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Giorgio Prodi è nato a Scandiano (Reggio Emi- lia) ed è mancato a Bolo- gna nel 1987. Oncologo di fama internazionale, alla Università di Bologna è stato titolare della prima Cattedra di Oncologia e fon- datore del primo Istituto universitario di Cancerologia in Italia. Ha fondato con alcuni colleghi nel 1984 e diretto fino al dicembre 1987 il Centro Interdiparti- mentale per la Ricerca sul Cancro dell’Università di Bologna. Ha fatto parte del Consiglio Superiore di Sa- nità, della Commissione Oncologica del Ministero della Pubblica Istruzione e consulente del Ministero per la Ricerca Scientifica e Tecnologica. Figura di straordi- naria poliedricità, ha accompagnato alla sua attività medica e scientifica importanti studi di filosofia del lin- guaggio e di semiotica. Ed è stato, anche, un grande narratore. I tre interessi sono stati perseguiti separa- tamente, in totale e reciproca autonomia. L’Autore ha infatti avuto grande considerazione per l’aspetto tec- nico-professionale, cioè per la specializzazione (con la implicita “presunzione” che si possa essere specializ- zati in più di una cosa). I legami tra i vari interessi ci sono, ovviamente, ma sono un prodotto della ricerca condotta, non un punto di partenza. Egli non ci teneva affatto ad essere il Cancerologo che scrive, o lo scrit- tore che dirige un laboratorio, o altro. Ha con forza de- siderato avere pubblico e giudici specifici. AL BUON CORSIERO 45,o0 «L’immobilità è una condizione strana per un uomo il cui cuore batte senza posa, il cui respiro non può fermarsi: soprattutto strana per un ragazzo che proviene da una età di estrema inquietudine, nella quale il movimento in forma di fuoco rappresenta una necessità». Lazzaro. Il romanzo di un naturalista del Settecento L’OPERA NARRATIVA DIABASIS GIORGIO PRODI L’opera narrativa racchiude il labirintico apologo dei racconti che costituiscono Il neutrone borghese (1980), inquietante viaggio nel paradosso del reale, in cui la normalità è follia; il romanzo Lazzaro (1985), rappresentazione fantastica e intimistica degli anni giovanili del biologo settecentesco Lazzaro Spallanzani; le tre “favole moderne” che compon- gono Il cane di Pavlov (1987); i racconti Dopo il Mar Rosso (1990) e Le quattro fasi del giorno (1988); il romanzo Il profeta (1992), affresco visionario che celebra l’eroismo della marginalità, grazie alla forza dell’amore e della speranza. DIABASIS GIORGIO PRODI L’OPERA NARRATIVA Prodi_defOK_manu:Layout 1 13-03-2009 11:37 Pagina 1

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Per la prima volta viene pubblicata l'intera opera narrativa di Giorgio Prodi - biologo, oncologo, epistemologo, scrittore - il più creativo e indipendente di una grande famiglia. Nel libro: Il neutrone borghese (1980), inquietante viaggio nel paradosso del reale, in cui la normalità è follia; il romanzo Lazzaro (1985); Il cane di Pavlov (1987); i racconti di Dopo il Mar Rosso (1990) e Le quattro fasi del giorno (1988); il romanzo Il profeta (1992), affresco visionario che celebra l'eroismo della marginalità, grazie alla forza dell'amore e della speranza. Uno scrittore di notevole forza creativa e con un'acuta sensibilità narrativa per le scienze, riproposto nella totalità delle opere edite. Una riscoperta. O piuttosto una scoperta tout court. Da godere e da pensare.

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Giorgio Prodi è nato aScandiano (Reggio Emi-lia) ed è mancato a Bolo-gna nel 1987. Oncologodi fama internazionale,alla Università di Bologna

è stato titolare della prima Cattedra di Oncologia e fon-datore del primo Istituto universitario di Cancerologiain Italia. Ha fondato con alcuni colleghi nel 1984 ediretto fino al dicembre 1987 il Centro Interdiparti-mentale per la Ricerca sul Cancro dell’Università diBologna. Ha fatto parte del Consiglio Superiore di Sa-nità, della Commissione Oncologica del Ministero dellaPubblica Istruzione e consulente del Ministero per laRicerca Scientifica e Tecnologica. Figura di straordi-naria poliedricità, ha accompagnato alla sua attivitàmedica e scientifica importanti studi di filosofia del lin-guaggio e di semiotica. Ed è stato, anche, un grandenarratore. I tre interessi sono stati perseguiti separa-tamente, in totale e reciproca autonomia. L’Autore hainfatti avuto grande considerazione per l’aspetto tec-nico-professionale, cioè per la specializzazione (con laimplicita “presunzione” che si possa essere specializ-zati in più di una cosa). I legami tra i vari interessi cisono, ovviamente, ma sono un prodotto della ricercacondotta, non un punto di partenza. Egli non ci tenevaaffatto ad essere il Cancerologo che scrive, o lo scrit-tore che dirige un laboratorio, o altro. Ha con forza de-siderato avere pubblico e giudici specifici.

AL BUON CORSIERO

€ 45,o0

«L’immobilità è una condizione strana per un uomoil cui cuore batte senza posa, il cui respiro non può fermarsi:soprattutto strana per un ragazzo che proviene da una età

di estrema inquietudine, nella quale il movimentoin forma di fuoco rappresenta una necessità».

Lazzaro. Il romanzo di un naturalista del Settecento L’OPE

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L’opera narrativa racchiude il labirintico apologo deiracconti che costituiscono Il neutrone borghese(1980), inquietante viaggio nel paradosso del reale,in cui la normalità è follia; il romanzo Lazzaro(1985), rappresentazione fantastica e intimisticadegli anni giovanili del biologo settecentesco LazzaroSpallanzani; le tre “favole moderne” che compon-gono Il cane di Pavlov (1987); i racconti Dopo il MarRosso (1990) e Le quattro fasi del giorno (1988); ilromanzo Il profeta (1992), affresco visionario checelebra l’eroismo della marginalità, grazie alla forzadell’amore e della speranza.

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A l B u o n C o r s i e r o • C l a s s i c i

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In copertina

Progetto grafico e copertinaBosioAssociati, Savigliano (CN)

ISBN 978 88 8103 598 4

© 2009 Edizioni Diabasisvia Emilia S. Stefano 54 42100 Reggio Emilia Italiatelefono 0039.0522.432727 fax 0039.0522.434047

[email protected] www.diabasis.it

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Letteratura come ipotesi e sperimentazione della realtà. Itinerario narrativo di Giorgio Prodi Elvio Guagnini

IL NEUTRONE BORGHESE

Il neutrone borgheseColloquio del Rettore col suo calcolatore ferito a morteCome al professor Scala apparve HegelIl nostro Ateneo ha un nuovo IstitutoL’evoluzione degli animali a pennaL’inverno è la più dolce stagioneNarcisoIl FaraoneLa scimmiaSogni e osservazioni sui sogni

IL CANE DI PAVLOV

I tre capelli d’oro del diavoloIl labirintoIl cane di Pavlov

LAZZARO. IL ROMANZO DI UN NATURALISTA DEL SETTECENTO

Prima parte Scandiano: primavera 1744Seconda parte Scandiano: estate 1744Terza parte Scandiano-Reggio Emilia: autunno 1744-estate 1747Quarta parte Bologna: ottobre 1747-maggio 1749

LE QUATTRO FASI DEL GIORNO

DOPO IL MAR ROSSO

La TorreDopo il Mar RossoIl teatro

IL PROFETA

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Letteratura come ipotesi e sperimentazione della realtà.Itinerario narrativo di Giorgio ProdiElvio Guagnini

Fare ricerca scientifica e avvertire la necessità del lavoro letterario. Qualela ragione? Complementarità, bisogno di compensazione, necessità di eva-sione, esigenza di esplorazione di altri linguaggi e orizzonti costruttivi? Nonc’è una risposta univoca a queste domande. Dipende dagli autori. Non sonopochi quelli che lo fanno. Per esigenze e bisogni diversi, ai quali corrispon-dono differenti qualità espressive e comunicative.

La galassia letteraria della nostra contemporaneità comprende stelle e com-ponenti diverse, di varia qualità e grandezza. Il libro, i libri, la produzione diuno scrittore, esigono dal lettore e dal critico una ricerca di collocazione, unadefinizione di funzionalità e di presenza, una testimonianza della loro neces-sità, oltreché − s’intende − un giudizio di qualità.

Nella determinazione della natura di opere come queste di Giorgio Prodi,è necessario rispettare la complessa formazione dello studioso e dello scrittoree − insieme − le componenti diverse che possono essere state alla base dellesue scelte; scelte di generi e di forme differenziate per le sue espressioni in set-tori diversi.

Il rapporto tra scienza e letteratura è uno dei capitoli trasversali più com-plessi della letteratura italiana dagli esordi a oggi, dai primi secoli al Cinque-cento al Settecento all’Ottocento alla contemporaneità. Un rapportoarticolato che riguarda sia l’uso − da parte dei letterati − di temi scientifici odi tratti linguistici derivati da discipline scientifiche, sia l’utilizzazione − daparte di scienziati − di tecniche o strumenti della letteratura per sperimentareun colloquio con un pubblico più ampio o sfidare altre forme comunicativeper la verifica dei confini dell’immaginario su temi scientifici. Dunque, unaconsiderazione della letteratura come possibile terreno di divulgazione (ocome luogo di sperimentazione di interazioni) ma anche come piano di unconfronto tra potenzialità diverse di linguaggi. E una considerazione delle te-matiche e delle ottiche scientifiche come possibili fonti di arricchimento e diallargamento degli orizzonti della letteratura e delle sue prospettive di analisidella realtà in direzioni nuove, originali, inedite. Penso, ad esempio, all’inci-

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sività del discorso sulla diversa natura della scienza e dell’arte ( pure sul ter-reno dei linguaggi) quale si ritrova nel confronto tra i due protagonisti (un fi-sico e uno scrittore) di Atlante occidentale (1985) di Daniele Del Giudice.

L’opera narrativa di Giorgio Prodi si presta, in maniera eccezionale, a ri-lievi molto articolati relativamente all’incontro, al confronto, all’interazione,ai diversi tipi di relazione tra la cultura e la professionalità scientifica del-l’autore e − da un altro lato − gli esiti della sua attività letteraria, che deve es-sere considerata non come un esercizio compensativo (come lo è per diversiscienziati che scrivono; per qualcuno, anche una forma di evasione) ma comeuna attività parallela di grande impegno e integrata, interagente con l’attivitàdi ricerca.

D’altra parte, la stessa bibliografia della sua opera ci mette di fronte a unacatena di discipline frequentate da Prodi, e collegate tra loro, che vanno dallabiologia alla linguistica, dall’epistemologia alla semiotica, dalla logica all’e-stetica, dalla genetica alla patologia, dall’economia alla filosofia all’estetica.Una naturale convergenza di percorsi che si intersecano e si intrecciano na-turalmente, di cui si avverte la presenza anche nella filigrana o, meglio, nel tes-suto stesso delle pagine narrative. Pagine di taglio diverso ma indubbiamentesegnate dalla natura di una immaginazione e di una scrittura che si pongonocome al crocicchio, nei punti di intersezione di un pensare multilaterale.

