Elia Canetti Frutto Del Fuoco

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Elias Canetti, Il frutto del fuoco. Storia di una vita (1921-1931). Titolo originale: Die Fackel im Ohr. Lebensgeschichte 1921-1931. Traduzione di Andrea Casalegno e Renata Colorni. Copyright 1980 Carl Hanser Verlag, M nchenWien. Copyright 1982 Adelphi Edizioni S.p.A., Milano. Questa seconda parte dell'autobiografia di Elias Canetti si apre subito dopo la -cacciata dal paradiso di Zurigo, che chiudeva La lingua salvata. Ora siamo a Francoforte, nel 1921, e il giovane Elias comincia a intravedere intorno a sé un nuovo mondo, formicolante di figure che cercano di sopravvivere fra -inflazione e impotenza . -Era finita per sempre l'epoca in cui l'ignoto si riversava in me senza incontrare ostacoli . Dalla ricettività totale dei primi anni si passa ora a uno scontro con tutto e con tutti, che permette a Canetti di saggiare se stesso, di scoprirsi nella sua irriducibile peculiarità. Se a quest'ultima si può dare un nome, sarà quello della rivolta contro la morte, una rivolta -senza fine . La giovinezza di Canetti è un'iniziazione a questa scoperta, vissuta facendo appello a tutte le potenze arcaiche, che lo hanno sempre assistito. Nell'ombra, il modello mitologico è Gilgamesh, che traversa le acque della morte per trovare la vita eterna. Ed è lo scandalo di tutto ciò che scompare a mantenere intatta in Canetti un'immensa forza del ricordo. L'intensità che vibra in ciascuna delle numerose figure che appaiono in queste pagine presuppone tale sottinteso. Ciascuna vuole incidersi nella memoria e nella prosa con segno indelebile. Saranno gli ospiti patetici della pensione Charlotte di Francoforte e gli intellettuali frenetici di Berlino; saranno gli ascoltatori di Karl Kraus e i manifestanti che incendiano a Vienna il Palazzo di Giustizia; saranno l'amata Veza e la deliziosa Ibby; sarà la madre, che i lettori de La lingua salvata conoscono bene e che ora, assillata dalla gelosia per il figlio, lo costringe a una inarrestabile commedia, dove donne -inventate servono a coprire donne vere e proibite; saranno infine Karl Kraus stesso e Brecht, Grosz, Babel, che

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Elias Canetti,Il frutto del fuoco.Storia di una vita (1921-1931).Titolo originale: Die Fackel im Ohr.Lebensgeschichte 1921-1931.Traduzione di Andrea Casalegno e Renata Colorni.Copyright 1980 Carl Hanser Verlag, M�nchenWien.Copyright 1982 Adelphi Edizioni S.p.A., Milano.Questa seconda partedell'autobiografia di Elias Canetti siapre subito dopo la -cacciata dalparadiso di Zurigo, che chiudeva Lalingua salvata. Ora siamo aFrancoforte, nel 1921, e il giovaneElias comincia a intravedere intorno asé un nuovo mondo, formicolante difigure che cercano di sopravvivere fra-inflazione e impotenza . -Era finitaper sempre l'epoca in cui l'ignoto siriversava in me senza incontrareostacoli . Dalla ricettività totaledei primi anni si passa ora a unoscontro con tutto e con tutti, chepermette a Canetti di saggiare sestesso, di scoprirsi nella suairriducibile peculiarità. Se aquest'ultima si può dare un nome, saràquello della rivolta contro la morte,una rivolta -senza fine . Lagiovinezza di Canetti è un'iniziazionea questa scoperta, vissuta facendoappello a tutte le potenze arcaiche,che lo hanno sempre assistito.Nell'ombra, il modello mitologico èGilgamesh, che traversa le acque dellamorte per trovare la vita eterna. Ed èlo scandalo di tutto ciò che scomparea mantenere intatta in Canettiun'immensa forza del ricordo.L'intensità che vibra in ciascunadelle numerose figure che appaiono inqueste pagine presuppone talesottinteso. Ciascuna vuole incidersinella memoria e nella prosa con segnoindelebile. Saranno gli ospitipatetici della pensione Charlotte diFrancoforte e gli intellettualifrenetici di Berlino; saranno gliascoltatori di Karl Kraus e imanifestanti che incendiano a Viennail Palazzo di Giustizia; sarannol'amata Veza e la deliziosa Ibby; saràla madre, che i lettori de La linguasalvata conoscono bene e che ora,assillata dalla gelosia per il figlio,lo costringe a una inarrestabilecommedia, dove donne -inventate servono a coprire donne vere eproibite; saranno infine Karl Krausstesso e Brecht, Grosz, Babel, che

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Canetti conosce a Berlino. Tutte leloro voci sono qui salvate. E,intrecciata per sempre alla loro,riconosciamo qui la voce di Canettistesso. Appartengono a questi anni leesperienze che saranno decisive per lasua opera di scrittore: la visionearistofanesca, che sembra offrire-l'unica possibilità di tener unitociò che si frantumava in milleschegge ; la fascinazione ossessivaper Kraus; la massa, questo enigmaincombente come mai prima sul nostrotempo, a cui Canetti dedicherà decennidi riflessione; infine il disegnarsidi una -comédie humaine dei folli ,di cui rimane, quale unico, grandiosoframmento il romanzo Auto da fé.Inseguito dalle voci, Canetti non sicura di darci un quadro dell'epoca: mal'aria di Francoforte, di Vienna e diBerlino in quegli anni circola inqueste pagine come una presenzapalpabile. In toni opposti, estridenti fra loro, le città ciparlano di un periodo in cui -ciò chesi abbatteva sugli uomini era più cheun grande disordine, erano come tanteesplosioni quotidiane . Ovunque,Canetti incontra varianti di unostesso sfondo: il caos, perpetuaminaccia e prezioso nutrimento. I suoibagliori sono quelli del -fuoco , dicui questo libro - come già Auto dafé e ogni grande libro - è il-frutto .Elias Canetti, premio Nobel 1981 perla letteratura, è nato nel 1905 aRustschuk (Bulgaria) da una famigliaebraica di origine spagnola, ed èvissuto lungamente a Vienna e poi aLondra e Zurigo.A Veza Canetti1897-1963.Parte prima: Inflazione eimpotenza (Francoforte 1921-1924)Pensione Charlotte.I cambiamenti di scena dei mieiprimi anni li accettai senza opporreresistenza. Non ho mai rimpianto diessere stato esposto da bambino aimpressioni tanto forti econtrastanti. Ogni posto nuovo, perquanto estraneo mi apparisseall'inizio, mi conquistava perl'impronta peculiare che lasciava inme e per le sue imprevedibilidiramazioni.Un solo passo ho vissuto conamarezza: la ferita per il distacco da

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Zurigo non si è mai rimarginata. Avevosedici anni e mi sentivo così legatoagli uomini, ai luoghi, alla scuola,al paese, alla poesia, persino allalingua che mi ero conquistato vincendol'ostinata resistenza della mamma, chenon avrei voluto lasciarli mai più. AZurigo avevo passato cinque annisoltanto, ero ancora giovanissimo,eppure mi sembrava di non dover piùandare in nessun altro posto: a Zurigoavrei voluto passare tutta la miavita, in un benessere spiritualesempre più grande.Fu uno strappo violento, e tutte leragioni che avevo messo in campo perdifendere il mio desiderio di rimanereerano state derise. Dopo il colloquioannientatore che aveva deciso il miodestino, mi sentivo un essere ridicoloe meschino, un pavido che pensa soloai libri e non sa guardare la vita infaccia, un presuntuoso imbevuto di unfalso sapere, che non serve a nulla,un essere angusto e soddisfatto di sé,un parassita, uno che vive di rendita,già vecchio prima di aver affrontatouna qualsiasi prova.Nel nuovo ambiente, la cui sceltaera dipesa da circostanze che per merimasero oscure, reagii in due modialla brutalità del cambiamento.Innanzitutto con la nostalgia, che eraritenuta una malattia tipica degliabitanti del paese in cui ero vissuto;provando una fortissima nostalgia misentivo proprio uno di loro. Ma reagiianche con un atteggiamento criticoverso il mio nuovo ambiente. Erafinita per sempre l'epoca in cuil'ignoto si riversava in me senzaincontrare ostacoli. Ora cercavo dichiudermi a un ignoto che mi era statoimposto contro la mia volontà. Ma diripulse totali e indiscriminate nonero capace, essendo, per carattere,troppo ricettivo, e così cominciò unperiodo di verifiche puntuali e diasprezza satirica. Delle cose diverseda come le conoscevo esageravo lastranezza e finivo per trovarle buffe.E, come se non bastasse, molte novitàsi presentarono insieme.Ci eravamo trasferiti a Francofortee, siccome la situazione era incerta enon sapevamo ancora per quanto temposaremmo rimasti in quella città,andammo ad abitare in una pensione.Vivevamo in due stanze, un po'pigiati; non eravamo mai stati a

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contatto così stretto con altra gente,e, pur sentendoci una famiglia a sé,mangiavamo giù a pianterreno con tuttigli altri al lungo tavolo comune.Nella pensione Charlotte conoscemmopersone d'ogni genere, le vedevo tuttii giorni a pranzo, cambiavano soloogni tanto. Alcune si trattennero pertutto il periodo, due anni, che passaiin quella pensione, altre soltanto perun anno, oppure per sei mesi; eranopersone molto diverse tra loro, etutte mi sono rimaste impresse nellamemoria; dovevo stare però moltoattento per capire di che cosaparlavano. I miei fratelli, cheavevano allora undici e tredici anni,erano i pensionanti più giovani esubito dopo venivo io, coi miei sedicianni.Non sempre gli ospiti siincontravano giù in sala da pranzo. Lasignorina Rahm, una mannequin snella,giovane, biondissima, la bellezza allamoda della pensione, scendeva per ilpranzo solo ogni tanto. Mangiava poco,per via della linea, ma tanto più erapresente nei discorsi degli altri. Nonc'era uomo che non la seguisse con losguardo, non c'era uomo che non ladesiderasse; e poiché si sapeva cheoltre al suo accompagnatore fisso, ilproprietario di un negozio diabbigliamento maschile che non abitavanella pensione, anche altri uominiandavano ogni tanto a trovarla, moltifacevano dei progetti su di lei con iltono compiaciuto di chi ha messo gliocchi su qualcosa che gli spetta didiritto e che, prima o poi, potrebbeanche essere suo. Le donne letagliavano i panni addosso. Gliuomini, se osavano parlare di leidavanti alla moglie, oppure se eranosoli, mettevano invece una buonaparola, soprattutto lodavano la suafigura elegante; era così alta esnella - dicevano - che lo sguardo,correndo lungo il suo corpo, nonsapeva dove fermarsi.A capotavola sedeva la signoraKupfer, scura di pelle e consumatadalle preoccupazioni, una vedova diguerra che mandava avanti la pensioneper mantenere se stessa e il figlio,donna ordinatissima, precisa, semprecompresa delle difficoltà del momento,ma solo di quelle traducibili incifre; -Io questo non possopermettermelo era la sua frase

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preferita. Alla sua destra sedeva ilfiglio Oskar, un giovane tarchiato consopracciglia foltissime e frontebassa. A sinistra della signora Kupfersedeva il signor Rebhuhn, un uomopiuttosto anziano, sofferente d'asma,un funzionario di banca estremamenteaffabile, che si aggrondava e siinfuriava soltanto quando il discorsocadeva sull'esito che aveva avuto laguerra. Pur essendo ebreo, era unfervente nazionalista, e, se qualcunolo contraddiceva su quell'argomento,sfoderava rapido come il baleno - lui,di solito così accomodante - la sua-pugnalata . Si agitava tanto che gliveniva un attacco d'asma e allora suasorella, la signorinaRebhuhn, che viveva con lui nellapensione, era costretta a portarlovia. Ma poiché questa suasuscettibilità era nota e inoltretutti sapevano quanto l'asma lofacesse soffrire, di solito a tavolasi evitava di portare il discorso suquel punto dolente, così che le sueesplosioni erano assai rare.Solo il signor Schutt, sofferenteper una ferita di guerra non certomeno grave dell'asma del signorRebhuhn (era sempre molto pallido,poteva camminare solo con le grucce eaveva dei dolori così forti che persopportarli doveva ricorrere allamorfina), solo il signor Schutt,dicevo, parlava senza peli sullalingua. Odiava la guerra e sirammaricava che fosse finita troppotardi, quando lui ormai era statogravemente ferito; quella guerra,sottolineava, l'aveva prevista, avevasempre pensato che il Kaiser fosse unpericolo pubblico; lui era unsocialista indipendente e al Reichstagavrebbe votato senza esitare contro icrediti di guerra. Era stata un'ideaquanto mai infelice far sedere queidue, il signor Rebhuhn e il signorSchutt, così vicini a tavola, separatisoltanto dall'anziana signorinaRebhuhn. Nel momento del pericolo leisi girava a sinistra, verso il suovicino, protendeva dolcemente lelabbra da vecchia zitella, ci mettevadavanti l'indice e lanciava al signorSchutt una lunga occhiatasupplichevole, mentre con l'indicedella mano destra rivolto obliquamenteverso il basso accennava conprecauzione al fratello. Il signor

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Schutt, di solito così accanito,capiva, e quasi sempre si bloccava,perlopiù lasciando addirittura lafrase a mezzo; del resto, parlava avoce bassissima, tanto che bisognavaascoltare molto attentamente percapire qualcosa. Così, grazie allavigilanza della signorina Rebhuhn, chetendeva sempre l'orecchio alle frasidel signor Schutt, la situazione erasalva. Il signor Rebhuhn non si eramai accorto di nulla, e certo noncominciava per primo, era l'uomo piùpacifico e soave del mondo. Solo sequalcuno si metteva a parlare dellafine della guerra, approvandone ilcarattere insurrezionale, la-pugnalata gli saliva fulminea allelabbra, ed egli si gettava nellamischia con cieco furore.Ma sarebbe sbagliatissimo credereche a tavola questo tipo di tensionifossero abituali. Quel conflitto èl'unico che mi sia rimasto in mente, eforse l'avrei perfino dimenticato sedopo un anno non si fosse a tal puntoacuito che diventò necessarioallontanare da tavola entrambi icontendenti, il signor Rebhuhn comesempre al braccio della sorella, ilsignor Schutt assai più faticosamentesulle sue grucce, aiutato dallasignorina K�ndig, una professoressache viveva nella pensione da moltotempo, aveva fatto amicizia con lui ein seguito lo sposò, per dargli unacasa sua e assisterlo piùconvenientemente.La signorina K�ndig era una delledue professoresse ospiti dellapensione. L'altra, la signorinaBunzel, aveva il viso butterato e unavoce un po' piagnucolosa, come se aogni frase si lamentasse per lapropria bruttezza. Nessuna delle duepoteva dirsi giovane, avevano circaquarant'anni, e insiemerappresentavano la cultura nellapensione. Zelanti lettrici della-Frankfurter Zeitung , erano sempreaggiornate sui grandi temi delmomento, si capiva che erano allaricerca di interlocutori che sapesserodimostrarsi all'altezza della loroconversazione. Ma se anche nontrovavano nessuno che avesse voglia didire la sua su Unruh o su Binding, suSpeng-ler o sul Vincent di MeierGraefe,le signorine non si dimostravano

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comunque prive di tatto: memori di ciòche dovevano alla proprietaria dellapensione, in certe circostanzesapevano tacere. Mai, del resto, sipoteva avvertire una sfumatura discherno nella voce piagnucolosa dellasignorina Bunzel. E la signorinaK�ndig, che era di modi assai piùgiovanili e aggrediva con parivivacità gli uomini e i temiculturali, era sempre in attesa diincontrare le due cose insieme, poichéun uomo a cui lei non potesse parlareavrebbe avuto occhi soltanto per lasignorina Rahm, la mannequin. Unapersona a cui lei non potesse fornirele sue delucidazioni su questo o suquello, non l'avrebbe comunque maiinteressata; per questo motivo -confessò a mia madre a quattr'occhi -non si era ancora sposata, benchéfosse, a differenza della collega, unadonna attraente. Un uomo che nonprendesse mai un libro in mano per leinon era neanche un uomo; megliopiuttosto restare libera, senza lepreoccupazioni di una casa da mandareavanti. Nemmeno di avere dei bambiniaveva poi questa gran voglia, nevedeva in giro anche troppi. Andava ateatro e ai concerti, e quando neparlava amava seguire l'impostazionedella -Frankfurter Zeitung . Era unacosa davvero strana, diceva, come icritici fossero sempre del suo stessoparere.A mia madre, la quale detestaval'estetismo decadente dei viennesi ein compenso aveva un debole per ilmodo di esprimersi dei tedeschi colti,che le era familiare fin dai tempi diArosa, la signorina K�ndig piaceva; lecredeva, e non fece commenti maligniquando notò il suo interesse per ilsignor Schutt. Questi, a dire il vero,era un uomo troppo amareggiato permettersi a conversare di arte o diletteratura, e quando la signorinaK�ndig gli parlava di Binding, da leiapprezzato non meno di Unruh (entrambicomparivano spesso sulle colonne della-Frankfurter Zeitung ), lui silimitava a reagire con un brontoliosemirepresso. Una volta che ildiscorso cadde sul nome di Spengler,cosa allora inevitabile, il signorSchutt dichiarò: -Al fronte quello nonc'è stato. Non mi risulta , al che ilsignor Rebhuhn obiettò in tono pacato:-Non mi pare che per un filosofo abbia

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molta importanza .-Per un filosofo della storia forsesì intervenne la signorina K�ndig, eda ciò si poteva dedurre che, con ildovuto rispetto per Spengler, leistava dalla parte del signor Schutt.Ma quella volta non si arrivò alconflitto. Già nel fatto che il signorSchutt esigesse da qualcuno ilservizio al fronte e invece il signorReb-huhn fosse propenso a dispensarloc'era una nota conciliante, come se idue si fossero scambiate le parti.Tuttavia la questione vera e propria -se Spengler fosse stato al fronteoppure no - per quella via non furisolta, tanto che io ancora oggi loignoro. Alla signorina K�ndig, eraevidente, il signor Schutt facevapena. Per un bel pezzo riuscì anascondere questo suo sentimentodietro espressioni un po' goliardiche,come -il nostro soldatino oppure-eccolo qui ancora una volta . Dalvolto di lui non si riusciva a capirese quelle frasi gli facevano piacere,la trattava in modo perfettamenteneutro, come se lei non gli avesse mairivolto la parola; tuttavia, entrandoin sala da pranzo la salutava con uncenno del capo, mentre non degnavaneppure di uno sguardo la signorinaRebhuhn, seduta alla sua destra. Ungiorno che noi tre eravamo rimasti ascuola più a lungo del solito e ancoranon eravamo a tavola, il signor Schuttaveva domandato alla mamma: -Dov'è lasua carne da cannone? - come leistessa ci raccontò poi con grandesdegno. -Mai e poi mai! avevaribattuto la mamma, adirata, e luiaveva aggiunto in tono sarcastico:-Mai più guerre! .Comunque il signor Schutt apprezzavala fiera avversione che la mammanutriva per la guerra, che pure nonaveva mai conosciuto da vicino, e lesue osservazioni provocatorie eranointese, se mai, a confermarla in queisentimenti. Fra i pensionanti c'eraanche gente ben diversa, che eglisembrava ignorare a tutti gli effetti.Per esempio una giovane coppia, iBemberg, che sedevano alla suasinistra: lui, agente di borsa, avevaun gran fiuto per gli affari e lodavapersino labilità 'della signorinaRahm, intesa come capacità didestreggiarsi fra i numerosi

