di riunione, di espressione, con il diminuito rispetto per le minoranze religiose e razziali, ecc. Inoltre, l'insorgere delle lotte coloniali e il risvegliarsi alla coscienza politica di larghe masse popolari di oriente è, storicamente, uno dei fatti centrali del nostro tempo e non può essere risolto in alcun modo nel quadro semplicistico della contrapposizione oriente-occidente, ove «occidente» si identificherebbe con democrazia. D'altra parte, il mondo comunista staliniano è ormai fondato sulla certezza che in esso si realizzerà un regno di intera prosperità, di intera felicità, di intera perfezione, e giustifica quindi, con questo utopismo d'idillio, la più spietata «moralità di Stato». Lo Stato, per l'escatologia marxistica, è destinato a scomparire, con il «salto dal Regno della Necessità al Regno della Libertà». Su questo piano si è basato, da parte dei comunisti da Lenin in poi, il rifiuto di creare uno Stato che si fondi sul diritto. E così anche l'anarchia prevista da Lenin (quella che determinati mutamenti di Struttura finirebbero per realizzare nel tempo) perde quel valore almeno pedagogico che ha, nei migliori tra gli anarchici, 1'anarchismo vissuto e attuale: continuo richiamo, e tensione, verso un'anarchia ideale che non si potrà mai - appunto - realizzare nel tempo, ma che pur sempre rappresenterà una pietra di paragone per le strutture sociali in atto o in fieri.

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Ora, noi crediamo di doverci distinguere non solo dai socialisti rivoluzionari e comunisti, ma anche dai socialisti riformisti che accettano passivamente le costituzioni «borghesi», volti solo alla riforma della legislazione economico-sociale e scarsamente consapevoli del valore sociale del diritto come tale; che cioè guardano antistoricisticamente al punto in cui, terminate le graduali trasformazioni, si perverrà alla società socialista, della cui configurazione istituzionale poco si preoccupano. E crediamo di poter opporre, agli uni e agli altri, con molta fermezza, che mèta della lotta politica debba essere la creazione di un nuovo ordine giuridico, istituzionale, che risponda al requisito, perennemente essenziale, di risultare, di volta in volta, fondato su norme certe uguali per tutti. Parlare di «diritto rivoluzionario» è una contraddizione in termini (se non lo si intenda come una semplice formula politica di comodo): occorre distinguere sempre tra la singolarità del fatto e la generalità del diritto. Potrà mutare il contenuto di un dato sistema giuridico, e, in luogo del diritto «borghese», aversene altri ispirati al cristianesimo, al socialismo, ecc.; ma il diritto dovrà presentarsi sempre come una ipotesi di lavoro ben certa. In tal senso, contro le «costituzioni rivoluzionarie», ibrida e diseducativa mescolanza di diritto e di fatto, di rivoluzione e di ordine nuovo, consideriamo il diritto una delle garanzie più forti contro gli arbitrî e i trasformismi. (Del resto, vecchia verità questa: furono i plebei a esigere leggi certe, «scritte», le future XII Tavole)2:

2 Ci rendiamo conto che il pensiero di Lenin (il testo fondamentale è, come si sa, Stato e rivoluzione) è spiegabilmente contradditorio, oscillando fra diverse esigenze - le necessità della pratica e quelle della polemica teorica con gli anarchici; le necessità della rottura rivoluzionaria e quelle di prospettare una legalità che permetta il funzionamento dell'ordine nuovo, eccetera. Ma, in linea generale, si può dire che per lui ci si avvii, attraverso uno Stato socialista, al futuro comunismo propriamente detto, dove ci sarà una società politicamente organizzata ma non la consueta coazione statale (cfr. le osservazioni dello Schlesinger in La teoria del diritto nell'Unione sovietica, Torino, 1952, al cap. Il - è possibile immaginare variamente le caratteristiche di questo finale stadio comunista: «totale realizzazione dei definitivi ideali del liberalismo e dell'anarchismo» o «ferrea disciplina in cui nessuno osi opporsi alla decisione della maggioranza»?). Di questo Stato socialista è tuttavia difficile prevedere se sia una fase transitoria di pochi anni o di secoli; ed è difficile dire con esattezza quale è il significato di dittatura e di legalità (fino a che punto dittatura in senso stretto, e quando dittatura in senso puramente sociologico, che non esclude a priori la legalità). Comunque a noi importa denunciare intanto gli sviluppi storici del leninismo: che sinteticamente possono essere resi da due articoli della Costituzione sovietica del 1936 (artt. 126 e 141) e da un commento teorico autorevole, di Viscinskij. Articolo 126: «In conformità con gli interessi dei lavoratori e allo scopo di sviluppare l'iniziativa delle masse popolari nel campo dell'organizzazione e la loro attività politica, è assicurato ai cittadini dell'U.R.S.S. il diritto di unirsi in organizzazioni sociali: sindacati, cooperative, organizzazioni della gioventù, organizzazioni sportive e di difesa, società culturali, tecniche e scientifiche, - mentre i cittadini più attivi e più coscienti appartenenti alla classe operaia e agli altri strati di lavoratori si uniscono nel Partito comunista (bolscevico) dell'U.R.S.S., che è l'avanguardia dei lavoratori nella loro lotta per il

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In conclusione, il Movimento Comunità, che: • da un lato accetta l'unità delle forze del lavoro nella lotta contro il privilegio, • ma in questa lotta vuol scendere più a fondo di quell'economicismo che (lo si riconosca o no) è ineliminabile nell'impostazione marxistica, in quanto non si tratta soltanto di stabilire a chi sia attribuita la proprietà, ma anche quale sia la distribuzione di potere che essa determina; • dall'altro lato non crede nel mito della rivoluzione in quanto tale, ma piuttosto ricerca quegli strumenti, rivoluzionari o gradualistici, che arrivano più rapidamente allo scopo, con minor violenza alla libertà e soprattutto con minor confusione tra fini e mezzi; • e dissente in egual misura sia dai moralisti che pretendono di mutare astrattamente gli uomini prima della realtà sociale, sia dai marxisti che sopravvalutano la priorità del mutamento delle strutture economiche nel processo di rinnovamento sociale ; • e infine prende a fondamento della propria opera il valore «sociale» del diritto e a propria mèta la creazione di un «ordine» nuovo, ordine giuridico, istituzionale, fondato sul diritto come norma certa, si pone nella realtà politica contemporanea come una forza operante di «socialismo istituzionale». Comunità territoriali e ordini politici. 3. - Quale sia poi il nuovo ordine, la istituzionalità congrua di quella libera civiltà della quale il Movimento Comunità vuol farsi promotore, è stato illustrato nella letteratura del Movimento, e basterà qui accennarne gli elementi essenziali. Lo stato comunitario, fondato sulla integrazione armonica delle forze del lavoro e della cultura con quelle della democrazia, su una proprietà socializzata e radicata agli Enti territoriali autonomi (le Comunità), insisterà sulla tradizionale separazione dei poteri e sul

consolidamento e lo sviluppo del regime socialista e rappresenta il nucleo dirigente di tutte le organizzazioni dei lavoratori, tanto sociali che di stato». Articolo 141 : «I candidati alle elezioni vengono presentati per circoscrizioni elettorali. Il diritto di presentare dei candidati è assicurato alle organizzazioni sociali e alle associazioni dei lavoratori: alle organizzazioni del Partito comunista, ai sindacati, alle cooperative, alle organizzazioni della gioventù, alle società culturali». Viscinskij (citato dallo Schlesinger, op. cit., cap. VIII) ha fatto nel 1939 alcune precisazioni sul diritto socialista: «Il diritto socialista durante il compimento della ricostruzione socialista e il graduale trapasso dal socialismo al comunismo» viene definito come «un sistema di norme stabilite in forza di legge dallo Stato dei lavoratori, ed esprimente la volontà dell'intero popolo sovietico, guidato dalle classi lavoratrici capeggiate dal Partito comunista, al fine di proteggere, rafforzare e sviluppare i rapporti socialisti e la formazione di una società comunista». Se, malgrado la Costituzione del 1936 e le varie dichiarazioni teoriche di uomini sovietici autorevoli, ci sia una più profonda intenzione di arrivare a dissolvere il partito nello Stato, ciò va debitamente provato: ma, secondo noi, non può essere provato, almeno per ciò che riguarda il gruppo attualmente al potere. L 'ultimo congresso del partito comunista dell 'U .R.S.S. conferma la nostra convinzione.

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principio di un nuovo integrale federalismo interno, inteso nel senso di equilibrio di autonomie tra periferia e centro. Inoltre esso si porrà il problema fondamentale della rappresentanza politica, non affrontato che parzialmente dalla democrazia politica e risolto invece per eccesso dal regime sovietico. Il suffragio universale dello stato democratico infatti, specialmente in regime di partitocrazia, non dà assolutamente garanzie per la formazione di una classe dirigente politica «aperta», cioè alimentata e provata dal passaggio obbligato attraverso il governo degli enti territoriali minori e di aggregati sociali naturali come scuole, aziende, sindacati; e la teoria del Gruppo Guida, accettata nello Stato sovietico, è ben lontana dall'offrirci le necessarie guarentigie giuridiche circa la formazione, l'apertura, la sostituibilità di tale Gruppo, e circa il pericolo, quindi, che esso si trasformi in oligarchia3. In verità i mezzi adeguati a raggiungere i nostri fini sono molto complessi e si prospettano in tre fasi distinte ma compresenti : • organizzazione istituzionale della cultura fondata sul riconoscimento giuridico di istituti culturali specializzati a statuto democratico (Istituti per le Scienze politiche e Amministrative, per la Istruzione e la Educazione, per Urbanistica, ecc.); • equilibrio dinamico, nell'àmbito delle Comunità territoriali, tra le forze sindacali, gli organi decentrati delle istituzioni culturali e i Centri Comunitari di formazione democratica. Il potere politico sorgerà come sintesi di queste forze (nucleo originario del Potere); • presenza attiva e coerente, in tutte le fasi del processo costituzionale - ad ogni grado (Comunità, Regioni, Stato) - delle istanze culturali e delle garanzie democratiche. Si ha in tal modo una concreta integrazione e un superamento del marxismo-leninismo, che affidava la rivoluzione sociale alla diarchia operaio-intellettuale senza tuttavia riconoscere il nesso eterno tra libertà e democrazia né il valore differenziato dei termini giustizia, lavoro, educazione, scienza, né in generale la complicazione della società moderna e quindi dello Stato, il quale abbisogna oggi, per una sua civile esplicazione, di forme istituzionali pluraliste di delicata struttura.

3 Queste osservazioni sono fatte senza ignorare la maggiore «apertura» che si è voluta dare via via al Partito comunista dell'U.R.S.S., così da poter essere considerato alla fine una organizzazione più nazionale che classista, cioè di un àmbito che tende a coincidere con quello statale. Ma il Partito comunista dell'U.R.S.S. rimane pur sempre, e sotto certi aspetti diviene sempre di più, organo di parte, in esso si è vincolati a una determinata filosofia politica - dove lo stesso socialismo ne ammetterebbe più di una, per non dire innumerevoli -, in esso ha limitazioni assai gravi la democrazia interna e non è possibile un controllo istituzionale del potere dei suoi capi. Inoltre la stessa «apertura», di cui si discorre sopra, ha indubbiamente valore sul terreno dell'evoluzione costituzionale: ma in effetti, nel quadro dell'assedio a cui la nazione russa è stata sottoposta per anni da parte delle potenze capitalistiche, può anche segnare la definitiva involuzione in senso nazionalistico di un ideale internazionalista.

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Come si esprime a questo proposito Adriano Olivetti nel suo volume L'ordine politico delle Comunità4, "La libertà è garantita quando si stabilisca giuridicamente un nuovo equilibrio tra le forze sociali e spirituali che vivono in uno Stato moderno. Questo equilibrio, che abbiamo già analizzato nelle sue tre componenti (cultura lavoro democrazia) è rappresentato nelle singole Comunità dal nucleo originario del potere. "La formazione differenziata e indipendente di ciascuno degli organi tra i quali è diviso l'esercizio dei tre poteri, legislativo, esecutivo, giudiziario, deve riflettere l'equilibrio politico rappresentato dal nucleo originario del Potere. "La libertà non è adunque salvaguardata unicamente dalla separazione e dall'equilibrio dei poteri, ma anche dall'immissione, entro ciascuno degli organi costituzionali che tali poteri esercitano, delle diverse forze sociali e spirituali che caratterizzano uno Stato moderno. Solo così il principio vitale della libertà, che è coesistenza di forze, impregnerà come una linfa, in tutte le sue ramificazioni, il grande albero dello Stato ». Queste precisazioni possono aiutare a chiarire il carattere antitecnocratico e anticorporativo del Movimento Comunità, che non è stato sinora compreso da tutti. I tecnici, in quanto tali, rappresentano la specializzazione, l'unilateralità, l'analisi; la competenza del politico invece deve saper vedere ogni esigenza specifica sotto l'angolo più ampio degli interessi generali, e dei fini stessi, della società. La rappresentanza professionale di categoria, postulata dai corporativisti, è proprio l'inverso di ciò che secondo noi deve proporsi una società organizzata; essa tcnde a rafforzarc gli interessi costituiti e a rendere più deboli proprio quelli che lo stato dovrebbe difendere come generali o meglio ancora universali, appartenenti a tutto l'uomo. Il Movimento Comunità non indica quindi come nuova classe politica gli ordini professionali, ma veri e propri ordini politici, le cui funzioni riflettono tutte e solamente le attività politiche aventi una radice spirituale e una validità universale: giustizia, lavoro, assistenza, educazione, economia, urbanistica. La situazione mondiale. Popoli coloniali e aree depresse. 4. - Se a questo punto ci trasferiamo sul piano della situazione mondiale, la troviamo dominata da un problema che ci sembra esemplare sia delle origini del travaglio contemporaneo, sia delle possibili soluzioni: il problema, oggi entrato in una fase drammatica e sanguinosa, dei popoli coloniali e del risveglio nazionale d'Africa e d'Oriente. Su di esso, il pensiero socialista democratico ha denunciato una insufficienza di sensibilità storica, mentre a noi sembra che proprio qui sia necessario proporre soluzioni storicamente più fondate e concettualmente più audaci.

4 A. O. : L'ordine politico delle Comunità, 2. ed., Milano, 1951, pagg. 310-311.

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Verso questi popoli, gli errori e le colpe degli occidentali sono insieme di governi, di gruppi politici (non esclusi i socialisti democratici), di gruppi di produttori che pur vorrebbero essere considerati liberali, e anche, aggiungiamo, di uomini della cultura. C'è una notevole incapacità e cattiva volontà, in tutti costoro, di cogliere il senso della storia di questi popoli, uno strano oblìo sulle origini spesso violente delle stesse democrazie occidentali e una buona dose di presunzione e di arroganza, mista a paura per l'avanzare dello stalinismo, nell'imporre alla libertà forme nate da esperienze storiche particolari od estranee. In particolare molti uomini di cultura, che si ritengono versati nei problemi orientali (ma in realtà sono uomini di limitato interesse culturale) passano dalla sufficienza paternalistica al falso rispetto (il rispetto per le cose «così come stanno») all'infatuazione per il pittoresco e l'esoterico. In Oriente, come in Occidente, c'è da sceverare il bene dal male. Nelle loro correnti migliori le grandi religioni orientali sono tolleranti, e fiere della loro tolleranza; la democrazia locale ha spesso tradizioni millenarie in diverse civiltà contadine dell'oriente. Ora, gli schemi della democrazia partitica (e certi precisi interessi da conservare o da alimentare) hanno portato gli occidentali «democratici» all'appoggio di forze, che non hanno alcuna seria analogia con le borghesie - illuministiche e imprenditrici - dell'occidente sette-ottocentesco. Un formale (e interessato, e sollecitato anche dalle burocrazie coloniali) rispetto della situazione costituita, il pregiudizio nei riguardi di qualsiasi possibile successore giacobino, fanno sì, poi, che gli occidentali favoriscano continuamente le forze più illiberali: nazionalisti confessionali, latifondisti, appaltatori di tasse per conto di autocrazie feudali, tirannici scontisti, affaristi legati a interessi esterni al paese e affermatisi all'ombra delle armi straniere, tutte categorie che non hanno alcun interesse né economico-sociale né culturale o religioso alla libertà. Viceversa l'esperienza recente ci insegna che in questi paesi arretrati, una rivoluzione sociale ha inizio con un'alleanza di elementi eterogenei, nella quale solo il permanere di certe cause specifiche finisce per determinare la prevalenza dello stalinismo, spesso in minoranza all'inizio. D'altra parte i comunisti, che nel voler risvegliare la spinta libertaria di larghe masse - specie rurali - sono, storicamente, dalla parte della ragione, operano in nome di una libertà etnica, razziale, che non è esattamente la nostra libertà. Ora, invece, è da dire che nei paesi che escono da un regime coloniale, come in genere in tutte le aree depresse, le strutture comunitarie particolarmente si prestano a indicare un sistema atto ad avviare verso Stati federali sopranazionali. Nei paesi coloniali, come in genere nelle aree depresse, la tradizionale democrazia politica formale è reazionaria e masse inorganizzate di milioni di uomini, con larga prevalenza di contadini, non hanno per mezzo di essa la possibilità di esprimere organismi validi ai fini della civiltà. Le masse rimangono fatalmente dominio di oligarchie totalitarie, sia che alzino la rossa bandiera della rivoluzione, sia che sotto le apparenze delle libertà nominali si facciano strumento di un feudalismo decadente. Le strutture comunitarie, fondate su integrazioni tra il principio territoriale e il principio funzionale, offrirebbero una interessante soluzione a un arduo problema costituzionale sinora insoluto. Anche un documento di alto interesse in

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possesso della cultura internazionale (il Disegno di Costituzione Mondiale presentato da un gruppo di studiosi dell'Università di Chicago) postula accanto ai tradizionali valori democratici il peso delle istituzioni culturali e delle forze sindacali, vere radici atte a determinare nel corpo costituzionale una linfa vitale. E in questo ordine di idee è ancora l'azione politica di Manvendranath Roy e del suo gruppo neo-umanistico indiano, che lotta per l'emancipazione, sul terreno delle idee e su quello delle istituzioni, delle forze della cultura e per una democrazia federalista, «in direzione di piccole organizzate democrazie integrate in una struttura a piramide che costituirebbe lo Stato, e dotate, ognuna di esse, di effettivo potere economico e politico»5.