D’altra parte, lo stesso Prodi in un’intervista a Osvaldo Guerrieri (in «Tut-tolibri», 19 aprile 1980) ha fatto precisazioni di grande chiarezza: «Per mescrivere non è evasione ma complemento. In me non ci sono conflitti. Le po-lemiche sulle due culture sono false polemiche, come è una falsificazione ilconcetto dell’interdisciplinarità. Non vi è nulla di più improduttivo del met-tere insieme diverse competenze. Quello che conta, invece, è cercare quantodi comune esiste nelle varie discipline».

Sarebbe difficile riassumere la vasta materia dei dieci racconti di Il neu-trone borghese (il primo libro di narrativa pubblicato da Prodi nel 1980): unaraccolta caratterizzata da una grande varietà di figure, temi, contesti, situa-zioni, registri e soluzioni di scrittura. È anche vero che l’aver scelto come rac-conto eponimo Il neutrone borghese, appunto, significava aver messo in primopiano una certa vena, o una certa inclinazione: non un «gusto capriccioso» da«scienziato in libera uscita», come qualcuno ha detto a proposito dei diver-tissement letterari di certi professionisti di discipline scientifiche, ma una ten-

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sione satirica, ironica (il neutrone, come particella borghese da smascherare,diventa oggetto di ricerca di un gruppo di Fisica Autocritico-Sociale, poi chia-mato “Controfisica” e di un congresso al quale, oltre ai collettivi scientifici,partecipano anche rappresentanti di altre forze sociali “non corporative”).Sono racconti, quelli del Neutrone borghese, nei quali − variamente − lascienza, la dimensione della ricerca gnoseologica, la riflessione filosofica, co-stituiscono una linea di sostegno e di collegamento dell’immaginazione.Anche la letteratura − scriveva Prodi − costruisce ipotesi, benché gli stru-menti siano diversi. Ed è interessante vedere come, per esempio, la deforma-zione, il grottesco, il paradosso, la caricatura realizzata attraverso la finzionenarrativa, riescano a colpire alcuni obiettivi polemici considerati: per esem-pio, il fondamentalismo al quale possono portare programmi distorti di po-liticizzazione della scienza; la massificazione male organizzata dell’istruzionesuperiore e della ricerca attraverso tabelle, luoghi comuni, slogan privi di si-gnificato, giochi delle parti, decreti insensati: un eccesso di informatizzazionetale da annullare responsabilità e partecipazione; l’astrazione teorica che ri-schia di portare il pensiero fuori da qualsiasi realtà; la compressione della ri-cerca autentica da parte della burocrazia e dei ceppi messi a ogni iniziativa.Prodi − anche sulla base di situazioni, figure, comportamenti osservati nelcorso della propria esperienza − ha sottolineato (in particolare nei primi cin-que racconti) attraverso invenzioni paradossali e caricature, tratti comici egrotteschi, talvolta malinconici (sempre frutto di gusto misura e intelligenza),i lati amari e ridicoli di un mondo da più punti di vista dissestato come quellodella ricerca. Cogliendone, con ironia ma anche con un sottofondo di risen-timento civile, gli aspetti negativi che provocano insieme riso e sofferenza inchi investe la propria esistenza per migliorarne la situazione.

A essere oggetto di osservazione di Prodi, in questi primi racconti, sonoanche altri aspetti della vita pubblica e privata, tra i quali l’atteggiamento dicerte figure pubbliche, in apparenza impegnate nelle loro funzioni pubbli-che (in realtà distratte annoiate disinteressate), o la difficoltà di perseguireobiettivi di giustizia e di verità in un mondo burocratizzato e saldamente inmano a caste politiche (non solo conservatrici) avverse al rinnovamento. Men-tre richiami al buon senso e alla naturalezza in materia di rapporti tra i sessisi allineano a considerazioni eleganti sulla storia degli strumenti musicali “apenna”, sul senso dei disguidi comportamentali, e − ancora − a riflessioni sulsogno, sull’inconoscibilità e indecifrabilità del nostro interno, sulla pena e

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sulle difficoltà della conoscenza, sui rapporti tra l’oscurità dello spazio inte-riore e la realtà esterna.

Su una linea affine, forse più complessa e densa di spessori esistenziali, simuovono i tre racconti di Il cane di Pavlov (1987). Dove il primo (I tre capellid’oro del diavolo) ha una struttura di favola il cui incanto consiste in una ri-cognizione del senso della realtà della vita: l’inferno come luogo di silenzio edi perdita, di disperazione e di angoscia; il purgatorio come «regno dell’uomo[…] regno delle cose né troppo calde né troppo fredde, né troppo alte nétroppo basse, né troppo veloci né troppo lente: […] regno delle cose pau-rose ma non troppo paurose, liete ma non troppo liete», dove «ogni cosa simuove e si trasforma, e dal movimento si produce, seppur incerta, la vita»; ilparadiso, come luogo dove l’«immobilità» si concilia «armoniosamente colcambiamento», dove ha «il suo appagamento ogni insaziabilità». Dunque, unpercorso naturale dalla giovinezza alla vecchiaia, la “visione” di un paradigma,una presa d’atto della struttura stessa dell’esistenza.

Del resto, anche la vicenda del Labirinto, il secondo racconto, rappresentauna catena comportamentale dominata dalla necessità e caratterizzata dal-l’approdo a una maturità intesa come «accettazione», sollecitata dalla volontàdi sconfiggere l’enigma e l’inganno del labirinto attraverso l’approdo di Teseoad Arianna, l’«antiminotauro», «certezza di vita» che deve sconfiggere la «cer-tezza di morte»: una esplorazione di sé per raggiungere il «pensiero diArianna», dove le «cose intrecciate diventano rettilinee, anche la passioneamorosa può diventare pensiero e contrastare il caso»; la conquista di unluogo definitivo dove permanere, amare, escludere il pericolo.

Al marcato impianto allegorico del Labirinto fa da controcanto l’ironia sot-tile e delicata del racconto eponimo Il cane di Pavlov, dove è il cane − sulquale si svolge la ricerca − a raccontare l’uomo che lo analizza, a proporsicome interlocutore di Pavlov (del quale mette in discussione i punti di vista),a sentirsi come quello che è capace di condizionare la ricerca, muovendo cri-tiche, discutendo concetti filosofici nodali, contrapponendo la poesia (comesenso del mistero, ma anche come forma di maggiore concretezza) ai «bro-gliacci» dello sperimentatore, svolgendo dotte considerazioni sul linguaggio,sull’estetica, sulla metafora. Con interessanti considerazioni conclusive sulrapporto tra scienza ed estetica e sul disinteresse della civiltà contemporaneanei confronti della scienza e della poesia, a vantaggio della tecnica: «[…] ai

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treni e agli altiforni pensano meglio i ragionieri. A loro basta qualche inge-gnere messo alla stanga. Poeti e scienziati ne servono pochi, e per ornamento.Che ci sia gente innamorata del pensiero, a loro non importa proprio». Qual-cosa di simile a quanto Prodi aveva dichiarato nella citata intervista a «Tut-tolibri»: «La scienza intesa come tecnologia non mi interessa molto. Quandoparlo di scienza, parlo di una scienza concepita a modo mio, dove prevalel’attività conoscitiva, dove quel che conta è la costruzione mentale. Esiste unalogica continua che dalle cose ha prodotto sistemi viventi. La scienza che con-cepisco è quella che crea continuità». Esattamente il senso della ricerca chesta dietro a tante proposizioni di molte sue pagine narrative.

Lazzaro (1985) è − nel quadro della narrativa di Giorgio Prodi − un librodi impianto e tenuta straordinari dove alla ferma architettura delle parti (chesegue diverse stagioni della formazione giovanile di Lazzaro Spallanzani, dal1744 al 1749), corrisponde una notevole piacevolezza di scrittura. Una scrit-tura apparentemente semplice (e gradevole, per il lettore) che si collega, però,a una complessa determinazione nel mettere a fuoco interessi e aspirazioni delgiovane studente e studioso in fase di formazione. Qualche critico ha definitoquesto libro come una biografia mirata su un limitato periodo di vita del bio-grafato; qualche altro, come una biografia con risvolti autobiografici. Altri,ancora, hanno sottolineato la natura di Lazzaro come romanzo, pure con ri-svolti di avventura. Tutto vero. E credo che il fascino di quest’opera, a suomodo straordinaria, nasca proprio dalla seduzione esercitata dall’intreccio digeneri e di percorsi di ricerca che si avverte fin dalle prime pagine, così inci-sive, dove − nel paesaggio di Scandiano, luogo natale di Lazzaro Spallanzani(ma anche di Giorgio Prodi, oltre che del Boiardo) − il protagonista avvertele onde di luce e di verde che lo raggiungono dal paesaggio e sente quella espe-rienza come una nuova nascita (è primavera) a fronte di una natura a più facceche avrebbe bisogno − per essere letta − da una grammatica particolare. «Nel-l’età più matura − scrive Prodi − ricordiamo questi momenti, ma sono lonta-nissimi. Infatti con il tempo tale abilità a scomporre la realtà nei suoi vari volti,anziché aumentare, piuttosto si ottunde. La sua massima acutezza la ricor-diamo proprio nell’età in cui di solito si nasce, che è sui quindici anni: l’età diLazzaro, né più né meno. In seguito i volti che stanno dietro le cose si dile-guano, finiscono per perdersi sullo sfondo della memoria: ma ci rimane lastrana sensazione che siano ancora a portata di mano e che li potremmo ve-

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dere, se conservassimo l’acutezza dei sensi che ce li ha resi manifesti una volta».Da questa ricerca di “lettura” del paesaggio «come un libro, da sinistra a

destra, poi in senso contrario», nasce − in Lazzaro − la volontà di diventareuno studioso della natura, che si manifesta presto nella raccolta di reperti,nella loro classificazione, nelle escursioni solitarie (talvolta con amici: Laz-zaro − ossimoricamente − è un solitario socievole), nella passione fisica per isassi e per i fatti e i corpi della terra che lo accomuna al Vallisneri, amico delpadre, che insegna a Padova e che viene spesso a Scandiano, luogo amato.

Lazzaro è un libro che narra l’urgenza di una passione che − alla fine −avrà la meglio su altre scelte di studio imposte dalla famiglia; di una passioneche potrà, più tardi, coniugarsi con la conservazione dello stato ecclesiasticoe che si era mantenuta forte anche attraverso (o in seguito a) l’avventura con-seguente alla sperimentazione − da parte di Lazzaro − della vita, delle amici-zie, dei rapporti sentimentali e amorosi. Lazzaro è un libro che mette a fuocole componenti di una personalità nella stagione cruciale del passaggio dall’a-dolescenza alla maturità: la personalità di un giovane che da un lato appare− ai suoi primi insegnanti − attento e rigoroso, disciplinato e docile, dall’al-tro rivela, dentro, un fuoco, un entusiasmo controllato e lucido, privo di su-perbia, appassionato di cose filosofiche, di storia naturale, ammiratore dellapoesia vera (non certo di quella d’occasione), anche quella che nasce dal-l’ammirazione della natura. Un giovane amante della libertà, «che vuol direavere con essa un rapporto febbrile molto privato, che nessuno deve scor-gere, perché accade nella penombra interna».