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spasimanti. -E'è la più chic di tuttele giovani signore di Francoforte diceva, ed era fra i pochissimi chenon l'avevano presa di mira; ciò cheaveva fatto colpo su di lui era -ilsuo fiuto per i quattrini e il suomodo scettico di reagire aicomplimenti. -Quella non si lasciaabbindolare. Vuol prima sapere checosa c'è dietro .Sua moglie, un vero concentratodella moda del giorno (ciò che menostonava era ancora la pettinatura allamaschietta), era una donna -leggera in senso diverso dalla signorina Rahm.Veniva dalla buona borghesia, manessuno l'avrebbe mai detto. Erachiaro che si comprava tutto ciò chele faceva piacere, ma che tenevaveramente a poche cose. Frequentava lemostre di pittura e guardava coninteresse le toilettes dei ritrattifemminili; confessava un debole perLucas Cranach e lo spiegava con la sua-pazzesca modernità - ma il verbo-spiegare suona davvero prolisso,rispetto alle sue scarne interiezioni.I Bemberg si erano conosciuti ballandolo shimmy. Erano ancora due perfettiestranei, eppure sapevano già tutti edue, confessava lui non senzafierezza, che -dietro c'era qualcosa,soprattutto da parte di lei, ma luiera già considerato un giovane agentedi borsa assai promettente. Lui latrovò -chic , la invitò a ballare e lachiamò subito -Pattie . -Lei miricorda Pattie, le disse -una ragazzaamericana . Lei volle sapere se-Pattie era stata il suo primo amore.-Per così dire rispose lui. Lei capì,trovò -pazzesco che la sua primafiamma fosse stata un'americana e sitenne il nome di Pattie. Lui lachiamava così davanti a tutti ipensionanti, e quando lei non veniva apranzo diceva: -Oggi Pattie non hafame. Pensa alla linea .Avrei certo dimenticato quellacoppia inoffensiva, se non fosse peril signor Schutt, che riusciva atrattarli come se non esistessero.Quando arrivava, appoggiandosi sullegrucce, era come se quei due sifossero dileguati. Non udiva il lorosaluto, non vedeva le loro facce, e lasignora Kupfer, che solo in memoriadel marito caduto in guerra tolleravala presenza del signor Schutt nellapensione, neppure una volta osò

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pronunciare davanti a lui le parole-signor Bemberg o -signora Bemberg .I due sopportavano senza protestarequel boicottaggio che, partito dalsignor Schutt, non si era tuttaviaesteso agli altri pensionanti. Eracome se i Bemberg compatisserol'invalido, che a loro sembrava unpover'uomo da ogni punto di vista, eanche se la compassione non eraparticolarmente intensa, si trattavapur sempre di un sentimento in gradodi contrapporsi efficacemente al suodisprezzo.All'altro capo del tavolo icontrasti erano meno acuti. Vi sedevail signor Schimmel, un caporeparto chesprizzava salute da tutti i pori, coni baffi tesi e le guance rosse, un exufficiale che mai dimostrava amarezzao scontento. Il sorriso che nonabbandonava mai il suo volto, era unasorta di stato d'animo, ed erarassicurante constatare che esistonoesseri così immodificabili. Neppure iltempo, per orribile che fosse,riusciva ad alterare il suo umore, el'unica cosa un po' sorprendente erache tanta contentezza restasse sola eche, per rimanere tale, non avessebisogno di alcun complemento. Trovarlonon sarebbe stato difficile, poiché,non lontano dal signor Schimmel,sedeva la signorina Parandowski,commessa, bella e fiera creatura conuna testa da statua greca, che non silasciava affatto confondere dairiferimenti della signorina K�ndigalla -FrankfurterZeitung , e sulla quale le lodi delsignor Bemberg alla signorina Rahmscivolavano via come acqua fresca. -Ionon potrei diceva scuotendo il capo.Non aggiungeva nulla, ma era chiaroche cosa non avrebbe potuto. Lasignorina Parandowski ascoltava, mainterveniva raramente;l'imperturbabilità le donava. I baffidel signor Schimmel - che le sedevaquasi di fronte - sembravanospazzolati a dovere soltanto per lei,quei due erano fatti l'uno perl'altra. Eppure lui non le rivolgevamai la parola, mai una volta cheentrassero o uscissero insieme dallasala, sembrava che si fossero messid'accordo per dimostrare che fra loronon c'era niente. La signorinaParandowski non aspettava che ilsignor Schimmel si alzasse e spesso

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veniva a tavola molto prima di lui.Una cosa però li accomunava, ilmutismo, ma lui sorrideva sempre comese non stesse pensando a niente, leiinvece, il capo fieramente eretto, eraserissima, come se stesse semprepensando a qualcosa.Che sotto ci fosse un mistero erachiaro a tutti, ma ogni tentativodella signorina K�ndig, che sedevapoco lontano, per venirne a caponaufragò miseramente contro lamonumentale resistenza di entrambi.Una volta la signorina Bunzel silasciò andare a tal punto da mormorare-Cariatide! dietro la signorinaParandowski, mentre la signorinaK�ndig salutò gaiamente il signorSchimmel con -Arriva la cavalleria! .La signora Kupfer la redarguìimmediatamente, che alla sua tavolanon si permettesse mai più- disse - apprezzamenti personalisugli altri ospiti, ma la signorinaK�ndig approfittò di quella ramanzinaper domandare chiaro e tondo al signorSchimmel se aveva qualcosa da eccepirecontro un simile appellativo. -Miritengo onorato; rispose il signorSchimmel con un sorriso -ho servitofra i cavalleggeri . -E tale resteràfino alla fine dei suoi giorni . Inquesto modo sarcastico soleva reagireil signor Schutt alle scappatelledella signorina K�ndig, ancor primache fosse risaputo che fra loro c'eradel tenero.Eravamo a Francoforte da circa seimesi quando si presentò nella pensioneil signor Caroli, uno spiritosuperiore. Riusciva a tenere tutti adebita distanza perché aveva lettomolto. Le sue osservazionisarcastiche, che si rivelavano fruttiaccuratamente canditi delle sueletture, mandavano in visibilio lasignorina K�ndig, la quale, se nonriusciva a scoprire la fonte dellacitazione, implorava umilmentedelucidazioni. -La prego, la supplico,mi dica questa dove l'ha presa! Me lodica, la prego, altrimenti nonriuscirò a prender sonno neppurestanotte . -Ma dove crede che l'abbiapresa, rispondeva il signor Schutt alposto del signor Caroli -l'ha presacerto dal B�chmann, come tutti i suoidiscorsi . Errore gravissimo, epessima figura del signor Schutt,perché nemmeno una delle citazioni del

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signor Caroli era tratta dal B�chmann.-Piuttosto che ricorrere al B�chmannpreferirei avvelenarmi; ribattevaquest'ultimo -io cito soltanto le coseche ho letto per davvero . E nellapensione erano tutti convinti chedicesse la verità. L'unico a dubitarneero io, perché il signor Caroli ciignorava. Neppure la mamma glipiaceva, che in fatto di culturaavrebbe potuto senz'altro tenerglitesta, perché a tavola i suoi figli,cioè noi tre, rubavano il posto agliadulti e per colpa nostra bisognavareprimere le battute più spiritose. Inquel periodo stavo leggendo i tragicigreci, e quando un giorno il signorCaroli citò un passo dell'Edipo re(ne aveva visto una rappresentazione aDarm-stadt), io continuai la citazione;egli fece finta di non sentire epoiché io, ostinato, ripetei lacitazione, egli si voltò di scattoverso di me domandando in tonotagliente: -L'avete fatto oggi ascuola? . Per la verità, iointervenivo così raramente nellaconversazione, che quella lezioncinaper tapparmi la bocca una volta pertutte era davvero ingiusta, e anchegli altri commensali se ne reseroconto. Ma temevano la sua ironia, ecosì nessuno protestò, ed io,mortificato, non dissi più nulla.Il signor Caroli, oltre a ricordareuna quantità di citazioni a memoria,sapeva fabbricarne di false con grandemaestria, e poi aspettava, per vederese qualcuno aveva colto la suaprodezza. La signorina K�ndig,appassionata frequentatrice di teatri,era fra tutti quella che lo seguivapiù da vicino. Il signor Caroli, cheera un uomo veramente spiritoso,dimostrava grande talento soprattuttonel parodiare le frasi più serie ecommoventi. Non poté evitare che lasignorinaRebhuhn, l'anima più sensibile dellacompagnia, gli dicesse che per luinulla era sacro, ma ebbe lasfacciataggine di ribattere:-Feuerbach no davvero . Tutti sapevanoche per la signorina Rebhuhn Feuerbachera - lasciando da parte il fratelloasmatico - una vera e propria ragionedi vita. -Avrei voluto essereIfigenia diceva (quella di Feuerbach,naturalmente). Il signor Caroli, un

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uomo di circa trentacinque anni con unmodo di fare da meridionale, abituatoa sentirsi dire dalle donne che la suafronte sembrava quella di Trockij, nonera tenero con nessuno, neppure con sestesso, e una volta rispose allasignorina Rebhuhn che lui, invece,avrebbe preferito essere Rathenau.Mancavano esattamente tre giorniall'assassinio di Rathenau. Fu quellal'unica occasione in cui vidi ilsignor Caroli perdere il controllo. Miguardò in faccia con le lacrime agliocchi - benché fossi solo unostudentello - e mi disse: -Questa è lafine! .Il signor Rebhuhn, quell'uomo cosìaffabile e innamorato dell'Imperatore,fu l'unico a non essere sconvoltodall'assassinio di Rathenau.Apprezzava il vecchio Rathenau assaipiù del giovane, al quale nonperdonava di essere entrato alservizio della Repubblica. Ammetteva,tuttavia, che prima, durante laguerra, egli aveva reso qualcheservizio al paese, quando la Germaniaaveva ancora il proprio orgoglio,quando ancora era un impero. -Quelliaccopperanno tutti, tutti disse cupoil signor Schutt. Il signor Bembergnominò, per la prima volta nella suavita, la classe operaia: -Questa, laclasse operaia non la farà passarliscia! . Il signor Caroli disse:-Bisognerebbe emigrare! e lasignorina Rahm, che non potevasoffrire gli assassinii, perché spessoportavano ad altre conseguenze,aggiunse: -Mi porta via con sé? . Ilsignor Caroli non se lo fece ripeteredue volte. Da quel giorno abbandonòogni pretesa intellettuale, le feceapertamente la corte e fu visto, congran dispetto delle signore, entrarenella sua stanza per uscirne soltantoalle dieci di sera.Una visita di riguardo.Alla mensa della pensione Charlottela mamma godeva di una certaconsiderazione, ma non aveva un ruolodominante. Anche quando si opponeva aVienna, ne conservava l'impronta. DiSpengler sapeva soltanto ciò chepoteva dirle il titolo della suaopera. Della pittura non le era maiimportato gran che, perciò quando vanGogh, con l'uscita del Vincent diMeierGraefe, divenne l'argomento piùnobile delle conversazioni a tavola,

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lei non era in grado d'intervenire, euna volta che si lasciò trascinare adire la sua non fece una gran bellafigura. I girasoli non hanno profumo,disse, la cosa migliore sono ancora isemi, che almeno si possonosgranocchiare. Seguì alle sue paroleun silenzio imbarazzato, antesignanala signorina K�ndig, che era lapersona più competente, in quellatavolata, nel campo dell'attualitàculturale e che, in effetti, siappassionava a molti degli argomentitrattati sulle pagine della-Frankfurter Zeitung . Proprio allorastava cominciando a diffondersi lareligione di van Gogh; una volta lasignorina K�ndig disse che solo daquando aveva conosciuto la vita di vanGogh le si erano finalmente aperti gliocchi sul vero significato del Cristo.Il signor Bemberg protestòenergicamente contro una simileaffermazione; il signor Schutt latrovò esagerata; il signor Schimmelsorrise; la signorina Rebhuhnpiagnucolò: -Però non ha niente dimusicale! (si riferiva a van Gogh) e,avvedendosi che nessuno aveva capitola sua frase, aggiunse senzascomporsi: -vi immaginate van Gogh chedipinge il Concerto campestre? .A quel tempo di van Gogh non sapevonulla, perciò quando salimmo in cameranostra chiesi delucidazioni allamamma. Ma ne sapeva talmente poco chemi vergognai per lei. Disseaddirittura (prima non l'avrebbe maifatto): -E'è un pazzo, che ha dipintosedie di paglia e girasoli, sempretutto giallo, non poteva soffrirenessun altro colore, finché gli haproprio dato di volta il cervello e siè sparato una pallottola in testa .Queste informazioni mi lasciaronomolto insoddisfatto, sentivo che lafollia che la mamma gli attribuiva eraun'accusa rivolta a me. Da qualchetempo la mamma condannava ogni formadi esaltazione, un artista su due perlei era un -pazzo , ma si riferivasolo ai moderni (e in particolare aiviventi), gli altri, gli artisti delpassato con i quali era cresciuta, lilasciava stare. A nessuno, poi,permetteva di toccare il suoShakespeare, e se a pranzo il signorBemberg o qualche altro incauto sipermetteva di dire quanto avessetrovato noioso questo o quel dramma di

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Shakespeare - era proprio ora difinirla, bisognava al più prestosostituire Shakespeare con qualcheautore più moderno - la mamma viveva isuoi grandi momenti, gli unici cheancora le fossero concessi al tavolodella pensione.Allora, finalmente, tornava a esserequella di una volta, suscitando in mel'antica ammirazione. Con poche frasifolgoranti annientava il povero signorBemberg, che si guardava pietosamenteintorno sperando in un aiuto chenessuno era disposto a dargli. Quandoera in gioco Shakespeare, la mamma nonsi curava più di nulla, non avevariguardi per nessuno, non le importavapiù niente di quello che gli altripensavano di lei, e quando una voltaconcluse dicendo che per gli uominiscialbi di quei tempi d'inflazione,uomini che pensavano soltanto aldenaro, Shakespeare non era davverol'autore adatto, i cuori più diversifremettero per lei: dalla signorinaK�ndig, che ammirava il suo slancio eil suo temperamento al signor Schutt,vera incarnazione del tragico, anchese non avrebbe mai usato questo nome,fino alla signorina Parandowski, cheera sempre dalla parte della fierezzae in Shakespeare immaginava qualcosadi estremamente fiero. Perfino ilsorriso del signor Schimmel ebbe unche di arcano quando, fra lo stuporegenerale, fece il nome di Ofelia, epoi, temendo di averlo pronunciatomale, lo ripeté un'altra volta piùlentamente. -Il nostro cavalleggero èstato all'Amleto, disse la signorinaK�ndig -chi l'avrebbe mai detto - mafu subito interrotta dal signorSchutt: -Si può benissimo pronunciareil nome di Ofelia senza aver mai vistol'Amleto . Risultò che il signorSchimmel non sapeva affatto chi fosseAmleto, e la cosa suscitò una grandeilarità. Mai più osò spingersi tantoinnanzi. L'attacco del signor Bemberga Shakespeare, ad ogni modo, era statorintuzzato; persino sua moglieassicurò che le piacevano tanto leattrici che recitavano Shakespeare inabiti maschili, erano così chic.Allora il nome di Stinnes comparivaspesso sui giornali. Era il periododell'inflazione, ma io mi rifiutavo dicapire alcunché di economia; dietro atutto ciò che aveva attinenza conquestioni economiche fiutavo una

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trappola dello zio di Manchester, chevoleva attirarmi nei suoi affari. Ilsuo attacco in grande stile daSpr�ngli a Zurigo (erano passati dueanni appena) me lo sentivo ancoranelle ossa. Il suo effetto era statoulteriormente rafforzato dallatremenda discussione con la mamma.Tutto ciò che sentivo come unaminaccia, lo riconducevoimmancabilmente all'influsso dello ziodi Manchester. Era naturale che per melui e Stinnes quasi siidentificassero. Dal modo con cui atavola si parlava di Stinnes -l'invidia che sentivo nella voce delsignor Bemberg quando pronunciava ilsuo nome, il disprezzo tagliente delsignor Schutt (-Tutti diventano piùpoveri e lui diventa sempre piùricco ), l'unanime simpatia delledonne della pensione (la signoraKupfer: -Lui sì che se lo puòpermettere ; la signorina Rahm, chegli dedicava la frase più lunga delsuo repertorio: -Che cosa si può maisapere di un uomo così! ; la signorinaRebhuhn: -Per la musica non ha tempodi sicuro ; la signorina Bunzel: -A mefa pena. Nessuno lo capisce ; lasignorina K�ndig: -Vorrei leggere lelettere dei suoi postulanti ; lasignorina Parandowski avrebbe lavoratovolentieri per lui, -perché sisaprebbe dove si va a finire ; lasignora Bemberg pensava volentieri asua moglie: -Per un uomo così bisognavestirsi in maniera molto chic ) -insomma io sapevo che quando sicominciava a parlare di Stinnes, lacosa andava avanti per un pezzo. Solomia madre taceva. Per una volta ilsignor Rebhuhn era d'accordo con ilsignor Schutt, un giorno gli scappòpersino una parola dura, -parassita disse, anzi, più precisamente: -E'è unparassita della nazione . Il signorSchimmel, con il suo mitissimosorriso, diede all'osservazione dellasignorina Parandowski una piegainaspettata: -Forse ci ha già compratitutti. Chi può saperlo? . Se domandavoalla mamma come mai se ne stesse cosìzitta, rispondeva che era meglio perlei, come straniera, non immischiarsiin faccende strettamente tedesche. Erachiaro però che pensava a un'altracosa, qualcosa che non voleva tirarfuori.Poi, un giorno, ci disse tenendo una