5 Manvendranath Roy ha partecipato dal 1906 al movimento di liberazione nazionale in India e, dal 1917, ha avuto un ruolo di primaria importanza entro le formazioni politiche di sinistra d'Asia, d'Europa e d'America (Messico). Per molti anni è stato a capo del «dipartimento orientale» dell'Internazionale Comunista: si è poi via via orientato verso posizioni «al di là del comunismo», di umanesimo radicale, per le quali al mutamento delle strutture economico-sociali si nega la priorità assoluta e viene richiesta, come fondamentale al pari di esso, la fondazione di istituti per l'esercizio concreto e diretto, da parte di tutti, delle libertà indi viduali («salvo che come somma totale di libertà e di benessere attualmente goduti da parte degli individui, la liberazione sociale e il progresso sono ideali immaginari, che non verranno mai realizzati»). Roy è uno dei maggiori scrittori politici dell' Asia. Nel recensire The Meaning of Democracy, di Ivor Brown (sulla rivista The Humanist Way da lui diretta - [voI. IV, n. 4, 1951]) egli scriveva: «Non c'è dubbio che l'autore [Brown] attribuisce, nella sua esposizione, importanza di primo piano ai partiti politici. Egli è certo conscio dei pericoli legati ai partiti politici, ma ritiene che possano essere eliminati con una riforma delle condizioni delle masse. Non appare chiaro come, esistendo i partiti politici, si possa evitare la lotta per il potere; e se la lotta per il potere continua ad essere la molla della prassi politica, l'inganno e la demagogia saranno all'ordine del giorno. In realtà i metodi che l'autore cerca di correggere nel suo volume sono da attribuirsi in massima parte ai partiti politici. Brown ammette tuttavia che i partiti (e nel caso particolare si deve intendere i partiti politici) sono inevitabili, in quanto, affondano le loro radici nella natura stessa degli uomini. Non ci riesce di comprendere lo scopo di tutta la fatica da lui spesa a questo proposito. I partiti politici propriamente detti hanno origine recente, e sono concepiti nel presupposto che la detenzione del potere politico sia essenziale per il conseguimento dei mutamenti sociali e costituzionali desiderati. Quindi la conquista del potere politico è stato l'argomento principale dei loro programmi, e buona parte della confusione del mondo di oggi deriva inevitabilmente da questo concetto. La tragedia dei tempi moderni è l'atomizzazione della persona, costretta a farsi insignificante e impotente in mezzo a una società potente e ad uno Stato onnipotente. I partiti politici hanno colto tutti i vantaggi possibili dalla situazione, ed hanno fatto dell'individuo un essere vuoto e miserabile. Ci sembra che la soluzione sia da ricercarsi in direzione di un sistema di piccole organizzate democrazie, integrate in una struttura a piramide, che costituirebbe lo Stato, e dotate, ognuna di esse, di effettivo potere economico e politico. Lo stesso Brown dimostra di cogliere il punto essenziale quando scrive che «la decentralizzazione del controllo industriale ed economico, effettuata in modo che l'operaio senta che attraverso il suo voto egli diviene qualcuno sia nella fabbrica che nello Stato, è evidentemente la necessità del momento attuale». Questo concetto merita di essere studiato ed daborato in tutti i suoi aspetti e le sue conseguenze, e ciò che qui si vuol concedere a ogni operaio «spetta altresì ad ogni cittadino nei confronti del potere politico ed economico».

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Per tornare su un terreno più contingente, è chiaro che gli occidentali rimarranno nell'errore sinchè insisteranno nell'appoggiare una economia liberale inesistente: essi che hanno, in passato, alternato protezionismo e liberismo, a seconda che fosse necessario fortificare le proprie aziende in fase critica o sconfiggere le Industrie artigiane dei paesi arretrati (mentre spesso, come contropartita, iniziavano uno sfruttamento intenso di materie prime, accompagnandovi non raramente la conquista militare). Oggi crediamo apparisca finalmente evidente che il progresso occidentale è legato a una visione unitaria del mondo: la sorte del contadino persiano, cinese o indiano è legata alla sorte dell'operaio urbano europeo e americano. E ciò per ragioni di comune benessere e di giustizia, di stabilità economica e di ordine internazionale. Pertanto un qualsiasi riarmo è giustificato solo nei limiti in cui conservi carattere difensivo e si accompagni a un radicale piano di cooperazione economica, attuato senza discriminazioni e sotto la responsabilità degli Stati, non dei gruppi sezionali. Occorre rendere operante la politica del «punto quarto» di Truman6, e tenere soprattutto presente che il riarmo può essere uno strumento sussidiario e di emergenza, ma che, se esso porta ad alleanze degli occidentali coi ceti oppressori nei paesi che lottano per il loro progresso tccnico e per un assetto sociale più giusto, fallisce al suo scopo e va respinto senza compromessi. La lotta per la libertà può essere sostenuta proprio e soltanto appoggiando le riforme di struttura (specie agrarie), i ceti capaci di realizzarle, e i piani nazionali e sopranazionali, tipo Piano di Colombo7 (piano per lo sviluppo economico cooperativo dell' Asia meridionale e sud-orientale, ove sono scartate imposizioni unilaterali). In altri termini, e per concludere: la spinta all'emancipazione nazionale, legata alle aspirazioni libertarie, particolarmente delle masse rurali, e attualmente sorretta dai comunisti, non porterà ad imboccare una via cieca, al termine della quale c'è stasi e involuzione se non guerra, solo se accompagnata dalla lotta per il diritto e per la libertà della cultura; e se dovrà non già concludersi in nuovi Stati

6 Ecco i passi più importanti del Punto IV di Truman (dal discorso inaugurale da lui tenuto al Congresso nel febbraio 1949, come 33° Presidente degli Stati Uniti d' America): «Dobbiamo impegnarci in un nuovo audace programma al fine di utilizzare i benefici della nostra marcia scientifica e del nostro progresso industriale nel miglioramento e nello sviluppo delle aree depresse. (.) Il vecchio imperialismo - sfruttamento da parte di stranieri - non trova posto nei nostri piani. Ciò che noi intendiamo è un programma di sviluppo fondato sul concetto di un leale comportamento democratico. (.) La democrazia soltanto può fornire quella forza vitale atta a stimolare i popoli del mondo a un'azione vittoriosa non solo contro i loro oppressori umani, ma anche contro i loro nemici di sempre: fame, miseria, disperazione». 7 Il Piano di Colombo (del 1950. Così chiamato dalla città di Colombo nell'isola dì Ceylon) si concertò per i paesi asiatici del Commonwealth, con l'accordo di tutte le nazioni del Commonwealth stesso, e mentre alle riunioni per la sua redazione erano presenti osservatori della Birmania, dell'Indonesia, dell'Indocina e del Siam. E' un piano fondato sul presupposto che sia un dovere per le nazioni più progredite e in posizione più fortunata, partecipare all'elevazione del livello di vita delle aree arretrate o depresse. Altra sua caratteristica essenziale consiste nel non essere di formazione autoritaria, «unilaterale», ma nel chiamare anzitutto in causa le rappresentanze responsabili dei paesi interessati.

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sovrani, ma sboccare in Asia e in Africa in federazioni continentali e sub-continentali (quale per esempio la Federazione dell' Asia del Sud-Est vagheggiata anche da Nehru) educate alla lotta per un ordine internazionale. L' ordine internazionale. 5. - Alla luce di questi esempi, sarà facile risalire alla posizione del Movimento Comunità in ordine al problema generale dei rapporti internazionali. La politica estera internazionale, con il contrapporsi di blocchi armati a dividersi l'intera faccia della terra, è terreno troppo vasto e infuocato perchè il Movimento Comunità possa pensare di determinarne gli sviluppi con una dichiarazione programmatica. Noi pensiamo tuttavia che, allo stato attuale delle cose, sia piuttosto questione di chiarezza di principi che di abilità diplomatica. Alla consueta antitesi di occidente contro oriente, carica spesso di non chiari motivi polemici, abbiamo preferito l'antitesi tra il mondo ove si ha «certezza del diritto» e il mondo in cui questa certezza del diritto non è garantita. O addirittura, se si vuole, tra il mondo ove vige l' habeas corpus e il mondo ove l' habeas corpus non vige, qualunque sia il confine geografico che li divide. E per chiarire infine in assoluto i rapporti tra le democrazie «progressive» in Europa e le democrazie «storiche» in Asia, diremo che noi siamo contro la colonizzazione occidentale (in atto) in Asia, e contro la colonizzazione russa (eventuale) in Europa. Siamo cioè contro tutti quei sistemi che o tendono a fare di alcuni popoli i soggetti e di altri gli oggetti della politica internazionale; contro gli accordi dei «grandi» stipulati in conto e sulla pelle dei «piccoli», contro le zone d'influenza e ogni tipo di politica di potenza. Siamo, certo, per una assise internazionale di stati, ma contro il tipo di rappresentanza costituito dall'ONU, ove, in virtù dell'ossequio alle sovranità nazionali, gli Stati Uniti o l'URSS hanno in linea di diritto lo stesso peso delle più piccole nazioni, mentre, in virtù dell'ossequio alla politica di potenza, esiste contemporaneamente un diritto di veto per i più grandi. E dove, d'altra parte, anche la stessa ammissione all'assemblea, anzichè essere un diritto di ogni stato democratico, è sottoposta ai mutevoli criteri della guerriglia diplomatica. Il primo passo verso una normalizzazione dei rapporti internazionali sarebbe dato certamente dal democratizzarsi interno dell'ONU, ma è ben difficile che una Organizzazione delle Nazioni Unite sia democratica, se non sono interamente democratici gli Stati che vi appartengono, e se il mandato ai delegati nazionali non sia conferito in modo più esplicito dai popoli che essi rappresentano. D'altro canto, un'altra considerazione ci sembra qui necessaria. Lo stato moderno è andato via via estendendo in modo inesorabile la rete dei suoi interventi nella vita sociale, ed è ormai impossibile prescindere dalla sua presenza in qualsiasi azione politica anche marginale. Persino le Internazionali di qualsiasi tipo, hanno perduto quasi del tutto ogni significato politico se non quello di agenzie esecutive di uno Stato guida. Questa onnipotenza dello Stato (oggi nessuna opposizione, anche la più accanita, respingerebbe

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a priori l'occasione di una partecipazione al governo, qualunque fossero le differenze ideologiche con gli altri partiti compartecipi) sembra far concludere per la necessità di concentrare gli sforzi in favore del superamento degli Stati nazionali interamente sovrani e in favore della costituzione di ordinamenti giuridici superiori, federazioni continentali o sub-continentali. Federazione europea. 6. - In primo luogo, la Federazione europea. Una Federazione europea, beninteso, aperta a tutti gli Stati che vogliano accedervi, accettando un assetto interno di democrazia garantita dalle leggi. II Movimento Comunità vede, ripetiamo, un elemento di progresso nel fenomeno federativo, sopranazionale. Nel caso poi particolare dell'Europa, e data la divisione del mondo in sfere d'influenza, una Federazione europea è l'unica risposta democratica coerente ai vari nazionalismi, e anzi l'unica strada per riacquistare alle nazioni d'Europa la qualità di soggetti della storia. Inoltre, l'esperienza dimostra che solo Stati strategicamente forti pongono e risolvono il problema delle autonomie all'interno; e la realtà politica attuale indica che attraverso la battaglia per il federalismo europeo e per una costituente europea si possono individuare e combattere i nemici di ogni struttura federalista e comunitaria, e preparare invece una classe politica non esclusivamente legata ai partiti - che sono poi le cose che a noi interessano di più. Per questo il Movimento Comunità è naturalmente federalista, ma vede con decisa opposizione la possibilità che l'idea federalista declini in una sorta di strumentalismo strategico e in una coalizione di Stati. Federalismo non deve essere statalismo, ma al contrario struttura sempre più autonomistica nell'àmbito degli Stati, autonomia generale. Una federazione di Stati accentrati e nazionalisti è una contraddizione in termini e potrebbe addirittura servire a bloccare lo status quo sociale esistente, anzichè essere un elemento di innovazione. La Federazione europea darà all'Europa autonomia e salvezza, ma ciò stabilmente per sè e in modo esemplare per gli esterni, solo se federazione è intesa nel senso integrale di decentramento assoluto, di autonomia generale anche nei confini degli Stati, di articolazione politica e amministrativa antimonopolistica in ogni senso. In definitiva gli Stati Uniti d'Europa saranno una realtà viva e operante in quanto immediata conseguenza di un comune scopo spirituale e di un assetto politico e sociale nuovo e omogeneo8. Stato, partiti e classe politica. 7. -Venendo infine sul terreno della politica interna, il Movimento Comunità, in nome dei principi autonomistici e concretamente liberali esposti sinora, rivolge la sua opposizione

8 Il Movimento Comunità ha appoggiato sin dagli inizi gli scopi dichiarati dal «Consiglio dei Comuni d'Europa» e appoggia la battaglia per la realizzazione dei princlpi contenuti nella «Carta europea delle libertà locali», alla cui redazione ha dato un suo contributo dottrinario e di pratica esperienza (vedi la rivista Comunità, n. II, giugno, 1951: «Partecipazione delle libere collettività locali a un consiglio europeo dei comuni»; e n. 15, ottobre, 1952: «Carta europea delle libertà locali»).

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contro la partitocrazia. Il partito moderno è uno strumento centralizzato e burocratico che svolge nell'àmbito dello Stato una funzione di sclerosi analoga a quella svolta dai nazionalismi riguardo alla vita internazionale, e costituisce un diaframma artificiale, e spesso oppressivo, tra la realtà sociale e gli organi politici della collettività. Il monopolio della vita politica in tutte le sue fasi ormai assunto dai partiti, suggerirebbe una strada - per altro non scevra di pericoli - per garanzia dei cittadini: cioè un controllo costituzionale continuo sulla democraticità interna dei partiti, il che implicherebbe una sorta di riconoscimento giuridico, non interamente dissimile da quello che si è andato imponendo per i sindacati. Ma, oltre tutto, rimarrebbe sempre estremamente difficile stabilire il criterio «obiettivo» per il diritto alla permanenza e per le ammissioni di nuovi soci nel partito. Probabilmente conviene spezzare il monopolio creando una serie di strutture e vincoli costituzionali, che limitino, dall'esterno, i partiti. Fermandoci a un aspetto della contesa elettorale, diremo che l'adozione del sistema proporzionale in questo dopoguerra italiano - nel quale la democrazia ha avuto per buona parte il carattere reazionario di una restaurazione, con la responsabilità di tutti i partiti politici e dei loro dirigenti, - si, può affermare che abbia avuto effetti non benefici nella nostra vita politica, in quanto ha reso arbitro il partito delle scelte dell'elettorato e addensato i riflettori della propaganda sui dogmi anzichè sui problemi e sugli uomini. Va subito detto tuttavia, senza che ciò significhi un nostro entrare nella polemica contingente, ma piuttosto per prendere aperta posizione verso un problema che la congiuntura politica ha sollevato, che il Movimento Comunità è d'avviso che occorra assolutamente un dispositivo costituzionale per impedire alla maggioranza di essere arbitra del suo perpetuarsi. Naturalmente lo Stato democratico si deve difendere a qualunque costo contro qualsiasi gruppo che, mascheratosi di legalità, tenda a sovvertirlo in senso totalitario. A qualunque costo, abbiamo detto: ma appunto per questo occorre avere le carte rigorosamente in regola. Aggiungeremo che alcuni di noi, pur dando per scontato il danno che ne potrebbe venire in un primo tempo alle fortune elettorali proprio dei partiti che si presentano meno massicci, auspicano un ritorno al collegio uninominale con ballottaggio per le elezioni della Camera, convinti che ciò avrebbe un decisivo valore per l'elevazione del livello culturale del Parlamento. La proporzionale riuscì solo in piccola misura a infrangere le clientele meridionali e, attuando un astratto criterio di giustizia, staccò invece il contatto umano, diretto e personale tra il corpo elettorale e la sua deputazione, falsando in tal modo una delle condizioni più preziose della democrazia. Con maggior coerenza di coloro che fanno della proporzionale una questione di principio, il Movimento Comunità ha sempre opposto alla struttura verticale e gerarchica dei partiti la ripartizione del potere, il federalismo interno e l'integrazione ininterrotta di elementi autonomi, comuni, province, regioni, associazioni. E in linea più generale, contro le «scuole di partito» e i diversi inviti alla politique d'abord, risolti sempre nel dogmatismo, il

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Movimento Comunità offre l'esempio della Società Fabiana inglese9 e la solida maturazione di una classe dirigente aperta a tutti i problemi della collettività; una classe dirigente, si potrebbe dire, di «partiti» anzichè di partito, che senta la vita politica come una necessità pregiudiziale, e non la ideologia e il mito come pregiudiziali alla vita politica. Contro le parole d'ordine e i puri rapporti di forza, premesse mai smentite d'oppressione e di intolleranza, il Movimento Comunità offre l'azione chiarificatrice e illuminante portata nella pianificazione urbanistica, nel servizio sociale, nella più energica complementarità delle forze economiche e degli organi amministrativi, nella formazione di una classe dirigente fedele alla amministrazione e alla autonomia. Occorre tuttavia chiarire a questo punto che, sulla base delle premesse morali e politiche di cui ai punti I ), 2), 3), oltre che delle Proposizioni fondamentali 1949 del Movimento Comunità, non è incompatibile per un comunitario militare in un partito politico. Di fatto, la maggior parte dei comunitari è impegnata direttamente e politicamente nella vita delle amministrazioni, nelle aziende, nei sindacati, nel servizio sociale, nelle attività urbanistiche, nella scuola, nel giornalismo, e rimane in posizione indipendente rispetto ai partiti. Ma altri che sono impegnati in un'azione di partito, possono essere coerentemente e di ugual diritto comunitari; naturalmente se militano in uno di quei partiti che lasciano intravvedere la possibilità di tradurre sul piano della politica quotidiana alcune delle principali esigenze del Movimento Comunità; se non addirittura di un partito che, informandosi ai postulati del Movimento, possa divenire sul piano parlamentare uno degli strumenti essenziali per la loro realizzazione. Tuttavia essi dovranno avere ben chiaro che un partito non potrà mai essere che uno degli strumenti, e mai l'unico, per la realizzazione di obiettivi politici. II Movimento Comunità infatti respinge l'interpretazione del partito o dell'azione parlamentare come unico

9 La Fabian Society, in vari decenni di lavoro in stretto dialogo col partito laburista e con le Trade Unioons (e conservando «gelosamente», come tengono a dichiarare i suoi stessi membri laburisti, la sua indipendenza) si è preoccupata di delineare una serie di riforme di struttura, anche quando non se ne vedeva immediatamente possibile la realizzazione per gli esistenti rapporti di forza politici. Non impegnata nelle contese elettorali politiche, la sua forza è consistita nell'assenza di ogni tatticismo, nella larga apertura - senza dogmatismi - agli esperti e nella sua fiducia nell'azione educativa svolta, oltre che con i consueti libri e pamphlets, da più diecine di centri o società fabiane locali, e anche attraverso scuole e convegni. Sarà forse a questo punto utile riportare una considerazione del laburista Aneurin Bevan (In Plact' of fear, London 1952; nella traduz. ital., Il socialismo e la crisi internazionale, [Novara] 1952): «È abitudine di molti pubblicisti irridere al Partito laburista per il suo attaccamento a quelli che passano per princìpi dottrinari». Dal tono di questi attacchi vien fatto di pensare che la mancanza di princìpi sia, in politica, la cosa più conveniente. Nessun uomo di stato può reggere alla tensione imposta dalla vita politica moderna senza quell'intima serenità che deriva dall'aderenza a un certo numero di convinzioni fondamentali. Senza la loro influenza equilibratrice, egli è in balìa d'ogni brezza passeggera. Intelligenza e agilità politica non possono sostituirle validamente».

