Estratto Mario Cardano Lo Specchio La Rosa e Il Loto

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ALLA RICERCA DEL DIVINO MARIO CARDANO Lo specchio, la rosa e il loto Uno studio sulla sacralizzazione della natura EDIZIONI SEAM

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saggi - sociologia

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ALLA RICERCA DEL DIVINO

MARIO CARDANO

Lo specchio, la rosa e il loto

Uno studio sulla sacralizzazione della natura

EDIZIONI SEAM

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La ricerca di cui si presentano qui i principali risultati è stata possibile grazie ad un finanziamento CNR - fondo 88/0307610.

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Indice

INTRODUZIONE Capitolo primo LA RICERCA

1.1 Storia naturale della ricerca 1.2 Il lavoro etnografico

1.2.1 Gli informatori 1.2.2 Le interviste discorsive 1.2.3 Il sondaggio a Damanhur 1.2.4 Il backtalk

Capitolo secondo GRAN BURRONE: STORIA, ECONOMIA, ORGANIZZAZIONE SOCIALE

2.1 Una breve cronistoria 2.2 L'orto, il bosco, le castagne: l'economia 2.3 Anarchia e leggi di natura: la politica

Capitolo terzo DAMANHUR: STORIA, ECONOMIA, ORGANIZZAZIONE SOCIALE

3.1 Una breve cronistoria 3.2 Un monastero per famiglie: la vita a Damanhur

3.2.1 La Città 3.2.2 La Scuola iniziatica

Capitolo quarto GLI ELFI

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4.1 Un quadro d’insieme 4.2 Le traiettorie biografiche

4.2.1 Esploratori 4.2.2 Fuggiaschi 4.2.3 Ribelli 4.2.4 Comunardi

Capitolo quinto I DAMANHURIANI

5.1 Il maestro 5.2 I cittadini di Damanhur 5.3 Le traiettorie biografiche 5.3.1 I percorsi di conversione

5.3.1.1 Sciamani 5.3.1.2 Scettici: conversione come metànoia 5.3.1.3 Seeker: alla ricerca di una saggezza profonda 5.3.1.4 Gente comune

Capitolo sesto GRAN BURRONE: IL PROFILO CULTURALE

6.1 Il tamburo: la festa e il rito 6.1.1 La festa 6.1.2 Il rito

6.2 Il contadino e il pellerosa, le fonti di una razionalità alternativa Capitolo settimo DAMANHUR: IL PROFILO CULTURALE

7.1 Magia teurgica: la dottrina horusiana 7.2 La campana, il vischio, l'artemisia: il rito

Capitolo ottavo LO SPECCHIO LA ROSA E IL LOTO

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APPPENDICE Chi sono gli elfi? Testo redatto dalla comunità degli Elfi del Gran Burrone RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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INTRODUZIONE

Questo libro descrive la vita e la cultura di due comunità, gli Elfi del Gran Burrone e Damanhur. L’attenzione cade principalmente sugli atteggiamenti e sui comportamenti verso la natura, improntati, nell’uno così come nell’altro caso, da un vivo sentimento d’incanto.

Gli elfi del Gran Burrone vivono sulle pendici di una vallata appenninica, raccolti in quattro villaggi montani: Gran Burrone, Piccolo Burrone, Casa Sarti e Pastoraio. Vivono in comunità più di cinquanta persone, giovani e meno giovani, che hanno scelto la via del ritorno alla terra, alla natura, muovendo chi da piccoli paesi, chi dalle grandi città dell’Europa continentale: dall’Italia, dalla Francia, dalla Svizzera, dalla Germania . Gran Burrone è una comunità coerentemente anarchica, nella quale il libero agire di ciascuno incontra unicamente gli ostacoli della natura e della volontà collettiva. La comunità si costituisce nel luglio del 1980 attorno a un progetto politico: la costruzione in un luogo lontano dai fragori della città, dalla «logica repressiva del capitale» (Émile)1, di una contro-società libertaria e conviviale. La natura che, da principio, costituiva nulla più che lo scenario di questo progetto utopico acquisì in breve tempo una 1Per tutelare l'anonimato i nomi dei membri delle due comunità sono stati sostituiti con altri di fantasia. Per gli elfi in un modo del tutto ordinario, così come Paolo può diventare, "in arte", Giovanni. Per i damanhuriani ho seguito un altro criterio. I cittadini di Damanhur acquistano in comunità un nuovo nome, quello di un animale, cui talvolta viene associato quello di un vegetale, ad esempio "Leone - Abete". Questi nomi che già di per sé tutelano l'anonimato, creano qualche problema quando in base ad essi si vuol risalire al sesso di chi ne è portatore (si può chiamare Leone - Abete tanto un uomo quanto una donna). Ho deciso pertanto di introdurre alcune semplificazioni. Innanzitutto ho eliminato il doppio nome, identificando tutti i damanhuriani con un solo nome di vegetale: un albero per gli uomini, un fiore per le donne.

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funzione di primo piano, sino a diventare il centro dell’esperienza personale e il principio d’ordine della vita comunitaria.

Gli elfi sono dei contadini, ma dei contadini un po’ speciali che ben poco hanno in comune con la moderna agricoltura capitalistica. Nella Valle degli elfi viene praticata un’agricoltura rigorosamente biologica, «ecosistemica», che alla predazione, allo sfruttamento della terra, sostituisce la collaborazione; che all’uso di sofisticate tecnologie, di fitofarmaci, sostituisce il tocco lieve della trazione animale, l’astuzia delle colture combinate. Lo stile di vita degli elfi è simile, sotto molti punti di vista, a quello dei contadini del secolo scorso. Gli elfi vivono in case prive di corrente elettrica e dunque di ogni comfort della vita urbana, riscaldate a legna e illuminate dalla luce fioca delle candele. Vicini ai contadini d’un tempo per gli aspetti della cultura materiale, gli elfi si distinguono per l’organizzazione sociale sostituendo «la tribù » alla famiglia estesa, la convivialità alla cultura della rinuncia e del sacrificio, il cosmopolitismo e l’apertura al nuovo, al localismo e al timore per l’innovazione propri della civiltà contadina. Vivono in una condizione di frugalità volontaria, di «povertà ragionata», esprimendo in questo modo, nei minuti comportamenti quotidiani, un’etica di profonda responsabilità nei confronti della natura. Ed è questo il registro entro cui la natura assume tra gli elfi i colori del sacro, nell’espressione - agita più che pensata - di un sentimento di fusione sensuale con il mondo della natura. La natura resa sacra tra gli elfi è dunque una natura concreta: la pioggia che disseta il grano, il cavallo che allevia le fatiche sul campo, il fiore di achillea con cui curano le loro ferite.

Damanhur è una delle maggiori comunità esoteriche d'Europa, quando condussi la ricerca vivevano in comunità poco meno di duecentocinquanta persone. La «città di Horus» è in Valchiusella, a pochi chilometri da Ivrea, su di un vasto territorio che attraversa i comuni di Baldissero Canavese e Vidracco. Ed è sulle colline di

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Vidracco, o meglio, al loro interno, che i damanhuriani - in segreto - hanno edificato il loro tempio, una città sotterranea che evoca i miti di Atlantide e della Damanhur egizia. Damanhur coniuga - non senza frizioni - eguaglianza e gerarchia, democrazia e autocrazia. L’organizzazione sociale della comunità si basa sulla combinazione di due strutture di governo formalmente autonome, l’una presiede alla sfera spirituale, l’altra alla sfera temporale. Il dominio spirituale è caratterizzato da una complessa organizzazione gerarchica che ha al proprio vertice Oberto Airaudi, fondatore e guida della comunità. A questa gerarchia ierocratica Damanhur affianca un sistema di governo della cosa pubblica schiettamente egualitario, basato sulla combinazione di democrazia rappresentativa e democrazia diretta.

Il progetto Damanhur venne elaborato a cavallo tra il 1975 e il 1976 all'interno di un circolo esoterico torinese, il Centro Horus, animato da Oberto Airaudi. Il terreno su cui sorge Damjl, la capitale di Damanhur, fu acquistato l'anno successivo, nel 1977. Iniziarono così i lavori di edificazione del primo complesso edilizio che, tra alterne vicende, si conclusero nel 1980, ed è in quella data che il primo nucleo di damanhuriani si insediò stabilmente tra le colline del Canavese. Damanhur, diversa in questo dalla Valle degli elfi, non è una comunità rurale. L’agricoltura, importante dal punto di vista spirituale, contribuisce solo in minima parte all’economia comunitaria. Damanhur, città della magia, è pienamente integrata nella razionale economia di mercato della società che lambisce i suoi confini. All’interno della comunità operano una dozzina di piccole aziende, dalla costruzione di strumenti magici alla ristorazione, dalla produzione di vetri d’arte alla trasformazione di prodotti agricoli. A ciò si aggiunge la Scuola Airaudi di Pranoterapia, che forma guaritori spirituali e offre servizi di cura ai propri clienti e la Libera Università di Damanhur, che organizza su tutto il territorio nazionale corsi e

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stage sugli argomenti più vari, dalle vite precedenti ai tarocchi intuitivi, dal viaggio astrale alla programmazione neurolinguistica.

La natura sacralizzata a Damanhur è una natura astratta, cui i damanhuriani si avvicinano non già nella quotidianità del lavoro agricolo, ma attraverso il mito, nella ritualità e soprattutto attraverso l’immaginazione magica che conduce a riconoscere il legame «sottile» che li unisce alla natura. La cornice entro cui prende forma questa disposizione verso la natura è quella della tradizione esoterica, nella combinazione dei miti dell’antica religione egiziana, con i misteri dei sacerdoti druidi e l’Oriente dei teosofi. La natura è sacra a Damanhur poiché in essa i damanhuriani riconoscono le vestigia di una divinità caduta, l’Anima-Uomo, che riuniva in sé, come un tutto, l’uomo, la natura e le «forze sottili» che la abitano.

Il linguaggio, le forme di ritualità, gli atteggiamenti verso la natura di queste due comunità hanno molto in comune con quelli osservati ora nelle comunità apocalittiche francesi (Léger ed Hervieu 1983)2, ora nella comunità scozzese di Findhorn (Rigby e Turner 1972) e con la sua filiazione francese, Eveil à la coscience planétaire (Champion 1989). Comune a tutte queste esperienze è la sacralizzazione della natura, espressa ora all’interno di un registro apertamente religioso, ora entro una più generica cornice di spiritualità o, con Simmel, di «religiosità» (1912). Comune, ancora, è il ricorso alle tradizioni del passato da cui ciascuna comunità attinge l’idioma di una «razionalità alternativa» (Léger ed Hervieu 1983: 209), le categorie concettuali cui affida l’espressione della propria alterità. La tradizione agisce qui come risorsa e non già come vincolo, siamo dunque ben lungi dalla «santificazione della tradizione» (Weber 1923,

2Ne Des communautés pour les temps difficiles Daniel Legér e Bertrand Hervieu analizzano cinque comunità: La Clairière, Lou Serre, Le Trou Positive, Font de Rouve e Les Compagnons de Succoth.

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tr. it. 1993: 308) dei movimenti neo-tradizionalisti. Un ulteriore elemento di affinità è costituito dal profondo legame che ciascuna comunità stabilisce con il luogo nel quale è insediata, un legame che fa di ciascuno di quei luoghi uno spazio sacro, di ognuno di quei mondi il Mondo (Eliade 1956, tr. it. 1989: 24). Ultimo, ma non meno importante, è il tema della critica alla modernità, declinata nei modi più diversi da tutte le comunità prese in esame. Sembra dunque che i valori, le credenze, i comportamenti che caratterizzano le due culture su cui questo lavoro appunta l’attenzione, per quanto singolari e decisamente non convenzionali, non si possano definire marginali. Damanhur e Gran Burrone hanno avuto ed hanno tuttora numerosi omologhi, in Francia, Gran Bretagna, in Germania e naturalmente nella patria della contro-cultura, gli Stati Uniti3.

Gran Burrone e Damanhur non costituiscono un fenomeno marginale, isolato, anche per un’altra ragione. Le due comunità sono parte di una vasta rete costituita da gruppi, piccole comunità di «neorurali», semplici individui legati, chi a Damanhur, chi alla Valle degli elfi, da relazioni sociali talvolta particolarmente strette o più semplicemente da una profonda affinità culturale. Durante il mio soggiorno nelle due comunità ebbi modo di contare un numero decisamente consistente di visitatori e di ospiti. Alla festa delle castagne, che gli elfi organizzano ogni anno tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre, prendono solitamente parte sino a duecento persone, ospiti della comunità per tutta la durata - da due a tre giorni - dei festeggiamenti (vedi par. 6.1.1). È del medesimo ordine di grandezza il numero di amici e curiosi che a Damanhur partecipa ai momenti rituali aperti ai non iniziati: la celebrazione del solstizio e

3Per una riflessione teorica sul comunitarismo ecologista nella Germania degli anni Ottanta vedi Dellavalle (1992). Per gli Stati Uniti si vedano Berger (1981), Adler (1979).

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dell’equinozio. Al rito del solstizio d’estate, uno tra i più importanti della liturgia damanhuriana, prendono solitamente parte più di duecento persone che per alcune ore condividono con i damanhuriani un’esperienza di comunione con le «forze sottili» che abitano il mondo della natura (vedi par. 7.2). A margine della ricerca etnografica di cui dà conto questo volume ho condotto un sondaggio postale sugli entourage delle due comunità, identificati nei lettori di due importanti riviste di settore «aam terra nuova» e «Qui-Damanhur»4. Questa popolazione - la cui consistenza numerica può essere stimata in circa diecimila individui - mostra una profonda sensibilità etica ai diritti della natura e un vivo sentimento d’incanto che, in alcuni casi, diviene aperta sacralizzazione della natura5.

Accanto alle affinità che legano Damanhur e Gran Burrone ora ad altre esperienze comunitarie, ora al più vasto territorio della cosiddetta cultura alternativa è opportuno anticipare alcune delle loro specificità. La longevità è la prima cui merita far cenno: Gran Burrone e Damanhur, nate entrambe nel 1980, mostrano una capacità di

4«aam terra nuova» (aam stanno per agricoltura, alimentazione, medicina) è la rivista di un’associazione culturale sorta all’interno del movimento di contestazione del Settantasette. La rivista nasce come organo di contro-informazione e collegamento tra le diverse esperienze di «ricorso alla natura» (Léger ed Hervieu 1979: 9) che iniziarono a diffondersi in quegli anni. In questa cornice prende forma la proposta culturale dell’associazione, molto vicina alle posizioni degli «ecologisti profondi» d’oltre oceano (vedi Naess 1973, 1976, tr. it. 1994; Devall e Sessions 1985, tr. it. 1989). «Qui-Damanhur» - oggi non più edita - era la rivista di Damanhur destinata alla cerchia degli amici della comunità. I risultati dell’indagine sull’associazione «aam terra nuova» sono illustrati in Cardano (1994). 5Il 24 e il 29% dei casi, rispettivamente per gli amici di Damanhur e per il «popolo di aam-terra nuova». Il campione, non probabilistico, da cui traggo le informazioni commentate nel testo è di 654 casi per l’indagine su «aam terra nuova» e di 182 casi per quella sugli amici di Damanhur.

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sopravvivenza assolutamente eccezionale per le esperienze di vita comunitaria che, il più delle volte, si esauriscono in poco più di un lustro6. Le due comunità, e tra loro Damanhur in particolare, hanno un legame con i movimenti di contestazione politica molto meno stretto rispetto a quello osservato in Francia e in Germania. Se del primo nucleo degli elfi facevano parte soprattutto militanti del movimento del Settantasette, tra i fondatori di Damanhur solo uno ha avuto qualche rapporto con il movimento di contestazione. Inoltre il nucleo dei fondatori di Gran Burrone, che egemonizzò la prima stagione della vita comunitaria, nella primavera del 1984 aveva ormai abbandonato la comunità per lasciare il posto a una compagine di neorurali più giovane e meno politicizzata. Damanhur e Gran Burrone, da ultimo, hanno in comune una resistenza a connotare la propria esperienza in termini religiosi che non ha equivalenti nelle altre comunità con cui sin qui ho istituito un confronto.

Ma quali sono le peculiarità di queste forme del sacro? Che cosa contraddistingue la sacralizzazione della natura rispetto alle esperienze più convenzionali del sacro? Un primo aspetto, già adombrato, riguarda l’autonomia dalle espressioni istituzionali di religiosità. Una seconda ragione d’interesse è costituita dal profilo fenomenologico di questa esperienza, contraddistinta da una continua tensione tra alterità ed appartenenza. Nella sacralizzazione della natura convivono, senza alcuna possibilità di sintesi, due disposizioni religiose assolutamente antitetiche. L’una - tipica della tradizione religiosa occidentale - vive e rappresenta questa esperienza del sacro all’interno di una cornice dualista che separa, ora l’uomo dalla natura, ora la natura naturans dalla natura naturata, il creatore dalla creazione. L’altra - che ha in Oriente le proprie radici (vedi 6È ad esempio il caso delle comuni studiate da Léger ed Hervieu (1979. 1983) e della comunità Eveil, analizzata da Champion (1989).

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Marchianò 1994) - vive e rappresenta il sacro della natura in chiave monista, nella ricongiunzione dell’uomo alla natura e di entrambi al sacro. La sacralizzazione della natura, inoltre, costituisce il luogo di una netta rottura con il progetto della modernità, edificato sul disincanto della natura e su di un radicale antropocentrismo.

Sotto quest’ultimo profilo, il rapporto con la modernità, Damanhur e Gran Burrone mostrano due elementi di rottura, relativi l’uno al rapporto tra l’uomo e la natura, l’altro al rapporto dell’uomo con l’uomo. Al disincanto della natura Gran Burrone e Damanhur contrappongono l’incanto, la sacralizzazione della natura, così come alla gesellschaft oppongono la gemeinschaft, alla società, anonima e impersonale, la comunità. Tanto l’una quanto l’altra espressione di critica alla modernità ha avuto numerosi e ben più illustri precedenti in passato.