Le pagine di Prodi seguono le manifestazioni di una curiosità senza limiti,aperta a esperienze e sperimentazioni, operazioni di smontaggio e dissezionedei reperti, in un giovane curioso del proprio futuro ma con cautela, astuto eguardingo, eccitato dal mistero e dai richiami della natura e dell’interiorità,«critico» e, insieme, «archivista» dei fatti della propria vita, osservatore acutoe malinconico, meravigliato, trepido, instancabile, metodico. E Prodi entranei meccanismi psicologici del giovane alle prese con le avventure della vita,del pensiero, dei rapporti con gli altri, nelle anse delle riflessioni di quel gio-vane taciturno, docile alla disciplina domestica e degli studi ma anche infuo-cato dentro di sé, inquieto, profondamente serio ma pure partecipe diesperienze e turbamenti propri della sua età, disposto ad accettare le regolema anche pronto a esercitare la propria libertà. La storia della formazione diLazzaro attraverso la vita domestica e la prima scuola a Scandiano, il collegio

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dei Gesuiti a Reggio, l’Università a Bologna per gli studi giuridici, fino allascelta definitiva degli studi di filosofia naturale, consigliati da Laura Bassi,Veratti e Vallisneri, è accompagnata da una fine esplorazione psicologica e fi-sica: «Era un giovanotto diritto e ben piantato, molto a suo agio, con un nasosottile e piuttosto curvo, lineamenti marcati e occhi fissi e scuri», di «singo-lare… incrocio tra la naturale eleganza del portamento e una certa selvati-chezza». Sono anche pagine di precisa ricostruzione di ambienti e di figurepubbliche e private, di quegli anni, istituzioni, pratiche e rituali. Dove lamessa a fuoco del contesto coincide con quella di una interiorità inquieta edifficile proprio per la serietà di una vocazione che si fa strada non attraversola rinuncia e l’allineamento, né attraverso un vano ribellismo, ma attraversola crisi e il dolore che necessariamente accompagnano le scelte autentiche,meditate e sofferte. Con notazioni di grande finezza e assolutamente illumi-nanti di una personalità: «[…] il suo stato d’animo era di uno che è in debito.Aveva fatto quanto doveva per saldare il conto, senza mai conoscere qualeregistro portasse scritti i bilanci. Il debito l’aveva, in realtà, con se stesso […]».Solo una grande e profonda esperienza di vita può consentire a uno scrittoredi approdare a rilievi così profondi e di grande sintesi, morale e psicologica.

I racconti di Dopo il Mar Rosso (1990) sono tra i testi più ardui (e, ancheper ciò, di grande interesse) di Giorgio Prodi. Sono testi di carattere scoper-tamente allegorico, di taglio metafisico, ricchi di proposte simboliche che sidevono interpretare senza forzature. Si tratta di tre racconti: La Torre, Dopoil Mar Rosso, Il Teatro. Il primo, più esteso, quasi il traliccio di un romanzo;gli altri due, più brevi. Tutti e tre, in qualche modo, rientrano nel modellodel conte philosophique, anche se a suggestioni più lontane nel tempo si ag-giungono quelle di una narrativa europea più recente ricca di spessori di talgenere da Kafka a Borges.

Certo, poi, vi sono trait d’union caratteristici della narrativa prodiana(come il rapporto − attraverso la memoria − tra passato, presente e futuro, etra dimensioni diverse dell’essere). E dove, in ogni caso, ciò che è di assolutaoriginalità è la contestualizzazione di tali temi.

Come quello della memoria, della tradizione che si intende fondare attra-verso simboli e strutture memoriali che (nel progetto della Torre) non do-vrebbero mai concludersi, che dovrebbero rimanere una freccia verso ilfuturo alla quale l’adesione dovrebbe essere di totale consentaneità e dedi-

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zione, frutto di uno slancio che guarda avanti, al dopo, e possiede il prima.Finché dura l’entusiasmo, finché ci si riconosce in una idea comune, finchénon sopravvengono gli egoismi, i conteggi del dare e dell’avere, le ragioni delcalcolo privato e di potere, la violenza…

Il racconto della costruzione della torre − attraverso i contributi dei vari so-vrintendenti che continuano − a distanza e a staffetta − la compilazione di unquaderno di resoconti della ideazione, costruzione e declino della torre − èuna suggestiva ricognizione sulla dinamica della crescita e della condivisionedi idee e simboli e sulla loro possibile mortificazione e fine. Sono pagine digrande rilevanza, queste di Prodi, non solo per l’architettura del racconto (eper la sottolineatura del valore politico, civile, morale, privato, della memoriae della tradizione) ma anche per la qualità letteraria della rappresentazionedei paesaggi (diversi nelle stagioni e nelle epoche) nei quali la torre si ritrovaa crescere e poi a essere interrotta, e per le riflessioni esistenziali che ne con-seguono: «Le nuvole arrivano da ogni parte, a notte, e sono così frequenti chei mattoni ne sono forse corrosi. La torre avverte la loro mutevolezza. Essecambiano continuamente forma, e si rimane a guardarle senza noia, perché ap-punto compongono nuove figure, anche un cammello a volte, che è una nu-vola strana. Noi, da ragazzi, guardiamo le nuvole lungamente, perché èproprio dei giovani sia cambiare forma che guardare nuove forme. Poi ce nestanchiamo, diventando adulti, ed anche le nuvole si stancano di noi».

Un originale prospezione del percorso verso una possibile terra promessa,verso Dio, nel rifiuto delle false deità, egoisticamente costruite, è Dopo il MarRosso: una ricerca intensa e asciutta (nella complessità simbolica e − più la-tamente − allegorica) sulla solitudine, sul valore dei modelli, sui rapporti ge-rarchico-religiosi anche nel gioco del potere, sul rapporto tra memoria eautorità, sull’amore, sulla giustizia, sull’etica del ricordo, sulla conoscenza,sugli dèi di comodo (e sulle mistificazione dell’etica), sulla formazione dellecaste, sulla ricerca di Dio attraverso le metamorfosi fisiche e psicologiche.

E, così, pure il terzo racconto, Il teatro, ci mette di fronte a una articolatarappresentazione del mondo come rappresentazione, come messa in scenacomplessa e totale della vita, in forme diverse e in scenari vari e infiniti. Unagrande rappresentazione del mondo seguìta da un occhio (o forse due) quasiinvisibile, che penetra la dimensione interna della realtà così come quellaesterna (o quelle esterne): fuori dal teatro, in altri simulacri di teatri. Un giococomplesso e multiplo di vita e rappresentazioni, presente e altre realtà tem-

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porali, realtà civile e mondo della natura, mondo dei vivi e realtà “altre”: unintrico complesso che appartiene alla veglia, al sonno, al sogno, all’immagi-nazione, al mistero. E che qui trova spazio di rappresentazione in forme pre-ziose o − viceversa − allucinate, oniriche, angosciose, alla Bosch.

Del resto, anche il racconto lungo Le quattro fasi del giorno (1990) pro-pone una tematica affine a quella di alcuni racconti precedenti: quella delrapporto tra dimensioni diverse della realtà. Quella della vita vissuta, con-templata da un protagonista che − uscito di casa − si trova davanti a una vi-sione del mondo uguale a quella degli altri giorni, «ma non esattamente»,poiché è morto (come apprende da un avviso funebre). E prende atto deglieffetti di una contemplazione della realtà da questo inedito punto di vista,con prospettive cambiate, senza più inquietudini, con misteri permanenti diuna realtà che però, ora, viene percepita con altri sensi, con nuovi rapporti ri-spetto alle soglie materiali della realtà che ora non esistono più con delusionie nuove sensazioni sul piano della percezione di questa dimensione inedita,con giochi di nostalgie, ricordi, desideri, rievocazioni di fatti personali, aspi-razioni a essere ricordato e timori di essere dimenticato (una seconda morte),ma anche con la paura di suscitare rimpianti dolorosi: «“Tu mi penserai, pen-sava, dovunque tu sia, qualunque età tu abbia” e gli venne il pensiero che lasua vita residua (chiamiamola così, qualunque fosse) consistesse per interonell’essere ricordato da suo figlio e da sua moglie. Un amore grandissimo glisorse dentro, anche se il termine poco si adattava al suo nuovo stato e sarebbestata preferibile un’altra parola, che non trovava. Il suo amore non avevaombra di desolazione e neppure di desiderio: era tutto intero e completo,senza alcun residuo, senza niente di quanto lo perseguita in vita, cioè il sensodella lotta che deve fare per esistere, per apparire di una qualche importanza,per dimostrare che chi lo prova è vivo».

Le tappe del giorno rappresentano la presa di coscienza che la vita è fattadi tante scatole, di tante vite successive, di tappe diverse, di una tappa finalecon l’attesa di chiarire misteri, e di procedere a verifiche di misteri. Un sognofatto con la consolazione degli affetti delle persone care. E poi… Prodi rivelaqualità particolari nel percepire e rendere atmosfere sospese, dolorose, còltein sfumature e tappe successive, intense nella loro enigmaticità.

È troppo facile dire, di un romanzo come Il profeta (pubblicato postumonel 1992), che si tratta di un libro che ha il carattere del messaggio testamen-

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tario. E questo perché affronta temi (anche la malattia, la morte, il rapportotra professione e senso della vita) che contribuiscono a dargli una fisionomiadel genere. E perché, anche, si propone di affrontare − ambiziosamente −problematiche di non poco conto: dal ruolo della ricerca scientifica in rap-porto al corso dell’esistenza individuale e sociale, al senso del sacro pure nellesue possibili identificazioni (ortodosse o meno) e mistificazioni o autoinve-stiture, alle falsificazioni strumentali della verità, ai compromessi come modoper uscire da situazioni difficili e per superare impasses diversi insostenibili.

