Ettore Cozzani - Gabriele D'Annunzio. La preparazione e l'opera di guerra (1930)

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Cronaca della preparazione al conflitto e delle azioni di guerra che videro protagonista Gabriele D'Annunzio tra il 1915 ed il 1918.

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ETTO RE C O Z Z A N I

G A B RIELE: P A N N U N Z I O

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L A P R E P A R A Z I O N E

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ETTORE COZZAMI

GABRIELE ANNUNZIO

L A P R E P A R A Z I O N E E L ’OPERA DI GUERRA

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ALLA MEMORIA

DI

SILVIA GHILARDI CANZIANI

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PARTE I.

LA PREPARAZIONE

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La milizia di Gabriele D ’Annunzio co­mincia molto più presto dello scoppio del conflitto delle nazioni. L’uomo che la folla dei saputi si compiaceva di rap­presentarsi come un gaudente intento solo a coglier della vita e a render nel­l’arte il piacere, con una sensualità avida e instancabile, s’era fin dalla prima gio­vinezza preparato segretamente all’azione, e tutta la sua opera letteraria e tutti i suoi « gesti » ne sono una prova.

Quando a Giosuè Carducci la morte ebbe interrotto il grido della rampogna e dell’ incitamento, ed’ il poeta nuovo, at­tribuendosi con orgoglio consapevole una eredità così grande e grave, squillò « la fiaccola che viva Ei mi commette — l’agiterò sulle più aspre vette », parve a

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molti ch’egli esagerasse; ma il D ’Annun­zio sentiva nettamente ciò che doveva es­sere compiuto da lui e da tutti; e la forza di afferrare egli solo la torcia ac­cesa (dimenticando persino il grande fratello romagnolo che aveva comin­ciato a serrare l’anima dentro la vor­ticosa strofe degli Inni) gli veniva special- mente dal ricordo di ciò che egli aveva già dato alla nostra lirica civile con po­tenza di ispirazione e chiarezza profe­tica.

Le « Odi Navali » sono d’un venten­nio anteriori alla guerra nazionale. Là il mare ch’egli aveva esaltato con rude schiettezza di sensi e di forme nel « Canto Novo », — senza intenti poli­tici, — ma già sentendolo « gloria, forza d’Italia », il mare sulle cui rive aveva ca­valcato febbrile, o s ’era disteso a cuo­cersi al sole come per imbeversi di sale e temprarsi all’ardore, — dopo essergli

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apparso come il mare di tutti gli uomini, che regge la nave di tutte le glorie uma­ne, o « il dolce mar funesto », « il bel mar natale », « il mar meraviglioso », che amano e sfidano le paranze con le « rosse latine vele » grandi come ar­chi di luna, — gli si rivela subitamente un giorno (« io lo scorgo con un brivido interrotto ») imputridente del sangue in­vendicato di Lissa: il movimento tutto carducciano dell’apparire di Faà di Bruno che, grande ombra sul deserto, chiede senza risposta, « Sarà dunque eterna la vergogna ?» — e del sorgere come in morgana della visione di Trieste rivolta a Roma (« sempre a te ! Sempre la stes­sa ») — annuncia in pieno il nascere del motivo di guerra nella sinfonia che il poeta viene spiegando in tutta la sua vasta architettura: e la rappresentazione rapida, palpitante, perfetta, della torpe­diniera, bella «come un’arme nuda»,

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dà all’ inno un tono di originalità e di giovinezza, che testimonia d’una invitta sincerità (nel 1914 il D ’Annunzio chie­derà al Governo, per prima domanda di volontario, d’essere imbarcato sopra un « Caccia » adriatico); — e il passo « sotto la bufera cinereo là verso An­cona, l’Adriatico s’oscura » è già un ac­cenno profetico, poiché proprio « là, verso Ancona» nel maggio del 1915 scoppiò il primo tuono d’artiglieria nella grande guerra.

L’Ode per la festa navale nelle acque di Genova (8 settembre 1902), quando egli vide le Speranze della Patria erette sulle prue taglienti, ha un secondo ac­cenno profetico : « - odon forse gli eroi da le tombe profonde » l’inno del « di­ritto eterno» e della ¡« nuova '] forza » d ’ Italia; e invero quando, il 5 maggio del 1915, gli eroi si desteranno nel bron­zo di Eugenio Baroni, egli sarà là, a

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levar sul mare, nelle lasse dell’Orazione per la Sagra dei Mille, il suo « inno » ri- svegliatore.

Ma il senso augurale dell’impresa adria- tica, l’immanenza d’un destino di guerra e di gloria sul Golfo di Venezia, dilagano in piena dalle liriche in cui si narra la tragedia della morte dell’Ammiraglio di Saint-Bon : eroe di Lissa, questi sognava la riscossa navale: Trieste attendeva; ma il 23 novembre 1892, il poeta getta il grido angoscioso: « Dio salvi l’Ammira­glio ! Dio lo salvi ! La Morte.... » ; le strofe di esametri paiono sostenute dal quadrato ottonario che ne interrompe il fluire fatale e le chiude, come da un anelito di virile speranza; il 24, nella dolcezza amorosa dell’ ode saffica, il poeta si illude : « forse vivrà. Certo vi­vrà, se vale, — il fervore d’un popolo ansioso — in un voto » ; il 25, quattro martelliani, rimati con rime oscure come

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lembi funerei, preannunciano la sventura nazionale: «D io protegga l’Ita lia» ; il 26, con un grido che ci fa ancora rab­brividire la sventura è annunciata: « Ar­mata d ’Italia ! Nel nome d’Italia di Dio- e del Re, della nostra cattolica fede, Si- mone di Saint-Bon è morto. Il Grande Ammiraglio oggi è morto. ». Gli esametri si ridistendono con sussulti e ingorghi me­trici che paiono di singhiozzi e di pianto, e nel cospetto della morte il sogno della battaglia nautica vittoriosa si spiega in tutta la sua eroica bellezza senza veli : non più come presagio, ma come gesta narrata: il vate che canterà la beffa di Bùccari « si ricorda » - « dei giorni ancor non nati » : Trieste leva sùbito il suo consapevole lamento nella cadenza del doppio settenario, annobilita di frequenti ardimenti tecnici, — e sul ritmo d’un canto oltre oceanico, con l’ampiezza se­rena d ’un periodo musicale di Walt Whit-

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manti, è sciolto il pianto funebre sulla tomba : è pianto ormai disperato ; ma suonano nell’aria di Roma le campane della risurrezione di Cristo...

Quando Gabriele D ’Annunzio riassu­merà nella tragedia « La Nave » questo suo smisurato amore dell’Adriatico, risca­vando nel macigno delle nostre glorie medioevali l’ immagine del sogno libera­tore — quando la tragedia sarà trionfal­mente rappresentata a Trieste, quando egli battezzerà sdegnato « l’Amarissimo »,— il suo affanno profetico sembrerà crescere, come nel presentimento d’ una imminenza di eventi, e nella certezza che l’ oracolo gli giunge proprio da Dio.

Poi sorge nella sua anima, come una costellazione nella fonda notte, 1’ Elettra.

Un senso di aspettazione consapevole è in ogni strofe degli inni civili, anche di quelli che paiono più lontani dal presente

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e più vaghi : sembra che il poeta si sforzi d ’allargare il suo respiro per prepararlo ad un canto epico, e di distendere l’oriz­zonte della speranza del popolo, perchè vi sia spazio per tutte le apparizioni e- roiche.

Dinanzi alle Montagne, « terribili dòmi abitati da Dio », ascolta l’anima sua « se non giunga un messaggio » e vede un « puro spirito » « schiudere il Futuro » oltre oscuri abissi di dolore; — al pen­siero di Dante egli sente che quel nome solo «come il turbine agita i lembi — d ’un gran vessillo, scuote nei suoi mari e nei suoi valchi — l’Italia inerme » : iner­me, sì ; « Ma il cuore della Nazione è co­me la forza delle sorgenti — meravi­glioso » : e ci sono in Italia, se pur l’alba « ancor non sale », le forze ed i forti : « pel rancore dei forti che patiscono la vergogna, — pel tremito delle vergini forze che opprime la menzogna»....

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Cade ucciso Re Umberto, e nella sin­cerità e nella gravità che soltanto la morte sa imporre così grandi, tutti i sogni in­certi e tentanti, prendono una forma pre­cisa e s ’avviano: e l’inno diventa così net­tamente profetico, che oggi non si può rileggere senza sentir quell’ « orrore sa­cro » con cui gli antichi avvertivano la presenza divina : la notte in cui il convoglio funebre traversa la penisola cercando Roma, è piena di baleni, di febbri, di presagi: Genova e La Spezia salutano, « le due madri delle navi » ; principia il nuovo destino; l’Italia rifio­risce, l’Italia si sveglia ; « O r chi sarà l’eroe che attendiam o?»; Non c’è dub­bio, sei tu, « Giovine, che assunto dalla morte, fosti re sul mare > : « T’elesse il destino all’alta impresa combattuta * (così fu): «guai se gli manchi» (così fu: la rivoluzione, due volte è stata alle porte: nel maggio del 1915, nell’ottobre del

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1922; e scoppiava, se il Re fosse man­cato) : la fortuna d’Italia — prese l’ali sul campo d’una battaglia perduta » (e riavvenne nel 1917).

« Che vorrai tu sul tuo soglio ?» ; le domande incalzano nel tumulto dell’anima invasata « Quale altura è il tuo segno?... Sai tu come sia bello il tuo regno ? ». (Nessun Re d’ Italia ne ebbe uno così bello: in verità): e la certezza tripudia, lampeggia, minaccia nell’ ultima strofe : « T’elesse il Destino — all’alta impre­sa audace. — Tendi l’arco, accendi la face, — colpisci, illumina, eroe latino!— venera il lauro, esalta il forte ! — Apri alla virtù le porte — dei dominii futuri ! — Chè se il danno e la vergogna duri — quando l’ora sia venuta — tra i ribelli vedrai da vicino anche colui che oggi ti saluta ».... (Ricordiamo il 5 mag­gio a Quarto e le parole « Maestà assente, ma presente », — che avevano corrette

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all’ultimo momento quelle già scritte e dure, «M aestà assente»; — ricordiamo la marcia di Ronchi).

E l’impresa, non più ormai lontana, si accenna nel vaticinio, con particolari di esattezza storica illuminati da un lampo di preveggenza stupenda: Trento non pianga, Trento attenda; tornerà Garibaldi, a riprender la marcia : « Verrà verrà sul suo cavallo, — con giovine chioma » (Peppino Garibaldi). « Torrà il nero e giallo — vessillo dal tuo sacro monte ».— Ma più, più ancora certo, esatto : « Non piangere, anima di Trento... Non fare lamento. Perdona — Prepara in si­lenzio gli eroi ». C ’è tutto Battisti: nel silenzio e nella preparazione: egli allora studiava in raccoglimento la geografia del Trentino e pubblicava le sue opere di geografia scientifica e di apostolato geo­grafico: il verso allude a lui e a Filzi, come una mano addita con l’indice teso.

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Tuttavia l’ignavia e la stanchezza, gra­vavano troppo la vita e l’anima: una tristezza immane oscurava il destino: l’azione non appariva nemmeno probabile: la Potenza lasciava l’Italia, la Bellezza si esiliava ; ma il poeta traeva dalla dispe­razione baleni : « E però leva su, vinci l’ambascia; — anima m ia: questa è la tua vigilia ».

E nella notte di Caprera (e nel di­scorso ai giovani che la precedette, e che fu della medesima sostanza infuocata di quelli di Genova e di Roma nel 1915) egli evocò gli eroi Garibaldini, nel momento che trasumanavano, facendoli vivere d’im­peto sul confine tra la vita e la gloria; e nelle «Città del silenzio», riscolpì in strofe di vero bronzo gli eroi comunali già assunti nei cieli del mito, mostran­do come tutta la nostra terra fermenti di un seme di grandezza, e tramutando in espressioni di potenza guerriera anche le

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apparenze del lavoro quotidiano, come quello delle cave di Carrara: « ...e il grido del bovaro furibondo, — ed echeggiar la buccina di morte — come squilla che chiami alla battaglia » ... — .

Anche nei canti funebri la speranza vampeggia, l’incitamento saetta: nell’inno per la morte di Giuseppe Verdi il cuore confida « oltre il destino » e il buon mes­saggio c’è «chi l’aspetta», poiché « la forza del dolore » vendicherà forse l’onta. Nell’inno per il centenario di Vincenzo Bellini, l’ ansia del poeta che attende si volge quasi in angoscia, cercando l’eroe a tutte le contrade della patria: « sveglia i dormenti e annunzia ai desti :1 giorni — sono prossimi. Usciamo al­l’alta guerra ! »

E anche quando parve con l’ispirazione varcare i confini d’Italia e cantare eroi d’al­tre genti, la sua anima era umiliata dalla vergogna della nostra inerzia : l’Ode per il

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centenario di Vittorio Hugo non « ripete °gg' *1 grido, ahi, vano » ? — « E il cuore — anco spera ? E la fede non lan- gue? Calpesta dal barbaro atroce, — o Madre che dormi, ti chiama — una figlia che gronda di sangue ». Era ancora Trie­ste, e i giovani giulii battuti in caccia selvaggia.

E perfino quando, incompreso e bef­fato come trapiantatore del mito del « su­peruomo » in Italia, egli esaltò Federico Nietzche, (e non era forse in lui se non la brama di sollevare, come in « Più che l’amore », davanti alla gioventù smarrita, immagini di schiettezza, di forza e di va­lore foss’anche dissennato), egli presen­tiva l’evento : « Io so come si danzi — sopra gli abissi e come si rida — quan­do il periglio è innanzi... e come si com­batta con l’ugne — e col rostro, e come si uccida, — e come si tessan le ghir­lande — dopo le pugne ». Un’altra volta

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egli si ricordava « dei giorni ancor non nati ».

Allora gli saliva dal cuore col rombo dei dàttili ansanti la promessa : « verrà dal silenzio, vincendo la morte — l’Eroe ne­cessario. Tu veglia alle porte, — ricor­dati e aspetta». E l’augurio gli squillava alto sulla testa come un grido d’aquile: « Così veda tu un giorno il mare latino coprirsi — di strage alla tua guerra — ....Italia, Italia, — sacra alla nuova Au­rora — con l’aratro e la prora ».

Il grande evento sognato non nasceva; ma qualche impresa scosse il sonno la­tino.

La spedizione in Cina non fu in tutto esempio di potenza civile che s’espande e s’impone : pure qualche eroe morì lassù per l’Italia. Ed ecco l’Ode per i marinai italiani morti in Cina, con quella trenodìa superba (una delle più gigantesche pagine della poesia moderna) nella quale sono

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rappresentate le madri eroiche, e pur umili e dolorose, che da tutte le campagne italiane attendono il messaggio di resurrezione o di morte : e il messaggio scoppia, uno per tutte, nel silenzio oscuro : « morti sono i figli, morti — sono i figli, morti sono — i figli alla guerra lontana. — .... Ma ve­duto han la figura grande e sola della Patria — risplendere sopra la morte ».

Pare una luce d’aurora boreale : subito spenta. Ma ridivamperà più alta e ampia e durevole, tra poco.

11 poeta è nel suo esilio oceanico di Arcachon. S’accende la guerra Libica. Il fratello romagnolo getta una voce di gioia e d’angoscia, da Barga, nei periodi affannosi de « La grande proletaria s’è mossa » ; Gabriele D ’Annunzio libera al volo come sparvieri le Canzoni d ’oltre mare.

Questo è proprio il preludio del poema tragico che si inizierà nel 1915: la guerra

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è questa volta una guerra grande : « ella fa dell’ Italia dai tre mari — la grande Patria dalle quattro sponde».

Pare che tutta la materia delle « città del silenzio » e del gran poema garibal­dino, riarda, s ’ammorbidisca rovente, per­chè il poeta possa rifoggiarla in una forma nuova : tutte le glorie seminate dai secoli nella nostra terra e, su tutte, le glorie marinare, di Genova, di Venezia, di Pisa, d’Amalfi, e tutte le passioni che egli stesso nella sua recente vita ha se­minate nel cuore dei giovani, grandeg­giano mature nella luce torrida delPAfrica, ed egli le addita a testimonianza che la fede non era vana: e, nel modo di Pindaro, canta gli eroi d’oggi legando la loro sorte alle memorie delle loro città; e segue lo svolgersi della gesta con un movimento così concitato di terzine, che pare si ser­rino addosso agli eventi e agli uomini incalzandoli ingigantiti.

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Governa le canzoni un senso d’ebrezza, che solo a tratti è vinto dallo sconforto dell’uomo, il quale, nato per essere eroe con « la forza che sognar faceagli il fato— e il pallore del giovin Bonaparte » — patisce anche adesso « l’ignavia delle vane carte »: ma il senso d ’orgoglio che gli dà il veder finalmente la sua profezia avve­rarsi, soverchia ogni tristezza e ogni dub­bio. Ciò che però fa anche più fremere alla lettura di questi squilli guerrieri, è il vaticinio che corre anche i nuovi inni : la gesta d ’oggi è cantata; ma con chia­rezza è sognata l’impresa di domani ; an­che qui, come in « Elettra >, c’è l’aspet­tazione e la speranza: più lucide, più pre­cise, come più vicine al loro compiersi nella realtà : « Che l’Africa non è se non la cote — ove affilammo il ferro, per l’acquisto — supremo, contra le fortune ignote — » ; — « e riluce per noi nell’in­travisto — futuro un bene che per rive­

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larsi — vale il martirio d’ un novello Cristo » (il fante del Carso).

Egli sente che c’ è un annuncio nuovo da dare: e ode il Signore in cerca del Messaggero : « chi mando, — o gridatore e indovinatore — di cose sante ?» E vor­rebbe esser lui : « manda me, Signore » : e vorrebbe essere di nuovo giovane ; e sente in sè colui che sarà, tra poco, sul cielo di Pola e di Vienna, sul mare di Bùccari, sulle sassaie del Veliki e del Faiti: « principe della gioventù, traendo — i miei compagni a me duce e pilota — meco giurati a un patto più tremendo ».

E, quando il poema delle dieci canzoni si chiude perfetto con quell’« ultima », che è forse la più bella per il profondo e sincero dolore che ne trabocca, una sola immagine permane in noi ; la schiera dei ritornanti che s ’avvia, come gente che tende a un’altra mèta: «taciturna così per la deserta — notte s ’avanza la quadrata

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schiera, — con i suoi segni, — verso l’alba certa — simile al vóto d ’una pri­mavera — sacra che salga verso un fato augusto... » mentre nel cuore del poema ondeggia, tra le figure degli eroi, la fi­gura monacale d’Elena di Francia, pre­parata dalla sua esperienza libica e da questo canto alla missione che la farà, nella grande guerra, maestra e signora della carità; e già s ’incupisce e attorva nella Canzone dei Dardanelli la delu­sione che torcerà il cuore all’ Italia vit­toriosa per l’ingiustizia delle nazioni com­pagne, e si leva ostile e osteggiata la la figura dell’uomo politico che il poeta si troverà primo di traverso alla sua rotta, quando nel maggio 1915 rientrerà in Ita­lia per la guerra di riscossa : « questa Canzone della Patria delusa fu mutilata da mano poliziesca, per ordine del Ca­valiere Giovanni Giolitti, capo del G o­verno d’ Italia».