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lettera in mano: -Ragazzi, dopodomaniavremo una visita. Il signorHungerbach viene a prendere il tè danoi . Risultò che aveva conosciuto ilsignor Hungerbach nel sanatorio diArosa. Era un po' imbarazzante, disse,che venisse a farci visita nellapensione, era un uomo abituato atutt'altro genere di vita, ma lei nonsarebbe riuscita a trovare un pretestoper disdire l'incontro, e poi ormaiera troppo tardi, lui era in viaggio,non avrebbe saputo dove raggiungerlo.Ogni volta che udivo la parola-viaggio , immaginavo un esploratoreche viaggiava a scopo di studio,perciò volli sapere in qualecontinente viaggiasse. -E'è in viaggioper affari, naturalmente rispose lamamma. -E'è un industriale . Ora capivoperché a tavola era rimasta insilenzio. -E'è meglio non parlarnenella pensione. Tanto sono sicura chequando arriva nessuno lo riconoscerà .Naturalmente, ero prevenuto, anchesenza contare i discorsi sentiti atavola, era un uomo che appartenevaalla sfera dello zio orco, e poi checosa voleva da noi? Sentivo nellamamma una certa insicurezza, e pensavodi doverla proteggere da lui. Ma chefosse una cosa seria lo capii soltantoquando la mamma disse: -Non usciredalla stanza quando sarà qui, ragazzomio, vorrei che tu lo ascoltassi dalprincipio alla fine. Lui sì checonosce il mondo. Ad Arosa mi hapromesso di prendersi un po' cura divoi, quando fossimo giunti inGermania. E'è un uomo occupatissimo.Eppure vedo che mantiene la parola .Ero curioso di incontrare il signorHungerbach. Mi aspettavo uno scontroduro e ci tenevo a trovare in lui unavversario capace di darmi del filo datorcere. Desideravo esserneimpressionato, per potergli tenertesta ancora meglio. La mamma, cheaveva un ottimo fiuto per quelli chechiamava i miei -pregiudizigiovanili , mi disse di non pensareche il signor Hungerbach fossediventato un uomo importante perchéera il rampollo coccolato evezzeggiato di una famiglia ricca. Alcontrario, era figlio di un minatore,la sua era stata una vita difficile,era salito così in alto, passo dopopasso, grazie al proprio lavoro. Ungiorno, ad Arosa, le aveva raccontato

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la storia della sua vita, e soloallora lei aveva capito che cosasignifica cominciare dal nulla. Allafine aveva detto al signor Hungerbach:-Ho paura che il mio ragazzo se la siasempre passata troppo bene . Lui siera informato sul mio conto e allafine aveva dichiarato che non è maitroppo tardi. Sapeva benissimo, lui,quel che va fatto in simili casi:-Gettare il ragazzo in mare e lasciareche annaspi. Di colpo si metterà anuotare .Il signor Hungerbach si comportavaesattamente così. Bussò alla porta e-di colpo fu nella stanza. Strinsecon forza la mano di mia madre ma,invece di guardare lei, mi fissò negliocchi e si mise ad abbaiare. Non erapossibile fraintendere le sue frasibrevissime e spezzate; ma non parlava,abbaiava. Dal momento del suo ingressofino a quello del congedo - sitrattenne un'ora intera - non smise unattimo di abbaiare. Non faceva domandee non si aspettava risposte. Neppureuna volta domandò alla mamma, che dopotutto ad Arosa era stata in curainsieme a lui, come stesse in salute.Non mi chiese il mio nome. In compensopotei riascoltare da cima a fondotutto ciò che un anno prima mi avevatanto inorridito nel corso del mioviolento colloquio con la mamma. Unadura disciplina il più prestopossibile, ecco la cosa migliore.Niente università. I libri buttarlivia, dimenticare quell'inutileciarpame. Nei libri ci son solosciocchezze, conta solo la vita,l'esperienza e il lavorar sodo.Lavorare finché fan male le ossa.Tutto il resto non è lavoro. Chi nonce la fa, chi è troppo debole, chevada pure a fondo, non merita altro.Non è il caso di starci a piangeresopra. Di uomini al mondo ce ne sonoanche troppi. I buoni a nulla devonosoccombere. Ma forse, non si potevaescludere, sarei ancora riuscito acombinare qualcosa. Malgrado gli inizicompletamente sbagliati. In primoluogo, però, dovevo dimenticare tuttequelle sciocchezze che non avevanoniente a che fare con la vita, la vitacom'è davvero. La vita è lotta, lottasenza quartiere, ed è un bene che siacosì. L'umanità, altrimenti, nonpotrebbe progredire. Una razza dideboli si sarebbe estinta da un pezzo,

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senza lasciare traccia. Niente si dàper niente. Ci vuole un uomo pereducare un uomo, le donne sono tropposentimentali, pensano soltanto alustrare il loro principino e atenerlo lontano dallo sporco. Illavoro, invece, è prima di tuttosporcizia. Definizione del lavoro: unacosa che ti stanca e ti sporca, ma chenon devi mollare. - Mi sembra unagrave falsificazione convertire inespressioni intelligibili i latratidel signor Hungerbach. Più di unavolta una parola o una frase misfuggiva, ma il senso di ogni singoladirettiva era fin troppo chiaro: eglisembrava aspettarsi che balzassi inpiedi, e lì, sull'istante, mi mettessia lavorare sodo - altrimenti chelavoro sarebbe.Intanto gli offrivamo il tè, eravamoseduti intorno a un tavolino basso erotondo, l'ospite portava la tazzaalla bocca, ma prima di essereriuscito a berne un sorso gli venivain mente un'altra direttiva, troppoimpellente per attendere la durata diun intero sorso. La tazza venivaposata bruscamente sul piattino e labocca si apriva a nuove frasibrevissime, dalle quali una cosatraspariva comunque: la totalemancanza di dubbi. Anche gli adulti sisarebbero trovati in difficoltà areplicare, figuriamoci le donne e ibambini. Il signor Hungerbach facevacolpo e se ne compiaceva. Era tuttovestito di blu, il colore dei suoiocchi, l'abito era irreprensibile, nonuna macchiolina, non un sologranellino di polvere. Mi venivano inmente una quantità di cose, e le avreidette volentieri, ma quella che miveniva in mente più spesso, anzi, dicontinuo, era la parola -minatore emi domandavo se quell'uomo, il piùpulito, il più sicuro di sé, il piùduro di tutti, davvero avesse mailavorato da giovane in una miniera,come sosteneva la mamma.Non aprii bocca una sola volta(quando mai avrei potuto? Non milasciò il minimo spiraglio), perciò,vuotato il sacco, il signor Hungerbachaggiunse a mo' di conclusione (questavolta suonò come una direttiva a sestesso) che non aveva più tempo daperdere e subito se ne andò. Allamamma strinse ancora la mano, a me nondiede più neppure un'occhiata, mi

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aveva troppo annichilito, pensava, perritenermi degno di un saluto d addio.Proibì alla mamma di accompagnarlo giùa pianterreno, conosceva la strada, ericusò, furono le sue ultime parole,ogni ringraziamento. Prima la mammadoveva aspettare l'effetto del suointervento, poi avrebbe ringraziato.-Operazione riuscita, paziente morto aggiunse. Era una battuta intesa amitigare la serietà del discorsoprecedente. Un attimo dopo non c'eragià più.-E'è molto cambiato, ad Arosa eradiverso disse la mamma, pienad'imbarazzo e di vergogna. Avevacapito benissimo che difficilmenteavrebbe potuto scegliersi un alleatopeggiore per i suoi nuovi progettieducativi. A me, già mentre il signorHungerbach parlava, era venuto unsospetto tremendo, un'idea tormentosache mi fece ammutolire. Per un belpezzo non fui in grado di manifestarloapertamente. Intanto la mamma mi davainformazioni d'ogni genere sul signorHungerbach, su com'era prima, solo unanno prima. Con mio stupore sottolineò- per la prima volta - che eracredente. Le aveva confidato più volteche la fede significava molto per lui.Per la sua fede doveva ringraziare suamadre, aveva detto, e da allora quellafede non aveva mai vacillato, neppurenei periodi più difficili. Tuttosarebbe finito bene, l'aveva sempresaputo, ed era stato proprio così: nonaveva mai vacillato, ecco perché eraarrivato così lontano.-Ma tutto questo cosa c'entra con lasua fede? domandai. -Mi ha raccontatoche in Germania le cose si mettonomolto male disse la mamma -e che,inevitabilmente, andranno semprepeggio; poi ricominceranno amigliorare. Bisogna tirarsi fuori dalpantano con le proprie forze, non c'èaltro modo, non c'è posto per i debolie i cocchi di mamma in similifrangenti .-Parlava in questo modo ancheallora? domandai.-Che vuoi dire? .-Voglio dire come se abbaiasse incontinuazione, e senza guardarti infaccia .-No, di questo sono rimasta stupitaanch'io. Era veramente diverso,allora. Si informava della mia salutee mi domandava se avevo tue notizie.

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Era colpito dal fatto che parlassispesso di te e mi stava persino adascoltare. Una volta, lo ricordobenissimo, ha detto sospirando - pensaun po', un uomo simile che sospira -che quando lui era giovane tutto eradiverso, sua madre non avrebbe certoavuto tempo per le nostresottigliezze, con i suoi quindici osedici figli, non mi ricordo più ilnumero esatto. Volevo fargli leggereil tuo dramma, lui lo ha preso inmano, ha letto il titolo e ha detto:-Giunio Bruto - mica male cometitolo, dai Romani c'è sempre daimparare qualcosa . -Ma sapeva chiera Bruto? . -Certo, figurati che midisse: -Era quello che ha condannato amorte i suoi figli . -Dev'esserel'unica cosa che sa di tutta lastoria. Quel particolare gli è certopiaciuto, è degno di lui. Ma il drammalo ha poi letto? . -No, naturalmenteno, non aveva tempo per laletteratura. Passava le sue giornate astudiare le pagine economiche deiquotidiani e mi consigliava sempre ditrasferirmi in Germania: -Là potràvivere spendendo poco, gentilesignora, pochissimo, sempre meno! .-E per questo abbiamo lasciatoZurigo e siamo venuti in Germania? .Pronunciai queste parole con una taleamarezza che io stesso ne rimasispaventato. La realtà era dunque piùorribile dei miei sospetti. Che lamamma avesse potuto lasciare il luogoche io amavo più di ogni altro almondo per spendere meno da qualchealtra parte, mi diede un senso diprofondissima mortificazione. Lei siaccorse subito di essere andata troppooltre, e fece marcia indietro: -No,questo no. No davvero. Può darsi chequest'idea abbia avuto una parte nellemie riflessioni, ma non è statal'elemento decisivo . -E qual è stato,allora, l'elemento decisivo? . Lamamma si sentiva costretta in unaposizione difensiva e, dato chel'impressione di quella orribilevisita non si era ancora dileguata, lefaceva bene parlare con me erispondere alle mie domande, servivaanche a lei per chiarirsi le idee.Tuttavia mi appariva incerta, eracome se procedesse per tentativi, incerca di risposte che anziché fluirerapide dalla sua bocca facevanoresistenza dentro di lei. -Voleva

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sempre parlare con me. Credo che mivolesse bene. Comunque era moltorispettoso e invece di scherzare, comefacevano altri pazienti, era sempreserio e mi parlava di sua madre. Anchequesto mi piaceva. Le donne, sai, disolito non sono contente se uno leparagona alla propria madre, perchéquesto le invecchia. A me invecepiaceva, perché sentivo che miprendeva sul serio . -Ma tu fai colposu tutti, bella e intelligente comesei! . Lo pensavo davvero, se no inquel momento non l'avrei detto, nonero certo in vena di gentilezze, alcontrario, sentivo dentro di me unodio terribile, finalmente stavocominciando a capire le ragioni diquella che dal tempo della morte dimio padre era stata per me la perditapiù dolorosa: il distacco da Zurigo.-Continuava a ripetermi che eroun'irresponsabile, perché, essendodonna, ti avevo educato da sola. Avevibisogno di sentire la mano forte di unuomo, diceva. Ma ormai è così, glirispondevo io, dove potevo prendere unpadre se non rubandolo? Proprio perdedicarmi completamente a voi non miero mai risposata, e ora mi toccavasentire che avevo fatto il vostrodanno: il mio sacrificio si sarebberisolto per voi in un disastro. Questomi spaventava, mi spaventava molto.Adesso sono convinta che quell'uomovolesse spaventarmi per fare colpo sudi me, sai, intellettualmente non eramolto interessante, ripeteva sempre lestesse cose, ma parlandomi di te mispaventò, e poi, subito dopo, mi offrìil suo aiuto. -Venga in Germania,gentile signora, diceva -io sonooccupatissimo, non ho mai tempo, nonho un minuto libero, ma troverò ilmodo di aver cura di suo figlio, vengaper esempio a Francoforte, le faròvisita e parlerò seriamente a quelragazzo, che ancora non sa come va ilmondo. Da noi aprirà gli occhi. Glidarò una lezioncina come si deve, epoi lei lo getterà nella vita! Hastudiato a sufficienza, basta coilibri! Non diventerà mai un uomo!Vuole che suo figlio diventi unadonnetta? .La sfida.Rainer Friedrich era un giovanealto, trasognato, che camminava senzapensare a dove stava andando, nessunosi sarebbe stupito se con la gamba

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destra si fosse avviato in unadirezione e con la sinistra inun'altra. Non che fosse debole, ma lecose che riguardavano il corpo non lointeressavano affatto, perciò inginnastica era l'ultimo della classe.Era sempre immerso nei suoi pensieri,che erano di due tipi. Il suo verotalento era la matematica, riuscivacon una facilità che non avevo maivisto in vita mia. Un problema nonsembrava nemmeno impostato che lui giàl'aveva risolto; gli altri non avevanoancora capito bene di che cosa sitrattasse e già da lui arrivava larisposta. Eppure non si vantava mai,rispondeva a bassa voce, connaturalezza, era come se traducessecorrentemente da una lingua inun'altra. Non gli costava fatica,sembrava che la matematica fosse lasua lingua materna. Ero stupito ditutte e due le cose: della suafacilità e del fatto che non si dessedelle arie. Non era solo un sapere,era un potere di cui era pronto aservirsi in qualsiasi momento econdizione di spirito. Gli domandaiuna volta se era capace di risolvereequazioni anche nel sonno; lui cipensò su seriamente e poi disse consemplicità: -Credo proprio di sì .Avevo il massimo rispetto per il suopotere, ma non lo invidiavo. Eraimpossibile invidiare una dote cosìunica, il solo fatto che fossetalmente strabiliante da assomigliarea un prodigio la rendeva inattaccabileda ogni bassa invidia. Lo invidiavo,invece, per la sua modestia. -Ma èfacilissimo, diceva perlopiù, quandogli facevamo i complimenti per unadelle sue risposte da sonnambulo -lastessa cosa puoi farla anche tu . Sicomportava proprio come se credesseche tutti fossero in grado di farecome lui, ma in fondo non lovolessero, quasi per una specie dicattiva volontà che lui, però, nonprovava neanche a spiegare,chiaramente per motivi religiosi.Infatti, la seconda cosa che tenevaoccupati i suoi pensieri, lontanissimadalla matematica, era la sua fede.Partecipava al circolo biblico, era uncristiano molto fervente. Abitavavicino a me e, mentre tornavamo acasa, cercava di convertirmi alla suafede. Era la prima volta che a scuolami capitava una cosa simile. Non

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cercava di riuscirci argomentando, lasua non era mai una discussione, dellarigorosa consequenzialità del suopensiero matematico non restava laminima traccia. La sua era piuttostoun'affabile preghiera, che esordivasempre con il mio nome (nelpronunciarlo accentava in tono quasiimplorante la -E della sillabainiziale). -�lias cominciava disolito, con voce un po' strascicata,-provaci, anche tu puoi credere. Bastache tu lo voglia. E'è semplicissimo.Cristo è morto anche per te . Poichénon gli rispondevo, mi credeva unimpenitente. Supponeva che fosse laparola -Cristo a suscitare la miaavversione. Come poteva sapere delresto che -Gesù Cristo mi era venutovicinissimo nell'infanzia più remota,in quei meravigliosi inni inglesi checantavamo insieme alla nostragovernante? Ciò che mi respingeva e mifaceva ammutolire, ciò che miinorridiva non era il nome di Cristo,che, forse senza sapere, portavoancora nell'animo, ma proprio il fattoche fosse -morto anche per me . Con laparola -morire non mi ero mairiconciliato. Se qualcuno fosse dovutomorire per me mi sarei sentito gravatodai sensi di colpa più tremendi,sarebbe stato come approfittare di unassassinio. Se c'era una cosa che miaveva tenuto lontano da Gesù Cristoera proprio questa idea delsacrificio, una vita immolata pertutti gli uomini, è vero, ma dunqueanche per me.Alcuni mesi prima che a Manchestercominciassimo a cantare in segretoquegli inni meravigliosi, Mr' Duke,durante le lezioni di religione, miaveva parlato della storia di Abramoche era pronto a immolare il propriofiglio Isacco. Non sono mai riuscito asuperare quel trauma e, se nonsuonasse ridicolo, direi che ancoraoggi non ci riesco. Fu allora che sidestò in me il dubbio nei confrontidel comando, un dubbio che non mi hapiù abbandonato ed è stato sufficientea impedirmi di diventare un ebreocredente. La morte di Cristo sullacroce, per quanto da lui stessovoluta, aveva su di me un effetto nonmeno sconvolgente, poiché essasignifica che la morte diventa laposta di qualcosa, quale che sia.Rainer Friedrich, che credeva di

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perorare la sua causa nel migliore deimodi e ogni volta ripeteva con caloreche Cristo era morto anche per me,certo non immaginava di comprometterlairrimediabilmente proprio con quellafrase. Forse interpretava erroneamenteil mio silenzio e lo prendeva perindecisione. Altrimenti sarebbe statodifficile capire perché mai ripetesseogni giorno la stessa frase, quandotornavamo a casa da scuola. La suaostinazione era sorprendente ma maisgradevole, perché ogni volta miaccorgevo che era dettatadall'affetto: Rainer voleva farmisentire che non ero escluso dal suobene più prezioso, che potevo averneparte non meno di lui. Anche la suamitezza era disarmante: non sembravamai irritato dal mio silenzio su quelpunto (parlavamo di una quantità dicose e non si può certo dire chefossimo taciturni); si limitava acorrugare la fronte, come se sistupisse che quell'unico problemafosse così difficile da risolvere, equando era arrivato davanti a casa emi dava la mano per salutarmi, midiceva ancora: -Pensaci Elias - dinuovo con tono più supplichevole cheenfatico - ed entrava nel portoneincespicando.Sapevo che il nostro ritorno a casasarebbe finito ogni volta con il suotentativo di convertirmi e mi ciabituai. Solo a poco a poco, invece,venni a sapere che un altrosentimento, del tutto opposto a quellocristiano, regnava nella sua casa.Rainer aveva un fratello minore, chepure frequentava la scuola W�hler, dueclassi indietro rispetto alla nostra.Il suo nome mi è uscito di mente,forse a causa dei suoi violentiattacchi e della sua non celataostilità. Non era grande e grosso, mamolto bravo in ginnastica; lui sì chelo sapeva quel che stavano facendo lesue gambe. Era tanto sicuro e risolutoquanto Rainer era vago e trasognato.Avevano gli stessi occhi, ma mentre ilmaggiore dei due fratelli ti guardavasempre con un'espressioneinterrogativa, affabile e piena diattesa, nello sguardo del minore c'eraun che di arrogante, di litigioso,insomma un'aria di sfida. Lo conoscevosolo di vista, non avevo mai parlatocon lui, ma da Rainer venivo sempre asapere immediatamente quello che il