Il movimento comunitario assume una dimensione collettiva rilevante a partire dalla fine del XIX secolo, nel solco della critica romantica alla civiltà moderna, dando prova di particolare vitalità sino agli anni Trenta di questo secolo. Soffocato dalle dittature e della guerra che funestarono l’Europa, il movimento comunitario torna prepotentemente alla ribalta negli anni Sessanta, con le comuni hippy, che, sorte nella contro-cultura nord americana, si diffusero rapidamente in tutta l’Europa. Tuttavia nelle comunità neoromantiche d’inizio secolo e ancor più nelle comuni hippy la natura non costituisce il centro dell’attenzione, quanto piuttosto lo scenario di un processo di rigenerazione dell’uomo nella communitas. In entrambi i casi è sempre l’uomo il centro d’interesse: l’uomo «mutilato dal progresso» in un caso, l’uomo schiacciato dalla «tolleranza repressiva» nell’altro (cfr. Dellavalle 1992).

Quanto all’atteggiamento verso la natura, se il disincanto e la predazione hanno costituito i tratti caratteristici della modernità, non sono mancate espressioni di accorato dissenso, sia nella cultura alta,

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sia nella cultura popolare, nelle minute espressioni della vita quotidiana, e questo fin dall’inizio dell’età moderna (vedi Thomas 1983). Sin dal XVI secolo, accanto all’immagine disincarnata di un universo-macchina, accanto a una fredda volontà di dominio della natura, sorretta dalla convinzione dell’innocenza morale di ogni forma di saccheggio e crudeltà, ha avuto cittadinanza, ora nelle espressioni culturali minori, ora in quelle apertamente devianti, l’immagine di un cosmo vivo, abitato da una grande anima, attraversato da una rete di sottili simpatie che legano l’uomo alla natura, a una natura resa tutt’uno con il divino. Accanto alla corrente di pensiero da cui ha preso forma l’immagine della natura che ha dominato la modernità, quella di Galilei, Bacone e Cartesio, ha vissuto - mai del tutto soffocata - una corrente minore di pensiero, quella che in Della Porta in Bruno in Spinoza e poi ancora nell’illuminista Diderot, sino a Goethe, ha trovato le voci per esprimere altrimenti il senso e il valore del rapporto dell’uomo con la natura.

La novità espressa da Damanhur e Gran Burrone, e più in generale dal comunitarismo ecologista degli anni Ottanta, sta nella compresenza di entrambe le istanze critiche, la sacralizzazione della natura e il ritorno alla comunità, che, proprio perché insieme, assumono maggior radicalità (cfr. Dellavalle 1992). Per la prima volta la natura diviene il centro d’interesse del movimento comunitario che che vede nelle sue ferite il segno più evidente della corruzione della società e nella sua rigenerazione - ed in essa soltanto - la rigenerazione dell’uomo (cfr. Dellavalle 1992).

Damanhur e Gran Burrone realizzano e coniugano ciascuna a proprio modo le idee di comunità e di sacralizzazione della natura. Il sacro ecologico di Gran Burrone nasce dall’esperienza quotidiana di una dipendenza reciproca tra la comunità e la natura che la ospita, tra gli elfi e la loro valle. Il sacro esoterico di Damanhur nasce con l’esperienza della visione magica, con l’acquisizione di una nuova

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«grammatica» (Wittgeinstein 1953) che consegna ai damanhuriani una natura abitata da forze e intelligenze «sottili», legate all’uomo da un’origine e un destino comuni, alla ricerca di un dialogo di un incontro con chi le sappia ascoltare. Entrambe le comunità hanno stipulato, per così dire, un patto con il luogo e la natura che li ospita. Nel caso degli elfi si tratta di un accordo tacito, espresso quotidianamente nei gesti con cui gli elfi si prendono cura della loro valle. Nel caso di Damanhur si tratta di un impegno formale i cui termini, vergati con «inchiostro magico» su di una pergamena, sono stati sottoscritti dai fondatori della comunità e dagli spiriti di natura del luogo; un patto solennemente ribadito nei riti collettivi così come nelle espressioni quotidiane di devozione alle «forze sottili» della natura. Più in generale il rapporto con la natura è per gli elfi soprattutto resa, abbandono ai ritmi, all’energia - come sono soliti dire - del luogo. Di contro per Damanhur il rapporto con la natura va nella direzione del suo perfezionamento materiale e spirituale. Ciò che al meglio esprime il sacro che abita la natura è, a Gran Burrone, la foresta incolta, selvatica, non intaccata dall’esprit géométrique dell’uomo, a Damanhur, il boschetto, progettato con sensibilità estetica e religiosa, adorno dei segni di devozione e comunione con il mondo della natura. Sul piano etico e cognitivo, infine, al biocentrismo morbido di Gran Burrone si affianca l’antropocentrismo morbido di Damanhur (vedi cap. 8).

Le differenze tra Gran Burrone e Damanhur diventano opposizioni radicali per quel che riguarda la realizzazione dell’ideale di comunità. Alla communitas (Turner 1969) libertaria ed egualitaria di Gran Burrone, si contrappone la comunità organica e gerarchica di Damanhur. La negazione della gesellschaft, della società, a Gran Burrone è erosione delle regole, delle istituzioni positive, sostituite da una singolare «anarchia ordinata», a Damanhur è costruzione di una

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società altra, caratterizzata da una peculiare proliferazione di istituzioni, di norme, di apparati burocratici.

Ho progettato questa ricerca e scritto questo libro guidato da

un’idea espressa con particolare efficacia da Wright Mills ne L’immaginazione sociologica. «La cosa più difficile di questo mondo è studiare un solo oggetto; mettendo a contrasto più d’un oggetto si ottiene una migliore comprensione del materiale e si possono stabilire le dimensioni nei termini in cui sono fatti i raffronti» (1959, tr. it. 1995: 225). A quest’idea corrisponde la struttura del testo, basata sulla narrazione parallela di due storie, su di un continuo raffronto tra le due culture, realizzato attraverso la successione alternata delle immagini ora delle istituzioni sociali delle comunità, ora dei loro membri, ora del profilo culturale di Damanhur e Gran Burrone.

Il libro è organizzato in otto capitoli. Il primo capitolo illustra l’itinerario metodologico della ricerca, racconta come ho costruito la rappresentazione di Damanhur e Gran Burrone esposta in queste pagine; più in particolare dà conto delle condizioni alle quali ho potuto fare esperienza di queste due culture, del punto di vista dal quale ho osservato la vita quotidiana di elfi e damanhuriani e dunque dei limiti della mia interpretazione. La storia, l’economia e le istituzioni politiche delle due comunità vengono analizzate e poste a confronto nei capitoli due e tre. Nei due capitoli che seguono vengono accostate le traiettorie biografiche lungo le quali gli elfi e i damanhuriani sono approdati a queste singolari esperienza di vita. I capitoli sei e sette tratteggiano il profilo delle due comunità puntando l’attenzione soprattutto sui caratteri che, caso per caso, meglio esprimono il rapporto con il mondo della natura: le credenze e il comportamento rituale. Il capitolo otto compendia in una tipologia della sacralizzazione

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della natura, nelle figure della rosa, del loto e dello specchio , i principali risultati dell’indagine. Nota per il lettore

La documentazione empirica richiamata nel testo è costituita da

materiali di diversa natura: stralci di conversazione estratti dalle note etnografiche, brani d’intervista, risposte alle domande aperte del questionario proposto ai cittadini di Damanhur. Questi materiali sono identificati nel testo da tre sigle:

NE per le citazioni tratte dalle note etnografiche; I per i brani d’intervista; Q per le proposizioni tratte dal questionario. Le citazioni tratte da questi testi contengono alcuni segni tipografici di uso comune, di cui tuttavia è bene precisare il significato: [...]

indica l’omissione di una parte del brano citato;

{} circoscrive un mio commento, scritto in corsivo, il cui scopo è precisare le caratteristiche del contesto entro il quale una proposizione viene enunciata (tra le risa, piangendo, con rabbia ecc.) o definire il significato di un termine espresso nel gergo della cultura in studio.

A questi materiali si aggiungono alcuni testi redatti dai membri

delle due comunità con scopi che nulla hanno a che fare con la mia ricerca (volantini e memoriali nel caso degli elfi; testi dottrinari nel

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caso di Damanhur). Per Gran Burrone tutti i testi di questa natura citati nel libro sono redatti da Adriano (vedi nota 1). Dove compaiono, questi documenti sono identificati dalla locuzione: testo redatto da Adriano, seguita dal titolo del testo. Per la letteratura damanhuriana i testi sono identificati ricorrendo alle abbreviazioni elencate nella tabella che segue. Ove non sia indicato altrimenti, tutti i testi della letteratura damanhuriana sono editi a Torino dalle Edizioni Horus.

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Abbreviazioni relative alla letteratura damanhuriana citata

CitSot S. Palombo, La città sotterranea., 1992

ConOb4 ConOberto 4: I capi carismatici e il carisma.Teoria antropocentrica. Anima: da Conoscenza a Coscienza. L’Uomo e la divinità. Gesù Cristo. L’Umorismo , 1984

ConOb71

ConOberto 71: La natura del pensiero , 1988

ConOb73

ConOberto 73: Reale e Quasi-Reale, 1989

Costit Costituzione della Nazione di Damanhur, 1989

DhAcq AA.VV, Damanhr, città dell’età d’acquario, 1985

DoMag

Foà A., Dove la magia è gioia. Damanhur, 1989

FiEso Airaudi, O., Fisica esoterica e altro (Volume II), 1995

Gaia Mancardi, G. e Palombo, S., Gaia. L’intelligenza che abita la terra , 1992

ImpMo Airaudi, O., Imparare a morire, 1978

LibGio Genziana Elefantino rosa, Il Libro del gioco, 1984

LibTre

Airaudi, O., Il libro dalle tre risposte, 1988

MagAcq Mancardi, G., La Magia Acquariana. Cambia la vita imparando l’uso del tuo pensiero, 1991

Memo Memoria C, documento interno non pubblicato, del 19 ottobre 1992

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NuoCom Le Nuove Comunità, 1983 NotHor Notiziario Horus, seguito da anno e numero

ParPi Mancardi, G., Parlare con le piante. 1994

QDhm Qui Damanhur mensile, seguito da anno e numero

QDhq Qui Damanhur quotidiano, seguito da anno e numero

QDhs Qui Damanhur settimanale, seguito da anno e numero

Reinc Foà, A., Reincarnazione, la nuova teoria, 1991

SeSpir Luciano, A., Il segreto delle spirali e le loro magiche energie,

1993

TemFo

Airaudi, O., Tempo e forme. Possibilità magiche del viaggio nel tempo nel concetto della fisica esoterica, 1993

ViHor La Via Horusiana.Secondo gli insegnamenti di O.Airaudi, 1987

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Capitolo primo LA RICERCA

Ho cominciato ad occuparmi degli elfi e dei damanhuriani per la

preparazione della tesi di dottorato, discussa nell’estate del 1992. Prima di allora non avevo avuto nessun’altra esperienza di ricerca etnografica, mentre ben più familiare mi era la cosiddetta ricerca quantitativa, attorno alla quale avevo costruito la mia formazione universitaria e le mie prime esperienze professionali. Questo non mi impedì di affrontare con determinazione ed entusiasmo il lavoro etnografico, che conclusi nei tempi canonici, accompagnato, tuttavia, da una sottile insoddisfazione per il modo in cui la vita dei miei ospiti e il mio lavoro sul campo venivano rappresentati nel testo redatto per la commissione esaminatrice. Questa insoddisfazione mi ha spinto, d’un canto, ad approfondire lo studio dei problemi metodologici ed epistemologici specifici della ricerca etnografica, dall’altro a un lavoro di scrittura e riscrittura che in più occasioni evocava l’immagine di Penelope alla prese con la sua tela.

Nella costruzione, attraverso la scrittura, delle rappresentazioni di Damanhur e Gran Burrone che via, via hanno preso forma, così come nel lavoro sul campo, nel dialogo con i miei ospiti, ho sempre cercato di individuare buone ragioni per le credenze e i comportamenti osservati. Più in particolare ho considerato l’interpretazione di questi fenomeni in chiave di irrazionalità: l’irrazionalità del pensiero magico, del primitivismo, della sacralizzazione della natura, come uno strumento cui far ricorso solo quando tutte le altre possibili interpretazioni si fossero mostrate del tutto implausibili. Questo orientamento, la struttura portante del mio «progetto interpretativo» (Gadamer 1960), mi ha consentito di riconoscere nelle credenze e nei comportamenti di elfi e damanhuriani l’espressione di una razionalità

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alternativa (cfr. Léger ed Hervieu 1983), capace di contenere l’idea di una natura sacra7.

I due paragrafi che seguono parlano di come sono pervenuto a questa conclusione: attraverso la ricostruzione della storia naturale della ricerca e del lavoro sul campo.

1.1 Storia naturale della ricerca

L’idea che ispirò la prima rudimentale definizione del disegno della ricerca fu quella di millenarismo laico. Il lavoro di Léger ed Hervieu (1983) sulle comunità apocalittiche del sud della Francia costituiva il principale punto di riferimento empirico e teorico. La ricerca che si andava profilando voleva essere una prosecuzione e al contempo un’estensione del programma di ricerca degli studiosi francesi. L’impianto della ricerca era costituito dal confronto tra due espressioni millenariste, più precisamente catastrofiste , un religiosa, l’altra laica. Si trattava innanzitutto di definire il profilo idealtipico delle due forme di catastrofismo per procedere poi, attraverso un’indagine empirica, all’individuazione dei casi su cui condurre lo studio. Sarebbero diventati casi le espressioni culturali che, prima facie , avessero mostrato la più stretta somiglianza con il tipo ideale, rispettivamente, di catastrofismo laico e catastrofismo religioso.

Per quel che riguarda la declinazione religiosa del catastrofismo, l'individuazione di un adeguato referente empirico fu immediata. I Testimoni di Geova si imposero con forza alla mia attenzione, presi contatto con alcuni «Proclamatori del Regno» legati alla

7Di tutt’altro avviso Passmore (1980), per il quale la sacralizzazione della natura altro non è che un «rottame sulla via della conoscenza», l’espressione di un pensiero tanto vano quanto irrazionale.

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congregazione di un quartiere popolare di Torino, prospettando la possibilità di una ricerca sociologica sulla loro comunità. La reazione fu cauta ma non del tutto scoraggiante e questo mi consentì di indirizzare la ricerca dei casi sull'altro polo del confronto, quello laico.

Guidato dai promettenti risultati del lavoro Léger ed Hervieu, orientai la mia ricerca nell’ambito del comunitarismo ecologista. Cominciai la mia perlustrazione con alcune interviste a testimoni qualificati che mi furono presentati (e tali si rivelarono) come opinion leader dell’area radicale del movimento ecologista. Questi colloqui mi aiutarono a ricostruire il panorama dell’ecologismo italiano e soprattutto mi consentirono di identificare alcune tra le più significative esperienze comunitarie del nostro paese8. A ciò si deve aggiungere un contributo più specifico: i colloqui con i testimoni qualificati misero in forse la plausibilità della mia ipotesi interpretativa, quella di un coerente catastrofismo ecologista9.

Abitato da più di un dubbio iniziai la mia ricognizione empirica con alcuni brevi soggiorni nelle comunità che, per le informazioni di cui disponevo, sembravano più promettenti. Scelsi tre comunità: gli Elfi del Gran Burrone, gli Zappatori senza padrone e la comunità di Bagania. I testimoni qualificati furono in grado di indicare, per ciascuna comunità, una persona cui fare riferimento, presentandomi a loro nome. Scrissi così ad Adriano, Gianbardo e Checco; chiesi se

8Le indicazioni dei testimoni qualificati contribuirono ad arricchire le informazioni che ricavai dalla lettura del libro di Diani (1988) e di quello di Farro (1991), che ebbi l’opportunità di leggere in bozze. Colgo l’occasione per esprimere la mia gratitudine a Nanni Salio, Cinzia Pecchioni e Mimmo Matarozzo. Grazie di cuore anche a Giulio Zen, che mise a mia disposizione il suo ricco archivio personale di nomi, descrizioni e recapiti delle comunità ecologiste. 9Su questo tema si vedano le osservazioni di Champion (1995), riferite al più vasto contesto della cosiddetta «nebulosa mistico-esoterica».

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potevo far loro visita, motivando la mia richiesta con la dichiarazione di un interesse scientifico (mi qualificai da subito come un ricercatore) ed umano per la loro esperienza. In breve tempo ricevetti le risposte dei miei interlocutori: tutte positive e cordiali10. Cominciai il mio viaggio tra le montagne e le colline della Toscana e dell’Emilia, da Gran Burrone, la comunità che, fra le tre, mi sembrava più interessante. Dell’incontro con gli elfi del Gran Burrone, decisivo per gli sviluppi successivi della ricerca, dirò più in là, per soffermarmi brevemente sulle altre due comunità visitate.

Bagnaia - che visitai subito dopo gli elfi - tutto mi sembrò fuorché una comunità catastrofista. La comunità, insediata tra le morbide colline del senese, esprime, in forma quasi esemplare, gli ideali di una quota consistente del movimento ecologista, quelli di una conciliazione tra sviluppo ed equilibrio (vedi Farro 1991), tra i comfort della moderna civiltà tecnologica e l’impegno per la salvaguardia dell’ambiente naturale. L’attenzione per la natura, espressa innanzitutto nell’orientamento impresso all’agricoltura e all’allevamento praticati dalla comunità, ha qui principalmente due motivazioni, una bioetica: il rispetto dei diritti della natura, l’altra igienico-salutista: la cura dell’alimentazione. In questa cornice sembrava, tuttavia, che con il catastrofismo ben poco spazio potesse avere anche una profonda sacralizzazione della natura. Altro è il caso degli Zappatori senza padrone di G. Winstanley, una piccola comunità che, come Gran Burrone, vive all’insegna della semplicità volontaria, unita alla valle dell’Acqua Cheta che la ospita da un profondo legame spirituale. Questo vale soprattutto per Giambardo, la figura più autorevole della comunità: nelle sue parole, quelle di un contadino che - con orgoglio - sottolinea di non essere mai stato «sotto padrone», si coglie l’eco del panteismo bruniano, nella capacità 10Vedi all’Introduzione la nota 1.