Il profeta è un testo narrativo dalla macchina complessa, ancor più delleprecedenti, ricco di tratti grotteschi e surreali, a partire dall’ambientazione inun paese dove «il questore della prima provincia della terza regione setten-trionale» è − romanamente − Marco Tullio Rufo, figlio di Servio Tullio che erastato «questore delle provincie meridionali», fratello di Sesto Rufo, succe-duto al padre nello stesso incarico. E dove la taglia per la cattura di un mo-stro è pagata in sesterzi. Vi si narrano due vicende parallele che finiscono poiper intrecciarsi: quella di un sedicente Gesù Cristo, al quale viene consigliatodi farsi chiamare − più modestamente − “Nazareno” o “il Nazareno”, già tec-nico di una Micromeccanica con moglie cecoslovacca e due figli, uomo unpo’ strano ma probo di idee e di sentimenti (che assurge al ruolo di profetacon largo seguito popolare; e predica che bisogna pagare le tasse); e quella diun professore di discipline scientifiche, Trequattordici (chiamato più fami-liarmente, nel racconto, T.), oncologo, impegnato in ricerche sulla cellula neo-plastica snobbate dalle pubbliche autorità, al quale il Nazareno si presentacon suggerimenti per la ricerca. I casi della vita dei due si intrecciano stret-tamente, al punto da condividere moglie e figli, e da chiudere la partita dellavita terrena nello stesso tempo. Due personaggi con due missioni diverse, condifferenti concezioni filosofiche e visioni del mondo, con teste di diversa co-stituzione anche dal punto di vista strutturale: due «marginali» («coloro chesi interessano di cose che non interessano quasi a nessuno, e vivono ai mar-gini della prevalenza, che è costituita dal mangiare, dal bere e dal ripeteregesti»), quasi due aspetti complementari di marginalità, che poco interessanoal Potere se non quando si tratta di strumentalizzarli ai propri fini: «Si po-trebbe dire che il professor T. è religioso in ogni aspetto del suo essere, ma glimanca Dio (non è mancanza da poco), Nazareno ha un Dio vigoroso di cui èil profeta, ha un rapporto con la realtà più diretto, quasi da cannibale, e tuttosommato non è che Dio gli serva a molto. Chi ha il pane non ha i denti. Sono

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molti i profeti di Dio cui interessa più la spada terrena che la giustizia cele-ste». Sicché Nazareno e Trequattordici usciranno insieme dalla vita: l’uno de-luso dallo sfruttamento di chi vorrebbe strumentalizzare la sua popolarità sulpiano burocratico e su quello economico, l’altro (il prof. T.) sconfitto dallastessa malattia sulla quale sta conducendo le proprie ricerche, con il confortodella vita che continua nella memoria e nell’amore, della vita che deve rico-minciare e riprendere nei più giovani rimasti a vivere nel mondo terreno.

Un libro complesso, si diceva, pieno di svolte, digressioni, riflessioni daromanzo-saggio, pause “filosofiche”. Realizzato in una prosa ricca di tassellio segmenti aforismatici di grande incisività: «Di sicuro l’imbecillità in spo-glie austere e filosofiche è più comune di quanto si creda, e ciò costituisce unvantaggio solo per l’interessato e il suo osservatore, indotto all’ottimismo. Maciò che non fa ordinariamente l’osservatore superficiale arrendevole, occorrefaccia chi scrive i casi umani, costretto ad approfondire, per la sua stessamania che lo caratterizza, anche a costo di profondi sbagli».

Un libro ricco di notazioni satiriche anche su temi già incontrati in opereprecedenti: per esempio, sui pubblici poteri ai quali la ricerca interessa più perparlarne che per farla realizzare effettivamente; o a proposito della memo-rizzazione informatica dei dati nella quale spesso si perdono di vista obiettivireali per acquisire dati magari di più scarsa rilevanza; o, ancora, a propositodell’esigenza sentita dalle autorità pubbliche di assicurare alla giustizia uncolpevole quale che sia (a costo di inventarselo). Altre notazioni riguardano,poi, nel Profeta, il «morbo letterario» che non perdona chi comincia a scriveree difficilmente riesce a smettere; il peso degli interessi materiali che tende astrumentalizzare anche le cose sacre; l’ipocrisia diffusa; la prosa burocratico-politica entrata in uso in una pratica di scrittura certo di scarsa utilità per lostorico («Portò avanti il discorso di quella che è la posizione collettiva deglioperatori dello spirito»).

Una prosa ricca di inflessioni di vario genere, quella del Profeta, contras-segnata − come in altri testi dello stesso autore − da splendidi squarci paesi-stici (soprattutto cieli in movimento, quasi una griffe di Giorgio Prodi) e daun’oscillazione di registri dal grottesco al comico, dalla riflessione filosoficaalla satira, dall’osservazione tagliente di costume al tono appassionato e par-tecipato di una scrittura che rivela profondi spessori sentimentali ed etici.

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IL NEUTRONE BORGHESE

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Il neutrone borghese

C’era un tempo in cui il neutrone era nascosto dietro la sua neutralità.Il suo volto era coperto da una maschera di polvere.La nuova era ha avuto inizio con l’assemblea del nostro Dipartimento di Fi-

sica terminata il 19 scorso: in quell’assemblea il neutrone è stato smascherato. Ciò accadrà per tutte le altre particelle, una dopo l’altra, perché è fatale

che la scienza alienata si riappropri dei suoi oggetti.La scoperta del ruolo essenzialmente borghese del neutrone ha aperto una

strada nuova alle ricerche fisiche: fenomeni analoghi accadranno nella bio-chimica, nella biologia molecolare, nella genetica, via via fino alla neurofisio-logia e alla psicologia. Nei problemi di fondo i compagni sociologi sono statibattuti clamorosamente sul tempo. Hanno dimostrato ancora una volta di es-sere imprecisi e demagogici. I sociologi sono dei confusionari, questa è la ve-rità. La fisica ha ripreso il bastone del comando.

Dunque, di questa assemblea deve essere dato un resoconto minuzioso. Dividiamo tale cronaca in tre parti.La fase che potremmo chiamare dei presentimenti.La fase preparatoria.L’assemblea vera e propria.Nel nostro Istituto, che è, più precisamente, un Dipartimento, e che chia-

miamo Istituto Dipartimentale Policattedra, da dieci anni rifiutiamo la ricercacome asservimento alla pretesa oggettività del reale. Direi che questo è unatto acquisito. Non vale neanche la pena di parlarne.

Vale la pena invece di ricordare le notti passate in assemblea nelle aule e neilaboratori in anni lontani: esse sono state più educative della meccanica ondu-latoria. Ci siamo riappropriati allora della dimensione sociale della ricerca. Nonè fuori tema ricordare quei tempi, perché costituiscono le radici di tutto quantoè avvenuto dopo, soprattutto dell’assemblea conclusasi il 19 scorso. Da alloraè scomparsa la ricerca come pretesa oggettività: anzi, per essere più precisi, èscomparsa la ricerca in generale. È difficile condurre le rivoluzioni a metà.

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La sospensione del lavoro sperimentale che noi realizzammo in quegli annifu allo stesso tempo causa ed effetto della riproposizione di un’attività teoricanuova. Fino a quel momento la sperimentazione ci aveva distolti dalla vera ra-dice dei problemi, onde il detto: la sperimentazione è l’oppio dei fisici. Speri-mentazione e didattica erano strettamente legate, mediante modelli diasservimento al dominio, a strutture competitive che ci disgregavano e creavanotra noi spaccature e rivalità. Con l’abolizione della docenza e la conquista della“carriera a ciclo chiuso” tutto questo è caduto. Ci siamo trovati affratellati,senza più che carriera o lavoro ci dividessero. Fu in quel periodo fervido cheportammo la fisica nelle fabbriche e nei quartieri: il ricordo sempre più vagoche ne avevamo conferiva alla nostra divulgazione una maggiore incisività, unapiù consapevole concretezza. Scoprimmo il volto sociale della fisica.

È con orgoglio che ricordo il nostro Istituto Dipartimentale Policattedra,forte di centinaia di ricercatori e di tecnici, completamente vuoto. Da decinee decine di articoli pubblicati sulle più competitive e alienanti riviste ameri-cane, si passò a qualche nota qua e là su bollettini italiani. Chi voleva lavorarepoteva farlo, nessuno lo impediva, ma l’ambiente era talmente inadatto a taliesibizionismi che costoro preferivano lavorare al CERN, o a Dubna, o in altricimiteri di elefanti.

Ricordo con piacere quel tempo. Eravamo tutti fuori, in assemblee, oc-cupazioni, fabbriche, vagoni di seconda classe, dormitori, a piccoli gruppi.Tutti assieme ci si vedeva solo, e di sfuggita, a fine mese, al Banco del Montee del Mutuo Soccorso. Una vera diaspora. Si passava davanti al Dipartimento,si vedevano alcune finestre aperte, di sera alcune luci accese. Erano le vecchiecariatidi: la storia non aveva insegnato loro nulla.

Dopo un certo tempo il popolo aveva imparato la nostra fisica e noi ave-vamo imparato la saggezza del popolo. Ai quartieri ci fecero capire che la col-laborazione aveva dato i suoi frutti. In fabbrica ogni tanto ci mettevano inmano cacciaviti e trapani, ed era chiaro che a questo modo veniva meno la no-stra specificità di ricercatori fisici.

Rifluimmo a poco a poco sul nostro Istituto Dipartimentale Policattedra. Come molti di voi sanno, tale Istituto ha lunghi corridoi, soffitti molto

alti, ed una architettura che è appena appena sopportabile se uno è molto oc-cupato. Trovandoci a girare per i corridoi senza uno scopo fisso, quella ar-chitettura ci mandava fuori dai gangheri. Mai sentimmo con più forza la

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nostra condizione alienata di ricercatori costretti a lavorare in un contestoborghese. Qualcuno era arrivato al soliloquio (il che è indice di dissociazione).Si domandava: “Siamo noi fisici?”

Continuavano ad arrivare finanziamenti, apparecchiature, stipendi. Si sacome vanno queste cose. L’apparato statale è così inerte che non segue l’an-damento della storia. Noi vivevamo con un piede nel passato e uno nel futuro.

Qualcuno riprese a giocherellare con camere a bolle e spettrografi gamma,i teorici riprovarono le tabelline accorgendosi di ricordare anche le equazionidi Schrödinger. Ci si stava rimettendo sulla via vecchia. Era l’inizio dello sfa-celo. Ogni tanto venivano ospiti sgraditi: da Ginevra qualcuno riferiva la sco-perta di qualche muone o qualche pione, dalla sezione comunista qualchealtro metteva pulci nell’orecchio sui miliardi che l’Istituto Dipartimentale Po-licattedra costava ai lavoratori. Fu chiaro che così non si poteva andare avanti.

Scartata ogni attività tesa al dominio e alla violenza dell’uomo sull’uomo,rimanevano solo la Fisica Autocritica e la Fisica Sociale.

Fuori della nostra esperienza di quartiere, dovevamo riproporci su nuovebasi i fondamenti della nostra disciplina, smascherandone il fondo parcelliz-zato e alienante. Occorreva impostare una nuova attività teorica: perciò anchei fisici sperimentali dovevano trasformarsi in fisici teorici. Ma quest’attivitàera anche incidente sulla prassi, sulla condizione umana, sull’emancipazionedei ruoli subalterni: quindi anche i fisici teorici dovevano diventare speri-mentali. Si trattava di mettere in atto una profonda ridiscussione di tutti iruoli, che si sarebbe ripercossa sul vissuto di ognuno e sulla ristrutturazionedella disciplina come momento di riappropriazione del sociale.