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fratello aveva detto di me.Erano sempre cose spiacevoli eoffensive. -Mio fratello dice che tuti chiami Kahn, non Canetti, evorrebbe sapere come mai avetecambiato nome . Questi dubbi venivanosempre dal fratello, erano espressi asuo nome. Rainer voleva le mierisposte per poter ribattere a suofratello. Gli era molto affezionato,credo, e siccome voleva bene anche ame pensava probabilmente cheriferendomi tutte quelle frasi odiosestava compiendo un tentativo dimediazione e di pacificazione. Michiedeva di confutarle, lui, poi,avrebbe riferito al fratello le mierisposte; ma se credeva a unapossibilità di conciliazione sisbagliava di grosso. Mentre tornavamoa casa, ogni volta, per prima cosa, mitoccava sentire da Rainer un nuovosospetto, una nuova accusa di suofratello. Erano accuse così assurdeche non le prendevo neanche sul serio;eppure a ciascuna di esse rispondevocoscienziosamente. Il loro contenutoessenziale andava sempre nella stessadirezione: anch'io, come tutti gliebrei, cercavo di nascondere la miaorigine. Che fosse una calunnia eraevidente, e diventava più evidenteancora qualche minuto dopo, quandorispondevo con il silenzioall'immancabile tentativo di Rainer diconvertirmi alla sua fede.Forse l'incorreggibilità delfratello mi costringeva a darerisposte così pazienti ecircostanziate. Tutto ciò cheproveniva da suo fratello Rainer me locomunicava, per così dire, traparentesi. Lo trasmetteva con un tonodi voce neutro, senza prendereposizione. Non diceva -Così la pensoanch'io , oppure -Ma io non ci credo ,trasmetteva il messaggio come se essopassasse attraverso di lui senzalasciare traccia. Se avessi udito queisospetti, che erano inesauribili, neltono aggressivo di suo fratello, misarei infuriato e non avrei mairisposto. Invece arrivavano in tonopacato, preceduti da -Mio fratellodice , oppure -Mio fratello domanda ,ed ecco, poi, un'insinuazione cosìmostruosa che mi sentivo costretto aparlare, senza però inquietarmi sulserio, trattandosi di domande talmenteassurde che il loro autore faceva pena

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e basta. -Elias, mio fratello domanda:Perché per la festa di Pessach usavateil sangue dei cristiani? . Serispondevo: -Ma che dici? Hopartecipato alla festa di Pessachquand'ero bambino. Me ne sareiaccorto. Avevamo in casa molte ragazzecristiane, erano loro le mie compagnedi giochi - il giorno seguentearrivava un'altra ambasciata di suofratello: -Adesso magari no. Adesso lacosa è risaputa. Ma in passato, perchéin passato gli ebrei sgozzavanobambini cristiani per la loro festa diPessach? . Le antiche accuse venivanoriesumate una per una: -Perché gliebrei avvelenavano i pozzi? . Serispondevo: -Non lo hanno mai fatto il seguito era: -Sì invece, al tempodella peste . -Ma se morivano ancheloro di peste come tutti gli altri! .-Sicuro, perché avvelenavano i pozzi.Odiavano talmente i cristiani cheperivano miseramente, vittime del lorostesso odio . -Perché gli ebreimaledicono tutti gli altri uomini? .-Perché gli ebrei sono vigliacchi? .-Perché durante la guerra non c'era alfronte neanche un ebreo? .E così via. La mia pazienza erainesauribile, rispondevo come megliopotevo, sempre con serietà, senza maioffendermi, come se stessi consultandoil mio dizionario enciclopedico allaricerca della verità scientifica. Conle mie risposte mi riproponevo dispazzar via quelle accuse, che miapparivano del tutto assurde, dallafaccia della terra e, per emulare laserenità di Rainer, un giorno glidissi: -Riferisci a tuo fratello chegli sono grato per le sue domande.Così posso spazzar via per semprequeste sciocchezze dalla faccia dellaterra . Perfino il candido, ingenuo,onesto Rainer rimase sbalordito. -Saràdifficile, disse -quello non lafinisce più di tirarne fuori . Mal'ingenuo in realtà ero io, che permolti mesi non mi ero accorto di ciò acui mirava in realtà suo fratello. Ungiorno Rainer disse: -Mio fratello tichiede perché rispondi sempre alle suedomande. Non puoi affrontarlo nelcortile della scuola durantel'intervallo, e sfidarlo a pugni? Puoifarci a botte, se non hai paura dilui! .Non mi sarebbe mai venuto in mentedi aver paura di lui. Mi faceva

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soltanto compassione, per l'indicibilestupidità delle sue domande. Ma luivoleva sfidarmi e aveva scelto lastrana via di passare attraverso ilfratello, che in tutto quel periodonon aveva desistito neppure per ungiorno dai suoi tentativi diconversione. Da quel momento lacompassione si trasformò in disprezzo.Non gli feci l'onore di una sfida.Aveva due anni di meno, non avreifatto una bella figura a picchiarmicon l'alunno di una classe inferiore.Così interruppi ogni -rapporto conlui. Quando Rainer la volta doporicominciò: -Mio fratello ti manda adire... , tagliai subito corto: -Tuofratello vada pure al diavolo. Non mibatto coi ragazzini . Rainer ed iorimanemmo amici, però, e nulla mutòneppure nei suoi tentativi diconvertirmi alla sua fede.Il ritratto.Hans Baum, il primo compagno con cuifeci amicizia, era figlio di uningegnere delleSiemensSchuckertWerke. Moltoformale, educato da suo padre a unarigida disciplina, attentissimo a nonfar passi falsi, sempre serio ecoscienzioso, era un gran lavoratore,senza colpi d'ala ma pieno di buonavolontà. Poiché leggeva buoni libri efrequentava i concertidell'Auditorium, gli argomenti diconversazione fra noi non mancavanomai. Un tema inesauribile era RomainRolland, soprattutto il Beethoven eJean Christophe. Baum voleva fare ilmedico per una specie di senso diresponsabilità nei confronti delgenere umano, e questo in lui mipiaceva molto. In politica aveva ideemoderate, respingeva per istinto ogniestremismo, era talmente compassatoche dava la sensazione di esseresempre in divisa. Sin da giovanissimoconsiderava ogni cosa sotto tutti gliaspetti, -per giustizia , diceva, maforse, soprattutto, perché eracontrario a ogni forma disconsideratezza.Quando andai a trovarlo a casa sua,fui sorpreso dalla vivacità di suopadre, un piccolo borghese fatto efinito, che esternava in continuazionei suoi numerosi pregiudizi, bonario,sconsiderato, sempre pronto alloscherzo, affezionatissimo alla suaFrancoforte. Tornai altre volte in

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casa loro, e ogni volta suo padreleggeva ad alta voce qualche passo delsuo poeta preferito: FriedrichStoltze. -E'è il poeta più grande ditutti i tempi, diceva -chi non lo saapprezzare va fucilato . La madre diHans Baum era morta da parecchi anni,e la sorella di lui, una ragazzaallegra e già un po' corpulentanonostante la giovane età, si occupavadel ménage familiare.C'era qualcosa nella correttezza delgiovane Baum che mi lasciavaperplesso. Avrebbe preferito mordersila lingua piuttosto che dire unabugia. Viveva la viltà come una gravecolpa, forse la più grave di tutte. Seun professore lo metteva alle strette- e questo non succedeva spesso,poiché in classe era uno dei migliori- Hans rispondeva con assolutasincerità e senza preoccuparsi delleconseguenze. Se non si trattava di luima dei compagni, era cavalleresco e liproteggeva, ma senza mentire. Quandoera interrogato si alzava in piedidiritto come un fuso (in tutta laclasse era quello col portamento piùrigido) e subito si abbottonava lagiacca, deciso e compassato. Glisarebbe stato impossibile presentarsiin una situazione -pubblica con lagiacca sbottonata, e forse per questo,guardandolo, si pensava spesso a unadivisa. Contro Baum non c'era proprioniente da eccepire; era un carattereprecocemente maturo e certo non erauno sciocco, rimaneva però sempreuguale a se stesso, ogni sua reazioneera prevedibile, con lui non ci simeravigliava mai, o tutt'al più delfatto che non ci fosse mai niente dicui meravigliarsi. Aveva unasensibilità spiccatissima per lequestioni d'onore. Quando, parecchiotempo dopo, gli raccontai come si eracomportato nei miei riguardi ilfratello di Friedrich, Baum - che eraebreo - perse il controllo e mi chiesein tutta serietà se non dovesseaffrontarlo lui quel ragazzaccio,benché fosse ormai passato parecchiotempo. Non capì né perché avessirisposto pazientemente per un periodocosì lungo, né il totale disprezzo chein seguito gli avevo dimostrato. Quelfatto lo turbava, aveva la sensazioneche io non potessi essere del tutto aposto, altrimenti non mi sareiprestato a quel gioco così a lungo.

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Siccome non gli permisi iniziativedirette a mio nome, fece indagini perconto suo e scoprì che il padre diFriedrich, che era morto, aveva avutodelle difficoltà finanziarie, nellequali, probabilmente, ci avevano messolo zampino alcuni suoi concorrentiebrei. I particolari non li capivo, equesto era ovvio, poiché non ce liavevano detti con sufficienteprecisione. Un fatto però era certo:qualche tempo dopo il padre diFriedrich era morto; a questo puntocominciai a comprendere le ragioni delcieco odio che si era sviluppato nellasua famiglia.Felix Wertheim era un giovaneallegro e molto vivace, che si curavapoco di imparare, perché durante leore di lezione era troppo occupato astudiare i professori. Nulla glisfuggiva dei nostri insegnanti, liconosceva nei minimi particolari, seli studiava a memoria come altrettanticopioni e aveva le sue partipreferite, le più ricche di spunti. Lasua vittima preferita era Kr�mer, ilcollerico professore di latino, loimitava in maniera così perfetta chesembrava veramente di averlo davantiagli occhi in carne e ossa. Una volta,durante una delle sue esibizioni,Kr�mer entrò in classe prima delprevisto e si trovò di colpo di frontea se stesso.Wertheim era talmente infervorato che nonriuscì più a fermarsi, e cominciò ainsultare Kr�mer come se quest'ultimofosse l'impostore che si era messosfacciatamente nei suoi panni. Lascena andò avanti per qualche minuto,i due stavano in piedi l'uno di fronteall'altro, e fissandosi incredulicontinuavano a insultarsi nellamaniera più volgare, proprio comeKr�mer faceva sempre con noi. Tutta laclasse era pronta al peggio. Invecenon accadde nulla - Kr�mer, ilcollerico Kr�mer, fu sopraffatto da unaccesso di risa, non riusciva atrattenersi. Wertheim si accasciò sulbanco (sedeva in prima fila): lasfacciata ilarità di Kr�mer gli avevatolto ogni piacere. Della faccenda nonsi fece più parola, non ci furonopunizioni, Kr�mer si sentì talmentelusingato dall'assoluta fedeltàdell'imitazione che non ebbe cuore diprendere provvedimenti contro il suoritratto vivente.

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Il padre di Wertheim, proprietariodi un grande negozio di confezioni,era un uomo ricco e non ne facevamistero. Una volta per Capodanno fummoinvitati da lui e ci trovammo in unagrande casa piena zeppa di Liebermann.In ogni stanza ce n'erano cinque osei, non credo che nell'alloggio cifossero altri quadri. Il clou dellacollezione era un ritratto del padronedi casa. Ci trattarono bene, avevanofatto le cose in grande; il padrone dicasa indicò senza timidezza il proprioritratto e si mise a parlare, in modoche tutti potessero sentirlo, dellasua amicizia con Liebermann. Io dissia Baum a voce piuttosto alta: -Ilfatto che abbia posato per un ritrattonon vuole ancora dire che sianoamici .Non solo mi irritava la pretesa diquell'uomo di essere amico diLiebermann, ma già l'idea che ungrande pittore avesse dipinto un voltocosì comune. La presenza del ritrattomi disturbava più del soggetto stesso.Quanto sarebbe stata più bella lacollezione, mi dicevo, se non ci fossestato quel quadro! Non vederlo eraimpossibile, tutto era disposto inmodo da farlo notare. Le mie parolesgarbate non erano sufficienti a farloscomparire; e poi, a parte Baum,nessuno ci aveva fatto caso.Nelle settimane che seguirono cifurono tra noi discussioni moltoaccese su quell'argomento. Iodomandavo a Baum se un pittore ètenuto a fare il ritratto a chiunqueglielo chieda o se invece puòrifiutarsi, qualora la persona inquestione non gli vada a genio cometema della sua arte. Baum pensava cheil pittore dovesse accettare, glirestava pur sempre la possibilità dimanifestare la sua opinione sulsoggetto dipingendo il quadro in uncerto modo. Aveva tutto il diritto difare un ritratto brutto o ripugnante,questo rientrava nell'ambito della suaarte; ma dire di no a priori sarebbestato un segno di debolezza,significava non essere sicuri delleproprie capacità. Erano parolemisurate, giuste, e sentivo che la miamancanza di misura contrastava conesse in modo spiacevole.-Come fa a dipingere dicevo io -seil disgusto per quel viso lo farabbrividire? Se si vendica e deforma

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il volto del committente, il suo non èpiù un ritratto. Per dipingerlo cosìpuò fare anche senza di lui, non hacerto bisogno di metterlo in posa. Ese si fa pagare dopo aver messo la suavittima alla berlina, l'azione checompie per ottenere del denaro èdavvero spregevole. Lo si potrebbescusare se fosse un povero diavolo,che fa la fame perché nessuno loconosce. Ma se si tratta di un pittorefamoso e ricercato, è un attoimperdonabile .Non che a Baum desse fastidio ilrigore dei princìpi, tuttavia più chela morale degli altri gli interessavala propria. Non da tutti ci si puòaspettare, diceva, che si comportinocome Michelangelo, esistono anchecaratteri meno indipendenti eorgogliosi. Io ritenevo che un pittoredovesse essere orgoglioso, chi nonaveva la tempra necessaria era meglioche facesse un altro mestiere, unmestiere qualsiasi. Ma Baum mi feceriflettere su un altro puntoimportante.Qual era l'idea che io mi ero fattodi un ritrattista? Un ritrattista deverappresentare gli uomini così comesono o deve ritrarli come figureideali? Per dipingere delle figureideali non occorre essere ritrattisti!Ogni uomo è quel che è, ed è proprioquesta peculiarità che il pittore devecogliere nell'uomo che posa per lui.Solo così si saprà anche nei tempiavvenire che tipi di uomini sonoesistiti in passato.Questo argomento mi sembròconvincente e mi diedi per vinto. Macontinuai a pensare con un certodisagio al rapporto fra i pittori e iloro mecenati. Mi era rimasto ilsospetto che i ritratti fossero attidi adulazione e perciò non andasseropresi sul serio. Forse fu un'altradelle ragioni per cui a quell'epoca mimisi con tanta decisione dalla partedei satirici. George Grosz divenne aimiei occhi importante come Daumier, lacontraffazione attuata con intentisatirici mi conquistò completamente,mi ci abbandonavo senza opporreresistenza, come se quella fosse laverità.-Le Plaidoyer d'un fou .Circa sei mesi dopo il mio arrivoentrò in classe un nuovo compagno,Jean Dreyfus. Era più alto e più

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vecchio di me, ben sviluppato,sportivo, proprio un bel ragazzo. Incasa parlava francese, e di questo cisi accorgeva un poco anche dal suotedesco. Veniva da Ginevra, ma avevavissuto anche a Parigi e sidistingueva nettamente dagli altricompagni per la sua originecosmopolita. Si avvertiva in lui unacerta superiorità da uomo di mondo, madi questo non si serviva affatto permettersi in mostra; a differenza diBaum, non dava alcuna importanza allenozioni scolastiche; trattava gliinsegnanti, che del resto non prendevasul serio, con ricercata ironia, e ame sembrava che su molte cose lasapesse più lunga di loro. Sicomportava con cortesia squisita,eppure sembrava spontaneo, e io nonsapevo mai in anticipo che cosaavrebbe detto su un certo argomento.Comunque non era mai grossolano népuerile, aveva sempre un perfettocontrollo di sé e agli altri faceva sìsentire la propria superiorità, ma nonin maniera opprimente. Era un ragazzorobusto, in lui lo spirito e il corposembravano ben bilanciati. A mesembrava un essere perfetto, anche seero un po' turbato dal fatto che nonmi riusciva di scoprire quali erano lecose che veramente gli stavano acuore. Così a tutto quello che in luiconquistava la mia simpatia siaggiungeva anche questo segreto. Me nestavo a lungo a rimuginare quali cosepotessero essere importanti per lui, epur presumendo che la chiavedell'enigma si celasse nella suaorigine familiare, da essa mi sentivoa tal punto abbagliato che nonriuscivo a districare la matassa.Credo che Dreyfus non abbia maisaputo che cosa in lui mi attraessetanto. Se mai lo avesse saputo, miavrebbe preso in giro di sicuro. Sindai primissimi colloqui decisi didiventare suo amico e dato che egliera sempre così cortese e garbato contutti, fu un processo che richiese uncerto tempo. Il ramo paterno della suafamiglia possedeva una banca privatatedesca di una certa importanza. Sisupponeva, perciò, che suo padre fosseun uomo molto ricco, e questo in me,che mi sentivo accerchiato eminacciato su questo tema da partedella famiglia in senso lato, avrebbeinevitabilmente prodotto diffidenza e