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di commuoversi dinanzi ad un cielo stellato, nella delicatezza con cui si prende cura della terra che coltiva. Agli zappatori preferii comunque gli elfi per due ragioni: la maggior consistenza numerica e la centralità di Gran Burrone all’interno della contro-cultura ecologista. Di certo la mia decisione non fu influenzata da considerazioni pratiche, legate all’accessibilità del setting etnografico, visto che nel caso degli elfi la prima risposta alla richiesta di condurre uno studio fu un secco no. Ma procediamo con ordine.

Il mio primo soggiorno nella Valle degli elfi risale al giugno del 1990. Adriano, rispondendo alla mia lettera, non indicava né la data, né tanto meno l’ora del nostro primo incontro, sostituendo a tutte le formalità cui ero abituato quattro parole: «vieni pure quando vuoi». Ritenni inopportuno scrivere una seconda volta al solo scopo di annunciare il mio arrivo, decisi così di partire subito alla volta di Casa Sarti, il villaggio in cui viveva Adriano. Al mio arrivo Casa Sarti era pressoché spopolata, la maggior parte delle persone che abitavano lì - Adriano compreso - erano altrove. Trovai Riccardo ad accogliermi, che mi fece visitare il villaggio, dandomi i primi ragguagli sull’organizzazione sociale della comunità. Proseguimmo la conversazione a pranzo e lì decisi di attendere il rientro di Adriano per affrontare il delicato argomento della conduzione di una ricerca etnografica sulla comunità. Adriano rincasò in serata, rendendosi immediatamente disponibile a rispondere a tutte le mie domande e mostrando un genuino interesse per la ricerca. La sua disponibilità non era tuttavia sufficiente, occorreva un consenso più vasto e, a questo scopo si offrì di accompagnarmi a Gran Burrone - il maggiore dei villaggi - dove un’assemblea più ampia avrebbe preso in esame la mia richiesta.

A Gran Burrone, dove ben pochi conoscevano le finalità della mia visita, venni accolto come uno dei tanti amici cittadini di Adriano: la cena era quasi pronta e fui invitato ad unirmi a loro attorno a una

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grande ciotola di legno fumante. Durante la cena e nelle ore che seguirono ebbi modo di parlare con molte persone, tutte cordiali e disponibili; nulla, tuttavia, lasciava pensare alla possibilità di affrontare in quel contesto il tema del mio soggiorno di studio. Decisi pertanto di rinviare al giorno seguente quella pesante incombenza.

A conclusione di quella prima giornata l’ipotesi di un millenarismo ecologista, soprattutto se riferita alla comunità degli elfi, mi sembrava sempre meno plausibile. Ciò che invece colpì la mia attenzione fu innanzitutto la gioiosa sobrietà dello stile di vita degli elfi, improntato - sin nei più minuti comportamenti quotidiani - al rispetto della natura, meglio: alla cura amorevole della «Madre» (Alcide, NE), la valle che li ospita. A questi comportamenti corrispondeva nei discorsi, nelle sommarie rappresentazioni della loro cultura sollecitate dalle mie domande, il ricorrente richiamo ora alla cultura della società contadina tradizionale, ora alla saggezza degli indiani d’America (cfr. Léger ed Hervieu 1983:192), evocate per illustrare l’atteggiamento verso il mondo della natura tipico della comunità. Tutto ciò contribuiva a far sì che all’idea cupa di un catastrofismo ecologista si sostituisse quella solare di una sensuale sacralizzazione della natura concreta, oggetto di una devozione testimoniata più dai comportamenti che dalle dichiarazioni d’intenti.

La mattina del giorno seguente, deciso a discutere della mia ricerca, mi avvicinai a Paolo (o forse fu lui a farlo) al quale, dopo una breve chiacchierata sulla comunità e sulle mie impressioni, esposi i miei progetti. La reazione di Paolo - gatekeeper spontaneo - fu perentoria: «A me questa storia qui della ricerca non mi piace mica tanto [...] noi non vogliamo essere le cavie di nessun esperimento, siamo stufi di essere studiati, di servire ai giornalisti per i loro scoop, è meglio lasciar perdere». Messo alle corde, ricercai una via d’uscita offrendo ampie garanzie di anonimato; dissi che nel mio resoconto mi sarei riferito alla comunità con un nome di fantasia, una sigla, ad

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esempio la comunità X. Nulla da fare: Paolo si congedò, lasciandomi sconsolato a girovagare tra i viottoli di Gran Burrone. Dopo qualche tempo, passeggiando di fronte alla cucina, ebbi modo di constatare come la soluzione che avevo proposto per garantire l’anonimato suscitasse tra gli elfi una grande ilarità. Presi la palla al balzo e intervenni nel capannello di risa suscitato da quella improvvida X: «mi fa piacere che la mia idea della X - almeno quella - vi diverta così tanto». Dopo un primo momento di imbarazzo generale, l’istrionismo di quell’intervento volse a mio vantaggio. Piano, piano la cucina si riempì di persone e insieme si ricominciò a parlare della ricerca. Le opinioni dei miei ospiti - Paolo compreso - si fecero sempre più morbide, e in conclusione, nelle parole di uno dei fondatori della comunità, la chiusura si trasformò in una tiepida apertura: «Sono passati in tanti dalla valle per studiarci, tanti tipi diversi, con qualcuno ci sono state difficoltà, con altri no. Se ti va puoi venire, poi si vedrà, se le vibrazioni, se l'energia è positiva si può andare avanti». (Émile, NE).

Rassicurato dalle parole di Émile e dal clima creatosi nel corso della discussione collettiva, lascia i di lì a poco la comunità, alla volta di Bagnaia, già quasi del tutto convinto di farvi ritorno per condurre la ricerca. Così feci, tornai a Gran Burrone due settimane più tardi, dove venni accolto con una sorprendente cordialità anche da Paolo, che pochi giorni prima si era comportato nei miei confronti con particolare durezza.

La decisione di studiare la comunità degli elfi del Gran Burrone fu accompagnata da un profondo mutamento del disegno della ricerca, centrato non più sul catastrofismo, ma sulla sacralizzazione della natura. Mi si prospettarono due alternative: potevo modificare l’impianto logico della ricerca sostituendo lo studio di un caso al confronto tra «tipi polari» (Wrigth Mills 1959), oppure potevo conservare lo schema comparativo sostituendo ai Testimoni di Geova

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- non più pertinenti - una cultura, meglio una comunità, che esprimesse il sacro della natura su di un registro religioso. Scelsi quest’ultima soluzione e mi misi, prima sui libri e poi sul campo, alla ricerca di un gruppo o una comunità adeguata alle nuove finalità della ricerca. Seguii principalmente due piste, quella del cristianesimo minore e quella dei gruppi e delle comunità riconducibili, con Champion, alla nebulosa «mistico esoterica» (1995).

La prima tappa di questo itinerario fu la comunità dell’Arca di Lugnacco (in provincia di Torino), segnalata da più d'uno dei testimoni qualificati che in precedenza avevo interpellato. Quella dell'Arca è una comunità religiosa che fa capo a un ordine fondato in Francia da Lanza del Vasto nel 194811. La proposta religiosa del fondatore si basa essenzialmente sulla dottrina cattolica, interpretata alla luce del pensiero di Gandhi. Tra i precetti di quest'ordine meritano di essere ricordati quello della non violenza, esteso anche al mondo della natura, la scelta di semplicità volontaria, che prende la forma di un voto di povertà, e, non meno importante, la tolleranza religiosa. L’Arca di Lugnacco ha sede in un cascinale che ospita una decina di persone tra adulti e bambini. La comunità pratica un’agricoltura rigorosamente biologica, basata sull’uso esclusivo di «tecnologie dolci»; è bandito il consumo di carne così come qualsiasi forma di sfruttamento degli animali. Trascorsi a Lugnacco tre giorni particolarmente intensi, scanditi dai rintocchi di una campana che chiamava ora al lavoro, ora alla preghiera, ora al pranzo comunitario. Lasciai la comunità con due sole riserve: la scarsa consistenza numerica dei devoti e la loro marginalità sociale.

11Per un’introduzione alla dottrina che ispira le comunità dell’Arca vedi Del Vasto (1964, tr. it. 1980).

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Sull’altro côté, quello mistico-esoterico, mi avvicinai a due comunità, l’Unione Trifoglio e Damanhur12. I Trifoglisti vivono sobriamente su di un'isola, Vivara, di fronte a Pozzuoli, posta sotto la loro tutela. Il gruppo, animato da un anziano e vitalissimo «professore» - così con bonaria ironia partenopea viene chiamato l'animatore del gruppo - è costituito da un pugno di persone attorno alle quali ruotano alcune decine di amici e simpatizzanti. L'Unione del Trifoglio costituisce lo sviluppo, in senso religioso, di un centro protezionistico, dedito a tutela della flora e della faune locali, fondato a Napoli nel 1970. Il protezionismo diviene poi «culto della natura», in una veste che ricorda il «paganesimo mediterraneo» della Napoli tardo-illuminista (vedi Ferrone 1989). L'atteggiamento dei Trifoglisti nei confronti della natura muove dal rifiuto congiunto dello scientismo ecologista da un lato, e dalle forme più comuni di religiosità, costruite più sul credere che sull'essere. (vedi la rivista «Il Trifoglio», n. 1, aprile 1986, p.15). La natura diviene la cornice di un'esperienza religiosa, il «religioso assoluto», che si profila come una speciale condizione esistenziale, un modo di essere nel mondo. L'uomo che vive nel sacro vive un'esperienza di assoluta pienezza, di estatica contemplazione della propria energia vivificata da questo contatto con il sacro. In un'altra chiave è questa la condizione nella quale l'uomo viveva «nell'età dell'oro», un'età che i Trifoglisti simbolicamente identificano con l'adolescenza. Da qui prende l'avvio la parte esoterica «dell'ideologia trifoglista»13. Si tratta di quanto, in senso lato, potrebbe essere definito come un «culto dell'adolescente» da intendersi - osserva il professore - come culto di ciò che, nel gergo platonico, si potrebbe definire «l'adolescenzialità», espressione, nel

12Contribuì al mio orientamento il volume di Introvigne, Il cappello del mago (1990). 13A questo proposito si può consultare il volume di Giorgio Punzo, Dialoghi dell’amore olarrenico, Napoli, Edizioni Carlo Martello, 1964.

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microcosmo, dell'età dell'oro. Lo sviluppo di questi temi che, per molti versi, ricordano la dottrina alchemica del corpo di luce, esula dall'economia di questo lavoro. Basti dire qui che il cuore nascosto del pensiero trifoglista rivelò una disposizione verso la natura non del tutto adeguata alle finalità del mio studio. La natura sacra ai Trifoglisti è essenzialmente la natura umana, o meglio, l’espressione vitale e incontaminata della natura nell’uomo, che gli iniziati a questo culto riconoscono nell’adolescente.

Damanhur fu la terza ed ultima tappa del mio percorso. Mi avvicinai alla comunità del tutto sguarnito: non potevo contare sulla presentazione di chicchessia, né disponevo di qualche indicazioni su chi a Damanhur fosse la persona più indicata per un primo contatto. Ricorsi così al telefono, uno strumento di comunicazione rapido ma decisamente intrusivo. Dall’altro capo del filo mi rispose una voce squillante e cordiale: Azalea. Mi presentai, qualificandomi come un sociologo, e chiesi di far visita alla comunità. Ottenni la più impersonale e tranquillizzante delle risposte: la comunità era aperta al pubblico tutte le domeniche dalle 14:30 alle 19:30; in quel giorno e in quell’orario avrei potuto visitare la comunità al pari di chiunque altro. Mi recai a Damanhur una decina di giorni più tardi. Poiché non confido molto sul mio senso di orientamento, partii da casa con largo anticipo e arrivai in comunità un’ora prima dell’orario di visita. Pioveva a dirotto e questo spinse le persone che per prime incontrai sulla soglia di Damanhur a contravvenire alle regole comunitarie, invitandomi ad entrare anzitempo. Attesi per un’ora in Somachandra, il bar interno, dove per ingannare l’attesa mi diedero da sfogliare alcuni numeri della rivista «Qui-Damanhur», edita dalla comunità. Pochi minuti dopo le 14:30 venne chiamato con l’altoparlante «l’apostolo» di turno, vale a dire la persona che quella domenica aveva il compito di ricevere e accompagnare i visitatori. Nessuno rispose alla chiamata e fu così che venni accompagnato in segreteria,

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dove incontrai Azalea, la mia interlocutrice telefonica. Tra una telefonata e l’altra mi presentai, illustrai sommariamente il mio progetto di ricerca e avanzai la richiesta di trascorrere qualche giorno in comunità. Azalea - qui nel ruolo di gatekeeper - disse che non sarebbe stato facile ottenere il permesso e mi suggerì di sostituire al soggiorno una serie - lunga a piacere - di visite domenicali. Disse poi che la decisione non spettava a lei ma a Cipresso, il responsabile degli «esteri» che si premurò immediatamente di chiamare con l’altoparlante. Di lì a poco incontrai Cipresso, molto di fretta, che, scusandosi, si congedò dopo qualche minuto, per consegnarmi nelle mani di Dalia. Eccomi dunque, per la terza volta, a presentare la mia persona e il mio progetto di ricerca. Dalia - ex studentessa di filosofia - ascoltò con interesse le mie parole e, non appena ebbi concluso, volle sapere qual era, al di là di teorie e metodi, lo scopo della ricerca. Interpretai la sua domanda come la richiesta di una precisazione intorno alle motivazioni extra-scientifiche del lavoro e al mio orientamento etico e religioso. Mi premurai dunque di rassicurarla cercando di fugare i suoi sospetti, più che legittimi, nutriti dalle esperienze negative della comunità, alle prese con giornalisti superficiali e studiosi non sempre disinteressati. Dalia, rassicurata, si dichiarò pronta ad aiutarmi nel mio lavoro, ribadendo tuttavia che la decisione sul soggiorno spettava a Cipresso. Lasciai Damanhur con nulla di fatto, preannunciando per la settimana successiva una mia telefonata al responsabile degli esteri. La prima immagine di Damanhur che prese forma sulla via del ritorno a casa fu quella di un’intricata burocrazia dietro la quale - solo a fatica - riuscivo a cogliere la dimensione spirituale della comunità.

La settimana successiva non ebbi tuttavia modo di parlare a Cipresso e neppure quella che le fece seguito. In quel periodo la mia interlocutrice divenne Azalea, che, telefonata dopo telefonata, fece di tutto per spegnere i miei ardori sociologici: «una volta era diverso,

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adesso ci sono molti problemi per l'accoglienza degli esterni, problemi di strutture e non solo. Per ospitare un esterno bisogna conoscerlo, essere sicuri che sappia rispettare le nostre regole di vita». Si profilò così con chiarezza la natura dell'ostacolo al mio soggiorno in comunità: il fatto che nessuno di loro conoscesse in modo adeguato la mia persona e i miei intenti. Dietro suggerimento di Azalea iniziai così a frequentare il Centro Horus di Torino, sede della Libera Università di Damanhur. Lì conobbi Pero, al quale illustrai il progetto della ricerca e diedi modo di conoscere un po' di più la mia persona. Ebbi con Pero tre lunghi colloqui. Nel primo fu lui ad osservarmi e ad esaminare i miei propositi. La volta successiva, in un clima più rilassato, esaminammo alcuni passi de La Via Horusiana che non mi erano chiari e iniziammo a discutere degli aspetti pratici della ricerca: la partecipazione al rito imminente del solstizio d’estate e il soggiorno in comunità. Pero prefigurò uno scenario meno cupo di quello tratteggiato da Azalea: «non penso che ci siano problemi per il rito e nemmeno per la permanenza se sei disposto ad accettare una sistemazione di fortuna». Con Pero compilai una richiesta scritta di partecipazione al rito che venne esaminata ed accolta nel giro di pochi giorni.

Il 22 giugno, a due mesi di distanza dal primo contatto, sono a Damanhur per la celebrazione del solstizio d’estate. Nelle pause tra una fase e l'altra del rito, ebbi finalmente modo di discutere del mio soggiorno con Cipresso - questa volta particolarmente cordiale e di ottenere il permesso a una sola condizione: la presentazione di un certificato medico che attestasse l’esito negativo del test HIV. Nello stesso giorno incontrai anche Azalea, la mia scoraggiante interlocutrice telefonica: «Vedo che ce l’hai fatta, hai superato le prove iniziatiche!». Approfittai dei tempi tecnici d’attesa del mio certificato per leggere alcuni testi horusiani e per discutere con Pero - che incontrai per la terza volta - del significato dei simboli impiegati

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nel rito del solstizio. La mia breve esperienza di vita con i damanhuriani inizia il 12 luglio 1991; inizia come una sfida, umana prima ancora che intellettuale: ottenere, da non iniziato, la fiducia dei damanhuriani, iniziati a una dottrina segreta.

Due osservazioni, prima di concludere, sul mio atteggiamento verso la natura e il sacro, i temi della ricerca, e sull’orientamento teorico ed epistemologico che ha guidato il mio lavoro. Sono umanamente ed intellettualmente attratto dall’esperienza religiosa e, più in generale, dall’esperienza del sacro, ma da una prospettiva di irriducibile laicità. Sotto questo profilo l’esperienza delle due forme di devozione espresse dagli elfi e dai damanhuriani non ha modificato il mio atteggiamento iniziale. Diverso è il caso del mio atteggiamento verso la natura. Quando iniziai la ricerca il mio atteggiamento era improntato al disincanto, appena temperato da una modesta sensibilità etica nei confronti dei «diritti della ecosfera». L’incontro con Damanhur e soprattutto quello con Gran Burrone ha mutato, direi radicalmente, il mio atteggiamento. Questo innanzitutto sul piano etico, imponendomi di riconoscere l’angustia , forse anche la grettezza dell’antropocentrismo, ma anche, seppure in minor misura, sul piano emotivo, regalandomi in alcuni momenti la fugace esperienza dell’incanto della natura.