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Il terribile luglio 1914 lo trova ancora in Francia: la guerra scoppia, ed egli prova quel primo senso d’irreale che tutti provammo, come se d’improvviso, in una vicenda che ci toglieva il respiro, ci av­volgesse un lontano passato, un futuro anche più lontano : ma sùbito egli si orienta : — la guerra prepara « gli spazii mistici per le apparizioni ideali ». Egli sente che metton foce nel gran mare della realtà i fiumi canori delle sue predizioni : « mi tornano nello spirito le melodie che non furono udite e che perciò a taluno devono oggi sembrare più belle ».

La sua « esule malinconia » lo trava­glia ; a quando a quando lo spirito si smarrisce tra il desiderio dell’azione e il sospetto che le forze sieno ormai fiaccate, e la preparazione insufficiente: « ho per­duto il mio mondo e non so se ne tro-

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vero un altro » ; — « chi sono ? dove vado? e che ho mai fatto? ».

Ma gli eventi lo avviano alla mèta, come colpi di timone una barca potente : il pontefice mite se ne va; un altro sale la cattedra di S. Pietro ; il Poeta riassume in poche linee preveggenti il tormento italiano dei quattro anni prossimi; «si so­gna che in quest’ora sia vestito della tu­nica bianca e coperto »del camauro ver­miglio un papa giovine... capace di con­tenere nel suo petto il coraggio sovru­mano d’ Ildebrando ». Quante volte non ci rammaricammo, in quattro anni d’an­sia, ad ogni atto e gesto del Pastore, con questo medesimo sogno che non ci voleva morire ?

Il barbaro invade il suolo della Francia, calpesta le memorie dell’ « Isola » bene­detta ; il poeta segue ogni fatto di guerra con una crescente passione : e in tutti gli aspetti della terra ospite, vede un

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aspetto della patria lontana; e, con quel­l’amore che nei momenti decisivi parve sempre unire Italia e Francia in uno stesso sentimento latino di grandezza, di peri­colo, di volontà eroica, prepara l’anima sua a quel ritorno in Patria, che qual­che coscienza invigliacchita nella politica gli rinfacciò come un mercato !o

« Il mio cuore gridava d’angoscia verso la mia patria prima, verso l’Italia inerme e irresoluta ».

Percorre contrade in agonia all’appros- simarsi dell’uragano germanico, vede Sois- son e Reims nell’ora del martirio, e la cattedrale unica al mondo, transustan- ziarsi nel fuoco; e, nelle pause dell’an­goscia, quando in una villa solitaria ri­prende i giochi con i suoi levrieri, ogni aspetto ed ogni atto della terra, delle ammirate belve, delle creature umane gli assume un atteggiamento guerriero.

«Nulla più valeva, fuorché l’azione, fuor-

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chè il combattimento a oltranza, fuorché il sangue inesausto. La furia della muta si apprendeva alle nostre vene ». E le verità eterne, le materiali e le ideali, della vita gli si rivelano. « Sentivo dentro me il mio scheletro prigioniero, involuto di carne riconversa in argilla ».

« Ma questa guerra sembra interamente rifondere tutte le stirpi nella materia ori­ginale affinchè i loro genii possano al fine rifoggiarle nel fango sanguinoso e risollevarle alla vita con un soffio più vasto ».

« Occidente, splendore dello spirito senza tramonto, nessun barbaro potè mai spegnerti, nessuno mai ti spegnerà nei se­coli, finché l’uomo porti sui suoi soprac­cigli una fronte per rispecchiarti ».

Sono le chiavi di volta di tutto l’edi­ficio di parole e di pensiero che egli le­verà su tra un atto e l’altro durante la guerra: ma una delle profezie batte le ali

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lontano, supera la vittoria, guarda dall’alto i giorni dell’armistizio torbido e della pace acre: « E la vera legge marziale sarà su noi instaurata dopo la guerra delle armi : chè uccidere e distruggere sarà ben facile compito in paragone di quel che i super­stiti troveranno dinanzi a loro ». Si pensi che queste parole del secondo tomo della « Licenza » fan parte della « Leda senza cigno », pubblicata nel 1916, e che per­ciò si rivelano pensate nel 1915 o forse nel 1914, — e che c’è lo schema del­l’ Italia del 1923.

Egli è ormai pronto, spirito e corpo : « Sono leggero e spedito per andare verso l’avventura, verso il pericolo e verso la morte. Forse mi sarà dato di sentire in me la stupenda novità che si prepara, prima di disciogliermi. Ma già la ricevo in forma di annunciazione ».

«Egli è pronto; ma l’ Italia non si muove: la Francia ansa e si contorce sot­

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to la pesante mano che !e stringe la gola: il poeta sente più di tutti questo sussulto di agonia di cui freme la terra alla quale poggia i piedi, e si volge con il cuore alla patria, se oda la voce della deci­sione.

Silenzio.Una specie di furore epico lo dilania.

Bisogna decidersi : egli compirà qualche atto irreparabile che violenti il destino.

Un giorno della primavera del 1915, nel suo studio remoto di Rue de Geof- froy, a Parigi, con Peppino Garibaldi, preso come in un’atmosfera di leggenda, egli si artiglia il cervello per trovare un modo di ritornare in Italia che valga un ammonimento, e che tagli il nodo della sorte, quand’ecco gli giunge un messag­gio: un giovane poeta gli annuncia dal­l’Italia che, nel prossimo anniversario della partenza dei Mille da Quarto, si scoprirà sullo scoglio un grande bronzo, a cui gli

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eventi danno un significato, per la folla improvviso, ma a lungo meditato e pre­parato nel cuore dello scultore: è la ri­surrezione dei morti: gli eroi di tutte le cospirazioni e le guerre dell’indipendenza ribalzano dalla terra, stracciando i loro sudarii ; e Garibaldi è fra loro : li rac­coglie, li regge e li guida, simili a un flutto che urti la sua persona come uno scoglio. La vittoria giovane, perchè gari­baldina, scaturisce dal gruppo affannoso, e incorona il Condottiere.

Si vuole che il poeta torni in patria, sbarcando sul lido « fatale », e interpreti il bronzo e compia il prodigio, davvero: la risurrezione dei morti s’inizi per coman­damento di lui.

Una accensione sùbita prende l’esule e lo travaglia. In pochi giorni egli pensa, scrive, e trascrive, in forma d’una can­zone di gesta a larghe lasse di prosa, d’un ritmo d ’onda temporalesca, la sua «Orazione p e rla Sagra dei Mille».

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Quello stesso giovane poeta ha gettato frattanto in Italia l’invito a tutte le anime perchè si purifichino, si accordino, si rac­colgano a Quarto per un rito augurale, che, appunto, egli ha chiamato Sagra.

Gabriele D’Annunzio ritorna.Giorni di febbre: l’ansia diventa ango­

sciosa: si annuncia che il Re sarà pre­sente allo Scoglio : è la guerra ! poiché il poeta ha serrato nelle lasse della Orazione parole decisive.

Ma d ’un tratto egli legge nei giornali, mentre si stacca da Parigi, salutato dai tre­pidi amici dell’Italia che sperano nell’inter­vento imminente, che il Re non verrà più: allora è la neutralità, perpetua! Ebbene: egli scenderà lo stesso in mezzo alla folla: colui che ha salutato il giovane Re assunto, adempirà la minaccia : « Che se il danno e la vergogna duri — quando l’ora sia venuta — tra i ribelli vedrai da vicino — anche colui che oggi ti saluta ». « Maestà

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assente » comincerà il suo discorso : que­sta chiamata sarà una condanna.

Egli rientra in patria; ma prima di partire, il 25 e il 27 aprile, in due prose « L’amarissimo Adriatico » e « Il cemento romano » fa pubbliche in Francia, con la solita nettezza, le dichiarazioni che « de­terminano — come egli stesso affermò poi in Roma, il 24 maggio del ’19 — i no­stri confini e i nostri diritti, tutti i nostri diritti, specialmente quelli che non consi­dera il magro patto di Londra e la rat­toppatura di Moriana ».

Ma, passato appena il confine, egli incontra il giovane poeta il quale lo ras­sicura che il Re è 'trattenuto a Roma dal precipitare degli eventi : si saprà solo più tardi che il Re non poteva interve­nire perchè la notte del 4 maggio il trat­tato d’alleanza con l’Austria era stato denunciato.

L’arrivo a Genova, a sera inoltrata, la

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vigilia, gli dovette dare il senso dell’ab­braccio quasi fisico della Patria: quanta aspettazione, quanta fede, quanta speran­za !

Nessun annuncio ufficiale, nessun in­vito ; ma l’atrio e le scalèe della stazione Principe, sono un solo gorgo di folla, al fondo del quale, come dentro la punta d’un imbuto, splende la testa nuda del poeta: la moltitudine gli si stringe ad­dosso fino a soffocarlo: lo vediamo im­pallidire: a stento una catena di brac­cia e di spalle maschie lo isola e lo salva.

Un’automobile lo afferra e lo porta, prima a stento entro la calca, poi di volo per strade deserte, all’Albergo Eden. Ma lassù già un turbine di gente lo attende, pone l’assedio a l’edificio in cui egli è scomparso, lo chiama. Egli si affaccia : nel buio del giardino, rotto qua e là dai raggianti globi elettrici tra gli alberi, sulla

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moltitudine fluttuante dei visi pallidi di commozione, e delle bandiere (è il fiore dell’ « interventismo » ligure — i giovani mischiati con i veterani garibaldini) egli getta il primo dei suoi discorsi: poche frasi, bellissime, nella nudità muscolosa e palpitante che un poco s ’indebolì amplian­dosi nella trascrizione pubblicata poi. La linea del pensiero v’è segnata con una sicurezza sovrana, dalla preghiera alla decisione, dalla meditazione all’azione: si pensa che finalmente il sordo rimescolìo delle coscienze, il fermento degli affanni anelanti della patria, abbiano trovato una voce chiara, libera: si sente che l’ Italia si rivela a se stessa nel suo poeta. E il bronzo fasciato di stoffa purpurea là sullo scoglio, era da lui raffigurato come vigi­lante sul Tirreno oscuro, nella notte senza luna, tutto rosso d ’un ardore che lo ar­roventava.

Il mattino dopo, sotto il cielo raggiante

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percorso dai velivoli che ancora stupivano col loro volo sicuro, su un mare azzur­rissimo e fiottante alle prode, in mezzo a un popolo che continuava a fluire da Genova, per la strada litoranea, come una fiumana perenne, Gabriele D ’Annun­zio scandì con la sua voce metallica e ferma l’Orazione: cominciava: «M aestà assente ma presente » : il drappo sangui­gno che aveva coperto la mole, la quale in realtà pareva un rogo come il poeta aveva divinato, scivolò giù dalle forme bronzee, e l’opera sembrò davvero come il D ’Annunzio la definì, « un comanda­mento alzato sul mare ».

L’orazione pubblicata la mattina stessa dal « Corriere della Sera», percorse con uno squillo di diana tutta l’Italia : e recò la certezza.

Ma la bocca del poeta fu proprio da quel momento come la bocca della for­nace percossa dall’asta di ferro: non si

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chiuse più, fino a che l’annunciatore non divenne combattente : e ne sgorgava una lava furibonda.

In Genova stessa, il 5 maggio, il 6, il 7, i discorsi s’incalzarono, sempre più affocati di passione, sempre più affannati d ’amore, ma sempre sorretti da una soli­dità di pensiero politico e da una anti­veggenza mirabili.

Al banchetto dei Mille, tra i superstiti bianchi e curvi che lo covavano cogli occhi riaccesi dal fuoco di giovinezza eroi­ca, egli riassunse la realtà di quell’ora in parole esatte : « sembra che da stamani noi respiriamo non so che odor di mi­racolo, dove s’avvicendano in una sorte di balenìo la verità e il sogno, la vita attuale e la più lontana favola »; e già mirava a Roma: « A Roma io bevo » — Nei giardini del palagio di Andrea D ’Oria, ricevendo in dono il gesso del leone di Trieste, che è murato in una casa dei

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Giustiniani, egli richiama le glorie ma­rinare della Superba, per avventarle sul­la costa del « Golfo di Venezia » a riaf­fermare il diritto d ’Italia; nella sala di palazzo San Giorgio, dopo lo scabro ardente saluto dell’apuano Ceccardo, rie­voca i vanti civili di Genova, e chiude la breve orazione con un’ « immagine di fiamma » ; ai Dalmati che gli offrono un libro di testimonianza della loro ita­lianità, giura « nello stile di Roma » la salvazione.

Ma la sua eloquenza sale ai vertici della potenza, quando nell’ateneo genovese, gli studenti convenuti da tutta l’ Italia lo prendono nell’uragano del loro entusiasmo.

Parve allora che tutta la sua anima di­vampasse, come vampe fischiavano e rug­givano nell’anima dei giovani: l’aria stessa ardeva! E c’era, presente ed ignoto, Vit­torio Locchi : « Se è vero, come è vero, come io giuro esser vero che gli Italiani

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hanno riacceso il fuoco su l’ara d’ Italia, prendete i tizzi con le vostre mani, sof­fiate sopra essi, teneteli in pugno, scuo­teteli, squassateli ovunque possiate, ovun­que voi andiate. E appiccate il fuoco, miei giovani compagni, appiccate il fuoco pugnace ! Siate gli incendiari intrepidi del­la grande Patria! »

Furono ! Non erano trascorse molte ore e già un po’ dappertutto la polizia d o ­veva accorrere ad ogni momento a spe­gnere qualcuno di questi incendi che cre­pitavano nel vento. E lo seppe il Giolitti, fischiato e per poco non percosso, alla stazione di Torino.

Ma il poeta, che non si placa, e tra discorso e discorso, visita le grandi ac­ciaierie liguri, le fucine che vampeggiano notte e giorno senza tregua approntando i cannoni, tendeva ormai a Roma: la preparazione delle anime era compiuta: l’aspettazione aveva messo la febbre in

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tutta la nazione: ora bisognava andare a battere il nemico nella sua fortezza !

Chi scrive, lo vide passare, raggiante di fede, sicuro, dalla Spezia : ne udì pa­role in cui era la più lucida certezza.

Durante il viaggio e nelle prime ore romane raggiungono il poeta le notizie delle frodi tentate, dei baratti, del tradi­mento.

La febbre della lotta lo investe: è il 12 maggio ; egli getta la sua « arringa al po­polo accalcato nelle vie e acclamante » : an­cora l’orazione per la Sagra gli si dibatte nel cuore, ma si tramuta: « lo vi porto il messaggio di Quarto, che non è se non un messaggio romano alla Roma di Villa Spada e del Vascello » ; il senso profe­tico dà alle sue parole un’audacia crudele: « Che la forza e lo sdegno di Roma ro­vescino alfine i banchi dei barattieri e dei falsari » ; le immagini sobbalzano dal­la sua bocca con una potenza carnale :

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« gettato è il dado su la rossa tavola della terra ». E i ricordi s’ingorgano nella sua anima dalla storia, dalla poesia, dalla sua stessa vita lontana, ed egli comincia quella rievocazione del mito dei Mille, che accompagna, data per data, di visioni eroiche la nuova orazione più vasta, che egli poi intitolò « La legge di Roma » e di cui ogni discorso è un lassa.

Nella giornata del 13 maggio, con uno sforzo di allargare la sua azione a tutta l’ Italia, e di tenere i contatti, getta un messaggio ai Genovesi, che pare un foglio d’ordini : « ogni giorno adunatevi in gran numero... e manifestate il vostro sdegno, gridate la vostra minaccia... Alla riscossa, popolo di Genova! Italiani, alla riscossa ! »

Ma la minaccia illividisce il cielo come un temporale imminente, e Roma si agita,lo spirito del poeta è entrato nella mol­titudine come un lievito, l’ha resa sensi­

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bile come carne ferita: l’uomo che un giorno aveva tracciata con stile duro la vita di Cola di Rienzo, dovette sentir ri­vivere in sè la potenza e l’autorità tribu­nizia del veto. Quello stesso 13 maggio il governo di Antonio Salandra si di­mette : passa per l’Italia un’ondata di sgo­mento : è la neutralità insuperabile ? è l’ignominia? Tutta Roma ribolle: le vie sono percorse non più da folle, ma da bande risolute : qua e là si levano le pri­me barricate. Quella medesima sera il poeta arringa di nuovo « il popolo in tu­multo ». Il dubbio del tradimento che era soltanto come « un orribile odore» è di­ventato una certezza che stronca l’anima con tuttto il suo « peso obbrobrioso » : il poeta stesso ora incalza il popolo all’a­zione, lo guida, gli segna le mète ; e as­sume su di sè la responsabilità della ri­bellione aperta, armata: « se considerato è come crimine incitare alla violenza i

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cittadini, io mi vanterò di questo crimine,10 lo prenderò sopra me solo ». Il suo discorso è guerresco : ha lo stridere aqui­lino di quelle brevi parole che il Duca D ’Aosta soleva poi in piena campagna gridare, come strappandosi il fegato a brano a brano, alle sue chiuse falangi di elmetti grigio-verdi; e c’è già l’ansia di­sperata della marcia di Ronchi, che ge­nerò poi la marcia su Roma : ogni pe­riodo è per chi ascolta come un col­po di maglio; e tra l’una e l’altra romba s’ode l’ansito della folla ebbra di quel- l’ incitamento : « Ascoltatemi. Intendete­mi ».... - « Udite ! ».... - « Udite? ».... - « Intendete ? Avete inteso ? » : pare che11 poeta abbranchi il popolo con due pu­gni artigliati e lo scuota : « Nella Roma vostra si tenta di strangolare la Patria con un capestro prussiano maneggiato da quel vecchio boia labbrone le cui calca­gna di fuggiasco sanno la via di Berlino ».

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E’ il sarcasmo tragico che si vedrà ri­balenare sulla moltitudine a Fiume negli originali dialoghi del poeta e della folla.

Come gli rispondesse il popolo di Roma, il D ’Annunzio stesso ha raccon­tato in una tra le più belle pagine del « Not­turno» con una commossa sincerità umana.

La sera del 14 maggio al Teatro Co- stanzi, gremito, egli appare d’improvviso, sale sul palcoscenico.

Davanti alla moltitudine che ascoltò in un silenzio impressionante, con una sola faccia di mille facce sbiancate dalla sofferenza, e che poi scattò in un urlo di sdegno, egli pronunciò l’accusa pub­blica.

La sua voce metallica disegnava le parole spietate con la nitidezza d ’un ferro di chirurgo: «Udite. Udite. G ra­vissime cose io vi dirò, da voi non co­nosciute. State in silenzio. Ascoltatemi. Poi balzerete in piedi, tutti ».