Furono mesi di inenarrabili sacrifici. Dovevano cadere le ultime barriere so-pravvissute alla diaspora nelle fabbriche, nei quartieri, nei dormitori, nei va-goni di seconda classe. Il cambiamento doveva essere radicale. Era necessariauna nuova alleanza con le forze sociali. Quella tra docenti democratici e stu-denti democratici era troppo ristretta e corporativa. Furono cooptati due vi-gili urbani, un impiegato del catasto, alcune casalinghe, una femminista,l’aggiunto del sindaco, uno studente di Comunione e Liberazione e dodici stu-denti di legge: essi rappresentavano la domanda sociale. Difficoltà vennero daparte degli psicanalisti, che volevano entrare a tutti i costi. Noi non eravamopregiudizionalmente contrari, ma ponemmo come condizione che entrasserodue freudiani e uno junghiano. Non si misero d’accordo, e non penso che fu

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un gran male. Meno dibattuta fu la questione dell’ingresso dei rappresentantidi ordini religiosi, ordini professionali, sindacati, compagnie di assicurazione,ferrovie dello stato, società autori ed editori. Erano tutte strutture vecchie,non rappresentavano veramente nulla. Si ammise soltanto qualche osservatoresenza diritto di voto (come il ragionier Pistrigoni, mio amico).

Non è vero che ci siano state difficoltà terminologiche o concettuali. I la-vori sono iniziati speditamente. Fin dalla prima riunione si è capito che si eraad una svolta decisiva della Fisica. Dopo la fase della diaspora, si stava recu-perando anche la dimensione assembleare, per un certo tempo scaduta.

Il mio chiodo fisso era che si dovesse trovare un preciso punto di partenza.La critica radicale deve cominciare da un problema, da un caso. Inoltre devecominciare da un fatto sociale. L’esercizio della Fisica Critico-Sociale dovevainiziare in modo esemplare, con una situazione di totale coinvolgimento delleforze interessate. Da una parte noi fisici con i nostri amici (la Società, l’Uomoche come forma viva penetra il naturale), dall’altro una “cosa” da sottoporrea giudizio. Doveva essere un primo grande processo.

Dovevamo costruire un processo.Ma quale? A che cosa?A tutto, certamente. La nostra alienazione era tale che si poteva cominciare

da qualsiasi cosa. Ma proprio per questo la scelta diventava difficile, quasidecisiva. Cominciare col piede sbagliato voleva dire rovinare tutto, signifi-cava il dominio della fisica vecchia, il fallimento della nostra lucidità, lo scaccodel sapere critico.

La nostra alienazione si poteva tagliare col coltello, tanto era spessa e gron-dante e lardacea. Bene. Fu a quel punto che il mio pensiero ronzante si co-minciò a concentrare sul neutrone. Dapprima con circoli ampi, elusivi,inconsapevoli come quelli di un’ape. Ci doveva essere qualcosa, se il mio pen-siero ronzante girava in circoli quasi concentrici. Andava e veniva, non pro-prio in circoli ma statisticamente erano circoli, che dovevano dunque avereun centro, ed in questo centro doveva esserci qualcosa. Bene, ronza e ronza,al centro c’era proprio lui, il neutrone.

Si sa che il processo della scoperta è un fenomeno quasi insondabile. Kö-stler dice che la scintilla scatta quando due domini concettuali si intersecano,e proprio nel momento in cui si intersecano. Io sono piuttosto portato a ve-dere la scoperta come giacente su di un piano, in cui noi ci muoviamo con mo-

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vimenti prima casuali, poi a poco a poco più ristretti, ed è in questo momentoche sentiamo la presenza della cosa. È la cosa (o l’idea) che ci prende dall’e-sterno, ci introduce nel suo campo di forze, ci cattura. Quando noi vediamola cosa che ci cattura, questa è la scoperta, l’attimo della scoperta.

Così è stato col neutrone. Ho capito che si doveva cominciare da lui. Solo dopo ho capito il perché.

Così è infatti l’intuizione: si giustifica a posteriori. È come il pistolero chespara prima di avere visto il bersaglio: lo scopre solo a posteriori, come ne-mico-cadavere.

Le ragioni della scelta, dopo, apparvero fin troppe: il carattere ambiguodella particella, la sua ambivalenza e mancanza di ogni carica, il suo ibridorapporto con la velocità, ed altre cose ancora che non sto ad elencare. Inol-tre il modo in cui era stato messo assieme e sviluppato in forma credibile, unamescolanza inverosimile di formalismo tedesco, di empirismo anglosassone,di improvvisazione italiana, di scientismo cosmopolita ebreo.

Era chiaramente una particella borghese. Si trattava di smascherarla. Ilprimo atto della Fisica Autocritico-Sociale (quella che venne chiamata in se-guito “Controfisica”) doveva essere il giudizio sul neutrone.

L’ altro termine della questione ne derivava automaticamente. Dato l’im-putato, si costruiva conformemente la corte giudicante.

Lo sforzo organizzativo per l’Assemblea finale fu estremamente metico-loso. Molti collettivi di altri dipartimenti aderirono e costituirono gruppi distudio. Il lavoro assembleare fu diviso in sezioni, e furono stabilite relazionie comunicazioni a tema libero.

Il nostro antico Ateneo esercita ancora un suo fascino, e il prestigio del-l’Istituto Dipartimentale Policattedra tornava a splendere di luce propria.

I temi delle varie sezioni del Congresso furono così stabiliti:1) La falsa neutralità del neutrone e la responsabilità della scienza. 2) Neutrone, neutrino e complesso di Edipo.3) Socializzazione del neutrone a livello nucleare: per una rieducazione

del neutrone nel suo proprio dominio di appartenenza.4) È il neutrone recuperabile? Ruolo e responsabilità della psichiatria de-

mocratica. 5) Neutrone e parcellizzazione del sapere.6) Il neutrone e il giovane Marx.

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Per ogni sezione fu nominato un coordinatore. Furono, in estenuanti se-dute, fissati i regolamenti per le votazioni. Nessuna decisione sarebbe stata ri-tenuta valida se non a maggioranza assoluta. Su questo punto sono del tuttointransigente, come sempre: quando ero in Azione Cattolica mi sono semprebattuto perché all’inizio di ogni anno associativo ci si pronunciasse sull’esi-stenza di Dio a maggioranza assoluta, senza infingimenti o scappatoie. La ri-cerca non si può basare su dati aleatori, su maggioranze semplici, magari sualleanze dell’ultimo momento o su giochi di corridoio. La verità assemblearedeve scaturire vividamente dal corpo luminoso dell’Assemblea. Deve, percosì dire, assurgere al cielo della scienza per forza propria, limpida e leggera.Il cammino scientifico ha una sua rigida moralità da conservare: solo a que-sto modo la scienza supera se stessa e il proprio tempo.

Fin dalle prime ore il verdetto emerse incontrovertibile dal fumo. Il pa-lazzo dello sport era gremito. Lo sforzo organizzativo era stato enorme. Ne eravalsa la pena? Certo che ne era valsa la pena. I venditori di panini e gli indianimetropolitani avevano sotto i loro occhi il primo atto di ricerca totale, di spe-rimentazione fisico-psico-sociale, la prima esperienza integrata nel complessoe globale laboratorio dell’umanità.

I tentativi di difesa apparvero subito un fiasco. Il neutrone ne uscì a dirpoco ridicolizzato. Un professore col cravattino e la pipa, di chiara imita-zione anglosassone, esordì con inflessioni anglo-emiliane da esibizionista.Voleva proiettare diapositive. Il giovane Max Simonatti, membro del col-lettivo “Api, alveari e arch.” gli urlò: “Scopri le carte, buffone. Dicci da cheparte stai”. Il cravattino perse subito le staffe. Afferrò il microfono e gli urlòdentro: “Sto dalla parte della Fisica. Oh frase infelice! Un attimo di silen-zio, poi un boato di ilarità. Via il cravattino. Viene un altro che pretendegesso e lavagna. Non ha capito niente di niente. Ci vuol fare la lezione. Tuttigli studenti di Legge e le casalinghe si mettono a urlare frasi irripetibili (letue equazioni mettitele nel… dicci con chi stai ecc.). Da tutte le parti si co-mincia spontaneamente a scandire “Neutrone, Padrone / No alla Provoca-zione”. Arriva una staffetta. Dice che all’incrocio ha visto un carabiniere inbicicletta. Consultazioni febbrili. Viene nominata una delegazione per chie-dere la fine dell’assedio del palazzo dello sport. La delegazione corre, il ca-rabiniere non c’è, andava a casa, forse è già arrivato a casa, di carabinierinon se ne vedono, se non si vedono sono appostati, certamente sono appo-stati all’interno del palazzo dello sport, forse sono travestiti da fisici.

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Il presidente urla al microfono che non si deve fare il gioco della reazione,che occorre conservare la calma. A poco a poco la calma ritorna. Il Sindacato“Docenti e popolo uniti nella lotta” manda tra congressisti giovanotti conbracciali incaricati dell’ordine. Spiegano che non c’è pericolo, che la mano-vra provocatoria è stata sventata.

Da questo momento i lavori si svolgono nella tranquillità più assoluta. Gliinterventi delle sei sezioni si snodano uno dopo l’altro durante sei giorni. Viè una chiara convergenza di ipotesi, e alla fine, nella giornata del diciannove,il neutrone è definito borghese, con la sola astensione del presidente. Unlungo applauso corona il primo risultato della Fisica Autocritica e Sociale.

Le conseguenze non tardano a farsi sentire. Sono passati solo quindicigiorni, e arriva dagli Stati Uniti il primo segno. Alcuni fisici nostrani pensa-vano che i lavori dell’Assemblea, pur importanti, avessero ripercussioni soloa livello della Fisica Sperimentale. Invece eccoti qui la faccenda dei ricerca-tori di Stanford. Prova e riprova, guarda cosa vanno a scoprire: esistono ca-riche frazionarie. Mettete questo assieme ai dati più vecchi della parità chenon è parità, collegate la faccenda ai quarks: vi pare che tutto questo avvengaa caso? Solo una mente senza apertura dialettica può pensare un’ipotesi si-mile. Il caso non spiega nulla. In realtà è la contraddizione che noi consape-volmente, con la nostra Assemblea, abbiamo lanciato nel mondo delleparticelle. La contraddizione fa il suo lavoro, mentre noi facciamo il nostro.Anche i fisici americani ne devono approfittare, perché no. Non facciamoquestioni di barriere ideologiche o religiose.

Ora occorre al più presto riordinare gli atti del congresso e pubblicarli inedizione economica. Un titolo che mi piacerebbe è “Api regine, api operaie earchitetti”. Dà l’idea del lavoro e del progetto: del lavoro dell’uomo nel grandeprogetto della natura. Il sottotitolo potrebbe essere “Il processo a Galilei nonfu un vero processo”. Darebbe una connotazione storica non indifferente allacomprensione degli atti del 1° Congresso della Società Italiana di Controfisica.

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IL CANE DI PAVLOV

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Il labirinto

IQuando Teseo entrò nel labirinto, un ramo fiorito lo attrasse con tristezza,

perché molte cose pensò sarebbero svanite nel tempo, a partire da quel ramo,e la sua vicenda sarebbe stata sommersa dalla catena dei fatti che comincia-vano ad accadere. Il ramo fiorito era il primo anello di una serie di cambia-menti necessari, nei quali egli penetrava con malaccorta inesperienza.