L’esperienza della ricerca ha mutato anche il mio atteggiamento verso le culture di cui Gran Burrone e Damanhur sono parte. Avevo incontrato la contro-cultura dalla quale provengono gli elfi, durante la mia esperienza di militanza nel movimento del Settantasette. Allora consideravo questi «compagni di strada» creativi, ma inconcludenti, piacevoli nelle relazioni personali, ma assolutamente inaffidabili nell’impegno sociale e politico. Gli elfi, capaci di una scelta di vita così radicale, sorprendentemente efficienti nella gestione della comunità e del luogo che li ospita, mi hanno fatto ricredere. Il mondo dell’esoterismo, del paranormale, della magia, mi era invece del tutto

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estraneo prima di iniziare questa ricerca. Il mio atteggiamento verso questo universo culturale oscillava tra la convinzione della irriducibile alterità di questo mondo e il dubbio sulla sua consistenza, sul suo spessore culturale. L’incontro con Damanhur ha attenuato il mio sentimento di alterità - senza per questo cancellarlo - e mi ha indotto a una seria riconsiderazione della cultura esoterica.

Quest’esperienza di ricerca ha altresì contribuito alla configurazione delle mie preferenze epistemologiche, costringendomi ad affrontare problemi teorici e metodologici che hanno trovato una provvisoria soluzione nell’ermeneutica gadameriana, letta - con Ricoeur (1987) - in una chiave che le sottrae l’originaria vocazione anti-metodica (vedi Cardano 1997a e 1997b). 1.2 Il lavoro sul campo

Il lavoro sul campo nelle due comunità si è svolto in condizioni molto diverse tra loro tanto per i tempi, quanto per la relazione osservativa: le condizioni alle quali ho avuto modo di osservare e partecipare alla vita degli elfi e dei damanhuriani. La cronologia delle principali attività di ricerca è illustrata in forma schematica nelle tavole 1 e 2.

Nella Valle degli elfi il lavoro sul campo è stato breve e intenso: cinque mesi di pressoché totale immersione nella vita e nella cultura comunitarie. Nel corso dei diversi soggiorni in comunità, il ruolo ricoperto e le caratteristiche della cultura ospite imposero un’immersione pressoché totale nella vita comunitaria, lasciando poco spazio (al più un paio d’ore al giorno) alla stesura e all’analisi delle note etnografiche.

Tavola 1: Cronologia del lavoro sul campo nella Valle degli elfi

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Primo soggiorno: 15 - 17 giugno 1990 Attività di ricerca: presentazione della ricerca, colloqui informali. Secondo soggiorno: 8 - 20 luglio 1990 Eventi di rilievo: fienagione a Casa Sarti, rito della capanna sudatoria, lettura collettiva lettera del capo indiano Sealth, feste a Gran Burrone, messa in scena della danza «gli elfi». Attività di ricerca: osservazione etnografica, interviste informali, conduzione delle prime interviste formali. Terzo soggiorno: 29 luglio - 7 agosto 1990 Eventi di rilievo: lavori di orticoltura, tintura di tessuti, cerchio per decidere l’incremento dei capi di bestiame, feste e rito della bevanda magica. Attività di ricerca: osservazione etnografica, interviste informali e formali, analisi delle conversazioni, backtalk 14. Quarto soggiorno: 6 - 17 ottobre 1990 Eventi di rilievo: ripresa delle lezioni nella scuola steineriana; cerchio per la discussione dei carichi di lavoro, raccolta ed essiccazione delle castagne, preparativi per l’imminente festa delle castagne, feste a Gran Burrone. Attività di ricerca: osservazione etnografica, interviste informali e formali, analisi delle conversazioni, backtalk . Quinto soggiorno: 3 - 5 novembre 1990 Eventi di rilievo: Festa delle castagne. Attività di ricerca: osservazione etnografica e backtalk .

Durata complessiva del lavoro etnografico: 5 mesi Durata complessiva del soggiorno in comunità: 41 giorni

14L’espressione «backtalk» (Lanzara 1988) designa l’insieme delle osservazioni e dei commenti «nativi», riferiti ora alla relazione osservativa ora alle interpretazioni della cultura elaborate dall’etnografo (vedi par. 1.2.4).

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Tavola 2: Cronologia del lavoro sul campo a Damanhur

Prima visita alla comunità: 18 maggio 1991 Visita al Centro Horus: 12, 14 e 25 giugno 1991 Partecipazione ai riti del solstizio d’estate: 22 giugno 1991 Attività di ricerca : osservazione etnografica e interviste informali. Soggiorno in comunità: 12 - 25 luglio 1991 Eventi di rilievo: lezioni-conferenze del leader della comunità, incontro di discussione sui vaccini; discussione del programma economico di una comunità; rito della catena all’altare del fuoco; offerte rituali agli spiriti di natura. Attività di ricerca: osservazione etnografica interviste formali e informali. Visita alla comunità: 15 settembre 1991 Partecipazione ai riti dell’equinozio d’autunno: 21 settembre 1991 Gruppo di lavoro «Censimento cittadini»: 17 aprile, 22 maggio 1992 Partecipazione ai riti del solstizio d’estate: 21 giugno 1992 Attività di ricerca: Preparazione con un gruppo di damanhuriani del questionario, osservazione etnografica interviste informali, backtalk. Backtalk, discussione risultati dell’indagine: 21 ottobre e 18 novembre 1992 Eventi di rilievo: visita al tempio sotterraneo. Attività di ricerca: backtalk. Visite alla comunità: 22 novembre 1992; 23 giugno e 18 dicembre 1993; Partecipazione al corso «Vite precedenti»: 30 aprile e 1 maggio 1994 Visite alla comunità: 15 giugno 1994; 19 febbraio 1995 Attività di ricerca: osservazione etnografica interviste informali e formali, backtalk

Durata complessiva del lavoro etnografico: 3 anni e 9 mesi

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Durata complessiva del soggiorno in comunità: 33 giorni

Mi vidi così costretto a sospendere più volte il mio soggiorno per trovare il tempo e il luogo adatti allo sviluppo e all’analisi di questi materiali. Dopo un lungo periodo di silenzio, interrotto solo dallo scambio di qualche lettera e da alcune visite di Matteo - questa volta mio ospite - nel giugno del 1994 diedi in lettura agli elfi il dattiloscritto che raccoglieva la prima matura interpretazione della loro cultura, sollecitando giudizi e critiche (vedi par. 1.2.4).

A Damanhur la ricerca si è sviluppata con tempi molto più lunghi: poco meno di quattro anni, caratterizzati da una lunga serie di visite di una giornata, interrotta da un breve soggiorno a tempo pieno di due settimane nel luglio del 1991. A ciò si devono aggiungere le numerose visite di Quercia, Dalia, Campanula e Melo, miei ospiti ora a pranzo, ora a cena. Questa agenda dei lavori ha pro e contro cui merita far cenno. Nel caso degli elfi la brevità e l’intensità del soggiorno si compensano; ciò che invece fa problema è la distanza temporale tra il dialogo sul campo e la traduzione di quell’esperienza in un testo, attraverso la scrittura. Da questo punto di vista il resoconto etnografico descrive eventi e relazioni sociali lontane di almeno un lustro. Questo, tuttavia, non dovrebbe pregiudicare le conclusioni che traggo sugli aspetti della cultura comunitaria su cui ho maggiormente appuntato l’attenzione: la communitas (Turner 1969) e la sacralizzazione della natura, due tratti che mostrano una sostanziale stabilità15.

15Due elementi fondano questo giudizio: il resoconto etnografico di Gaia (1986), riferito a una fase della storia comunitaria che precede il mio soggiorno e i giudizi espressi da Adriano e Matteo sul mio dattiloscritto, consegnato loro a quattro anni dalla mia prima visita.

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Nel caso di Damanhur lo specifico incedere della ricerca - dovuto più al sovrapporsi di altri impegni di ricerca che a una scelta deliberata - la sua organizzazione, basata su tempi lunghi e su di una presenza decisamente discreta, ha senza dubbio giovato alla comprensione della cultura damanhuriana. Il tempo, assieme ad alcuni eventi nei quali la comunità fu coinvolta, primo tra tutti la scoperta del tempio sotterraneo (ottobre 1992), ha contribuito ad attenuare il sospetto dei damanhuriani nei miei confronti, rendendo possibile un dialogo che i primi contatti con Damanhur non lasciavano neppure intravedere.

Del pari diversa fu la relazione osservativa istituita ora a Damanhur, ora a Gran Burrone16. Soffermarsi sulle sue caratteristiche ha rilievo per qualificare i punti di vista da cui muove la rappresentazione delle due culture resa in questo libro (vedi Altheide e Johnson 1994), ma non solo: serve anche alla costruzione di un primo profilo delle due società, ritratte nell’atto di affrontare e risolvere il medesimo problema, l’arrivo di un intruso che vuole studiarle. In questo senso la descrizione delle forme di controllo sociale - tutte più che legittime - esercitate sulla mia persona parla dell’organizzazione sociale e delle strutture di potere proprie di ciascuna comunità (cfr. Maher 1989:14).

I contenuti del mio ruolo di osservatore vennero definiti nel corso di una negoziazione che si concluse in tempi e modi diversi nelle due comunità (vedi par. 1.1). La chiusura dei primi contatti venne meno su basi diverse; diverse cioè furono le garanzie richieste ed ottenute a

16La relazione osservativa, definita dal ruolo che la società ospite assegna all’etnografo e dal rapporto che questi stabilisce con i membri della cultura in studio, contribuisce in misura preponderante alla definizione dello schema di rappresentazione dell’oggetto etnografico, delle regole che presiedono alla sua costruzione (Borutti 1991).

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sostegno del credito di fiducia che le due comunità aprirono nei miei confronti. Gli elfi decisero di correre il rischio della ricerca confidando sulle emozioni suscitate dal nostro primo incontro. Decisero considerando innanzitutto la mia persona, il suo impatto sul clima emotivo («l’energia») della vita comunitaria, per prestare invece ben poca attenzione al progetto di ricerca e alle sue eventuali conseguenze. A Damanhur ai sentimenti si sostituì la ragione: il giudizio positivo della mia capacità di rispettare le regole della vita comunitaria (messa alla prova nelle prime schermaglie) e soprattutto la certezza che nessuna diavoleria sociologica avrebbe potuto carpire i segreti della loro esperienza iniziatica17.

L’arruolamento in comunità seguì in entrambi i casi la traiettoria tracciata sin dai primi contatti. Damanhur per ospitarmi fu costretta a definire al proprio interno un nuovo ruolo, quello dello studioso ospite, del sociologo. D’accordo con Cipresso, preparai una breve presentazione della ricerca e della mia persona (corredata da una fotografia sorridente), che venne pubblicata su Qui-Damanhur, il quotidiano stampato in comunità, di cui Cipresso era redattore (vedi QDhq 1991, 529). Alloggiato a Tiglio, con il nucleo rurale della comunità, trascorsi le giornate del mio soggiorno da sociologo:

17Poco prima della fine del mio soggiorno ebbi un breve colloquio con Oberto Airaudi, la guida spirituale della comunità (vedi par. 5.1). Tutto il colloquio - trascritto a memoria nei miei appunti di campo - è giocato su una serie di malintesi che testimoniano le tensioni da cui fu attraversato. Alla domanda cordiale di Airaudi: «come vanno le interviste?», risposi, prima, con una descrizione tanto minuziosa quanto inutile del mio lavoro. poi, con un’altra domanda: «come vedi la mia presenza qui a Damanhur?», che non seppi proteggere dal fraintendimento. Airaudi - che presumibilmente rispose a un quesito del tipo: «ti sono stato d’impiccio?» - si espresse in questi termini: «Non c’è nessun problema tanto dell’aspetto esoterico non saprai mai niente. Tutte le persone iniziate sono state attentamente selezionate e nessuno di loro farà mai trapelare nulla».

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visitando i principali insediamenti della comunità, conducendo interviste e, solo in minima parte, prendendo parte alla vita politica e spirituale di Damanhur. Per ragioni che sono tutt’uno con la matrice della cultura comunitaria non mi fu consentito - in quanto non-iniziato - di partecipare alle attività protette dal segreto: la costruzione del tempio sotterraneo, la trasmissione della dottrina horusiana nel «corso di meditazione», la pratica della magia. Su tutti questi aspetti della vita comunitaria ho avuto solo informazioni indirette, desunte ora dai testi horusiani, ora dalle testimonianze, vaghe, allusive, sottoposte a una vigile autocensura, dei damanhuriani. Alla piena legittimazione del mio ruolo di studioso, e forse proprio in conseguenza di ciò, corrispose una forma di partecipazione alla vita comunitaria decisamente marginale. La mia condizione di non-iniziato, un rilevante «attributo discriminante di ruolo» (Hannerz 1980 tr. it. 1992: 279), mi consentì di vivere con i damanhuriani, ma non come uno di loro.

Nella comunità degli elfi del Gran Burrone, abituata da sempre alla presenza chiassosa e talvolta importuna di visitatori, ricoprii il ruolo già ampiamente collaudato di ospite. La vita di un ospite a Gran Burrone è, in tutto e per tutto, assimilabile a quella dei membri della comunità. Durante il mio soggiorno vissi pertanto come uno di loro, condividendo tutti i momenti della vita quotidiana, dai lavori agricoli al rito, dalla preparazione dei pranzi al lavaggio delle stoviglie. La piena partecipazione alla vita comunitaria è richiesta a tutti gli ospiti - nei limiti delle possibilità fisiche di ognuno - per due ragioni: la reciprocità, per la quale ad ognuno è richiesto di contribuire con il proprio impegno personale alla produzione di almeno parte di ciò che consuma18; l’esemplarità, gli elfi desiderano che i loro ospiti facciano

18Si tratta di uno scambio dal quale il denaro per lo più è escluso (con il denaro verrebbe meno la possibilità del «contagio» benefico) e che, dal punto di vista strettamente economico, almeno sette volte su dieci va a vantaggio degli ospiti.

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esperienza di un modo di vita altro, perché da questo contagio, per così dire, possano trarre l’energia per cambiare la loro vita o quanto meno per affrontare altrimenti la vita di sempre. Le aspettative che gli elfi associano al ruolo di ospite non coincidono, tuttavia, con gli obiettivi di una ricerca etnografica, quanto meno con quelli che io intendevo perseguire. Un ospite può far domande sulla vita in valle, ma non può condurre un'intervista con tanto di microfono e registratore; può osservare con attenzione tutto quanto accade intorno a lui, ma desta qualche perplessità se si attarda a riempire pagine e pagine di appunti. Questa situazione non creò particolari problemi per il lavoro di osservazione etnografica, avvolto da un solo pregiudizio: gli elfi ritenevano che nessun testo sarebbe stato in grado di rappresentare adeguatamente la loro esperienza di vita. L’entusiasmo con il quale, sin dai primi giorni del mio soggiorno, presi parte ai lavori agricoli e a tutti i momenti della vita comunitaria mi fece guadagnare la benevolenza dei miei ospiti e il titolo onorifico di «intellettuale con la zappa». Per vincere i sospetti nei confronti del lavoro etnografico decisi di dedicarmi alla stesura delle note etnografiche in pubblico, offrendo a chi mi domandava cosa stessi facendo la possibilità di leggere i miei appunti. Nessuno mai volle farlo, in compenso tutti accettarono di buon grado anche questo risvolto della mia persona, irrisa bonariamente con l’appellativo di «homo scrivanus». Altro invece fu l’atteggiamento degli elfi nei confronti delle interviste. Il taccuino per gli appunti, il registratore, introducevano una nota stonata in un rapporto che gli elfi volevano simmetrico (condizione violata nella relazione d’intervista dove uno domanda e l’altro risponde) e quanto più possibile amicale. I problemi suscitati dalla mia ferma determinazione - col senno di poi non del tutto giustificata19 - a 19Mi sembrava allora che le interviste, soprattutto se registrate, offrissero alla ricerca etnografica un supporto irrinunciabile. La ragione di questo atteggiamento aveva

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condurre quante più interviste possibile si concentravano nella fase di negoziazione, non sempre conclusa con successo (dovetti registrare alcuni rifiuti) e nelle prime battute dell’intervista. Poi, una volta rotto il ghiaccio, le interviste procedevano in un clima sufficientemente disteso, di buon auspicio per l’autenticità delle risposte.

In generale il rapporto nei due setting fu improntato da una tensione sottile e continua. A Damanhur fu la frizione tra il mio ruolo, di osservatore, e il contesto in cui veniva esercitato, una società che struttura la propria identità sul segreto, sottraendo parte delle sue attività e dei suoi caratteri allo sguardo degli estranei, nei non-iniziati. A Gran Burrone furono invece gli attriti tra le aspettative associate al mio ruolo di membro-ospite e alcuni comportamenti dell’osservatore, quelli che più di ogni altro mettevano a nudo le finalità del mio soggiorno. Negare la mia estraneità, porre tra parentesi le mie finalità conoscitive furono le strategie adottate dai miei ospiti per contenere questa tensione. A Damanhur erano discorsi di questo tenore a svolgere questa funzione:

Il fatto che sei qui [...] non è solo la ricerca in sé tecnicamente parlando, ma c’è qualcosa che ti smuove già dentro, la scelta già di un discorso di questo tipo, è perché comunque hai dei campanellini dentro di te che suonano. (Sequoia, I)

A Gran Burrone l’espressione più compiuta di questa disposizione faceva propria una specifica concezione dell’esperienza etnografica di sapore hegeliano. Per capire la nostra esperienza - osservava Matteo - era indispensabile viverla, abbandonandosi ad essa senza alcuna riserva; in questo modo, tuttavia, le finalità conoscitive,

confusamente a che fare con la piena «ispezionabilità» (Ricolfi 1995: 394). di questi materiali. Un attributo che allora ritenevo decisivo.

