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    La città nel XX secolo: il successo infelice

    di Emanuele Sgroi

    Estratto dal volume  Enciclopedia Italiana. Eredità del Novecento, Enciclopedia Italiana Treccani2001, pp. 1050-1068

    SOMMARIO: 1. Il secolo delle città: dinamiche urbane nel XX secolo. 1a.  Alla ricerca della cittànel XX secolo. 1b. Le trasformazioni della forma e del significato della città. 1c. Tra città e urbano:è già metropoli.  2. L’egemonia urbana. 2a. Un mondo urbanizzato. 2b. La città che cambia. 2c. I

     fattori del successo urbano. 3. La coscienza infelice. 3a.  La mitologia dell’antiurbanesimo. 3b.Crisi e critica della città. 3c. Le grandi paure urbane. 3d. L’incubo e la sfida. Bibliografia.

    1. Il secolo delle città: dinamiche urbane nel XX secolo.

    1a. Alla ricerca della città nel XX secolo.

    Si può utilizzare la definizione di “secolo breve” a proposito del XX secolo, a condizione disottolineare come esso appaia troppo breve per la folla di eventi e di processi di mutamento che èstato “costretto” a ospitare: eventi e processi che sono stati capaci di mutare più volte - in unmovimento che ci appare pendolare - l’ambiente del pianeta, la geografia politica, l’ordinamentoeconomico, il patrimonio di idee e di tecniche, le forme di regolazione politico-istituzionale,finanche la consistenza demografica e le modalità della mobilità di merci, informazioni e uomini sul

     pianeta.Anche i fenomeni urbani hanno fatto la loro parte nel movimentare la realtà di questo secolo. Lacittà industriale aveva già raggiunto la fase della maturità in gran parte dell’Occidente europeo enegli Stati Uniti all’alba del Novecento, mentre ancora sopravviveva - e la sua vita sarebbecontinuata per più di metà del secolo - nel Mezzogiorno d’Italia, così come in altri “mezzogiorni”europei, la città contadina; vecchie e gloriose realtà metropolitane ereditavano, pur nelladissoluzione o nel declino degli imperi di cui erano la proiezione, un ruolo egemone e altre realtàmetropolitane emergenti lo acquisivano, presentandosi le une e le altre con il nuovo volto di  globalcity. La “haussmannizzazione” della città riesce a far sentire la sua influenza ancora nel nostrosecolo, mentre al contempo cresce la reazione del Movimento moderno e dell’urbanistica razio-nalista e si sperimenta concretamente l’ambizione di disegnare, attraverso un nuovo edificio, un

    quartiere, una città l’armonico assetto di una nuova società; decolonizzazione, esplosionedemografica e inurbamento di massa fanno lievitare il fenomeno delle metropoli nel Terzo Mondo;infine, la città postmoderna afferma il suo volto complesso e ambiguo, attraversandoimpetuosamente - e con esiti ancora oggi imprevedibili - i confini del vecchio, compattoordinamento fordista con i suoi imperativi di concentrazione spaziale, di zonizzazione funzionale, dicontrollo tendenziale degli stili e dei tempi di lavoro, di consumo, di impiego del tempo libero diestese masse di abitanti, lavoratori, utenti urbani.

    È per questo forse che siamo usciti dal Novecento con minori certezze su che cosa sia la città diquante non ne avessimo all’inizio del secolo.Sembrerebbe una contraddizione, ma quanto più è evidente e imponente il fenomeno urbano nelmondo contemporaneo, tanto più sembra difficile individuare quei caratteri necessari a definire la

    città, a distinguerla da tutto ciò che non è città. Un disagio conoscitivo assai diffuso, anchenell’ambito degli studiosi dei fenomeni urbani, ha condotto non solo all’abbandono di quelleconcezioni “forti” dell’urbano che avevano caratterizzato l’analisi sociologica della città, ma

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    D’altra parte, anche la città vede sbiadire i suoi connotati tradizionali: “Lo spaziocontemporaneo dell’abitare propone immagini tanto estranee all’idea di città sedimentata nellacoscienza collettiva, quanto aderenti ai nuovi fenomeni sociali e culturali” (v. Ricci, 1996, p. 10).Ciò non impedisce, però, che anche chi è lontano dalla città definisca i suoi orizzonti esistenziali inrapporto costante con essa, magari inventandosi “una città che non esiste da nessuna parte macontinua a trasmettere promesse” (v. Berger e Mohr, 1975; tr. it., p. 23).

    Malgrado tutte le incertezze epistemologiche sullo statuto della città e le “dissonanze cognitive”dell’esperienza urbana, il senso comune, al fondo, non è afflitto da molti dubbi. Sedomandassimo a chiunque, anche a un bambino, “che cosa è, secondo te, la città?”, neavremmo risposte pronte e, seppur variamente segnate da entusiasmo o disagio, in larga misuraunivoche: luci, negozi, folla, movimento, velocità, macchine. La stessa risposta che diede all’inizio

    del XX secolo il futurismo italiano, anticipando provocatoriamente, in una prospettivadesiderante e apologetica, i primi segnali dello sviluppo metropolitano. Richiamiamo allamemoria i quadri di Giacomo Balla (Velocità d’auto + luce + rumore, 1913), di Umberto Boccioni(La città che sale, 1910-11; La strada che entra nella casa, 1911), del primo Carlo Carrà (Ciò che miha detto il tram, 1910-11). Rileggiamo le prime pagine del  Manifesto del futurismo pubblicato nel1909 da Filippo Tommaso Marinetti su “Le Figaro”: “Una città che deve nascere e crescerecontemporaneamente alla nuova ideologia del movimento e della macchina. Una città che perdela sua staticità ed è messa in movimento dalle luci, dai tramvai, dai rumori che ne moltiplicanoi punti di visione”. Anche se alla nostra coscienza di contemporanei gli elementi esaltati nellavisione futurista sono proprio quelli che suscitano maggiore insofferenza, non vi è dubbio che essiforniscano una rappresentazione della città ben radicata nell’immaginario collettivo.

    Sembra che la maggior difficoltà nel tentativo di definizione della città nasca dal fatto che laconoscenza di essa si muove su piani diversi: la “città di pietra”, la città costruita,l’organizzazione fisica dello spazio; la “città delle relazioni e degli scambi”, i flussi materiali eimmateriali che hanno luogo nello spazio e attraverso lo spazio; la “città percepita”, l’insiemedei segni e dei significati che consentono di comprendere e di descrivere l’esperienza urbana nellasua quotidianità; la “città disegnata”, le invenzioni sociali, tecnologiche, ideologiche, normativeche guidano la produzione e il governo dello spazio urbano.Questi diversi piani provocano una pluralità di rappresentazioni e consentono di identificarediversi meccanismi generatori ed evolutivi. La città è “il sistema d’idee, più o meno coerente, dicoloro che fanno la città, la disegnano, le danno una struttura o perlomeno aggiungono la loro

     pietra a quelle del passato” (v. Roncayolo, 1988, p. 105); è “uno stato d’animo, un corpo dicostumi e di tradizioni, di atteggiamenti e di sentimenti” (v. Park, 1925, p. 105), ma è anchel’immagine pubblica che gli abitanti della città o coloro che la frequentano si costruiscono,attingendo alla propria esperienza, alle diverse eredità di memorie, componendo e socializzando le

     percezioni individuali prodotte frammentariamente nella vita quotidiana; la città è il risultato (e,nello stesso tempo, l’incubatrice) di processi produttivi e riproduttivi, del loro successo o della lorocrisi; è l’insieme delle tecnologie in essa incorporate (materiali e tecniche di costruzione,trasporti, mezzi di comunicazione, ecc.), il ritmo innovativo che esse sollecitano e i costi dimanutenzione che impongono; è infine la quantità e la qualità (la potenza e la forma) digoverno urbano, la sua capacità di controllare la varietà sociale, di gestire i conflitti, mantenendotendenzialmente la città come un sistema aperto e come un laboratorio di cittadinanza.

     Naturalmente queste diverse rappresentazioni e questi differenti meccanismi non costituisconorealtà separate, ma si connettono attraverso processi circolari specifici che si aggiungonoall’eventuale spessore storico e costruiscono l’identità di ogni città, facendone un unicum.

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    È da dire, infine, che “le città rappresentano e in qualche modo prolungano i processi di lungadurata che stanno all’origine della storia europea e che si misurano in molti secoli” (v. Benevolo,1993, p. 217). Questa “lunga durata” della città entra a far parte di una sorta di inconscio urbanocollettivo, naturalizzando un modello di città rispetto al quale ogni mutamento e ogni diversitàvengono percepiti come un segno di alterità o come un sintomo di degenerazione. Questo

    imprinting della città occidentale riguarda anche tutti i territori urbani toccati dalla civilizzazioneeuropea: così che le città del Nuovo Continente o del Terzo Mondo hanno finito con il riprodurnei caratteri e i miti, magari ingrandendone ed esasperandone le contraddizioni.

    lb.  Le trasformazioni della forma e del significato della ci ttà.

    Il secolo appena concluso ha visto una profonda trasformazione della città su tutti i piani, da quellomateriale della città di pietra, della distribuzione dei suoi valori fondiari e della sua base

     produttiva, a quello immateriale del significato della città nell’immaginario collettivo e dellescelte intenzionali nelle analisi, nel disegno e nel governo urbano. Il rapporto tra questi due piani sirivela dialettico o, almeno, asimmetrico e l’urbanistica moderna si è affermata - ed è entrata in

    crisi - esprimendo appunto l’ambizione di governare ideologicamente e tecnicamente questorapporto. Tale ambizione ha cercato la sua realizzazione in diversi momenti che sembra opportunoripercorrere, fosse anche per cogliere, con uno sguardo disincantato, il complesso ruolo che fattorimateriali e strategie cognitive e progettuali hanno giocato nella trasformazione della città.

    L’intervento di Georges-Eugène Haussmann su Parigi, iniziato nel 1853, può essere consideratol’atto di nascita della moderna urbanistica “amministrata”, con il suo continuo compromesso tra

     pianificazione urbana “di comando” e iniziativa privata, con i suoi interessi di valorizzazionedella rendita fondiaria. Il XX secolo è vissuto ancora per molto tempo sull’ereditàhaussmanniana, non soltanto perché la pratica dello sventramento, sostenuta da “una retoricatendenziosa che esagera la fatiscenza, l’insalubrità, lo squallore delle parti più antiche dellacittà” (v. Benevolo, 1993, p. 183), prosegue - dopo Bruxelles, Firenze, Vienna, Barcellona - con i piùtardi interventi di “risanamento” a Napoli, Roma, Palermo; ma soprattutto perché Haussmann,anticipando la futura egemonia della nuova protagonista della vita cittadina, l’automobile,

     predisporrà lo spazio urbano alla velocizzazione della mobilità. Non solo: egli troverà il modo di proporre una soluzione dei complessi problemi di una metropoli moderna concepita come un“affare’, concorrenziale nell’ambito degli affari consentiti dalla produzione industriale, e questomodello eserciterà la sua influenza economica in gran parte del Novecento. Con Haussmann nascel’industria fondiaria, l’alloggio di massa (come di massa sarà l’automobile di Henry Ford); ilsuolo urbano diventa la materia prima, l’edificio per abitazioni, studi professionali, esercizicommerciali, diventa il prodotto finito: nelle parole di Italo Insolera, “il mercato del prodottofinito coincide con il luogo di esistenza della materia prima” (cit. in Villani, 1987, p. 455).