Quel ramo gli suggerì tuttavia che non poteva non legarsi al primo anellodella catena. Così in quel momento divenne adulto, perché la maturità è ac-cettazione.

Teseo non sapeva come fosse il labirinto, né cosa custodisse. Del Minotauroaveva le immagini vaghe della leggenda, che lo dicevano uomo con testa di toro:certo era innaturale immaginarlo molto grande, sia come uomo che come toro.Ma Teseo preferiva pensarlo sotto forma di spazio cavo al termine di un cam-mino lunghissimo: forse era nient’altro che una regione cubica dietro l’intricodei corridoi, molto densa, dove ognuno avrebbe trovato quanto la sua paura siaspettava. Il Minotauro poteva anche essere l’assenza di ogni cosa, il vuoto dicui ci si accorge improvvisamente, con la sensazione di essere alla resa dei conti.

Teseo pensava che l’unica arma, di fronte all’ineluttabile, fosse di render-gli omaggio come a cosa naturale, ma sapeva che ciò era contro natura, per-ciò impossibile. Questa era la contraddizione del Minotauro, per Teseo, chemalinconicamente vedeva il mondo con occhi mostruosi (così che anche lecose normali si vestivano di orrore), ma che ritrovava spesso sotto apparenzeorrende la semplicità dello sguardo.

Non sapeva nulla di ciò che lo aspettava oltre la porta. Da fuori aveva vistoun muro alto a perdita d’occhio, ma doveva essere solo la cinta esterna. ComeDedalo avesse progettato l’interno, Teseo ignorava. Immaginava non tantomuri e pavimenti, quanto spazio e geometria. La struttura del labirinto im-pediva forse la libera circolazione d’aria che si ha tra le case e gli alberi, osulla superficie del mare quando si naviga. Nel labirinto lo spazio doveva es-sere talmente concentrato da schiacciare chi vi entrasse: il Minotauro non eraforse nient’altro che quello spazio mortale.

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II

Gli fu spalancato un vasto portone verde, che gli chiusero alle spalle. Sitrovò in uno spazio ottagonale, selciato con sassi rotondi su cui i carri avreb-bero sobbalzato. Ma non vi erano carri, né voce alcuna. Le voci, deboli, va-nivano ormai solo dall’esterno, oltre il portone, ed erano di compianto, giàtendenti a svanire in brusii indistinti. Altri tredici giovani erano già entrati, neigiorni precedenti, uno dopo l’altro. Di loro, nell’atrio deserto e austero, nonc’erano tracce.

Al centro vi era un grande albero. Il cielo sopra era aperto, e le alte muravi guidavano lo sguardo: come se esso fosse estremamente lontano ed avessebisogno di una indicazione per essere notato. Fu questo che diede a Teseo laprima misura dello spazio diverso che dominava all’interno. L’albero nodosoera forse l’ultimo per Teseo. Era già legato al secondo anello della catena,quello in cui ogni cosa, appena toccata dallo sguardo, sembrava dileguarsi.L’albero era al contempo visto e non visto, né parve a Teseo ragionevole do-mandarsi se il suo sguardo lo avrebbe ancora incontrato. Aveva varcato unasoglia decisiva, unica entrata ed uscita, mai usata però come uscita. Nessunopoteva immaginare una piccola porta nascosta (come una ferita o una incri-natura del labirinto, aperta su di una pianura desolata o sul mare) dalla qualegli altri giovani fossero fuggiti, dileguandosi in fretta per paura di essere presi,impauriti e felici in compagnia dei loro nastri, delle loro tuniche e della lororiacquistata voglia di vivere.

Teseo si guardò intorno. Pensò che non era il caso di affrettarsi alla ricercadel proprio destino, e che sarebbe stato più saggio aspettarlo, concedendoglitutto il tempo richiesto.

Ai piedi dell’albero c’era una panca di pietra, e una fontana dava acquachiara che si disperdeva tra i ciottoli. Teseo tirò fuori dalla sua bisaccia il pane,lo tagliò con il coltello e lo mangiò lentamente. Poi si sdraiò sulla pietra e con-templò in alto il cielo, che aveva la forma di un riquadro ottagonale, frasta-gliato dai rami dell’albero. Teseo si accorse che non uno dei rami si muoveva,e che non vi era un filo di vento. Anche in ciò stava la diversità dello spazio in-terno. Fece attenzione ai rumori che prima arrivavano da fuori: si erano quasiestinti, erano flebili lamentazioni, sospiri e pianti di gente che se ne andava.

La sera arrivò dall’ampia ferita del cielo in alto. Sdraiato con la bisacciasotto la testa, Teseo pensò all’entrata nella notte e nel sonno.

Il suo pensiero era Arianna. Non poteva che essere mescolato ad altri pen-

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sieri, che raramente lo abbandonavano, come immagini di rami fioriti, di ondemarine, di lettere dell’alfabeto e di numeri. Arianna compariva dietro tuttoquanto lui pensava o ricordava. Questa gli sembrò un’altra contraddizione dellabirinto: perché mentre si sentiva staccato da ogni cosa, trasferito in uno spa-zio e in un tempo diversi, Arianna continuava ad essere presente ovunque, anchetra i rami dell’albero, ed il pensiero di non vederla più era bizzarro e innaturale.

Si erano salutati in fretta, con un commiato molto più semplice di quellodegli altri giovani entrati prima, fatto di pianti e di preghiere lamentose. DiArianna a Teseo era rimasta la visione degli occhi, che ora erano gli occhistessi della notte. Teseo pensò che le distanza tra i luoghi e la separazione deimuri fossero una condizione del pensiero: che non ci fossero distanze invali-cabili o muri impenetrabili. Anche il tempo si dilatava e si restringeva, ed ilpassato poteva rincorrere il presente e sorpassarlo, buttandosi nel futuro. Cisono modi precisi con cui il pensiero compie tali congiungimenti, e Teseo livedeva nel buio come figure della geometria. I grandi occhi della notte gli as-sicuravano la presenza del passato, l’amore per Arianna e la conoscenza dellecose viste anche con gli occhi di lei, ‘cose viste da due sguardi’.

La mattina arrivò con un chiarore impreciso tra i rami. Teseo si lavò allafontana. Di fuori si sentiva solo il parlottare delle guardie che si davano ilcambio: parlavano di vino e di fichi. I ciottoli rotondi del selciato non avevanotraccia di escrementi taurini, né c’era odore di stalla. Le linee dell’atrio eranosobrie, il luogo era privo di ornamenti. Di fronte a Teseo, quattro aperturesenza porte conducevano a quattro altissimi corridoi, uguali tra loro, col pa-vimento di ciottoli simile a quello dell’atrio. Partivano simmetricamente indirezioni diverse. Teseo pensò che poteva rimanere fermo lì dov’era, e aspet-tare il Minotauro. Avrebbe aspettato con pazienza, vedendolo sorgere ad untratto da una delle quattro aperture. Forse sarebbe trascorso moltissimotempo. Forse il Minotauro avrebbe divorato un Teseo fattosi cadavere scar-nito dalla fame. Ma a Teseo pareva strano che il Minotauro fosse una bestiacapace di muoversi. Era piuttosto qualcosa che attirava, una proprietà dellospazio che si manifestava nel punto più chiuso e involuto del labirinto, in queltratto dove ogni destino si sarebbe compiuto.

Imboccò l’apertura centrale pensando inutile restare al margine dei fatti,e si inoltrò nel corridoio.

Altri corridoi perpendicolari cominciarono ad intersecarlo. Ma Teseo nonsi curava delle vie laterali: andava diritto, con passo né veloce né lento, e con

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una certa noncuranza. Poteva vedere che il corridoio, sprofondato in avantinello spazio, tagliava in alto come una lama il cielo azzurro, e sopra c’eranointense nuvole vaganti, e finalmente sul mezzogiorno vide il sole, e la propriaombra disegnata sui ciottoli.

I muri erano di pietre squadrate, su cui una volta era stato dato l’intonaco,decorato poi di dipinti. Rimanevano infatti, nelle parti più protette, tracce diserti vegetali e di veli, ma quasi tutta la superficie ora aveva perso anche l’in-tonaco, e sotto apparivano le pietre. Fili d’erba crescevano tra i ciottoli, e si in-fittivano alla base del muro. La strada segnata dal corridoio prendeva cosìl’aspetto di una via tra i campi, fiancheggiata da altissime siepi: era invece unavia che guidava verso luoghi indeterminati. I muri, sia quelli del corridoio chepercorreva, sia quelli dei corridoi perpendicolari, erano uguali e simmetrici.

Teseo non aveva fretta, la sua bisaccia era salda dietro la schiena, i suoi san-dali facevano presa sui ciottoli tondi, il suo passo era tranquillo. Anche i filid’erba gli piacevano, ed anche i muri scrostati e severi, innalzati solo per di-rigere e sviare i cammini. Amava il silenzio che dominava intorno, da capo afondo, nella via che percorreva e nelle vie laterali, e il senso remoto del luogo,che era come una casa perennemente inabitata dopo la sua costruzione, constanze visitate solo casualmente, ogni nove anni, da passi incerti che non la-sciavano tracce.

Andando nell’intrico delle strade annodava tre gruppi di pensieri.Il primo riguardava il Minotauro, che era lo sfondo poco geometrico di

tutta la geometria tessuta intorno ai suoi piedi e sotto il cielo. Non sapeva comefosse fatto (sapeva solo che procurava orrore), né come gli si potesse presen-tare davanti. Continuava a figurarsi immagini agghiaccianti, improvvisi aliti le-tali o fasci di luce invisibile sovrapposti alla luce visibile. Ma la sua giovinezzalo proteggeva dall’angoscia. Egli era protetto anche dal fiato chiamato anima,in parte fiato suo in parte fiato di Arianna. Più che pensare al Minotauro pen-sava, dunque, a ciò che vedeva e sentiva: il muro, i fili d’erba, la solitudine.

Il secondo pensiero riguardava il labirinto nella sua geometria. Ne avevavista una piccola parte, aveva avvertito come ampiamente si estendesse nellaenorme lunghezza delle sue strade, e si chiedeva se fosse possibile averne unavisione complessiva. Un uccello pensante, di volo molto alto, avrebbe potutocontemplare l’intrico dal cielo, e capirne la ragione, trasformando il caso (gliinfiniti inganni degli incroci) in una legge. Ma l’uccello pensante, anche ca-valcato da un uomo, avrebbe registrato nella retina l’intrico dei muri solo per

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un breve tratto, forse anche abbagliato dal sole, e l’immagine si sarebbe ve-locemente dispersa nel pensiero come un sogno. Tuttavia Teseo, volgendosiverso l’alto, provò ad immaginare un volatore silenzioso dalle ali di cera.

Teseo suppose che il Minotauro potesse essere il conoscitore dell’ingannodei corridoi, e non semplicemente una bestia guidata dal fiuto e dalla ferocia.Ma respinse anche questo pensiero. Infatti la legge del labirinto non poteva ri-dursi a ciò che era dentro al labirinto, costruito per la situazione innaturale delfiglio di Pasifae. L’ipotesi più semplice era che esistesse qualcuno, che non fosseil progettista né l’abitatore, cui l’idea del labirinto potesse essere chiara come undiscorso di cui sia Dedalo che il figlio di Pasifae fossero stati solo involontariascoltatori. E Teseo pensava che anche lui dovesse essere dentro al labirinto.