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scientifiche, sarebbero necessariamente venute meno, schiacciate dalla ricchezza, dalla profondità della vita comunitaria.

Tutto considerato il lavoro etnografico fu soprattutto partecipazione, role-taking nella Valle degli elfi, e osservazione, per lo più circoscritta alla sfera ordinaria della vita quotidiana, a Damanhur. Questo squilibrio, penalizzante per Damanhur, venne colmato con l’estensione del periodo della ricerca; con l’analisi dell’abbondante letteratura interna, guidata da alcuni informatori; con un più sistematico ricorso a procedure di backtalk e, buon ultimo, con la conduzione di un sondaggio disegnato e condotto con la collaborazione dei damanhuriani. A una concisa descrizione di queste dimensioni più specifiche della ricerca è dedicata la parte conclusiva del paragrafo.

1.2.1 Gli informatori

Nelle due comunità la mia comprensione del rapporto con la

natura e, più in generale della cultura, ha potuto progredire grazie alla collaborazione di alcuni informatori.

Nella Valle degli elfi questo ruolo è stato ricoperto principalmente da Adriano e Matteo20. Adriano è nato nel 1951, era ed è il più anziano tra gli elfi. È una delle persone più autorevoli della comunità, colto, sempre ben informato su quanto accade nel mondo; è lui che si occupa di intrattenere i rapporti con l’esterno. Matteo è nato nel 1957, quando lo conobbi viveva in comunità da poco più di un anno: un nuovo acquisto dunque, ma già pienamente integrato e coinvolto nell’esperienza della Valle. Adriano e Matteo furono particolarmente prodighi di informazioni e suggerimenti su come condurre il mio lavoro sin dalle prime battute della ricerca. La ragione di questa immediata 20Le loro storie di vita sono descritte rispettivamente nei par. 4.2.3, 4.2.4.

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disponibilità ha a che fare con un tratto profondo della cultura comunitaria. Gli elfi hanno scelto di vivere ai margini della società, ma non hanno cessato di interessarsi al suo destino. L’impegno degli elfi - morale prima ancora che politico - trova espressione nell’esemplarità che vuole essere provocazione e «contagio» (cfr. Léger ed Hervieu 1979: 50). Pur muovendo da un cauto scetticismo verso il sapere sociologico e, più in generale, verso la comunicazione scritta gli elfi, e tra loro Adriano e Matteo in particolare, ritenevano che il mio lavoro potesse contribuire a mostrare come uno stile di vita alternativo a quello dominante fosse, oltre che possibile, capace di dar gioia e benessere a coloro che lo abbraccino. Nel caso di Matteo a queste ragioni si deve aggiungere la mia disponibilità (non altrettanto spiccata negli altri membri della comunità) a seguirlo nelle sue verbose, talvolta affascinanti, elucubrazioni filosofiche.

A Damanhur hanno ricoperto il ruolo di informatore Dalia e soprattutto Quercia 21. Dalia, ex studentessa di filosofia, è nata nel 1958, attratta soprattutto dalla dimensione spirituale di Damanhur, più defilata sul versane politico, vive in comunità da poco dopo la sua costituzione. Ho lavorato con Dalia soprattutto durante le prime fasi della ricerca: mi ha aiutato nell’interpretazione dei simboli dei rituali damanhuriani e, insieme ad altri, nella costruzione della lista di persone da intervistare. Più tardi, con Quercia, ha letto e commentato la prima stesura del capitolo dedicato alla dottrina horusiana (ora nel par. 7.1). La disponibilità umana di Dalia, la sua genuina curiosità per la ricerca, rimasero tuttavia sempre compresse dal vincolo del segreto iniziatico e da un residuo sospetto nei miei confronti22. Questo non mi consentì di trarre dal suo senso critico e dalla sua esperienza il

21La storia di vita di Dalia e riportata nel par. 5.3.3. Quercia - che lasciò la comunità nell’estate del 1996 - non rientra nel gruppo di persone di cui raccolsi la storia di vita. 22Dalia, ad esempio, non ha voluto che registrassi la sua intervista.

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massimo profitto. Di tutt’altro tenore fu il rapporto con Quercia. Quercia è nato nel 1956 e, come Dalia, fu tra i primi ad aderire al progetto Damanhur. Durante il mio soggiorno in comunità ci frequentammo molto poco: visitai il monastero nel quale viveva con la moglie una sola volta ed ebbi con lui solo un breve scambio di opinioni. Il nostro rapportò inizio a farsi più stretto molto più tardi, quando nell’autunno del 1992 Damanhur organizzò in comunità due incontri di discussione dei risultati della ricerca (vedi par. 1.2.4). Il confronto con i damanhuriani mise drammaticamente in luce l’inadeguatezza della mia comprensione di Damanhur e più in particolare del rapporto con la natura. Vedendomi in difficoltà Quercia decise di offrirmi il suo aiuto: si prodigò affinché mi fosse consentito di visitare il tempio sotterraneo scoperto da poche settimane, e mise a mia disposizione nuovi materiali assieme ad alcune chiavi di lettura sino ad allora precluse. Quercia allora occupava una posizione di primo piano nella comunità, aveva uno tra i più alti gradi iniziatici, dirigeva la casa editrice interna, si occupava delle pubbliche relazioni (gli «esteri»). L’atteggiamento di Quercia rientrava a pieno titolo nella nuova politica di comunicazione della comunità, resa necessaria dalla scoperta del tempio sotterraneo. In quella fase particolarmente delicata della propria vita di Damanhur aveva bisogno di «buona stampa» per costruire attorno a sé un vasto movimento d’opinione forte del quale difendere il tempio dall’abbattimento minacciato dalle autorità23. La comunità aprì così le proprie porte a numerosi studiosi della cosiddetta «nuova spiritualità», sia italiani, sia stranieri. In questa situazione anche la mia ricerca ebbe un nuovo impulso.

23Damanhur in quei giorni promosse una raccolta di firme in difesa del tempio e organizzò, con Quercia, numerose iniziative dirette a sostenere l’immagine della comunità.

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Il rapporto con Quercia nacque pertanto sotto un registro apertamente strumentale, senza maschere né fingimenti. La sua evoluzione fu tuttavia un’altra: al di là dei rispettivi interessi professionali si creò tra noi un’autentica amicizia costruita sulla piena accettazione delle differenze che continuano a separarci, ma anche nel rispetto e nella stima reciproche. Senza mai venir meno al segreto iniziatico Quercia fece il possibile per avvicinarmi al cuore della propria esperienza spirituale. Per facilitare la reciproca comprensione ci scambiammo alcune letture: Quercia mi diede da leggere Viaggio a Ixtlan, di Carlos Castaneda, per aiutarmi nella comprensione dell’esperienza damanhuriana del magico; io gli prestai Piccole apocalissi di Carlo Formenti, per consentirgli di discutere dell’ipotesi interpretativa su cui stavo lavorando, quella di gnosi. Nello stesso periodo iniziammo a frequentarci accompagnati dalle nostri mogli e spesso fuori Damanhur, in un clima meno gravato dalle finalità della ricerca (andammo insieme al cinema, visitammo una mostra d’arte). I nostri colloqui divennero per me sempre più istruttivi, tuttavia Quercia restava dell’opinione che per capire Damanhur avrei dovuto - in una qualche misura - fare esperienza del mondo magico. A questo scopo mi invitò a partecipare, nella primavera del 1994, al corso sulle vite precedenti che lui stesso teneva (vedi SonTor). Fui un pessimo allievo, ma ebbi l’opportunità di fare un’ulteriore passo verso una più lucida comprensione di Damanhur e, anche in questo caso, grazie a Quercia 24.

24Quando partecipai al «Corso di ricerca delle vite precedenti» c’erano con me altre nove persone di età ed estrazione sociale le più diverse, alcuni vicini a Damanhur altri del tutto estranei ai temi dell’esoterismo. Con la sola eccezione - peraltro ovvia - di chi scrive, tutti i partecipanti si mostrarono capaci di ricordare e riappropriarsi delle proprie vite precedenti, chi con un’ombra di scetticismo, chi con convinzione e

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A Damanhur, così come nella Valle degli elfi si resero disponibili a cooperare alla ricerca nel ruolo di informatori le persone che mi erano più simili per età, genere e formazione culturale. Con loro ho guardato alla vita di comunità e al rapporto con la natura dal punto di vista delle persone più colte e sofisticate. Le interviste discorsive e - nel caso di Damanhur - il sondaggio mi hanno consentito di accedere ad altri punti di vista.

1.2.2 Le interviste discorsive

Con le interviste, a Damanhur così come nella Valle degli Elfi, intendevo innanzitutto tratteggiare l’esperienza del sacro della natura. Oltre a ciò mi premeva ricostruire le traiettorie biografiche lungo le quali elfi e damanhuriani erano approdati a quelle particolari esperienze comunitarie. Le interviste dovevano inoltre consentire la raccolta di impressioni e giudizi sulla vita comunitaria e di ricostruirne, questa volta dal punto di vista dei singoli, gli aspetti più rilevanti.

abbandono totali. Indulgenti con la mia inettitudine, i due animatori decisero comunque di rivelarmi quelle che furono le mie vite precedenti. Prima Vita: 1200, Ardenne, uomo. Da piccolo rimane per parecchio chiuso in un pozzo profondo, un trauma che si aggiunge ad una situazione già difficile. Questo fatto avviene a seguito di un incursione cruenta nel villaggio in cui vive. Perdita di memoria. Raccolto da soldati di ventura. Difficoltà di linguaggio, balbuzie. Non riesce a star chiuso per molto tempo in un luogo. Vive sempre all’aria aperta dormendo in luoghi diversi. Curioso. Ha timore del mondo degli uomini, del fuoco e delle armi. Vive facendo piccoli lavori di fatica, si occupa delle bestie, ara, porta l’acqua alle donne. Ama fantasticare. Da adulto si sposta di villaggio in villaggio: non riesce a rimanere per troppo tempo nello stesso posto. Muore trafitto da un giavellotto. Seconda vita: centro Italia, XVI secolo, uomo. Frate. Monastero. Studioso. Paziente. Scrupoloso. Gusto della ricerca e della Storia. Ricerca e traduce vecchi testi.

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Complessivamente realizzai quarantotto interviste semi-strutturate, ventidue tra gli elfi e ventisei a Damanhur. Tutti i colloqui furono guidati da una traccia, simile nella struttura in entrambe le comunità.

Il piano delle interviste venne impostato e realizzato in modo differente nelle due comunità, anche in ragione della loro diversa consistenza numerica25. Tra gli elfi decisi di intervistare le persone che più profondamente sembravano aderire ai valori comunitari, coloro che in maggior misura erano coinvolti nella realizzazione del progetto della comunità. Compilai la lista delle persone da intervistare con l’aiuto di Matteo e sulla scorta delle impressioni che trassi dai primi soggiorni in comunità. Intervistai così due terzi dei membri adulti della comunità. Con gli altri mi limitai ad alcuni concisi colloqui informali diretti a cogliere l’immagine della comunità e a tratteggiare il rapporto con la natura.

A Damanhur la scelta dei soggetti da intervistare seguì un itinerario un po' più complesso. Da principio mi rivolsi a tre dei cittadini che, sin dai primi contatti con la comunità, si mostrarono disponibili e, allo stesso tempo, ben informati (Dalia, Cipresso e Ontano). Chiesi, singolarmente, a ciascuno di loro compilare la lista delle persone che avrei fatto bene ad intervistare per «capire Damanhur - così mi espressi - e i damanhuriani». Unii le tre liste ed avanzai la medesima richiesta ad alcune delle persone segnalate da almeno due dei miei informatori e questo fece crescere ulteriormente la lista dei candidati all'intervista26. Al suo interno scelsi i nomi degli intervistati contemperando due esigenze: quella della centralità sociale di ciascun soggetto, espressa dal numero di segnalazioni ottenute, e

25Nella Valle degli elfi, durante il mio soggiorno, i membri adulti erano 36, a Damanhur gli adulti residenti a tutti gli effetti erano poco più di 200. 26Si tratta di una procedura simile a quella del cosiddetto «campionamento a valanga».

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quella dell'equilibrio del campione nel suo insieme, per quanto riguarda il sesso, l'età e la posizione sociale degli individui selezionati. Condussi così le prime interviste su quella che apparve poi essere una sorta di élite. Decisi pertanto di condurre il blocco successivo di interviste dando voce anche a persone collocate in una posizione sociale più defilata. Chiesi così ai miei informatori di rendermi un servizio analogo al precedente, mirato però alla costituzione di una lista di persone meno centrali e magari anche relativamente meno sofisticate di quelle che mi avevano segnalato in precedenza. Questa volta però imposi ai miei informatori alcuni vincoli che li costrinsero a procedere nelle loro segnalazioni secondo un elementare «piano fattoriale», costruito considerando congiuntamente l'età ed il sesso dei candidati27. Ottenni una lista di nomi che trattai in modo analogo alla precedente e che completai servendomi delle informazioni acquisite sul campo. Realizzai la maggior parte delle interviste durante il mio soggiorno a Damanhur, con due sole eccezioni, l’intervista ad Airaudi e a Ciliegio che condussi nell’autunno dell’anno successivo.

La negoziazione dell'intervista e la loro conduzione assunsero nelle due comunità caratteristiche differenti. Tra gli elfi la trattativa che precedeva l'intervista era in genere lunga ed esposta in ogni momento al rischio dell'insuccesso. Iniziavo il «corteggiamento» della persona predestinata uno o due giorni prima di poter coronare le mie fatiche e incontrando in più occasioni più d'una resistenza. A Damanhur il lavoro dell'intervistatore fu più semplice, non richiese nessun tipo di corteggiamento, ma solo una discreta capacità di accordare la mia con le fittissime agende dei damanhuriani.

La collocazione delle interviste nel tempo e nello spazio sociale così come la cornice entro la quale si svolsero i colloqui vennero 27In concreto chiesi agli informatori di riempire le celle di una tabella tre per due, generata dall'incrocio tra età (espressa in tre classi) e sesso.

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modellate, nella Valle degli Elfi non meno che a Damanhur, dalle caratteristiche culturali delle due comunità e dal tipo di relazione osservativa instauratesi. Fu dunque la relazione d'intervista ad adattarsi alle culture in studio e non il contrario. Nella Valle degli Elfi, il più delle volte, le interviste si inscrissero nel flusso della vita quotidiana, ritagliandosi al suo interno uno spazio, rubandolo talvolta. Molti dei colloqui si svolsero con i miei interlocutori impegnati in qualche lavoro domestico, la preparazione del cibo, il bucato o la cura dei figli. Alcune interviste si svolsero nel corso di uno spostamento da un insediamento all'altro, altre nel fragore di una festa, altre ancora all'ombra di un albero durante «la siesta». In alcuni casi fu possibile condurre l’intervista solo dopo una singolare inversione di ruoli, nella quale ero io a dover raccontare per primo la storia della mia vita. Solo la metà delle interviste agli elfi si svolse in un setting convenzionale, vale a dire in un ambiente raccolto e con l'aiuto di un registratore.

A Damanhur le interviste ebbero spazi e tempi propri, collocandosi ai margini del flusso della vita quotidiana, definendo un setting più convenzionale e direi anche più appropriato. Quasi tutti i colloqui si svolsero a seguito di un appuntamento e, nella porzione di tempo che di volta in volta mi venne dedicato, l'attenzione degli intervistati fu sempre concentrata esclusivamente sull'intervista. Chiusi come ricci sugli aspetti della loro esperienza iniziatica coperti dal segreto, i damanhuriani si mostrarono invece aperti e disponibili nella ricostruzione della loro traiettoria biografica, delineata con particolare ricchezza di dettagli.

Per entrambi gli studi utilizzai, tutte le volte che mi venne consentito, il registratore, accettato da quasi tutti i damanhuriani (21 su 26), meno dagli elfi (15 su 22). Nelle situazioni in cui non fu possibile utilizzare il registratore, generalmente prendevo alcuni

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appunti durante le interviste che poi sviluppavo non appena concluso il colloquio, fin tanto che la memoria era ancora fresca.

I brani d’intervista citati nel testo sono stati scelti cercando di dare spazio sia alle voci che mostrano la plausibilità delle mie interpretazioni, sia a quelle che le pongono in forse. Tutte le citazioni sono state sottoposte ad alcune semplici operazioni di «cosmesi», per renderne meno pesante la lettura. Ho eliminato tutte le ripetizioni che non sembravano dettate dall’intenzione di dare enfasi al discorso, assieme ad alcuni connettivi linguistici (e, uhm, no ecc.) che rendevano l’esposizione poco fluida. Più in generale ho lavorato qua e là di forbice, marcando nel testo (con tre puntini racchiusi tra parentesi quadre) i luoghi di taglio.

1.2.3 Il sondaggio a Damanhur

Durante la mia permanenza a Damanhur più volte espressi ad

alcuni dei miei interlocutori l'esigenza di disporre di un profilo sociodemografico dei membri della comunità. Identiche esigenze erano sentite anche da alcuni dei damanhuriani e questo mi consentì di avanzare la proposta di un censimento della popolazione, con il quale raccogliere, oltre ad alcuni dati di base, anche alcune informazioni sugli atteggiamenti e sulle credenze dei cittadini. Costituimmo un gruppo di studio cui aderirono Primula, Cipresso, Ontano e Pino. Nel corso di alcuni incontri, insieme individuammo i temi che la ricerca doveva affrontare. Su questa base predisposi una bozza di questionario che venne ulteriormente discusso, testato e finalmente somministrato ai membri della comunità. Il questionario, articolato in una cinquantina tra domande aperte e chiuse, venne distribuito insieme al quotidiano d'informazione edito in comunità28. I 28I risultati dell’indagine sono esposti ai par. 5.2 e 5.3.