    L’espansione della città diventerà nel XX secolo - per alcuni paesi ancora fino alla crisi degli anniSettanta - il pendant del mito della crescita continua proprio dei paesi industrializzati, provocandol’emergenza critica dei centri storici, la verticalizzazione edilizia, la crescita impetuosa delle

     periferie, la congestione urbana. Ma il Novecento vedrà anche la reazione delle cultured’avanguardia e dei movimenti collettivi di organizzazione e di rappresentanza degli interessi socialidegli attori più deboli della scena urbana: le classi lavoratrici. A queste reazioni farannoriferimento la nascita del Movimento moderno e quel più variegato fenomeno che ha preso il nomedi urbanistica razionalista.

     Nel XX secolo si rivela pienamente la crisi della città industriale, risultato di un rapportoconflittuale tra organizzazione produttiva, organizzazione sociale, qualità dell’ambientecostruito e allocazione delle risorse naturali. La città razionalista è in qualche modo la

    riproposizione nel mondo industrializzato del ruolo aristotelico della città come strumento perraggiungere la perfezione dell’esistenza umana.Il razionalismo è stato portatore di una forte convinzione, quella che la scienza (e le diverse

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     prospettive disciplinari scientificamente utilizzabili, dalla biologia alla psicologia, allasociologia), la tecnologia, l’attività normativa e pianificatrice delle istituzioni pubbliche

     potessero avere la meglio sulle condizioni di disordine proprie del processo di crescita urbana. Nel Movimento moderno confluiscono diverse spinte: esso “coglie con estrema tempestività il

    momento in cui le molteplici fila da annodare sono aperte e disponibili: l’esaurimento della ricerca

     pittorica postcubista, il desiderio di una nuova integrazione di valori dopo la tragedia della Primaguerra mondiale, i grandi programmi di ricostruzione del dopoguerra, l’inizio di una comprensionescientifica dei comportamenti individuali e collettivi” (v. Benevolo, 1993, p. 102). Ma coglieanche l’istanza di riconciliazione tra arte e industria di cui si era fatto testimone attivo WilliamMorris e che Victor Horta e Henry van de Velde avevano concretamente tradotto - con 1’Artnouveau - in progetto architettonico a Bruxelles, la capitale del paese più industrializzato d’Europaa cavallo tra i due secoli.

    Il terreno culturale del Movimento moderno è preparato anche dalla riflessione sociologica sullacittà, da Georg Simmel, che nel 1903 pubblica  Die Grosstadt und das Geistesleben, a MaxWeber ( Die Stadt, 1920), a Robert E. Park, Ernest W. Burgess e Roderick D. McKenzie, chenel 1925 pubblicano The city, in cui vengono sviluppati i principi della teoria sociologica della

    città.Sul piano più specificamente architettonico e urbanistico il Movimento moderno esprime la sua più

    forte presenza nel periodo tra le due guerre mondiali, e precisamente tra il 1929, anno in cui vennefondato il CIAM (Congrès International d’Architecture Moderne) e il 1933, anno del suo quartocongresso, le cui conclusioni - elaborate da Le Corbusier nella Carta d’Atene - costituiranno neglianni successivi, forse proprio per la forza suggestiva assicurata dalla loro schematicità e astrattezza,il riferimento fondamentale della cultura urbanistica.Il Movimento avrà vita breve, ma lascerà una profonda impronta nella cultura europea (e nonsoltanto europea) della città; dal Bauhaus di Walter Gropius, che costituisce in qualche misural’incubatrice del movimento, usciranno le più straordinarie “firme” dell’architettura del secolo:Ludwig Mies van der Rohe, Le Corbusier, Alvar Aalto. L’utopia dell’urbanistica razionalista siesprime nel tentativo di coniugare le qualità dell’ambiente naturale (o naturalizzato) e la qualità delcostruito - reintroducendovi a varie scale l’invenzione artistica - di creare spazi urbani che sianovisibili secondo modalità di appartenenza aperte a tutti, di promuovere, attraverso nuove forme emodi di edificazione e di integrazione tra residenza e servizi, uno stato di socialità più avanzato e

     più coerente con le promesse di uno Stato sociale sempre più sviluppato. Da qui diverse opzioni,dalla  garden-city alla Ville radieuse, dalla new town ai quartieri CEP italiani, ma ancherealizzazioni diverse a seconda degli ordinamenti normativi e dei sistemi politici ed economici. A

     puntuale dimostrazione che le soluzioni tecniche non sono mai neutrali, l’urbanistica razionalistatroverà accoglienza, assumendo forme diverse, nel regime sovietico o nei regimi fascisti e nazisti.Anche nei regimi democratici occidentali si realizzerà efficacemente, ma soltanto in quei paesi in

    cui un più avanzato ordinamento dei suoli - eliminando l’ostacolo dei confini di proprietà e la pressione della rendita fondiaria - ha consentito una equilibrata divisione del lavoro tral’amministrazione pubblica e gli operatori privati.

    Perché entra in crisi - a partire dagli anni Settanta - l’urbanistica razionalista? Perché si rivela progressivamente inefficace il progetto di modernizzazione fordista cui essa era ancoraimplicitamente ispirata, sia pure attraverso la traduzione keynesiana, socialdemocratica,assistenzialista. La grande industria manifatturiera e di base esce fuori dalla città e da gran partedel territorio urbanizzato, si deverticalizza, si smaterializza; l’economia, almeno nei paesi svi-luppati, si terziarizza sempre di più, spostando il suo asse centrale verso i servizi, l’informazione,la ricerca, la promozione e la diffusione delle innovazioni tecnologiche. Una molteplicità dinuovi attori economici, piccoli secondo le dimensioni tradizionali, ma forti e aggressivi nel know

    how, nelle strategie globali di marketing, nell’approvvigionamento finanziario, occupa porzionisempre più estese del mercato, portando con sé una cultura di rinnovata egemonia del privato. Leconseguenze si sono avvertite anche nella drastica riduzione del ruolo della pianificazione urbana: il

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    governo Thatcher abolirà nel 1985 le forme di governo metropolitano che pure avevano assicuratoall’esperienza inglese di pianificazione su scala metropolitana-regionale una funzione pilota.

    Un secondo fattore di crisi matura negli stessi ambienti tecnici e scientifici, con la constatazioneche la complessità e l’elevato dinamismo della società postindustriale “avevano raggiunto ormailivelli tali da frustrare ogni velleità di controllo e regolazione centralizzati, ogni possibilità di

     previsione e pianificazione razionale e comprensiva” (v. Strassoldo, 1998, p. 50).Infine, peserà sull’urbanistica razionalista il generalizzato clima di sfiducia sulla razionalitàscientifica che comincia a permeare il mondo occidentale, principalmente con la crisi dei regimisocialisti e con l’esplosione della questione ambientale.

    Alla fine del XX secolo si afferma così un nuovo movimento di idee, ma anche di realizzazioniconcrete, destinato a mutare ancora una volta realtà e immagine della città, un movimento che sidefinisce, con una semplificazione semantica, “postmoderno”. Esso non nasce però come puranegazione del moderno, poiché è stato preceduto e preparato dalle culture metropolitane degli ultimivent’anni: nei significanti elettronici del cinema, della televisione, dei video, dei megaconcerti; nellamoda e negli stili giovanili, in tutti quei suoni e immagini che ogni giorno vengono missati in quellasorta di schermo gigante che la città è ormai diventata.

    Stiamo vivendo un cambiamento radicale: “Il principio del piacere sta prendendo il posto diquello dell’utilità che aveva segnato l’esperienza urbana per almeno centocinquanta anni [...]colpendo al cuore i principi fondamentalmente ascetici e puritani del CIAM e del razionalismo”(v. Amendola, 1998, p. 42); a condizione, però, di sottolineare che nel postmoderno il “piacere”finisce con il produrre nuova “utilità” e, conseguentemente, nuova competizione e nuovi conflitti.

    È proprio nell’ambito dell’architettura che il concetto di postmoderno ha fatto le sue prime prove,diffondendosi poi in altri universi del sapere e del fare. Nella città postmoderna l’architettura-chiave non è più quella tradizionale delle grandi istituzioni civili e religiose, dei grandi santuari delcommercio e della finanza (le banche, la borsa, ecc.): estese attrezzature espositive e museali, centridirezionali, aerostazioni, centri commerciali, stadi sportivi, macrostrutture alberghiere, città dellascienza risaltano per dimensioni, originalità e qualità formali, per soluzioni tecnologicheinnovative, imponendosi come le cattedrali di una nuova religione, quella del marketing urbano. “Iluoghi più caratteristici dell’architettura e urbanistica postmoderna possono essere raggruppati intre grandi categorie. La prima comprende le nuove città del tempo libero e del divertimento; laseconda le cattedrali del consumo materiale e culturale, la terza i vecchi centri storici rinnovati”(v. Strassoldo, 1998, p. 59). A volte l’architettura si misura con una distribuzione specialistica deiluoghi rispetto alle tre categorie-funzioni; più spesso deve rispondere alle esigenze diconcentrazione nello stesso luogo di più funzioni (rafforzando la capacità competitiva della città),magari attraverso simulazioni della funzione assente o riconversione accelerata e fantasiosa di

     preesistenze fisiche ed economiche verso le nuove funzioni.L’architettura postmoderna esprime la volontà di usare le tradizioni e gli stili del passato, ma,

    con un grande eclettismo stilistico, riscopre il valore dell’ornamento e ricorre ai colori anche piùinusuali, ostenta la propria fragilità e precarietà, cerca di coinvolgere l’intero apparato sensorialedegli abitanti e dei visitatori facendone degli “spettatori”.

    Sotto l’espressione di città postmoderna sembra intessersi un  patchwork di sensazioni, diimmagini, di punte tecnologiche, di nuovi prodotti e di nuovi consumi urbani che affascina, manello stesso tempo si rivela tanto sfuggente quanto privo di qualsiasi logica organizzativa.