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strumento della lotta politica, e fonda tutta la sua azione sulla efficacia politica delle associazioni territoriali autonome, i sindacati autonomi, le forze della cultura. Per una concreta difesa delle libertà. 8. - Sul terreno delle libertà politiche tradizionali minacciate in questi ultimi tempi da clamorosi attentati, il Movimento Comunità si richiama al fervore personalista che lo anima per farsi interprete della necessità del rispetto della persona (contro il mantenimento di leggi e regolamenti di tipo fascista o contrari alla Costituzione, contro ogni eccesso poliziesco nell'amministrazione della giustizia e nel regime carcerario, contro ogni intolleranza e ogni censura, contro ogni coartazione), e si associa in questo alla più sana tradizione liberale. Tuttavia anche in questo campo esso mette in guardia contro chi nell'astratta difesa della libertà universale trova (o cerca) un alibi per non arrivare a riforme di struttura e per non risolvere le questioni concrete. Non si tratta soltanto di «difesa della libertà», a cui è chiaro che ogni uomo che rispetti se stesso debba associarsi, ma si tratta principalmente di creare gli strumenti per l' esercizio della libertà in concreto, di trovare i mezzi idonei onde si formi e si esprima liberamente l'opinione pubblica. In questo senso i centri comunitari dovrebbero essere i luoghi nei quali tale opinione liberamente si forma, attraverso nuclei di dibattito popolare: luoghi di incontro e di ricerca e non, come le sezioni dei partiti, monopolio di soluzioni prefabbricate. Ma questo è lavoro a lunga scadenza, mentre altri, e non pochi, sono i problemi che presentano carattere di urgenza. In primo luogo, le riforme atte a consentire nel modo più ampio, da parte di tutti, l'esercizio della libertà di stampa e d'informazione. Piuttosto che attraverso il controllo delle fonti di finanziamento dei giornali e delle agenzie d'informazione, in pratica difficilmente attuabile, una più vasta garanzia per l'esercizio di tale diritto sarà probabilmente da ricercare attraverso disposizioni che consentano di ridurre il costo delle pubblicazioni e della diffusione di notizie, sottraendo, al tempo stesso, le minori imprese giornalistiche alla sopraffazione dei grossi monopoli economici. Per esempio, la socializzazione (almeno parziale, ma stabilita, con giustizia geografica, nei centri più importanti) delle aziende tipografiche consentirebbe di disciplinare l'utilizzazione dei relativi impianti secondo criteri distributivi e di assicurare al maggior numero possibile di correnti d'opinione le più agevoli condizioni per l'espressione del proprio pensiero. Altre misure per facilitare la libertà di espressione potrebbero essere: una congrua riduzione dei costi della carta, sottraendone la produzione e la distribuzione al regime di monopolio, una più larga politica di esenzioni fiscali in favore delle aziende editoriali e, infine, il controllo delle fonti di finanziamento indiretto rappresentate, ad esempio, dai contratti pubblicitari stipulati da enti e società di diritto pubblico, che dovrebbero essere equamente ripartiti fra tutti i giornali. D'altro canto, la diffusione di notizie di particolare rilievo politico e sociale dovrebbe essere garantita da altre disposizioni: quale l'obbligo, sancito per legge, della

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pubblicazione da parte di tutti i quotidiani dei resoconti sommari ufficiali dei lavori parlamentari e la edizione da parte delle amministrazioni locali di bollettini d'inserzioni gratuite di richieste e offerte di lavoro e di altre informazioni di preciso e riconosciuto interesse sociale. In secondo luogo, il problema della radio, divenuta in Italia monopolio governativo, e il cui regime dovrebbe essere riformato con il porla a servizio della cultura attraverso l'elaborazione di nuovi e più specializzati programmi e con la istituzione su base democratica di organi direttivi, tecnici e di controllo. E infine le riforme rivolte a moralizzare, in linea di principio e di fatto, la lotta politica, quali per es. la regolamentazione circa l'affissione dei manifesti elettorali solo su adeguate porzioni di appositi spazi, con divieto di invadere le zone riservate alle liste avverse10; il prezzo politico della carta e altri accorgimenti per diminuire la schiacciante superiorità economica di alcune formazioni politiche su altre. Oggi i partiti hanno spesso bilanci formidabili e privi di qualsiasi controllo, le loro spese (elettorali e non) raggiungono miliardi, e alle minoranze democratiche è praticamente impossibile affrontare la tempesta e il fragore delle lotte elettorali in condizioni di ragionevole equilibrio. Ora, se è vero che un controllo del bilancio dei partiti è di ipotetica realizzazione e presenta anche qualche difficoltà di principio, è anche vero che i partiti maggiori esercitano nel campo politico una funzione simile a quella che esercitano nel campo economico i grossi monopoli. Politica e cultura. 9. - Sfioriamo qui, per altra via, un problema che il Movimento Comunità ritiene fondamentale, i rapporti tra politica e cultura. È stata chiarita di recente la distinzione tra «politica culturale» (di cui è soggetto lo Stato, la cultura oggetto, e la libertà della cultura la vittima) e «politica della cultura» (in cui invece sono gli uomini di cultura i soggetti, che intervengono, in quanto tali, nella vita politica). Noi accettiamo questa distinzione per intendere l'espressione libertà della cultura in senso attivo: non soltanto quindi libertà dallo Stato, ma libertà nello Stato, libertà nell'impegno, libertà nella vita. In coerenza con questi princìpi il Movimento Comunità nella sua lotta contro il pauperismo, a favore del pieno impiego, della pianificazione urbanistica, della scuola gratuita, delle borse di studio, dei centri comunitari e culturali, non intende appoggiarsi a determinati gruppi privilegiati naturalmente conservatori che detengono oggi unilateralmente gli strumenti della cultura; ma vuole combattere una battaglia per la cultura e per uno Stato che si appoggi, anche, sulla cultura. Per questa cultura (cultura unitaria, cultura per l'uomo, contro la frammentarietà delle tecniche, e l'unilateralità dei linguaggi specializzati; una cultura in cui sia possibile la sintesi, e in cui risplenda l'amore per la vita), ogni garanzia di libertà deve essere assiduamente cercata. Qualche esempio. Nel campo scolastico, il Movimento Comunità è favorevole all'autonomia disciplinare e didattica degli insegnanti statali, in 10 Proposta di legge n. 2616 del 25 marzo 1952 presentata al Parlamento dai deputati Calamandrei, Rossi Paolo, Mondolfo, Ariosto, Cornia, Belliardi e Cavinato.

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analogia con la situazione auspicata per la magistratura. Nel campo scientifico, il Movimento Comunità è favorevole ad organi di indagine e di informazione tecnico-politici e scientifico-sociali, pubblici ma indipendenti dall'Esecutivo. Nel campo del Servizio Sociale, pur apprezzando e coadiuvando gli sforzi in atto per l'educazione popolare e l'organizzazione del tempo libero, il Movimento Comunità mette in guardia contro il pericolo di inghiottire tutto l'uomo nell'azienda «umanizzata» e nella ricreazione organizzata, ed è favorevole invece al rispetto profondo per la spontaneità e l'interiorità dell'operaio, del bracciante, dell'uomo della strada, anch'essi «persone»11. Proprio sottolineando tale pericolo insito nel regime sovietico, Sidney e Beatrice Webb scrivevano: «È dalla facoltà di pensare nuovi pensieri e di formulare anche le più inattese idee nuove che dipende il progresso futuro dell'umanità»12.

11 A chiarimento del nostro pensiero, e ad evitare interpretazioni «conservatrici» di esso, rimandiamo all'articolo Ricreazione educazione e servizio sociale (v. Ricreazione, anno III, n. 1-2-3, genn.-febbr.-marzo 1951) di Angela Zucconi. 12 In Il comunismo sovietico: una nuova civiltà di Sidney e Beatrice Webb (voI. Il, «Post scriptum» alla seconda edizione, Einaudi, Torino 1950) si dice: «Molto più grave [rispetto ai mali della burocrazia], per il pericolo che può derivarne per il futuro progresso sociale, è la persistenza nell'U.R.S.S. della decisa riprovazione e anche repressione, non della critica dell'amministrazione, che è, pensiamo noi, più persistentemente e più attivamente incoraggiata che in qualsiasi altro paese, ma del pensiero indipendente su problemi sociali fondamentali, su possibili nuovi modi di organizzare gli uomini in società, su nuove forme di attività sociale e nuovi sviluppi del codice di condotta socialmente stabilito. È dalla facoltà di pensare nuovi pensieri e di formulare anche le più inattese idee nuove che dipende il progresso futuro dell'umanità». Ci piace inoltre, a questo punto, richiamare una pagina di Alain (del 1934; ripubblicata dalla rivista francese Federation, luglio 1951): «Viendra-t-il un temps, où la politique ne declamera plus? Il faut l'esperer. On demande à la societe la sûreté, la propreté, la commodité, d'après les règles de la cooperation. Il n'y a pas lieu de gonfler par la rhétorique ces fonctions inférieures. Et quant aux supérieures, la société ne peut. Par exempIe, instruire, la société ne le peut. Elle ne tirera de sa rhétorique propre que quelques phrases misérables qui changeront avec le gouvernement. On en tirera à peine une dictée. Le vrai fonds inéquisable, d'où l'instruction tire ses richesses, est dû à un bon nombre de fortes têtes, de penseurs, de poètes, d'artistes, qui ne furent point soumis à la commune opinion, mais qui au contraire raisonnèrent et chantèrent comme chantent les oiseaux. Ce gran ramage des génies fait ce qu'on nomme très bien les Humanités. On ne demande pas de quelle nation la Bible, de quelle, la géométrie de Thalès, de quelle, le principe d.Archimède, de quelle, l.Iliade, de quelle, Faust, de quelle, Don Quichotte, de quelle, Othello; ces oeuvres, et tant d'autres sont humaines. La nation ne peut nourrir l'homme. Et pourquoi? Parce que les fonctions de sociètè sont importantes, certes, mais basses. Certes, il importe que je ne sois pas dépouillé, empoisonnè, assommé, ou bien attelé comme un cheval; il importe que la peste, le choléra et l'ordure soient balayés; sans quoi je ne penserais guère. Mais si ces balayages et défenses prennes tout le temps, personne ne pensera plus du tout. La première clameur

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Socialismo economico pluralista. 10. - Sul terreno economico, il Movimento Comunità ha rivolto da tempo il suo interesse verso un'economia pluralista, socializzata e non statizzata, che preveda la trasformazione in enti di diritto pubblico delle industrie chiave e la trasformazione delle altre aziende, sia industriali sia agricole, secondo uno schema più volte esposto nella nostra letteratura13. La proposta di Industrie Sociali Autonome (I.S.A.) e le Aziende Agricole Autonome (A.A.A.), la cui proprietà sarebbe divisa tra Fondazioni tecniche e sociali, Regìe industriali degli Enti territoriali e infine le Comunità di azienda, espressione in forma cooperativa dei lavoratori,

fera preuve. La panique et la furereur remédieront aux maux de nature par des maux encore pires, selon la méthode de civiliser qui est si bien dépeinte dans Candide. Et pourquoi l'homme descend si vite au ridicule et à l'odieux, on le comprend très bien. C'est qu'il agit comme société, par masse, par coopération; et cette méthode qui produit de grandes poussées, produit en revanche de très petites pensées. Assurément je dois, si je veux être juste, bénir la société à laquelle j'appartiens, qui m'a donné protection, puissants moyens, loisirs pour apprendre, et la paix, dans les rues; et qu'il y ait incendie ou écroulement, ou tout autre périI, j'y dois courir e j'y cours, afin de rendre à mes semblables ce qu'ils ont fait pour moi. En ce sens je les aime, et je me soumets à leur masse. Mai leur demander ce que je dois penser, non. Leur pensée, autant qu'elle leur est commune, est puérile, fanatique et folle. Ce n'est pas que l'homme de la rue manque de bon sens. Je suis bien loin de le penser; et au contraire j'accepte l'égalité des suffrages; toutefois sous cette condition de prudence que le citoyen soit seul au moment où il decide. Et s'il pouvait alors prononcer d'après sa seule experiénce, tout irait bien. Tout le mal vient de cette fantastique opinion publique qui n'est de personne et que tous subissent. On dit, cela signifie que personne ne dit, mais que tout disent qu'on dit. C'est ainsi qu'on citoyen a confiance par la publique confiance, et défiance par la publique defiance. Les autres font de même et n'en savent pas plus. Comme la publicité vous enfonce un nom dans les yeux et dans les oreilles, ainsi la presse, l'affiche et la radio sont en mesure de créer des paniques et finalement d'imbéciles massacres. Depuis la paix quelles rumeurs n'a-t-on pas lancées? Il me semble toutefois qu'elles ne courent pas longtemps. Le calme revient, et même plus vite qu'on ne l'espérait. Il y a comme un frein invisible qui amortit les oscillations. Preuve qu'on bon nombre de citoyens ont compris la malice, et contrarient d'abord de leur place, et sans crier, toute rumeur qui leur vient aux oreilles. On examinera, soit. Mais il importe premièrement de repousser ce qui envahit. L 'esprit, quand il est digne de son nom, commence toujours par supposer faux ce qu'il se sent porté à croire. J'avais raison de dire que l'Etat n'est pas capable d'énseigner; car il enseignera ce qu'on doit croire. En réalité ce sont les individus qui enseignent, et chacun enseigne en défendant contre la rumeur le plus haut de lui-même. Il y a beau temps qui nos seigneur ont dénoncé l'incrédulité comme le mal des Républiques. Ils criaient avant d'être écorchés. En réalité, les premiers signes de l'incrédulité paraissent à peine. L 'esprit roulé comme Ulysse par la vague, apparaît quelquefois nageant selon sa loi. On est étonné alors de ce sillage qu'on homme libre laisse après lui; mais du reste qu'il ne s'occupe pas de cela. Qu'il soit libre d'abord ». 13 Vedi L'industria nell'ordine delle Comunità, La lotta per la stabilità, Tecnica della riforma agraria, in « Tecnica delle riforme », [Torino], l951; poi in « Società Stato Comunità », Milano, 1952, pagg. 39-69 e 89-106.

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sono esempio abbastanza chiaro del pensiero economico del Movimento Comunità, volto verso una socializzazione che tolga al capitale la preminenza nella proprietà dei mezzi di produzione e ogni possibilità di sfruttamento, ma al tempo stesso lasci un certo giuoco allo stimolo dell'economia di mercato. Questa politica non esclude più ampie esperienze dirigistiche, coordinando il piano economico con i piani urbanistici. Ma le vuole attuate attraverso organi estremamente qualificati, mediante una serie di realizzazioni positive. Mentre quindi da un lato il Movimento Comunità postula per i lavoratori il controllo effettivo delle loro fabbriche ed aziende agricole, si preoccupa dall'altro lato di radicare il più possibile fabbriche e aziende nella vita della Comunità chiamando a partecipare alla proprietà ed alla gestione gli enti territoriali in cui esse operano. Un modello estremamente efficiente di industria autonoma il cui governo venne affidato al binomio cultura-democrazia è rappresentato dalla fabbrica di strumenti ottici Zeiss di Jena. Nel I896 il fondatore Abbe conferì il suo patrimonio azionario ad una Fondazione che divenne proprietaria totale dell'industria. Il Consiglio di Amministrazione della Fondazione Zeiss era nominato dal Dipartimento del granducato di Sassonia-Weimar dal quale dipendeva l'Università di Jena. Si stabilì in tal modo una comunità di interessi tra l'industria, il piccolo Stato e i relativi istituti scientifici che assicurarono per mezzo secolo alla fabbrica un primato tecnico e sociale. Sindacalismo autonomo, servizio e previdenza sociale. 11. -Solo in tal modo, d'altro canto, è possibile avviare a soluzione il problema del sindacalismo autonomo, che secondo il Movimento Comunità è intimamente legato alle soluzioni economiche sopra esposte. La situazione del sindacalismo italiano è oggi, per generale ammissione, tale che le centrali sindacali sono divenute esclusivamente le masse d'urto dei partiti politici che sono asservite ad essi. Il Movimento Comunità crede invece nella possibilità di rinascita di un sindacalismo non solo apartitico, ma profondamente autonomo e al tempo stesso non chiuso nell'esclusivo meccanismo della richiesta di aumenti di salari, ma profondamente inserito nel processo economico produttivo; e ciò con la creazione delle Comunità di azienda, corresponsabili dei servizi sociali e della gestione economica: vere anticipatrici e artefici dello schema proposto di decentramento organico e generale che è sola via concreta ed efficiente di reale liberazione delle masse lavoratrici. E solo in tal modo è possibile avviare a soluzione il problema della democrazia di fabbrica, per cui mediante la vigilante responsabilità delle Comunità di azienda e una più larga autorità, entro l'azienda, degli assistenti sociali, si arrivi a quella salvaguardia della dignità umana dei lavoratori che è ancor oggi uno dei diritti più conclamati ma più calpestati e che è invece, anche sul terreno politico-sociale, da garantire urgentemente. In particolare, il Movimento Comunità è favorevole a una assistenza svolta capillarmente nell'àmbito delle Comunità territoriali - articolata nei centri comunitari e nelle aziende - raggruppata nelle regioni, mentre al centro dovrebbe essere costituito un solo organismo

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nazionale di coordinamento («Ministero dei Servizi Sociali») con puri compiti tecnico-distributivi. Per quanto riguarda la previdenza e le varie assicurazioni sociali, il Movimento Comunità auspica il riordinamento dì tutta la relativa legislazione in un testo unico organico e la contemporanea creazione di un solo Ente pubblico che raccolga in una snella struttura le funzioni oggi esercitate da una pluralità di organismi. Questo Ente pubblico unitario dovrebbe svolgere la sua azione largamente decentrata nelle regioni, attraverso le comunità territoriali e quelle aziendali, destinando eventuali redditi esclusivamente al raggiungimento dei propri fini istituzionali sotto il controllo di una rappresentanza democratica dei lavoratori e delle aziende interessate. Un attento studio dovrebbe essere poi dedicato all'organizzazione proposta dal piano Beveridge e alla possibilità di applicare anche in Italia, compatibilmente con le capacità finanziarie della nazione, una estensione ampia e gratuita dei servizi sociali di più urgente necessità. In vista del raggiungimento di tali obbiettivi il Movimento Comunità sostiene in particolare l'esigenza del riconoscimento giuridico della professione di assistente sociale. Pianificazione e distribuzione. 12. - Ma i più gravi problemi della riorganizzazione della vita sociale ed economica non potranno essere visti e risolti che attraverso un'opera di pianificazione generale e particolare, capace di sostituire alle divisioni e suddivisioni, orizzontali e verticali, per cui oggi le funzioni fondamentali dello Stato appaiono frammentarie e disperse, linee e mezzi di azione unitari ed organici. In questa opera di pianificazione possono essere distinti tre gradi. In primo luogo occorre, infatti, che i grandi problemi della vita sociale e dell'ambiente fisico in cui essa si svolge, siano considerati nelle loro linee più generali al fine di trarne anzitutto i concetti di base, politici, ai quali dovrà conformarsi poi l'intervento operativo. Tale compito potrà essere svolto da un organismo a carattere nazionale, abilitato ad attuare un coordinamento effettivo, delle questioni economiche e tecniche oggi demandate a dicasteri ed enti diversi, a raccogliere cioè in forma unitaria i dati e le rilevazioni e a promuovere gli studi e le ricerche necessari. L 'approntamento degli strumenti tecnici di intervento - i piani veri e propri - e la pratica attuazione degli interventi stessi saranno invece conseguibili soltanto su una scala più ridotta. A questo proposito, la posizione del Movimento si chiama alle proprie premesse ideologiche, l'inverarsi di una civiltà di cultura. Poichè civiltà è sintesi di valori etici, economici, scientifici, artistici, nessuna civiltà può aspirare al suo compimento senza un'essenziale condizione: la costituzione di un'autorità capace di operare la sintesi organica delle molteplici attività che modificano incessantemente la forma di una società ancora sottoposta, per la sua incompiutezza, a profondi squilibri. Tale coordinamento non sarà quindi realizzabile che in piccole unità territoriali, sulla scala della comunità concreta.