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cittadini dovettero provvedere da soli alla sua compilazione, potendo però contare sulla collaborazione dei membri del gruppo di studio. La raccolta dei questionari, a cura dei damanhuriani, richiese qualche tempo ma alla fine l'iniziativa si concluse con un successo: aderì all'iniziativa più dell' 80% dei cittadini.

1.2.4 Il backtalk Il ricorso a procedure di backtalk 29, alla raccolta dei giudizi di elfi

e damanhuriani sulle mie interpretazioni delle loro culture o sul mio modo di condurre la ricerca, ha accompagnato tutte le fasi del lavoro etnografico. Ho raccolto le osservazioni e i commenti dei «nativi» nelle conversazioni occasionali, ora con gli informatori, ora con la più vasta compagine dei miei ospiti. In misura più limitata anche le interviste mi hanno offerto l’opportunità di sollecitare i giudizi dei miei interlocutori sull’immagine del loro rapporto con la natura che via via andavo costruendo. A tutto ciò si devono aggiungere due speciali occasioni di confronto: le presentazioni a Damanhur dei risultati della ricerca e la sollecitazione del giudizio degli elfi su un dattiloscritto che

29Ho deciso di utilizzare l’espressione backtalk , invece delle più comuni member validation, member verification, host verification, respondent validation (vedi Gobo 1993: 307), poiché il ricorso a queste locuzioni accompagna o tradisce intenti che non condivido. I materiali di backtalk, i giudizi dei nativi sulla qualità dell’osservazione o sulla corrispondenza tra la realtà e la rappresentazione elaborata dall’etnografo, sono - a mio modo di vedere - parte della documentazione empirica e non il criterio in base al quale valutare la plausibilità del discorso etnografico.

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conteneva la mia prima matura interpretazione della loro cultura. Cominciamo da Damanhur.

A conclusione del sondaggio sui cittadini mi fu chiesto di presentare i risultati della ricerca ai membri della comunità. Ontano, l’organizzatore dell’incontro, mi chiese di affrontare due temi: la figura del maestro e i percorsi lungo i quali i damanhuriani erano giunti in comunità. L’incontro si tenne a Damjl, cuore della comunità, il 21 ottobre 1992, alle 21. Erano presenti poco più di una ventina di persone, sedute di fronte a un tavolo - il mio posto - circondato da alcuni microfoni e da una videocamera30. L’incontro assunse la forma di una conferenza pacata, senza contraddittorio, con pochi interventi dal pubblico, brevi ed estremamente controllati. Com’era già accaduto all’inizio della ricerca mi ritrovai ad occupare, non già il ruolo di osservatore, ma quello più imbarazzante del soggetto osservato. I miei interlocutori, costituiti dal gruppo impegnato nel Censimento dei cittadini, cui si aggiunsero Quercia, Ginepro e pochi altri, assunsero lo stile del perfetto intervistatore: accettazione, avalutatività, adeguato sostegno motivazionale. Il mio intervento seguì fedelmente la consegna: parlai del maestro, del contratto carismatico che lo lega ai discepoli, tratteggiai una tipologia dei percorsi di conversione, inserendo qua e la alcuni cenni all’organizzazione sociale di Damanhur, al rapporto con la natura e alla controversia filosofia vs. religione cruciale nel pensiero horusiano. A margine discutemmo brevemente del tempio sotterraneo, allora divenuto di pubblico dominio solo da qualche giorno. Sviluppai il mio intervento su di un registro decisamente astratto, combinando erudizione (citai Weber e Thomas) a una misurata strategia di conquista della loro

30I damanhuriani sono soliti registrare e talvolta video-registare i momenti salienti della vita comunitaria.

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benevolenza31. A proposito del rapporto con la natura sottolineai il carattere cerebrale, intellettualistico dell’esperienza damanhuriana, contrapposto alla sensualità, all’immediatezza degli elfi. Aggiunsi poi una notazione relativa alla forma del rapporto:

È un rapporto di tipo triangolare - cosa che è emersa in più d’una intervista - il rapporto non è tra l’individuo e la natura, ma è un rapporto in cui ci sono tre protagonisti: Dio, l’uomo e la natura, e questi tre protagonisti sono diversamente collocati su di una scala di valore. Hanno tra loro relazioni molto strette: nell’uomo così come nella natura esistono elementi di divinità; così come in tutti gli elementi del cosmo si può cogliere questa scintilla divina. Però su un piano superiore viene posto il divino: non siamo quindi nella situazione tipica del panteismo in cui Dio e natura vengono identificati. [...] La natura è sacra ma il divino è sacerrimo.

A pochi giorni dal mio intervento a Damanhur ricevetti da Ontano la registrazione e la trascrizione di tutti gli interventi. Controllai la trascrizione, integrai qua e là il testo del mio intervento, per consegnarlo poi alla redazione di «Qui-Damanhur» che si occupò di diffonderlo in comunità. Sulla base di quel documento organizzammo, a distanza di un mese, un altro incontro a Damjl, questa volta più improntato al dialogo, al contraddittorio.

A questo secondo incontro parteciparono poco meno di venti persone: i più attivi tra gli interlocutori del precedente incontro cui si aggiunsero alcune nuove voci tra cui quella di Airaudi che si unì a noi

31Per mia fortuna non dovetti affrontare la difficoltà di analizzare la figura del maestro di fronte all’oggetto della mia disamina: Airaudi in quell’occasione era impegnato altrove. Non sfuggi invece all’insidiosissima domanda di Cactus: «Sulla base delle cose che conosci, quali sono gli aspetti per i quali entreresti in questa comunità e quali sono quelli per i quali non entreresti in questa comunità?».

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a metà serata. Aprii la discussione invitando i miei ospiti ad esprimere la loro opinione sui temi emersi nella precedente discussione, in particolare sul rapporto con la natura. Ci fu un lungo ed eloquente silenzio, una provvidenziale battuta di spirito di Ontano, «la natura sarebbe un grande triangolo: noi, lei e l’altro» cui seguì, dapprima in sordina, poi in toni sempre più accesi, una discussione collettiva tra me e loro, ma anche all’interno del gruppo dei damanhuriani. Per primi presero la parola i più critici, coloro che in nessun modo si riconoscevano nella mia interpretazione.

Dio e natura? Io non capisco perché dovrebbero essere fusi Dio e natura? Perché invece secondo me sono fusi - più che Dio e natura - uomo e natura, Uomo e Dio.[...] Forse bisognerebbe conoscere più a fondo i nostri principi filosofici. Mi dispiace ma... {sorriso di sufficienza}Perché il discorso dell’uomo si articola su diversi livelli, dipende da quale uomo tu stai prendendo in considerazione. (Begonia)

Altri, per contro, ritenevano la mia interpretazione poco lusinghiera - questo sì - ma non del tutto implausibile. « io penso che sia corretta l’interpretazione del vissuto triangolare, penso però che questo tipo di triangolazione sia determinato soltanto dalla nostra incapacità»(Pino). La discussione mostrò poi come alla base di questa divergenza ci fosse più che un conflitto tra interpretazioni differenti, il riferimento a oggetti diversi: la dottrina in un caso, l’esperienza, il vissuto personale nell’altro.

È vero però che stiamo trattando la questione in contesti diversi. Se la definisco in senso più filosofico allora la risposta sarà una, se lo definisco in chiave percettiva, di esperienza, sarà un’altra. (Quercia, NE)

Questo non eliminava il problema ma almeno ne delimitava i contorni: si rese evidente il mio fraintendimento della dottrina horusiana,

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costretta in uno schema concettuale decisamente inadeguato. Mi spinsero in questa direzione due teorie su cui, sino ad allora, avevo fatto particolare affidamento: la teoria durkheimiana del sacro, negli sviluppi del Collegio di Sociologia (vedi Hollier 1979), e le tesi del teologo protestante Rudolf Otto (1917), relative all’esperienza del sacro. Queste teorie, diversissime tra loro, hanno in comune una matrice dualista, nell’opposizione del sacro al profano, dell’uomo a quel totalmente altro che in Otto è Dio. E fu proprio il dualismo del mio modello interpretativo ad entrare in crisi, nello scontro con le critiche pungenti dei damanhuriani verso «questa eterna suddivisione di situazioni dove c’è il divino da una parte, ci siamo noi da un’altra, la natura da un’altra ancora » (Cipresso). Nasce da qui, dallo shock del backtalk , l’ipotesi interpretativa della gnosi e la riconcettualizzazione del pensiero magico in un registro distante tanto da Frazer quanto da Durkheim (cfr. Douglas 1966).

Nella stessa serata emerse un’altra notazione a proposito della relazione osservativa: l’impossibilità per un non iniziato di comprendere la cultura damanhuriana; l’impossibilità di tradurre le regole del loro gioco linguistico in quelle del discorso etnografico.

Tu conosci il vecchio detto «chi ha orecchie per intendere ...», cioè, è proprio così: Se tu utilizzi il tuo tipo di orecchie continuerai a sentire quel tipo di cose, davvero! Ti assicuro e poi quel semplice fatto del classico esempio dell’antropologia, si sa benissimo, ormai è scontato, se tu non ti cali nella realtà e se non sei uno di quel popolo non puoi capire che cosa effettivamente quel popolo esprime. [...] La nostra logica, che poi è già composta di tante logiche, non è assolutamente traducibile in un linguaggio sociologico, te lo garantisco. (Begonia)

Questo tema, un luogo classico della ricerca etnografica, ha nello specifico della cultura damanhuriana un rilievo speciale. Nel caso di Damanhur la distanza tra l’etnografo e la cultura in studio (tra me e

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loro) è accresciuta dal segreto con il quale Damanhur costruisce la propria identità collettiva e i damanhuriani tracciano il senso della loro esperienza iniziatica. Tuttavia, azzerare o ridurre drasticamente questa distanza ha quale conseguenza il venir meno del discorso etnografico, che ha nella distanza, nella differenza la condizione della propria possibilità (vedi Borutti 1991: 81 e 106). La mia rappresentazione della cultura damanhuriana è dunque di necessità incompleta, costruita sui resoconti allusivi, metaforici con cui - sotto il vincolo del segreto - i damanhuriani mi hanno raccontato della loro esperienza. Se così non fosse, il mio non sarebbe un resoconto etnografico ma un testo dottrinario: oscuro se esoterico, sottoposto ad autocensura se essoterico32. Concludo con le osservazioni di Pino, che forse possono contribuire a chiarire i limiti e la portata della mia rappresentazione di Damanhur, basata su di una comprensione analogica, metaforica.

Io posso esporti nei dettagli il progetto di costruzione di una casa, facendoti vedere i disegni, esponendoti chiaramente le ragioni delle mie scelte di progettazione senza però entrare nel dettaglio fine del tipo di materiali; con questo tu comunque hai un’idea chiara del tipo di edificio che intendo costruire. Lo stesso è per Damanhur: la parte esoterica è come i dettagli minuziosi sui materiali; non conoscerla non ti impedisce di cogliere le caratteristiche generali del disegno di Damanhur , che è un disegno essenzialmente mistico (Pino, NE) La lettura del mio testo suscitò tra gli elfi sentimenti ambivalenti,

raccolti da Adriano e Matteo in una lettera fitta di osservazioni puntuali. Gli elfi si riconoscono nella rappresentazione della loro

32«Ma se l’antropologo parla e vive il punto di vista nativo, egli non traduce più nel proprio punto di vista, e perciò non comprende» (Borutti 1991: 141).

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cultura ma, nello stesso tempo, denunciano l’estraneità, l’inautenticità di quell’immagine in bianco e nero, fatta di carta e inchiostro.

Abbiamo letto insieme alcuni pezzi della tesi, quelli che ci riguardavano e da parte mia sono rimasto meravigliato per la correlazione quasi vera tra il nostro modus vivendi e le analisi che proponi. Direi che sei riuscito a dare forma a ciò che forma non ha, con buona approssimazione sei riuscito a trovare dei codici delle regole all’interno di ciò che si muove spontaneamente, che ha come assioma di base quello della rivoluzione permanente, del cambiamento continuo. Perciò ho apprezzato il tuo sforzo di analizzare e mi ci riconosco in parte e dico che è una bella tesi, quanto di meglio ci si potesse aspettare; ma avendo stabilito, definito dei codici di comportamento ne hai ucciso il senso, quello vero, che non si può esprimere con l’inchiostro perché è il divenire analisi-lotta-trasformazione o, più semplicemente, togliendo il retaggio intellettual-ideologico, il vivere. (Adriano) La lettera prosegue con un cenno - direi preoccupato - alle

possibili conseguenze della pubblicazione del lavoro e con l’indicazione. pagina per pagina, dei luoghi del testo nei quali la mia interpretazione della Valle diverge dalla loro.

Le osservazioni degli elfi riguardano alcuni aspetti minuti dell’economia comunitaria, riferiti alla distribuzione interna delle risorse e all’acquisizione dei contributi degli ospiti (il cosiddetto «cappello magico»). A ciò si aggiungono due notazioni che riguardano l’organizzazione sociale e politica della comunità: gli elfi tendono ora a negare, ora a minimizzare le diseguaglianza che, nei processi decisionali, separano gli uomini dalle donne e i nuovi arrivati dai più anziani; aspetti su cui ho raccolto una consistente documentazione empirica. Del pari contestata è la mia interpretazione del governo via «leggi di natura» (vedi par. 2.3), definita «metafisica». Infine, sia Adriano, sia Matteo, stentano a riconoscersi appieno nel racconto

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della loro vita, costruito con i materiali d’intervista, suggerendomi alcune rettifiche. Assieme alla lettera Adriano mi ha inviato due brevi testi sulla comunità, uno dei quali è riportato in Appendice.

Ho tenuto conto delle indicazioni degli elfi tutte le volte che, poste a confronto con la documentazione empirica, mi hanno persuaso. In tutti gli altri casi mi sono limitato a segnalare (a margine o in nota) il conflitto tra la mia e la loro interpretazione.

La descrizione della relazione osservativa che mi ha impegnato in

queste ultime pagine, la ricostruzione del contesto entro il quale gli asserti contenuti in questo volume hanno preso corpo, intende contribuire alla definizione dei limiti cui soggiacciono le mie interpretazioni (cfr. Eco 1990). Più in particolare le condizioni alle quali ho potuto osservare e partecipare alla vita degli elfi e dei damanhuriani consentono di ordinare i domini delle due culture in ragione della loro accessibilità allo sguardo e all’esperienza dell’osservatore, offrendo così al lettore gli elementi necessari a valutare la plausibilità degli asserti riferiti ora all’organizzazione sociale, ora al rito, ora all’esperienza del sacro della natura33. La struttura del volume, la collocazione degli argomenti nei capitoli e la successione di questi ultimi riflette, in modo grossolano, l’implicita stratificazione delle sfere di vita e degli asserti etnografici che discende dalla relazione osservativa. Dai resoconti descrittivi dei primi capitoli, passando attraverso il racconto delle storie di vita, il testo muove verso l’interpretazione di uno dei luoghi più elusivi delle due culture, il rapporto con la natura: avvolto dal segreto in un caso, espresso in un essenziale, sfuggente linguaggio corporeo nell’altro.

33Rinvio, ancora una volta ad Altheide e Johnson (1994) e al mio (1997a).

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Capitolo ottavo LO SPECCHIO, LA ROSA E IL LOTO

Il fiore è il simbolo del mistero del nostro spirito Novalis, Frammenti, § 1786

Il rapporto con il mondo della natura e l’esperienza del sacro che

ne scaturisce ha, nelle due comunità, forme diverse; tuttavia, prima di delineare, su di un piano tipico-ideale, le specificità del «sacro esoterico» e del «sacro ecologico», è opportuno sottolineare ciò che li accomuna. A Damanhur, così come nella Valle degli Elfi, la sacralizzazione della natura ha origine dalla dissoluzione della polarità uomo-natura, dalla ricomposizione ad uno della res cogitans e della res extensa, tra le quali viene tessuto un profondo legame religioso34. A questo esito elfi e damanhuriani approdano percorrendo due diversi itinerari, in un caso, nel «sacro ecologico», il processo si compie attraverso la desacralizzazione dell’uomo, la negazione della sua «unicità metafisica» (Passmore 1980, trad. it. 1991: 193) e, da qui, la sua «restituzione» alla natura; nell’altro, il «sacro esoterico», la natura diviene sacra perché parte dell’uomo, meglio, perché parte di una divinità caduta assimilabile al Dio Anthropos della tradizione gnostica,

34Legare, raccogliere, costituiscono - come noto - uno tra i più consistenti nuclei etimologici del concetto di religione (relegere). Di sfuggita si può osservare come nel pensiero occidentale, e ancor più nella tradizione sociologica, religione divenga esperienza di separazione, di radicale opposizione tra le «cose sacre» e le «cose profane». Accostato alla sacralizzazione della natura, o alla più solida tradizione spirituale dell’Oriente, questo concetto di religione - quello corrente - mostra dunque il proprio peculiare «eurocentrismo» (cfr. Filoramo, 1993, 620).

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le cui membra disperse sono riconoscibili tanto nell’uomo quanto nella Natura35. Nell’una così come nell’altra forma, l’esperienza del sacro prende corpo all’interno di una costante tensione tra alterità e appartenenza. Tra gli elfi questa tensione mette capo a due distinte espressioni del sacro, il sacro dualista e il sacro monista, rappresentati qui rispettivamente dalla rosa, simbolo della mistica occidentale, e dal loto, emblema della spiritualità orientale. Alterità e appartenenza appaiono invece a Damanhur congiunte in un’unica esperienza del sacro, nella quale la natura è, contemporaneamente, parte (confusa nel tutto) e particella (dispersa) dell’Anima-Uomo (vedi par. 7.1). Tutto ciò fa sì che l’esperienza del sacro ecologico e ancor più quella del sacro esoterico, poco o nulla abbiano in comune con la forma più convenzionale del sacro, quella di un sacro come alterità assoluta, che ha nelle religioni giudaico-cristiane il proprio paradigma.