    Ma forse è proprio questo il “possibile” della città contemporanea, una possibilità di destinometropolitano che ci offre l’ipotesi di un’ulteriore trasformazione dell’urbano.

    1c. Tra città e urbano: è già metropoli.

    Partiamo dall’etimo di metropoli, città-madre, dal quale si potrebbero ricavare, seguendo lesuggestioni di una improbabile “sociologia della maternità”, le sue vocazioni contraddittorie.Insieme captativa e oblativa, la metropoli attira e cattura risorse demografiche, economiche,

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    tecnologiche, culturali; ma dal suo cuore pulsante, dal suo ventre fertile fluiscono fiumi di vita:idee, immagini, nuovi stili di comportamento, innovazioni tecniche, mode, progetti politici destinatia fecondare territori sempre più estesi. Grande parassita e grande nutrice, la metropoli offre rispo-ste molteplici e mutevoli ai bisogni individuali e collettivi ed è perciò di volta in volta, dagli uni odagli altri, amata e odiata, desiderata e temuta.

    D’altra parte è proprio il suo volto cangiante ad aiutare l’uomo metropolitano ad accettare ilvortice di mutamenti nel quale è sempre coinvolto, a farsi esso stesso mobile nella residenza, nellavoro, nei consumi, nella cerchia delle relazioni sociali per affrontare più facilmente la situazionedi instabilità e di insicurezza nella quale la Grande Madre lo sfida a vivere. Secondo le anticipatriciosservazioni di Simmel, i tanti stimoli proposti dal gran numero di individui e di gruppi socialicon cui viene a contatto l’individuo urbano, provocano in lui la progressiva formazione di una co-razza di distacco intellettuale che lo conduce ad accettare l’instabilità e l’insicurezza generale.

    Così come non è facile definire la città, altrettanto difficile da definire è la metropoli; anche perché il problema della città metropolitana è affrontato spesso con le categorie mentali del passato(città e campagna, urbano e suburbano, ecc.). Non troviamo la metropoli se continuiamo acercarvi i “luoghi centrali”, i luoghi dello “stare” e dello “struscio”, le piazze-simbolo

    dell’identità storica e dei modi antichi dell’aggregazione sociale, i negozi opulenti e ben allineati, levetrine allestite con gusto a tipizzare una strada o un quartiere. La metropoli costituisce unaradicale discontinuità rispetto alla forma-città della società moderna.

     Non soltanto il senso comune, ma anche la riflessione teorica tende a privilegiare la dimensionequantitativa individuando la metropoli soprattutto attraverso la variabile demografica. La sogliademografica di una metropoli è fissata convenzionalmente tra 1 e 1,5 milioni di abitanti, unnumero, però, che sembra soltanto un indicatore simbolico e che non tiene conto dell’organizzazioneurbanistica e del moltiplicatore tecnologico. Rimane certamente evidente che la metropolirappresenta la più recente configurazione del fenomeno di concentrazione urbana così come esso si èvenuto sviluppando sia nei paesi industrializzati, sia nelle società sottosviluppate più popolose ecolpite traumaticamente dalla rottura degli equilibri economici tradizionali. La fine del XIXsecolo inaugura, nel mondo occidentale, l’epoca della million city che, nei paesi più intensamenteindustrializzati e terziarizzati, perverrà alla formazione di aggregati urbani di molti milioni diabitanti o a “sistemi metripolitani”, costituiti da un tessuto urbano esteso a volte senza soluzionedi continuità (si pensi a Los Angeles) in cui risiedono decine di milioni di abitanti e in cui appaionoambigui i confini tra metropoli e area metropolitana. L’effetto di trascinamento dellaconcentrazione metropolitana si è verificato a livello globale in tutti i continenti, travolgendo nel suoconcretizzarsi ogni ipotesi sulle condizioni che l’avrebbero potuto favorire o, al contrario,ostacolare. La disomogeneità di condizioni sociali ed economiche, la preesistenza di vocazionistoriche dell’organizzazione del territorio, la diversificazione di ambienti culturali non impedisconol’affermarsi di una tendenza univoca al trionfo della metropoli. Tra città e metropoli non c’è

    soltanto una differenza di quantità, ma anche di qualità: “stare” e “attraversare” costituisconogli attributi dell’una e dell’altra e corrispondono a una forma di vita, se non, addirittura, a unaforma di pensiero.

    La concentrazione demografica urbana è, però, soltanto uno dei fattori caratterizzanti dellametropoli; infatti, se proviamo a privilegiare il grado di apertura verso l’esterno,l’internazionalità, troviamo città medie o piccole come Montecarlo, Las Vegas o Venezia chesvolgono una pluralità di funzioni urbane od offrono servizi rari e che sono, quindi, manifestazionidi globalità quanto o più di una metropoli di molti milioni di abitanti. “La metropoli [...] nasce [...]dalla società industriale e dalle innovazioni tecnologiche che modificano la forma e la strutturaurbana, influenzano il mercato, incidono sulla struttura sociale, provocano interdipendenze traattività, gruppi, funzioni. Non è soltanto la dimensione fisica, ossia la disposizione spaziale e la

    densità della popolazione, a distinguere la metropoli di oggi, ma una complessa serie di fenomeniche investono tra l’altro la produzione, i servizi, i modelli culturali e le relazioni dei soggetti nellospazio” (v. Elia, 1993, p. 24).

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    La trasformazione metropolitana accompagna flessibilmente il passaggio dalla societàindustriale alla società postindustriale, inventando nuove soluzioni per rispondere ai bisogni diresidenza, di lavoro, di consumo, di tempo libero, di comunicazione. La metropolicontemporanea è segnata da una frattura netta rispetto alla città industriale: “il territorio urbanonon è più ordinabile per funzioni corrispondenti a spazi prestabiliti [...] le funzioni fondamentali

    così come sono state sistematizzate per la città industriale dal Razionalismo [...] non solo nonsono più individuabili chiaramente, ma si è creato uno squilibrio interno, dovuto al fatto che lefunzioni dell’abitare e del lavorare sono state perifericizzate, mentre quelle del circolare e delricrearsi hanno acquisito una tale importanza da incidere pesantemente sullo spazio urbano edextraurbano complessivamente inteso” (v. Mazzette, 1998b, p. 91). Ancora più radicalmente: “Inrealtà non c’è più territorio per la metropoli. Lo spazio non produce più l’abitare. Bauen, wohnen,denken, costruire, abitare, pensare si dissociano, si contraddicono, si combattono” (v. Tronti, 1998,

     p. 42). Meno drasticamente si può osservare che all’identità fondata sui luoghi - luoghidell’abitare, del lavorare, del rappresentarsi - si sostituisce via via un’identità fondata sullemodalità specifiche del proprio consumo; e ogni struttura di localizzazione sfuma nell’urgenza enella criticità dei problemi di attraversamento, di spostamento, di fruizione dei servizi nei nuovi

    tempi della quotidianità urbana. Nel nuovo ciclo capitalistico di produzione/distribuzione, la rete di sostegno della forma

    urbana è assicurata dal consumo e questo è movimento, variabilità, mutamento, perché implicatraffici e traffico. Così “la metropoli nelle sue dimensioni spaziali e temporali è sottoposta aun’alta flessibilità e a processi dinamici in continuo mutamento, non prevedibili e non ordinabilia priori” (v. Mazzette, 1998b).

    In questi termini nuovi - così diversi da quell’immagine di città-fabbrica su cui si è attardata unariflessione sociologica di antiche memorie - la metropoli contemporanea contiene ogni possibilitàdi conflitto e, insieme, di libertà. Il territorio metropolitano è il prodotto continuamente rinnovatodei desideri o dell’indifferenza del vivere di nuove figure sociali; è, nello stesso tempo, la formaspaziale che assume il conflitto tra i diversi percorsi individuali che attraversano la metropoli; è laforma irriducibile della contingenza del presente di fronte al culto delle origini, delle identitàstoriche che possono essere reinventate secondo tracce e mappature che a esse conferiscono nuovisignificati e valori d’uso.

    I grandi conflitti antagonistici incubati nella prima città industriale restano sullo sfondo dellametropoli contemporanea, occultati, se non rimossi, dalla molteplicità e dalla volubilità deiconflitti che aggrediscono il tessuto sociale, incapaci di lacerarlo irrimediabilmente, ma alcontempo non più governati da quel patto tra politica e spazio che aveva fondato la città come luogodella “legge” e della “conmenzione”: nella metropoli postmoderna il noto aforisma citato da Weber,“L’aria della città rende liberi”, sembra assai lontano o, almeno, va interpretato in termini assaidiversi.

    Metropoli è, nell’epoca posturbana, il regno del solo ‘urbano’ possibile, un urbano che anche sotto il profilo del progetto architettonico, del disegno fisico, ha scambiato la ricerca di senso con la provocazione dei sensi. L’architettura urbana sembra seguire - e vedremo in seguito che ciòrappresenta ben più che un’apparenza - le sorti della moda: abbandona le proprie categoriefondative tradizionali e si ridefinisce continuamente gettando sullo spazio sguardi obliqui ecompositi come luci taglienti su un  set cinematografico, cercando effetti, anche involontari,nel fantasti co, nel visionario, nell’esaltato, nell’irrazionale. Global city (v. Sassen, 1991) e cittàdiffusa come unica “città possibile” (v. Indovina, 1992) appaiono i due fenomeni emergenti dalladissoluzione della metropoli tradizionale.

    Si può dire per la metropoli quello che si è detto per l’urbano, anche se su scala diversa: “Persinola metropoli con il suo skyline  prevalentemente verticale, con i suoi eccezionali tetti demografici,

    con i suoi più elevati coefficienti di occupazione del suolo, si distende su spazi sempre più ampi eabbraccia orizzonti sempre più estesi: fino al punto di generare una nuova forma urbana. L’areametropolitana - delimitata da zone limitrofe, anche extraurbane, collegate e interdipendenti per le

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    attività economiche e sociali che in esse si svolgono” (v. Elia, 1993, p. 16).L’area metropolitana condivide con altre forme di città diffusa - la conurbazione, la città-

    regione, ecc. - una certa accentuazione della divisione territoriale del lavoro e un certo grado dicorrelazione tra centri maggiori o minori o di uguale rango. Anche le aree metropolitane sievolvono e si differenziano: la dominanza, quale principio ordinatore di un’area metropolitana,

    viene sostituita da un più complesso sistema di interazioni tra le parti interne all’area e, in una prospettiva di globalizzazione, tra sistemi metropolitani complessi.A partire dagli anni Settanta la metropoli si affranca dalla variabile della concentrazione urbana.