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avversione. Ma a ciò si opponeva lacircostanza, per me irresistibile, chesuo padre, a dispetto della tradizionefamiliare, era diventato un poeta;semplicemente un poeta, non unromanziere in cerca di facilisuccessi, ma un lirico moderno,accessibile a pochi - presumevo - checerto doveva scrivere in francese. Dilui non avevo letto nulla, anche sesapevo che aveva scritto dei libri;non provai nemmeno a prenderli inmano, anzi oggi ho la sensazione dinon averli voluti leggere perché quelche mi stava a cuore era l'aura di unapoesia oscura e di difficilecomprensione, talmente difficile chesarebbe stato insensato, alla mia età,cercare di accostarmi ad essa. AlbertDreyfus si interessava inoltre dipittura moderna, scriveva critiched'arte e faceva collezione di quadri;era amico di molti fra i più estrosipittori moderni e aveva sposato unapittrice: la madre, appunto, del miocompagno di scuola.Di questa circostanza all'inizio nonmi ero reso pienamente conto; Jean viaccennava ogni tanto come per inciso,la cosa non suonava particolarmentegloriosa, ma - per quel poco che sipoteva supporre dalle sue frasi bencostruite - piuttosto come unproblema. Solo in seguito, quando miinvitò da lui ed entrai nella sua casapiena di quadri, dei vigorosi ritrattiimpressionistici fra i qualifiguravano anche alcune immaginiinfantili del mio amico, solo alloravenni a sapere che quelle erano leopere di sua madre. E mi sembraronocosì piene di vitalità e di talentoche, a dispetto delle mie scarseconoscenze in quel campo, esclamai:-Ma allora è una vera pittrice! Nonme l'avevi detto! ; al che luirispose, un po' sorpreso: -Nedubitavi? Ma sì che te l'avevodetto! . Dipendeva da quel che siintende per -dire : non lo avevaproclamato, l'aveva lasciato caderecosì, incidentalmente, e, dato ilpathos per me implicito nell'idea diuna qualsiasi attività artistica, ilsuo modo di comunicare la cosa avevafunzionato al contrario, quasi avessevoluto sviare la mia attenzione escusarsi cortesemente per i quadri disua madre. Io che mi aspettavoqualcosa di simile ai fiorellini della

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signorina Mina a villa Yalta, oracaddi proprio dalle nuvole.Non mi sarebbe nemmeno venuto inmente di domandare se la madre di Jeanera anche una pittrice famosa. Unacosa sola contava: avevo visto i suoiquadri, essi esistevano davvero;importante era la loro ricchezza, laloro vitalità, ma anche il fatto chetutta la casa, piuttosto grande, nefosse piena zeppa. In una visitasuccessiva conobbi anche la pittrice,che mi fece l'impressione di unapersona nervosa e un po' frastornata;sembrava infelice, nonostante ridessespesso. Avvertii che esisteva tra leie il figlio un legame profondo etenerissimo, Jean in presenza di suamadre mi sembrò meno equilibrato; erain ansia, come chiunque altro sarebbestato al suo posto, e domandò a suamadre come stava. La risposta di leinon lo appagò, così Jean continuò achiedere, volle sapere tutta laverità, senza un'ombra d'ironia, e noncon superiorità, ma con verapartecipazione - l'ultima cosa che dalui mi sarei aspettato; se lo avessivisto più spesso in compagnia di suamadre certamente la mia immagine diJean si sarebbe radicalmentetrasformata.Ma lei non la vidi mai più, mentreJean lo vedevo tutti i giorni; così fuda lui che cercai di ricavare ciò dicui allora avevo più bisogno:un'immagine integra e inequivocabiledell'arte e della vita di chi sidedica all'arte. Un padre che avevavoltato le spalle agli affari difamiglia per diventare poeta, einoltre aveva la passione dei quadri eproprio per questo aveva sposato unavera pittrice. Un figlio che parlavaun francese meraviglioso, purfrequentando una scuola tedesca, e chedi tanto in tanto- cosa c'era di più naturale, con unpadre così! - scriveva egli stessoqualche poesia in francese, anche sein realtà la matematica lo interessavadi più. E poi uno zio, fratello di suopadre, professore di medicina, unneurologo che insegnava all'Universitàdi Francoforte e aveva una figliabellissima, di nome Maria, che vidiuna volta sola e avrei rivisto assaivolentieri.Non mancava proprio nulla: lascienza che veneravo più di ogni

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altra, la medicina (periodicamente misorprendevo a pensare che avrei volutostudiare medicina), e infine labellezza di una tenebrosa cugina pienadi capricci; Jean, che già siatteggiava un poco a conoscitore didonne, ne ammetteva senz'altro ilfascino, benché tendesse a giudicarla,essendo sua cugina, con un metroalquanto severo.Era piacevole parlare di ragazze conJean. A dire il vero era lui che neparlava, io lo stavo ad ascoltare. Mici volle un po' di tempo prima diriuscire (grazie ai nostri colloqui) afarmi un'esperienza sufficiente perraccontare a mia volta delle storie.Inventavo ogni cosa, essendo ancoraassolutamente inesperto, proprio comea Zurigo; ma stavo imparando da Jean ene vestivo i panni. Lui non si accorsemai che gli propinavo soltanto dellefrottole. Preferivo limitarmi a unpiccolissimo numero di storie, emeglio ancora a una sola, che siprotraeva attraverso complicate ealterne vicissitudini. Era una storiatalmente appassionante che Jean mipregava di parlargliene; una ragazza,soprattutto, che in onore di suacugina avevo battezzato Maria,suscitava il suo vivo interessamento.Aveva - oltre alla bellezza - unaserie di qualità estremamentecontraddittorie: un giorno eri sicurodi aver conquistato il suo cuore el'indomani scoprivi di esserle deltutto indifferente. Eppure non eradetta l'ultima parola: due giorni dopola tua perseveranza venivaricompensata da un primo bacio, chedava inizio a una lunga serie didispetti, dinieghi e dichiarazionidolcissime. A lungo cercavamod'indovinare come son fatte le donne.Jean confessava di non aver maiincontrato una persona enigmatica comela mia Maria; eppure di esperienze neaveva avute parecchie. Mi disse cheavrebbe voluto conoscerla, e io nonesclusi del tutto questa possibilità,tanto l'umore capriccioso di lei mipermetteva di tenerlo a bada senzadestare sospetti.Solo grazie a questi colloqui, cheandavano avanti all'infinito - avevanouna loro particolare importanza econtinuarono per mesi - si risvegliòil mio interesse per un argomento chein fondo continuava a restarmi

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indifferente. Non sapevo nulla. Nonavrei saputo dire che cosa succede fradue persone che si amano, a parte ibaci. Nella pensione abitavo porta aporta con la signorina Rahm, chericeveva tutte le sere le visite delsuo amico. Benché la mamma,previdente, avesse messo il pianofortecontro la porta di comunicazione frale due stanze, anche senza origliaresi sentiva piuttosto bene. Ma, a causadella natura di quel rapporto, irumori dalla stanza accanto mistupivano senza occupare troppo i mieipensieri. Si sentivano all'inizio lepreghiere del signor�denburg, alle quali la signorina Rahmreplicava con un secco -no . Lepreghiere si intensificavano sino alpianto, cominciavano delle suppliche edei lamenti interminabili, interrottida -no sempre più freddi. Alla finela signorina Rahm sembrava veramentein collera. -Fuori! Fuori! intimava,mentre il signor �denburg scoppiava inun pianto da spezzare il cuore.Qualche volta lei lo buttava fuori sulserio, nel bel mezzo del pianto, e iomi domandavo se il signor �denburgcontinuasse a piangere anche per lescale, incontrando gli ospiti dellapensione, ma non avevo il coraggio diuscire in corridoio per sincerarmenecoi miei occhi. Qualche volta egliotteneva il permesso di restare, e ilpianto, allora, si smorzava in unflebile guaito; ma alle dieci precisedoveva comunque lasciare la stanzadella signorina Rahm, perché nellapensione dopo quell'ora non erano piùconsentite visite maschili.Se il pianto diventava così forte dadisturbare la lettura, la mammascuoteva la testa, ma della cosa nonsi parlava mai. Sapevo quanto le fossesgradevole la vicinanza dellasignorina Rahm; tuttavia di quel tipodi rapporto, almeno per quantoriguardava le nostre orecchieinfantilmente ignare, non sembrava deltutto scontenta. Le cose che riuscivoa sentire in quelle occasioni me letenevo per me, nella mia immaginazioneesse non si collegarono mai alleconquiste di Jean; ma ebbero forse uninflusso indiretto, che allora nonavrei mai sospettato, sulcomportamento della mia Maria.Nei resoconti di Jean e nelle mieinvenzioni non c'era mai nulla di

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sconveniente. Erano racconti comeusavano una volta. Il tutto aveva untono cavalleresco, ciò che contava eral'ammirazione, non il possesso. Seriuscivi a esprimere l'ammirazione contanta intelligenza e abilità daconvincere, far breccia e non esseredimenticato, allora avevi vinto; la-conquista consisteva nel far colpo,nel farsi prendere sul serio. Se ilflusso delle belle frasi cheescogitavi e che riuscivi apronunciare non veniva interrotto, sela tua possibilità di offrire i tuoiomaggi a una fanciulla non dipendevapiù soltanto dalla tua abilità, maanche dall'attesa e dalla compiacenzadi lei, questa era la prova che eristato preso sul serio e che dunque eriun uomo. Dimostrare questo era ciò checontava, era la dimostrazione che ciattraeva, assai più dell'avventura insé. Jean poteva riferire una serieininterrotta di simili-dimostrazioni . Benché tutto ciò chegli contrapponevo fosse inventato dalprincipio alla fine, io credevo allesue parole una per una, così come luicredeva alle mie. Mai mi venne inmente di mettere in dubbio ciò cheegli mi raccontava solo perché io miinventavo tutto. I nostri raccontiavevano un'esistenza autonoma: forseJean abbelliva qualche particolare; lestorie che mi inventavo di sana piantagli avranno forse fornito lo spuntoper qualche dettaglio. I nostriracconti erano reciprocamente insintonia, si adattavano bene gli uniagli altri, ed ebbero sulla sua vitainteriore, in quel periodo, uninflusso non minore che sulla mia.Nelle mie conversazioni con HansBaum assunsi un atteggiamento deltutto diverso. Lui e Jean non eranoamici, Jean lo trovava noioso.Disprezzava gli scolari modello, e ilsenso del dovere che si leggeva nellosguardo di Baum gli sembravaaddirittura ridicolo, rigido e pocovitale com'era, e sempre uguale a sestesso. Il fatto che quei due sitenessero a debita distanza fu la miafortuna; infatti, se mai avesseromesso a confronto le cose che dicevoall'uno e all'altro sull'amore, certoavrei perso la mia reputazione agliocchi di entrambi.Quel che dicevo a Baum lo pensavo,parlando con Dreyfus, invece, giocavo.

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Probabilmente ci tenevo a imparare daJean, anche se gareggiavo con luisoltanto a parole; nei fatti miguardavo bene dall'imitarlo. Una voltaebbi con Baum un colloquio molto serioe, con suo grande stupore, glicomunicai la mia ultima opinionesull'argomento. -L'amore non esiste, dichiarai -l'amore è un'invenzione deipoeti. Prima o poi leggi un libro incui si parla dell'amore e ci credisolo perché sei giovane. Pensi che tel'abbiano tenuto nascosto gli adultiperciò ti ci butti a pesce e ci credi,prima ancora di averlo sperimentato.Mai nessuno ci arriva da solo. Inrealtà l'amore non esiste . Baumesitava a rispondere, io sentivo chenon era affatto d'accordo con me, mapoiché prendeva sempre tutto così sulserio e per di più era un ragazzomolto riservato, non cercò nemmeno diconfutarmi. Per farlo avrebbe dovutorivelare qualche sua esperienzaintima, e di questo non era capace.Con quella estrema ripulsa reagivo aun libro che la mamma possedeva sindai tempi di Zurigo e che io avevoletto contro la sua volontà: LePlaidoyer d'un fou di Strindberg. Lamamma lo apprezzava in modoparticolare, di questo mi ero accortoperché lo teneva da parte, e non nellapila in cui soleva accatastare tuttigli altri volumi di Strindberg. Unavolta, mentre parlavo con la miasolita giovanile arroganza del signor�denburg, chiamandolo -quel venditoredi cravatte e domandandomi comefacesse mai la signorina Rahm asopportare tutte le sere la suacompagnia, la mia mano si mise agiocare, non so se per caso ointenzionalmente, con Le Plaidoyerd'un fou, ad aprire il libro, asfogliarlo, richiuderlo, rigirarlo,aprirlo di nuovo. La mamma pensò chela quotidiana scenetta serale dellastanza accanto mi avesse fatto venirein mente di leggerlo: -Non leggerequel libro! mi pregò -In te siguasterebbe qualcosa che mai piùsaresti in grado di risanare. Aspetta,dopo che tu stesso avrai fatto qualcheesperienza, non potrà più farti delmale .Per tanti anni le avevo credutociecamente, e mai aveva avuto bisognodi argomentare per trattenermi dallalettura di un libro. Ora però, dopo la

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visita del signor Hungerbach,l'autorità della mamma era scossa.L'avevo visto con i miei occhi,quell'uomo era completamente diversoda come lei lo aveva descritto eannunciato. Adesso volevo vedere da mequel che c'era in questo Strindberg.Non le promisi nulla; ma lei si fidòdel fatto che non le avevo neppuredetto di no. Alla prima occasionepresi Le Plaidoyer d'un fou e, asua insaputa, lo divorai a velocitàfolle, la stessa velocità con cui untempo avevo letto Dickens; ma questavolta non mi venne voglia diricominciare da capo.Quella confessione non riuscivo acapirla, mi sembrava una menzognadalla prima all'ultima riga. Credo chea respingermi fosse qualcosa chesomiglia alla sobrietà, il tentativodi non dire nulla che vada oltre uncerto attimo, il ridursi e limitarsialla situazione che si descrive.Sentivo mancare l'impeto, l'impetodell'invenzione, intendevol'invenzione in genere, non deiparticolari. Il vero impeto, l'odio,non lo riconobbi. Non vidi che era ingioco la mia esperienza più personalee più remota: la gelosia. Midisturbava la mancanza di libertàiniziale, il fatto che si trattassedella moglie di un altro: mi sembravauna storia barricata in se stessa. Nonpotevo soffrire le vie traverse perarrivare a un essere umano. Conl'orgoglio dei miei diciassette anniguardavo dritto davanti a me edisprezzavo qualsiasi travestimento.Il confronto diretto era tutto, unacosa sola contava: lo scontro faccia afaccia. Le occhiate oblique leprendevo tanto poco sul serio quanto icolpi obliqui. Forse quel libro, chesi faceva leggere con troppa facilità,sarebbe scivolato su di me come se nonl'avessi mai letto. Ma ci fu quelpasso che mi colpì come una mazzata,l'unico di tutto il libro che hoancora davanti agli occhi in ogniparticolare, benché, forse proprio acausa di quella scena, non lo abbiamai più ripreso in mano.Il protagonista, l'uomo che siconfessa, cioè Strindberg, riceve perla prima volta in camera sua la visitadella moglie dell'amico, che è unufficiale. Egli la sveste e la fasdraiare sul pavimento. Attraverso il

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crespo sottile vede baluginare i suoicapezzoli. Questa descrizione di unasituazione intima era una cosa per mecompletamente nuova. Si svolgeva inuna stanza che poteva essere unastanza qualunque, anche la nostra.Forse uno dei motivi che mi indusse arifiutarla con tanta veemenza fuquesto: si trattava di una scenaimpossibile. L'autore voleva farmicredere all'esistenza di qualcosa chechiamava amore. Ma io non mi lasciaiincantare e gli diedi del bugiardo.Non solo non volevo aver niente a chefare con quella storia, che trovavoripugnante, perché si svolgeva dietrole spalle del marito della donna, unamico che si fidava di entrambi - mala trovavo anche insensata, unatrovata dozzinale, inverosimile,sfacciata. Perché mai una donnadovrebbe lasciarsi sdraiare sulpavimento? A che scopo lui laspogliava? Perché mai lei si lasciavaspogliare? Eccola, sdraiata sulpavimento, mentre lui la guarda.Quella situazione, per me nuova eincomprensibile, suscitava anche lamia collera: come osava lo scrittorepresentare una situazione del generecome se potesse capitare davvero?Mi nacque dentro un sentimento dirivolta: anche se tutti, perdebolezza, si fossero lasciaticonvincere che cose del genere possonoesistere davvero, io non ci credevo,mai e poi mai ci avrei creduto. Checosa c'entravano i guaiti del signor�denburg nella stanza accanto? Lasignorina Rahm camminava su e giù perla sua stanza dritta come una candela.L'avevo vista nuda con un binocolo dateatro mentre stavo guardando lestelle dal nostro balcone. Per caso,così pensavo, il binocolo si eradiretto verso la finestra vivamenteilluminata della sua stanza. Lasignorina Rahm era là, in piedi, nuda,a testa alta, snella nel riflessodella luce rossastra; ero così stupitoche non riuscivo a smettere diguardarla. Fece due o tre passi,sempre dritta come una candela,proprio come quand'era vestita. Sulbalcone i guaiti del signor �denburgnon li sentivo più. Ma quando,imbarazzato, ritornai in camera,subito mi giunsero nettissimiall'orecchio, e compresi che per tuttoil tempo da me trascorso sul balcone

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non erano mai cessati. Mentre lasignorina Rahm camminava su e giù perla sua stanza, il signor �denburgaveva continuato a guaire, senzasuscitare in lei la minima reazione;la signorina si comportava come seneanche lo vedesse, come se fossesola, e neppure io avevo visto ilsignor �denburg, era proprio come senon ci fosse.Lo svenimento.Ogni notte andavo sul balcone aguardare le stelle. Cercavo lecostellazioni che conoscevo e quandole trovavo ero soddisfatto. Non eranotutte ugualmente nitide; non tutteerano contrassegnate da una vistosastella azzurra, come Vega dellacostellazione della Lira, allo zenitsopra di me, o da una grande stellarossa come Betelgeuse, che apparequando sorge la costellazione diOrione. Sentivo la vastità checercavo, di giorno non mi accorgevodella vastità dello spazio, questasensazione si destava in me solo dinotte, in presenza delle stelle, etalora la rafforzavo pronunciando avoce alta il numero immane di anniluce che mi separavano da questa oquella stella.Molte cose mi tormentavano in quelperiodo; mi sentivo in colpa per lamiseria che vedevamo intorno a noi,pur senza condividerla. Mi sareisentito meno in colpa se fossiriuscito a convincere la mamma, almenouna volta, dell'ingiustizia dellanostra -agiatezza , come io lachiamavo. Ma quando cominciavo aparlarne, la mamma rimaneva fredda edistante, si chiudeva deliberatamentein se stessa, anche se un momentoprima si era infervorata su unargomento qualsiasi di musica o diletteratura. Del resto, erafacilissimo scioglierle di nuovo lalingua, bastava che lasciassi caderel'argomento di cui lei non volevasentir parlare, e subito ritrovava laparola. Ma per me era un punto d'onorecostringerla a prender posizione.Raccontavo qualche triste avvenimentocui avevo assistito durante il giorno,le domandavo senza perifrasi se era aconoscenza di questo o di quello: leitaceva, con un'espressione sul voltodi sottile disprezzo oppure didisappunto; solo se si trattava di unacosa veramente tremenda, allora