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Nell'àmbito della comunità s'inquadreranno, nelle forme più sopra delineate, le attività di carattere economico, sociale, assistenziale ed educativo. E pure nell'àmbito della comunità concreta si svilupperà quello che può essere considerato il terzo grado della pianificazione: la pianificazione edilizia. Condizionata da tutti i fattori sociali della comunità, guidata dalla conoscenza tecnica dei problemi e degli strumenti per risolverli, illuminata dall'intuizione artistica, la pianificazione edilizia costituisce il risultato tipico di una sintesi creativa. Attraverso i tre gradi della pianificazione, l'organizzazione procederà armonicamente nella dimensione cellulare - nella comunità - come in quella intercelluare - in più comunità. Dall'equilibrio interno delle singole comunità, deriverà la possibilità di dare soddisfacente assetto ai rapporti che coinvolgono non soltanto interessi locali e circoscritti, ma più complesse strutture demografiche e territoriali. Legato al territorio e fondato sulla stabilità dell'assetto produttivo, il sistema comunitario cellulare sarà solo apparentemente statico, ma effettivamente dinamico, mosso da forze spirituali, quali la rispondenza alle più generali istanze sociali e l'aspirazione a un costante progresso scientifico. Superando gli schemi della classica economia di mercato, integrandone le finalità di mero reddito con permanenti ragioni di interesse sociale, il sistema garantirà la stabilità delle fonti produttive nell'àmbito della comunità. Resta il problema del coordinamento tra produzione e consumo. Allo scopo sarà indispensabile dar vita a nuovi organismi atti a promuovere una sintesi tra l'economia delle singole unità produttive e le necessità generali del consumo. Tali organismi di coordinamento («Centri Autonomi») saranno, sotto il profilo giuridico, una combinazione fra il trust e la cooperativa, conservando del cartello la caratteristica razionale di centro unitario di distribuzione e assumendo il merito sociale della cooperativa: la sostituzione dell'idea di servizio a quella di profitto. L'amministrazione dei Centri Autonomi sarà congegnata in guisa da coordine produzione, consumo, importazione, esportazione in modo coerente e unitario per tutte le I.S.A. inerenti a una determinata branca. Lo Stato delle Comunità non potrebbe accettare formule esclusive di predominio economico e affidare la direzione degli affari industriali ai soli produttori o ai soli consumatori. Nemmeno la totale integrazione reciproca fra i due estremi del ciclo economico risolverebbe definitivamente il problema della fissazione di un giusto prezzo. La realtà economica sociale è assai più complessa di formule semplici ciascuna delle quali contenga elementi reali, ma unilaterali di valutazione. Perciò lo Stato delle Comunità tenderà, anche in questo, a raggiungere un'unità (controllata) tra: organizzazioni produttive (I.S.A. e A.A.A., nelle singole Comunità); organizzazioni di distribuzione (Centri Autonomi); organi regionali dell'organizzazione economica.

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Così, risalendo la scala dal particolare al generale, la pianificazione inquadra attivamente tutta la vita dello Stato, consentendo di penetrare i problemi della società attuale e disegnando le linee attraverso le quali essa potrà condursi a miglior forma. Da queste premesse si configura l'atteggiamento del Movimento in merito ai problemi più immediati, propostisi nel dopoguerra e già in qualche modo affrontati sul terreno politico. Di fronte a impostazioni di carattere sezionale - che intendano cioè risolvere, non importa su quale scala, uno ed un solo problema - il Movimento non può che esprimere un atteggiamcnto di critica e di scetticismo sulle possibilità di stabili e positive conclusioni. Fondata sulla comunità concreta, dove si trova la base di incontro e di soluzione di quell'intreccio vivente di problemi che condiziona la nostra società, articolata in una visione integrale delle strutture dello Stato, la forma di democrazia auspicata dal Movimento trarrà la sua forza dalla pianificazione, e non ne sarà insidiata. In tal modo e al di fuori dei criteri elettoralistici con cui i partiti hanno sinora improvvisato i loro programmi - sarà possibile avviare a duratura soluzione quei problemi, come la riforma del latifondo, la rinascita della montagna e lo sviluppo tecnico-industriale del Mezzogiorno, che oggi agitano il paese e turbano, nel confuso gioco della «grande politica», una classe dirigente che, nell'incapacità di affrontarli dal profondo, se ne fa strumento demagogico. Condizioni per la riforma agraria. 13. -In particolare, per quanto concerne il dibattuto problema della riforma agraria, il Movimento Comunità conferma l'esigenza già posta in generale: ogni riforma deve consistere in miglioramenti sì produttivistici, ma anche umani, di vita. Non si tratta quindi soltanto di arrivare ad una redistribuzione della proprietà fondiaria e a un miglioramento tecnico dei sistemi di conduzione e di produzione agricola, ma di garantire insieme nuove, più degne e stabili forme di esistenza alla gente della campagna, nuovi proprietari o braccianti che siano. Il panorama agricolo italiano è così frazionato che non si potrà non tener conto, volta per volta, delle situazioni locali. Qui basterà riaffermare che la riforma dovrà mirare: a) in primo luogo, a restituire ai lavoratori della terra la piena dignità e libertà della persona, sradicando quei residui di mentalità feudale, acuti specie nel Mezzogiorno, per cui la grande proprietà fondiaria confina e sconfina in una specie di sovranità; b) a sviluppare un vasto progresso tecnico-culturale degli agricoltori; c) a risolvere i problemi dell'insediamento umano nelle campagne. Ogni sforzo, per essere fecondo, dovrà essere rivolto - attraverso la costituzione di borghi residenziali, centri di servizio, centri comunitari, attrezzature cooperativistiche, ecc. - alla creazione di unità socialmente organiche ed efficienti sul piano della produttività. La struttura delle comunità agricole potrà esser così ricostituita e vitalizzata, aprendosi la via a quella più radicale riforma politico-amministrativa che, in forma compiuta, sarà la sola a garantire la funzionalità dell'intero sistema delle comunità e dello Stato federale

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delle comunità, nel tentativo di superare l'antica e drammatica antitesi fra città e campagna. La scuola 14. - I problemi della scuola italiana possono a nostro avviso ricondursi ai tre seguenti fondamentali: 1) scuola privata e scuola di Stato; 2) scuola e assistenza; 3) scuola e società. Rispetto al primo problema il Movimento Comunità vede, nella situazione attuale, le maggiori garanzie di libertà spirituale e di efficienza didattica nella scuola di Stato, di fronte all'eccessivo moltiplicarsi di scuole private, molte delle quali a carattere angustamente confessionale, spesso di dubbia serietà professionale, frequentemente strumento delle categorie privilegiate. Il Movimento Comunità non ha alcuna pregiudiziale in proposito, e non contrasta alla più ampia libertà per la scuola privata, purchè non finanziata, direttamente o indirettamente, da fondi statali. Devono inoltre a questo proposito essere chiarite due cose : a) il Movimento Comunità, si è detto, è favorevole alla scuola laica: ma il laicismo non è inteso come una nuova (più potente) religione, ma come un metodo di lavoro, il più rispettoso delle libertà individuali14.

14 « S'intende parlare di un laicismo inteso come adesione al metodo della non-violenza, del rispetto, dell'amorevole persuasione, quale si conviene a tutti coloro che - trascendentisti o immanentisti - credono che non sia altrimenti proponibile una vita spirituale, in cui si affermi il valore della persona umana. Alla radice di un conseguente spirito laico non c'è necessariamente una "religione della libertà", in cui alla verità trascendente o almeno metastorica si sostituisce una veritas filia temporis: c' è posto fra i laicisti sia per gli storicisti che per i non storicisti. Questo spirito laico è proprio di tutti coloro che sono, comunque, vivamente preoccupati di interrogare sempre la propria coscienza; che ritengono la ragione un dono "divino" da difendere in ogni caso; che vogliono essere persuasi e non violentati (sia pure in senso puramente psicagogico); che non sono aridi di cuore, amano il prossimo per se stesso e non vogliono fare "della virtù a spese del prossimo" - per usare parole di don De Ménasce (articolo "Fede, speranza e carità", nella rivista Studium, aprile 1951) -; che sentono necessità di questo prossimo per la vita della propria coscienza e della propria intelligenza, le quali finirebbero per rattrappire in un mondo di sole cose o di soggetti da intendere come enti puramente ricettivi; che non sono, allora, meno assetati di giustizia che di libertà. È chiaro che per tutti costoro le varie istituzioni della vita associata, lo stesso Stato, il diritto, i partiti, la scuola, ecc., hanno un valore strumentale - il che non implica un loro avvilimento, ma l'attribuzione di un valore semplicemente parziale. Ciascuno, per mutua consolazione o per un ascolto corroborante, tenderà sovente a incontrarsi con uomini della stessa vocazione o della stessa fede: ma in questo mondo così ricco di fratture dobbiamo moltiplicare le occasioni di lavorare insieme agli "altri "; per mostrare loro, col "modo" di lavorare, il grado di profondità e il senso della nostra fede, e per intendere, sotto l'altrui professione di fede, l'impegno morale che la sorregge, l'amore e il dolore che la alimentano». (Umberto Serafini, da una conversazione al Centro culturale di Comunità di Roma, nella serie Laicismo e non laicismo organizzata dal «Movimento internazionale di unione e fraternità»).

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b) in linea generale, sul terreno degli ordini politici e nell'àmbito dello Stato comunitario, sempre in conformità con i criteri generali della sua azione politica, il Movimento Comunità pensa a una scuola largamente decentrata, più intimamente legata alle Regioni e alle Comunità, e richiede l'autonomia didattica e disciplinare dell'ordine degli insegnanti statali. Passando all'assistenza, in linea preliminare si osserva che il rendere operante l'art. 34 della Costituzione della Repubblica Italiana15 è questione di elementare coerenza, in una nazione dove - sin dall'unità - si è pur riusciti a organizzare un'attrezzatura militare e a imporre una coscrizione «obbligatoria e gratuita» , anzi retribuita, e dove si sono sollecitati più volte tutti i cittadini ad accettare la responsabilità di morire per la collettività. La situazione della scuola, specie nelle regioni depresse, possiamo tranquillamente affermarlo, è disastrosa. Oltre tutto non si è riflettuto neanche all'altissimo reddito, in relazione alla produttività dell'economia nazionale e agli effetti della lotta contro la disoccupazione, delle somme impiegate per la scuola, scuola di base e scuola di qualificazione professionale. In particolare, tra le misure d'emergenza si chiede una rivalutazione dei patronati scolastici e un aumento radicale dei loro fondi. Inoltre - e a ciò annettiamo molta importanza - l'assistente sociale deve essere introdotto nella scuola, dove avrà la possibilità di mettere l'insegnante di fronte ai problemi collettivi della sua scolaresca e di legare molto di più di oggi la scuola a fatti economico-sociali dell'ambiente, da cui oggi è in pratica assente. Egli sarebbe quindi uno degli strumenti del necessario rinnovamento della scuola, che deve avviarsi a divenire il nucleo attivo e vitale di ogni centro comunitario16. Naturalmente sorge la parallela esigenza di dare incremento a scuole di

15 Costituzione Italiana, art. 34. « La scuola è aperta a tutti. L'istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso». 16 « Laddove la realtà di un profondo e operante progresso sociale è stata raggiunta attraverso una pianificazione urbanistica integrale -nell'Inghilterra - la scuola ha determinato l'unità dimensionale dei piani urbanistici. L'"optimum" di funzionalità di una scuola serve a stabilire qual è l'"optimum" delle dimensioni dell'unità residenziale. La scuola è la base e la misura dell'intero centro abitato. I vari tipi di scuole caratterizzano i vari tipi di unità residenziali : l'"unità-vicinato" (composta di 1.000-1.500 abitanti) comprende il nido d'infanzia; l'unità-borgo (4.000-7.500 abitanti) il nido e la scuola elementare; l'unità-distretto (20-30.000 abitanti) l'asilo, le elementari e le scuole medie di tutti i gradi. «Ma non si tratta solamente di questo. La scuola elementare e la scuola media sono destinate ad essere i centri attivi dell'intera comunità. Il complesso scolastico, situato in posizione centrale, come cuore dell'intero dispositivo urbanistico, comprende sale di riunione, biblioteca e locali per la ricreazione ed i giuochi. Intorno, nella zona verde. di rispetto, sono sistemati i campi e le attrezzature sportive. Non

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servizio sociale, laiche e a indirizzo largamente pratico, volte a creare assistenti specializzati nel servizio di comunità. Questa è, a nostro avviso, l'unica via maestra (e qui ci riferiamo al terzo punto da noi suggerito) per avviare a soluzione il problema della cultura nella democrazia che i partiti politici, ormai divenuti puri strumenti di ideologia, si sono dimostrati incapaci a risolvere. Ogni iniziativa attuale in senso decentrativo (cooperative scolastiche, biblioteche popolari, ecc.) è vista con favore dal Movimento Comunità; ma si deve porre una pregiudiziale molto netta. Il problema vero non è tanto quello di «divulgare» la cultura, di operare uno spostamento della cultura tradizionale a favore delle classi popolari; bensì quello, ancora non affrontato se non da esigui gruppi isolati, di una cultura moderna, capace di operare efficacemente nella società in cui viviamo e di contribuire alla chiarificazione dei suoi problemi economico-sociali. In questo àmbito, tra la scuola e il mondo del lavoro, la tradizione e le nuove esigenze economiche, ecc., esiste oggi una frattura profonda e irragionevole che deve al contrario essere sanata. Come è stato detto, «accanto all'umanesimo classico si deve formare l'umanesimo moderno». E nell'annosa querelle tra scuola formativa e scuola informativa ci pare si debba concludere per l'autentica scuola di libertà: che vuol dire capacità di azione autonoma nel proprio ambiente. La rappresentanza politica nello Stato federale. 15. - Riguardo infine al problema della regione, sono ormai molti disposti a riconoscere che esiste in atto in Italia una grave crisi del sistema di rappresentanza politica, ma non si vede al contrario alcun tentativo per approfittare della nuova legislazione regionale per

soltanto la scolaresca iscritta è chiamata a fruire di questi servizi; l'intera comunità trova nel complesso scolastico il suo luogo d'incontro e il fulcro di ogni forma di vita associata. «Il legame fra scuola e città è di carattere organico. La vitalità di un complesso scolastico dipende dalla vitalità dell'unità cui appartiene. Il servizio che la scuola è chiamata a rendere alla comunità può essere determinato solo avendo ben presenti le caratteristiche funzionali della comunità. In tutta l'edilizia scolastica italiana si è sempre trascurato questo aspetto fondamentale. L 'edificio scolastico è tradizionalmente inteso come un insieme di aule, completato da pochi uffici, da una palestra, da impianti igienici più o meno completi e, nei casi migliori, da un giardino. Spesso ci si limita alle aule, agli uffici e ai gabinetti. La causa di queste manchevolezze non è sempre la povertà di mezzi finanziari o la colposa inosservanza delle norme regolamentari. Quando si perde la vera funzione della scuola in tutto il complesso urbanistico, si può anche rinunciare a cuor leggero a questo o a quel Il servizio»: l'essenzialità di esso diventa materia opinabile. «Concludendo, bisogna aver chiaro soprattutto un punto: il problema dell'edilizia scolastica non è un mero problema quantitativo; nè è soltanto un problema di buona o cattiva architettura. Per risolverlo, occorre trasferirlo sull'unico piano cui attiene, sul piano urbanistico» (Riccardo Musatti, relazione Scuola e urbanistica tenuta al XIV Congresso Nazionale della Federazione Nazionale Insegnanti Scuole Medie, Roma 13/15-III-1952, e riportata negli Atti, editi, sotto il titolo «La parola della scuola», a Torino dal periodico L'eco della scuola nuova).

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vincere tale crisi. Di fronte ai regionalisti massimalisti, la cui posizione può essere in realtà pericolosa per l'unità nazionale, il Movimento Comunità intende la regione anzitutto come strumento di decentramento statale e di autonomia e non di arbitrario particolarismo. Gli statuti regionali devono essere anzitutto uniformi allo scopo di ricondurre attraverso la pluralità di organismi periferici alla unità dello Stato. E infine, è impossibile pensare all'efficacia della Regione se prima non si sia provveduto a una riforma della legge comunale e provinciale, per cui le Province opportunamente aumentate di numero secondo le naturali esigenze territoriali (Comunità), abbiano ampi poteri esecutivi e divengano a loro volta concreto strumento del decentramento regionale (per es. la riunione delle Giunte Provinciali dovrebbe costituire di per sè il Consiglio Regionale). È nota la struttura funzionale che, secondo il pensiero del Movimento Comunità dovrebbe avere la rappresentanza politica in seno alla Comunità, e l'organica compresenza delle tre fondamentali forze sociali, lavoro, cultura, democrazia. L'idea di rappresentanza economica e sindacale è ricondotta al principio territoriale - insostituibile garanzia democratica - e a una sua intima connessione con l'orientamento politico della popolazione. In altre parole, ogni rappresentanza tecnica è sottoposta a una direzione e a un giudizio politico. Gli amministratori di una Comunità (presidenti di divisione) ne diventano i suoi naturali rappresentanti. Si delinea così l'idea di una rappresentanza pluralista ben più ricca di valori di una rappresentanza formata da un'unica persona, caratteristica del collegio uninominale; o di quella rappresentanza dissociata dalla vita locale che è caratteristica di un regime di rappresentanza proporzionale. Gli amministratori delle Comunità saranno designati con particolari procedimenti atti a garantire l'equilibrio fra le forze della cultura, le forze del lavoro e le forze democratiche propriamente dette. Si può pertanto considerare che l'insieme regionale dei Presidenti di Divisione rappresenti la sovranità nella Regione, e l'insieme nazionale rappresenti la sovranità nazionale. L'idea di sovranità e di rappresentanza si trasferisce così dalla primitiva affermazione del Contratto sociale che la commetteva al popolo, inteso astrattamente, a un corpo numeroso e qualificato che rappresenta una nuova classe politica - radicalmente aperta - dalla quale emanerà l'intero potere dello Stàto. Stabilendo il caposaldo fondamentale che la rappresentanza della nazione risiede nel corpo costituito dall'insieme totale dei Presidenti di Divisione, si può con facilità dar luogo a un Parlamento moderno, che esprima con grande approssimazione la volontà del Paese e che nel contempo sia dotato di una grande efficienza. L'insieme dei Presidenti di Divisione di Comunità rappresenta il corpo politico dal quale, giocando come in una scacchiera, si può con facilità raggiungere la formazione dei nuovi istituti. La camera bassa potrà essere concepità come un'assemblea di secondo grado mandataria di ciascun Consiglio regionale in modo proporzionale a ciascuna funzione politica e alla popolazione di ciascuna Regione.