    I nuovi scenari territoriali, caratterizzati dalla diminuzione della fruizione dello spazio e da nuove possibilità di localizzazione del lavoro, della residenza, dei servizi commerciali e delle attrezzaturericreative, mutano profondamente identità e ruolo delle metropoli. “Il nuovo scenario, o quello delfuturo prossimo, costituito dalle reti urbane, dalla moltiplicazione dei punti di accesso ai reticoli dicomunicazioni e transazioni, dalla crisi dei vecchi fattori di localizzazione, rende la piccola e mediacittà storica un punto privilegiato di accesso tanto ai networks metropolitani e planetari che ai vi-cini luoghi di produzione, di scambio e di tempo libero allocati nel cuore delle grandi città e dellearee metropolitane” (v. Amendola, 1993, p. 32). La metropoli crea effetti dimostrativi; così che in

    Italia, in Francia, in Germania, in Olanda alcune medie e, a volte, piccole città dotate di urban-appeal, di capitale storico-culturale, a volte anche soltanto appropriatrici monopolistiche di un“evento” globale (v. Sgroi, 1998), si “metropolizzano”, assumono i modelli di vita metropolitana, siorganizzano per riprodurre, in scala, funzioni e fascini metropolitani. Questo processo può essere untentativo intenzionalmente diretto a entrare nella competizione globale o, più semplicemente, larisposta a una domanda di metropoli che i mass media inducono ormai negli abitanti financo deicentri più piccoli, alla ricerca inquieta di una percentuale di “glocal” (una combinazione,dall’alchimia misteriosa e mutevole, di globale e di locale).

    Le tecnologie avanzate, quella di “rete” in modo specifico, provocano un ulteriore passo avanti nel ridurre le differenze tra le diverse scale della concentrazione urbana: la piccolacittà è oggi sempre più programmata con gli stessi mezzi fisici ed elettronici della metropoli. Si

     potrebbe dire, in conclusione, che il mondo si è fatto metropoli e che fuori di questa condizione ormairimane poco o nulla.

    2. L’egemonia urbana.

    2a. Un mondo urbanizzato.

    La città, intesa come grande agglomerazione demografica, continua a crescere; non è soltanto unacrescita in assoluto, resa visibile dai picchi delle megalopoli: infatti è il ritmo di crescita della

     popolaz ione urbana (del la quota di popolazione residente in centri classificati come urbani) arivelarsi molto più veloce di quello della popolazione mondiale in complesso. Nel 1955 nel mondo

    vi erano già 22 grandi città con più di cinque milioni di abitanti ciascuna - senza contare le rispettivearee metropolitane - otto delle quali localizzate nelle regioni economicamente più sviluppate.Anche se si è già verificato - ed è prevedibile che il fenomeno sarà più accentuato nel prossimo

    futuro - un rallentamento della crescita demografica complessiva, nel periodo tra il 2001 e il 2005la popolazione urbana crescerà ancora di 91 milioni. Ma la previsione è probabilmente calcolata

     per difetto, perché bisogna tener conto che le nuove migrazioni dall’Est e dal Sud del mondo -specialmente quelle in corso nel bacino del Mediterraneo - hanno come loro punto d’approdo legrandi aree metropolitane europee o contribuiscono a rafforzare sistemi urbani in formazione, comenel caso del nordest italiano. Se nel 1975 il 39% della popolazione mondiale viveva in centriurbani, la popolazione urbana - già salita al 45% nel 1995 - nelle aree più sviluppate si attesta ormaiintorno al 75%, nelle aree a più lento sviluppo scende al 38%, mentre arriva al 22% nelle aree ancora

    chiuse nella morsa del sottosviluppo. Alcune proiezioni al 2025 indicano che la popolazione urbanaraggiungerà l’83% nei paesi più industrializzati e il 61% in quelli sottosviluppati, con unincremento relativo ben maggiore nel secondo caso, quindi, che nel primo (v. Vallin, 1986).

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    Tuttavia, le rilevazioni dell’ONU indicano che il tasso di crescita della popolazione urbana simuove in senso inverso: nei paesi più sviluppati è fermo attorno allo 0,7%, mentre salerispettivamente al 3,3% e al 5,7% nelle altre due aree indicate.

    Le analisi sulla crescita urbana tendono a sottolineare, a volte anche con accenti allarmistici,come la sua esplosione (da cui la definizione di exploding cities) caratterizzi proprio le aree meno

    sviluppate. “Si valuta che nel mondo nel 1975 fossero 5 le agglomerazioni urbane con più di 10milioni di abitanti, tre delle quali localizzate nei paesi in via di sviluppo, dove entro il 2015queste megacittà dovrebbero diventare ben 22, mentre altre 4 (su un totale di 26) dovrebberoessere localizzate nel Nord del mondo” (v. Golini, 1999, p. 118). Nel 1985 la più grandemetropoli del mondo era l’agglomerazione Tokyo-Yokohama, con 19 milioni di abitanti,seguita da Shanghai (17 milioni), Città di Messico (16,6 milioni), New York (15,6 milioni) eSan Paolo (15,5 milioni). Nel 2000 salgono ai primi posti Città di Messico (con 24,4 milioni) e SanPaolo (23,6 milioni). L’elemento che colpisce di più è che le due metropoli avevano già quasiraddoppiato la loro popolazione dal 1970 al 1985, arrivando a triplicarla nel 2000. Agli attualiritmi di incremento, nel 2025 Città di Messico potrebbe raggiungere i 35 milioni di abitanti.

    La letteratura tende a considerare la crescita delle megalopoli nel Terzo Mondo l’effetto della

    fuga dalle campagne impoverite dalla desertificazione o dal crollo dei prezzi delle materie prime.Ma la spiegazione, pur contenendo molti argomenti condivisibili, non è sufficiente. C’è una‘promessa’ nella città che esercita un forte richiamo sulla popolazione extraurbana, specialmentesulla componente più dotata di spirito di iniziativa, più giovane, più provvista di risorsesoggettive. D’altra parte, ben sappiamo che anche chi è ancora lontano dalla città definisce ormai isuoi orizzonti esistenziali in rapporto costante con essa, magari inventandosi una città che forsenon esiste, ma che è un sogno capace di trasmettere promesse e di indurre speranze. Le stessebidonvilles delle megalopoli del Terzo Mondo - così come certi quartieri degradati delle grandicittà europee lo sono stati nel recente passato per gli immigrati dal sud dell’Europa e lo sono, oggi,

     per i nuovi immigrati delle sponde meridionali e orientali del Mediterraneo – costituiscono unatappa “pedagogica” per i nuovi inurbati, il mezzo per progredire e assimilare il modo di vitaurbano.

    Bisogna evitare di associare il fenomeno del gigantismo urbano con il sottosviluppo e con la bassa qualità della vita. E ciò tenendo conto di almeno due variabili: Tokyo, New York, Osaka,Londra, Hong Kong, Los Angeles sono metropoli densamente popolate, ma anche centri di affari dirilievo mondiale. Tra le 21 città del mondo in cui si vive meglio (v. RUR, 1997), le due areemetropolitane di Tokyo e di Osaka si collocano rispettivamente all’undicesimo e tredicesimo

     posto con un punteggio di 94 (su 100); Dallas e Atlanta, che fanno registrare in questa graduatoriail più alto tasso di incremento demografico (oltre a essere già in partenza città fortemente

     popolate), si collocano rispettivamente al settimo e quarto posto (con 96 e 98 punti). La possibilitàdi destini diversi si ritrova anche nelle metropoli congestionate del sottosviluppo: nella graduatoria

    delle 19 città con il più basso standard di qualità della vita, Città di Messico si mantiene alquarto posto (con un punteggio di 44), mentre Il Cairo si colloca al sesto posto (con un punteggiodi 42); non si trovano, quindi, malgrado la loro sovrappopolazione, al fondo della graduatoria.

    La prospettiva della globalizzazione induce a inserire nella valutazione delle relazioni trasovrappopolazione urbana e sviluppo la distinzione tra sistemi di città equilibrati e sistemi di cittàcosiddette “primaziali”: nei primi le attività produttive e i servizi sono distribuiti tra diverse città;nei secondi, in una città, solitamente la capitale, sono concentrati disordinatamente popolazione,attività economiche e servizi (v. Sassen, 1994). Di consueto i primi tipi di sistemi sono propridell’Europa occidentale e, in generale, delle aree economicamente sviluppate, mentre l’AmericaLatina, i Caraibi, ampie parti dell’Asia e, in una certa misura, l’Africa sono caratterizzati dalla

     presenza egemonica o isolata di città primaziali. Lo  status di città primaziale è certamente legato

    alla crescita della popolazione urbana, ma questo legame non può essere inteso in sensodeterministico: se rientrano a pieno titolo tra le città primaziali San Paolo, che assorbe il 36% del

     prodotto nazionale e il 48% del prodotto industriale netto del Brasile, e Santo Domingo, dove ha

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    luogo il 70% delle transazioni commerciali e finanziarie e il 56% della produzione industrialedella Repubblica Dominicana, New York, viceversa, malgrado sia una delle cinque metropoli

     più popolate del mondo, non può essere inclusa in questa categoria a causa del caratteremultipolare del sistema urbano degli Stati Uniti. Né, d’altra parte, la presenza di città primaziali -tra le quali si annoverano ad esempio anche Tokyo e Londra - può essere considerata un carattere

    esclusivo dei paesi poco sviluppati.Infine, un elevato tasso di urbanizzazione non è necessariamente l’esito perverso delle condizionidei paesi sottosviluppati. “Nel 1985, ad esempio, un paese come l’Argentina aveva un tasso diurbanizzazione dell’84,6 per cento che è molto vicino a quello dei paesi più sviluppati; per contro itassi di urbanizzazione dell’Algeria (42,6 per cento) e della Nigeria (31 per cento) rinviano a unlivello di urbanizzazione piuttosto distante da quello dei paesi sviluppati” (v. Sassen, 1994, p. 48).

    Formazione di megalopoli e urbanizzazione del territorio sono, quindi, fenomeni ciascunoindipendente dall’altro e che si collegano piuttosto alle caratteristiche dello Stato nazionale diappartenenza. L’unico aspetto certo è che lo sviluppo economico amplifica il processo diurbanizzazione: da qui la facile previsione che - salvo il verificarsi di eventi catastrofici naturalio umani - l’urbanizzazione del mondo è destinata a proseguire.