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diceva: -L'inflazione non l'ho fattaio oppure: -Questa è una conseguenzadella guerra .Avevo l'impressione che non leimportasse niente di come stavano lepersone che non conosceva, soprattuttose le loro sofferenze erano causatedalla povertà; eppure, durante laguerra, quando gli uomini venivanomutilati e uccisi, aveva partecipatointensamente alle loro pene. Forse lasua compassione si era esauritaallora; a volte mi sembrava chequalcosa nel suo animo si fosseinaridito, perché l'aveva usato controppa prodigalità. E questa eraancora l'ipotesi più sopportabile. Inrealtà ero sempre più angosciato dalsospetto che la mamma ad Arosa avessesubìto l'influsso di persone cheavevano fatto colpo su di lei perché-sapevano affrontare la vita e-pagare di persona . Quando usava controppa frequenza espressioni comequeste, che mai in passato avrebbeadoperato, mi difendevo attaccandola(-Come sarebbe a dire -sapevanoaffrontare la vita ? Ma se era gentemalata, che viveva in sanatorio! Tiparlavano in quel modo ed erano uominimalati, che non facevano nulla );allora la mamma si arrabbiava,rinfacciandomi la mia crudeltà verso imalati. Mi sembrava che avesseritirato dal mondo tutta la suacompassione, per riservarla soltantoalla piccola cerchia di uomini e donnedel suo sanatorio.Ma poiché in quel piccolo mondo gliuomini erano assai più numerosi delledonne, intorno a lei, che allora erauna giovane signora, si davano tuttiun gran da fare e, gareggiando traloro per destare la sua attenzione,ostentavano, forse proprio perchémalati, tutta la loro virilità; etutti le davano una grande importanza,tanto che lei era portata a credere aciò che essi dicevano e ad apprezzarequalità e caratteristiche alle qualinon molto tempo prima, durante laguerra, avrebbe pensato con disprezzo,anzi con orrore. Fra quegli uominigodeva di un'alta considerazioneperché li ascoltava volentieri, volevaconoscere il maggior numero possibiledelle loro vicende ed era semprepronta ad accogliere le loroconfidenze senza mai approfittarne perricamarci su o imbastire intrighi

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meschini. Per anni era stata abituataad avere come unico interlocutore unbambino, ora, invece, ne aveva molti eli prendeva tutti sul serio.La mamma non riusciva ad avere conla gente un rapporto frivolo osuperficiale. Così, proprio la suaqualità migliore, la serietà, laallontanò - nel periodo del sanatorio- dalla più vasta umanità che prima,insieme ai suoi figli, era stata tuttoper lei, inducendola a concentrarsi suun'umanità ristretta e privilegiata,della quale, tuttavia, non potevariconoscere il privilegio, trattandosidi gente ammalata. Forse la mamma eratornata quella che era stata inorigine, la figlia prediletta e un po'viziata di una famiglia ricca. Forseil grande periodo della sua vita,quando, sentendosi a un tempocolpevole e infelice, aveva espiato lasua colpa, peraltro indeterminata equasi incomprensibile, dedicandosi conenergia sovrumana all'educazioneintellettuale dei suoi figli, ilperiodo culminato con la guerra,quando tutte le sue forze eranoconfluite in un odio selvaggio controla guerra - forse quella grandestagione della sua vita era finitamolto prima che io me ne rendessiconto, e con le lettere che ci eravamoscambiati tra Arosa e Zurigo avevamogiocato a nascondino, restando fedeli,almeno in apparenza, a un passato cheormai non esisteva più.Tuttavia, quando vivevo nellapensione Charlotte, mai e poi maisarei stato in grado di chiarire a mestesso tutte queste cose con freddadeterminazione, benché, dopo la visitadel signor Hungerbach, avessicominciato a capirne parecchie e ainterpretarle nella maniera giusta. Ilnostro rapporto diventò una lotta,cominciai ad attaccare ostinatamentela mamma nel tentativo diriavvicinarla alle cose della vita cheritenevo -davvero importanti. Leconversazioni che si svolgevano atavola mi offrivano spesso un graditopretesto per i miei attacchi. Imparaia nascondere di fronte a lei il miovero obiettivo, ad attaccar discorso,certe volte, come un perfettoipocrita, magari chiedendoledelucidazioni su una cosa che dicevodi non aver capito bene o commentandoil modo di fare di un commensale che

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anche a lei non piaceva. Nel giudiziosui Bemberg, i due giovani parvenusdella tavolata, i nostri cuoribattevano all'unisono. Il suodisprezzo per i nuovi ricchi nonvacillò mai, finché visse. Ma se inquei momenti di accordo perfetto mifossi reso conto che il suo disprezzonon era altro che la direttaconseguenza della sua idea di -buonafamiglia , certo mi sarei sentito menoa mio agio.Il trucco più efficace consistevacomunque nel farle qualche domanda.Con astuzia tutt'altro che innocentela interrogavo su un tema che lei- stando alle mie vecchie esperienze -conosceva bene. Era un modo efficaceper cominciare a discutere, e poiavvicinarmi gradualmente al mio veroobiettivo. Ma spesso la pazienza nonmi bastava e, se l'argomento miinteressava davvero, passavoavventatamente alle domande dirette.E'è quel che successe a proposito divan Gogh, quando la mamma fece fiascocompleto e cercò di nascondere lapropria ignoranza imprecando conestrema grettezza contro -quel pazzodi un pittore . In quei casi ioperdevo la testa, mi scagliavo controdi lei con veemenza e arrivavamo ascontri mortificanti per tutti e due.Per lei, che era palesemente in torto.Per me, che le rinfacciavo senzamisericordia che stava parlando diargomenti di cui non sapeva nulla,atteggiamento che in passato, quandodiscutevamo insieme di letteratura,aveva sempre criticato con la massimaasprezza. Dopo quegli scontri erotalmente disperato che uscivo di casa,me ne andavo a zonzo in bicicletta -una delle due consolazioni degli annidi Francoforte. L'altra consolazione,ancora più necessaria, le volte che lamamma taceva, e non si arrivava a unoscontro, non si arrivava a nulla,erano le stelle.Ciò che la mamma rinnegavaostinatamente (la responsabilità perle cose che succedevano intorno a lei)e rifiutava con una sorta di cecitàconsapevole e selettiva che facevacalare su di sé a comando, tutto ciòin quel periodo diventò per me cosìnitido e assillante che non riuscivo astarmene zitto, dovevo parlargliene, edivenne una sorta di permanenterimprovero nei suoi confronti. La

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mamma temeva il mio ritorno da scuolaperché era sicura che me ne sareiuscito con qualche nuovo particolareosservato da me o udito da altri; mibastava dire la prima frase persentire la sua totale chiusura, eallora buttavo fuori con violenzaancora maggiore quel che mi urgevadentro, che così assumeva il tono, perlei difficile da sopportare, delrimprovero personale. Da principio nonavevo la minima intenzione diritenerla responsabile dei fatti cheper la loro ingiustizia o disumanitàsuscitavano il mio sdegno. Ma lei nonvoleva ascoltarmi, aveva un modo tuttosuo di ammettere le cose soltanto ametà, e allora il mio racconto sitrasformava davvero in accusa. Le coseche volevo riferirle assumevano untono personale e in questo modo lacostringevo ad ascoltare e arispondere in un modo o nell'altro.Lei provava a dire -Lo so, lo so oppure -Già, posso immaginarmelo . Maio non gliela facevo passare liscia,rincaravo la dose, quel che avevovisto o sentito raccontare glielosbattevo in faccia come un capod'accusa. Era come se un potere ignotomi avesse affidato una protesta chedovevo far giungere sino a lei.-Stammi a sentire! dicevo, prima solocon impazienza, poi con rabbia.-Stammi a sentire! Questo me lo devispiegare! Com'è possibile che succedauna cosa simile e nessuno ci facciacaso? .Una donna per strada era crollata aterra svenuta. -E'è la fame avevanodetto alcuni passanti aiutandola arialzarsi; aveva un aspettoterribilmente pallido ed emaciato;altra gente, però, aveva tirato drittosenza guardarsi indietro. -E tu tisei fermato? disse la mamma,pungente, un simile evento doveva purcommentarlo in qualche modo. Era vero,io me n'ero tornato a casa e ora stavoseduto con lei e con i miei fratelliintorno al tavolo rotondo per lasolita merenda. Avevo davanti unatazza di tè, sul mio piatto c'era unpanino col burro che non avevo ancoraportato alla bocca, però mi ero messoa tavola come sempre, e solo dopoessermi seduto avevo cominciato araccontare.Ciò che avevo visto quel giorno nonera uno spettacolo consueto, per la

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prima volta in vita mia qualcunosveniva per strada sotto i miei occhi,crollava al suolo sfinito dalla fame edalla debolezza. Ne rimasi talmentescosso che entrai nella stanza senzadire una parola e continuando a tacerepresi il mio posto a tavola. Vedere ilpanino col burro, e soprattutto ilbarattolo del miele in mezzo altavolo, mi sciolse la lingua, ecominciai a parlare. La mamma colse alvolo il ridicolo della situazione ma,come sempre, reagì con troppairruenza. Se avesse aspettato unattimo, e cioè che io prendessi inmano e addentassi il mio paninoimburrato, o anche soltanto che cispalmassi sopra del miele, il suosarcasmo, che traeva alimento dallasituazione ridicola nella quale mi erocacciato, certo mi avrebbeannichilito. Ma lei, ancora una volta,non mi prese abbastanza sul serio;forse pensò che ormai ero seduto e cheperciò la merenda avrebbe seguìto ilsuo corso. Si fidò troppo del rito giàiniziato e se ne servì come arma permettermi al più presto fuoricombattimento; le dava fastidio che lamerenda fosse disturbata dadescrizioni di gente affamata chesviene per la strada; solo fastidio,nient'altro, e, giudicando in base alproprio coinvolgimento, che erascarsissimo, sottovalutò la serietàdel mio stato d'animo. Io saltai suurtando il tavolo, il tè si rovesciòsulla tovaglia, e gridando -Non mifermo nemmeno qui! mi precipitaifuori dalla stanza.Scesi le scale volando, saltai sullabicicletta e disperato mi misi apedalare su e giù per le strade delquartiere, più in fretta che potevo, acasaccio, senza sapere quel che volevo- che cosa avrei potuto volere? -, mapieno di un odio smisurato per quellanostra merenda. Avevo continuamentedavanti agli occhi il vasetto delmiele e lo coprivo di maledizioni.-Ah, se l'avessi gettato dallafinestra! In strada! Non in cortile! .Solo se fosse andato in frantumi perla strada, sotto gli occhi di tutti,il mio gesto avrebbe avuto un senso:tutti avrebbero visto che qui dellagente teneva in casa il miele, mentrealtri pativano la fame. Ma non avevofatto niente di tutto questo. Avevolasciato sul tavolo il vasetto del

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miele, non avevo neppure rovesciato latazza, un po' di tè si era versatosulla tovaglia, ecco tutto. Mi sentivoprofondamente esacerbato, eppure nonero riuscito a far niente di concreto,non ne avevo avuto la forza: non sonoaltro che un placido agnellino,pensai, nessuno ascolta il suo pietosobelato, una cosa sola è successa: lamamma si è arrabbiata perché hodisturbato la merenda.Non era davvero successonient'altro. Ritornai a casa. La mammami punì chiedendomi con tonocompassionevole se era stato davverocosì terribile, da uno svenimento cisi riprende, disse, non è nulla didefinitivo, probabilmente mi ero tantospaventato perché quella donna l'avevoguardata in faccia proprio nel momentoin cui stava cadendo per terra. Vedermorire un essere umano era tutt'altracosa. Temevo che ricominciasse colsanatorio nel bosco, e con la gentemorta laggiù, diceva sempre che eranomorti sotto i suoi occhi; questavolta però non lo disse, dissesoltanto che mi dovevo abituare anchea cose del genere, non dicevo forse,di tanto in tanto, che mi sarebbepiaciuto fare il medico? Che razza dimedico è un uomo che crolla di frontealla morte del suo paziente? Forse perme era stato un bene assistere aquello svenimento, era un modo dicominciare ad abituarmi a certesituazioni.Così quello svenimento che mi avevatanto indignato fu l'occasione persottolineare un requisito generaledella professione medica. Invece dirimproverarmi per il mio gestourtante, la mamma mi mise in guardiaper la vita futura, nella quale sareifallito se non fossi diventato piùduro e controllato.Dopo quell'episodio la taccia mirimase: non ero tagliato per fare ilmedico. Avevo il cuore troppo tenero,a una simile professione non mi sareimai abituato. Non ho mai volutoammetterlo, ma rimasi moltoimpressionato dalla piega imprevistache la mamma aveva dato al mioavvenire. Cominciai a pensarci su, aesitare. Non ero più tanto sicuro dipoter diventare un medico.Gilgamesh e Aristofane.Il periodo di Francoforte non siesaurì nelle esperienze umane vissute

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nella pensione Charlotte. Queste,comunque, si arricchivano ogni giornoin un processo continuo, e perciò nonvanno sottovalutate. Ti sedevi atavola, sempre allo stesso posto, edavanti a te recitavano la loro parte,sempre agli stessi posti, alcunepersone che ai tuoi occhi eranodiventate dei personaggi. Personaggiche perlopiù erano sempre uguali a sestessi, dalla loro bocca non uscivamai nulla d'inaspettato. Alcuni, però,tenevano celata la loro natura e ognitanto ti sorprendevano con uno scartoimprovviso. In un modo o nell'altro,era sempre uno spettacolo, e neppureuna volta entrai nella sala dapranzo della pensione Charlotte senzasentirmi eccitato e incuriosito.Per i miei insegnanti (con una solaeccezione) non riuscivo a scaldarmimolto. Il collerico professore dilatino perdeva il controllo al minimopretesto e allora ci insultava, -asinifetenti ci diceva, e non era la suaunica ingiuria. I suoi metodididattici, basati su -frasi modello che dovevamo ripetere a pappagallo,erano assolutamente ridicoli. E'èstrano che non abbia dimenticato illatino imparato a Zurigo per ildisgusto che m'ispirava quelprofessore. Le sue sfuriate sono statel'esperienza più avvilente e piùassordante di tutta la mia vitascolastica. La guerra l'aveva segnato,certo ne aveva riportato dannipiuttosto seri; era quel che cidicevamo di tanto in tanto per cercaredi sopportarlo. Parecchi professoriportavano il marchio della guerra, siapure in modo meno appariscente. Cen'era uno, però, pieno di caloreumano, che riversava sui suoi allieviun affetto traboccante. Era un ottimoinsegnante di matematica, che sembravapiuttosto disturbato. Ma si trattavadi un disturbo di cui egli stessofaceva le spese, non i suoi allievi.Quell'uomo si dedicavaall'insegnamento con tutta l'anima, lasua coscienziosità faceva quasispavento.Potrebbe venire la tentazione diprendere in esame questi insegnantiper illustrare i differenti effettiche la guerra produce sugli esseriumani; ma per farlo bisognerebbeconoscere, almeno in parte, le loroesperienze, di cui essi, invece, non

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ci parlavano mai. Davanti a me avevo iloro volti e le loro figure, sapevocome si comportavano in classe,nient'altro, tutto il resto loconoscevamo soltanto per sentito dire.Vorrei parlare almeno di un uomofine e taciturno per il quale provoancora un senso di gratitudine. Gerberera il nostro professore di tedesco,per contrasto con gli altri sembravaquasi un pavido. I temi che assegnavacrearono tra me e lui una sorta diamicizia. All'inizio quei temi miannoiavano, erano sempre su MariaStuarda o su argomenti analoghi,tuttavia mi costavano poca fatica e alui piacevano. Poi diventarono piùinteressanti, e io cominciai amanifestare sul serio le mie idee,che, per reazione alla scuola, eranogià le idee di un ribelle e nonandavano affatto d'accordo con le sue.Però lui le accettava. Aggiungeva infondo al tema, con l'inchiostro rosso,delle lunghe considerazioni nellequali mi proponeva vari argomenti diriflessione, ma lo faceva in manieratollerante e senza lesinare gli elogiper il mio modo di esprimere quelloche pensavo. Nelle sue osservazionicritiche, quali che fossero, mai losentivo ostile e, anche quando nonpotevo accettarle, ero molto contentoche si fosse dato la pena di farmele.Pur non essendo un trascinatore, eraun insegnante assai comprensivo. Avevamani piccole piedi piccoli e piccoligesti; non era particolarmente lentonei movimenti, eppure faceva ogni cosacome a scartamento ridotto, neppure lasua voce aveva quei tonifastidiosamente virili con cui glialtri professori si davano tantaimportanza.Gerber mi aprì la biblioteca deiprofessori, da lui amministrata, e midisse di prendere i libri che volevo.Assetato com'ero di autori classici,leggevo - in traduzione tedesca - unvolume dopo l'altro, storici,drammaturghi, lirici, oratori;soltanto i filosofi - Platone eAristotele - li lasciaiprovvisoriamente da parte. Ma glialtri li lessi davvero tutti quanti, enon solo i grandi, ma anche scrittoriinteressanti solo per il materiale chele loro opere offrivano, come Diodoroo Strabone. Gerber si meravigliavadella mia costanza, per due anni