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Senza rispettare questo criterio si creerebbe un'assemblea disarmonica con un eccesso di componenti in taluni dei rami della pubblica amministrazione e con una carenza di componenti in altri rami; si turberebbe infine quell'equilibrio tra forze del lavoro, valori della cultura e istituzioni democratiche che abbiamo indicato come necessario per garantire la stabilità della nuova costruzione. L'elezione di secondo grado è l'unico dispositivo democratico atto a raggiungere questi fini. Non vi sono altre alternative. La seconda camera avrebbe: la stessa base elettorale costituita dai Presidenti di Divisione di Comunità. Tuttavia, mentre per eleggere i deputati della prima camera, essi si raccolgono per Regione, nel dar luogo alla seconda camera essi si raccolgono in collegi nazionali divisi per funzione. Si ottiene in questo modo una camera altamente qualificata, ma che tuttavia ha le identiche radici democratiche della prima camera. La seconda camera, pur rispettando i valori personali, garantirebbe la rappresentanza delle minoranze e l'affermazione di valori nazionali. Nessun altro modo di costituire una camera funzionale sàrebbe legittimo da un punto di vista democratico. La coerenza del sistema e la possibilità di una soluzione definitiva del problema, derivano dall'aver ricondotto, sin dall'origine, ciascun rappresentante funzionale allo stesso e identico principio territoriale. Stato e Chiesa. 16. -Circa i rapporti fra Stato e Chiesa, gli accenni sopra fatti al laicismo come è inteso dal Movimento Comunità, alla distinzione fra politica culturale e politica della cultura, al rapporto fra persona e società nella politica di educazione e di assistenza saranno valsi a introdurre al nostro pensiero in argomento. La soluzione deve presentarsi come tale da permettere al cittadino di essere interamente religioso, interamente rispettoso del suo proprio credo (senza remore, scrupoli o riserve mentali) ed interamente rispettoso e leale verso lo Stato. Lo Stato, insistiamo, deve conservare un valore esclusivamente strumentale, là pure dove i suoi interventi sono molteplici: esso serve a dare (anche mediante il giusto uso della forza) organizzazione pacifica alla società, tendendo, al limite, a sostituire a una società dove prevalgono la potenza e il privilegio una società che - modificando l'espressione kantiana - potrebbe definirsi come il regno delle vocazioni. Nei rapporti con la Chiesa, con qualunque società culturale o spirituale, e con le persone singole, lo Stato conserverà questa posizione di estrema modestia. E tuttavia dovrà essere di una estrema severità nella tutela del suo còmpito modesto; vietando ogni clericalizzazione della funzione «naturale» che è chiamato a svolgere («date a Cesare...»), impedendo senza eccezioni che qualunque società, culturale o spirituale, ceda alla tentazione di sostituire le conversioni per imperativo della coscienza con le conversioni per prudenza terrena. Questi punti non esauriscono evidentemente il panorama politico italiano, né il programma del Movimento Comunità. Alcuni di essi, nell'evolversi delle situazioni

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politiche, potranno anche dimostrarsi contingenti e suscettibili di revisione. In ogni nostra affermazione, accanto ad una convinzione profonda, c'è un largo margine di invito alla discussione e al dialogo. Ciò che tuttavia rimane costante in queste pagine è la volontà di stabilire con molta fermezza le finalità fondamentali e certe della nostra azione politica, la metodologia che noi riteniamo essenziale ad ogni lotta politica che non voglia esaurirsi nel compromesso o nell'avventura. Noi confidiamo quindi che ne risultino chiari i criteri informativi della nostra azione volta all'autonomia delle comunità nell'àmbito dello Stato federale, e volta alla soluzione dei problemi umani (di libertà, di dignità personale, di solidarietà sociale) come preminenti su ogni altra considerazione politica. Così sarà chiaro che il Movimento Comunità si batte per una politica economica di pieno impiego, per una riforma tributaria impostata sulla tassazione esercitata sul reddito e non sul consumo, per una politica edilizia inquadrata in una integrale politica di pianificazione urbana e rurale che sappia utilizzare, oltre alle sempre limitate risorse finanziarie, quelle offerte dalla capitalizzazione del lavoro (utilizzando, ad esempio, per l'edilizia rurale, il lavoro potenziale non esercitato dai contadini nei mesi invernali e nei lunghi periodi di sottoccupazione), per una politica di difesa del consumatore, quindi a favore delle cooperative, dei piccoli consorzi, delle iniziative locali contro i mastodontici consorzi politici burocratizzati, e così via Per una vita politica più vicina ai reali bisogni e alla misura dell'uomo.

OSSERVATORIO

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Osservatorio - 1 INFORMAZIONE: POTERE DI COSTRUIRE VERITA’? Claudio Fracassi, storico direttore della coraggiosa rivista Avvenimenti, definisce la notizia come innanzitutto “una costruzione umana, un prodotto culturalmente determinato” e aggiunge che, “tecnicamente parlando una notizia è un rapporto per un pubblico su un avvenimento”; lo stesso Fracassi, paragona l’informazione a “una finestra aperta che ci da un’inquadratura, una prospettiva particolare e forse distorta.” Un esempio spesso citato è costituito da un clamoroso falso giornalistico che riuscì ad ingannare il mondo intero costituito dai fatti di Timosoara nel 1989, raccontato negli anni successivi dal giornalista Paolo Rumiz (nel suo libro “Maschere per un massacro”) , dallo stesso Fracassi (nel testo “Le notizie hanno le gambe corte”) e definito da Ignacio Ramonet, direttore di Le Monde Diplomatique: “ il più grande inganno mondiale dopo l’invenzione della televisione” Nei giorni del Natale 1989 una terribile notizia fece il giro del modo. Durante la rivoluzione rumena, nella città di Timisoara era stato compiuto un orribile massacro. A prova della tragedia il ritrovamento di fosse comuni con 4632 cadaveri di persone mutilate e torturate. La prima fonte della notizia era anonima: un non meglio identificato “viaggiatore

cecoslovacco”, i cui racconti erano stati riferiti dall’agenzia di stampa ungherese Mti, poi dalla televisione di Budapest e dalla radio di Vienna. Questo accadde una domenica, il 17 dicembre 1989, dunque in un “giorno di disperata carenza di notizie (e di rilassate distrazioni) nelle redazioni giornalistiche di tutto il mondo”. Complice il fatto che il venerdì precedente si erano effettivamente verificati “scontri sanguinosi tra i manifestanti e la polizia di Ceausescu”, le cronache del lunedì successivo informarono de ”l’orrendo massacro”. Nei giorni seguenti la notizia, assolutamente priva di riscontri oggettivi si impose sui mezzi di comunicazione del pianeta, a partire dalle emittenti dell’Est europeo fino a diventare “una verità assodata e indiscutibile come il sole che sorge ogni mattina”. La fonte della notizia rimane vaga e in ogni modo anonima, mentre la cifra degli assassinati e quella degli arrestati salgono sempre di più fino ad assestarsi rispettivamente a 4.600 e 13.000 proprio quando dalla

Francesco Lauria Presidente Europa Plurale –

Movimento per un Federalismo Globale

Claudio Fracassi, storico direttore della coraggiosa rivista Avvenimenti, definisce la notizia come innanzitutto “una costruzione umana, un prodotto culturalmente determinato” e aggiunge che, “tecnicamente parlando una notizia è un rapporto per un pubblico su un avvenimento”

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televisione ungherese arriva la drammatica conferma del massacro: le immagini delle fosse comuni di Timisoara in cui i cadaveri, appena esumati e ancora parzialmente ricoperti di terra, erano allineati alla luce delle torce elettriche; tutti i corpi riportavano i segni delle torture e delle mutilazioni. Icona del massacro divenne il corpicino di una bimba che giaceva su quello di una donna, probabilmente la madre, con una lunga ferita sul torace. Il fatto davvero sconvolgente fu che, una volta arrivati a Timisoara gli inviati dei maggiori giornali, mancò un “accertamento dei fatti e delle cifre”. Solo in seguito, “quando si spense l’ubriacatura mediatica”, pochi giornali fecero sapere quanto era accaduto in realtà. In totale le vittime degli scontri a Timisoara erano state poche decine, le immagini messe in onda dalla televisione ungherese erano state girate nel cimitero dei poveri e quelli riesumati erano i “corpi di sventurati barboni, alcolizzati emarginati, sepolti nei mesi precedenti senza cassa e senza croce dopo una rapida autopsia”, causa della ferita sul torace dei cadaveri interpretata dai reporter come conseguenza delle torture. Il corpicino icona del massacro era quello di una bimba “deceduta per congestione, a casa sua, a due mesi e mezzo di età, il 9 dicembre 1989”, mentre quello della donna con la lunga ferita sul torace era di “una anziana alcolizzata morta di cirrosi epatica l’8 novembre”. Si tratta ovviamente di un esempio tra i tanti e oggi forse, con l’avvento di internet e dei weblogs informativi diffusi su scala planetaria, un inganno di queste dimensioni sarebbe stato più difficile da realizzare, anche se non possiamo esserne certi. Padre Giulio Albanese, per molti anni direttore dell’Agenzia Missionaria Misna (Missionary Service News Agency, un'agenzia d'informazione specializzata sul Sud del mondo) ci ricorda un altro aspetto del problema della manipolazione dell’informazione: “in realtà soltanto in piccola parte il fatto è la fonte diretta della notizia perché tra la fonte primaria, ossia l'insieme inesauribile degli accadimenti, e chi deve compiere l'operazione inesauribile di selezione e codifica l''industrializzazione del processo produttivo dell'informazione ha frapposto una rete organizzata di strutture denominate agenzie di stampa. Sono loro le vere "signore dell'informazione" che dettano le regole del gioco.” I criteri di selezione delle notizie, dopo tutto, non hanno purtroppo nulla a che vedere con i valori sociali, culturali e professionali dei singoli giornalisti; oggi, infatti, non sono i giornalisti che cercano le notizie, ma, quasi sempre, sono le notizie che cercano i giornalisti e il discorso vale ancor di più per il Sud del Mondo, dove il predominio delle agenzie di stampa è ancor più accentuato. Altro tema che qui non è possibile approfondire, è costituito dalla manipolazione pubblicitaria e dalla creazione continua e surrettizia di nuove necessità di

Oggi non sono i giornalisti che cercano

le notizie, ma, quasi sempre, sono le notizie che cercano i giornalisti e il discorso vale ancor

di più per il Sud del Mondo

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consumo. Ma emerge un ulteriore aspetto, che il sociologo Marco Deriu, ha studiato a fondo in particolare nel suo testo “L’illusione umanitaria”. Deriu ci fa notare che, in particolare le recenti operazioni belliche, possono contare su un consenso "virtuale" e "mediatico" che impoverisce enormemente la qualità della democrazia. D'altra parte è importante mostrare in maniera approfondita come operazioni militari e operazioni umanitarie non siano affatto modalità di azione in sé contraddittorie, ma al contrario come oggi rappresentino diverse facce della stessa medaglia e come in verità siano necessarie le une alle altre. Da questo punto di vista l'ideologia umanitaria che si è andata affermando negli ultimi anni svolge una funzione fondamentale nel creare consenso attivo o passivo ad una strategia politico-militare. Mass media, democrazie virtuali, organizzazioni umanitarie, apparati militari, sembrano in fondo incontrarsi per stringere un comune patto segreto: quello di anestetizzare, contenere e controllare tutte le forme di alterità, tenendole alla maggiore distanza possibile da noi stessi. In Italia, l'articolo 21 della Costituzione sancisce la libertà di informazione per tutti e il libero uso dei mezzi di informazione. In realtà l'informazione è libera solo per coloro che hanno la proprietà dei mezzi. Di fatto non si può fare libera informazione se non si hanno anche parallelamente mezzi e professionalità per esercitarla . E il caso del nostro paese, tra conflitti di interessi, concentrazioni antipluralistiche e occupazione pluridecennale e bipartisan del servizio pubblico da parte dei partiti politici, è fra i più compromessi. In conclusione, senza voler screditare in toto la classe giornalistica, e ricordando il sacrificio di tanti valorosi professionisti dell’informazione (da Antonio Russo, ad Ilaria

Alpi, da Maria Grazia Cutuli ad Enzo Baldoni e così via..) è importante tenere sempre presente la cornice e gli effetti del potere dei media, un sistema che il noto giornalista Ennio Remondino, definisce “senza regole”. La sfida è la costruzione di un’ informazione dal basso ed il fare rete per dare ad essa la possibilità di esistere. L’esperienza di alcuni network come Misna, Peacelink e, sul caldo fronte dell’informazione interculturale e dell’immigrazione, MigraNews, costituisce un importante segnale di speranza, un’opportunità per tutti di raggiungere quell’ informazione che non c’è e di cui la nostra democrazia ha enorme bisogno per non diventare sempre più una democrazia di carta.

L'ideologia umanitaria che si è andata affermando negli ultimi anni svolge una funzione fondamentale nel creare consenso attivo o passivo ad una strategia politico-militare.

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Osservatorio - 2 ERTO 2004/2005/2006 A settembre del 2004 finì la Carovana della Pace proposta dagli Istituti Missionari Comboniani, alla quale avevo partecipato e che mi aveva portato fra le realtà di margine del Sud Italia. Ad ottobre, la mia voglia di affrontare la ricerca di uno stile di vita non falsamente semplificato e la voglia di affiancare contesti dove si sono sviluppate logiche di oppressione, mi portò ancora fra le montagne… in un luogo dove si poteva incontrare una comunità che aveva sofferto a causa dell’ingiustizia e che ancora poteva testimoniare memoria di essenzialità… volevo esserci quotidianamente, così scelsi Erto… nella valle del Vajont. Luogo oltre… nel senso che, oltre le acque sconvolte e i morti, qui si è tornati… qui si è rimpastato il pane. Qui si è vissuto in solitudine, fra i pochi, la storia da dentro. Da dopo il disastro queste comunità, sono state sempre più raggiunte dall’ingiusta menzogna e di conseguenza dalla profonda agonia e infine dalla rabbia che essa genera. Dopo quella notte dell’ottobre del 1963, si alza la nebbia ogni mattina nella valle del Vajont. Fenomeno che avviene quando cambiano le stagioni, ma anche d’estate o d’inverno dopo le piogge, che mi sembrano ancora lacrime dal cielo, imponenti ma brevi o prolungate ma fredde. Nebbia densa, che copre la valle e che lambisce l’abitato di Erto. Sembra un lago bianco e soffice, ricorda il passato, partendo dal momento della tragedia fino ad arrivare

alle epoche dei ghiacci in massima espansione, diciottomila anni fa (questa nebbia infatti simula volumetricamente e spazialmente il ghiacciaio wurmiano come anche ricorda il lago del Vajont ). Vita della morte… anche se qui la vita è ormai confusa alla morte, lo spartiacque è ancora poco netto. Non sono di certo Mauro Corona, il Vajont, le Gaie (due anziane donne ertane che vivono insieme per lo più come vivevano le loro nonne, donando empatia al ricordo dalla parte della vita più che della morte) e il romanticismo selvatico a rendere Erto ciò che è, Erto è… ma è anche: Mauro Corona, il Vajont, le Gaie e il romanticismo selvatico… e molti uomini e donne che meriterebbero di essere incontrati, ma anche lasciati in Pace… perché riescano ad essere uomini e donne di Pace. Dopo la Carovana della Pace, eccomi qui, in luoghi che ancora contengono le conoscenze utili a praticare stili

Dopo quella notte dell’ottobre del 1963, si alza la nebbia ogni mattina nella valle del Vajont. Fenomeno che avviene quando cambiano le stagioni, ma anche d’estate o d’inverno dopo le piogge, che mi sembrano ancora lacrime dal cielo, imponenti ma brevi o prolungate ma fredde

Emiliano Oddone

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di vita alternativi, dove non si è consumata del tutto l’ingiustizia, e dove le persone provano a resistere anche se appesantite dalla violenza subita… stentano a per-donare, a fidarsi e ad accogliere ma sembra anche che vogliano per-donare, fidarsi e accogliere. La gente qui ha sete di acqua buona. Qui, infatti, nonostatnte io sia un “togno” (straniero in ertano), laureato in Scienze Geologiche (aggravante), difficilmente catalogabile perché controtendenza etc., gli ertani mi per-donano, si fidano di me e mi accolgono… non tutti, ma molti, dai giovani ai vecchi, uomini e donne. Sono ancora vivi e si sentono di dover raccontare di quei passaggi storici, di quelle persone… come di chi viveva nelle zone espropriate, mentre la SADE realizzava l’opera dello “sviluppo”. Quelli che subirono gli espropri cedettero a promesse che davano garanzia di una casa altrove, ricostruita dalla onnipotente SADE. Ma il soggetto del “benessere” promesso non era la gente, bensì un modello. Tutti hanno voglia di parlarne, chi con la rabbia, chi con la conoscenza, chi con il rifiuto o con il silenzio (perché, “un buon tacere non fu mai scritto”). Incontri… tipo quello con l’Osvalda, che mi racconta la storia della famiglia Filippin, ad esempio. Erano in otto, e si sono spenti tutti assieme quella notte, non avevano beneficiato della promessa e si trovavano a vivere in una casa che sorgeva scomodamente nella fascia di sicurezza segnata per sempre dalla SADE. C’è un grande “potere” nelle mani di chi disegna cose su topografiche rappresentazioni del territorio. I potenti proposero l’esproprio con la promessa di una riedificazione in zona sicura che non si realizzò. La notte nel 9 Ottobre 1963, morirono lì… forse, se le promesse della SADE fossero state veritiere, questa gente si sarebbe salvata. Nessuno riconobbe questa responsabilità… e molte altre vennero travestite o tralasciate. Questa “mia” gente è ancora in grado di testimoniare, nonostante i 40 anni di oscurantismo sulle verità del Vajont… i collusi con i poteri hanno tentato in tutti i modi di cancellare la Memoria… facendo sentire chi l’attende, come un pazzo sovversivo fuori di senso. Questa mia gente ricorda ancora… ed è per questo che è ancora viva… ed è per questo che mi

sento di chiamarla “la mia gente”, perché anch’io non so dimenticare le cose e le persone incontrate in questi anni. La Giotta , una bambina di 85 anni, che ricorda tutto di quando faceva l’ambulante, in tempo di guerra, quando i tedeschi rastrellavano gli italiani (8 settembre 1943), lei era a Bressanone che si preoccupava di raccogliere nomi e indirizzi, a volte degli oggetti degli alpini di 20 anni che venivano caricati sui treni pronti alla deportazione… si prese l’incarico di far avere notizie ai parenti… passava anche cibo, di nascosto dai tedeschi. Lì ha imparato il valore della carità, lo Spirito l’aveva preparata, perché poi la sua vita le avrebbe richiesto ancora attenzioni per gli altri… ancora pratica instancabilmente questo intendimento, ed è piena di

Questa mia gente ricorda ancora… ed è per questo che è ancora viva… ed è per questo che mi sento di chiamarla “la mia gente”, perché anch’io non so dimenticare le cose e le persone incontrate in questi anni