    Un ultimo elemento da prendere in considerazione nella valutazione del ciclo che attraversa il processo di urbanizzazione riguarda le metropoli del mondo industriale. Si èrilevata a partire dagli anni Settanta una progressiva deconcentrazione delle aree urbane emetropolitane a proposito della quale si è usato il termine “eurbanizzazione”, accompagnandolocon quello ben più impegnativo di “controurbanizzazione”: in altre parole, contrazione della

     popolazione residente nelle grandi città e relativa crescita della popolazione in aree non urbane. Ineffetti il fenomeno rivela una ben più complessa dinamica della trasformazione metropolitana:“La diminuzione della popolazione residente nelle aree centrali dei sistemi urbani e la suacrescita nelle zone periferiche metropolitane o nei comuni esterni sub-metropolitani” (v. Melis eMartinotti, 1998, p. 168). In sostanza, diminuisce la popolazione residente metropolitana, manello stesso tempo centinaia di migliaia di famiglie devono adottare - o portare con sé nelle areedove si trasferiscono - stili di vita metropolitani, riorganizzando radicalmente i meccanismi d’usodel tempo e dello spazio.

    C’è da aggiungere, peraltro, che negli ultimi anni - negli anni Novanta - si è verificato alcontrario un processo di “riurbanizzazione”, di una parziale ripresa demografica nel nucleocentrale delle aree metropolitane: “la spinta centrifuga e la riurbanizzazione rappresentano duetendenze coesistenti e non necessariamente contraddittorie, legate a diverse convenienzelocalizzative delle funzioni urbane e a una diversa redistribuzione spaziale dei gruppi sociali” (v.Mela, 1996, p. 174).

    Il dubbio che la “fuga dalla città” fosse più un’invenzione letteraria e giornalistica che una realtàè fortemente suggerito dall’esperienza comune della realtà urbana; mai le grandi città ci sono

    apparse più affollate di uomini e di mezzi, fitte di edifici e di beni. Le ragioni per cui le analisistatistiche rischiano di essere fuorvianti per l’interpretazione del fenomeno dell’urbanizzazionecrescente sono state spiegate da Guido Martinotti (v., 1993), secondo il quale la metropolicontemporanea vive con l’apporto di quattro popolazioni diverse: 1) gli abitanti veri e propri, cherisiedono nella città, in gran parte vi lavorano e vi trovano i beni e i servizi per i loro bisogni; èquesta la popolazione tradizionalmente censita come popolazione ufficiale; 2) i pendolari, soggettiche non risiedono nella città, ma vengono quotidianamente a lavorarvi e fruiscono  part-timedelle sue opportunità di consumo (trasporti urbani interni, pasti, ecc.); 3) i city users, soggetti chenon risiedono né lavorano in città, ma vi fanno riferimento per alcune classi di beni e di servizida essa offerti; 4) i metropolitan businessmen, segmento di crescente importanza per effetto dei

     processi di globalizzazione, presente nella città per determinati periodi di tempo, per affari o per

    congressi scientifici, con domande di ospitalità, di consumo, di svago a elevato standard di qualità.Le ultime tre popolazioni vivono - e fanno vivere - la città in misura non inferiore a quella degliabitanti e sono spesso attori strategici nell’orientarne lo sviluppo e il governo.

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    Tour Eiffel, Arc de Triomphe e Opéra.Ma anche Berlino, Londra, Milano, Parigi, Torino hanno mutato o stanno mutando radicalmente il

    loro aspetto, non soltanto attraverso la progettazione e la realizzazione di opere architettoniche digrande richiamo, ma riscattando interi patrimoni edilizi e aree urbane: fabbriche dismesse, vecchiee meno vecchie, diventano sale da concerto o spazi espositivi o luoghi di ricerca e di alta

    formazione; aree industriali sono convertite in zone residenziali; quartieri degradati ricevono nuova popolazione con culture differenziate e più elevato potere d’acquisto.Intere città vengono sottratte al declino o a un’immagine caratterizzata in senso negativo.

    Ritorniamo al caso di Las Vegas. Una volta era soltanto una città per giocatori e per turisti incerca di emozioni forti, tra il gioco d’azzardo e il sesso facile. Intorno alla fine degli anni Ottanta imaggiori azionisti dell’“affare Las Vegas” si resero conto che il gioco d’azzardo, per il

     progressivo ingresso nel mercato della maggior parte degli altri Stati confederati, non aveva più avvenire e che l’immagine della città era sempre più legata a falliti alcolizzati e a prostitute,come nel film  Leaving Las Vegas di Mike Figgis. Partirono così i primi progetti di rinnovamento

     per trasformare la città del vizio in una vera e propria stazione turistica multidimensionale, rivoltaa una più ampia fascia di utenti: famiglie con bambini, pensionati con un certo reddito,

     professionisti e personaggi importanti. Un progetto ambizioso: la costruzione di 24 mila ap- partamenti l’anno a prezzi concorrenziali rispetto alla vicina California, 125 mila camered’albergo, servizi offerti a basso costo, spazio e verde a volontà. Las Vegas si sta trasformando inuna delle principali metropoli degli Stati Uniti e la sua popolazione è passata dai 200 milaabitanti degli anni Ottanta a circa un milione e duecentomila di oggi, fino alla previsione dioltrepassare i 2 milioni entro il 2005.

    Ma anche città più piccole manifestano la volontà di proiettarsi nel futuro, trasformando il proprio volto e dotandosi di nuove funzioni urbane avanzate. Un caso esemplare può essere quellodi Lille, situata in una povera regione: una città di appena 180 mila abitanti che, sfruttando la

     propria collocazione strategica al centro di un territorio sovranazionale (che va da Londra aBruxelles, da Colonia e dal bacino della Ruhr ad Amsterdam e Rotterdam) dotato di un sistemaintegrato di trasporti avveniristico e cogliendo l’occasione della propria candidatura alle Olimpiadidel 2004 (assegnate poi ad Atene), si è proiettata nel XXI secolo. A poche centinaia di metri dallavecchia Lille fiamminga è sorta una città nuova di zecca, Eurolille: 275 mila metri quadrati per uninvestimento pari a 5,3 miliardi di franchi (per due terzi investiti da privati), una Manhattan inminiatura, una parata di cattedrali high-tech disegnata e realizzata da uno  staff internazionale diarchitetti, coordinato dall’olandese Rem Koolhaas.

    Sembra che si faccia strada nel mondo urbano europeo - pur con le differenze imposte dalla presenza in molte città di estesi centri storici ricchi di memoria e di arte - qualcosa di simile allatendenza propria a molte città degli Stati Uniti di rinnovare periodicamente il proprio patrimonioedilizio, cambiandone il design, ma anche facendo ricorso, come in qualsiasi industria, alla

    ricerca e all’utilizzazione di nuovi materiali e di nuove tecnologie. A volte il cambiamento puòconsistere soltanto in una più attenta manutenzione o in interventi di abbellimento che, però, seaccompagnati dall’accorta azione di un’amministrazione capace di dare e produrre fiducia, comenel caso di Napoli, promuovono un nuovo clima che può sostenere l’impulso al mutamento dellacittà.

    La città contemporanea è una realtà composita che offre tanto ai suoi abitanti come ai suoiutilizzatori molti volti, molti processi, differenti forme di vita urbana. Ciò avviene non soltantoin una metropoli scissa tra occidentalizzazione esasperata e persistente peso delle tradizioni comeTokyo, in cui basta addentrarsi in una stradina dietro i grattacieli tutto vetro e alle sopraelevate dalsofisticatissimo di segno architettonico per ritrovare case di legno a due piani, botteghe, venditoriambulanti di patate dolci, ecc. Anche città come Parigi offrono luoghi che hanno forme e fruitori

    diversi: dai luoghi consacrati dal turismo di massa (Champs-Élysées e Montmartre) allarassicurante quotidianità di Place de Vosges, al futuribile della Defense, fino all’intensità relazionaledella Belleville immaginata da Daniel Pennac e dei quartieri in trasformazione al di là della

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    Bastille descritti nel film Chacun cherche son chat di Cédric Klapitsch. Ma anche la “GrandeMela” ci offre una realtà variegata nelle forme edificate e negli stili di vita, dal cuore della FifthAvenue al Greenwich Village, alla Brooklyn plurietnica, eppure ancora capace di conservare unaforte identità, così come ci viene proposta dai film di Wayne Wang e Paul Auster ( Smoke e Blue inthe face).  Questi ultimi due documenti della fantasia rilevano con l’intuizione dell’arte un

    microcosmo di interazioni calde tra le due popolazioni di un quartiere metropolitano, gli“attraversanti’ e gli abitanti, non indifferenti gli uni agli altri, ma anzi capaci di venire in contatto edi riconoscersi con le loro diversità, con i tic dei loro atteggiamenti e dei loro comportamenti,facendo di essi - anche se per un momento - comuni abitanti del villaggio metropolitano.

    Regioni di ribalta e regioni di retroscena (v. Goffman, 1956), luoghi ad alta e a bassavitalità (v. De Carlo, 1995), luoghi di quiete quasi provinciale e luoghi di frenetica e convulsaattività si succedono nello stesso tessuto metropolitano e, spesso, si scambiano ruoli e funzioni.Via via che i soggetti urbani, vecchi e nuovi, modificano i loro linguaggi, questi modificano leforme urbane; nello stesso tempo i vincoli fisici o le risorse spaziali emergenti dalla crescita e dallatrasformazione urbana mutano comportamenti e stili di vita urbani in un continuo processocircolare.

    2c. I fattori del successo urbano.

    Il fattore di successo per una città e, ancor di più, per una metropoli, è la qualità, sia del prodotto-città e della sua immagine, sia del governo locale, ma anche la capacità di accettare la sfida dellaglobalizzazione, di entrare cioè come partner attivo ed efficace in una rete urbana, in un club dicittà in cui interagiscono virtuosamente relazioni competitive e cooperative.

    Ragionare in termini di prodotto-città (e, quindi, in termini di marketing urbano) è coerente conil modello di città-impresa imposto dalla competizione globale, perché è quello che esalta lecomponenti e le potenzialità spaziali e contenutistiche del fenomeno urbano in un processo espansivoaperto, nel confronto senza confini proprio di un’impresa. La qualità del prodotto-città ne fa unluogo strategicamente vincente: per la localizzazione, in forme diverse, di élites internazionali, dideterminate imprese e ser vizi high-tech, di istituzioni e impianti di rango nazionale esovranazionale capaci di produrre ricchezza e lavoro, di attirare intelligenze e generare conoscenze;

     per la produzione di eventi che richiamino flussi di visitatori e trasmettano immagini e messaggi dieccezionalità; ma anche per garantire qualità della vita ai suoi abitanti e utenti e per promuoverneidentità e patriottismo civico.