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Egli rivela che il 4 maggio, la vigilia di Quarto, la Triplice era stata dichiarata « decaduta e nulla » e che s’erano già presi « impegni gravi » con le nazioni al­leate; e che Giovanni Giolitti, pure in­formato di tutto questo, aveva tentato di sostituirsi al Governo responsabile, trat­tando l’abdicazione della volontà nazio­nale con Bulow : « Egli dunque tradisce il Re, tradisce la Patria ; contro il Re, contro la Patria, serve lo straniero. Egli è colpevole di tradimento, non per un modo di dire ingiurioso, non per eccesso di frase polemica, ma in realtà, ma in verità, secondo la figura nota di esso delitto ». E impone di « armarsi di tut­te le armi » — e non rifugge nem­meno dal pensiero della insurrezione sanguinosa : « Perciò, ripeto, ogni buon cittadino è soldato contro il nemico interno, senza tregua, senza quartiere. Se anche il sangue corra, tal sangue

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sia benedetto come quello versato nella trincea ».

E’ l’uomo di Fiume : esatto : ognuno 1° giudichi come può e vuole, e sa; ma nessuno potrà dire che egli si sia smen­tito o tradito.

11 15 maggio sa che gli studenti del- l’Ateneo sono « adunati per deliberare la violenza»; non può intervenire; manda un messaggio: lancia tra loro l’ombra di Oberdan, rievoca loro la « battaglia su­blime di Calatafimi », congiunge i loro cuori, con i cuori degli studenti Geno­vesi : « appiccate il fuoco ! Siate gli in­cendiarli intrepidi della Grande Patria ! » Ancora una volta tenta di allacciare con le loro stesse arterie le due città che ha inebbriate della sua febbre.

Passano le ore negli «estenuanti indugi»; la politica tentacolare si travaglia a cercare con palpamenti e avvinghiamenti vischiosi la risoluzione della crisi parlamentare.

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Il 16 maggio il poeta (è l’anniversario della marcia garibaldina da Calatafimi a Palermo) parla agli artisti: forse la folla è altra da quella dei giovani e del po­polo, forse lo umiliano i troppo lunghi e anguillosi tentativi politici; è meno ispi­rato, meno fremente: una sola verità gran­dissima balena sopra la sua breve ora­zione : la gente latina « è l’artefice chiara delle stirpi confuse. In lei soltanto la ma­teria immensa e incandescente della nova vita troverà i grandi conii perfetti ».

Anche oggi ci specchiamo in queste parole e sentiamo che si avvereranno nei secoli.

Un corteo tumultuante ha traversata Roma.

Il 17 maggio è la giornata epica: la sua eloquenza diventa una colata di bronzo: il popolo l’ascolta in una esaltazione pro­fetica. Egli richiama ancora una volta le glorie di Roma e le glorie garibaldine ;

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definisce l’atteggiamento del Re, prepara gli spiriti all’adunata imminente della Ca­mera, da cui vuole esclusi i traditori ; a ogni suo grido che saluta una virtù della Patria « il popolo unanime risponde con una immensa acclamazione, dalle scalina­te, dalla piazza, dalle vie »; e quando qualcuno reca al poeta la spada di Nino Bixio ed egli, con parole di gloria, la snu- ba e la bacia, « una nuova immensa ac­clamazione sale nell’aria accesa dal tra­monto. Il grido : « Guerra ! Guerra ! » supera ogni altro clamore » e mentre il poeta, ormai duce di un popolo, esclama: « O Romani, è questo il vero parlamento. Qui oggi da voi si delibera e si bandisce la guerra. Sonate la Campana», davvero, come mossa dal vento di quella ebbrezza, la campana del Campidoglio si mette a sonare a stormo : « tutto il popolo, sotto il rombo, acclama la guerra ».

Il 20 maggio egli conforta ancora e

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ammonisce il popolo che s’accalca intor­no a Montecitorio, in un’ansia fosca; e quando esce dall’aula dove il parlamento ha ritrovato se stesso, e la sorte è stata affrontata, egli ancora arringa la moltitu­dine: rievoca un anniversario miracoloso : la battaglia di Montebello in cui gli Ita­liani, 5.000 contro 20.000, attaccano a ferro freddo gli Austriaci e li fugano ; e getta il grido ancora una volta profetico : « La vittoria è di coloro che nella vitto­ria credono, che nella vittoria giurano. Noi crediamo, noi giuriamo di vincere».

11 23, il duca d’Avarna comunica al Governo austriaco la dichiarazione di guerra dell'Italia.

Nell’alba del 25, Gabriele D ’Annunzio chiude con un fermo sigillo la sua vigilia, parlando ai compagni: è l’addio prima dell’azione ! Egli celebra il silenzio di Roma che significa duro proposito, si vota con sincerità commossa alla morte;

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si libera per l’azione : « Ecco l’alba, o compagni, ecco la diana; e fra poco sarà l’aurora. Abbracciamoci e prendiamo com­miato. Quel che abbiamo fatto è fatto. Ora bisogna che ci separiamo e che poi ci ritroviamo. 11 nostro Dio ci conceda di ritrovarci o vivi o morti, in un luogo di luce ».

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PARTE II.

L ’ A Z I O N E

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Le parole di congedo sono state pro­nunciate il 25 maggio : sono un taglio ri­soluto, netto — fra la preparazione e Tazione. Ora non c’è nell’anima del Poeta che una volontà e una necessità: essereil primo nel sacrificio come è stato il primo nell’ incitamento : da questa fine di maggio al novembre 1918, e poi ancora, fino alla Marcia di Ronchi, la sua vita è dominata da questa legge : avvalorare la parola con l’atto; trasformare il verbo in carne.

Ci potrà essere stato il desiderio della gloria, la voluttà del rischio, il sapore dell’avventura : tutteT quel che si vuole ; ma c’era sopra ogni cosa questa fonda- mentale espressione di onestà civile, che resterà nella storia del nostro popolo co­

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me un esempio raro a tutti gli apostoli e a tutti i profeti : adempiere per primo e con più rigorosa obbedienza, il dovere esaltato nell’inno ed imposto nell’orazione: essere veramente un Capo; il quale sa che i gradi d’una gerarchia poggiano non tanto sopra un crescere di potere, quanto sopra un giganteggiare di responsabilità.

Ma l’atmosfera ardente della guerra non è riuscita a liquefare le croste dei sistemi intorno all’intelligenza negli «abi­tuali » : e i ministeri sono ancora, come in tempo di pace, diffidenti, prolissi, ca­sisti : il poeta deve consumare gli ultimi 5 giorni di maggio e la prima quindicina di giugno ad ottenere l’arruolamento re­golare nell’esercito.

Luigi Cadorna, che ha compreso l’im­portanza di questa volontà d’azione pronta ad ogni scatto, e di questo fermento ca­pace di far lievitare le moltitudini ar­mate, come già ha sommosse le folle,

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consente, in una lettera del 25 maggio, col desiderio del poeta di essere diretto par­tecipe dell’ impresa « alla cui preparazione Ella ha portato un alto contributo ideale »; ma bisogna riconoscere che nessuno, nemmeno i più illuminati, hanno ancora compreso di che cosa sarà capace l’uomo: il Cadorna stesso, nella medesima lettera, disponendo che il D ’Annunzio « sia desti­nato al Comando dell’Armata che opera agli ordini di S. A. R. il Duca D ’Aosta >, parla, sì, d ’un « contributo d’opera e di pensiero, ch’io reputo prezioso », ma crede che il poeta si recherà via via « presso i comandi delle varie Armate, per assistere agli atti che si verranno svolgendo sul­l’intera fronte dell’esercito», — e ha « la certezza che la vita così vissuta a contatto con la parte operante dell’ E- sercito suggerirà al poeta, a guerra ulti­mata, il proposito di narrarla ».

Ma gli impiegati del Ministero non

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condividono nè le maggiori nè le minori speranze, e s’attardano in ricerche di do­cumenti regolari e di convenienze legali, tanto che il D’Annunzio, dall’ansia all’im­pazienza alla collera, irrompe in lettere amare a S. E. Antonio Salandra, una delle quali — del 18 giugno — accenna già velatamente a quel lavorìo di nemici in­terni che il poeta ha già intuito, e che porterà al Paese tanto disonore e tanta rovina: « E’ la prima volta che iò chiedo qualcosa al Governo del mio paese, e non chiedo se non di servire » (par di cogliere il gesto iroso della mano che sot­tolinea la frase !) « Alla mia offerta si op­pongono piccole formalità che, nel mio caso riconosciuto « particolare » dal Co­mandante Supremo, non hanno alcuna importanza ».

« I giorni passano, e io sono qui nel­l’inerzia, mentre tutti mi attendono là doveio debbo essere». « Forse i burocrati del

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Regno d’Italia desiderano che io ritorni nella Landa remota. Ritornerò alla soli­tudine dopo la guerra. Ma penso che la lotta anche quella ideale, sia da prose­guire ; e in proposito Le rivelerò qualcosa di molto grave, quando Ella potrà rice­vermi ».

Finalmente, il 19 giugno, nello stesso bollettino che nomina Guglielmo Marconi tenente di complemento in un battaglione ciclisti, Gabriele D ’Annunzio è nominato tenente di complemento dei Lancieri No­vara, e assegnato al quartier generale di Filiberto di Savoia.

La sua fede « apostolica » dà ancora qualche sprazzo: il 24 giugno, alla folla di sei mila persone che s’aduna a Parigi nel Trocadero, per celebrare l’anniversario di Solferino, rammentando in un bellis­simo telegramma che in quella battaglia dei popoli fratelli « nella rotta austriaca ebbe parte un fierissimo temporale che

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lottò dal cielo con i nostri », sentenzia con gioia : « il sole è sempre con i La­tini ».

Ma ormai le espressioni di oratore di­ventano secondarie; egli parte incontro alla guerra e alla morte e per questo, come ogni fante italiano, come il Fante di Eugenio Baroni, nel monumento del San Michele, anche lui va a prendere il commiato dalla sua madre mortale: il « Notturno » rievoca quel momento con schietta commozione: accolto in trionfo a Pescara, cerca d’isolarsi, — risale con devota umiltà le scale della sua vec­chia casa, traversa le stanze piene dei ricordi della sua infanzia, va a prostrarsi davanti alla santa che lo benedice nella ca­mera nuziale, presso il talamo in cui egli è nato: è l’i l luglio.

Il 12 riparte in automobile per Roma; il 15 ha l’ultimo contatto con la folla del vecchio mondo, la quale l’ha riconosciuto,

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mentre egli, alle porte dell’albergo, s’im­barca per Mestre, e gli leva intorno un rumore d’applausi che forse infastidiscono l’uomo ormai liberato da ogni ricordo della vita « di prima » e armato spirito e corpo per la battaglia: il 20 luglio dona a Ferrara il manoscritto della Parisina : altra separazione dalle memorie, e altro gesto per accendere altari di fede ita­liana: ma il dono è già datato dalla fronte.

Le prime prodezze sono sul mare : l’Amarissimo da lui tante volte agitato, il mare delle « Odi Navali » e della « Nave » non è più finalmente un mare imbelle : ed egli vi accorre come per sciogliere un voto : nell’anniversario di Lissa (sarà sempre del suo stile di guerra legare i suoi atti più prodi alle date più grandi, fauste ed infauste, della storia d’Italia) sul cacciatorpediniere Impavido, col capitano

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di fregata Pietro Orsini — posa uno sbarramento di torpedini contro la costa nemica : e ripeterà l’azione pericolosa ¡1 19 agosto. La sua vita s’immedesima sù­bito con quella del popolo combattente: egli non si accrocca agli alti comandi : scende tra i fanti della terra e del mare: convive con loro: piega per loro in ar­ringhe soldatesche la sua armoniosa elo­quenza: il 22 saluta un reparto di mari­nai che parte da Venezia per la linea ; li invita a vendicare con un’azione pru­dente e audace l’Amalfi e la Garibaldi pugnalate a tradimento ; e già fin d’allora si sente che la sua figura, giganteggiando nell’opera civica e poi in queste prime mosse di guerra, assume caratteri leggen­darii: l’Austria lo vede come un incubo sopra il suo cielo; con un bando eroi­comico proibisce in tutto l’impero la rap­presentazione di qualsiasi « pellicola girata in Italia dopo il 23 maggio» perchè tutte...

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sono opera « d’un nemico accanitissimo»: Gabriele D ’Annunzio.

E in vero egli si prepara ad essere un’ala sul cielo nemico. Mentre la con­vivenza con gli ufficiali di marina e i ma­rinai gli si salda in una fraternità che lo onora, ed egli si accinge, in mezzo a questi fratelli, alle prodezze dell’ottobre, comincia — altro segno di coerenza — a delinearsi in lui poeta, la visione d’una necessità più alta: egli deve essere sulle battaglie, non più per una immagine d’inno, ma in una realtà storica, l’arcangelo che annuncia e stermina: già forse prende linee sicure nel suo pensiero quel pro­getto di battaglia concorde della terra e del cielo, di cui un giorno detterà le nor­me strategiche e tattiche, e che effettuerà con una così geniale larghezza di prepa­razione.

Ma intanto egli vuol portare a Trieste un primo messaggio per le vie dell’aria.

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E senz’altro inizia l’allenamento con quel Tenente di vascello Giuseppe Mira- glia, comandante della stazione degli idro­volanti di Venezia, il quale sarà per troppo breve tempo il suo compagno perfetto, e diventerà uno dei più caldi rimpianti della sua vita, e avrà monumento perenne d ’amore e di gloria nel «Notturno ».

Ma all’ultimo momento, sulla fine di luglio, la pigra Roma dei Ministeri tenta di tarpargli le ali : forse non hanno fede nell’aviazione marittima, che è alle prime prove ; forse temono di lasciarlo troppo esporsi e di perderlo, dando al nemico soddisfazione e sollievo : il fatto è che l’autorità militare gli proibisce i voli. Fu come sfrugonare un ceppo ardente ; l’ira divampa magnanima in una lettera ad Antonio Salandra (30 luglio) in cui il poeta scatta: « Come è dunque possi­bile, a proposito di me, parlare seria­mente di « vita preziosa », del dovere

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«di non esporsi », e di simili «luoghi co­muni » ?... « Ma io non ho vissuto, mio caro e grande amico, non ho vissuto se non per questo momento. Togliermelo è menomarmi, mutilarmi, annientarmi »...

11 divieto è tolto : e il volo si compie il 7 agosto. Partono alle 3,30 pomeri­diane : alle 4,40 sono su Trieste : il poeta ha lavorato tutto il giorno a scrivere di suo pugno il messaggio, a preparare i sacchetti sventolanti di fiamme tricolori : i sacchetti son gettati con una nube d’al­tre bandiere italiane appesantite di piombi, tra Piazza Grande e San Giusto : il mes­saggio annunzia agli irredenti — che non sanno se non quanto dice al loro cuore ansioso il rombo della battaglia che or s’avvicina or s’allontana — le prime pic­cole vittorie su tutta la fronte dal Tren­tino all’Isonzo — e giura prossima la fine del martirio : « l’alba della nostra alle­grezza è imminente »! Un velivolo au-

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siriaco sorge in faccia dal vallone di Mug- gia : proiettili esplosivi si schiacciano a poppa della macchina italiana : i piloti rientrano incolumi, le bombe lasciate ca­dere sui bersagli militari, i messaggi sulle case pacifiche.

Le azioni dal mare e dall’aria conti­nuano .intersecandosi, e i discorsi guer­reschi precedono e seguono le azioni : il poeta discende in sommergibile e resta som­merso sei ore all’agguato, risalendo esau­sto, ma fiero e ilare ; in presenza di Um­berto Cagni, a un equipaggio pronto per l’incursione, parla : « E ’ necessario scol­pire la statua della più grande Italia nella più dura pietra del Carso, in vista del­l’Adriatico » ; rivola su Trieste per una ricognizione (28 agosto), e, al ritorno, sof­fermatosi a Grado, si impiglia nella folla che lo riconosce e gli si assiepa intorno : egli la investe con una breve orazione gioiosa.

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Trieste non lo rende immemore di Trento.

Per Trento, come per Trieste, parte un pomeriggio : del 20 settembre : ma il volo è aspro : nuvolaglie impressionanti sbar­rano la rotta ; foschìa compatta : il veli­volo è squassato dal vento che ne ab­branca ogni momento la prua ; ma proce­dono ; finalmente, in fondo a un vortice di nubi, si scopre la città : in memoria dei 21 fucilati del Castello nel ’48, sono gettate 21 copie del messaggio, che è ampio, rievocatore, promettitore ; fa una cronistoria fedele e provata dei progressi italiani sulla fronte ; giura : « Non torne­remo indietro se dalla Chiusa di Verona l’Adige non refluisca verso la sorgente ». La via per il campo è più rischiosa an­cora, ma più facile : il vento in poppa si aggiunge al motore ; l’apparecchio è sol­levato via a 130 chilometri l’ora: pare una foglia mulinata : shrapnels lo inse­

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guono il capitano Ermanno Beltramo, giovine pilota, ma già esperto d ’ogni ar­dimento, confesserà poi di non aver mai fatto un volo così drammatico sull’orlo del pericolo.

Nel messaggio a Trento una frase ci im­pressiona : alludendo all’« obbedisco » di Garibaldi, prelude a Fiume. « Quella paro­la, non scritta, ma vivente, sta su ciascuno di noi non come segno di divieto o di ri­nuncia ma sì d’incitamento a operare e a pa­tire cose più grandi che le nostre forze stes­se. Noi non obbediamo, non possiamo ob­bedire se non al genio inesorabile che ci spinge sempre più oltre ». La sera stessa dell’incursione il poeta parte in automo­bile e passa metà della notte in trincea : inizia così una sua lunga visita che egli compie come osservatore e incitatore, se­condo le già superate previsioni del Ca­dorna, lungo tutto il fronte Trentino.

E come l’incitamento valga, dimostra

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la lettera d’un ufficiale pubblicata T ll ot­tobre dal « Corriere » : vi si parla d ’un discorso tenuto a un reggimento vittorioso, nella cerimonia della consegna d’una meda­glia d ’argento al Generale Zanchi e del gran­de effetto prodotto sulle milizie ascoltanti.

La visita al fronte si stende via via a tutte le linee della Carnia, del Goriziano, del Carso ; ma non cessano i voli : il 21 ottobre, con una squadriglia da bom­bardamento, superando vento e nebbia avversi, il D ’Annunzio si abbassa audace e lancia le sue bombe sul campo d ’avia­zione di Aisovizza. Ma farà di più: l’a­zione è la sua vera espressione: la sua prosa s’è rinnovata, s’è fatta quasi metal­lica; ma non può eguagliarsi alla musica delle armi.

Mescolatosi ancora più con i marinai, li accompagna ed assiste nel tumulto della battaglia, con una cooperazione che pare l’allenamento alle gesta del Faiti e del Timavo.

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Parlando di Umberto Cagni nel « N ot­turno » il poeta stesso si lascia sfuggire un grido di orgoglio : « Egli sa quel cheio feci, coi marinai, nell’ottobre del 1915 » ; e a Milano, nel teatro alla Scala, il 19 gennaio 1916, esclamerà: « Nelle gior­nate sanguinose di ottobre ero in quella mite Isola Morosina tutta dorata e tre­mula di pioppi, divenuta un inferno di fragore, divenuta la più grande e potente nave d ’Italia, munita di cannoni navali serviti dai nostri marinai che compiono ogni giorno gesta sublimi ».