Comune ad entrambe le culture è il rifiuto a connotare la propria esperienza come religiosa36. Tuttavia ciò che elfi e damanhuriani

35Il concetto di desacralizzazione dell’uomo presuppone la sedimentazione di un processo, quello di sacralizzazione dell’uomo, dai contorni sfocati, per il quale un chiarimento sembra doveroso. La sacralizzazione dell’uomo cui alludo nel testo ha origine, innanzitutto, nel pensiero cristiano e, in particolare, nella sua radice stoica (vedi Passmore, 1980, trad. it. 1991, 32). Qui l’unicità metafisica dell’uomo, il suo essere completamente altro rispetto alla natura, ha origine dal riconoscimento a questo ospite dell’ecosfera - a questo e a nessun altro - dello statuto di «figlio di Dio» (Passmore ivi: 193). Questa rappresentazione trova conferma e sostegno nell’ideologia scientista che ripone nelle mani dell’uomo, rese forti dalla techne, il sogno prometeico di un dominio incondizionato della natura, divenuta null’altro che materia inerte e caotica (vedi Jonas 1974, tr. it. 1991: 75; Abram, 1988, trad. it. 1992). È in questa sovranità tirannica, nel comando e nello sguardo padronale con cui l’uomo guarda alla natura che, con Horkheimer e Adorno, riconosciamo la matrice di una pretesa somiglianza dell’uomo al proprio Dio (1947, trad. it. 1966, 17). 36Vedi le osservazione con le quali si chiudono i paragrafi 6.2 e 7.1.

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rifiutano non ha nelle due comunità il medesimo profilo. Nella religione, più in particolare nelle comunità religiose, gli elfi vedono la Regola, l’oppressione di una ierocrazia oziosa, la tirannide di un maestro, la riduzione a vuota pantomima rituale di un sacro anarchico, selvaggio. Altri, ovviamente, sono gli argomenti dei damanhuriani, per nulla disturbati dalla Regola e dalla guida di un maestro. La religione che i damanhuriani rifiutano è, innanzitutto, il luogo del dogma, di un sapere di cui non si può fare esperienza, ma è anche il luogo di un’esperienza spirituale che pone al proprio centro non già l’uomo ma Dio, un Dio lontano sul piano ontologico - completamente altro - e allontanato dall’uomo dalla mediazione di una burocrazia sacerdotale priva di carisma e vocazione. La religione dalla cui contaminazione elfi e damanhuriani intendono proteggere la propria esperienza del sacro si configura, dunque, come un’impietosa caricatura delle religioni del Libro. L’irriducibilità di queste due esperienze alle religioni del Libro non equivale tuttavia alla loro estromissione dal novero delle disposizioni religiose (o, con Simmel dalle espressioni di «religiosità»; 1912), dove l’una sarà espressione di un sacro anarchico, l’altra, per così dire, di un sacro eretico (cfr. Léger e Hervieu, 1983, 104).

A queste disposizioni religiose, a Gran Burrone così come a Damanhur, corrisponde un’etica di responsabilità verso la natura, fondata sul riconoscimento del valore intrinseco di tutti gli «ospiti» del pianeta. Un atteggiamento etico che elfi e damanhuriani esprimono con toni ed accenti diversi in quanto ho definito «biocentrismo morbido», per Gran Burrone, e «antropocentrismo morbido», per Damanhur (vedi par. 6.2 e 7.1). L’aggettivo morbido, riferito alle disposizioni etiche delle due comunità, indica un’accezione di biocentrismo e antropocentrismo, diversa da quelle accolte correntemente nel dibattito etico.

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Il termine antropocentrismo indica un atteggiamento etico che fa coincidere la sfera delle relazioni morali con quella delle relazioni interumane, giungendo a considerare moralmente irrilevante il rapporto dell’uomo con la natura. La natura in questa luce diviene nulla più di un serbatoio di risorse cui l’uomo - libero da qualsiasi vincolo morale - può attingere a proprio piacimento. Priva di valore intrinseco, la natura assume esclusivamente un valore strumentale, in ragione della capacità mostrata da animali, vegetali e minerali di soddisfare i bisogni, talvolta i capricci, della specie umana. Nell’accezione più restrittiva (che esclude gli sviluppi dell’utilitarismo e quelli della morale cristiana) l’antropocentrismo pone l’uomo al centro dell’universo etico, sollevandolo da ogni responsabilità morale nei confronti della natura37.

Il biocentrismo è il principio che ispira le correnti più radicali della cosiddetta «etica ecologica», prima tra tutte la deep ecology38. L’etica ecologica muove dal riconoscimento della necessità di estendere l’ambito della moralità al di là dei confini dei rapporti umani. Il movimento della deep ecology persegue questo obiettivo nel modo più radicale, ponendo al centro del discorso etico non più l’uomo ma l’ecosfera, intesa come l’insieme di relazioni che lega i membri della «comunità biotica», e sostenendo l’impossibilità di una fondata distinzione morale tra io e natura (cfr. Bartolommei 1989: 37Su questi temi si vedano: Bartolommei (1989), Jonas (1974), Naess (1976), Passmore (1980), Thomas (1983). 38La locuzione deep ecology, ecologia profonda, opposta a shallow ecology, ecologia di superficie, è stata introdotta dal filosofo norvegese Arne Naess con un saggio pubblicato all’inizio degli anni Settanta. Prima di allora la questione dei «diritti della natura» venne affrontata nel medesimo registro da Aldo Leopold (1949) e, più tardi, in chiave apertamente polemica da Lynn White Jr. (1967). Per una presentazione critica del movimento della deep ecology si veda Bartolommei (1989), in particolare i capitoli secondo e terzo.

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cap. 3). Tra «io» e «ambiente», sostiene John Baird Callicot39, non esiste un confine netto, «io» e «ambiente» sono la stessa cosa osservata da punti di vista differenti. L’interpretazione restrittiva di questi precetti - dalla quale lo stesso Naess sembra discostarsi (vedi Salio 1994) - conduce a esiti sociali quantomeno impopolari e a un paradossale indebolimento dell’obbligazione morale che lega l’uomo alla natura (cfr. Bartolommei 1989: 55). Il principio guida di questa «nuova etica» è espresso con particolare chiarezza nelle parole di Aldo Leopold, ecologista profondo ante-litteram: «una cosa è giusta se tende a preservare l’integrità, la stabilità, la bellezza della comunità biotica; è ingiusta quando tende altrimenti» (1949, citato in Bartolommei 1989: 51). Poiché la crescita demografica, con i propri corollari di inquinamento e devastazione ambientali, è in aperto conflitto con il benessere della comunità biotica, tutto ciò che in natura o nella società, promuove un declino demografico della specie dovrà essere salutato come un bene40. A quest’ordine di difficoltà si aggiunge un problema - a mio giudizio più grave - che discende dalla negazione di ogni differenza morale tra uomo e natura. L’uomo, confuso nel campo di relazioni di cui si compone il pianeta, si vede sottrarre, con le prerogative del sovrano della natura, anche la responsabilità etica nei suoi confronti. E questo fa sì che venga meno la possibilità di legare con un obbligazione morale chi più di ogni altro può influire sul destino della «comunità biotica» (cfr. Bartolommei 1989: 55 e 75).

L’atteggiamento etico di elfi e damanhuriani muove da un vivo sentimento di comunione con il mondo della natura, un sentire che, mentre lega l’uomo alla natura, riconosce le differenze che lo

39J. Baird Callicot, The Metaphysical Implications of Ecology, in «Enviromental Ethics», 1986, citato in Bartolommei (1989: 59) 40L’argomento è discusso in Passmore (1980, tr. it. 1991) al capitolo 6.

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separano dagli altri ospiti del pianeta. Questa diversità fonda, a Damanhur così come a Gran Burrone, la responsabilità dell’uomo verso la natura, negata nell’antropocentrismo radicale , svuotata di senso nel biocentrismo radicale . L’allargamento dell’ambito della moralità al di là dei confini angusti del «personalismo etico» (Bartolommei 1989: 45), del riconoscimento alle sole persone dello status di agente e paziente morale, non conduce, nell’una così come nell’altra comunità, alla dissoluzione del soggetto etico e con ciò all’erosione delle sue responsabilità, implicite nelle tesi del biocentrismo radicale.

Lo stile di vita degli elfi del Gran Burrone esprime un atteggiamento etico che unisce al riconoscimento delle differenze che separano l’uomo dagli altri membri della «comunità biotica», l’eguaglianza dei diritti di ognuno41. Il rapporto con la natura assume così la forma di una relazione simbiotica, basa sulla cooperazione responsabile dell’uomo, del soggetto che - nel bene e nel male - mostra la maggiore capacità d’azione.

L’uomo può, e delle volte deve, interferire con la natura: il bosco non va abbandonato, nemmeno il campo dove si toglie la gramigna; ma l’uomo deve intervenire senza violenza. [...] Ci deve essere un’armonia tra l’uomo e la natura, ma lo stimolo deve venire dall’uomo che è più veloce. (Paolo, NE)

Espresso in questa chiave, il biocentrismo di Gran Burrone sfugge ai paradossi delle correnti più radicali dell’etica ecologica (vedi sopra), evita le implicazioni dispotiche racchiuse nelle concezioni sostanzialiste, assiologiche, delle leggi di natura42, espunge dal proprio 41Una disposizione in sintonia con le tesi di Bookchin (1982, tr. it. 1988: 32). 42Un esito cui non dà prova di sapersi sottrarre neppure l’eco-anarchismo di Bookchin, laddove riconosce alla natura un «logos intrinseco», la presenza in natura

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discorso tutti gli accenti di misantropia che punteggiano le espressioni più radicali del «pensiero verde» (vedi Perussia 1989: 137).

Ciò che a Damanhur consente di coniugare la centralità dell’uomo con la responsabilità verso la natura ha a che fare, d’un canto, con il mito teocosmogonico dello specchio (vedi par. 7.1), dall’altro con il «pensiero magico». La magia rende vivi e pensanti (non solo «senzienti») tutti gli ospiti del pianeta e tesse tra loro una rete di «sottili» simpatie. La rappresentazione magica del mondo estende ben al di là della sfera umana i confini di ciò che, in senso proprio, possiamo definire come una comunità morale, una comunità caratterizzata dalla comunanza di interessi e dal riconoscimento di impegni reciproci da parte dei suoi membri (cfr. Passmore 1980, tr. it. 1991: 126). I damanhuriani, ad esempio, hanno stipulato un patto (per certi versi un contratto) con gli spiriti di natura del luogo (vedi par. 3.1), mostrandosi capaci di una singolare estensione della sfera del diritto. Poiché i damanhuriani credono nella forza di questo patto, le sue conseguenze, ad esempio quelle etiche, saranno reali - recita il cosiddetto «teorema di Thomas» - indipendentemente dalla dall’esistenza degli spiriti di natura.

Nella Valle degli Elfi la sacralizzazione della natura ha origine

dalle condizioni materiali d’esistenza della comunità, nell’esperienza corale del lavoro sui campi, nel quotidiano incontro con il bosco, attraversato in solitudine con una fascina, o con un sacco di castagne sulle spalle. All’interno di questa cornice prende forma la viva consapevolezza del legame di reciproca dipendenza che unisce la comunità al proprio territorio, legame dalla cui tenuta dipende la

di una ragione che presiede all’autorganizzazione della sostanza (1982, tr. it. 1988: 35 e 531-2). Su questo tema si veda Dellavalle (1992: 146, 159).

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sopravvivenza tanto degli Elfi quanto della loro Valle 43. La natura diviene madre premurosa ma, al contempo, bisognosa di protezione; forte nel suo erigersi contro la civiltà industriale, ma, al contempo, vulnerabile e vulnerata dalla techne. Le montagne che cingono la valle diventano i confini di uno spazio sacro nel quale la Natura, luogo dell’autenticità e della libertà, si oppone all’artificio e all’oppressione della Società, nel quale la communitas si erge contro la struttura (Turner 1969). All'innalzamento dello statuto ontologico e morale della natura corrisponde la radicale desacralizzazione dell'uomo. Viene meno tra gli elfi la convinzione dell'assoluta superiorità dell'uomo su tutto ciò che, con lui, è parte dell’ecosfera, una convinzione che ha in Occidente radici profonde (vedi la nota 2). La sovranità dell'uomo sulla natura, che autorizza e incoraggia la hybris, nel dominio e nell'uso incondizionato di tutto ciò che può servire al progresso dell'umanità, viene negata attraverso la radicale svalutazione di quanto, la scienza e la religione egemoni, riconoscono come fondamento legittimo di questo dominio, l'intelletto, la ragione. Alla Ragione trionfante della cultura illuminista gli elfi contrappongono le ragioni del corpo, della sensualità, riconosciute l'espressione più autentica della natura umana. Su questo terreno, che vede la natura restituita all’incanto e l’uomo ad essa, affondano le radici i due «momenti» del sacro ecologico, il sacro dualista e quello monista.

La rosa, ovvero il sacro dualista ha origine dal tentativo di esprimere la sacralità della natura con le categorie e il lessico del

43Un’analoga chiave interpretativa viene proposta da Léger ed Hervieu nello studio, più volte citato, sulle comunità neo-apocalittiche del sud della Francia. Gli autori, in particolare, indicano nell’esperienza della «dipendenza ecologica» la condizione che ha innescato la trasformazione in chiave religiosa di un movimento sociale di protesta (1983, 179).

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«teismo tradizionale»44, le sole di cui dispone la più parte degli individui che abbiano ricevuto nel nostro Paese la propria educazione religiosa. Gli elementi costitutivi di questo sapere religioso sono tre: l’assoluta trascendenza di Dio e dunque la sua radicale alterità rispetto al mondo; l’onnipotenza di Dio; l’attribuzione a Dio di un interesse attivo e partecipe per la vicenda cosmica dell’uomo. Collocato in questa cornice il sacro della natura diviene una versione tutt’affatto speciale della cosiddetta sacralizzazione delle cause seconde (causa prima è Dio), una declinazione del sacro che ha nel francescanesimo e, ancor più nel pensiero di Lanza del Vasto, la propria espressione più nitida45. La specificità della versione ecologica della sacralizzazione delle cause seconde deriva dal rilassamento dei precetti del teismo tradizionale e dalla combinazione di queste categorie con altre ispirate all’animus religioso delle civiltà illetterate. Con la rosa la natura diviene l’opera di creazione di un Dio che radicalizza la propria alterità rispetto al mondo allontanandosene, per diventare un Dio ozioso, molto simile alle divinità lontane di alcuni popoli primitivi, un Dio privato della propria onnipotenza e reso così compatibile con l'immagine di una natura vulnerabile e vulnerata. In questa espressione del sacro, a differenza delle forme più convenzionali di sacralizzazione delle cause seconde, la devozione si sposta dal creatore al creato. Dio, ormai lontano,

44La locuzione teismo tradizionale è intesa qui nell'accezione propria della cosiddetta «nuova teologia», espressa nelle opere di Rudolf Bultmann, Dietrich Bonhoffer, Paul Tillich e, soprattutto, nei lavori di John A.T. Robinson e Thomas J.J. Altizer (vedi Fornero, 1991, cap. 2). 45Per un’illustrazione della dottrina religiosa di Lanza del Vasto e della filosofia che ispira le comunità dell’Arca si veda Del Vasto (1978, trad. it. 1980). A una concisa descrizione di una delle comunità dell’Arca insediata in Italia, quella di Lugnacco, sono dedicate alcune pagine del par. 1.1.

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diviene nulla più di un’ipotesi di lavoro, quasi un espediente retorico per risolvere alla svelta il problema delle origini del mondo. Basti per tutti la testimonianza di Silvia, raccolta nel corso di un’intervista.

Io vivo in una dimensione religiosa con la natura nel rispetto massimo della natura: non mangio carne e non ho ucciso nessun animale non uccido neanche una formica. Rispetto la vita in tutte le sue forme, mi dispiace di tagliare un albero, mi dispiace di tagliare anche l'erba [...] La mia religiosità consiste nel rispettare la natura e qualsiasi essere vivente al massimo delle mie capacità, delle mie possibilità, di vedere la sacralità in tutto, in tutto ciò che esiste perché ogni forma vivente è sacra e io non ho il diritto di fare violenza per niente su qualsiasi forma vivente. Questa è la mia religiosità, nel ringraziare tutto quello che ciò e nel rispettarlo tutto quello che c'è intorno del rispettarlo cioè è una forma di non violenza, poi non prego Dio non ci penso neanche anche se magari è stato lui a creare tutto questo, non so da dove viene va al di là delle mie capacità di sapere non possiamo sapere. (Silvia, I) L’altro elemento da cui dipende la particolarità della rosa riguarda

la tendenza a rappresentare il creato e le relazioni con esso in chiave energetica («energia» è il termine usato dagli Elfi). In particolare la natura appare qui come pervasa da una forza vastissima e solenne, simile, sotto molti punti di vista, al wakan degli Indiani d’America o al mana delle tribù polinesiane (cfr. Zolla 1996: 106). Questo conduce a rappresentare l’incessante attività della natura come sospinta da una forza vitale, misteriosa e massimamente potente, che determinate circostanze consento di percepire e con la quale è possibile entrare in sintonia. La potenza creatrice del Dio lontano viene così trasferita nella natura che, da creata, diviene soprattutto creante.

Nella seconda espressione del sacro ecologico, il loto, si infrangono tutte le barriere che separano l’uomo dalla natura: la natura diviene sacra nell’unione con l’uomo: due ed uno ad un

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tempo46. Uomo e natura, benché uniti, non sono uno, poiché la coscienza del proprio sé, della propria autonomia e con essa della propria responsabilità verso la natura, resta sempre vigile. Uomo e natura non sono neppure due, poiché diviene nitido qui il sentimento di appartenenza alla comunità biotica, intesa più come pluralità di espressioni di quell'unica energia cui spesso si riferiscono i discorsi degli elfi, che come consorzio di individui distinti. Il loto, dunque, è esperienza di unità nella dualità (vedi la nota 13).