    Il sogno della qualità urbana sarebbe quello di ottenere, secondo la felice sintesi di Colin Rowe,una città in cui ci fosse un centro storico europeo, ricco di valori estetici storicamente consolidati, euna grande periferia nordamericana, linda, efficientissima e funzionale. Rimane un sogno sia per lecittà nordamericane, che hanno assunto con ottimistica baldanza il carattere simulativo della

    società postmoderna, ricostruendo, con la logica del souvenir del turismodi massa, pezzi di storia monumentale e architettonica importati dall’Europa, sia per molte cittàeuropee, che non riescono a sottrarre le loro periferie a uno stile architettonico anonimo e sciatto,quando non le abbandonano a un destino di degrado. Ma, al di là dei sogni, l’accresciuta at-tenzione all’estetica della città è una realtà che si impone con evidenza.

    La città del XIX secolo e di buona metà del XX doveva essere funzionale, rispondere a criteri diutilità nella localizzazione delle funzioni e nella solidità del suo patrimonio edilizio; poteva ancheessere bella, ma questo requisito rimaneva un effetto secondario. Oggi, al contrario, la città

     postmoderna si misura attraverso la sua capacità di rispondere a una “domanda di bellezza” (v.Amendola, 1997) ancora tutta da esplorare nel suo contenuto sostanziale, nella tipologia e nellacapacità dei cittadini di rispecchiarsi nel “bello urbano”, ma anche nelle alterazioni provocate

    sulla domanda dalle concrete manifestazioni dell’offerta urbana così come determinate dai poteridel mercato e delle ideologie. “La voga, la voglia di inserire ‘arte’, ‘attrazioni artistiche’, eventi,lusinghe e distrazioni estetiche negli spazi urbani è un complemento dell’aspirazione

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    contemporanea a recuperare vita, ambienti e funzioni della città: cioè a ricostruire modelli diconvivenza, vagheggiati da un generico senso comune, in siti dall’aspetto gradevole” (v. Fabbri eGreco, 1995, p. 7).

    La “estetizzazione” della città supera la tradizionale distinzione tra città dal cuore antico e città pulsanti proposte dal nuovo urbanesimo, tra città d’arte e città delle funzioni. In ogni città opera

    un “sindaco Chirac” che azzarda un restyling dei monumenti e della grande edilizia civile e reli-giosa inventando colori e scolorimenti adatti a migliorarne la “confezione”; l’arredo urbanodiffuso richiama abitanti sulle strade e sulle piazze, anche là dove le condizioni meteorologichesono mediamente sfavorevoli (Stoccolma) o recuperando luoghi alla socializzazioneintergenerazionale (il progetto “Centopiazze” a Roma); cresce l’attenzione alla tutela, al restauro ealla valorizzazione dei centri storici, visti nella loro unità, superando, cioè, la concentrazione esteticasul singolo episodio artistico-monumentale che dominava nel passato; il patrimonio musealeviene ricollocato al centro dell’offerta urbana, non soltanto aprendolo con supporti logistici etecnologici a una fruizione più ampia, articolata e flessibile, ma anche progettando via via nuovi“contenitori” dotati di attrattiva estetica propria; una molteplicità di artisti, oscillando tral’happening urbano (gli impacchettamenti di Christo) e la land art, distribuiscono oggetti e

    avvenimenti estetici negli spazi della città. Nelle città storiche della vecchia Europa le vie dell’estetizzazione dell’ambiente urbano possono

    diversificarsi da realtà di più recente urbanizzazione come quelle del Nordamerica edell’Estremo Oriente. In queste ultime la ricerca artistico-monumentale si verticalizza, dando luogoalla tipologia edilizia e architettonica del grattacielo, testimonianza enfatizzata della modernità,connubio, a volte felice, di ricerca formale e di tecnologia, simbolo di potenza e di storia cherinnova l’ambizione che nelle città dell’Italia medievale spingeva le grandi famiglie a costruiretorri sempre più alte per affermare il prestigio del proprio casato.

    Come immaginare Manhattan senza il profilo dell’Empire State Building e delle Twin Towers,spazio emozionale non per nulla destinato a innovare il motivo del paesaggio nella pitturaamericana (Georgia O’Keeffe, Thurman Rotan)? Ed è l’Asia a raccogliere il testimone della speri-mentazione dell’architettura verticale in una rincorsa ambiziosa che con le Torri Petronas inMalaysia - 450 metri di altezza e ricettività per 60 mila persone - si lasciano dietro il più altograttacielo americano, la Torre Sears di Chicago (443 metri), mentre Tokyo progetta la TorreMillennium che con i suoi 840 metri - se e quando sarà realizzata - conquisterà il primato .eaggiungerà un altro segno di eccezionalità al volto multiforme della metropoli nipponica.

    E intanto matura una nuova generazione di grattacieli, sottoposti a nuove, originali tensioni e anuovi trattamenti di materiali, per opera di Philip Johnson, di Helmut Jahn, di Michael Graves. Ilgrattacielo, con le sue lisce superfici vetrate che riflettono il cielo e, nel gioco della luce, le formemutevoli degli spazi costruiti circostanti, si propone come segnale concreto ed emozionante di unacittà utopica, fatta di libertà creativa, di onnipotente artifizio che manipola illimitatamente lo spazio.

    Anche le città europee, che per i vincoli posti dal tessuto urbano storico - oltre che per lecaratteristiche produttive e commerciali dell’industria della costruzione - non possono certamenteriprodurre la struttura serrata e continua dell’architettura verticale delle città americane,sembrano d’altra parte non saper rinunciare al messaggio architettonico che il grattacielotrasmette; ogni grande città europea vi paga il suo tributo, costruendosi il suo simbolico grattacielo.

    L’estetizzazione della città ha due esiti estremi che pure, malgrado le reazioni critiche che hanno provocato e continuano a provocare, finiscono con il concorrere al successo urbano. Da una parte tale processo si accompagna con lo sviluppo della signature architecture: molti nuovi manu-fatti urbani, quelli di maggior impegno progettuale e di maggior impatto visivo, sonocaratterizzati dalla “firma” che conferisce valore aggiunto a un edificio esattamente come a unabito o a un paio di jeans, a un’automobile come a un profumo. Sono opere che, quale che sia la

    loro destinazione ufficiale, sembrano realizzate non per un luogo, non per una funzione, ma per essere visitate, fotografate, raccontate. Ad Amsterdam Renzo Piano ha progettato un museodella scienza in forma di nave; a Parigi, Ieoh Ming Pei ha scherzato sul “Louvre-santuario” con

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     permanente di cui è necessario essere o sentirsi - per un giorno, per una settimana, per una volta o per tutte le volte che potremo tornarci - ‘cittadini’, tributandone il successo con il farne una sortadi patria sia pur provvisoria.

    Un terzo fattore di successo va ricercato nel ruolo produttivo della città. La crisi della cittàindustriale aveva provocato molte incertezze sul futuro economico delle città e in particolare delle

    metropoli. Ma la forte spinta verso l’economia immateriale sta assicurando nuove prospettive allacittà. Il processo di globalizzazione crea interdipendenze tra le diverse economie locali, promuove losviluppo di imprese transnazionali, modifica radicalmente gli assetti del mercato del lavoro. Questi

     processi esaltano il ruolo di quelle città che presidiano i crocevia dell’economia mondiale, lecittà globali, le quali conservano o accrescono il proprio peso economico attraverso il controllodelle reti di informazione e di comunicazione.

    Accanto alle città globali, dotate di un ruolo strategico di controllo e di innovazionenell’economia del terziario avanzato, si collocano città, magari di dimensioni meno estese, cheesercitano la loro globalità attraverso funzioni più specializzate, ma che proprio per questo si

     propongono come obiettivo a livello mondiale. E il caso delle città turistiche. Infatti, il turismo èun’istituzione “universalizzante” che conferisce senso alla vita e propone una nuova scansione allo

    spazio-tempo; a esso accedono masse sempre più estese di persone, sottratte dal progressivoinnalzamento del tenore di vita alle rigide delimitazioni del loro territorio. Sia le città d’arte sia lecittà dello svago e degli eventi sono coinvolte dal turismo di massa (e usiamo, finalmente, questaespressione senza valenze negative, ma come possibilità diffusa di accesso alla soddisfazione di

     bisogni di gratificazione e di autorealizzazione) dentro un sistema di coordinate internazionaliin cui l’economia come processo globale ha una forte funzione regolatrice. Il luogo urbanodivenuto oggetto di consumo turistico è nello stesso tempo “estero-determinato” e ricomposto nellasua unità e identità a partire proprio dallo sguardo turistico. Anzi, l’identità urbana in quanto talediventa una risorsa meritevole di offerta, il patrimonio culturale un capitale da contabilizzare,l’etnicità una differenza che consente e rafforza il riconoscimento reciproco. La scommessa dellacittà turistica (come e forse più di ogni altro luogo offerto al turismo) è difficile perché ècaratterizzata da un delicato equilibrio tra conservazione e fruizione del patrimonio, tra ricerca diautenticità e offerta serializzata di esperienze omologate o simulate, in definitiva tra l’universalismodei comportamenti di consumo e il particolarismo del luogo. Nella gestione di questo equilibriostanno le ragioni del durevole successo di una città turistica.

    Un’altra tipologia di città globale con funzioni specialistiche si aggiunge alla lista della nuovaeconomia urbana: la città tecnologica. Ogni città sta diventando in una certa misura una cittàtecnologica, nel senso che le tecnologie avanzate sono sempre più la cornice all’interno della qualesi collocano le attività di servizio, le interazioni tra individui e organizzazioni (città cablate). Main questo caso si parla di città che hanno fatto delle tecnologie la risorsa per qualificarsi comemilieux innovateurs, aree in cui si assemblano funzioni pregiate di ricerca e di sperimentazione, ma

    anche incubatrici di nuove potenzialità imprenditrici. Seguendo l’esempio, probabilmente nonancora uguagliato né tanto meno superato, della Silicon Valley, negli Stati Uniti e in altre areedell’Europa e dell’Asia sono nate città dell’alta tecnologia: Salt Lake City, Seattle, Boston, maanche Cambridge e Dublino, Sophia-Antipolis in Francia e Helsinki, Xinzhu (Hsinchu) aTaiwan, Singapore, Bangalore e Tel Aviv, pur attraverso percorsi diversi, rappresentano il comunetentativo di non perdere l’appuntamento con il futuro creando uno scambio diretto tra la ricerca

     per l’innovazione tecnologica e la fertilizzazione del tessuto imprenditoriale, attirando quella che èormai la materia prima dello sviluppo, l’intelligenza, ma nello stesso tempo garantendo uncomplesso di servizi e di qualità di vita che promuova un clima di fiducia e di effervescenza intellet-tuale.