Infatti il Cagni, che era a Venezia con la sua divisione, smantellava dei cannoni di grosso calibro, momentaneamente inu­tili, certe navi e l’arsenale e, come egli narra in una lettera, mandava i suoi uomini a portare e piazzare i pesantis­simi pezzi, nei pantani e nei canneti della laguna, più vicino che fosse pos­sibile al nemico : era un disegno ge­

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niale ed eroico : avveniva come se si fos­sero ancorate navi insommergibili a tiro della costa nemica ; ma bisognava scavare a braccia i canali per il passaggio dei grossi pontoni che portavano gli affusti e le boc­che. L’orlo della laguna e gli isolotti diven­tavano un’ossessione per i nemici che con­centravano su quella terra bassa il loro fuoco più rabbioso. Le prodezze dei no­stri uomini si succedevano superandosi d ’ardimento : il poeta era sempre tra uffi­ciali e marinai, presente dove, sulle artiglie­rie scatenate, infieriva di più il bombar­damento nemico, a consolare, a incitare, a sospingere con la parola i reparti, a raccogliere con le braccia i feriti, a sor­reggerli durante le medicazioni in una commovente dedizione.

Ma la sua vena di poeta non ri­stagna : nelle pause della battaglia egli evoca le grandi Ombre, gli Dei e i De­stini, e canta al cuore della Nazione il can­to della fede e del sacrificio.

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Il 2 novembre pubblica sul « Cor­riere » : « Tre salmi per i nostri morti » : il modo metrico è un suo modo di guerra,' che riadoprerà sovente, perchè molto a- datto a contenere senza necessità d ’ar­tificio i getti improvvisi : sono versetti biblici liberi da ogni costrizione di rima, di verso e di strofe ; ma la libertà è solo apparente : fermenta nei disuguali periodi una voglia di canto che pare abbia vergogna di mostrarsi : in effetto non si capisce come questa forma si sia creata : gli endecasillabi di tanto in tanto ondeg­giano colmi innalzandosi, e poi si rove­sciano in se stessi come cavalloni marini dentro un mareggiare di prosa musicale ; ma sono essi interrotti dalla fretta che non permette troppo lunghi indugi all’ar­tefice, e si hanno quindi ondate di canto, tra le quali il poeta ha lasciata fluire la prosa, — oppure il poeta ha voluto espri­mersi in prosa, per bisogno di farsi umile

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e disadorno, ma contro la sua stessa vo­lontà, la prosa s’è innalzata, per il pre­potente impeto dell’ispirazione, in sonori versi, e ne sono balzate inconsciamente le strofe compiute, per riatterrare in per­fette cadenze ritmiche ?

I Morti sono glorificati e santificati con una certezza impressionante della vittoria (siamo nel 1915), pur nella consapevolezza ormai piena delle crescenti difficoltà e della vastità del sacrificio inevitabile ; e note profetiche audacissime, come l’ accenno alla spartizione delle terre e dei mari dopo la guerra, e la grandezza e il peso del­l’ossame del S. Michele, si legano a mo­tivi musicali e poetici, come le carezzanti parole d’amore per Zara, che ritroveremo in una musica più spiegata e raggiante nel cantico per l’Ottava della vittoria.

I Salmi sono compresi dal popolo e ammirati ; Genova li vorrebbe ascoltare detti alla moltitudine ; ma il D ’Annunzio,

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che non vuole nè dimenticare nè sciupare i giorni di Quarto, promette che scriverà per Genova un canto nuovo: e il 10, nella Superba, aristocrazia e popolo, cir­condano la prima volta con un abbraccio d ’amore i feriti e i convalescenti e, al Carlo Felice — nello stesso luogo in cui un giorno Goffredo Mameli aveva lanciato alla moltitudine il suo Inno « Fratelli d ’I­talia » ancor caldo dell’incudine — ascol­tano la prima delle « Preghiere dell’Av- vento », pronunciata, dopo i « Tre Sal­mi », dalla voce di pianto e di canto d’Italia Vitaliani : « Per i morti del mare » !

In maschie strofe saffiche si evocano i morti colati a picco dal tradimento, e par che singhiozzi lo stesso dolore virile e si incupisca la stessa nostalgia della battaglia navale non combattuta, che agita i carmi per l’Ammiraglio di Saint-Bon delle Odi Navali : dai fondi marini gli eroi atten­dono che Roma li chiami al resurressi.

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Indimenticabile giornata : la voce del poeta ha ancora la virtù suscitatrice del maggio.

E non resta.Per il palazzo comunale di Cervignano,

la prima città liberata, detta una epi­grafe; per Zara prepara un disegno con la pianta della città e l’autografo di un passo dei « Salmi » ; per la Serbia scrive la sca­bra ode « imbevuta di sangue » che egli sa intonare così bene all’epica popolare di quel popolo primitivo — e che la cen­sura gli mutila cautamente ; ma egli se la stampa per conto suo, integra, e la dona agli amici.

Una febbre improvvisa lo obbliga all’i­nerzia, gli fa pregustare i lunghi martirii morali e fisici del Notturno ; ma una feb­bre più maligna gli è inoculata dagli av­versari della guerra.

Un deputato socialista, in pieno parla­mento, e proprio mentre il poeta dà prove

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così chiare della sincerità della sua fede, gli lancia in viso l’accusa che egli ha mercanteggiato il suo ritorno dalla Fran­cia, ed è venuto a Quarto accompagnato da donne, facendo mantenere sè e le a- miche dall’ospitale Comune.

Ne nasce un’incresciosa polemica, che, secondo il nostro costume di frugatori delle nostre ferite, si trascina per i gior­nali : per quasi un mese il tanfo del pet­tegolezzo ci ammorba : il poeta è obbli­gato a intervenire un paio di volte con scudisciate : l’8 dicembre egli afferma (e si nota, perchè questa è un’altra testimo­nianza della sua preveggente fede) : « Io non ho mai pensato di lasciare l’italia dopo la guerra. Ritornai nell’ora del pe­ricolo per dare alla mia patria tutto me stesso. Resterò nella mia patria per lottare con tutte le mie forze contro il nemico interno, che, come l’esterno, deve essere perseguitato e annientato. Io ho nell’una e nell’altra vittoria una fede ¡robusta^».

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Finalmente chi scrive queste note potè recare una prova che troncò la polemica di colpo, dimostrando la falsità e la mala fede dell’accusa.

11 12 dicembre esce la seconda delle Preghiere dell’Avvento : « Per la gloria ».

E’ d’una quasi rabbiosa violenza pro­fetica : rappresenta in sintesi epica il pe­riodo della neutralità : da una parte gli incitamenti quasi ostili dei futuri alleati, dall’altra gli sconci blandimenti senili degli alleati d’allora e del servidorame romano : l’Italia che attende in ambascia, meditando la sorte, pare nel canto una statua di bronzo ; quando si slancia, come leo­nessa nella lotta, la strofa si dilata e ac­cende : e il grido profetico affiorato già nei « Tre Salmi >, sfugge al poeta che già (1915 !) ha noverati i morti e presen­tita la dimenticanza dei popoli camerati :

« Di poi verranno i savii partitori — e distribuitori della terra ; — sicché cia­

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scuno, giusta la sua guerra, — godrà la parte e succerà gli onori. — Ma tu fa, Dio d’Italia, che al tuo cenno — gettiam nelle bilancie lor cortesi — un ferro ancor temibile, che pesi — più della spada bar­bara di Brenno ».

Non è ancora il poeta della « Canzone dei Dardanelli » e dell’« Ode alla Na­zione Serba » ? non è già il poeta della Marcia di Ronchi e di « Contro uno e contro tutti » — sebbene permanga in lui così serena la fede nella rinascita e nella missione latina nel mondo ?

E l’avvenire, costantemente aperto da­vanti ai suoi occhi, illumina le strofe ; dopo avere scritte altre « Preghiere », « Per il Re », « Per la Regina », getta giù la più maschia : quella « Per il Ge­neralissimo » il quale gli pare, in figura e in spirito, più grande del Colleoni, e fin d ’allora, gli si mostra, come poi tuttilo vedemmo, ritornante alla sua Pallanza, « sol di silenzio pago ».

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La frase non poteva ancora significare l’amarezza che traboccò nella lettera scritta dal Cadorna l’8 ottobre del 1923 : ma i poeti hanno infallibili presentimenti.

Il 21 dicembre è una delle più tristi date della sua vita.

Giuseppe Miraglia, in un volo di prova nel cielo di Venezia, precipita, e muore insieme con Giorgio Fracassini. Egli era l’eletto dal destino a compagno di pro­dezze del Poeta : colui che poteva dire : « Se proponessi a Gabriele D ’Annunzio di volare su Vienna, risponderebbe sem­plicemente : « Andiamo » ; si siederebbe sul seggiolino e non si volterebbe più in­dietro ».

Formavano « la coppia virile, la coppia da battaglia, conduttore e feritore », vo­tati com’erano con eguale serenità e de­cisione alla morte : « la necessità eroica della coppia alata, quando sia sopraffatta, è l’arsione totale ; — sapevamo che la

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nostra impresa era disperata — e non desideravamo di sfuggire alla bella sorte ».

Si preparavano : il poeta vuol gettare, in una incursione su Zara, un appello agli Italiani della Dalmazia : è un desiderio di consolarli, ed è il bisogno di un’ideale presa di possesso di fronte ai nemici e agli alleati : è già preparato il sacco dei messaggi « come quelli di Trieste » ; su­perate le solite limitazioni odiose degli uffici, i due fratelli hanno già allenato anima e corpo in parecchie incursioni ae­ree sulla costa nemica dall’agosto al di­cembre : hanno infine scelta la data : il 23 ; ma il 21 il sogno si spezza.

La prima parte del « Notturno » è tutta premuta dal dolore del poeta per quella morte.

Egli vorrebbe tuttavia eseguire l’incur­sione ; gli pare che, se non compirà l’atto, sconsacrerà la fede : e la sua ira è sopra tutto contro la morte che gioca a rispar­

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miarlo : già una volta Alfredo Barbieri è stato mitragliato nel capo, sedendo al po­sto esatto che avrebbe dovuto occupare Gabriele D ’Annunzio, se un incidente non gli avesse impedito di partire : egli re­spira l’atmosfera delle morti sublimi e delle resurrezioni, e vorrebbe essere nel nu­mero di questi consacrati : Luigi Bailo, Oreste Salomone.

Ma il volo su Zara gli è vietato.Egli non si disanima, e continua a

prodigarsi nei voli alterni dell’ala e del­l’ispirazione : col tenente di vascello Bo­logna compie una lunga serie di fruttifere ricognizioni sulla costa istriana, e pubblica frattanto a celebrazione della Notte di Natale una lirica nuova : « Il Rinato » : Gesù nasce in trincea, è fasciato nelle fasce da piedi ; soffre tutti i disagi, ma « colui che è il più forte era il suo nome ». La sua poesia frattanto s’espande e mo­stra d ’essere veramente seme eroico : L’O ­

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de alla Nazione Serba è tradotta dai pri­gionieri serbi del Castello di Cavi in Li­guria, i quali una strofe v’aggiungono per fraterno compenso : l’ultima : « Iddio con­servi il poeta latino — e ne diffonda la gloria nel mondo — fin che il bosco s’a- dorni d’alloro, fin che vi saran canti ed eroi » : e promettono al cantore, nei modi della loro lirica barbara, due focacce per il suo pane di gloria... Chi se le divorò nei giorni delle trattative di pace ?

Trieste è sempre la prediletta delle sue incursioni : il poeta rivola su San Giu­sto il 17 gennaio 1916: in un caldo messaggio annuncia la morte di Timeus, Venezian, Slataper, Pitteri : ripromette più saldo la liberazione ; al ritorno lascia ca­dere sulla piazza San Marco di Venezia, alla folla, un messaggio di risposta della sorella schiava.

Potranno parere « gesti », se pure com­piuti nel rischio e con valore ; ma il sor­

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riso degli scettici si spegnerà quando essi sapranno che a Trieste, nella stessa sera in cui era stato gettato, il messaggio, non ostante gli occhi irrequieti ed aguzzi di poliziotti e di spie, correva segretamente la città in un’edizione poligrafata di 10.000 copie, letto avidamente, si vorrebbe dire mangiato avidamente, come pane dell’a- nima affamata.

Ma il pensiero dei fratelli insidiati dal­l’Austria non faceva dimenticare al poeta quelli che insidiava il disfattismo. Il 19 gennaio viene a Milano in automobile da Venezia, invitato a leggere alla Scala le due nuove « Preghiere per i Combattenti e per i Cittadini ».

Si può immaginare la folla : il teatro è un vortice umano.

Egli parla : ancora una volta profeta, af­ferma : « Anzi io dico che da oggi le sorti della guerra, non tanto dipendono dalla prodezza dei soldati, indubitabile, quanto

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dalla pertinacia dei cittadini » ; — « ogni cittadino sia un combattente » ; l’entusia­smo dei Milanesi rammenta quello dei Romani nel maggio al Costanzi : si ven­dono suoi manoscritti per gli orfani di guerra ; il popolo si riversa in città ri­temprato alla resistenza ; il poeta riparte il 20, per andar a inaugurare un ricordo marmoreo al Miraglia.

Ed ecco che, nel mezzo della sua ope­rosità più febbrile ed efficace, il destino gli ritraversa la strada.

In un periodo di fervore grandissimo, durante il quale si prepara al volo su Lu­biana, e dopo che ha assistito alla ceri­monia della consegna della medaglia d ’oro al capitano Salomone — durante una delle tante rischiose ricognizioni su Trieste e l’Istria, è costretto ad atterrare, con l’i- drovolante pilotato dal tenente di vascello

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Bologna, in vicinanza del nemico : nel­l’ammarraggio l’apparecchio ha un urto d’estrema violenza : il poeta è ferito al­l’occhio destro : gli si produce un ampio distacco di rètina con una pericolosa e- morragia retinica. Egli non se ne pre­occupa, e vuol compiere la sua mis­sione : tornato, non soltanto non si lascia nè curare nè visitare, ma riprende due o tre volte i voli, fin che non s’accorge che l’occhio gli s’è spento del tutto. Allora si concede ai dottori.

La sua prima sosta è in un ospedaletto da campo, « su la riva dell’Ausa, nericcia come una gora di gualchiere » : i ciechi e i feriti agli occhi, tutti bendati, gli si accalcano intorno : mormorano : lo chia­mano per nome, lo palpano : uno dice con una indefinibile voce di dolore e stu­pore : « Questo è quell’uomo ».

Nel « Notturno » la rievocazione di quel­l’ora è una delle pagine più belle, pure.

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11 poeta è trasportato a Mestre il 25 febbraio, poi a Venezia : lo assistono il prof. Orlandino e il medico d’ Ago­stino.

La ferita appare subito grave e di gravi conseguenze, sopra tutto perchè fu tra­scurata : c’è il pericolo della cecità totale, specie se il poeta tenterà di rivolare a grandi altezze.

Pare che il sogno eroico si sfasci e pre­cipiti, come un velivolo dentro una palude. Ma Gabriele D ’Annunzio ha fede nella sua volontà di ferro : sa che supererà anche questo frangente.

E comincia allora il sottile martirio.Egli s’è raccolto a curarsi a Venezia

nella « Casetta Rossa » del Principe Fe­derico Hohenlohe — già presa in fitto, da quando l’Austriaco, sebbene nato a Venezia e innamorato dell’Italia, ha do­vuto migrare in Svizzera : è un gingillo caduto a qualche giovinetta Morgana pe­

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regrinante a volo sul canale : piccola, ricca, fragile come una scatoletta di porcellana, e preziosamente settecentesca « dal cam­panello della porta, alla gabbia del cana­rino placcata e dorata ».

Mesi di pazienza eroica, scossa da im­provvisi desideri d ’azione come sopras­salti della volontà guerriera, tormentata dalla costrizione all’immobilità e dal de­lirio lucido, — vita di morto che medita, e anela alla resurrezione : il poeta l’ ha rappresentata nel « Notturno » con po­tenza drammatica e con così sagaci a- nalisi del suo stato fisico e psichico, che qualche studioso ha potuto considerare le sue pagine come documento di espe­rienze scientifiche. « Il capo più basso dei piedi, i piedi congiunti, i gomiti contro i fianchi, la bocca aperta e arida, il cuore ambasciato, avvolto nel torpore, nel su­dore, nel patimento, nel tedio, nella di­sperazione », egli subisce i giorni, le ore,

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i minuti come un peso che Io soffoca ; ma vuol guarire, e resiste : e non perchè gli premano salute e bellezza : vuol ri­prendere le armi : il senso della guerra la quale è intorno a lui senza ch’egli vi par­tecipi è la sua vera tortura : qualcuno parla nella camera attigua alla sua : « Odo il nome di Patria, e un gran brivido mi at­traversa ».

Appena la notizia della sua ferita si diffonde, una pioggia di telegrammi si rovescia sulla « Casetta Rossa », a pro­vare quale posto egli abbia occupato nel- l’anima della nazione combattente: ci sono i potenti e gli umili, i grandi e gli ignoti, gli Italiani e gli stranieri: il Ca­dorna, il Duca D ’Aosta, il Salandra, il Marconi, il Salomone. Il suo stato d’a­nimo è riassunto nella risposta a Filiberto di Savoia: « perchè io possa presto ria­vere l’onore di servire sotto gli ordini del Capo che deve condurci al di là del

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Carso a Trieste » : la mente è vigile, il cuore la scalda; al Salomone risponde fraterno che si curi anche lui, che ricon­quisti le forze, e si prepari ; al Presidente della Lega Aerea Nazionale, che tutti gli Italiani si iscrivano « accomunati nella vo­lontà di rendere sempre più vasta e po­tente l’ala d’Italia»; e, in un poetico dispaccio al Barrès, dopo avere espressa la sua ansia per la battaglia di Douamont: « non impensieritevi dei miei occhi, fra­tello, ma salvate la bellezza del mondo per gli occhi novelli ». Trento, Trieste, Zara gli rivolgono commoventi parole per bocca dei loro fuorusciti; i marinai del­l’isola Morosina gli rendono il conforto che ebbero da lui nei giorni dell’otto­bre; e, mentre i giornali italiani seguono ansiosi le vicende della sua cura, quelli di Francia esaltano l’opera del poeta, ri­conoscendo schiettamente che egli è stato anche per il loro Paese un risvegliatore

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e un incitatore : il « Figaro » gli telegrafa provocando una risposta in cui il D ’An­nunzio rammenta e documenta la veridi­cità di sue predizioni che il « Figaro » stesso ha pubblicate in primavera « in Arie­te » ; e il Rostand, con movimento di grazia artificiosa, gli chiede d’oltre le Alpi: « Sento che siete curato da vostra figlia : si tratta della vittoria italiana? »

In queste condizioni di corpo e di spi­rito il poeta riceve l’annuncio della me­daglia d’argento per le sue imprese tra il maggio e il febbraio: al Ministro chelo ha informato il 23 marzo, risponde : « Trenta anni di amore alla marina hanno ora il loro suggello » : c’è la gioia ma­schia dell’uomo che ha attuato eroica­mente il suo sogno!