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attenzioni anche nei miei confronti… in cambio, elemosina dignitosamente, solo un po’ di compagnia e di ascolto… Forte è, comunque, la sensazione della diffidenza che questi feriti dalla storia, ti buttano addosso quando ti incontrano. Una diffidenza motivata… anche in Africa o potuto accorgermene… diffidenza motivata dalle vicissitudini subite… ma pur sempre diffidenza. Motivata, come quando queste fiere genti dei puri monti, vedono arrivare il popolo della città, da diverse parti, o meglio, vedono arrivare l’Altro (il “togno”= lo straniero) ormai così distante, ma voglioso, spesso feticisticamente, di capire il Vajont, attraverso una visita di qualche ora susseguita ad un eco televisivo. Motivata, perché il ricordo di chi venne, con modi e metodi alieni, e che iniziò il “Vajont”, è ancora vivo. Inevitabile, perché la gente qui è viva. “Togni” incuriositi e distaccati tanto da essere in grado di escludere, pensando di includere auto-invitandosi… visualizzando le persone del posto come icone, rientranti nel pacchetto turistico. Sembrano divertiti nello spersonalizzare, così forse pensano di rendere le persone del posto controllabili, impacchettabili, catalogate come la più o meno scarsa sensibilità configurativa desidera. La gente del Vajont, quindi si sente controllata, usata, non incontrata. Sono ormai capricci anche le rappresentazioni della realtà. E’ vero… scarsa è la partecipazione dignitosa capace di donare dignità… Ma come fare, se non c’è tempo di temporeggiare, ed ascoltare… c’è bisogno del tempo per non tremare nella banalizzazione. Come non capire i miei fratelli e sorelle ertani, quando ho ancora vivo sottopelle l’amore speso per quegli africani, anch’essi visualizzati da sguardi di bianchi curiosi, etnici e capricciosi, che sanno vedere senza fare dono di dignità... dunque senza guardare! Svuotati nell’incontro si sfocia nella diffidenza o nell’uso utilitaristico dell’Altro. Negri e Bianchi. Montanari e cittadini. Ricchi e poveri. Indigesta questa diffidenza, sia in Africa che qua a Erto, indigesta anche questa banalizzazione umana dell’incontro… d’immagini e non di persone con pari dignità. Anche perché, il rischio è sospendere nella generalizzazione, un popolo dalla propria storia. Come fare quindi a r-esistere a questa indigestione banalizzante fondata sulla diffidenza che genera diffidenza? Tutti partecipiamo… quindi come r-esistere, come curarsi? Io sono “togno” e sono qui, trattato come tale. In passato sono sempre stato “togno”… ovunque mi trovassi… in Africa ero “Mzungo”…ma ho anch’io trattato gli altri, in varie circostanze, come “togni”. L’aria o l’acqua, ci sono

Come non capire i miei fratelli e sorelle ertani, quando ho ancora vivo

sottopelle l’amore speso per quegli africani,

anch’essi visualizzati da sguardi di bianchi

curiosi, etnici e capricciosi, che sanno

vedere senza fare dono di dignità... dunque

senza guardare! Svuotati nell’incontro si sfocia

nella diffidenza o nell’uso utilitaristico

dell’Altro. Negri e Bianchi. Montanari e

cittadini

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concesse e donate, ma la supponenza a volte, ce le fa sentire come qualcosa di scarsamente sacro e di molto scontato… motivo di perenne indigestione… diritto, non grazia. Fortunatamente il tempo vissuto nella Valle del Vajont non è stato un tempo di solitudine, infatti, oltre alle Gente del posto, ho avuto come compagni di cammino anche quattro amici, che poi sono diventati cinque. La nostra piccola comunità era costituita da Christian, Alessandra, Michele, Raffaella e Gianfranco. Siamo arrivati qui circa due anni fa, con l’opportunità iniziale, di perseguire un progetto proposto da un prof. universitario, che voleva instaurare un Ecomuseo in Val Vajont, facendo leva sui concetti di memoria e di continuità di vita… Il progetto ecomuseale in divenire, ci è sembrato inquinato da ciò che porta all’esclusione ed alla divisione (logiche amministrative, accademiche, politiche di autorappresentanza), sicchè l’abbiamo prima combattuto, poi, ci siamo dissociati e con-centrarti su altro. Ci siamo fatti comunque pro-vocare in modo serio dalla parola ecomuseo. Il suffisso “eco” ci ha spinto a riflettere sul senso dell’ “Abitare” e di “Farci Abitare” da questo luogo in senso profondo. Inoltre, vedendo comparire nel progetto la parola “partecipazione”, spesso ripetuta, ci è venuto spontaneo decidere di abitare questo luogo cercando di sottolinearne gli aspetti più tipici (memoria) e scegliendo inoltre di partecipare alla vita comunitaria (continuità di vita)… questa visione derivava dalla necessità di non incappare nella facile e già vista tendenza a non considerare le persone e il contesto, calando le soluzioni in modo scollegato e soprattutto “dall’alto”. Perciò abbiamo deciso di abitare una casa del paese vecchio, in tre inizialmente. La scelta successiva è stata quella di lasciare la porta più aperta possibile agli ertani e a chi, attirato dall’esperienza, veniva dall’esterno. Poi siamo diventati cinque e dopo due anni, camminando con tutti, i giovani

di Erto ci hanno consegnato le chiavi del paese, mettendo i loro nomi su di un’enorme chiave, intagliata per l’occasione. La voglia di essere ascoltati ed accompagnati caratterizza questi giovani, ma più in generale, tutti i soggetti facenti parte di questa comunità, manifestano fortemente questo bi-sogno. Quando toccavamo, con la nostra presenza, questo campo, l’affetto ed il riconoscimento sono sempre stati dimostrati abbondantemente. Tutto questo discorso per arrivare a dire che il Vajont non è solo storia di morti (morti di mafia, ndr), ma è soprattutto storia di vivi che interpella i vivi. Si tenga presente che lo sviluppo del nord-est produttivo dipende strettamente dalle leggi speciali del Vajont applicate negli anni 60 e 70, e che quasi tutto del nostro modello di vita attuale, deriva dalle impostazioni sociali e strutturali, che ci sono state imposte a partire

Si tenga presente che lo sviluppo del nord-est produttivo dipende strettamente dalle leggi speciali del Vajont applicate negli anni 60 e 70, e che quasi tutto del nostro modello di vita attuale, deriva dalle impostazioni sociali e strutturali, che ci sono state imposte a partire dal Vajont

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dal Vajont. Pochi parlano del post-Vajont, e c’è da chiedersi perché… gravi sono gli scandali che ancora non sono emersi e gravi sono le logiche mafiose che gestiscono il nord Italia. Infatti, il bel libro della Lucia Vastano: “Vajont, l’onda lunga.1963-2003 quarant’anni di tragedie e scandali” risulta particolarmente boicottato. Storia di vivi che interpella i vivi!!! Vivi sono anche i potentati che non rendono verità e non permettono a questa gente di percepire la Giustizia. Senza Giustizia non c’è nemmeno la Pace. Chi passa di qui, dovrebbe venirci solo se ha chiaro nel suo cuore di voler Ascoltare ed Incontrare (e non solo Mauro Corona) per andarsene arricchiti, cambiati, pro-vocati… frequentando il luogo come si dovrebbero frequentare i luoghi sacri. L’auspicio è quello poter venire qui come Viaggiatori, che attraversano un luogo vivo della Memoria, e non come se si passasse velocemente davanti ad un “monumento ai caduti disatteso e tradito”, come sono tutti i “monumenti ai caduti” delle nostre guerre, che abbiamo nelle nostre piazze, conniventi alle truppe armate e alle armi italiane disseminate in tutto il mondo. Ecco perché, sono sempre più convinto che si possa aiutare questa gente, solo facendola sentire erede sacrale della propria storia. Una comunità ideale, che faccia memoria e riesca, attraverso il per-dono, a donare anche il suo dolore, per far com-prendere al mondo l’immoralità di certe interferenze e dinamiche. Per la Valle del Vajont e per la sua gente, vedo la possibilità curativa di instaurare una seria Scuola di Pace, dove possa convergere una riflessione nazionale (da parte della società civile, della chiesa e delle parti politiche) su tematiche come: gestione territoriale, politiche dell'acqua, assistenza nelle situazioni di emergenza-tragedia, risoluzione dei conflitti, individuazione delle politiche di usurpazione e di rapina, delle logiche di interesse, individuazione dei potentati e delle pratiche mafiose, etc. Il fine sarebbe quello di far sentire a questa gente l’utilità del dolore vissuto, e la ricchezza che rappresenta questa storia per le generazioni a venire. Secondariamente, il sogno sarebbe quello di creare anticorpi culturali che ci permettano di vivere un più elevato livello etico, nelle nostre così dette democrazie. Questo è un vero e proprio invito che rivolgo a tutti gli interlocutori sensibili. Joseph Kizerbo ama ricordare che in molte culture africane esiste un comune denominatore che è il cerimoniale che si usa fare quando arriva lo straniero nella propria terra. Gli si offre l'acqua in un semplice contenitore di legno, ma prima di fare bere l'ospite, si versa un po' d'acqua a terra, per nutrire la madre che ci acudisce... il parallelismo con l'acqua versata in Val del Piave attraverso il disastro del Vajont è di notevole impatto emotivo e grande carica simbolica, richiama a

Sono sempre più convinto che si possa aiutare questa gente,

solo facendola sentire erede sacrale della propria storia. Una

comunità ideale, che faccia memoria e riesca, attraverso il per-dono, a

donare anche il suo dolore, per far com-

prendere al mondo l’immoralità di certe

interferenze e dinamiche

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fare di questi luoghi spazi in cui si accoglie la differenza facendo Memoria di ciò che è accaduto per rivitalizzare l'amore per la Terra in tutti i visitatori che passano di qua, nell’auspicio che gli esseri umani imparino a interagire con essa, e non ad interferire distruggendola. Se vuoi la Pace, prepara la Pace.

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Osservatorio - 3 PER UN PARTITO DEMOCRATICO ANTIOLIGARCHICO*. NELLA TRADIZIONE DI ROOSEVELT, DE GASPERI, MATTEI E LA PIRA Un Partito Democratico che non voglia essere un avamposto esecutivo di interessi particolaristici, non può non tenere conto di come le parti che vengono a comporlo si siano radicate nel corso della propria storia, nonché degli elevati fini che essi assieme si propongono di perseguire, sotto la nuova veste dell’unità.

Il Partito Democratico, e più in generale un partito, non può limitarsi ad amministrare lo stato di fatto secondo le modalità più o meno direttamente richieste dal finanziatore di turno della campagna elettorale, quanto piuttosto porsi il fine di elevare le capacità morali e di vita della popolazione, cercando di contribuire alle sorti dell’intera umanità. Così se negli Stati Uniti, si assiste ad uno scontro tra due concezioni diametralmente opposte del Partito Democratico – quella filo-oligarchica di Felix Rohatyn, nella tradizione di John J. Raskob, e quella anti-oligarchica di Lyndon LaRouche, nella tradizione di Fraklin Delano Roosevelt – anche in Italia il Partito Democratico segue la medesima falsariga. Da un lato il disegno oligarchico di De Benedetti1, alle cui istanze,

* Si tiene a precisare che il senso del termine “antioligarchico” è utilizzato nel senso proprio della parola e non genericamente e demagogicamente nel senso di dover combattere gli strati sociali più ricchi. Il problema non sono i ricchi; il problema sorge nel momento in cui la ricchezza diventa insopportabile strumento di offesa degli strati sociali più bassi. Ciò lo si ha quando una ristretta casta di persone gestisce il bene pubblico come se fosse qualcosa di privato; e questo è l’oligarchia appunto. 1 In un’intervista rilasciata al Corriere della Sera del 2 dicembre 2005, De Benedetti dice: ‹‹Poi lui [Berlusconi] di errori ne ha fatti mille, dai condoni a una riforma delle pensioni inadeguata fino a un provvedimento sul Tfr a futura memoria. Il fatto è che le vere riforme costano, anche in termini di consenso. Sul mercato del lavoro c'è un'elasticità insufficiente. Treu ha iniziato, la legge Biagi ha incrementato ma bisogna fare di più, molto di più. Per riuscire bisogna intervenire pesantemente sugli ammortizzatori sociali... Per restare all'economia penso alla riduzione del cuneo fiscale. Non di un punto come ha fatto il governo con Luca di Montezemolo che si è dovuto accontentare. Una vera riforma significa dieci punti di cuneo fiscale, con un costo di 20 miliardi. È evidente che per realizzarla occorre recuperare gettito fiscale combattendo l'evasione e, al limite, aumentando l'Iva… La tradizione

Il Partito Democratico, e più in generale un partito, non può limitarsi ad amministrare lo stato di fatto secondo le modalità più o meno direttamente richieste dal finanziatore di turno della campagna elettorale

Claudio Giudici

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chi punta ad avere un ruolo politico di primo piano a prescindere, si è già allineato, dall’altro quello per il Bene Comune di coloro che sono tenuti ai margini della politica. “La generazione che segue raccoglie in eredità appena le briciole di quelle energie che avrebbe potuto applicare nella loro pienezza l’uomo che decade, così deve rifare a proprie spese quasi tutto il cammino. Per questo il progresso umano è lento, la macchina lavora con troppa perdita. Lo scopo futuro degli Stati sarà quello di aumentare e rafforzare gli strumenti di congiunzione fra una generazione e l’altra. Uno Stato ideale sarà raggiunto quando esso potrà mantenere appositi organi di trasmissione delle esperienze e dei risultati ottenuti fino allora.”2 Con queste parole Acide De Gasperi traccia il binario da percorrere a noi che veniamo in sostituzione di coloro che vanno, affinché non si disperda, dovendo ricominciare tutto da zero, il patrimonio d’esperienze e morale acquisito da questi ultimi. Su questo binario corre il treno del sistema culturale e la sua locomotiva è la Verità. La Verità e non il comodo deve tornare ad essere il traguardo degli uomini e dei loro sistemi politico-sociali, di modo che la ripetizione di errori, tipo la deriva liberista verso cui per l’ennesima volta il cammino dell’umanità ha di nuovo virato, rappresenti solo un inciampo durante il cammino, e non il cammino stesso. Per restare ben saldi sulla strada della Verità3, quale miglior modo che quello di riscoprire i principi guida dei grandi uomini del passato – e, se ve ne sono, del presente – che avevano fatto dell’onestà intellettuale e dell’amore per il Bene Comune, il fine della loro opera politica. Ma cosa significa riscoprire i principi? Non significa certo ripetere in modo automatico azioni e volontà in un contesto che è divenuto, cambiato. Significa però ridare applicazione, nella nuova realtà – dunque con nuove soluzioni concrete – a quei medesimi principi che ispirarono l’azione politica benefica di chi in ultima istanza migliorò le condizioni di vita morali e fisiche della popolazione. Questo processo benefico è andato perso tra la fine degli anni ’60 ed i primi anni ’70 quando un vero e proprio cambio di paradigma segnò il passaggio da una concezione dell’uomo come homo homini fratres

socialista era tutta incardinata nel patto tra produttori mentre il referente del Partito democratico deve essere il consumatore…›› 2 M. R. De Gasperi, De Gasperi – Ritratto di uno statista, Mondadori, Milano, 2005, pagg. 71-72. 3 “Il nostro posto d’azione è modesto e oscuro; il teatro della nostra vita pubblica è angusto e lontano dalle grandi correnti, ma nessun posto è così oscuro che, quando vi si combatta per il bene, non lo investa la luce dell’eterna Verità; nessun Paese è così remoto che, quando vi si cooperi con Dio, non lo attraversi l’infinita corrente spirituale che domina l’universo.” Alcide De Gasperi, 31 dicembre 1921.

Ma cosa significa riscoprire i principi?

Significa ridare applicazione, con nuove

soluzioni concrete, a quei medesimi principi che ispirarono l’azione politica benefica di chi

migliorò le condizioni di vita morali e fisiche

della popolazione

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ad una concezione di uomo come homo homini lupus; segnò il passaggio da un cammino sociale orientato all’amore (agape, caritas), alla realtà ed all’interiorità, a quello del sesso, droga e rock and roll; segnò il passaggio da una concezione dell’economia produttivo-industriale ad una consumistico-speculativa. Le guerre finanziarie avviatesi a partire dal 15 agosto 1971 e tutt’oggi in corso, nonché la costanza di guerre guerreggiate dopo il dissolvimento dell’Unione Sovietica, testimoniano questa nuova concezione hobbesiana dei rapporti tra i Popoli. Il cosa fare e non fare è dunque chiaramente tracciato dalle esperienze storico-sociali contrapposte 1945-1971 da una parte e 1971-oggi dall’altra. Queste due diverse fasi storiche trovano dunque fonte d’ispirazione in una concezione dell’uomo diametralmente opposta. Non può essere credibilmente detto che si tratta semplicemente di due esperienze diverse, quanto piuttosto che si tratta di un’esperienza migliore rispetto all’altra; da una parte un’esperienza che si rifà a validi principi ispiratori che dovevano semmai essere ancor più migliorati, dall’altra un’esperienza che si rifà a principi ispiratori malsani che mai sarebbero dovuti essere risposati. Questa diversa concezione dei rapporti tra gli uomini, per l’Italia ha voluto dire essere vittima di iniquità economico-finanziarie internazionali e nazionali: il non avvio di una politica energetica volta all’indipendenza, le ricette liberiste imposteci a partire dalla metà degli anni ’70 dal Fmi, il sorgere di una concezione speculativa dell’economia, e attacchi dei centri finanziari alla moneta, hanno distrutto il tessuto produttivo italiano. Il giudizio negativo più forte a questo stato di cose, proviene dalle dinamiche del potere d’acquisto della maggioranza della popolazione, che ha smesso di crescere agli inizi degli anni ’70 ed ha accelerato violentemente verso il basso durante gli anni ’90. Tutto ciò, nonostante l’articolo 3 Cost., 2° co. reciti: “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e la uguaglianza

dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Degli ultimi trentacinque anni, non può essere neanche trascurata l’influenza esercitata dal cambio di paradigma che ha portato all’abbandono della visione prometeica dell’uomo. In questa visione, l’uomo che conosce e crea e che fa dell’amore per la conoscenza e per la creazione la sua missione di vita, dà concreta applicazione all’aforisma socratico per cui il vero male sia l’ignoranza, essa includendo pure l’inazione. Enrico Mattei4 è stato il campione italiano di questa

4 “Mattei pensava in grande e attirava a sé tutti coloro che volevano lavorare per modernizzare il paese. Si trattava di portare il paese non solo al pari dell’Europa, ma più avanti, il che creava un grande

Degli ultimi trentacinque anni, non può essere neanche trascurata l’influenza esercitata dal cambio di paradigma che ha portato all’abbandono della visione prometeica dell’uomo

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concezione dell’uomo, e le sue vedute profetiche, i suoi discorsi non politically correct sono tra quelli che devono essere riscoperti. In rispetto della nostra grande Costituzione L’art. 1, 1° co. della Costituzione italiana recita: “L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro.” I padri costituenti con questo primo articolo hanno doverosamente individuato un primus a cui fare inevitabilmente riferimento affinché si abbia una sana concezione delle relazioni politico-sociali e della persona umana. “Repubblica” e “lavoro” sono i due pilastri su cui si erge il nostro sistema costituzionale. Alla luce di ciò sorgono spontanee alcune domande: A) siamo ancora una Repubblica, cioè un sistema politico-costituzionale dove il patrimonio spirituale e materiale nazionale è utilizzato nel nome e nell’interesse del Popolo sovrano, o piuttosto il sistema è scaduto verso derive oligarchiche dove quel patrimonio è utilizzato nell’interesse di alcuni potentati nazionali ed internazionali? L’allargamento radicale della forbice tra alti redditi e bassi redditi, ci obbliga a propendere per una risposta negativa. B) La concezione dell’uomo lavoratore, ossia come individuo dedito al perseguimento del Bene Comune attraverso una sua funzione economico-sociale, è tutt’oggi concreta e perseguita, oppure si è passati ad una diversa concezione del ruolo che un individuo deve avere, trasformandolo in una sorta d’involontario parassita dove tutto il suo stipendio è gravato da debiti di consumo? L’attuale debito pubblico, che però va ricoperto tornando ad essere produttivi e non riversandone il costo sulla popolazione, ce ne dà immediata risposta5.

spavento, tanto che il pensare in grande è da allora praticamente scomparso. Oggi in Italia i grandi progetti rimangono tutti nel cassetto o prendono tempi biblici: Venezia ha ancora l’acqua alta, lo stretto di Messina non ha ancora il suo ponte, la Firenze-Bologna è quella di cinquant’anni fa, le aree dismesse delle città rimangono vuote, il Po continua a straripare come sempre. Eccetera. I grandi progetti in Italia non hanno consenso. La gente non ci crede e se li vede realizzare li ostacola.” Tratto da Il Progetto Mattei, di Marcello Colitti, Acqualagna, 26 Ottobre 2002, http://www.colitti.com/marcello/mattei.html, 07 agosto 2006. Marcello Colitti è stato dirigente Ecofuel (Eni) ed autore di diversi volumi su questioni petrolifere e su Mattei. 5 “Direi che l’effetto peggiore questo sistema l’ha avuto nella moralità pubblica, nel tono della vita civile, e nel fatto che noi così facendo abbiamo proposto alle generazioni che vengono dopo di noi un archetipo non più di uomo produttore, non abbiamo più proposto il modello dell’uomo che produce qualche cosa, che fatica e che quindi ha un impegno morale, civile, direi spirituale, perché la fatica ha una dimensione fisica, ma non solo quella. Un uomo che fatica ma che produce qualche cosa. Abbiamo

La concezione dell’uomo lavoratore, ossia come individuo

dedito al perseguimento del Bene Comune

attraverso una sua funzione economico-

sociale, è tutt’oggi concreta e perseguita?