    La graduatoria delle città metropolitane, ottenuta incrociando volume demografico, capacità

     produttiva e reddito  pro capite, vedeva nel 1990 l’area metropolitana di Tokyo al primo posto conuna produzione globale di oltre 800 miliardi di dollari, seguita da New York con oltre 400 miliardi,Parigi con 300 miliardi nella stessa posizione di Osaka e di Los Angeles, infine Londra con 170

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    miliardi di dollari. La crisi economico-finanziaria che ha colpito il Giappone e la forte ripresaeconomica dell’economia statunitense hanno certamente variato in questi ultimi anni le posizionidi queste aree metropolitane, ma i dati, al di là della congiuntura, sottolineano la convergenza tra area metropolitana e capacità produttiva. Laglobalizzazione determina una profonda ristrutturazione economica e sociale, conferendo un

    nuovo carattere duale all’economia e al mercato del lavoro urbani. “Da una parte abbiamo la città“quaternaria”, densa di attività produttive sofisticate e complesse ad alto valore aggiunto, con laverticalizzazione del terziario, con la presenza estesa di élites cosmopolite (managers, esperti difinanza, ricercatori scientifici, imprenditori e professionisti dei media, ecc.); dall’altra, abbiamola città “marginale”, in cui persistono rapporti di produzione precapitalistici (artigianato diservizio, piccola edilizia, basso terziario e commercio ambulante abusivo, spezzoni di agricolturalocalistica) e in cui crescono nuove attività economiche di tipo interstiziale o informale,

     provocate dalla complessità e dalla difficoltà di funzionamento del sistema urbano (dal  pony-express ai vigilantes, dai sistemi di vendita “porta a porta” agli interventi di “aiuto sociale” in

     bilico tra volontariato e lavoro sussidiato)” (v. Sgroi, 1997, p. 94): la maggior parte delle cittàmetropolitane anche nelle società industriali avanzate, mostra un’articolazione composita cui

     partecipano, in diversa misura da città a città, l’un tipo e l’altro di economia urbana.Infine, nella valutazione del significato economico della città non bisogna dimenticare che

    nell’immaginario collettivo la città metropolitana assume le caratteristiche di un supermercatoglobale in cui si offrono sempre nuovi beni e servizi e tutti i desideri sono appagabili. Siaattraverso i grandi centri commerciali, sia attraverso la trasformazione di certe strade, consacratetradizionalmente ai consumi di qualità, che creano una sorta di megacentro commerciale diffuso,si sviluppa nelle città una nuova pratica urbana, lo shopping, che, accanto al carattere dicomportamento economico che gli è proprio, assume quello di pratica sociale, impiego del tempolibero, occasione di socializzazione. La città del consumo fa suo lo slogan di Harrod’s aLondra - “tutto per tutti dappertutto” - testimoniando la sua funzione di mercato totale. Maanche attraverso questa sua funzione di capitale del consumo, la metropoli rilancia il suo ruolocompetitivo nell’attirare nuovi flussi di utilizzatori.

     Nel successo di una città si inserisce anche la capacità di governare il rapporto tra mobilitàurbana e fruibilità della città. Un sistema di trasporti integrato e veloce nella città e tra la città e ilsuo hinterland, il quale - sfruttando una molteplicità di livelli spaziali, dalla metropolitana allesopraelevate - sottragga larghe aree al traffico automobilistico e le pedonalizzi: con questaformula avviata precocemente (si pensi alla costruzione delle prime linee di metropolitanasotterranea a Londra già nel 1863) alcune metropoli sono riuscite a garantire una certa qualità divita urbana, pur in presenza di impetuosi processi di crescita.

    Le grandi città capaci di raggiungere il successo sono i luoghi dove meglio sembra realizzarsi la promessa urbana, quel progetto di vita pubblica che comprende maggiore libertà di pensiero e di

    azione per i cittadini, un paniere di entitlements, provisions e chances tendenzialmente disponibile per tutti, un’economia più dinamica e diversificata, occasioni più frequenti di comunicazione socialee un’offerta culturale più ricca e aggiornata.

    Ma questo risultato non è il frutto di processi spontanei o delle sole forze di mercato. Il bilancio tracosti e benefici della crescita urbana è diverso da regione a regione, da città a città, perché dipendeanche dalla capacità di governare la complessità metropolitana da parte delle istituzioni pubbliche edei dirigenti politici.

    Gli ultimi anni del Novecento sono stati caratterizzati dalla ricerca di nuove forme di governolocale, capaci di affrontare i problemi di una realtà urbana policentrica e di mantenere l’equilibriotra l’esigenza di decisioni rapide ed efficaci e la necessità di negoziare continuamente tra inte-ressi e bisogni di una realtà sociale sempre più articolata e differenziata. La ricerca di nuove

    modalità di governo sostanziale dei fenomeni urbani si muove non soltanto attraversoinnovazioni legislative, ma anche attraverso nuove pratiche politiche e tecniche. Si rafforzano i poteri esecutivi nel governo municipale. Non soltanto in Italia, ma anche in altri paesi, il ruolo del

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    sindaco diviene più visibile e assume nuovi poteri, fino a sfiorare un profilo monocratico chespesso si traduce in manifestazioni improprie, dall’intervento in prima persona nella politicanazionale (il “partito dei sindaci”) all’assunzione della rappresentanza diretta degli interessimetropolitani a livello sovranazionale (nel rapporto con l’Unione Europea o nell’avvio di

     procedure transnazionali di cooperazione città/città), fino alla tentazione del sindaco-impresario

    e del sindaco-sceriffo (v. Sgroi, 1997).La macchina amministrativa municipale ha di recente adottato in Italia una figura

     professionale già attiva - anche se con un bilancio ancora incerto (v. Golombiewski e Gabris,1996) - in altri paesi europei e negli Stati Uniti, il city manager, il quale dovrebbe assicurare,nella prospettiva della città-impresa e della sempre crescente ricerca di autonomiadell’amministrazione rispetto alla politica, la capacità strategica di risolvere problemi e diutilizzare in modo efficiente ed efficace le risorse.

    Anche sul piano tecnico si affermano nuovi principi, si propongono nuovi strumenti e metodologie per la gestione urbana. La tradizionale cultura della pianificazione urbanistica è in crisi, forse anche perché, come afferma Jean Daniel, il nostro secolo si è caratterizzato essenzialmente per l’incapacitàdi prevedere e anticipare il futuro: più oggettivamente, perché i nuovi paradigmi adoperatinell’analisi dei processi decisionali hanno portato al riconoscimento della  policy come interazionetra soggetti piuttosto che alla contrapposizione tra piano “disegnato” e piano “strategico” (v.Mazza, 1997).

    Il 30 maggio del 1998 il Consiglio europeo degli urbanisti, espressione di undici paesi europei, haapprovato la nuova Carta di Atene, che ribalta i principi ispiratori di quella del 1933: essaafferma la necessità di costruire città multifunzionali superando la pianificazione per zone, di re-digere piani urbanistici attenti alla fattibilità economica e ambientale, di aumentare lacollaborazione, anche attraverso forme negoziali, tra amministrazioni pubbliche e soggetti privati, difavorire la partecipazione dei cittadini. Questi concetti si erano diffusi in Europa già da molti anniin conseguenza della fallimentare esperienza di pianificazione che aveva coniugato il massimo di

    autoritarismo e il massimo di impotenza. La nuova Carta d’Atene è una dichiarazione di principi lacui attuazione è ancora tutta da verificare, perché - come sta contemporaneamente avvenendo con la privatizzazione dei servizi urbani - da una parte sconta i tentativi di fuga verso una deregulation sel-vaggia e dall’altra incontra le resistenze sorde degli apparati politico-amministrativi.

    In questa complessa ricerca di nuove modalità di governo dei fenomeni urbani si sta inserendo una prospettiva nuova: di fronte all’urgenza di trovare soluzioni politiche e istituzionali di tiposovranazionale per molti problemi di una società sempre più complessa, sono paradossalmente lerealtà territoriali locali a riconquistare significati e spazi di autonomia e a cercare forme dicooperazione che oltrepassano i confini nazionali. Il successo urbano salda con più forza i legami e leinterdipendenze del network metropolitano liberando la città globale da ogni tentazionemonopolistica o egemonica. È semmai l’ordinamento istituzionale a essere in ritardo.

    3. La coscienza infelice.

    3a. La mitologia dell’antiurbanesimo.

    “Ora l’immensa Roma mi maciulla. / Un giorno mio, qui, quando ce l’ho? / Catapultatonell’oceano urbano / perdo la vita in sterili fatiche”. All’incirca millenovecento anni fa Marziale,inurbato di grande successo ma di pochi quattrini, scriveva parole che, stile a parte, potremmoritrovare sulla bocca di molti abitanti contemporanei delle metropoli.

    “Una delle più antiche immagini della città è quella dell’agglomerato caotico, decadente,corrotto, violento e insicuro; la si ritrova in tutta la letteratura antiurbana, dalla Bibbia a

    Giovenale a Rousseau ai romanzi ottocenteschi” (v. Strassoldo, 1998, p. 69). Nella storia del genere umano c’è il “destino” del fare città. Ma anche in questo caso sembra

    ripetersi l’esperienza del difficile rapporto tra gli uomini e il loro destino, come se gli uomini ne

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     prendessero per cautela psicologica le distanze rispetto ai vincoli e ai possibili rischi,rifiutandone la paternità e la responsabilità. E come se la consapevolezza di questo destino, dellesue incognite e delle sue sfide, producesse un forte sentimento di inadeguatezza e la vergogna difronte a tale inadeguatezza portasse al fatalismo o alla ribelle negazione. Nei confronti della cittàgli uomini oscillano tra la negazione del successo (la tesi della morte della metropoli) e la sua

     psicologicizzazione (l’enfatizzazione delle grandi paure urbane).La mitologia dell’antiurbanesimo nasce sul terreno del continuo conflitto tra natura e cultura dicui gli uomini sono partecipi in maniera ambigua. Socrate nel  Fedro risponde all’amico che lorimprovera di non uscire quasi mai fuori dalle mura della città: “Perdona me, buon uomo: io sonouno che ha amore per imparare; or i paesi, gli alberi, non mi vogliono insegnare nulla; gli uominisì”. Città-civiltà: Socrate esprime il pensiero fondante di questo percorso. Ma la realtà non è semprecollocabile entro questo rassicurante divenire, non per tutti, almeno; non per coloro che vivono nella

     paura e nella schiavitù, non per coloro che pagano subito i costi della nascita o della trasformazionedella città e che ne avranno, forse molto più in là, i benefici.