E poiché la decorazione fa raffittire i te­legrammi di saluto e di augurio, egli, a quanti può, risponde, variando con fresca fantasia l’espressione d ’una medesima osti­

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nata fede, che è più nettamente incisa in un dispaccio al « Gazzettino » : « Scrivo a occhi chiusi, spero di ricombattere a occhi aperti ».

Da principio il limìo del non poter ado- prar la penna era stato per il poeta un insopportabile tormento : « Quando la du­ra sentenza del medico mi rovesciò nel buio, m’assegnò nel buio lo stretto spa­zio che il mio corpo occuperà nel sepol­cro... dalla prima ansia confusa risorse il bisogno d ’esprimere, di significare ». Gli era vietato il discorrere ; non poteva vin­cere con la dettatura « il pudore segreto dell’arte che non vuole intermediarii fra la materia e colui che la tratta » ; l’espe­rienza lo dissuadeva « dal tentare a oc­chi chiusi la pagina». Ma il mito delle Sibille « che scrivevano la sentenza breve sulle foglie disperse al vento del fato », gli suggerisce d ’improvviso la maniera.

E comincia a riempire della sua scrit­

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tura robusta i cartigli che Renata gli taglia « in liste... stese sul tappeto della stanza attigua, al lume d ’una lampada bassa », mentre « il fruscio regolare della carta » evoca al poeta « quello della ri­sacca a piè delle tamerici e dei ginepri riarsi dal libeccio ». «Sollevo leggermente le ginocchia per dare inclinazione alla ta­voletta che v’è posata. — Scrivo sopra una stretta lista.... che contiene una riga. Ho tra le dita un lapis scorrevole. Il pol­lice e il medio della mano destra, pog­giati sugli orli della lista, la fanno scor­rere via via che la parola è scritta. Sento con l’ultima falange del mignolo destro l’orlo di sotto e me ne servo come d’una guida per conservare la dirittura ».

Così finalmente può liberare il suo pensiero che si torturava nella clausura, ed esprimere le visioni che gli s’accendono nel fondo dell’occhio ferito, con un’eccita­zione nervosa a cui concorre la ferita stessa.

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La cura sopportata con la pazienza di uno stilita par che giovi all’occhio ; ma appena egli — che a volte ha impeti di ribellione in cui vorrebbe strapparsi le bende e saltare a terra — tenta di alleggerirne i divieti, sul principio di aprile, il regime deve essere rincrudelito; le forze non sono più adeguate alla sop­portazione: l’esaurimento nervoso minac­cia la vita del poeta. Allora, dopo il cin­que maggio (l’anniversario dei Mille inon­da di nuovo di rimpianti e d’auguri la « Casetta Rossa ») si chiama per un nuo­vo consulto il Cirincione dell’Università di Roma : la diagnosi conferma la gravità della ferita (« inferto ematico sottocoroi- dale sollevante insieme corolla e rètina ») e la scienza rimprovera al malato le brevi fughe dei giorni trascorsi, quando egli si faceva condurre di soppiatto per qualche ora in uno dei più bei giardini della Giu- decca, a respirare se non a contemplare il

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verde e l’azzurro : tuttavia i medici gli con­sentono che si rimetta in piedi: soltanto dovrà camminare lento, cauto, con la fac­cia sollevata come i ciechi : e soltanto di sera potrà tentare i primi passi all’aperto.

In queste contingenze gli viene offerta una seconda volta la consegna della sua medaglia d’argento: ostinato egli rifiuta ancora: non la vuol ricevere se non in arsenale, appena guarito, e pronto ai voli nuovi : da vivo, non da morto : par che si sforzi di porsi davanti una mèta.

E continuano le visite, i telegrammi : gli amici di Francia gli mandano in aprilelo scienzato Laudolt, che rechi notizie dirette : quegli non sa se stupirsi più della gravità dello « scollamento della rètina »o della pazienza delle otto settimane di immobilità, ammirevole per un tempera­mento così irrequieto e avido. E il D ’An­nunzio può annunciare questa visita al Capus con una lettera di suo pugno.

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Nel maggio, l’anniversario della guerra riaccende intorno al poeta l’attenzione e la speranza degli spiriti più colti : innumerevoli i messaggi : caratteristiche alcune ambascerie come quella dei rap­presentanti della Scuola Italiana : egli approfitta d’ogni occasione per svolgere almeno il suo apostolato di fede e di forza: ridimostra l’inevitabilità dell’inter­vento, rievoca la battaglia civile da G e­nova a Roma, chiama quei giorni, i più belli della sua vita: — i giornali diffon­dono il seme della sua parola.

Ma ecco, scoppia l’offensiva austriaca nel Trentino: i Tedeschi irrompono oltre le nostre linee; l’esercito s’accavalla in on­date contro la minaccia : il Cadorna fa in poche ore balzare in piedi un esercito im­provviso, manovra per la controffensiva, ri­caccia su per le gole l’Austriaco: — la marea degli elmetti grigi, fiottando di baionette, refluisce sulle linee del Carso,

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e, come in una vasta ondata di risuc­chio, passa l’ Isonzo, circonda Gorizia, la scrolla: Gorizia è presa.

Dalla fine di maggio ai primi d’agosto il patimento del poeta per la sua immobi­lità diventa insopportabile : le nostre trin­cee finalmente avanzano: l’esercito cam­mina: avvenimenti forse decisivi, sono prossimi ; ed egli non può che aspettare le notizie : è un escluso : « Le giornate di Santa Gorizia mutarono ogni ansia ed ogni impazienza in una disperazione risoluta».— « Seppi allora quel che significassero le parole di Michelangelo: « Non nasce in me pensiero che non vi sia dentro scolpita la morte ».

Certo l’Italia ha perduto in quei mesi molta luce di bellezza eroica per l’assenza del poeta dalla fronte.

Sarà la prima e l’ultima volta.Ormai tutto fa sperare che la condanna

sia scontata. Sulla fine di giugno, Mau­

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rice Barrés pubblica a Parigi la narra­zione d ’una visita al D ’Annunzio, che rincora: ha assistito col poeta ai con­certi della « Casetta Rossa », tenuti da ar­tisti in grigio-verde; l’ha accompagnato in una passeggiata romantica nel cuore notturno di Venezia, fra le tenebre e i lumini azzurri: i grossi occhiali neri, il corpo perduto nel largo mantello d’uf­ficiale, il volto e le mani smagrite dalla sofferenza, ma la parola sempre più fiera e vigorosa e colorita: egli è ancora, pur così logorato, l’animatore della nazione, colui che « ha precipitato » il destino, « a grandi colpi di discorsi-odi»; colui che ha battuto il partito dello straniero, incalzan­dolo da Genova a Roma.

A questi riconoscimenti s’aggiunge una gioia intima: la Renata del «Notturno» che gli agitava l’anima di dolcezza quando il mattino leggeva a lui cieco i cartigli che egli aveva scritti nella notte, quella

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che riempie le pagine del martirio d’una commozione pura e umana quale il D ’An­nunzio non rivelò mai così semplice, si sposa con il Tenente di Vascello Silvio Montanarella.

E’ il segno della liberazione ? La cu­stode ferrea e delicata dei divieti si ritira, perchè i divieti non han più valore?

Il 18 d’agosto infatti Gabriele D ’An­nunzio, in piedi, all’aperto, parla: il suo occhio può resistere al tremito metallico della sua parola scandita : egli porge il sa­luto dei camerati superstiti a un caduto: all’aviatore francese Jean Ronher: è il canto della bella morte, cantato da lui che la morte non volle prendere ; l’ inno al sorriso latino della Francia, che san­guina sotto il furore tedesco.

E allora tutte le città d ’Italia gli chie­dono la parola che è alimento : egli promette; promette a Roma l’orazione inaugurale dell’ esposizione garibaldina :

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« mostrare al popolo le sublimi reli­quie è accendere nel paese un focolare di eroismo » ; promette a Genova l’ora­zione per Nazario Sauro, che ha cono­sciuto ed amato e per cui ha tanto tre­mato d ’angoscia.

Ma non manterrà: l’azione lo ripren­derà tutto fra poco.

Egli si riavvicina alla fronte: a Venezia si incontra col ministro Scialoia, rievoca le glo­rie aviatorie dell’ Italia e s’accende: a Capo d’istria visita la vedova del martire, rie­voca l’Eroe profondamente amico e si sublima nella aspirazione ad eguagliarlo...

E’ alle soglie della vita nuova.Le varca.

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PARTE III.

DALLA RESURREZIONE ALLA VITTORIA

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« La data della mia rinascita è il 13 settembre 1916 ».

Egli era guarito, di certo ; ma non ostante sette mesi di crucciosa inerzia il « visus » dell’occhio destro era abolito, « in modo assoluto e permanente >.

E di più una predizione infausta : se vo­lerà a grande altezza, o gli sbalzi di pres­sione, o i sussulti e i tremiti della mac­china gli riapriranno la ferita : e questa volta soffrirà e poi se n’andrà anche ro c ­chio sano : sarà la cecità totale.

Egli assume sopra di sè la responsabi­lità, e rivola.

In un’azione in grande stile, un’incur­sione di idrovolanti su Parenzo, riprova il suo sangue freddo ; ma per fortuna non

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risente nè delle vibrazioni del motore, nè del sobbalzar del velivolo in acqua.

« O giornate di Parenzo, pomeriggio di settembre torbo e chiaro, con qual segno ti segnerò nella mia tavola votiva? Conducevo il secondo gruppo dei bom­bardieri navali: Luigi Bologna, che era di nuovo il mio pilota, conosceva la mia prova, e la secondava maschiamente, con un cuore senza fenditure. Il bordo della carlinga sulla mia destra, era libero a di­segno. Avevo preso tra le mie gambe una giunta di quattro bombe in gabbia, da lanciare a mano ; e avevo messo con­tro l’altimetro il pronostico della cecità subitànea.

« A partire dai duemila metri di quota feci alternativamente l’osservazione oftal­mica e la fumata per tenere il gruppo riunito dietro la mia fiamma blu.

« A tremila metri il monòcolo vedeva. A tremila e duecento metri vedeva. A

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tremila e quattrocento vedeva, « pur con l’uno ».

« Il pilota si voltava a un tratto verso di me con un cenno; con un cenno gli davo il risultato dell’osservazione. Dialogo indimenticabile dell’amicizia guerriera nella grande altezza »...

Giunto al punto d’attacco « Luigi Bo­logna calò a milleseicento metri... Nel brusco cangiamento di pressione, vedevo ancora». Il poeta si sentiva così lieto, che lassù « avrebbe potuto cogliere una stella dell’empireo » e giù al ritorno, gli parve che i compagni aspettanti, nel sol­levarlo sopra le loro spalle, lo « esaltas­sero alla cima della loro gioventù ».

Riaperta la strada al suo ardimento, sùbito lo riprese la foga dell’animatore, l’avidità del combattente: come può an­dare all’inaugurazione della mostra gari­baldina, che egli vorrebbe tenuta nel ri­scattato Palazzo Venezia ? Si prepara

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l’offensiva del Carso : meglio oprare che parlare : manda il manoscritto de « La notte di Caprera » chiuso nel fermo di sicurezza di una delle bombe di Parenzo : ricorda, come per incitamento a se stesso, la sua invitta ostinatezza contro l’Austriaco, e la spada senza elsa donata da Trieste a quel Menotti che un giorno egli ha por­tato morto sulla sua spalla : quella spada vorrebbe recare al Cadorna egli stesso.

Ogni suo gesto, ogni sua parola ha una vibrazione bellica.

Al padre del Miraglia, celebrato a Na­poli in memoria dell’eroe, telegrafa: « Egli è qui con me al suo posto di combat­tente » ; al Generale Gandolfo, promosso per le prove del San Michele, manda una copia delle orazioni « Per la più grande Italia » ; agli studenti di Busto Arsizio, che gli chiedono di intitolare a lui il loro Convitto, risponde che ha gioia dell’atto sol perchè l’annuncio gli giunge in trincea.

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Par proprio ch’egli voglia riscattare i suoi mesi di inerzia.

E siamo giunti infatti al periodo delle sue prodezze più belle, tra la fine d’ot­tobre e il principio di novembre : « le giornate del Vallone, di Doberdò, Quota 265, del Veliki, del Faiti ».

Per evitare il disagio della benda « fa­stidiosissima nel servizio aereo », si era voluto per qualche mese tenere alla terra : accolto come tenente di complemento in servizio di collegamento nella 111 Armata, era stato assegnato alla 45a divisione : l’esercito preparava l’azione : egli prepa­rava se stesso : e non era facile ! la virtù visiva sregolata, non misurava più le distanze : le ineguaglianze ed asprez­ze del terreno carsico moltiplicavano la gravità del difetto : quando correva erano continui inciampiconi e cadute da cui si rialzava sanguinante, rimpiangendo le ali : « senz’ali non può ».

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Nacque allora, dal suo tormento e dalla costrizione del suo pensiero, quel « me­moriale » a Luigi Cadorna, nel quale, con entusiasmo di poeta fecondato da una si­cura preveggenza pratica, egli, primo, det­tava le norme per la tattica di azioni com­binate tra squadriglie di aerei e battaglioni di fanti : azioni che poi vennero in realtà condotte con straordinari effetti ; egli non soltanto seppe allora immaginare una bat­taglia che a un poeta poteva rammentare la lotta degli arcangeli che nei poemi classici sorvola,, incitando e aiutando, la battaglia degli uomini, — ma precisò di simile sforzo i piani, e contribuì poi ad attuarli con sorprendenti doti di soldato.

In quei giorni di preparazione conobbe il suo ardimento la punta del saliente o- rientale della 111 armata (San Giovanni, Quota 28). Ma il suo eroismo si affermò nelle giornate del Veliki Kribach e del Faiti Krib.

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Nella prima fase in cui l’esercito pal­pava il terreno dell’azione, egli, acuendo la vista con uno sforzo della volontà, si cacciava sempre in prima linea, per o- rientarsi sulla natura dei luoghi e sugli scopi del combattimento ; riportava dati precisi, vedute tattiche geniali ; e frattanto incuorava i soldati che erano orgogliosi e rassicurati di quel vederselo sempre ac­canto operoso, scoperto, intrepido : in una dolina avanzata parlò ai difensori sotto il tiro, a pochi passi dal nemico : e i sol­dati ne furono tanto commossi, che bat­tezzarono la dolina col suo nome.

Ma quando l’assalto scoppiò con il ro­vinoso impeto d’una bordata di proiettili, egli fu tra i soldati a gomito a gomito, con calma, con sprezzo del pericolo, li incitò, li sospinse : distribuiva, ritto in mezzo a loro, parole che mordevano il cuore, e bandiere che subito sventolavano sopra la rapina dell’assalto.

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Furono le giornate del 10-13 ottobre; poi del 1-3 novembre : indescrivibili ; egli ne uscì promosso capitano per merito di guerra, e proposto per una nuova me­daglia d’argento ; ma ne ebbe premio più grande : tre prose eroiche composte in esaltazione del suo valore da quel Gio­vanni Randaccio che fu maestro di ardi­mento ai più prodi : il fante dei fanti. Fe­rito al Faiti e portato all’ospedale da cam­po 031, il Randaccio, il 7 novembre, chiese un foglio : non c’era : trasse dalle tasche della sua giubba la carta topografica che gli era servita per dirigere la battaglia, e scrisse sul rovescio i tre inni in prosa che piacquero al poeta più d’ogni altro onore.

11 D ’Annunzio stesso ha dipinta quella battaglia come in un affresco nell’orazione « La corona del Fante » rivolta nel 1917 ai suoi compagni superstiti : Ai lupi della Brigata Toscana: 70° Reggimento, se­condo Battaglione.

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« Era la ferie d ’Ognissanti... Una bat­taglia d’oro in una luce d’Oriente... certo, tutti i santi della Patria avevano gettato le loro aureole in quel punto dell’aria dove i soldati balzavano all’assalto. Non s’era mai veduto tanto rilucere gli uomini, tanto le cose rilucere. 11 sole s’avanzava come una trasfigurazione... la dolina... la bocca della caverna... lo zaino di tela sulla schiena dei fanti... le croci d’abete splendevano, le barèlle splendevano, e i dischi della conquista splendevano come ostensorii. E più di tutto splendeva il sangue... Le gra­nate talvolta avevano un suono chiaro di grandi cimbali percossi. Pareva che anche gli scoppi si dorassero. Erano talvolta co­me potenti battute di timpano nell’oro... Gli assalitori cantavano... I Fanti morde­vano l’azzurro. La luce moltiplicava d’at­timo in attimo l’impeto. L’impeto era una ascensione celeste. La forza rimbalzava dalla morte... Bastarono cinquanta minuti

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di ebbrezza. A mezzogiorno il Veliki era nostro. I prigionieri balbettavano : « Co- m’è possibile »...

« Si rinnovava il portento del Sabo­tino... Come la gran lena della nostra vit­toria superò la groppa feroce precipitan­dosi giù per i rovesci, così abbandonò essa dietro di sè il Veliki ignudo e deserto per correre più oltre ».

Il D ’Annunzio ch’è rimasto sempre in piedi tra i fanti, seguendo l’assalto nel suo vortice progressivo, ha data una ben chiara prova di giovinezza.

Con i compagni ufficiali partecipa al consiglio di guerra, tenuto dopo il primo assalto vittorioso in una caverna : « acco­sciati sul sasso nella cripta selvaggia, la bandiera spiegata sulle nostre ginocchia... un solo mozzicone di candela ardeva a terra... Coi guizzi e colle ombre serviva a rendere piò crudo, fra mento e fronte, l’intaglio del proposito in quei volti os­suti. Quando si spense, ciascuno ebbe la

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sua luce in sè. Tutti balzammo in piedi, primo Giovanni Randaccio ».

E mossero alla conquista del Faiti.Una granata scoppia presso il poeta e

lo ricopre di schegge ricadenti : il Ran­daccio ordina a un fante che ne stacchi con la baionetta l’armilla di rame : « ne faremo una corona per il nostro compa­gno ».

« Di quella baionetta fu irto l’estremo saliente del nostro sforzo orientale tra Ca­stagnevizza e il Vipacco ».

Il 3 novembre il Comandante detta alle truppe il suo Ordine del giorno conclu­sivo dell’azione : « Ufficiali, graduati e sol­dati del secondo battaglione, siete tutti eroi ».

Si può ben dire che mai come questa volta la Poesia s’è tramutata in prodezza in chi l’ha creata e in chi l’ha ricevuta.

La medaglia d’argento è consegnata al D ’Annunzio il 5 dicembre ; la motivazione

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dice : « Entusiasta e ardito in ogni suo atto, l’esempio dato fu pari alla parola e gli effetti efficaci e completi » : nella rozza sintassi soldatesca, l’eroismo raggia più schietto.