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continuai a prendere in prestito soloquesto genere di libri. Quando arrivaia Strabone, egli scosse il capo e michiese se, tanto per cambiare, nonvolevo un testo medievale; ma laproposta allora non ebbe fortuna.Un giorno che ci trovavamo tutti edue nella biblioteca dei professori,Gerber mi domandò con cautela, quasicon tenerezza, che cosa avrei volutofare in futuro. Intuivo la rispostache si aspettava, ma dissi, non tropposicuro: -Il medico . Rimase deluso, cipensò su un momento e venne a uncompromesso: -Allora lei diventerà unaltro Carl Ludwig Schleich .Apprezzava i ricordi di Schleich, maavrebbe preferito che gli dicessichiaro e tondo che avrei voluto farelo scrittore. Da allora mi fecespesso, incidentalmente e senzaparere, il nome di medici scrittori.Durante le sue lezioni leggevamo adalta voce dei drammi, dividendoci tranoi le parti. Non voglio certo direche fosse un gran divertimento. Maegli lo faceva nella speranza diconquistare alle sue lezioni,obbligandoli ad assumersi una parte,anche gli allievi con scarsi interessiletterari. Raramente sceglieva deidrammi veramente noiosi. Leggemmo Imasnadieri, l'Egmont e il Re Lear,e alcuni di essi andammo a vederli ateatro.Nella pensione Charlotte si parlavamolto di rappresentazioni teatrali,commentandole e sviscerandole in ogniparticolare. E poiché anche i veriintenditori presenti nella pensioneprendevano pur sempre spunto dallerecensioni della -FrankfurterZeitung , le discutevano e, anchequando erano di opinione diversa,manifestavano un deferente rispettoper il punto di vista autorevole dellacarta stampata, le conversazioniriguardanti il teatro si ponevano a uncerto livello ed erano forse più seriedi quelle su altri argomenti. Lapassione per il teatro la sentivanotutti e ne erano orgogliosi. Un fiascosuscitava un senso di profondorammarico, e non soltanto giudizisprezzanti. Il teatro eraun'istituzione riconosciuta, e anchecoloro che per il resto militavano incampi avversi si sarebbero benguardati dall'attaccarla. Il signorSchutt, impedito dalle sue gravi

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ferite, a teatro non ci andava quasimai, ma anche dalle sue poche parolesi capiva che la signorina K�ndigaveva l'incarico di informarlo su ognisingolo spettacolo; i suoi giudizisuonavano sicuri come se a teatro cifosse stato di persona. Chi non avevaniente da dire preferiva tacere: unafiguraccia su quel tema eral'infortunio più increscioso chepotesse capitare a chiunque.Poiché gli altri argomenti diconversazione sembravano per lamaggior parte così malcerti - tuttovacillava e il contrasto perenne delleopinioni non dipendeva affatto damotivi superficiali - si aveval'impressione, soprattutto essendomolto giovani, che esistesse almenouna cosa intangibile per tutti: ilteatro.Io a teatro ci andavo abbastanzaspesso; da una rappresentazione, inparticolare, rimasi così incantato chefeci di tutto per tornarci più volte.Vi recitava un'attrice che occupò alungo i miei pensieri, ce l'ho ancoradavanti agli occhi com'era allora:Gerda M�ller nella parte diPentesilea. Quella passione è entratain me, di essa non ho mai dubitato, lamia iniziazione amorosa è stata laPentesilea di Kleist. La confrontavoin cuor mio con una delle tragediegreche lette in quel periodo, LeBaccanti. Il selvaggio furore delleAmazzoni guerriere assomigliava aquello delle Menadi, e al posto delledonne invasate che dilaniano vivo ilcorpo del re, nella tragedia di KleistPentesilea aizza contro Achille lamuta dei suoi cani e al pari di essiaffonda i suoi denti nelle carnidell'amato. Da allora non ho mai piùosato rivedere quel dramma eleggendolo, ho sempre risentito ilsuono della sua voce, che per me nonsi è più affievolito. All'attrice chemi ha convinto che l'amore esistedavvero sono rimasto sempre fedele.Non vedevo alcun rapporto fra laPentesilea e le scene avvilenti nellastanza accanto. Quanto a LePlaidoyer d'un fou continuavo aconsiderarlo come prima tutto unamenzogna.Fra gli attori più in voga ricordoCarl Ebert, che all'inizio recitavaregolarmente, poi ogni tanto comeospite della compagnia. Molti anni

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dopo Ebert è diventato famoso per cosedi tutt'altro genere. Io lo vidiquand'era agli inizi, nella parte diKarl Moor e in quella di Egmont. Miabituai a vederlo in diversi ruoli,sarei andato a teatro anche soltantoper lui e in fondo non ho davergognarmi di questa mia debolezzaperché ad essa sono debitoredell'esperienza più importante delperiodo di Francoforte. Seppi che inuna matinée domenicale Carl Ebertavrebbe letto dei brani tratti daun'opera della quale non avevo maisentito parlare. Quest'opera era piùantica della Bibbia, era un'epopeababilonese. Sapevo che a Babiloniac'era stato il diluvio, si diceva chela leggenda biblica derivasse dallatradizione babilonese. Non ero ingrado di aspettarmi nulla di più ecerto non mi sarei mosso soltanto perquesto; ma il lettore era Carl Ebert egrazie all'infatuazione per il mioattore preferito incontrai Gilgamesh,che più di ogni altra cosa hadeterminato la mia vita, il suo sensopiù segreto, la sua fede, la sua forzae le sue attese.Il lamento di Gilgamesh per la mortedell'amico Enkidu mi penetrò nelcuore:-Giorno e notte piansi per lui,@ enon volli che fosse sepolto -@ se mail'amico risorgesse al mio grido -@sette giorni piansi, e sette notti,@finché il verme assalì il suo volto.@Poiché egli se ne andò, non trovavopiù la vita,@ e come un ladro miaggiravo per la steppa .E poi viene l'impresa di Gilgameshcontro la morte, il cammino attraversole tenebre del monte celeste e leacque della morte, fino a quandoraggiunge il suo avo Utnapishtim,l'uomo che è stato salvato dal diluvioe ha ottenuto dagli dèi il donodell'immortalità. Da lui Gilgameshvuol sapere come potrà attingere lavita eterna. Gilgamesh, è vero,fallisce e muore. Ma proprio questoesito non fa che rafforzare ilsentimento della necessità della suaimpresa.In questo modo sperimentai su mestesso l'azione di un mito: comequalcosa su cui, durante il mezzosecolo che da allora è trascorso, horiflettuto in molti modi diversi,voltandolo e rivoltandolo dentro di

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me, senza mai seriamente metterlo indubbio neppure una volta. Quel mitol'ho accolto in me come unità e in meè rimasto come unità. Su di esso nonposso fare il sottile. La domanda secredo a una storia del genere non mitocca affatto; di fronte alla miasostanza più vera, come faccio adecidere se ci credo o no? Non serveripetere come un pappagallo che sinoratutti gli uomini sono morti, si trattasemplicemente di decidere se bisognaaccettare docilmente la morte o se adessa bisogna ribellarsi. Il dirittoallo splendore, alla ricchezza, allamiseria e alla disperazione di ogniesperienza me lo sono conquistatoribellandomi alla morte. Sono vissutodentro questa rivolta senza fine. E seil mio dolore per le persone care cheho perduto nel corso degli anni non èstato minore di quello di Gilgameshper l'amico Enkidu, in una cosa, unasola, ho superato l'uomo del leone: ame è cara la vita di ogni uomo, nonsoltanto quella dei miei cari.Il fatto che questa epopea siconcentri su pochissimi personaggi hacreato un grande distacco tra essa el'epoca turbolenta nella quale io l'hoconosciuta. Il ricordo degli anni diFrancoforte è dominato da eventipubblici che rapidamente sisusseguivano. Gli avvenimenti eranopreceduti dalle -voci , al tavolodella pensione si spargevano incontinuazione delle voci che nonsempre si rivelavano prive difondamento. Ricordo che parlammodell'assassinio di Rathenau prima dileggere la notizia sui giornali (laradio non c'era ancora). Al centrodelle voci erano soprattutto ifrancesi. Avevano occupatoFrancoforte, poi se n'erano andati,improvvisamente qualcuno disse chesarebbero ritornati. Ogni giornosentivamo parlare di -rappresaglie e-riparazioni . La scoperta di undeposito clandestino di armi nelloscantinato della nostra scuola fecegrande scalpore. Dalle indagini chefurono fatte risultò che ilresponsabile di quel deposito di armiera un giovane professore checonoscevo soltanto di vista, era unuomo molto amato, il più amato ditutta la scuola.Fui molto impressionato dalledimostrazioni, le prime che vedevo;

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erano frequenti e sempre contro laguerra. C'era una divisione netta frachi approvava i moti popolari cheavevano posto fine alla guerra e glialtri, che rivolgevano il loro rancorenon contro la guerra, ma contro iltrattato di Versailles che era statostipulato l'anno seguente. Era questala divisione principale, della qualesin da allora si avvertivano glieffetti. Durante una manifestazionesulla Zeil contro l'assassinio diRathenau feci per la prima voltal'esperienza della massa. Ma glieffetti di quell'esperienza diederovita a complicate discussioni soloqualche anno dopo, perciò ne parleròpiù avanti.Per il nostro piccolo nucleofamiliare l'ultimo anno che passai aFrancoforte fu di nuovo un anno didissoluzione. Mia madre non si sentivabene, o forse la tensione dei nostriscontri quotidiani le era diventatainsopportabile. Partì per il Sud, comeaveva già fatto molte volte inpassato. Noi tre lasciammo la pensioneCharlotte e andammo ad abitare pressouna famiglia nella quale una donnapremurosissima, la signora Suse, ciaccolse con un calore e una bontà chenon ci saremmo aspettati neppure dauna madre. La famiglia era composta dapadre, madre, due figli più o menodella nostra età, una nonna e unagiovane domestica. Imparai a conoscerecosì bene ognuno di loro, oltre ai dueo tre altri ospiti stranieri chevivevano in quella casa, che solo unlibro intero potrebbe dare un'idea diciò che compresi allora sulla naturaumana.Fu l'epoca, quella, in cuil'inflazione giunse al suo apice, ilbalzo quotidiano dei prezzi - siarrivò all'uso del miliardo - ebbeconseguenze estreme, anche se nonuguali per tutti. Era uno spettacolodavvero spaventoso: tutto ciò chesuccedeva, e succedevano molte cose,dipendeva da un solo presupposto, lasvalutazione del denaro, che crescevasu se stessa a un ritmo forsennato.Ciò che si abbatteva sugli uomini inquel periodo era più che un grandedisordine, erano come tanteesplosioni quotidiane, se qualcosa oqualcuno si salvava da una di esse, ilgiorno dopo incappava nell'esplosioneseguente. Non ne vedevo gli effetti

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soltanto in grande, li vedevo, vicinie inequivocabili in tutto ciò cheaccadeva a ogni membro di quellafamiglia; gli avvenimenti più piccoli,privati e personali avevano sempre esoltanto una causa, il movimentofrenetico del denaro.Per difendermi da quei membri dellamia famiglia che vivevano in funzionedel denaro, praticavo il disprezzo deldenaro come una facile virtù.Consideravo il denaro una cosa noiosae sempre uguale a se stessa, dallaquale non c'era da ricavare la minimasoddisfazione spirituale, cheinaridiva e isteriliva a poco a pocochiunque vi dedicasse la propria vita.In quel periodo, tutto a un tratto,cominciai a vedere nel denaro un altroaspetto, un aspetto sinistro - era undemone con una frusta gigantesca, chepercuoteva ogni cosa e raggiungeva gliuomini anche nei loro più segretirecessi.Forse a spingere la mamma a fuggireda Francoforte furono anche questeconseguenze estreme di un fenomeno delquale lei, all'inizio, avrebbepreferito prendere atto senza alcunapartecipazione, e che io tuttavia lericordavo senza tregua. Mia madreritornò a Vienna non appena si fuparzialmente ripresa dalla suamalattia, vi portò con sé i miei duefratelli minori e li mandò a scuola inquella città. Io rimasi ancora aFrancoforte per circa sei mesi, perchémancava poco all'esame di maturità;poi mi sarei trasferito a Viennaanch'io per gli studi universitari.Negli ultimi sei mesi passati aFrancoforte, sempre con la stessafamiglia, mi sentii completamentelibero. Frequentavo spesso riunionipolitiche e assemblee e ascoltavo lediscussioni, che si prolungavano dinotte per le strade; e coglievo ogniopinione, ogni convinzione, ogni fedenello scontro con quelle degli altri.Si discuteva con una passione che eracome un crepitare e un guizzare difiamme, non prendevo mai parte allediscussioni ma ascoltavo conun'intensità che oggi mi farabbrividire, perché ero completamenteindifeso. Le mie opinioni personalinon potevano tener testa a impressionicosì soverchianti per forza e pernumero. Molte cose mi ripugnavano, manon ero in grado di confutarle. Altre

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mi attraevano, ma non avrei saputodire perché. Non avevo ancora il sensodella divisione dei linguaggi checozzavano gli uni contro gli altri.Non sarei in grado di rievocarefisicamente, e neppure di imitare, unosolo di quegli uomini che sentivodiscutere. Avvertivo soltanto ilcontrasto delle opinioni, il noccioloduro delle convinzioni, era una speciedi crogiuolo stregato che fumava eribolliva, ma tutti gli ingredientiche in esso galleggiavano conservavanoil proprio odore e si potevanoriconoscere.Mai in vita mia ho sentito tantairrequietezza negli uomini come inquei sei mesi. Fino a che punto sidistinguessero gli uni dagli altricome persone singole non aveva moltaimportanza: la prima cosa a cui avreiguardato negli anni successivi allorala notavo appena. Invece ero attento aogni convinzione, anche quando miripugnava. Molti oratori abituati aparlare in pubblico e sicuri del fattoloro mi sembravano dei ciarlatani. Mapoi, durante le discussioni per lastrada, quando tutto si disperdeva inmille rivoli e gli uomini checercavano di convincersi a vicenda nonerano affatto degli oratori, allora laloro inquietudine mi contagiava e liprendevo sul serio, uno per uno.Non suoni presuntuoso o frivolo sedefinisco questo periodo il mioapprendistato aristofanesco. Allora,leggendo Aristofane, mi colpirono laforza e la coerenza con cui ogni suacommedia si ispira a una trovatacentrale, sempre sorprendente, dallaquale si dipana l'intera vicenda.Nella Lisistrata, la prima che holetto, uno sciopero delle mogli, chesi rifiutano di concedersi ai loromariti, mette fine alla guerra traAtene e Sparta. Di queste trovatecentrali Aristofane ne ha inventatemolte, ma poiché la maggior partedelle sue commedie sono andateperdute, ne conosciamo poche. Avreidovuto essere cieco per non notare lasomiglianza con ciò che vedevo intornoa me: anche qui tutto dipendeva da ununico presupposto centrale, ilmovimento folle del denaro. Non erauna trovata, era la realtà, la cosaperciò non era affatto comica, eraorribile, ma la forma, se cercavi diabbracciarla come un tutto, era simile

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a una commedia di Aristofane. Sipotrebbe dire che lo sguardo crudeledi Aristofane offriva l'unicapossibilità di tenere unito ciò che sifrantumava in mille schegge.Da allora mi è rimasta un'avversioneincrollabile per la rappresentazione,a teatro, di rapporti puramenteprivati. Nel conflitto fra la Vecchiae la Nuova Commedia, entrambe diderivazione ateniese, fin da allora iopresi partito per la Vecchia, pursenza rendermi conto fino in fondo delperché. Solo ciò che tocca lacollettività nel suo insieme mi paredegno di essere rappresentato ateatro. La commedia di carattere, cheprende di mira questo oquell'individuo, mi ispira sempre unacerta vergogna, anche se si tratta diuna buona commedia; è come se mi fossirifugiato in un nascondiglio cheabbandono soltanto in caso dinecessità, per nutrirmi o per bisognianaloghi. Per me la commedia, come altempo dei suoi inizi aristofanei, traevita dal suo interesse generale,dalla capacità di contemplare il mondonelle sue connessioni più vaste.Muovendo da queste connessioni, devefare e disfare audacemente, deveconcedersi delle trovate che sfiorinola follia, deve annodare, dividere,variare, confrontare, deve inventarenuove strutture che le consentanonuove trovate, non deve mai ripetersiné rendersi troppo facile, insommadeve pretendere il massimo dallospettatore, scuoterlo, strapazzarlo,sfinirlo.E'è certo una riflessione assaitardiva quella che mi fa dire chescelsi sin da allora il tipo di drammaal quale in seguito mi sarei dedicato.Eppure credo di non sbagliarmi; non sispiegherebbe altrimenti come mai ilricordo dell'ultimo anno passato aFrancoforte sia totalmente dominatodalla turbolenza degli avvenimentipubblici e insieme, come se sitrattasse dello stesso mondo, dallecommedie di Aristofane,nell'impressione violenta della primalettura. In mezzo non vedo nulla, unacosa trapassa nell'altra, e la strettacontiguità dei due ricordi può avereun solo significato: in quel periodofurono queste le esperienze per medecisive, che si influenzarono l'unl'altra in maniera determinante.