    L’antichità, che con l’invenzione della città ha sottratto lo spazio al disordine della natura, non può ignorare che il “dentro” della città è sempre aggredito e spesso invaso dal disordine che viene

    dal “fuori”; non ci sono mura sufficientemente alte e spesse che un cavallo di Troia non possa at-traversare col suo carico di violenza e di distruzione. Da qui l’immagine, tramandata dai testi sacricome dai miti prestorici, delle città sante e delle città maledette: le une prosperanonell’abbondanza e nella felicità, sono governate da sovrani giusti e sapienti offertiall’ammirazione del mondo intero che a esse invia i pellegrini di speranza, gli assetati di sapere, i

     bisognosi di giustizia; le altre sono inferno di abominio e di corruzione, destinate alla rovinasotto i colpi della collera divina.

    Cambia la città nella dissoluzione del mondo antico e cambiano i sentimenti dell’urbano. Allesoglie dell’età moderna si afferma in Europa l’esigenza di una forma permanente, la “città ideale”,in cui geometria e filosofia, accresciuta cultura visiva e potere del principe si saldano in un

     progetto politico che è insieme organizzazione razionale dello spazio e rappresentazione del mondo,così come sono state fissate nelle categorie senza tempo e senza confini dell’ideale della monarchiaassoluta.

    Il trauma provocato dalle grandi rivoluzioni - politica, economica, tecnologica, sociale - cheaccompagnano il passaggio dal XVIII al XIX secolo spiega il rinnovato vigore del pensieroantiurbano. Sono filosofi come Jean-Jacques Rousseau o Johann Fichte, romanzieri come EugèneSue, Victor Hugo, Honoré de Balzac e Charles Dickens, raffinati critici d’arte e artisti come JohnRuskin e William Morris, poeti come William Blake e Ralph Emerson, perfino statisti comeThomas Jefferson, che nel Vecchio e nel Nuovo Mondo, entrati nell’era urbano-industriale, de-nunciano la città come espressione estrema della rottura con la natura e come sconfitta della

     piccola comunità integrata e solidale. Alla fine del secolo il tema viene ripreso dalla

    contrapposizione tra Gemeinschaft (comunità) e Gesellschaft (società): “La città è la forma piùalta, cioè più complicata, della convivenza umana in generale. Essa ha in comune con il villaggiola struttura locale in antitesi a quella familiare della casa. Ma entrambi conservano molticaratteri della famiglia - e il villaggio in misura maggiore della città, la città li perde quasicompletamente quando si sviluppa in grande città” (v. Tónnies, 1887; tr. it., p. 290).

     Nel corso del XIX secolo la visione apocalittica del destino della città non rimane appannaggiosoltanto di pochi profeti illuminati, né si affida soltanto a giudizi etici ed estetici. Gli strumentidelle nuove scienze sociali offrono al sentimento antiurbano una provvisoria base scientifica.Thomas Malthus, Friedrich Engels e Charles Booth documentano, in momenti successivi e construmenti empirici diversi, le condizioni delle classi povere nella città per eccellenza, Londra,denunciandone l’invivibilità. Si fa strada la tesi della morte della città: tesi del tutto compatibile

    con il suo successo. Anche per l’escatologia materialistica di Marx, la città, che pure ha avuto unruolo positivo consentendo di superare l’isolamento e l”idiotismo” del mondo rurale, è destinata asparire con l’abolizione del modello di produzione capitalistico (v. Marx, 1867-94). Robert

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    Owen e Charles Fourier offrono una possibile soluzione alla crisi della città prospettando forme diinsediamento urbano alternativo, il cui messaggio utopico sarà peraltro raccolto in parte dalsuccessivo Movimento moderno.

    I cambiamenti materiali della città provocati dalla rivoluzione industriale sono ingigantiti edeformati dalla forte impressione di novità che domina la riflessione colta degli intellettuali non

    meno che l’immaginazione popolare. Da qui deriva la nostalgia per una natura elegiacamenterivissuta o per una città bella e ordinata che è sempre quella che ha preceduto la città in cui si ècostretti a vivere. Questa visione catastrofista si alimenta di una tendenza più generale che

     potremmo definire con l’espressione “paura della modernità”. La modernizzazione ha sempresuscitato timori e violente opposizioni nei ceti i cui confini sociali, le posizioni di potere, gli stili divita rischiavano di essere sconvolti dal mutamento. Nell’Ottocento l’antimodernismo el’antiurbanesimo sono perciò più facili da ritrovare nell’ambito della cultura conservatrice, nondi rado attivando nostalgie e movimenti reazionari. È la lettura catastrofista del Manifesto di Marxche trasferisce successivamente questo sentimento all’interno della cultura politica di sinistra. Maquesta è già storia del XX secolo.

    3b. Crisi e critica della città.

    Don Martindale, nella sua prefazione all’edizione inglese del saggio di Weber sulla città, affermache “al suo interno la città è oggi in uno stato di decadenza [...] l’etica della città sembra esseresul finire” (v. Martindale, 1958, p. 62). Oswald Spengler (v., 1918-22), che pure sottolinea ilvalore della città come fattore di evoluzione culturale, vede nella metropoli lo stadio finale delciclo di vita urbano, quello che precede la dissoluzione. Anche Lewis Mumford (v., 1961) avanzala stessa previsione: la metropoli è la manifestazione più alta dello sviluppo urbano, ma il suodeclino si è già avviato nel nostro secolo e sono molto limitate le possibilità che l’uomo moderno ha

     per arrestare questo processo, un processo che attraverso la megalopolis sembra portareall’infausto destino di nekropolis.

    Malgrado la reazione del Movimento moderno e l’ulteriore reazione della cultura postmoderna,il pessimismo sul presente e sul futuro della città permane, anzi si aggrava, tra noi contemporanei.Emerge, però, da una riflessione e un’analisi concettualmente più ricche ed empiricamente piùattrezzate, il tema non più della morte della città, ma quello della crisi urbana. È un’espressione,questa, di successo, perché permette di comprendervi il “molto”, ma porta con sé anche il rischio distringere il “poco”. “L’idea di crisi, infatti, è diventata altrettanto vaga quanto l’idea di città che

     porta dietro” (v. De Carlo, 1995, p. 30). Ha ragione Paul-Henry Chombart de Lauwe (v., 1981)quando, domandandosi se la città sia morta, conclude che è morta la teoria tradizionale della città,mentre la città rinasce in forme nuove. Il fatto è che utilizziamo, senza averne sempre

    consapevolezza, le vecchie metafore della “città-corpo” e della “città-macchina” che siconiugavano più facilmente (non illudiamoci più di tanto: anche nella  polis greca, così comenella città rinascimentale italiana, l’ideologia faceva aggio sulla realtà, che era molto menoorganica e integrata di quanto volesse la rappresentazione) con la categoria dell’ordine urbano. Mal’ordine urbano, a sua volta, ha bisogno di una forma compatta; la città è il “dentro”, che haconfini, legittimazioni, funzioni (le mura, la cittadinanza, le risorse, gli stili di vita) suoi propri: sicontrappone al “fuori”, da cui deve difendersi (la città medievale) o che deve annettere e dominare(la città moderna). Ma quando il dentro dilaga nel suo fuori, la città diventa confusa, funzioni eluoghi si separano, i confini tra dentro e fuori sbiadiscono. Si determina una forma nuova di città -chiamiamola post-città o ipercittà - che richiama con evidenza la categoria del disordine o, piùsemplicemente, denuncia la presenza di più ordini apparentemente non componibili e conflittuali.

    La qualità essenziale che ci si aspetta dalla città è la sua leggibilità, la facilità con cui le suediverse parti possono essere visualmente percepite o apprese, riconosciute e organizzate secondouno schema unitario e coerente di identificazione (v. Lynch, 1960). La riproposizione attuale

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    Il tema della crisi urbana è centrale, anche se con accenti diversi e diverse chiamate di correità,nel dibattito più recente tra addetti ai lavori, urbanisti, architetti, geografi urbani; forse perché piùcocente appare la frustrazione per chi questa città ha contribuito in qualche misura a costruire e sel’è trovata diversa dal modello che le aspettative ideali e il progetto tecnico avevano disegnato.

    Proponiamo, senza pretese di rappresentatività, alcuni esempi di riflessioni tecniche, a volte anche

    autocritiche. “La crescita della città ha comportato una perdita d’identità e di valoririconoscibili per secoli come attributi deglispazi insediativi. Il mancato controllo dei processi di espansione dei centri abitati, della qualitàoltre che della funzionalità delle reti infrastrutturali, la difficoltà di costruire spazi sociali cheavessero la stessa forte identità della città storica e consolidata hanno condotto non solo allacostruzione delle periferie anonime e al degrado dei nuclei urbani antichi, ma anche alla perdita diuna diffusa pratica di socialità negli spazi pubblici [...]. La città contemporanea è diventata larealtà dove è massima l’atomizzazione sociale e dove le relazioni conflittuali vedono il

     predominio dell’homo oeconomicus, il cui comportamento si basa su di una razionalitàstrumentale che non tiene conto dell’altro in quanto persona con cui cum-vivere [...]. Con la cittàmoderna il processo di identificazione tra spazio e società civile si è disgregato e risulta difficile

    ristabilire il “patto’ tra urbs (sistema fisico) e civitas (sistema sociale), infranto” (v. Fusco Girarde altri, 1998).

    Il dibattito urbanistico scopre la nostalgia del passato perché, come ha sostenuto Piano inun’intervista apparsa su un quotidiano, “il nostro secolo ha fatto degenerare questa grandeinvenzione dell’uomo che è la città. I suoi valori positivi: la socialità, la miscela delle funzioni, laqualità del costruito, sono tutte presenze di un tempo che fu, e sopravvivono a stento nei centriurbani di oggi”.

    La critica si appunta soprattutto sulle città italiane. Esse non soltanto mancano gravemente diinfrastrutture e attrezzature, sopravvivendo in pratica con la dotazione assicurata dalle politicheurbane e dalle opere pubbliche del secolo scorso e dell’inizio di questo secolo o con le isolate grandiopere - talvolta inutili e abbandonate al successivo degrado - catturate con qualche grande evento(le Olimpiadi, i Mondiali di calcio); sono anche (o lo sono diventate), se confrontate con altre cittàeuropee, faticose da viverci, prive di comfort, brutte, insicure.

    Se le città italiane sono criticate per il “meno” che esse offrono quanto a efficienza e qualitàdell’organizzazione urbana, le città americane sono investite dalle critiche per il “troppo” chel’architettura postmoderna ha prodotto in loro, muovendosi con arbitrarietà rispetto al contestofisico e sociale, per il carattere di gioco e di dissipazione che presiede alla progettazione dellenuove realtà architettoniche e urbane, entrate ormai nel regno delle merci e come queste sottopostea una rapida obsolescenza per consentire altre inn