Una pausa : non un vuoto.Il 21 dicembre il poeta è a Venezia,

per le onoranze al Miraglia ; a metà gen­naio, nei giorni in cui Milano si riesalta a udire la sua « Preghiera per i cittadini »,— il colonnello De Gròndrecourt conse­gna al capitano D ’Annunzio, decorato e mutilato, la croce di guerra francese, e il Generale Lyautey accompagna l’offerta con una lettera da Roma « al grande I- taliano che predicò una guerra santa dal­l’alto del Campidoglio... incitò l’eroica le­vata degli scudi latini... scelse per l’inces­sante battaglia l’arma più audace e più rischiosa ».

Il poeta risponde in una concisa ora­zione, che l’onorificenza gli è il segno più

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ambito da un combattente, perchè « è quello medesimo del quale si fregiano i petti che sulla Marna miracolosa e nei carnai sublimi di Verdun hanno salvato il volto del mondo ».

Ma ecco un dolore.Il 27 gennaio 1917 la madre del poeta

si diparte da lui : a 77 anni muore tra le braccia delle figlie e della vecchia ancella, in quella Pescara dov’era venuta sposa a 18 anni, in quella casa dove i Pescaresi l’avevan veduta per anni ogni mattina, starsi un poco affacciata al balcone tra i garofani e i gerani e rispondere dalla rin­ghiera di ferro ai saluti dei paesani che le chiedevano notizie del lontano : il tran­sito di Luisa De Benedictis è come il transito d’una santa : essa raccoglie nella pace il premio dell’umiltà con cui ha ri­cevute tante gioie, della fermezza con cui ha resistito al fendersi della sua casa e del suo cuore.

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Il poeta che ha dal Cadorna stesso l’an­nuncio, parte per la terra natale ; rivede la « piccola patria » come l’ha riveduta nei giorni del commiato : « le mura di Pescara, l’arco di mattone ; la chiesa scre­polata, la piazza coi suoi alberi patiti, l’angolo della mia casa negletta » ; entra come allora : sale le scale in mezzo a un silenzio che « è pietà e pudore ». Varca le stanze di soglia in soglia rivivendo « terribilmente » le cose della sua infanzia. S’inginocchia davanti alla Morta composta ormai nel talamo.

I funerali si svolgono tra il compianto d ’un popolo, il primo di febbraio : il poeta se ne accora e turba : lo prende la febbre ; migliora : riparte per il fronte.

Grandi eventi incalzano : l’America s’a­gita : basta forse di note alla Germania :il lievito degli ideali gonfia e tende quella volontà, che pare così lenta a muoversi: si avvicina anche per gli Stati Uniti l’ora dell’azione ?

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11 tre di aprile il poeta, unica voce che sappia levarsi, in Europa, non già nel nome della politica gretta, o di una rettorica inerte, ma per il sentimento profondo delle più alte verità, getta il suo Messaggio agli Americani per l’in­tervento :

« Oggi per l’anima d ’Italia il Campi­doglio di Washington è divenuto un luogo eccelso di luce come l’arce romana... E sembra che in questo aprile di passione e di tempesta riecheggi il grido di un A- prile già torbido di allegrezza e di cor­doglio nella storia degli stati : « O capi­tano ! O mio capitano ! Sorgi ed ascoltail rombo dei bronzi. Lèvati ! Per te la bandiera sventola ».

« L’Associated Press » diffonde il mes­saggio tradotto in tutta l’America : « Ora la bellezza precipita e trabocca sul mondo come un torrente di maggio. Non abbiamo petti abbastanza capaci per raccoglierla e

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contenerla ». « 11 gran popolo della ban­diera stellata, alzandosi in piedi per di­fendere lo spirito eterno dell’uomo, oggi aumenta a dismisura questa somma di bellezza opposta al furore e al fragore della barbarie ». Il 6 aprile, Woodrow Wilson dichiara formalmente lo stato di guerra e mobilita la flotta : « Eravate una massa enorme e ottusa di ricchezza e di potenza. Ed ecco vi trasfigurate in spiri­tualità ardente e operante ».

La fatica dell’animatore non ostacola quella del combattente.

E’ del 13 aprile l’incursione navale su Pola alla quale egli partecipa, con i pic­coli motoscafi costruiti apposta per sca­valcare le ostruzioni senza far scoppiare gli ordegni in agguato.

Alla fine dello stesso mese riprende i suoi voli, ed è assegnato a una squa­driglia di bombardamento. Intanto in Paesei suoi versi sono ancora dovunque ripe­

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tuti a incitare e incuorare : a Milano li legge, in una memorabile sera, Senatore Borletti, colui che affiancherà così gene­rosamente il poeta nell’impresa di Fiume.

E si avvicina il secondo anniversario della guerra : non trova come il primo il poeta riverso in un letto come in una bara : lo trova in piedi, armato di ardi­menti nuovi e di antica costanza.

Già il 23 maggio egli prende parte al bombardamento dall’alto in appoggio alle truppe della Terza Armata.

L’azione aerea è stata da lui propu­gnata, egli stesso l’ha preparata con lun­ghe e numerose incursioni di osservazione : appena si scatena la potente offensiva da Castagnevizza al mare, che sbalordì il nemico, prendendogli nel primo solo sbalzo novemila prigionieri, è lui ad animare la pertinacia dei 130 velivoli che rovesciano sugli Austriaci 10.000 chilogrammi di bombe.

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Poi, mentre l’offensiva si sviluppa, in­cendiando tutto il Carso, e i nostri bat­taglioni vittoriosi contendono le posizioni raggiunte ai furibondi contrattacchi ne­mici, egli ridiscende a terra a ripetere le te­merarietà del Faiti, e come ufficiale di col- legamento prende parte alla battaglia del Timavo, una delle più fiere azioni di quel periodo di guerra : presso S. Giovanni gli Austriaci ripetutamente erano riusciti a passare, e, ricacciati, a ripassare ancora il fiume, poiché eran forti di numero e sorretti da una formidabile artiglieria : ten­devano ad aggirare i nostri e stavano per prenderli alle spalle ; quando i nostri si trovarono in rischio mortale tra il fiume e i nemici, Gabriele D ’Annunzio in mezzo a loro li rincuorava contribuendo a man- » tenerli saldi intorno a San Giovanni, come durante tutta l’azione li aveva incitati e sorretti senza tregua.

Nè si ritirò nelle pesanti giornate di

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diluvio in cui le posizioni erano diventate lagune di mota rossa. In queste azioni a quota 28 fu colpito Giovanni Randaccio ;10 portò il poeta fuori della mischia al posto di medicazione, e poi a Monfalcone dove l’eroe morì il 28 maggio, senza un lamento.

Il D ’Annunzio fu allora proposto con­temporaneamente per due medaglie : una da chi lo vide operare nel cielo, l’altra da chi lo vide operare in terra : il Duca D ’Aosta fuse in una sola le due ricom­pense, ma nella motivazione unica, si sente la sua ammirazione : fu « per ardimento di maraviglia agli stessi valorosi ».

La morte del Randaccio rinnova in lui11 dolore della morte del Miraglia : nonlo isterilisce (il 21 giugno dedica al Ca­dorna un sonetto ben temprato ed a- lato) ma lo isola : tanto che egli rinun­cia, il 28 giugno, a partecipare al con­vegno aereo di Milano, per compiere, nel

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trigesimo del transito eroico, il suo do­vere verso il camerata che lo accompa­gnerà poi, ombra testimone, in tutte le sue azioni civili : quando la bandiera del Timavo sarà distesa dinanzi alle folla nelle adunate solenni a S. Giusto, in Campi­doglio, sulla ringhiera di Fiume.

11 Fante è l’eroe sovrano ; egli non può dimenticarsene ; e il Randaccio era il fante dei fanti ; perciò, anche quando il 30 lu­glio la vedova riceve la medaglia d’oro del Caduto, a Vercelli, egli è presente.

Ma l’aria continua ad essere il suo campo ideale.

Ridestinato in luglio all’ottava squadri­glia del quarto gruppo sul campo della Comina, col Maggiore La Polla, si ripro­tende tutto a moltiplicare le forze e la fede dell’Italia nel volo.

Nella cerimonia « del nastro azzurro » (23 luglio), mentre il General Maggiotto passa in rivista l’armata del cielo, dopo

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la premiazione di molti compagni e sua, egli parla : « ... questa sagra della vostra prodezza... uomini nuovi inventati giorno per giorno dal genio della nostra razza... strumenti formidabili costruiti nelle nostre officine improvvise... Taluno dei più prodi tra voi ha già oltrepassato la sua pro­dezza :... la guerra sarà risolta dall’arma del cielo :... sono presenti gli ospiti d’oltre mare, i messaggeri della giovane libertà che allarga e rinfranca la lena, ardente della nostra guerra col soffio dell’Oceano ».

Ma egli stesso sta per superare quanto ha fatto fin qui.

Nell’anniversario di Santa Gorizia (è del 6 agosto la sua lettera al maggiore La Polla : Bisogna bombardare, bombardare... « Bisogna bombardare Pola, bombardare Cattaro, ogni notte, con qualunque tempo. Mi mordo i pugni pensando che l’altra notte non ho potuto ottenere l’ordine di partire... 11 bombardamento aereo di Pola

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è oggi l’azione di guerra più utile che noi possiamo compiere. Bisogna andare con gran numero di velivoli, con grande quantità di bombe, ogni notte più... ») egli compie un’impresa aerea ideata, pre­parata, condotta da lui : piloti, i tenenti Pagliano e Gori, e osservatore il Sottote­nente Pratesi, irredento: nell’inferno della lotta celeste è la prima volta che la gio­ventù della guerra getta il grido Eja Eja Eja Alalà.

Notte di luna : si parte sulla strada d’argento del Tagliamento, puntando su punta Salvore : il mare scintilla : le coste sfumano glauche : i motoscafi laggiù guiz­zano agitandosi ai segnali dall’alto, e per­lustrano : fasci di luce, crude e lunghe sciabolate bianche, e uragani di colpi li investono dal porto di Pola : avanti ! Per una profondità di 3.000 metri tutto il cielo è tagliato dalle lame di luce, cri­vellato dagli scoppi dei proiettili : avanti !

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Essi si gettano, come uccelli attratti da uno splendore, sull’ incandescente tem­pesta ; e mollano sicuri e precisi 8.000 chili di bombe sullo scoglio degli ulivi, centro del movimento della flotta, e rifugio di costruzioni guerresche : tutte le navi an­corate intorno son prese sotto la grandine inaspettata : i volatori resistono due ore e mezzo al bombardamento da terra, senza mai smarrirsi, tenuti fermi sui bersagli dall’indicazione ostinata degli stessi fasci di luce che li saettano dal basso.

Gabriele D ’Annunzio è promosso per merito di guerra Maggiore.

Ma la sua abilità e audacia di guida­tore di stormi, non s’è ancora rivelata in pieno: verrà l’offensiva del 19-26 agosto tra il Monte Nero e il mare, a provar ciò che egli sappia e valga.

Pare allora che egli, ideatore della lotta concorde delle forze aeree e terrestri, sia proprio animato da una fantasia creatrice ;

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e che, abituato alla precisione del ritmo, la ritrovi, tempista perfetto, nell’azione.

Mentre le nostre artiglierie tastano nei bombardamenti di preparazione tutta la fronte nemica, i suoi velivoli mitragliano sui rovesci le truppe ammassate, ed egli, sempre in volo tra le raffiche degli sra- phnel, non si risparmia.

Veramente, come afferma nella sua re­lazione il Maggiore Pagliano, non in que­sta azione sola, ma in tutta la guerra, il D ’Annunzio seppe « di combattimento in combattimento superare la sua stessa ar­ditezza, la sua stessa perizia, rendendole ogni volta più pronte e più acute ».

Negli attacchi scende a bassa quota sulle teste dei nemici (gli Inglesi dicevano « a strappare i berretti alle fanterie ») : col Caproni crivellato di colpi e leso in organi vitali, ferito egli stesso, sebbene leggermente, al polso sinistro e alla tibia sinistra, non si cura che di rovesciare il

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carico d’esplosivi, tornar a imbarcare bom­be, e a rovesciarne ancora, trascinando con sè, in una specie di continuo volo circolare, le altre squadriglie.

Con entusiasmo, fermezza, arditezza, riesce a dare alla simultaneità degli at­tacchi terrestri e aerei una efficacia gran­dissima ; il 19 per esempio, nella mat­tinata, scaricate le sue bombe, discende a 300 metri sulle linee nemiche ; esposto alle rabbiose risposte di fucileria e di mi­tragliatrici nemiche, e traversando l’inevi­tabile traiettoria dei nostri proiettili, mi­traglia per 45 minuti trincee, movimenti di truppe, appostamenti d’artiglieria. Nel pomeriggio, col velivolo 16 volte col­pito, torna, scarica le bombe, e discen­de sulle linee austriache : questa volta per 50 minuti, sempre a trecento me­tri, e scegliendo con gran cura gli ob­biettivi, rinnova l’impresa della mattina. In tutta la giornata ha mollato trenta

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grosse bombe, e assestati 1300 colpi di mitragliatrice : e ha ricevuto sul suo ap­parecchio 38 colpi; il 20, 21, 22, ripete mattina e sera bombardamenti e scariche, ma discende a 50 metri sul nemico. Non soffre gli indugi delle riparazioni : non dà ai meccanici che il tempo di caricare gli or­digni : tre volte, per guasti, non può tornare alla base, e atterra ad Ajello. Il 21, riparato ad Ajello il motore, ritorna alla Comina : ma, viste le squadriglie che ripartono, non regge, carica in fretta ben­zina e bombe, e rieccolo sulla battaglia.

In 4 giorni le ferite del suo apparec­chio salgono a 127 ; elica, radiatore, tu­bazioni forate : il timone rotto da un colpo di artiglieria; il 21, 4 granate feriscono il velivolo ai 4 lati come per crocifiggerlo : l’osservatore di poppa ha la giaccia di cuoio trapassata da due proiettili, il poeta una piccola scheggia che gli si conficca nel guantone. In nove

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giorni ha volato dodici volte, e oltre a tutto è riuscito a riportare fotografie ni­tidissime, come quella presa a 100 metri dal suolo, che ha rivelato ai nostri l’esisten­za d’una ferrovia austriaca a scartamento.

E ’ decorato con la Croce di cavaliere dell’Ordine Militare di Savoia.

Non riposa.Il 20 agosto ci appare sul campo di

Taliedo, a Milano : riparte lanciando ai Milanesi un appello in cui si sente il vi­gile ardore del poeta civico nel combat­tente : « Oggi ogni utensile è un’arme prode, e la diligenza indefessa una forma d ’eroismo » — « Non lasciate che la viltà e la frode tradiscano alle spalle questa invitta volontà di vinpere ».

E già un’altra temeraria impresa si è di­segnata nella sua anima avida ; il quattro settembre vola per 1000 chilometri, nove ore e un quarto ! Comina, Venezia, Pa­dova, Vicenza, Verona, Milano, Novara:

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— vola tra basse nubi, temporali, forte vento : è una prova : l’impresa è il volo su Vienna ! Venti giorni più tardi ci riap­pare a Roma, con altri 4 aviatori, forse per discutere sulla fabbricazione e l’uso di armi nuove, in cui i difensori dell’A­driatico ripongono le loro maggiori spe­ranze di vittoria : si tratta forse di quei velivoli siluranti che già sarebbero stati adoprati contro le navi ancorate a Pola, se un improvviso pericolo di lasciar ca­dere il nuovo ordigno e l’invenzione in mano del nemico non avesse consigliato di sospendere il tentativo già iniziato. Pure, afferrato da queste necessità di guerra, egli tiene l’occhio fisso a ogni piccolo brusìo di vita del Paese e, in ogni anche minimo atto cerca di espri­mere e suscitare la fede : gli vien, per esempio, domandato un motto per « La Rinascente » : detta : « Italia nuova im­pressa in ogni foggia ».

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Ma ecco la notte tra il 4 e il 5 otto­bre. Le due notti precedenti con luna fo­sca, hanno trattenuto i volatori in grande ansia : alla terza partono comunque : han da percorrere duecento chilometri in linea d ’aria : si levano sicuri a 4000 metri, in perfetta formazione triango­lare : dove vanno ? 11 mare ancora una volta li guida : giungono sopra la costa nemica : un gigante è in vedetta contro la loro prodezza : il Lowcen : li inve­ste di colpi d’artiglieria : nulla ! essi re­stano volteggiando come uccelli da pre­da : dalle 21 alle 3 del mattino : Cat­tare, sotto di loro, laggiù, si accende a poco a poco di roghi, si trasforma in un cratere ; quattromila chili di bombe ca­dono a devastare navi, sommergibili, ap­parecchi terrestri : gli assalitori han do­vuto percorrere il mare aperto, subire deviazioni di rotta, traversare avversità at­mosferiche, reggere alla reazione dei ne­

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mici ; pure i colpi sono stati aggiustati con esattezza e in tutto il giorno se­guente la base austriaca è avviluppata dai fumi degli incendi : Gabriele D ’Annun­zio è proposto per una medaglia di bronzo e decorato il 12 ottobre sul campo.

Ma il pensiero dei velivoli « destinati alla caccia dei sommergibili » lo tormen­ta : per questi è di nuovo a Roma il 14, e trova modo, tempo e serenità di visi­tare biblioteche e istituti di ricerche filo­logiche ; la folla lo scopre, lo applaude ; nel frattempo, a Milano che non dimen­tica, Mario Pelosini recita le vecchie e nuove canzoni civili del poeta.

Ora un suo caro sogno è per avve­rarsi : gli vien affidata, perchè la consegni al Cadorna, la spada donata da Trieste a Menotti.

Pare un’irrisione del destino.E’ tardi !Congiunto con debolezze assai discusse

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e criticate dello schieramento militare, e con lo sforzo enorme concentrato su noi di Austria e Germania, il pericolo che anche il D ’Annunzio aveva tante volte sentito alle spalle dell’esercito, il nemico che rodeva nascosto le fibre della re­sistenza nazionale, ed a cui egli in tanti suoi discorsi pubblici s’era opposto, mi­nacciando e maledicendo, ha vinto.

11 nostro esercito, sotto l’urto dell’of­fensiva di ottobre, si piega, è rotto : il suolo della patria è invaso.

Caporetto.La dodicesima vittoria : la vittoria « o-

scura > ; quella caduta da cui il popolo si rileverà diritto, fiero, risoluto, per ag­guantare in due giganteschi passi, entro un anno di maschio dolore, la mèta.

Ognuno di noi che ha vissuto quel­l’ora può intuire quel che avviene nel cuore del poeta : egli, che sente incardinata in s è j a forza spirituale della patria, ma ap­

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punto per questo ha il senso di responsa­bilità della sua missione, e ha visto tutta crollare come un vecchio edificio per un terremoto la sublime realtà creata dal so­gno e dal sacrificio, dovette anche sentire che sopra tutto in lui era la speranza della resurrezione : riprendere la battaglia di maggio : ricominciare contro le forze ostili, annidate nell’anima nazionale, la lotta senza tregua, riscovare un’altra volta, raccogliere, ordinare, avventare agli scopi le energie più giovani e più sane : rifare d’un po­polo sconfitto un popolo prima anelante alla vittoria, poi vittorioso.