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Dal combinato disposto degli artt. 1 e 3 della Costituzione risulta chiaro come il lavoro sia un diritto, come esso debba essere strumento per eliminare le disuguaglianze sociali e come la Repubblica debba a tal fine adoperarsi. Purtuttavia, è bene interpretare il concetto di “lavoro” dal punto di vista più alto, e cioè come applicazione delle facoltà cognitivo-creative uniche dell’uomo, quelle che ci differenziano dagli animali e che permettono, attraverso le scoperte scientifiche, di aumentare la produttività con lo sviluppo e l’applicazione delle tecnologie. Questo, onde evitare l’interpretazione riduttiva, marxista e feudale, oltre che antieconomica, del lavoro come semplice lavoro delle braccia. Il Partito Democratico nascente dovrà avere come sua missione preminente quella di riportare ad una coincidenza tra Costituzione formale così come riassunta dall’art. 1 Cost., e Costituzione materiale, per ritrovare quella strada diretta verso la crescita morale che i padri costituenti erano riusciti a costruire. Credito nazionale per il progresso, non credito privato6 per la speculazione Il sistema americano così come concepitosi dalla Dichiarazione d’Indipendenza del 1776, passando per Alexander Hamilton, Abramo Lincoln, Franklin Delano Roosevelt, e John Fitzgerald Kennedy puntò a realizzare in primo luogo una sovranità economico-

finanziaria totale, dove all’indipendenza economica privata si sovrapponeva, per ovvi fini di controllo e garanzia la sovranità nazionale. Nel sistema americano un ruolo preminente è riconosciuto alla Banca Nazionale ed al credito, come strumenti operativo-dirigistici del Congresso e dell’Amministrazione. I sistemi costituzionali europei non sono mai riusciti a riconoscere formalmente questo pilastro del repubblicanismo moderno. Le banche centrali europee, che gestiscono il credito e dunque subordinano le sovranità economiche nazionali, non sono altro che delle società di banche private dove dunque il

proposto il modello dell’uomo che consuma, e che, non si sa bene da dove gli venga il denaro che usa, ma consuma, che ha un’enorme dotazione di beni di consumo che rinnova continuamente.” Intervento di Marcello Colitti alla conferenza L’esempio storico di Enrico Mattei come risposta alla crisi attuale, organizzato dallo Schiller Institure e dall’Executive Intelligence Review, Milano, 27 novembre 1992. 6 In La crise mondiale aujourd'hui, il premio Nobel per l’economia 1988, Maurice Allais, sostiene: "Essenzialmente, l'attuale creazione di denaro ex nihilo operata dal sistema bancario è identica alla creazione di moneta da parte di falsari. In concreto, i risultati sono gli stessi. La sola differenza è che sono diversi coloro che ne traggono profitto".

Le banche centrali europee, che gestiscono il credito e dunque subordinano le sovranità economiche nazionali, non sono altro che delle società di banche private dove dunque il controllato ed il controllore coincidono

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controllato ed il controllore coincidono. Anche l’esperienza americana, dall’istituzione della Federal Reserve Bank (1913), che solo con Franklin Roosevelt (nella sostanza) e John Kennedy (anche nella forma) si è tentato di scardinare, ha perso questo pilastro del costituzionalismo moderno, che aveva fatto degli Stati Uniti il sistema costituzionale repubblicano meglio riuscito, in quanto propriamente sovrano e non rimesso alle volontà arbitrarie di una banca centrale a partecipazione privata. Il Partito Democratico, pur consapevole degli ostruzionismi omicidi che in tal senso troverà sulla sua strada, non potrà fare a meno di perseguire questo primo obiettivo per fare in modo che il credito nazionale – che le assemblee legislative di volta in volta autorizzeranno agli esecutivi ad emettere, così come il Congresso Usa avrebbe il potere di fare nei confronti dell’Amministrazione Usa – sia orientato verso le attività produttive, dunque orientato al perseguimento del Bene Comune, e non verso le attività speculative, di qualunque genere esse siano. Ciò, per ridare dignità all’art. 47 Cost., per cui: “La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito. Favorisce l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese.” Ma la nostra Costituzione, oltre a porre l’accento sulla produzione, riconosce sì che l’attività imprenditoriale è libera, ma anche che non possa confliggere con i diritti superiori della persona umana. Così l’art. 41 Cost., recita: “L’iniziativa economica è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Alla luce degli articoli costituzionali, è chiaro come iniziativa economica e credito debbano avere una funzione sociale, essere diretti alla produzione, e non possano andare contro il Bene Comune. Nella tradizione di Mattei, indipendenza energetica L’Italia ha una naturale carenza energetica. La questione energetica, tuttavia, non impedì a uomini come Enrico Mattei di cercare di dare un’indipendenza energetica al Paese, prima avviando colloqui indipendenti con i Paesi detentori di petrolio, poi puntando sul nucleare con la centrale di Latina. In seguito alla ancor oggi non chiara scomparsa del grande statista, l’Italia non è più stata capace di intraprendere la strada dell’indipendenza energetica, fino ad arrivare ai giorni nostri dove come una macchina sempre ai massimi regimi rischia di rompersi un inverno sì ed un estate pure. Nuove fonti energetiche impongono di essere sfruttate.

L’Italia non è più stata capace di intraprendere

la strada dell’indipendenza

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massimi regimi rischia di rompersi un inverno

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Fonti, quali quelle del solare e dell’eolico, tuttavia, se possono rappresentare una parziale soluzione per le necessità abitative, ci farebbero cadere dalla padella nella brace per quanto concerne il sistema produttivo, che necessita di un flusso energetico enormemente superiore. A tal proposito, l’unica credibile soluzione è rappresentata dal nucleare7. I fatti di Chernobyl del 1986 furono strumentalizzati per avviare una campagna antinuclearista priva di ogni razionalità, che non tenne in debito conto della vetustà dell’apparato complessivo sovietico che da lì a sei anni sarebbe crollato. La Francia, con noi confinante, oggi, deriva la propria produzione elettrica dal nucleare per quasi l’80%. La popolazione francese non si trova certo in peggior condizioni di benessere rispetto a quelle della popolazione italiana. Gli aspetti inerenti alla salute sono oramai stati chiariti, ed è stato dimostrato come la radioattività, entro gli specifici limiti ambientali, non sia nociva per la salute umana8. I moderni sistemi di produzione di energia nucleare, oltre che meno inquinanti rispetto a petrolio e carbone e più performanti rispetto a questi ultimi, sono diventati anche sicuri grazie alle tecnologie a sicurezza intrinseca del funzionamento della reazione stessa, e addirittura a prova d’impatto aereo. Circa il problema delle scorie radioattive, questo è l’aspetto più debole della questione. Anche se le più recenti tecnologie consentono un riciclaggio del rifiuto fino al 96%, lo smaltimento del restante non è ancora completamente risolto. Tuttavia, è risolto forse il problema dell’inquinamento ambientale derivante da combustione delle materie fossili? Il nucleare – oggi accettato anche da ambientalisti storici come James Lovelock e Patrick Moore9 – se veramente vorremmo reindirizzarci sulla strada dello sviluppo, può rappresentare per l’Italia una soluzione d’avanguardia.

7 “La totalità dell’energia elettrica importata in Italia proviene dalle centrali nucleari d’Oltralpe. Mentre - giova ricordare - nel 2003, Francia, Germania, Regno Unito e Spagna produssero, rispettivamente, 420, 157, 85 e 60 miliardi di KWh elettrici dagli oltre 100 reattori nucleari in esercizio in quei Paesi.”, Lettera aperta al Presidente della Repubblica, Galileo 2001, per la libertà e dignità della Scienza, 17 dicembre 2005. Nella lettera aperta all’on. Silvio Berlusconi e all’on. Romano Prodi, del 2 aprile 2006, da parte della medesima associazione, si dice che il 30% dell’energia elettrica europea deriva dal nucleare. 8 I costi delle scelte disinformate: il paradosso del nucleare in Italia, F. Battaglia, A. Rosati, 21mo secolo, Milano, 2005, pagg. 121 e ss. 9 Convertire al nucleare di Patrick Moore, 16 aprile 2006: “Nei primi anni '70, quando collaborai alle fondazione di Greenpeace, credevo che l'energia nucleare fosse un sinonimo di olocausto nucleare, come molti miei compatrioti. Questa fu la convinzione che ispirò il primo viaggio di Greenpeace, lungo la meravigliosa costa rocciosa del nordovest, per protestare contro i test delle bombe all'idrogeno sulle Isole Aleutine in Alaska. Dopo trent'anni, la mia visione è cambiata, e penso che anche il resto del movimento ambientalista debba aggiornare la sua prospettiva, poiché proprio l'energia nucleare potrebbe essere la fonte energetica capace di salvare il nostro pianeta da un altro possibile disastro: i cambiamenti climatici catastrofici.

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Consideriamola in questa maniera: più di seicento impianti a carbone negli Stati Uniti producono il 36% delle emissioni statunitensi di biossido di carbonio, il primo gas-serra responsabile dei cambiamenti climatici; questa cifra rappresenta il 10% delle emissioni a livello globale. L'energia nucleare è l'unica fonte a larga scala e a basso costo che possa ridurre tali emissioni, pur continuando a soddisfare la crescente domanda di energia elettrica. Oggi, oltretutto, lo può fare in tutta sicurezza. Faccio queste affermazioni con cautela, come è ovvio dopo l'annuncio dato dal Presidente dell'Iran Mahmoud Ahmadinejad sull'arricchimento dell'uranio. "Le tecnologia nucleare è per scopi pacifici, e nient'altro", ha detto. Ma molti speculano sulla possibilità che tale processo, pur essendo dedicato alla produzione di elettricità, sia in verità una copertura per la costruzione di armi nucleari. E benché io non voglia sottostimare il pericolo rappresentato dalla tecnologia nucleare nelle mani di stati canaglia, dico che noi non possiamo semplicemente mettere al bando qualunque tecnologia considerata pericolosa. Questa fu la mentalità del "tutto-o-niente" in vigore durante la Guerra Fredda, allorché qualunque espressione della tecnologia nucleare sembrava indicare una minaccia per l'umanità e l'ambiente. Nel 1979, Jane Fonda e Jack Lemmon provocarono un brivido di paura con le loro interpretazioni magistrali ne "La Sindrome Cinese", un film che evocava un disastro nucleare a seguito della fusione del nocciolo di un reattore, capace di minacciare la sopravvivenza di una città. Meno di due settimane dopo la proiezione di quel film, il nocciolo del reattore dello stabilimento atomico di Three Mile Island (Pennsylvania), si comportò come nella finzione cinematografica, causando una angoscia molto reale nella nazione. Ciò che all'epoca nessuno notò, tuttavia, fu che la vicenda di Three Mile Island terminò con un successo: la struttura di contenimento in cemento si comportò come da progetto, impedendo alle radiazioni di uscire e diffondersi nell'ambiente. Oltre ai danni subiti dal reattore, nessun lavoratore rimase né ferito né ucciso, né tantomeno gli abitanti delle zone limitrofe. Pur essendo stato l'unico incidente nella storia della produzione di energia atomica negli Stati Uniti, esso fu sufficiente a farci respingere terrorizzati qualunque altro sviluppo della tecnologia nucleare, tanto che da allora in tutto il Paese nessuna nuova centrale è stata commissionata. In America, oggi, i 103 reattori attivi forniscono soltanto il 20% dell'elettricità consumata. L'80% della popolazione che vive a meno di 10 km di distanza da uno di questi reattori, li approva (senza contare gli addetti). Nonostante io non viva, come loro, nelle vicinanze di una centrale atomica, ora sono nettamente schierato dalla loro parte. Devo aggiungere che non sono l'unico, tra i vecchi ecologisti, ad aver mutato d'opinione su questo tema. Lo scienziato britannico James Lovelock, fondatore della teoria di Gaia, ha finito per credere che l'energia nucleare sia l'unica via per evitare un cambiamento catastrofico del clima. Stewart Brand, fondatore del "Whole Earth Catalog", ora dice che il movimento ambientalista deve abbracciare l'energia nucleare perché tutti possiamo affrancarci dai carburanti fossili. Alcune volte, simili opinioni sono state oggetto di scomunica dal clero anti-nucleare: il defunto vescovo britannico Hugh Montefiore, fondatore e direttore di "Friends of the Earth", fu obbligato a dimettersi dal direttivo di quella associazione, per aver scritto un articolo a favore del nucleare su una newsletter ecclesiastica. Ora vi sono segni di una certa disponibilità, un'apertura all'ascolto, anche presso gli attivisti anti-nucleari "duri e puri". Nello scorso dicembre, quando partecipai al convegno sul protocollo di Kyoto a Montreal, rivolsi ad un gruppo ristretto di partecipanti alcune riflessioni su un futuro all'insegna dell'energia sostenibile. Dissi che l'unico modo di ridurre le emissioni dei gas di combustione, mentre si produce energia elettrica, è quello di rivolgersi in modo deciso alle fonti energetiche rinnovabili (idroelettrica, geotermica, eolica, ecc.) insieme al nucleare. Il portavoce di Greenpeace fu il primo a intervenire nella sessione dedicata alle domande, e io mi aspettavo un bella frustata. Egli, invece,

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cominciò a dire di essere d'accordo con la maggior parte delle cose da me dette: pur escludendo l'opzione nucleare, lasciò intendere una netta disponibilità ad esplorare tutte le possibili opzioni. Ecco perché: l'energia eolica e quella solare hanno la loro voce in capitolo, ma poiché sono imprevedibili e mancano della necessaria continuità, esse non possono rimpiazzare gli impianti più grossi e più solidi a carbone, a uranio o idraulici. Il gas naturale, un combustibile fossile, è ora troppo costoso, e il suo prezzo è fin troppo volatile perché si possa investire serenamente in impianti di grande portata. Poiché gli impianti idroelettrici hanno quasi saturato i siti adatti, il nucleare, per semplice esclusione delle alternative, rimane l'unica fonte in grado di soppiantare il carbone. Semplice, in fondo. Non voglio negare che all'energia nucleare siano associati vari problemi, ma vi sono anche molti miti da sfatare. Consideriamoli con attenzione:

• L’energia nucleare è costosa. Essa è invece tra le meno costose. Nel 2004 il costo medio della produzione negli Stati Uniti fu pari a poco meno di 2 centesimi di dollaro per kWh, cioè comparabile a quello delle centrali a carbone o idroelettriche. Ma i futuri sviluppi tecnologici porteranno i costi a livelli ancora inferiori.

• Gli impianti nucleari non sono sicuri. Se a Three Mile Island la vicenda terminò con un successo, vent'anni fa l'incidente di Chernobyl fu differente. Ma si trattò di un incidente cercato. I primi modelli sovietici di centrale nucleare non avevano il guscio di contenimento del reattore. L'intero progetto era pessimo, e gli addetti fecero saltare la centrale in aria. Lo scorso anno, il forum sull'incidente di Chernobyl che ha raccolto tantissime agenzie dell'ONU ha confermato che si possono attribuire all'incidente stesso soltanto 56 decessi, perlopiù dovuti alle radiazioni o alle bruciature durante le operazioni di estinzione dell'incendio. Pur nella tragicità, quelle morti non sono che un pallido riflesso dei 5.000 decessi annui che avvengono nelle miniere di carbone di tutto il mondo. Tra l'altro, nessuna persona è mai morta a causa delle radiazioni, in tutto il programma nucleare civile degli Stati Uniti. (Il problema dei decessi da radiazione nel sottosuolo, tra i minatori di uranio dei primi anni di questa industria, è stato da lungo risolto.)

• Le scorie nucleari saranno pericolose per migliaia di anni. Tra quarant'anni il carburante esausto avrà soltanto un millesimo della radioattività riscontrata al momento della rimozione dal reattore. Oltretutto, è scorretto parlare di scoria o di rifiuto, perché il 95% dell'energia potenziale è ancora contenuto in esso, dopo il primo ciclo di fissione. Ora che gli Stati Uniti hanno rimosso il bando sul riciclaggio del fissile usato, sarà nuovamente possibile usare quell'energia residua, e ridurre contemporaneamente la quota di rifiuto effettivamente bisognoso di trattamento e posa in discarica. Lo scorso mese il Giappone si è unito alla Francia, alla Gran Bretagna e alla Russia nel settore del riciclaggio del combustibile nucleare. Gli Stati Uniti non rimarranno indietro.

• I reattori nucleari sono vulnerabili agli attacchi terroristici. I contenitori del nocciolo sono fatti da uno spessore di cemento rinforzato di circa due metri. Anche se un jumbo-jet si abbattesse su un reattore, facendo crepare le pareti esterne, il reattore non esploderebbe. Vi sono molti tipi di impianti industriali diversi, che sono molto più vulnerabili (impianti a gas naturale, impianti chimici e vari altri obiettivi politici).