La mente piena di dèi, Teseo cercava nell’incrocio dei corridoi il vero pro-gettista, e la sua mente lo chiamò dio del labirinto e signore, intendendo conquesto che egli avesse conoscenza di tutti i labirinti possibili, quelli costruitiper sviare e quelli costruiti per dirigere, ed in quel momento immaginò cheanche il suo corpo fosse un labirinto di innumerevoli cammini, riuniti e in-trecciati continuamente.

Il terzo pensiero usciva dai suoi argini e contaminava lietamente gli altri.Era il pensiero di Arianna, che sempre compariva con i suoi occhi di luce e ilsorriso e il fiato, che erano un poco quelli di Teseo, anima della sua anima nelcammino all’interno del labirinto. Compariva di soppiatto tra i pensieri dei filid’erba nei muri, dell’osservatore celeste che navigava con ali di cera, del Mi-notauro cacciato sempre più al fondo del suo regno. A volte il pensiero diArianna era sfolgorante in se stesso, apparizione che gli veniva incontro cor-rendo nei corridoi e gli parlava. Se c’era ancora un ‘mondo al di là del muro’,era perché esisteva Arianna. Tutte le altre immagini esterne gli parevano illu-sorie, come cancellate dalla realtà che stava vivendo. Ma Arianna era reale, erain un punto fisico al di là del muro e fuori del suo cammino, e il suo pensierola sentiva dispersa in concentrazione sufficiente per essere amata anche nel la-birinto delle strade senza fine e degli incroci senza direzione.

Così Teseo, quella prima mattina, prese fuori della bisaccia il suo zufolodi canna, si sedette con la schiena contro l’interminabile muro e suonò pen-sando a lei, sicuro che avrebbe udito.

Teseo si inibì invece ricordi troppo ravvicinati. Evitò i desideri. L’amoredel corpo ha bisogno della presenza del corpo.

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III

Il sole era a picco quando Teseo si addormentò alla base del muro, e nel-l’atto di addormentarsi ebbe come un moto di ringraziamento, perché i suoitre gruppi di pensieri convergevano in un’unica sensazione.

Il Minotauro, se era orribile, non era diverso da quanto la morte riserba aognuno, compreso il non sapere come è fatta.

Il labirinto era sia l’enigma e l’inganno, sia il disegno che svela: a lui, nonad altri, era stato dato di abitarlo ed esplorarlo. Che gli fosse concesso di sve-larne il segreto, non credeva: ma pensava che a pochi era dato di confron-tarsi con lui, anche come vittime.

Arianna era l’antiminotauro: spingeva a considerare il disegno invisibiledel labirinto, volgendolo in certezza di vita anziché in certezza di morte.

Mentre si addormentava nel meriggio luminoso, si sentì nel suo regno, e lascelta che era stata fatta di lui come vittima in Atene gli parve un privilegio. Sisentì all’interno di un dominio familiare, con la prerogativa della solitudine.

Al risveglio riprese il cammino.Il suo andare calmo e inarrestabile accentuava la propensione dei suoi

pensieri verso la geometria del labirinto, che egli cominciò a vedere con gliocchi di Arianna, imparando a fondere tra loro molte cose che di solito re-stavano separate. Capiva che per pensare fortemente a qualsiasi cosa è ne-cessario entrare sempre in qualche labirinto, tagliandosi fuori da tutto il resto.

Cominciò a imboccare anche strade perpendicolari. Per molto tempo avevapercorso un unico corridoio nell’unica direzione da cui era entrato, volgendola mente con intensità al problema dell’orientamento, e cercando tracce da ri-cordare. Ma la quantità delle strade, la somiglianza dei muri e delle pietre edil numero delle deviazioni lo avevano frastornato. Era stato sommerso dall’in-trico del labirinto. Abbandonò quindi ogni interrogativo sulla direzione.

Il progettista aveva probabilmente tenuto conto anche del desiderio diorientamento delle vittime, e si era impegnato ad aumentare gli inganni, su-perando la pura geometria. A volte due strade convergevano in una piazzettaacciottolata, al fondo della quale stava una fontana che mandava acqua da unmascherone a bocca aperta, e ai lati si aprivano altre due vie rettilinee o curve.La piazza dava il senso di uno spazio chiuso, e il rumore dell’acqua aumen-tava a dismisura il silenzio, lo rendeva familiare e compatto. Il disegno dellapiazza si ripeteva, cosicché ogni volta pareva di sfociare nello stesso luogo.

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Teseo cominciò ad osservare i muri. Erano uguali ed ugualmente scrostati,ma il tempo li aveva lavorati inegualmente; forse nella parte alta il vento lilambiva con una direzione prevalente, e si potevano ricostruire alcune diver-sità. Ma anch’esse si ripetevano troppe volte, aumentando la sensazione diessere in uno spazio diverso, nel quale ogni punto equivaleva ad ogni altro.Nessuna legge poteva essere dedotta dall’osservazione delle diversità. Nes-suna identificazione di luoghi era possibile.

Nel fianco dei muri si aprivano ferite terrose da cui nascevano piante difico che avevano frutti succosi. Teseo, mangiandoli avidamente, pensava chene avrebbe trovati altri. Sarebbero stati sufficienti anche per Arianna. Cosìprendeva piede in lui una oscura e ferma sensazione di futuro, anche senza co-noscerne il volto.

Sul Minotauro adesso ragionava a questo modo: se il labirinto fosse statoveramente il suo regno, il Minotauro lo avrebbe percorso di continuo. Ben-ché senza servi, lo avrebbe pulito dagli arbusti, avrebbe levigato le pietre e im-pedito alla natura la sua lenta conquista.

Ma ciò non accadeva: c’erano fili d’erba tra i ciottoli, e arbusti abbarbicatiai muri. Dunque il Minotauro non regnava: era il tempo, più che il Mino-tauro, a dominare il luogo. Il Minotauro attendeva, appartato in qualche re-cesso: il labirinto era per lui più prigione che regno.

Osservando attentamente anche un piccolo tratto di muro, si può – pen-sava Teseo – ricostruire il tempo, sia delle stagioni (dalla fioritura e sfiorituradei piccoli arbusti) che degli anni e dei secoli. Ma ora la sua attenzione era di-retta altrove, ed egli non ne poteva sprecare neppure una piccola parte. Pen-sava ad Arianna. Pensava all’attimo continuo in cui era immerso, checorrispondeva ad un punto senza dimensioni. Tempo e spazio fuggivano via.Atene era un luogo immaginario al di là del muro, al di là anche di una distesamarina fitta d’onde, che si chiudeva dietro la scia di una nave ornata di vessilli.

IV

Teseo aveva ormai percorso innumerevoli strade. Anziché l’orrore e lapaura della ripetizione (il Minotauro della mente) si era introdotta in lui sem-pre più forte la sicurezza del suo regno, scandita dal ritmo dei corridoi e daldipanarsi del suo pensiero, che gli pareva sempre più piovere dall’azzurro chesovrastava. Era come se vedesse il labirinto dall’alto. Immagini cadevano giù,e venivano da destra e da sinistra, ma ora avevano tutte una radice comune,

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una sorta di origine immobile: era Arianna. A qualsiasi cosa pensasse, la sen-tiva già presente all’interno del labirinto. Arianna era penetrata nel suo spazio,che ora era il loro. Arianna era la signora del luogo. Si trattava di cercarla.

Teseo aveva trovato un muro dirupato, che formava una specie di scalaverso l’alto, e vi si era arrampicato cautamente, pietra dopo pietra. Giunto inalto, ad un’altezza da cui il pavimento acciottolato sembrava molto distante,si era guardato intorno, ed aveva visto una distesa senza fine di margini su-periori di muri, ad altezza un po’ diversa, ed anche con una lieve ondula-zione, ad indicare che il labirinto non era del tutto pianeggiante; ma nientec’era al di fuori, né mare, né praterie o monti, niente c’era a portata d’occhioche non fosse occupato dai vertici dei muri, con qualche raro arbusto. CosìTeseo ridiscese, sicuro di non avere indicazioni da questo tipo di ricerca.

Un’altra volta aveva intravisto la luna da un incrocio di muri, una lunatonda così chiara da proiettare ombre sul pavimento, con aumento di geo-metria e di immobilità. Teseo si era voltato in alto a contemplarla, perchésempre gli era stata cara la solitudine della luna, e in quel mentre aveva vistoil volto di lei iscurirsi e poi diventare nero, tranne che per una piccola falce,e dopo tornare tondo e luminoso, come se un’ombra di tristezza, subito fu-gata, le fosse passata davanti: il suo Minotauro, aveva pensato Teseo.

Un’altra notte Teseo, addormentato profondamente vicino ad una fon-tana, aveva sognato la distruzione del labirinto: i muri crollavano uno sull’al-tro, egli fuggiva per le strade che da amiche erano diventate ostili, e ladistruzione non pareva venire dalla terra ma dal cielo, come se grandi crea-ture alate portassero morte e, col pretesto di uccidere il Minotauro, volesserouccidere lui. Il sogno era particolarmente angoscioso, proprio perché la mortenon veniva dalla terra, ma dallo splendore e dalla chiarezza del cielo, perciòla sua corsa al grido di “Arianna, Arianna” era una protesta contro il cielo ei suoi ingannevoli splendori.

Teseo aveva ormai i suoi luoghi preferiti (gli stessi o diversi?), che amavaassociare alle sue azioni abituali: di notte dormiva vicino a fontane mormo-ranti; sul mezzogiorno dormiva alla base di un muro diritto; consumava ilpasto di fichi camminando per strade rettilinee; modulava il suono del flautocamminando per strade curve. In alcun luogo trovò mai tracce di un suo pre-cedente passaggio, come bucce o escrementi. L’estensione del labirinto eratale da rendere assai improbabile che Teseo si immergesse due volte neglistessi muri. La sua era una esplorazione senza oggetto: più passavano i giorni,

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meno egli riusciva a farsi un’idea del labirinto. Tutto era assolutamente ripe-titivo e indeterminato. Perciò pensava di continuo alla stranezza delle ripeti-zioni. Incroci e fontane erano occasioni di approfondimento del pensiero,non del labirinto. All’interno del labirinto il pensiero esplorava se stesso. Epensare ad Arianna significava ormai cercarla internamente, come se fosseparte del meccanismo della mente. Il desiderio di lei era diventato bisogno:era cioè necessità di natura, quale è certamente il pensiero.

V

Il pensiero di Arianna era sempre più concreto. Teseo parlava ad alta vocecon lei.

Non aveva dubbi, perché il suo amore aveva raggiunto la perfezione del-l’egoismo. Sapeva che Arianna non poteva vivere senza di lui esattamentecome lui non poteva vivere senza Arianna: il viaggio nel labirinto aveva dila-tato il senso della sua sicurezza, perché egli aveva trovato il regno di entrambi.