E non si smarrisce, non perde tempo.Discende a terra : si caccia tra i fanti,

urta le loro anime, le fruga con il fuoco, le ritempra, le ritende : e tien l’occhio e l’anima fissi anche sul Paese ; coglie ogni occasione per gettare carboni ac­cesi, per soffiare con il più forte sof­fio della sua inspirazione su quelli che

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vede già avvampare : la sua eloquenza recisa in ogni superfluità e in ogni orna­mento dal dolore, dalla necessità, dalla fede attiva, si fa più dura, scarna, cruda : tutta osso e tendine : scatta, vibra, si tor­ce ; con ali che hanno lame per penne, con becco e artigli di metallo, e occhi che saettano.

Tutta la guerra che egli ha combattuta e ha vista combattere si versa, come una materia incandescente, dentro le forme che assumono in lui i destini della razza : egli le trae su dalla tradizione, come scavandole dalla terra : e nascono certe maschie pa­gine di febbre, d’ansia, di volontà, di po­tenza, che paiono già azione, che sono in effetto il principio dell’azione, poiché i bat­taglioni le ascoltano impallidendo come boschi d’ulivo sotto la raffica marina.

Il piccolo volume « La Riscossa » che si stringe tutto in un pugno, è invece un gran vortice di ardore e di luce, in cui

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ribolle una delle più potenti espressioni della eloquenza civile di tutti i tempi : dove sono altre pagine simili in Italia e fuori d’ Italia ? quale popolo combat­tente sentì lo sbratto affocato di simili ali ?

Nè il poeta si contiene entro i limiti delle forze che egli vede in gioco nel rag­gio della sua azione materiale : vigila più lontano: il 10 dicembre detta il messag­gio agli Italiani degli Stati Uniti : « Voilo sapete ormai. Abbiamo sopportato la percossa, l’ingiuria, la vergogna, tutti gli strazii. Ed eccoci in piedi, eccoci sempre in armi. Stringiamo i denti sul nostro do­lore e lo mutiamo in ferreo proposito. Siamo due volte Italiani, oggi. Due volte Italiani siate oggi anche voi, nella terra della vostra pena comune, e della vostra conquista cotidiana ».

L’America ha dichiarata la guerra anche all’Austria : egli lo ripete e ammonisce i

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fratelli d’oltre Oceano : « Essa viene. Non vi incita, non vi spinge, non vi manda ; ma viene con voi. E non verrete voi tutti? Tutti con mille navi e con una medesima nave. Non è tardi domani. La nostra vera guerra ricomincia ».

S’egli guarda al Paese, il Paese guarda a lui.

Gli animosi che vogliono raccogliere a soldo a soldo il costo di una batteria da 105, da intitolare a Battisti, batteria ven­dicatrice, si rivolgono a lui per avere una epigrafe : egli detta : 1’ Eroe « non la­sciò lacrime in retaggio, ma durissima co­stanza » : è il 5 febbraio ; il 17 i quattro cannoni sono consegnati solennemente al­l’esercito sull’Altare della Patria in Roma.

Gli abitanti di Milazzo che vogliono offrire a Luigi Rizzo, affondatore della Wien, una medaglia d ’oro, chiedono a lui una dedica : egli detta : al « distrut­tore di navi perdutissimo e tranquillo »,

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e gli scrive : « conduci la prua disperata al di là della morte e ne torni con la fortuna attonita ». « La tua gente non spezza il conio, sa che tu non sei intento se non a superare te stesso e il sangue tuo ».

Rievoca le recenti e le remote glorie, prepara nelle anime le glorie prossime.

In un campo d'aviazione, il 20 febbraio, riceve da un Generale inglese la Military Cross : la prima assegnata ad un Italiano : ne profitta per magnificare l’eroismo ita­liano di fronte allo straniero. Come già il patrocinio della batteria, gli è offerto, il 22, quello d’un velivolo costruito con raccolte popolari e intitolato all’altro mar­tire, a Nazario Sauro : accetta ; la squa­driglia che l’ospiterà « si propone il più severo dei compiti — tutta fatta d’ardire e di ardore, ha il suo campo sul lido a- driatico — ogni sua azione potrà essere considerata una vendicazione del capitano

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Sauro ». La sigla dell’apparecchio S. A. ha un senso : « Sufficit Animus » — « Parto per andare a ricevere altri veli­voli attrezzati per la mia guerra. E giuro che l’ala dei fuorusciti io la condurrò ove si va per non ritornare ».

11 24, a Milano, è presente all’adunata aviatoria alla Scala, in cui parla vulcanico il Ministro Eugenio Chiesa. 11 domani parla il poeta : « Oggi la fede è vita, la fede è gloria. — Credere è necessario.— Noi ci confermiamo in una volontà solare ». Gli Italiani offrono (e offriranno !) velivoli ? E ’ un segno ! « L’ombra della macchina alata è simile all’ombra del le­gno di sacrifizio e di salvazione ». « Monte Grappa, tu sei la mia patria : o ala d’I­talia : tu sei la mia fede ».

E infatti il 15 marzo 1918 egli prese il comando d’una squadriglia S. A. (silu­ranti aerei) da lui costituita, e che tenne fino all’armistizio : sostituiti i vecchi Ca­

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proni da 450 con quelli da 600, cam­biati per sua pressione i motori, aggiunto un nucleo di apparecchi da ricognizione, egli fece della sua flottiglia un’arma su­perba.

Ma non solo di eloquenza e di prepa­razione egli si nutre e si placa.

E’ sbocciato in questo periodo il più originale fiore del suo eroismo ; la Beffa di Bùccari.

Stile italiano e stile D ’Annunziano : pro­dezza e ironia, ispirazione ed azione ; te­merarietà ed ilarità : più dell’ampia narra­zione che egli stesso ne ha data, e della breve lirica che batte come un cuore as­setato di gioia e di gloria, ed esaltato dai profumi italiani sulla costa nemica, vale a rendere la nuda bellezza dell’episodio una lettera scritta dal poeta a un amico, sùbito dopo l’impresa.

« Nella notte tra il 10 e l’i l febbraio, con 3 motoscafi armati, con 3 M.A.S.

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(Memento Audere Semper) abbiamo for­zato il Quarnaro. Che meravigliosa av­ventura ! Sono rimasto 23 ore in mare, delle quali 4 nella gola, anzi nel profondo stomaco del nemico. Mai il sogno m’è parso tanto aderire all’azione. Eravamo soli nelle tre navicelle. Abbiamo passato la Farasina con una impertinenza folle ; abbiamo navigato a meno di 50 metri dalla costa. Prima di entrare nell’imboc­catura di Bùccari, un uccellino ha cantato in italiano come un usignoletto novizio, fra un anatrare sommesso. Avessi tu ve­duto i volti dei marinai che tendevano l’orecchio al canto notturno !

« Siamo rimasti 35 minuti nel vallone di Bùccari. Abbiamo silurato il naviglio là ormeggiato. Siamo esciti coi motori a scoppio fragorosamente, lo ho lasciato in Bùccari tre bottiglie incoronate di fiamme tricolori e piene di scherno.

« Lo sbalordimento austriaco deve es­

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sere stato enorme. Le sentinelle tiravano all’impazzata. Come il terzo dei motoscafi ebbe un fallo al motore, ritornammo in­dietro nel canale di Farasina e vi scoraz­zammo da padroni. Le sentinelle, non po­tendo allora credere che fossimo Italiani, non tirarono più ».

Erano « trenta d’una sorte, e trent’uno con la Morte » : c’erano il viso ad ac­cetta, sempre acceso dal motto salace, del siciliano Luigi Rizzo, e le ganasce tenaci del livornese Costanzo Ciano, da­gli occhi acuti.

E il D ’Annunzio non fu meno mari­naio di loro, scarniti e cotti fin nell’osso da tutti i soli e i venti del mare aperto.

Il terzo anniversario della guerra gli fa sbalzare dal cuore (dal cuore suo e da quello di sua madre insieme) l’orazione alle reclute del 1900 : non è superata se non dall’altra che è forse il capola­voro della sua eloquenza di guerra : l’ora­zione alle reclute del ’99.

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« Eravate ieri fanciulli. La madre vi ravviava i capelli, accendeva la lampada dei vostri studi, rimboccava il lenzuolo dei vostri riposi. Vi ha chiamati la voce a cui non si può disobbedire ; e vi siete levati, a un tratto avete sentito nella gola un altro respiro: respiro dell’altezza ».— « Eravate ieri fanciulli e ci apparite oggi così grandi... grandeggiate nella vo­stra speranza, voi che l’avete ritessuta. Signoreggiate il nostro orizzonte voi che l’avete riaperto ».

E’ lo stesso soffio pindarico che gon­fia 1’ inizio dell’ altra precedente ora­zione :

* Compagnie dell’ultimo bando, ultimo- geniti della Madre sanguinosa, per voi oggi nel solco della battaglia è risorto l’alloro.

« Una musa armata lo tronca, lo piega e lo lega. Non di quercia o d’eschio, ma di lauro è la vostra corona vallare. E, se

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il poeta vero è colui che non cammina se non nel proprio sangue, io qui senza ritegno vi parlo il mio linguaggio di poeta, per liberare il canto che è in voi chiuso e il coraggio che in voi anela »...

« Ciascuno di voi sente quel che sa ogni eroe nel ratto improvviso : non es­sere la guerra se non un evento lirico, uno scoppio entusiastico della volontà di creazione ».

Vera canzone senza misura : vero im­peto di giovinezza del veterano che po­teva gridare ai giovani : « E perciò sono degno di star in piedi davanti a voi e di guardarvi bene in faccia giovane anch’io » ;— del veterano di cui il « Figaro » di­ceva, in un articolo di Ricciotto Canudo, il 7 maggio : « La sua sorte è più bella di quella del bellissimo poeta Sofocle. Ha ambito d’essere vate ! E ’ una affermazione di energia, eretta contro l’avvenire. Perciò il nemico ha posto la taglia su di lui

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come volesse colpire il cuore d’Italia » ; del veterano che il 13 maggio, nella rom­ba del cannone fra il Grappa e gli Alti­piani, in vista di Bassano, può ricevere senza impallidire, davanti ai Lupi di To­scana, la corona del Fante e rispondere alla rude eloquenza soldatesca del Ge­nerale Galiioni che gli consegna il serto di rame, con quell’impeto infuocato di prosa, in cui la battaglia d ’Ognissanti rag­gia come un cielo di Dante : « Chi può più parlare a voi dell’eroismo antico, o Fanti ? Potete strappare dalla storia le pagine dei noti esempi e mettervele per fodera dei piedi dentro le scarpe ». « La vostra vita è come il drappo della ban­diera e il vostro coraggio è come l’asta. Vi sono bandiere infisse che il vento la­cera e rapisce. L’asta rimane. 11 vostro corpo stramazza e il vostro coraggio resta in piedi ».

Gli uomini animati da lui così alla bat-

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taglia non potevano non compiere gli e- roismi del Piave.

E sul Piave, nei giorni d’ansia, quando d’ora in ora si sentiva che tra la dispe­rata volontà dell’Austria e la rinata spe­ranza d’Italia il duello era definitivo e mortale — e chi cadeva lì cadeva su tutto il campo di guerra — egli volò con il suo stormo, come nelle offensive del Car­so : in un ritorno dall’attacco il velivolo gli si sfascia, precipitando : egli resta in­colume : è una forza elementare della pa­tria, non può morire.

E vola, e parla : e combatte e incita.Il 21 giugno, mentre da una settimana

la lotta infuria con esito alterno, Baracca cade sul Montello.

Ai funerali il poeta ammonisce : « Non vuol pianto nè rimpianto questo celere uccisore e distruttore che fu tra i più ma­schi generati dalla matrice ferrigna dove si stampa il meglio della gente di Ro­

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magna. Non vuol essere pianamente la­crimato, ma vendicato potentemente. — La sua volontà di vincere... ha preso a propagatrice la Morte ».

« Così, incorporeo nell’ora santa... egli traversò l’intera battaglia, profondo come il brivido e splendido come la folgore. L’altra sera, la sera del solstizio... per ce­lebrare l’eroe nostro col solo rito degno di lui, io condussi i miei compagni a un funebre gioco di guerra. Ritornammo e partimmo di nuovo, e ancora ritornammo e ripartimmo finché la notte non fu con­sumata » — « O compagni, oggi per lui la nostra anima è colma di bellezza, come il nostro cielo è colmo di presagi ».

Quando mai la parola di un poeta se­guì e precedette con tanta concordia l’a­zione di guerra ?

11 4 luglio egli leva, nel ritmo della « Preghiera per i morti » un inno all’A­merica in armi, che è trasmesso per via

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aerea agli Stati Uniti, e poi letto in tutte le adunate dell’Unione, vi si sente, co­m’era naturale, trattandosi deH’America, il respiro e il polso di Walt Witmann : « Co­me i vasti cavalli criniti di spuma nell’Atlan- tico indomo — i flutti del tuo vigore, o Repubblica, accorrono verso le rosse rive dove grandeggia quanto più sanguina la speranza dell’uomo. Non v’è più sonno. Non v’è più tregua. Non v’è più respiro. In marcia ! Fino a quando ? Fino a che la via d ’Oriente, fino a che la via d’Occi- dente non sia libera. Fino a che tra i quat­tro venti del mondo la Libertà non sia sola con l’uomo... ».

La battaglia del Piave è finita : l’Au­stria ha dovuto retrocedere ansimando perlo sforzo.

Il poeta non ha quiete.Costituisce la squadriglia San Marco

al Campo di San Nicolò del Lido : ardi­sce usare in combattimento i S. I. A. an­

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cora in prova : sul Grappa, una seconda volta, ha l’apparecchio crocifisso da 4 colpi : ricorderà poi sempre, quella grande impennata repentina contro il sole « del suo bel S. I. A. 9 B. sparvierato ! »

E’ il S. I. A. che egli porterà su Pola il 17 luglio.

Promosso ormai tenente colonnello per gli ultimi ardimenti, getta all’Austria la sua sfida più bella : il volo su Vienna !

Con preparazione paziente, fatta di di­sciplina e d’ordine, tra avversità che a- vrebbero spaventato ogni audace, tra pe­ricoli, insidie, in un volo d ’una lunghezza temeraria in terra nemica, egli rivelò di nuovo la sua grandezza d ’animo, e ottenne un esito che commosse alleati e nemici.

Fu nell’anniversario di Santa Gorizia : la squadra degli eroi era montata su ap­parecchi S. V. A. : si chiamava « La Se­renissima » : il poeta che aveva cantato un giorno l’ardimento d’Umberto Cagni,

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solo nel cuore delle terre polari, con le poche mute dei cani, e i compagni ser­rati alla sua volontà come le dita alla mano, poteva ben sentirsi ora eguale al « suo contrammiraglio » in una luce, di mito.

Egli compiva un atto degno d’espri­mere tutta l’anima nostra : carica d’ama­rezza per le mille violazioni del diritto delle genti, per le incursioni sanguinarie e brutali sulle città inermi, l’Italia avrebbe potuto sopra Vienna, in una risata sel­vaggia, gettare a danno e vergogna le sue bombe : mostrò che poteva, e gettò serena e sorridente i proclami del suo poeta, pieni di nobiltà e di ardore umano.

« ... sul vento di vittoria che si leva dal fiume della libertà, non siamo venuti se non per la gioia dell’arditezza : non siamo venuti se non per la prova di quel che potremo osare e fare quando vorremo, nell’ora che sceglieremo ».

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L’Arbeiter Zeitung si domandava con sarcasmo : « Ma dove sono da noi, tra tanti poeti che hanno cantata la guerra, i D’ Annunzio che l’abbiano anche at­tuata ? »

Egli ritorna, e mentre in patria si narra di giornale in giornale la sua azione, il poeta rinascosto al fronte guida lo stormo ancora, giorno e notte ; l’ansia ànima la sua vita e la sua eloquenza, come quando il 15 settembre egli parla, ricevendo il velivolo Nazario Sauro, con asprezza quasi feroce. Contro chi l’accusa di ostentazione,il suo disdegno della rettorica e del plauso è testimoniato in quel momento : perchè Eugenio Chiesa può rivelare per primo che il poeta « il 21 agosto, tra le 17 e le 18, solo, volontariamente, solo col suo velivolo 10-770, s’è spin­to a Punta Maestra per gettarvi le do­dici granate che colpirono tutte l’obbiet- tivo ».

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In quei giorni i! « Times » esaltava l’opera e la figura la cui grandezza non era più contenuta dai confini.

Ma egli è sempre più avido.Tutto vuol esser con la Patria, da per

tutto vederla. E gli sovviene della fronte francese in cui i nostri si battono, mentre in Italia la guerra ha una relativa calma.

Allora, senza indugiare, s’imbarca su un aereo, va a Torino, varca le Alpi, di­scende a Chàlons sur Marne, e comincia a percorrere la linea occupata dai fanti del Generale Albricci, portando a tutti come un pane di comunione la parola che ha eccitati i fanti del Piave. Per una settimana percorre le linee incitando ; poi sullo stesso S. V. A. in cui è venuto, che è il medesimo del volo su Vienna, pilo­tato dal capitano Palli come allora, getta su le nostre milizie proclami, ridiscende ad accompagnare le truppe nell’azione : « combattendo sull’Aisne ricordatevi del

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Piave, o miei compagni ». — « La pa­tria vi guarda », « Fate che le mie ali, mille volte più rapide del messaggero di Maratona, rechino domani, di là dalle Alpi, la grande novella ».

Ritorna infatti in condizioni atmosferi­che difficilissime, varcando le Alpi, il 2 d ’ottobre, con la notizia delle vittorie ita­liane di Chavoune e di Soupir.

Sul principio d ’ottobre, il 6, gli è mortoil carissimo compagno Gino Allegri : eglilo canta dolcemente, con una mite e calda prosa francescana, il suo « Fra Gi­nepro », quegli che, un giorno, di ritorno da Vienna, durante un pranzo ufficiale alla presenza di Diaz, al solo sentir dal poeta descrivere la sua terra veneta in servitù, scoppia in un pianto disperato di bambino che non trova più la sua mamma.

E siamo all’anniversario di Caporetto. Nessuno di noi ha più dubbi. La vittoria è sicura : i morti possono attendere sulle

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linee abbandonate, per ricongiungersi tra poco alle schiere avanzanti.

Ma il poeta vigila : va oltre con l’oc­chio ; vede al di là.

W. Wilson scambia le sue note pal­panti con la Germania : si preparano le impalcature su cui poggerà la pace. Quale pace ? Una diffidenza profetica rode il cuore insonne : ne esce come sangue da ferita un carme nuovo : « Vittoria nostra, non sarai mutilata ».

« Chi risponde ? La bocca d ’un uomo può dunque portare una parola che pesa come il sangue di tutti ? »

La strofe gli si fa di bronzo nella fer­mezza dell’attestare che solo il patimento e i morti son la misura del sacrificio e perciò del diritto e del premio ; e, sarca­stica, l’anima si divincola contro l’intru­sione : « Inchiostro di scribi per sangue di martiri ? A peso di carte dedotte com­perato il martirio degli anni ? » E grida :

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« Vittoria nostra non sarai mutiiata... Do­ve sali ? — la tua corsa è al di là della notte. 11 tuo volo è al di là dell’aurora ».