• Il combustibile fissile può essere trasformato in armi nucleari. Questo è il tema più scottante associato all'energia nucleare, e il più difficile da discutere, come mostra il caso dell'Iran. Ma il fatto che la tecnologia nucleare possa essere impiegata per scopi malvagi non è un valido motivo per abolirla. Negli ultimi vent'anni, uno dei più semplici utensili - il macete - è stato

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Ciò ci consentirebbe, in pieno spirito lapiriano, di poter risolvere anche il problema della scarsità idrica dell’Africa sub-sahariana e dell’area medio-orientale, grazie a reattori nucleari a 200 MW per la dissalazione del mare. Il problema del costo – se mai è esistito – è stato affrontato dalla Francia nel periodo 1973-74, facendo ricorso ad un approccio industriale “di massa” piuttosto che a costruzioni ad hoc, riducendo così i costi. Essa ha sviluppato anche programmi di aggiunte successive, in considerazione dell’accresciuta richiesta energetica delle varie zone. Oggi, il costo, alla luce del forte rincaro dei prezzi dei combustibili fossili, è sempre meno un problema. In ogni caso una seria indagine a tal proposito non può non tenere conto del fatto che un impianto nucleare di nuova concezione dura più di 50 anni. In ogni caso, qualsiasi approccio finanziarista alle infrastrutture, è vittima di un errore concettuale. Infatti, le infrastrutture – così come le spese per la ricerca scientifica – sono investimenti che si ripagano da sé nel tempo in modo continuo grazie allo sviluppo economico che ne deriva, ed il ritorno economico-finanziario che dà un’infrastruttura tecnologicamente all’avanguardia, non ha confronto con la spesa inizialmente sostenuta per realizzarla. I tempi di realizzazione di una centrale nucleare, mentre la Cina sta procedendo alla creazione di centrali a carbone alla velocità di un’unità alla settimana, è oggi di 40 mesi.

impiegato per uccidere più di un milione di persone, in Africa. Si tratta di un numero ben superiore al numero delle vittime uccise dalle bombe di Hiroshima e di Nagasaki. Di che cosa sono fatte le auto-bomba? Di cherosene, fertilizzanti e acciaio (quello della struttura dell'automobile). Se ponessimo un bando su tutto ciò che può uccidere, non potremmo nemmeno avere del fuoco. L'unico modo per affrontare la proliferazione del nucleare è di dare a questo tema la priorità internazionale che le compete, di renderla oggetto della diplomazia e, quando necessario, di usare la forza per impedire a certe nazioni o ai terroristi di perseguire quei fini distruttivi. Si deve aggiungere che le nuove tecnologie, come il sistema di ritrattamento introdotto in Giappone di recente (nel quale il plutonio non è più separato dall'uranio), possono aiutare a rendere più oneroso e difficile l'uso di fissile da parte di terroristi o di stati canaglia. Gli oltre seicento impianti a carbone producono circa 2 miliardi di tonnellate di biossido di carbonio ogni anno - l'equivalente di quanto producono 300 milioni di automobili. Inoltre, il "Clean Air Council" riporta che gli impianti a carbone sono responsabili del 64% delle emissioni di anidride solforosa, del 26% degli ossidi di azoto e del 33% delle emissioni di mercurio. Questi inquinanti stanno erodendo la salute del nostro ambiente, producendo piogge acide, smog, malattie respiratorie e contaminazione da mercurio. Nel frattempo, i 103 impianti nucleari operanti negli Stati Uniti stanno efficacemente evitando l'emissione di altri 700 milioni di tonnellate di biossido di carbonio - l'equivalente di quanto prodotto da 100 milioni di automobili. Immaginate che il rapporto tra impianti a carbone e impianti a fissile fosse invertito, cosicché soltanto il 20% dell'elettricità fosse generata dal carbone, e il 60% dall'uranio: questo porterebbe lontano, in quanto a pulizia dell'aria e riduzione dei gas-serra. Ogni ambientalista responsabile dovrebbe sostenere un cambiamento in questa direzione.

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Il complesso infrastrutturale L’Italia è piombata in un misticismo naturalista che trova il suo più manifesto antecedente nella cultura medioevale, dove mancava l’idea di poter partecipare a migliorare la biosfera e dove, dunque, la popolazione non cresceva restando sempre ai medesimi livelli demografici a causa della continua moria provocata dai disastri naturali, nonché dall’incapacità di migliorare le capacità immunitarie degli individui. Dagli anni ’70 siamo piombati in una cultura del non fare, che ogni cittadino può sperimentare affrontando il disagio procurato da ore di coda immettendosi sull’A1, nel tratto Firenze-Bologna. Come è stato possibile che un tratto autostradale concepito 50 anni fa, sia sostanzialmente rimasto invariato, nonostante l’esponenziale incremento di automezzi? Purtroppo, se nell’immaginario collettivo è stata indotta l’idea per cui a “industria” corrisponda “inquinamento”, all’idea di “infrastruttura” (o grande opera) è associata quella di “distruzione ambientale”. Questa confusione concettuale, se per la popolazione italiana ha rappresentato continui disagi ed impoverimento, a causa della non efficienza del tessuto produttivo, in continenti come l’Africa ha voluto dire destinare a riserva naturalistica parti importanti delle poche aree coltivabili presenti in quel continente,

rendendo ancor più complicata la lotta per la sussistenza di quelle popolazioni. Questa concezione, ha avuto quelle ripercussioni intorno a questioni di ordine epistemologico, che portano oggi ad accettare in tutta tranquillità l’idea per cui la popolazione mondiale vada ridotta. Il bello è che nessuno si chiede come! Uomini come John Fitzgerald Kennedy e Giorgio La Pira, non posero la questione in questi termini. La loro idea non puntava a contrarre ciò che, se si ha una concezione cristiana (ma non solo) dell’uomo, dovrebbe essere intangibile, quanto ad aumentare gli spazi d’azione dell’uomo. Essi parlavano di rendere vivibili gli altri pianeti. Il paradosso è che se oggi ciò nell’immaginario collettivo rappresenta pura fantascienza, non lo rappresentava verso la fine degli anni ’60. Esistono già studi in proposito, e siamo ancora in tempo per riavviare questo cammino. D’altra parte solo in Europa vi è un’alta densità demografica ed il nostro pianeta si presta ancora ad una maggior crescita demografica. Quindi, ad una concezione

Quindi, ad una concezione entropica, tutt’oggi dominante, ne contrapponevano una anti-entropica, dove si poteva discutere di tutto, fuorché dell’intangibilità della vita umana. D’altra parte, se non si ha rispetto assoluto per la vita umana, come si può pretendere che lo si abbia per le altre forme di vita?

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entropica, tutt’oggi dominante, ne contrapponevano una anti-entropica, dove si poteva discutere di tutto, fuorché dell’intangibilità della vita umana. D’altra parte, se non si ha rispetto assoluto per la vita umana, come si può pretendere che lo si abbia per le altre forme di vita? La questione delle grandi opere, e delle infrastrutture più in generale (strade, energia, idrica, ospedali, scuole, centri di ricerca), deve essere vista dunque in questa ottica di risoluzione dei problemi dell’uomo odierno e delle future generazioni, nel rispetto dell’ambiente. Ma rispetto dell’ambiente, non può voler dire non fare, o suggerire false strade, dove il fare sia in realtà un non fare10. Ecco che un nuovo sistema energetico elettronucleare, l’ampliamento e l’ammodernamento della rete autostradale al Sud ed in generale nelle aree in cui si reputi necessario, la trasformazione del sistema ferroviario attuale in quello ad alta velocità, se non piuttosto a lievitazione magnetica, l’ammodernamento dei porti, il sistema del Mose ed il Ponte sullo stretto di Messina, potrebbero rappresentare un trampolino di rilancio dell’economia italiana. Un nuovo sistema monetario internazionale Quando nel 1944 Franklin Delano Roosevelt insieme al suo segretario al Tesoro, Harry Dexter White ideò gli accordi di Bretton Woods, il grande statista americano aveva ben chiara l’idea che senza un sistema finanziario stabile ed equo non potesse garantirsi lo sviluppo per tutti i Popoli del pianeta. Questi accordi si fondavano su un “codice d’onore” che tra la fine degli anni ’50 e durante gli anni ’60, a più riprese, i partecipanti più forti (Francia, Inghilterra e Stati Uniti) non rispettarono. Il 15 agosto del 1971, prendendo ciò a pretesto, quegli accordi furono cestinati per decisione unilaterale del Presidente Nixon, instaurando così un sistema a cambi flessibili, senza alcuna base sull’economia reale – dunque il perfetto contrario dei due pilastri di Bretton Woods, cambi fissi e convertibilità del dollaro in oro. Questo sistema, oltre ad avere consentito ad investitori privati di condizionare ed affamare intere popolazioni nazionali e regionali – si pensi all’autunno del 1992 per Italia, Inghilterra, Germania e Francia, ed al biennio 1997-98 per i Paesi del Sud-Est asiatico – sta creando una bolla speculativa che impedisce che i capitali internazionali vadano verso le attività produttive e, dunque, immiserendo le condizioni di vita di tutta la popolazione mondiale ad eccezione di coloro a cui è stato concesso di entrare nel circolo bancario. Alla luce di ciò, nell’ottica di La Pira del non limitarsi a pensare esclusivamente a casa propria, il nostro Parlamento il 6 aprile 2005 ha approvato la mozione dell’attuale sottosegretario all’Economia, Mario Lettieri, dal titolo “Sulla convocazione di una

10 Si pensi a quella forma di disinformazione, spesso in buona fede, per cui il problema energetico di un Paese industrializzato sarebbe risolvibile, all’attuale stato della scienza, col ricorso alle c.d. energie rinnovabili.

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conferenza internazionale per un nuovo sistema monetario e finanziario”, sulla falsa riga della più nota “Nuova Bretton Woods” del leader americano Lyndon LaRouche, a cui hanno aderito anche Bill Clinton e Michel Rocard. Da questo, più che dalla Tobin Tax – che sarebbe una legittimazione indiretta di un sistema iniquo come l’attuale – si deve ripartire per restituire un’architettura finanziaria che consenta lo sviluppo dei Popoli. Una missione per l’Italia passando per l’idrogeno L’ultima industria attiva in Italia, nonostante la oramai fisiologica fase di crisi, è quella dell’auto. Una rivoluzione da tempo ipotizzata nel campo dell’auto, non aspetta che di essere realizzata. L’idrogeno, sembra essere la fonte del futuro per quanto riguarda i mezzi di trasporto. Da quando la comunità scientifica è riuscita a far comprendere come di idrogeno in natura non se ne trovi, un velo pietoso sembra esser stato messo anche su questa prospettiva rivoluzionaria, sia per gli equilibri geo-politici sia per la tutela dell’aria che respiriamo. Reperire carburanti all’idrogeno necessita di reattori nucleari da almeno 800 megawatts. L’Italia potrebbe essere il primo paese al mondo ad attrezzarsi in questo senso, e ridare una prospettiva ed un senso di missione al proprio Paese. Senza un senso di missione, un

obiettivo da perseguire, un Popolo non riesce a trovare elementi di dialogo che lo facciano sentire in costante stato di fratellanza. Purtroppo oggi questo stato comunitario lo si avverte solo in occasione degli eventi sportivi. Un cammino ben più importante per un Popolo dovrebbe essere quello di ridare fiducia nel futuro a tutte le persone, nonché poter contribuire al benessere degli altri Popoli. Convertire l’industria automobilistica italiana alla produzione di mezzi ad idrogeno, ci consentirebbe di entrare in un mercato nuovo che darebbe lavoro, sviluppo e benessere ambientale. I ricercatori avrebbero di che lavorare. Le imprese di costruzione dovrebbero convertire gli impianti di distribuzione di benzina in distributori di idrogeno. Le famiglie non vedrebbero rubati i propri risparmi dalle imprese petrolifere – nonostante si accusi l’Ocse – che arbitrariamente elevano i prezzi del greggio. Cooperazione internazionale: “il vero nome della pace è sviluppo”

L’idrogeno, sembra essere la fonte del futuro per quanto riguarda i mezzi di trasporto. Da quando la comunità scientifica è riuscita a far comprendere come di idrogeno in natura non se ne trovi, un velo pietoso sembra esser stato messo anche su questa prospettiva rivoluzionaria, sia per gli equilibri geo-politici sia per la tutela dell’aria che respiriamo

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Il messaggio più importante lasciatoci da Giorgio La Pira con la sua opera, è quello per cui la persona umana non può occuparsi solamente degli interessi e degli affetti a lei vicini, ma anche delle sorti dell’umanità, dando concretezza all’idea della fratellanza universale. Alla luce di questo insegnamento, la politica nazionale non può trascurare ciò che avviene nel resto del mondo. Nel rispetto della sovranità altrui, l’opera di dialogo deve essere una costante delle relazioni internazionali. Se promuovere un nuovo sistema monetario e finanziario più equo è una questione fondamentale, altrettanto lo è l’avvio di una politica energetica comune. Per portare le persone del pianeta al centro della vita economica, fuori dalla logica che li relega nel ruolo di forza lavoro a basso costo, o di meri fornitori di materie prime, dobbiamo innalzare le capacità di produzione energetica. Necessitiamo di quella grande Alleanza planetaria di cui ha parlato John Fitzgerald Kennedy, e Giorgio La Pira rifacendosi a lui, per avere 10.000 anni di pace. Tuttavia, se non si creano anche le condizioni per la creazione di infrastrutture, tutto ciò rischia di essere inutile. Non può considerarsi un caso che durante una guerra guerreggiata la prima cosa che si punta a distruggere sia il complesso infrastrutturale del nemico. Ovviamente, delle infrastrutture, sarebbe il caso di ricordarsi per questioni di pace, per l’aumento del benessere, piuttosto che per distruggere. Il Ponte di Sviluppo eurasiatico11 ideato da Lyndon LaRouche, rientra proprio in tale ottica. Creare un progetto di sviluppo infrastrutturale comune che abbia il suo cuore laddove si concentra la maggior parte della popolazione mondiale, l’Eurasia, per estendersi verso Africa, Oceania e le Americhe. Un progetto planetario di questo tipo sarebbe realizzabile creando ex novo credito produttivo a basso tasso d’interesse ed a lunga scadenza (25-50 anni), così come fatto da Franklin Roosevelt con la Tennessee Valley Authority per i soli Stati Uniti.

11 Per averne una rappresentazione grafica generica si consulti la pagina web http://www.schillerinstitute.org/economy/phys_econ/physical_econ_main.html, 09 agosto 2006. Dallo stesso indirizzo si accede ad ulteriori pagine di dettaglio per ogni macroarea del pianeta.

NOTE E SEGNALAZIONI

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Note e Segnalazioni Grazia Manganaro Favaretto, Il Federalismo Personalista di Alexandre Marc (1904-2000), – Milano, FrancoAngeli Ed.

Fa sempre piacere scoprire, nel mare magnum dell’editoria italiana, e in particolare quella dedicata alla storia del pensiero politico, un libro dedicato ad Alexandre Marc, vero e proprio padre del federalismo integrale. Fa ancora più piacere se solo si pensa che, dell’immenso lavoro del grande pensatore francese, pochissimo è stato tradotto in Italia, e quel poco ha avuto scarsissima circolazione (basti pensare ad una delle migliori raccolte, Europa e Federalismo Globale, pubblicata nel 1996 dalla case editrice Il Ventilabro e a cura del prof. Raimondo Cagiano). In tutta onestà, ci sfuggono i motivi di una tale scelta, soprattutto se si considera l’attenzione dedicata al federalismo integrale in generale, e alle elaborazioni di Marc in particolare, da uno dei massimi studiosi del federalismo mondiale, Daniel J. Elazar. Non vogliamo pensare che possa dipendere dai conflittuali rapporti instauratisi negli anni tra Marc e il federalismo europeo organizzato in Italia (sono noti gli spinosi giudizi dati sulla persona e sulle idee da Altiero Spinelli e Mario Albertini) e che risulta sicuramente maggioritario nell’ambito accademico italiano: più probabilmente è l’ennesimo effetto di un certo provincialismo autoreferenziale spesso presente nella cultura italiana. Rimane il fatto che Grazia Manganaro, dell’Università degli Studi di Trieste, contribuisce con un ottimo testo a far conoscere meglio il percorso di questo intellettuale atipico del Novecento, senza cadere in sterili celebrazioni, ricostruendo in particolare gli anni della “formazione” di Marc, nell’ambito di quel variegato movimento che verrà successivamente etichettato come “non conformismo”. E la panoramica che la Manganaro ci offre del Marc impegnato a costruire un fronte non conformista e federalista tra gli anni Trenta e gli inizi della Seconda Guerra Monidale, dai rapporti conflittuali con Mounier alla rivista Ordre Noveaux,consente al lettore di inquadrare meglio la figura e di apprezzare la coerenza del percorso, sempre segnato dalla costante elaborazione di una vera e propria filosofia del federalismo (senza mai peraltro abbandonarsi allo “spirito di sistema”, sempre avversato da Marc), che avrà fine solo con la sua morte nel 2000. E forse è proprio il focalizzare l’attenzione su questo periodo che costituisce il limite maggiore del libro: in effetti, la parte dedicata ai successivi sviluppi del pensiero marciano (che comunque vengono evidenziati) risulta troppo sintetica, e in definitiva non rende merito alla complessità della produzione

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intellettuale ed “operativa” di Marc. Non possiamo che sperare che la Manganaro, vista la qualità indubbia di questo volume, continui su questa strada e ci proponga prossimamente un ulteriore approfondimento delle opere e del pensiero del grande federalista francese.

( Lanfranco Nosi )

Andrea Chiti Batelli, Oltre il sistema rappresentativo?, – Milano, FrancoAngeli Ed.

Andrea Chiti Batelli, per chi non lo sapesse, è un esponente storico del federalismo organizzato in Italia ed in Europa, oltre ad essere un saggista prolifico e sempre interessante, anche nelle sue "prese di posizione" più controverse. E forse quella che ci presenta nel suo ultimo libro, edito da FrancoAngeli, è una di queste. Perchè Chiti Batelli ci presenta non solo una panoramica estremamente interessante delle critiche alla democrazia rappresentativa, ma ce ne dimostra chiaramente e lucidamente le degenerazioni sia a livello nazionale, sia a livello europeo, e pone con altrettanta lucidità una possibile soluzione, attraverso l'aggiornamento e l''applicazione del progetto di Ordine Politico delle Comunità che Adriano Olivetti formulò nell'immediato dopoguerra. Il libro risulta così essere qualcosa di più di un semplice atto di accusa nei confronti di un sistema che, a detta dell'autore, è ormai funzionale solo al mantenimento di determinate strutture di potere, e diventa l'articolazione di una vera e propria proposta politica, una proposta di riforma democratica della democrazia che ha come suo "pilastro" costitutivo la realizzazione di una unità politica europea su base federale. E su questo Chiti Batelli è molto chiaro: non si tratta di realizzare l'unione politica sulla base dell'attuale processo di integrazione, del quale ci mostra tutti i limiti, né di riproporre a livello continentale strutture ed istituzioni già abbondantemente superate a livello nazionale, ma di riorientare tutto il processo su linee nuove ed autenticamente federaliste (o meglio, integralmente federaliste - v. pag. ). A questo proposito, l'autore si dimostra particolarmente severo nei confronti non tanto dell'europeismo "di maniera", che pure depreca, quanto nei confronti del federalismo rappresentato in Italia dal Movimento Federalista Europeo e in Europa dall'UEF, di matrice strettamente "hamiltoniana" (del quale è stato peraltro autorevole esponente): in più occasioni ne evidenzia infatti l'incapacità di leggere correttamente la crisi del sistema democratico e i nuovi fenomeni politico-sociali,

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tanto da mettersi "fuori dal tempo". Una critica severa, e condivisibile, che meriterebbe una seria riflessione negli ambienti federalisti, ma non osiamo sperare tanto. In conclusione, è un testo che merita un'attenzione e un approfondimento ben maggiore di quello che possiamo dare in questo spazio ristretto: certo è che risulta essere uno dei testi più interessanti nel panorama di quelli dedicatiai problemi della democrazia, del federalismo e dell'unificazione europea, e decisamente un testo di riferimento per tutti quelli che si richiamano al federalismo integrale.

( Lanfranco Nosi )

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EUROPA PLURALE

RIVISTA PER UN FEDERALISMO GLOBALE

Numero 1/2007

Pubblicazione dell’Associazione “Europa Plurale – Movimento per un Federalismo Globale”

www.europaplurale.org

Direttore Editoriale Francesco Lauria

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Caporedattore Lanfranco Nosi

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Redazione Silvia Marcuz, Luca Carapelli, Federico Manzoni

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