Dopo alcuni giorni la presenza di Arianna divenne così concreta da fargliardere il corpo. Era una febbre senza esito e sfibrante, ma appariva senzaesito anche tentare di contrastarla. La voleva vicina, sentiva continuamente lasua voce chiamarlo. Quando già la luna si era fatta vedere due volte nella suarotondità, Teseo non fu più capace di allontanare dagli occhi e dalle mani ilseno di Arianna.

Al secondo plenilunio Teseo ebbe la certezza che Arianna era entrata nellabirinto: non più come presenza diffusa ed aerea ma come solida persona, ve-stita del suo peplo, con i capelli ornati dai suoi fiori, con gli occhi segnati dalsuo bistro, con i suoi calzari leggeri.

VI

Non solo parlava ad Arianna come fa un pazzo, anche sotto la luna e neisogni, ma urlava il nome del Minotauro: lo cercava correndo col coltello le-vato, lo insultava, e i muri immobili rimandavano in eco le sue frasi di schernodirette a Pasifae, sua madre, che si era invaghita di un toro.

La certezza che Arianna fosse ormai dentro al labirinto aumentò la suaansia di ritrovarla.

Dire ‘nel labirinto’ era come dire ‘in tutta la terra’. La probabilità dell’in-contro poteva solo aumentare con l’aumento del percorso: si mise a correre

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in modo instancabile. Supponeva che Arianna si muovesse con più blandadolcezza, conforme alla sua natura di donna.

Si immaginò il labirinto dall’alto, lui dentro come una palla spinta daurti casuali a destra e a sinistra, e da qualche altra parte Arianna, spinta an-ch’essa quietamente dal caso, incanalata in percorsi senza fine. Teseo cercòdi calcolare la probabilità di un incontro, ed il suo calcolo si mescolò all’in-vocazione alla Dea Fortuna. Il suo cervello era senza armi, perché non co-nosceva l’estensione del labirinto, né il numero dei corridoi o la posizionedegli incroci.

Pensò che un urlo potesse amplificare la sua presenza, estendendola a piùstrade adiacenti, moltiplicando perciò la probabilità dell’incontro. Ma nonpoteva sapere se davvero l’urlo fosse così potente da scavalcare la cerchia deimuri in alto, penetrando nelle strade vicine. Da solo non avrebbe mai potutomisurare la portata della sua voce. Rumori da altri corridoi non ne sentiva, ep-pure alcune cose accadevano: distacco di intonaci o rovinio di pietre o sciac-quio di fontane. Anche il rumore dell’acqua cominciava quando lui era difronte alla maschera di pietra che la buttava fuori, all’incrocio delle vie. I murifasciavano ogni suono in modo molto rigoroso.

Anche se Arianna fosse stata in strade vicine e avesse risposto al richiamo,le distanze da percorrere per incontrarsi sarebbero state ugualmente inde-terminate, e l’incertezza non sarebbe stata ridotta di un soffio. Certo, sentireArianna vicina gli avrebbe dato una gioia immensa, ma l’unica decisione daprendere in tal caso non poteva essere che rimanere fermi, ognuno al pro-prio posto, perché cercarsi avrebbe significato perdersi.

Man mano che la mancanza di Arianna si prolungava, sempre menoTeseo si accontentava dei suoi calcoli: quindi, nonostante le incertezze, de-cise di lanciare ad ogni incrocio il suo richiamo, col rischio di indicare la suapresenza al Minotauro.

Dopo altri giorni di ricerca (si era del tutto abituato a non pensare mai qualestrada scegliere, i suoi muscoli si erano irrobustiti grazie alla velocità del cam-mino, la sua voce era diventata grave e arrochita, ma capace anche di toni moltoacuti), Teseo pensò che la probabilità di trovare Arianna fosse molto più alta diquanto avesse supposto. Si immaginò infatti Arianna, così come era davvero,con amore e dolcezza, ma anche col suo coraggio freddo e disperato, con i suoicalcoli accurati, le notti passate a tessere supposizioni sull’intrico del labirinto.Certo, Arianna doveva aver preso materialmente la via che conduceva dalla

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città all’entrata del labirinto, probabilmente di notte. Certo, ad un momento de-terminato, era accaduto che ella avesse svegliato il guardiano offrendo il suo oroin cambio di un breve giro di chiave. Teseo immaginava l’ansia di Arianna, ilpetto che saliva e scendeva dopo la corsa affannosa, i discorsi per convincere ilcustode che il silenzio mortale del Minotauro avrebbe coperto per sempre il suogesto, la perorazione accorata a favore della propria morte. Immaginava l’a-pertura veloce del portone richiuso subito alle spalle senza testimoni se nonl’albero e la fontana, il suo ritrovarsi nella solitudine in attesa dell’alba. Il Mi-notauro non la impauriva, ma avrebbe voluto sentire un lieve stormire di rami,anziché il rumore sempre uguale della fontana. Tutto questo immaginava Teseo,e ciò doveva essere realmente accaduto. Ma se questo era accaduto, la deci-sione di Arianna aveva seguito un pensiero pieno di speranza. Non era stata unadecisione di morte. La morte riguardava il rischio, non la decisione. Se Ariannaera entrata, lo aveva fatto decisa a vivere e a ritrovare lui, Teseo. L’aumento diprobabilità era appunto il pensiero di Arianna, il suo calcolo.

VII

Finalmente Teseo vide il pensiero di Arianna. Lo vide mentre camminavaoltre un incrocio, in direzione trasversale. Il pensiero è un filo che collega lecose. Il pensiero di Arianna era tale filo rettilineo, di colore rosso porpora, con-sistente e lanoso, diritto e senza indecisioni. Teseo si inginocchiò accanto a quelfilo, lo prese tra le mani e lo portò alle labbra. Sentì, oltre alla determinazioneche esprimeva il suo andare senza incertezze, anche il calore che gli faceva sor-gere dentro, mentre lui lo pensava in forma di intreccio fitto e di maglia (e sottoil seno di Arianna si alzava e si abbassava): le cose intrecciate diventano rettili-nee, anche la passione amorosa può diventare pensiero e contrastare il caso. Ilfilo di Arianna si allungava per le strade che si perdevano senza ragione e davaad esse una ragione, perché di là lei era passata, lasciando il suo segno.

La scoperta del filo avvenne al chiarore netto dell’alba. Il giorno che siapriva era in attesa di quanto si doveva dipanare. Teseo avrebbe voluto par-tire di corsa, ma decise di comportarsi come si sarebbe comportata Arianna,cioè riflettendo ancora. Se fosse partito di corsa, avrebbe scelto a caso unadelle due direzioni. Forse il filo era legato per una estremità all’albero del-l’entrata. Voleva andare nella direzione giusta, non poteva sopportare l’ideadi allontanarsi. Così osservò attentamente il filo. Teseo vide legati al filo deglisteli, che facevano col filo un angolo e costruivano una freccia.

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Il tempo premeva: Arianna aveva già sicuramente finito il suo peplo e isuoi gomitoli, e stava ferma ad attenderlo. La sua bisaccia era sempre pienadi cose utili da offrire con grazia. Certamente era stata riempita da innume-revoli gomitoli rossi, essendo il rosso il colore della passione. Arianna attra-verso il filo lo avvertiva che era immobile in attesa.

Teseo si volse, inginocchiato, verso la luce del sole che cominciava a splen-dere. Aprì le braccia, si alzò lentamente in piedi e con le braccia aperte lan-ciò al sole un urlo di gioia e di preghiera, un urlo che il sole avrebbe potutoscambiare per disperazione, tanto era folle e al di là di ogni speranza, già neldominio della certezza.

Cominciò la sua corsa precipitosa: le sue membra erano agili come quelledi un gatto. Agli incroci i muri lo vedevano passare con la velocità di una frec-cia: pareva che avesse in mano una fiaccola, e che il segno rosso del filo fossela fiamma vista dall’occhio in corsa. Egli sentiva il suo corpo compatto lan-ciato alla ricerca. Alle volte rallentava per non finire contro i muri; gettò viala bisaccia; gettò via il coltello conservando solo il pugnale alla cintura; la suacorsa aumentava ed aumentava; i ciottoli erano sempre saldi sotto i suoi piedi;gettò via i calzari che si erano logorati; tra i muri era comparso finalmente ilvento, perché egli muoveva l’aria con le sue membra sudate.

Le fila degli incroci, delle curve e delle piazze rimaneva dietro la sua corsacome un archivio confuso; ciò che esisteva era solo il filo rosso, la geometriadella sua passione sovrapposta alla geometria della crudeltà e dell’inganno. Ipassi della corsa risuonavano veloci e regolari contro i muri, la macchina deimuscoli essendo guidata dal fiato dell’anima.

Il sole stava declinando quando Teseo vide che il filo era arrivato alla suaestremità: Arianna era seduta su una panca accanto alla fontana in una piazzaaperta tra i muri.

Il loro incontro, al calar del sole, fu la riunione di ciò che non può rima-nere separato, occhi che si fondono tra loro, e l’uno non sa più chi sia a guar-dare e chi sia guardato, e tutto si unisce nella notte che viene assieme alleparole, ai sussurri e agli atti dell’amore. Il labirinto era disseminato intorno,confuso come una massa amorosa: era il loro regno, il luogo definitivo delloro isolamento e della loro unione.

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VIII

Questa è la storia di Teseo e di Arianna, rimasti dentro al labirinto senzadesiderio di uscirne, pregando gli dèi di essere dimenticati.

Quanto al Minotauro, può darsi che egli sia stato ucciso da Teseo durantela sua corsa, così folle e tesa da non lasciargli nella memoria alcuna traccia.

O può essere che il Minotauro non sia mai esistito. O che esista ancora inqualche angolo in agguato: che Teseo e Arianna lo sappiano, e che la lorounione sia resa più salda dal pericolo.

Teseo e Arianna sono i primi che hanno affrontato il labirinto, piantandovile loro bandiere. Hanno avuto molti figli, noi siamo i loro figli. Qui siamostati generati da amore, e qui è il nostro luogo definitivo. Di coloro che sonorimasti fuori si sono perse le tracce.

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Nota dell’editoreQuesto libro comprende tutte le opere di Giorgio Prodi pubblicate in vita. Nell’or-dine: Il neutrone borghese (Bompiani, 1980); Lazzaro (Camunia, 1985); Il cane di Pav-lov (Camunia, 1987); Le quattro fasi del giorno (il Belpaese, 1990); Dopo il Mar Rosso(La Bautta, 1990); Il Profeta (Camunia, 1992).

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Opera intera narrativa

di uno scienziato

epistemologo e scrittore

poliedricamente unito

che ha vissuto

le due culture

nella testa e nel cuore

senza cedimenti e senza concessioni

nella difficoltà molto italiana

di essere se stessi

questo libro viene stampato

nel carattere Simoncini Garamond

su carta Arcoprint

delle cartiere Fedrigoni

dalla tipografia Sograte

di Città di Castello

per conto di Diabasis

nel febbraio

dell’anno

duemila

nove

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