Divenuta sacra, la natura perde qui ogni attributo di trascendenza, di soprannaturalità, proprio perché nel loto è la nozione stessa di soprannaturale a venir meno. Si tratta di un’esperienza che poco o nulla ha a che fare con l’estasi (che letteralmente significa essere-fuori-di-sé) dei mistici occidentali, una situazione di elevata ispirazione nella quale è possibile ascoltare la voce di Dio. Il loto mostra invece una somiglianza più stretta con la «contemplazione priva di meditazione» dei mistici orientali (vedi ad esempio Ma gcig 1995: 59-60), con la lucida consapevolezza della comunione tra io e mondo, tra l’uomo e la natura, attraversati da un solo sensuale respiro. Da questa peculiare dissoluzione dell'uomo nella natura discende il venir meno del concetto dualista di rapporto con essa, con le parole di Paolo: «non si tratta tanto di rapporto con la natura, perché io sono nella natura, io sono natura». All'idea di rapporto, d'incontro con qualcosa di altro (o di totalmente altro) da sé, si sostituisce il sentimento di fusione sensuale che accompagna tutti i gesti della vita quotidiana, e che trova nel rito - primo tra tutti quello della capanna sudatoria - la propria espressione più compiuta.

46La diade uomo / natura si risolve in una triade, dove l’unione, il tratto distintivo dell’esperienza del loto, media tra soggetto e oggetto, tra uomo e natura. Traggo questa tesi da Zolla (1996: 8).

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Questo rapporto con la natura ce l'hai sempre [...] Un giorno entri nell'orto e c'è la terra bagnata e la terra che si compatta sotto i tuoi piedi e che stride, che urla, che piange e l'altro giorno la calpesti e non senti questo impatto di violenza di che le fai del male, senti di essere accettato. Un giorno tagli una ginestra e senti dalle vibrazione che è meglio non farlo, che è sbagliato quell'azione, vai contro l'energia, entri in un bosco che non ti è permesso, che ha tutte le forze ti si rivoltano contro, e l'altro giorno tutto ti è concesso, puoi anche tagliare la ginestra. Il rapporto intimo con la natura, è il sentire le energie vitali, che pulsano in quel momento. Perché tutta la natura è viva, tutto si esprime, solo che noi non abbiamo le orecchie per ascoltare. (Adriano, I). Nello specchio, emblema del sacro esoterico, si riflettono,

sovrapposte e al contempo trasfigurate, la rosa e il loto, alterità e identificazione, depotenziate e unite ad un tempo. Ciò che fonda questa esperienza del sacro non è più il vissuto di una dipendenza ecologica dalla natura - Damanhur non è una comunità rurale - ma l’iniziazione alla magia, alla visione magica del mondo. Con l’iniziazione i damanhuriani acquisiscono una nuova «grammatica» (Wittgenstein 1953), la capacità di organizzare cognitivamente la propria percezione del mondo in un modo completamente altro rispetto a quella dell’esperienza ordinaria (vedi par. 7.1). Tutto ciò conduce a una ridefinizione del concetto e della prassi riferiti alla natura. La nozione damanhuriana di natura, i confini del dominio semantico delimitato da questo termine, sono molto diversi da quelli più comunemente accettati. Per i damanhuriani la natura comprende, oltre all’uomo, gli animali, i vegetali e i minerali, un insieme di forze e intelligenze sottili, primi fra tutti gli spiriti di natura. Diversa è anche la prassi, il rapporto con la natura, che non si esaurisce nell’attenzione ecologica per l’ambiente - peraltro molto viva - ma si estende al piano magico, emblematico in tal senso è il progetto Pan Revive,

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un’azione di «ecologia magica» diretta al risveglio di Pan47. È singolare osservare al riguardo come il legame con gli abitanti di questo mondo della natura sia tanto più stretto, tanto più celebrato, quanto maggiore è la loro distanza filogenetica dall’uomo48. Nell’immaginario damanhuriano le piante, ad esempio, hanno uno spazio e un rilievo decisamente maggiore dei più vicini animali. Una preferenza non priva di buone ragioni, esposte con chiarezza in Parlare con le piante, dove si dice che proprio grazie al contatto con le piante diviene possibile superare quell’ insidioso «pregiudizio di specie» che tanta parte ha nella distruzione della natura:

Il contatto con il mondo vegetale è un ottimo banco di prova, un campo di ricerca eccezionale allo scopo. Sufficientemente lontane da noi da non essere più umanizzabili, come spesso e volentieri facciamo con gli animali, le piante hanno però ancora caratteri sufficientemente vicini e riconducibili a noi, non foss’altro perché con noi umani condividono un pianeta, da risultare avvicinabili senza bisogno di eccessive rotture con il patrimonio di credenze e il comune modo di pensare. (ParPi: 72) Altre e più «sottili» sono le ragioni che danno conto della

peculiarità del rapporto istituito a Damanhur con il mondo della natura (vedi par. 7.1). Uniti in origine, come recita il mito cosmologico dello specchio, l’uomo e la natura conservano anche dopo «la caduta» un legame strettissimo. L’anima umana, dopo la morte del corpo che l’ha ospitata, si reincarna non solo nella «forma-uomo», ma anche e contemporaneamente in forme ora vegetali, ora animali, tessendo, da una vita alla successiva, un legame sempre più stretto con il mondo della natura. Di questo legame «sottile» dà conto altresì una fitta rete

47Su questi temi si veda il capitolo 3. 48Una tendenza in contrasto con quella dominante rilevata da Perussia (1989: 27).

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di corrispondenze tra l’uomo e Gaia, il pianeta che a questa forma offre ospitalità, tra microcosmo e macrocosmo.

Lo specchio, più precisamente la versione damanhuriana di questo mito, costituisce, oltre che l’emblema, la chiave per la comprensione del sacro esoterico. Il mito - storia esemplare e modello per l’azione - racconta una storia in quattro atti: l’aurea unità delle origini, la frantumazione dello specchio, la ricomposizione dei frammenti dispersi e l’unità riconquistata. Damanhur vive oggi il momento della ricomposizione, una fase nella quale l’Anima-Uomo sperimenta, ad un tempo, la separazione dei frammenti dispersi e l’unione fra le parti ricongiunte. A ciò corrispondono due modi distinti di partecipare alla vicenda cosmica dell’Anima-Uomo e con ciò di vivere l’esperienza del sacro della natura: l’identificazione e la comunione. Diversi tra loro nel grado di oggettivazione della natura - elevata per la comunione, contenuta per l’identificazione - questi due momenti del sacro esoterico corrispondono a due distinte chiavi di lettura del mito dello specchio, o meglio, a due diverse strategie d’attenzione. In un caso, nell’identificazione, l’attenzione è riposta principalmente sui frammenti ricomposti, con uno sguardo che abbraccia l’origine e il destino ultimo dell’Anima-Uomo: l’esperienza dell’unità. Nell’altro, la comunione, l’attenzione è rivolta ai frammenti dispersi e all’azione stessa del ricondurli a sé. Il rapporto, là di fusione mistica, diviene qui di dialogo, approssimandosi rispettivamente alla figura del loto e della rosa. Comunione e identificazione - distinti, ma non antitetici - si succedono nel vissuto di ciascun devoto come due facce di una stessa moneta49. Una successione che, diversamente dal lancio di una

49La compresenza delle due disposizioni è particolarmente evidente nella testimonianza di Ortensia: «Ci si identifica non più in se stessi, nella propria individualità, nel proprio ego, ma si comincia ad educarsi, a far parte di un tutto, si può veramente dialogare con tutto».

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moneta, non è aleatoria, ma nella quale si riflettono la cultura, le esperienze, la forma mentis, di ciascun devoto. I due momenti del sacro esoterico, benché affini l’uno alla rosa, l’altro al loto, non coincidono con essi. Nell’identificazione, infatti, permane sempre un residuo di alterità, così come nella comunione la consapevolezza di un’origine e un destino comuni consente un’identificazione con la natura maggiore di quella che contraddistingue la rosa.

Il sentimento di identificazione con L’Anima-Uomo, e da qui con la natura, assume tipicamente due forme, distinguibili proprio grazie a quel residuo di alterità che accompagna questa esperienza del sacro. Nella prima l’iniziato descrive la propria esperienza del sacro della natura come «compartecipazione» (Primula, NE) del proprio frammento di anima al tutto, come identificazione e dissoluzione in un rassicurante macrocosmo, nella totalità dell’ «ecosistema spirituale». (Campanula, I). Il secondo modo dell’identificazione - più diffuso del precedente - è l’esperienza delle «distese interiori del cosmo» è il viaggio da «entronauta» (Leccio, I) nel proprio sé più profondo, che si scopre abitato da tutti i frammenti dell’Anima-Uomo. Un’esperienza che, per taluni, scaturisce dal rapporto con le piante, con il bosco che diviene così medium del sacro della natura o, con le parole dell’autore di Parlare con le piante , «levatrice».

La ricerca del contatto con le piante può portarci lontano, ben oltre l’iniziale constatazione della loro vitalità e sensibilità, aiutandoci a scoprire forze e presenze che abitano la nostra psiche e da essa si proiettano nella realtà esteriore e viceversa. [...] la ricerca di un contatto con il mondo vegetale, il parlare con le piante, comporta l’apertura di un dialogo profondo anche in sé, una scoperta di che cosa ci sia appena sotto la superficie. e poi anche più giù, nel profondo. Là dove l’essere è

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ora umano, ora albero, ora animale o elemento e tutte le cose insieme. (ParPi, 95 e 56)

L’esperienza del sacro della natura come comunione è

principalmente dialogo, ora con le piante, ora con gli spiriti di natura, ora con Dio stesso, interlocutori che - caso per caso - assumono gradi diversi di personificazione. Emblematico in tal senso è il rapporto con gli spiriti di natura. L’incontro con la corte di Pan, mediatrice qui del sacro della natura, viene descritto dai più come il sentire oscuro e indistinto di un’energia misteriosa di cui si avverte con certezza l’esistenza, ma la cui natura resta sconosciuta, «eterica» (Quercia, NE). Per altri, di contro, il rapporto con gli spiriti di natura coinvolge entità personali, dotate di una fisionomia ben definita, capaci di parlare un linguaggio comprensibile all’uomo e di agire nel mondo. Basti per tutte la poetica testimonianza di Azalea, una tra le fondatrici di Damanhur.

Ai primissimi tempi di Damanhur, mi ricordo che c’era parecchio lavoro da fare e a volte arrivavano anche dei momenti in cui dici non ce la faccio a far tutto, e io in quel momento ero un po’ triste. Dove abitavo io c’era una roccia [...] e lì erano nate delle violette spontaneamente, mi pare avesse nevicato, quindi anche in una stagione che non era proprio adatta. Mi ricordo che alcuni avevano fatto una seduta spiritica, e in questa seduta è venuta la fatina di queste violette a portare un messaggio per me [...] E questa fatina - che si chiamava Violetta - gli aveva detto di andare a dirmi di essere meno triste e che lei aveva fatto nascere queste violette per me, per rallegrarmi e quindi di essere più allegra. (Azalea, I)

L’esperienza del sacro esoterico, quale che sia la sua forma, ha

nel rito l’espressione più compiuta. È attraverso i gesti compassati del rito, nella messa in scena corale ed assorta della sua liturgia, che i

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damanhuriani stabiliscono, nel modo più efficace, un legame con il sacro della natura (vedi par. 7.2). Il rito a Damanhur, oltre ad essere un modello di ciò in cui credono i damanhuriani - e dunque una chiave per l’interpretazione della loro cultura - è altresì un modello, ad uso dei damanhuriani, per credervi (Geertz, 1966, trad. it. 1987, 147), per essere tutt’uno con l’Anima-Uomo e con il sacro che la abita.

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Appendice

CHI SONO GLI ELFI?

Rispondere a questa domanda è un arduo problema, ma, ammesso che si possa raccontare qualcosa degli elfi, è bene che sia un’informazione diretta un tantino attendibile, per non dare adito ad illazioni o speculazioni di chi tende a denigrare la vita degli elfi o di chi addirittura la mitizza50. Quindi, concesso che sono persone normali, come quelle che incontrate quotidianamente nella vita comune, ciò che li diversifica è il loro modo di vivere e di concepire il rapporto tra loro e con la natura. Li diversifica non per volontà loro perché la loro realtà non vorrebbe essere separata dal resto del mondo, ma giocoforza, dopo le discriminazioni subite da parte delle forze istituzionali, per difendersi hanno dovuto dare vita ad un’ipotetica associazione. «il popolo elfico della valle dei burroni», costituita legalmente, ma che esiste ed esisteva già di fatto più che formalmente in quanto la carta stampata gode di poca considerazione tra gli elfi. Più reale e veritiero è il rapporto concreto tra le persone e con l’ambiente. È inutile sancire dei grossi teoremi quando poi nella pratica vengono disattesi, la coerenza tra ciò che si dice e ciò che si

50Questo testo è stato redatto da Adriano che me lo ha spedito assieme ad alcuni commenti a una versione precedente di questo lavoro (vedi par. 1.2.4). Si tratta di una trascrizione letterale.

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fa è uno dei parametri fondamentali per l’identificazione soggettiva e del gruppo. Gli elfi, dei quali abbiamo adottato il nome, per fare un po’ di storia, sono un popolo che appartiene alla mitologia nordica, che od aveva (d’ora in poi userò il verbo al passato ma sarà valido anche il presente perché esistono tuttora) la propria dimora nei boschi nei quali riuscivano a vivere egregiamente conoscendone tutti i segreti e le implicazioni. Un popolo amico quindi dei regni animali e vegetali coi quali conviveva in reciproca armonia e collaborazione (oggi ne condivide le sofferenze purtroppo per lo sterminio e i maltrattamenti causati dagli uomini). Una mitologia che ha dato origine a tante storie e leggende tramandate fino a noi di cui le più note sono quelle che si possono leggere nei libri di Tolkien: «Il signore degli anelli», «Silmarillion», «L’Hobbit», «Racconti incompiuti» e «Racconti ritrovati», ma si possono ascoltare ancora a voce nelle campagne del Nord di Inghilterra, nel Galles o nell’Irlanda per bocca di qualche vecchie tto che la sa lunga...

Ma non è vero che esistevano solo al Nord poiché era possibile incontrarli ovunque dove la natura era vergine e non contaminata dalle luci, rumori e smog artificiali prodotti dalla tecnologia dell’uomo. Gli elfi erano (e sono) talmente diffidenti rispetto a queste invenzioni che tuttora si nascondono e scappano lontano da quei mostri trogloditi dei motori contemporanei. Nonostante ciò, gli elfi dell’Appennino hanno accettato il compromesso con la tecnologia perché si sono dotati di un trattore ed un generatore per fare funzionare una combinata (sega, pialla, fresa) ma a condizione, condivisa da tutti, di usarli il meno possibile e di regalarli qualora non siano più necessari. Il loro uso è stato ritenuto indispensabile per alleviare il lavoro manuale e degli animali su quei campi abbandonati da oltre un decennio e per il rifacimento degli infissi e pavimenti delle loro case che sono tutti in legno. Questo ha fatto sì che i veri elfi, gnomi e fate che popolavano quei boschi si siano allontanati un po’ ma senza interrompere il

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rapporto con gli elfi odierni che permane di reciproca fiducia, rispetto e collaborazione. Infatti, grazie al loro aiuto copiosi sono i raccolti di ogni sorta verdure, legumi e cereali, ahimé per quest’ultimo genere di coltivazione la produzione non è ancora sufficiente avendo a che fare con i cervi e i cinghiali che numerosi abitano quelle radure e si nutrono anche di ciò che gli elfi non riescono a difendere. La terra è provvida di ogni ricchezza e gli elfi hanno imparato a conoscerla cibandosi e curandosi con moltissime erbe e frutte selvatiche più ricche di nutrimento e a coltivarla ottenendo così sempre dei raccolti abbondanti che scambiano con gli amici o vanno a vivificare le innumerevoli feste nelle loro case ma anche nei parchi vicini alle città di tutt’Italia dove la gente ha occasione di conoscerli e di degustare il sapore dei loro cibi naturali. È dodici anni che vivono su queste montagne, ormai hanno superato le grosse difficoltà di ri-conoscenza, di adattamento, autosufficienza e ristrutturazione, così la loro vita si svolge serena ed in armonia con i ritmi della natura.

Sono nati tanti bambini che sono diventati dei veri elfetti, si aggirano tutti i giorni per i boschi entrando in comunicazione diretta con le forze della natura. Non fanno tanti capricci, non sono tanto viziati, non hanno paura del buio o del lupo mannaro poiché i loro papà e mamma non gli impongono niente e non gli incutono timore per farsi rispettare. Imparano da piccoli ad essere creativi e a collaborare con i grandi per arricchire la vita della gioia e della serenità che sono i principali ingredienti di quel grande mondo che è il loro regno nel quale non a tutti è permesso di entrare per non turbare quell’armonia densa di felicità.

Si scaldano e cucinano col fuoco a legna, non hanno elettricità e televisione, le notizie arrivano così solo di quando in quando, ma agli elfi non manca nulla di quello che è importante per loro. Anche gli animali, gli insetti, gli alberi, ogni filo d’erba condivide la stessa sorte poiché la vita è sacra in ogni suo componente e vengono trattati da

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pari in ogni istante. Quando una decisione crudele deve essere presa nei loro confronti perché danneggiano le colture o altre piante per troppa densità o antagonismo nello stesso spazio vitale, gli elfi, solo in queste condizioni tagliano o recidono la vita arrogandosi la scelta degli esemplari più sani da lasciar, ma ogni volta chiedono scusa con la consapevolezza d’altronde che anche loro andranno ad ingrassare gli alberi, l’erba, gli insetti dopo morti nel ciclo eterno della vita e della morte che si rigenerano a vicenda.

In questa conoscenza della reciprocità ed interdipendenza tra tutti gli esseri sta il segreto della vita che porta alla coscienza di quel che è, sono, siamo, sono, alla comprensione dell’unità fondamentale e della differenza apparente che anima tutte le forme di vita e all’umiltà nella considerazione di qual è lo scopo reale della nostra esistenza.

Adriano, giugno 1994

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