Comincia di qui la vigilanza crucciosa che lo spingerà sempre più avanti, sulla strada di Ronchi, a Fiume, a Zara.

Ma la guerra non è finita.Sugli ultimi di ottobre tutta la nostra

fronte si riaccende, si muove ; gli eserciti puntano in una manovra chiara e po­tente contro le linee nemiche, capovol­gono Caporetto, tramutano 1’« oscura » vittoria in una vittoria luminosa.

Sui nemici già disperati egli passa ven­dicatore, mitragliandoli a bassa quota ; sulle truppe che avanzano con un cuore leggero come non ebbero mai, il poeta vola come nei giorni più epici e più tra­gici e getta i suoi proclami.

Con la data d ’Ognissanti rievoca il tra­dimento e la disfatta : la patria crocifissa, e l’ultima vittoria, quella che parve un

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disastro : la dodicesima : « E l’afferrammo e la piantammo sulla riva disperata, la radicammo su! confine tremendo, la vol­tammo così motosa e sanguinosa, contro l’invasore ». — « Laggiù i nostri morti sono in piedi di qua dall’Isonzo... fra poco si mescoleranno con voi e ricombatte­ranno... Avanti ! Avanti ! Ogni minuto è un’ora, ogni ora è un giorno, ogni giorno una settimana di gaudio e di potenza... non c’è sosta, non c’è tregua, non c’è sonno... il vostro passo è come il volo... O beati, o benedetti... voi calcate la terra, voi sentite sotto il vostro piede la dolce terra che liberate... Ridateci i nostri cam­pi... Ridateci la Coinina, ridateci Aviano... Voi beati, voi benedetti ! »

E i soldati vanno, sempre più accesi, sempre più lievi, sempre più gioiosi.

E l’ultimo giovinetto offerto, cade al Paradiso, mentre scocca l’ora dell’armi­stizio : Villa-Santa Riva : il poeta lo can­

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terà come l’estremo fiore del sacrificio :il più puro, votatosi alla morte per por­tare un poco più in là la conquista.

Gabriele D ’Annunzio può posare : l’o­pera è compiuta e riconosciuta ; il Sin­daco di Trieste gli telegrafa : « Alato spi­rito della patria sulla terra, nel mare, nel­l’aria... Gloria, gloria, gloria da Trieste liberata che v’ama, che v’attende, che a- nela di porgervi il lauro trionfale ».

Ed ecco sale, dispiegando le ali, come un candido uccello che si libri nella luce dell’aurora, il « Cantico per l’ottava della vittoria ».

La strofe concisa, gonfia, con un polso di febbre — la visione larga, chiara — un senso di felicità che par quasi un patimento d’ amore : una delle liriche più superbe e belle di tutta l’opera del poeta :

« Balza su dal nero fango — lava il sangue e il sudore — e vendica la po­

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tenza del canto sul clamore, o verità cinta di quercia ».

E’ la Musa che egli ha invocata nei torbidi giorni dell’aspettazione, presognan­do gli eventi e gli eroi « quando su lo strame d’Italia i tristi vecchi — rumina- van la menzogna stracchi ».

« Patria ! Il terribile e dolce nome vo­glio. — Sono ebro. Odo il tuono e il rombo. Chi mai sul Campidoglio — per- cote lo scudo raggiante ? — Il giubilo è una rapina bella, un ratto felice. — E il cielo è tanto a noi chiaro, sol perchè Bea­trice — rivede sorridere Dante... » « Sei un infinito canto. Muta sembri rimasta — da secoli per cantare quest’inno che so­vrasta — la speranza e supera il fato »... « E l’Istria è un sol coro latino... »

Egli incomincia la potente e dolce li­tania in cui chiama e carezza ed esalta le città della Dalmazia :

« E Zara è la prima, Zara nostra, rocca

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di fede » « O Sebenico beata, che hai gli occhi più profondi, — la cecità del profeta »... « O Spalato imperiale, Spa­lato piena d’arche sante »... « O Traù, mia dolce donna, tu che sei tra le donne— dalmate la più dorata »... E canta « le isole nutrici di api, da Zirona a Lagosta... O Solta ricca di miele... o sasso della Donzella... e il mirto di Lissa vittoriosa... e l’oleandro di Lacrona... ».

Le accarezza paterno, con mani tre­manti d’un amore che teme d’essere or­bato ; — e, ricongiungendo resurrezione a resurrezione e la Sagra d’oggi con la Sagra dei Mille, questa gioia incontenibile con la tristezza di prima della guerra: « Si levano gli insepolti, si levano i se­polti ; — al sommo del loro ossame por­tano i loro volti — trasfigurati, l’ebbre gole » — « Chi è con loro ? chi viene riavvampato anch’esso — gioventù so­vrumana, come aveva promesso? — Ch’io

w

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venga all’ultima guerra ! — Legatemi al mio cavallo... »

La gioia rompe davvero il cuore del poeta, pare che egli si smarrisca nell’e­brezza :

« O vita ! O morte ! Il mio canto viene di sotterra o spira — dal mio petto ? Son io servo dell’inno senza lira — o sonio signore del fato ? »

E il cantico gli si chiude nel grido della certezza, in cui echeggia il mistico delirio del Santo giullare di Todi :

« Sto tra la vita e la morte vate senza corona — Da oriente a ponente l’inno primo s’intona : — « La vita riculmina in gloria ! — Sto tra la morte e la vita, so­pra il crollo del mondo — Da Ostro a Settentrione scroscia l'inno secondo : — La morte s’abissa in vittoria ».

Le stesse memorie, lo stesso orgoglio gli fa nodo alla gola (giusto orgoglio, me­morie che farebbero gloriosa ogni vita

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più alta) quand’egli, il giorno di San Mar­tino, leva l’inno al Re incoronato già dalla morte sul mare, e ricorda la sua profezia perfetta : « T’elesse il destino : guai se tu gli manchi » — e conclude « E il Re e- letto dal destino in un giorno di lutto è esaltato dal destino in un giorno di vit­toria ».

Questo Re è proprio quello che egli vide con occhio fermo, non giovanetto assunto com’era, ma monarca incoronato di vittoria come sarebbe stato, come è !

11 20 dicembre egli lo precorre a Pa­rigi con una pagina che magnifica l’Uomo e il Sovrano : « Guardate questa figura temprata nella disciplina, macerata dalla meditazione, affinata dalla tristezza... Se la religione del dovere ebbe asceti, quest’èil più costante e il più fervente » ; e rie­voca davanti allo straniero l’atto di Lui che incitò i soldati a vincere da soli, come « da soli avevano fermato il nemico » ;

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e rifà epicamente a volo la storia dell’im­presa — ed esalta Caporetto, sacro mar­tirio come quello di Cristo, e mette in guardia la Francia contro gli intrighi che già tentano disunirla da noi, e getta in fine la sua generosa illusione, che non vuole morire : alla Francia, « amore del mondo », che si appresta a ritessere, « con mani incorrotte la tela del mondo nuovo ».

Ma è più ammonimento che fede.Il 30 dicembre il Re d ’Italia, motu

proprio, gli conferisce la medaglia d ’oro— nell’atto stesso in cui l’assegna alla me­moria di Cesare Battisti e di Fabio Fiizi.

E ’ il suggello, non della guerra sola, ma di tutta la vita. Ma non chiude una volontà nella tomba del passato.

Gabriele D ’Annunzio tende ancora l’oc­chio acuito dallo sforzo e l’anima alle sorti della patria, dentro ai confini : ai mutilati che gli chiedono un motto, lo detta, duro di fede rinascente : « Ramis recisis altius ».

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Egli sente la loro vita come un lievito che darà forza alla patria rinnovata.

Ma anche fuori dei confini incerti egli mira : fin dal 13 novembre, mentre i de­legati di Fiume salgono il Campidoglio a recare sul cuore di Roma l’offerta della loro città devota, egli riceve un’ amba­sceria guidata da Edoardo Susmel, che testimonia in lui un’incrollabile fede.

Non gli è rimasta nell’anima la « tri­stezza irosa » dell’ultima impresa di guerra mirante a Fiume, già preparata e quasi iniziata, che l’armistizio aveva interrotta ?

« Costanzo preparava un colpo di mano più audace che quello di Bùccari. Da un certo guizzo di riso nel bianco dei suoi occhi tremendi indovinavo come egli fosse riposseduto dal demone dello stratagem­ma ». « La nostra impresa fu stabilita per la notte del 3 novembre, per la notte della luna nuova. Con grazia fraterna, Costanzo Ciano aveva scelto quella data

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sapendo che si rappresentava a Milano appunto « La Nave » di musica e di pa­role. Egli voleva condurmi verso una ben altra orchestra e una ben altra ribalta. L’imminenza dell’armistizio nefasto troncò l’azione. Come nel giorno di Bùccari, i gusci erano pronti con le loro mitraglia­trici nere e coi loro siluri d’oro fulvo, lungo la riva della Giudecca. Ci fu im­pedito di partire ».

Così sentimento e pensiero cooperano a preparare nel suo spirito la nuova a- zione : la Marcia di Ronchi : s’inizia quel periodo di luci e di ombre, in cui l’uomo, maturato dalla guerra, s’esprimerà diverso e pur sempre lo stesso, mentre il suo pensiero politico s’allargherà in un ten­tativo di superare le linee della patria per raggiungere quelle dell’umanità, mante­nendo pur sempre l’Italia sulla vetta del­l’amore e della devozione.

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I N D I C E

P a r te I. - LA PREPARAZIONE

P a r t e II. - L’AZIONE

P a r t e III. - DALLA RESURREZIONE ALLA VITTORIA

Pag. 7

» 55

» 103

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LE O P E R E DI E T T O R E C O Z Z A N I

IL POEMA DEL MARE.

E’ una vasta costruzione in 50 episodi, in cui,

— attraverso le sensazioni di un giovane che,

nato in un’isola oceanica, vi diventa uomo, svi­

luppando in libertà spirito e forze, — i! mare è cantato in tutti i suoi aspetti, le sue passioni, le

sue ricchezze, come lo può cantare un Italiano memore del destino marino della sua razza. Le

bonacce e le tempeste, le navigazioni e i naufragi,

le solitudini azzurre e ìe rocciaie selvatiche, gli

animali degli abissi della superficie e deU’aria,

dai microscomi ai mostri, le pesche, i giochi,

le guerre, tutto è rappresentato con una potenza

di stile e di fantasia che rende presente e tangi­

bile la realtà e anche alle cose materiali dà vita

umana.Terza edizione corretta L. 12

IL REG N O PERDUTO (Romanzo : Premio Gautieri)

II Ia edizione corretta

E ’ il volume alla cui pubblicazione la Reale Ac­

cademia delle Scienze di Torino ha assegnato al

Cozzani il premio della Fondazione Gautieri, che

ebbe già, per il suo capolavoro « Piccolo Mondo

Antico », Antonio Fogazzaro.

Il poeta vi narra la sua adolescenza, fra le roc­

ciaie delle Cinque Terre, in una vita selvaggia,

tra boschi e onde, con avventure sottomarine e

montane. A capo d ’una tribù di giovanetti bru­

ciati dal sole e dalle libecciate, egli si getta nelle

più rischiose imprese, soggiogando i coetanei, fin­

che, percosso dalla loro ribellione, si ritrae in so­

litudine e vive nel suo intimo il più commovente

miracolo : lo sbocciare nell’anima umana dell’a­

more per la poesia e per la patria : è il dramma

della scoperta di sè stessi.Ada Negri ha giudicato così il libro : « E ’ una

meraviglia ; fanciullo, scogli, spiaggia, mare, aria,

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cielo, animali, vi formano un essere unico, ver­

sàtile, innumerevole: direi quasi mitico. Tutto il

libro è pervaso da questa atmosfera di favola, è

saturo di elementi naturali e divini ».Accolto con entusiasmo da tutta la stampa, giunto

in un anno alla l l la edizione, consigliato dal Mi­

nistero e adottato da scuole Elementari e Medie

come libro di lettura e di premio, è oggi al 10° migliaio. Bella edizione in 8°, di pag. 400 con

50 disegni di Aldo Patocchi. L. 12.

I RACCONTI DELLE C INQUE TERRE.

( ì la edizione corretta).

Sommario : L’Amante dei Venti — L’organista

— Domenico Padre — Adolescenze — Pace —

L ’Anadiomene — 11 Miracolo — Iridi. L. 12.

LE STRADE NASCOSTE.

Sommario : La voce del silenzio — Le tre foci

sull’Abisso — La Croce — Il Gabbiano — Le

anime prigioniere. L. 15.

Sono due volumi riccamente ornati da P. Morbi-

ducci, che si continuano e compiono : il Cozzani

vi ha raccolta una serie di opere che è difficile

definire : stanno tra la novella e il romanzo : hanno

dei romanzo la ricchezza di personaggi, di svi­

luppi drammatici, di rappresentazioni dei luoghi;

della novella la virtù della sintesi e degli scorci

e l’abilità costruttiva : gli avvenimenti attinti alla

realtà, ma trasfigurati dalla virtù creativa, si svol­

gono quasi sempre nella contrada delle Cinque

Terre, cara al poeta.

LA SIEPE DI SMERALDO. (IIa edizione corretta).

Sommario : — Il mio nome — Il sirenotto — I

tarli dell’ozio — L’orchetto — La lumaca impe­

ratrice — Smeraldella — I flauti della notte —

Le vigilie : La vigilia di Orfeo — La vigilia di

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Brunotto — La vigilia di Frullo — La vigilia

di Lupo — E i canti : La Chiocciola — La Luc­

ciola — Nella città di Genova — Coscine di

pollo — D i là da Santa Chiara.

Stupenda edizione in 8° grande, con molte tavole

di Duilio Cambellotti. L. 15.

LE SETTE LAMPADE ACCESE.

Sommario : La mano di luce — La raffica cile­strina — La chioccetta d’oro — La Madonnina

delle fonti — Le lacrime dell’autunno — 11 Con­

vento delle Meraviglie — La gioia del fuoco.

Bellissima edizione in 8° grande, con tavole di

Francesco Gamba. L. 15.

Sono due opere create per i giovanetti : a otto

nove anni essi si possono già godere la Siepe, a

17-18 traggono ancora profitto dalle Lampade.

Ma la vittoria dello scrittore è stata in questo

che, avendo dato agli adolescenti due volumi

ch’essi han mostrato di comprendere e d’amare,

ha con le medesime pagine incatenata anche l’a­

nima degli adulti.

La Siepe di Smeraldo è opera marina : il mare

diventa il regno della favola ; i suoi mostri, crea­

ture umane : sono vaste prose, alternate dai canti

popolari dei nostri fanciulli.

Le Sette Lampade Accese è opera montanina : la­

ghi, torrenti, boschi, vette : sono novelle fanta­

stiche inventate di sana pianta dell’autore, il quale

ha saputo creare un mondo tutto nuovo con gli

elementi della realtà.Tutti e due i libri han la virtù di innamorare i

giovani della bellezza, della bontà, della fede nella

vita, senza atteggiamenti moraleggianti e sermoni.

LE LEGGENDE DELLA LUN1G1ANA.

Sono le leggende della regione che sta tra le A-

puane e le Cinque Terre e ha per centro la Spezia,

il Golfo dei Poeti. Dalla grandiosità della caduta

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di Luni e del viaggio del Preziosissimo Sangue,

alla drammatica potenza deila leggenda delle Do­

dici Parole, e della lotta di San Terenzio col

Drago, aU’umoristica grazia della Donnina che

andava alla Fiera, e della storia del Cecino, —

tutta l’anima della regione si manifesta nei suoi

miti e nelle sue favole in un’arte scultorea.

POEMETTI NOTTURNI.

Sette Poemi : Preludio : De profundis — L’ispi­

razione — L’angelo peccatore — Il silenzio —

La chioma incantata — La statua — Congedo :

De excelsis.Ediz. dei Gioielli de « L’Eroica », con xilografie

di Francesco Gamba. L. 3.

CANTO D I MAGGIO .

Non sono versi, come il titolo potrebbe far sup­

porre ; ma prose : prose civiche, in cui « i più

aspri problemi della nostra vita di popolo sono

affrontati e risolti con furor di fede ». C ’è tutta

l’anima del poeta che ha fiancheggiata la riscossa

nazionale con la sua coraggiosa dialettica, rivol­

gendosi in modo particolare ai giovani che stanno

per entrare nella vita politica. L. 6,50

ORAZIONE AI G IOVANI.

Quarantesimo migliaio : questa cifra è la miglior

presentazione : edizione dei « Gioielli de L’E ­

roica ». L. 3.

VITE DI ARTISTI, DI PIONIERI E D ’ EROI

GABRIELE D ’ANNUNZIO . (IIa edizione).

La vita di guerra, dell’animatore e del combat­

tente, rivelata dalle sue lontane origini nell’opera

letteraria, e poi nell’azione : la ricchezza, l’ordine,

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la novità delle notizie fanno di quest’opera un

saggio biografico di prim ’ ordine. L. 10.

GUALTIERO CASTELLINI.

Come il precedente : vita dei celebre nazionalista, dalla adolescenza, alla morte sui campi della Fran­

cia : con ritratto. L. 10.

G IACOM O BOVE al passaggio del Nord Est, alla

Terra del Fuoco e nel Congo.

E ’ la narrazione dei viaggi dell’esploratore che

fu con Nordenskiòid nell’impresa della * Vega ».

Edizione illustrata. L. 12.

ARTURO TOSCANINI.

Studia il Maestro come direttore d’orchestra, nel momento in cui, durante le prove, rivela il m i­

stero della sua arte : il bel volume riproduce in

grandi tavole fuori testo i più noti ritratti del

Toscanini : quelli del Bistolfi, del Grosso, del

W ildt, del Grubicy, del Troubetzskoy. Seconda

edizione. L. 5.

ENRICO DELL’ACQUA.

E ’ la narrazione della vita del pioniere che con­

quistando i mercati deH’America del Sud, ha a-

perte all’Italia, tra difficoltà e lotte, le porte del

suo avvenire commerciale : vita d’una commo­

vente drammaticità. Pag. 200 con 23 tavole fuori

testo. L. 20.

ARM ANDO CERMIONANI.

L ’opera d ’uno dei più caratteristici nostri xilo­

grafi. Edizione di lusso per amatori. L. 35.

ANGELO RESCALLI.

La vita d ’uno dei nostri più schietti pittori: edi­

zione in 16, con 8 tavole L. 3.

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F IN IT O DI S T A M P A R E N E L L E O F F IC IN E D E L L A “ V ARE SIN A

G RA F IC A „ IN VARESE I L N A T A L E D E L 1930 DA L ’ E R O IC A - M IL A N O C ASELLA P O S T A L E 1155

VIVA P E R S E M P R E L ’ITALIA A LU N N A D ELL A POESIA E M AESTRA D EI P O P O L I

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