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Tuttavia, nello stesso periodo agivaqualcosa che era in rapporto conGilgamesh e che fungeva dacontrappeso. Qualcosa che riguardavail destino dell'uomo singolo, distintoda tutti gli altri, preso per sé solo:l'incombere della morte su di lui e ildubbio se egli debba accettarla.Parte seconda: Tempesta e costrizione(*) (Vienna 1924-1925)Vita con mio fratello.All'inizio di aprile del 1924 andaiad abitare insieme a Georg in unastanza della Praterstrasse 22, in casadella signora Sussin. Era una stanzabuia, la più interna del suoappartamento, e la finestra dava sulcortile. Vi passammo insieme quattromesi, un periodo non particolarmentelungo. Ma era la prima volta chevivevo da solo con uno dei mieifratelli, e in quel periodo avvenneromolte cose.Nacque tra noi un rapporto moltostretto, io avevo assunto la veste dimentore, Georg mi chiedeva consigliosu ogni cosa, e specialmente su tuttii problemi morali. Quasi ogni sera, inquei quattro mesi passati insieme,(*) Il titolo originale di questaparte è -Sturm und Zwang , conevidente allusione al movimento dello-Sturm und Drang .parlammo di ciò che è lecito, di ciòche è doveroso, di ciò che è daaborrire in ogni circostanza, ma anchedelle esperienze che avremmo volutofare, delle cose che avremmo volutoconoscere - interrompendo il lavoro algrande tavolo quadrato vicino allafinestra, dove stavamo seduti,ciascuno coi suoi libri e i suoiquaderni. Eravamo separati soltanto dauno spigolo, ci bastava alzare latesta per guardarci in faccia. Georgera già allora di un bel palmo piùalto di me, benché avesse sei anni dimeno. Da seduti eravamo quasi altiuguali. A Vienna avevo decisod'iscrivermi alla facoltà di chimica(anche se non ero affatto sicuro dirimanerci), e mancava un meseall'inizio del semestre. Dato che alliceo di Francoforte di chimica non miavevano insegnato nulla, era proprioora che cominciassi ad acquisirequalche nozione sull'argomento. Nellequattro settimane che mi restavanovolevo recuperare il terreno perduto.Avevo davanti a me il manuale di

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chimica inorganica, che, essendo untesto di teoria privo di qualsiasiconnessione con la pratica, miinteressava persino, e andavo avantispedito.Ma per quanto profondamente fossiimmerso nella mia lettura, quale chefosse l'argomento di cui mi stavooccupando, Georg aveva sempre ilpermesso di interrompermi con le suedomande. Frequentava una delle classiinferiori del -Realgymnasium allaStubenbastei, aveva solo tredici anni.Imparava volentieri e facilmente, soloin disegno, materia che in quellascuola era presa molto sul serio,aveva qualche difficoltà. Era tantoavido di conoscenze quanto lo erostato io alla sua età, e su ogni cosagli venivano in mente domande moltosensate. Non chiedeva quasi maispiegazioni su cose che non avevacapito, tutto ciò che poteva leggerelo capiva con facilità; solo volevasaperne di più, voleva conoscere altriparticolari che completasserol'esposizione schematica dei manuali.A molte delle sue domande ero in gradodi rispondere lì per lì, senzariflettere né documentarmi. Ero felicedi potergli dare qualcosa, fino a quelmomento avevo tenuto tutto quanto perme, non avevo avuto nessuno con cuiparlare di quelle cose. Georg capivache ogni interruzione mi facevapiacere e che non ponevo alcun limitealle sue domande. In poche ore sitoccavano i temi più svariati, questomi rendeva più viva la chimica, ancoraun po' estranea e minacciosa, tantopiù che in fin dei conti non escludevodi dovermene occupare per quattroanni, o forse anche di più. Georgm'interrogava sugli autori latini,sulla storia (qui, appena possibile,portavo il discorso sui Greci), suquestioni di matematica, botanica ezoologia; ma le domande prediletteerano quelle di geografia, sui paesidel mondo e i loro abitanti. Sapevache era questo l'argomento su cuipotevo dirgli di più; qualche voltadovevo farmi forza per riuscire asmettere, tanta era la voglia diraccontargli in tutti i particolari lecose che avevo imparato dai mieiesploratori. E qui non gli risparmiavoi miei giudizi sul comportamento degliuomini. Parlando della lotta contro lemalattie nei paesi tropicali mi

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lasciavo trascinare dall'entusiasmo.Non avendo ancora superato del tuttoil dolore per la rinuncia allamedicina, gli trasmettevo la miaantica aspirazione ingenuamente esenza alcun ritegno.Amavo la sua insaziabilità.Sedendomi davanti ai libri, già mirallegravo al pensiero delle suedomande. Avrei sofferto più io del suosilenzio che lui del mio. Se fossestato prepotente o calcolatore avrebbepotuto ridurmi alla sua mercé con lamassima facilità. Una sera al nostrotavolo senza le sue domande sarebbestata logorante, penosa. Ma Georg nonera certo così: le sue domande nonavevano secondi fini, proprio come lemie risposte. Georg voleva conoscere,io comunicargli ciò che sapevo; e lenuove conoscenze suscitavano da solenuove domande. E'è strano che non miabbia mai messo in imbarazzo. La suainsaziabilità spaziava all'interno deimiei limiti. Forse le nostreinclinazioni erano naturalmenteaffini, forse gli comunicavo ciò chesapevo con tanta passione dacancellare in lui il desiderio disapere altre cose: fatto sta che Georgfaceva solo domande alle quali iosapevo rispondere e non mi mortificavamai; eppure sarebbe stato facile, sesolo mi avesse messo a confronto conle mie lacune. Eravamo entrambi deltutto aperti, non ci nascondevamonulla. In quel periodo dipendevamol'uno dall'altro, nessuno ci eravicino, uno solo era l'imperativo cheavevamo di fronte: lui non dovevadeludermi, io non dovevo deluderlo.Per nessuna ragione avrei rinunciatoalle nostre -serate di studio algrande tavolo quadrato sotto lafinestra.Venne l'estate, le serate siallungarono, cominciammo a lasciareaperte le finestre che davano sulcortile. Due piani più in basso,proprio sotto di noi, c'era la bottegadel sarto Fink, anche la sua finestraera aperta e il ronzio sommesso dellamacchina da cucire si sentiva fin suda noi. Lavorava fino a notte fonda,lavorava sempre. Lo sentivamoconsumando al solito tavolo il pastoserale, lo sentivamo sparecchiando, losentivamo quando ci mettevamo aleggere e lo dimenticavamo soltantoquando il nostro colloquio diventava

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così appassionante che ci avrebbefatto dimenticare qualsiasi cosa. Mapoi quando andavamo a letto,stanchissimi, perché la giornata eracominciata presto, sentivamo di nuovoil ronzio della macchina da cucire.Il pasto serale consisteva di pane eyogurth, e per un certo periodo dipane solo, perché la nostra convivenzaera cominciata con una piccolacatastrofe, della quale ero io l'unicoresponsabile. Per vivere non avevamocerto da scialare, ma tutto ciò di cuiavevamo bisogno era stato calcolato ela somma sarebbe stata sufficienteanche per un pasto serale un po' piùabbondante. Ricevevo in anticipo ildenaro per tutto il mese, che in parteveniva dal nonno e per il resto dallamamma, lo portavo sempre con me e miero proposto di amministrarlo nellamaniera migliore. Avevo già una certaesperienza; a Francoforte ero vissutosei mesi senza la mamma con i mieifratelli più piccoli, e davvero nonera stato facile, nell'ultima fasedell'inflazione galoppante, riuscire acavarsela provvedendo a tutto. Inconfronto a Francoforte, vivere aVienna mi sembrava un gioco daragazzi.E lo sarebbe stato, senonché avevofatto i conti senza il Wurstelprater.Era vicinissimo, a meno di un quartod'ora da casa nostra, e data l'enormeimportanza che aveva avuto nei mieianni infantili passati a Vienna,sembrava ancora più vicino. Invece ditenere il mio fratello più piccololontano dalle sue seduzioni, lo portailaggiù insieme a me. Un pomeriggio disabato gli mostrai quelle meraviglie,ma qualcuna non c'era più. Anchequelle che ritrovai, tuttavia, furonopiuttosto deludenti. Georg avevalasciato Vienna a cinque anni e, nonavendo conservato alcun ricordo delWurstelprater, si era dovuto basaresui miei racconti, che avevo ornato ditutte le meraviglie. Non era unavergogna che il fratello maggiore,apparentemente onnisciente, ilfratello che gli aveva parlato delPrometeo di Eschilo, dellarivoluzione francese, della legge digravità e della teoriadell'evoluzione, pretendesse diammannirgli ora il Terremoto diMessina nel Tunnel degli orrori, iltutto preceduto dalla Bocca

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dell'Inferno?Dovevo avergliela dipinta davvero afosche tinte, perché, quandofinalmente trovammo il Tunnel degliorrori e davanti a noi si spalancaronole fauci dell'Inferno, nelle quali idiavoli, senza fretta, gettavano ipeccatori infilzandoli sui forconi,Georg mi guardò stupito e disse: -Sulserio una volta ti spaventavi a vederequesta roba? . -No, io no, avevo giàotto anni, ma voi, che eravatepiccolissimi, sì . Mi accorsi che erosul punto di perdere la sua stima. MaGeorg non voleva, teneva troppo allenostre discussioni serali, benchéfossero appena incominciate, perciònon mostrò il minimo desiderio dientrare a vedere il Terremoto diMessina, l'attrazione che ci avevaindotti ad andare fin là. Io erosollevato di potermi trarred'impaccio, la voglia di vedere ilTerremoto era passata anche a me, e miaffrettai dunque a portarlo via. Cosìne ho conservato il ricordo in tuttoil suo antico splendore.Ma non riuscii a cavarmela così abuon mercato, per fargli dimenticarela delusione dovevo pur offrirgliqualcosa, e mi gettai sui giochid'azzardo del Prater, che in realtànon mi avevano mai interessato. Cen'erano moltissimi, per tutti i gusti,ma noi ci concentrammo sul lanciodell'anello, perché avevamo vistovarie persone vincere una dopol'altra. Feci tentare Georg, che nonebbe fortuna, allora provai io stesso,ma sbagliai, provai di nuovo esbagliai, i miei tiri sembravanostregati. Presto mi lasciai a talpunto trascinare dal gioco che Georgmi ammonì tirandomi per la manica; maio non mi diedi per vinto. Georg videsvanire a poco a poco tutto il nostromensile, era perfettamente in grado divalutarne le conseguenze ma non dissenulla, neppure che gli sarebbepiaciuto tentare di nuovo. Capiva,credo, che provavo un senso diinsopportabile vergogna nel tirarecosì male davanti a lui, una cosainspiegabile, e che assolutamentedovevo riscattarmi con una serie ditiri azzeccati. Mi guardava con gliocchi sbarrati e di tanto in tanto erascosso da un brivido, mi sembrava cheassomigliasse a uno di quei pupazzimeccanici che si trovavano davanti al

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Tunnel degli orrori. Continuaiostinatamente a tirare, ma semprepeggio. Le due figuracce, quella diprima e quella di adesso, simescolavano e si fondevano in unasola. Il gioco mi sembrava cominciatoda poco, ma certo durava da un pezzo,perché di colpo tutto il nostro denaroper il mese di maggio era svanito.Se si fosse trattato di me soltanto,non mi sarei sentito così in colpa. Mac'era Georg, io ero responsabile dellasua sopravvivenza, facevo, per cosìdire, le veci di un padre, gliassegnavo da meditare i miglioriprincìpi, cercavo di infondergli altiideali. Nel laboratorio di chimica,che proprio in quei giorni avevocominciato a frequentare, mi venivanoin mente per tutto il giorno le coseche di sera avrei detto a Georg, coseche si sarebbero impresse cosìprofondamente nel suo animo che maipiù avrebbe potuto dimenticarle.Proprio in virtù dell'amore fraterno,che allora era diventato il miosentimento dominante, mi ero persuasoche un uomo deve rispondere di ognifrase da lui pronunciata, e che ancheuna sola falsità avrebbe potutocondurre Georg su una strada sbagliatae danneggiarlo per la vita. E oraavevo dissipato tutto il nostromensile di maggio! Nessuno avrebbedovuto saperlo, e men che mai lafamiglia Sussin, presso la qualeabitavamo: temevo che se l'avesserosaputo ci avrebbero cacciato via.Per fortuna nessun conoscente erastato spettatore della mia colpa, eGeorg capì immediatamente chebisognava star zitti. Ci consolammo avicenda con virili propositi. Amezzogiorno eravamo soliti pranzare daBenveniste, una trattoria a due passidal CarlTheater, dove ci avevaportato il nonno. Ora non più. Cisaremmo accontentati di yogurth epane. E per la sera di pane soltanto.Dove avrei trovato i soldi (almeno perlo yogurth e il pane) non lo dissi,non lo sapevo ancora.Credo che questa piccola disgrazia,che mi ero meritato, ci abbiaavvicinati di più l'uno all'altro,ancor più del gioco serale di domandee risposte. Per un mese intero facemmodavvero una vita grama. Senza lacolazione che la signora Sussin ciportava ogni mattina, non so proprio

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come avremmo potuto resistere.Aspettavamo con una fame da lupi ilcaffelatte mattutino con due panini atesta. Ci alzavamo più presto delsolito, ci lavavamo più presto delsolito, e quando la signora entrava incamera con il vassoio eravamo giàseduti al tavolo quadrato. Evitavamo igesti nervosi che avrebbero tradito lanostra bramosia, e sedevamo rigidi,come se avessimo tutti e due qualcosada ripassare mentalmente. La signoraSussin ci teneva a scambiare due frasimattutine, dovevamo sempre informarladi come avevamo dormito, ed eravamoancora fortunati se ci venivarisparmiato il resoconto di come avevadormito lei.Ogni mattina la signora ci parlavacon enfasi di suo fratello, che sitrovava in prigione a Belgrado. -Unvero idealista! : cominciava semprecosì, di getto, e mai lo nominavasenza premettere la parola-idealista . In realtà non dicevanulla sulle sue convinzioni politiche,tuttavia era fiera di lui, perché eraamico di Henri Barbusse e di RomainRolland. Era un uomo malato, avevacominciato fin da giovane a soffriredi tubercolosi, la prigione era unvero veleno per lui, che avrebbe avutobisogno invece di un vitto sostanziosoe abbondante. Quando entrava con lacolazione e il buon caffè fumante, lasignora Sussin pensava alle cose chesuo fratello non aveva, ed eranaturale che parlasse di lui. -Hacominciato presto, ha cominciato già ascuola. Alla sua età e indicava Georg-era già un idealista. A scuolaarringava i compagni e veniva punito.Gli insegnanti erano dalla sua parte,ma avevano l'obbligo di punirlo lostesso . Non approvava la caparbietàdel fratello, però dalla sua bocca nonusciva mai una parola di biasimo. Leie la sorella, che non essendo sposataviveva in casa dei coniugi Sussin,avevano dovuto ascoltare sulleopinioni politiche del fratello unaquantità di cose spiacevoli. I serbilegittimisti le avevano tanto poco insimpatia quanto i buoni austriaci, ecosì lei e sua sorella si eranoabituate una volta per sempre aconsiderare la politica una cosaincomprensibile, che preferivanolasciare agli uomini.Mosche Pijade - così si chiamava il

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fratello - si era sempre consideratoun rivoluzionario e uno scrittore. Eche in quanto tale non fosse il primovenuto era dimostrato dai nomi deisuoi amici francesi. La prigionia eancor più la malattia e la fame delfratello occupavano intensamente ipensieri della signora Sussin. Lesarebbe piaciuto fargli arrivare lacolazione che portava a noi, e perciòpensare a lui tutte le mattine era ilmeno che potesse fare. In questo modoprolungava ogni volta la nostraspasmodica attesa del cibo, ma incompenso il racconto della fame di suofratello ci rendeva più forti. A luinon sarebbe mai venuto in mente didire che aveva fame. A casa, sin daquando era ragazzo, non si accorgevamai di aver fame, preso com'era daisuoi nobili ideali. Così era diventatoil nostro sostegno, e la storia dellasignora Sussin era attesa ogni mattinanon meno del caffelatte con i buonipanini. Fra l'altro proprio inquell'occasione Georg sentì parlareper la prima volta della tubercolosi,alla quale avrebbe poi dedicato tuttala vita.Georg ed io uscivamo insieme. Subitoa sinistra, nel cortile, vedevamo ilsignor Fink, il sarto, seduto già daun pezzo davanti alla macchina dacucire. Era il primo rumore chesentivamo al mattino, subito dopo ilrisveglio, così come di notte erastato l'ultimo rumore che avevamosentito prima di addormentarci.Passando davanti alla finestra del suobugigattolo, salutavamo quell'uomosilenzioso dagli zigomi doloranti.Vedendolo con gli spilli in boccaavevo la sensazione che un lungospillo gli attraversasse le guance eche per questo non potesse parlare. Senonostante tutto diceva qualcheparola, io mi meravigliavo; glispilli, anche quelli che teneva fra lelabbra, sembravano essersi dissolti.Là, nella finestra del bugigattolo,c'era la macchina da cucire da cuiFink non si separava mai - era un uomogiovane, che non usciva mai di casa.Quando cominciai a conoscerlo un po'meglio, ormai era estate, la finestraera aperta, in cortile si sentiva ilronzio della macchina da cucire cheaccompagnava sommessamente le risatedi sua moglie, una florida donna brunache riempiva di sé tutta la bottega.

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Chi voleva entrare dal sarto Fink perfargli un'ordinazione e bussava allaporta della stanzetta in cui egliviveva con la sua famiglia esitava unmomento prima di entrare, perascoltare ancora un attimo il risodella moglie, come se non credessealle proprie orecchie. Colui chebussava sapeva benissimo che la gioiacon cui veniva accolto nella botteganon era in realtà destinata a lui, erala gioia che emanava da quel corporigoglioso che lasciava il suo odoresu ogni cosa. L'odore si impregnavadelle risate e viceversa, e, di tantoin tanto, vi si univano le gridarivolte a Camilla, la figlioletta ditre anni. Alla bambina piaceva giocaresoprattutto sulla soglia, propriodietro la porta, e anche per questo iclienti si erano abituati ad aprirlacon cautela: la prima cosa che siudiva, fra gli squilli di risa, eranole parole: -Camilla, lascia passare,fai entrare il signore . Diceva sempre-il signore , anche se io non avevoancora diciannove anni, e lo dicevaanche quando io ero nella stanza estava bussando una donna. Quandovedeva che si trattava di una donna,la moglie di Fink per un po' smettevadi ridere, ma non rettificava mai lasua frase; la cosa del resto non mistupiva, dato che il signor Fink eraun sarto da uomo. Allora egli alzavagli occhi per un attimo, gli spilli inbocca. Un grande spillo crudele glitrapassava le guance, come faceva aparlare? In sua vece parlavano lerisate della moglie.Karl Kraus e Veza.Era naturale che la prima volta lisentissi nominare insieme: le voci cheparlavano di loro due provenivanodalla medesima fonte, la fonte da cuiallora mi giungeva tutto ciò che eranuovo; infatti, se al mio arrivo aVienna fossi stato affidato soltanto ame stesso e alle lezioniuniversitarie, che di lì a breve avreidovuto frequentare, difficilmente misarebbe bastato per una nuova vita.Facevo visita agli Asriel ogni sabatopomeriggio nella loro casa dellaHeinestrasse, proprio accanto allaruota del Prater, e da loro venivo asapere una tale quantità di cose chemi sarebbero bastate per anni: nomidel tutto nuovi per me, che miapparivano sospetti proprio per

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questo, perché prima non li avevo maisentiti.Ma il nome che sentivo nominare piùspesso dagli Asriel era quello di KarlKraus. Era l'uomo più severo e piùgrande che vivesse a Vienna. Non silasciava impietosire da nessuno. Nellesue letture attaccava tutto ciò cheesiste di brutto e di marcio.Pubblicava una rivista che scrivevainteramente da solo. Nessun interventoera gradito, non accettava contributida nessuno, alle lettere nonrispondeva. Ogni parola, ogni sillabacontenuta nella -Fackel era scrittadi suo pugno. La -Fackel era come untribunale, in cui Karl Kraus eral'unico accusatore e l'unico giudice.Di avvocati difensori non ce n'erano,del resto non servivano, Kraus eratalmente giusto che non accusava mainessuno che non lo meritasse. Nonsbagliava mai, era impossibile cheKraus si sbagliasse. Tutto ciò chescriveva era esatto fino all'ultimavirgola, mai uno scrittore aveva datoprova di una simile precisione. Curavapersonalmente ogni singolo capoverso,chi avesse voluto trovare nella-Fackel un errore di stampa avrebbepotuto rompercisi il capo persettimane. La cosa più intelligenteche potesse fare era rinunciarci.Kraus odiava la guerra e durante ilconflitto mondiale era riuscito,malgrado la censura, a pubblicaresulla -Fackel molte cose contro laguerra. Aveva scoperto abusi edenunciato casi di corruzione suiquali tutti gli altri avevano tenutola bocca chiusa. Era un vero miracoloche non fosse finito in prigione.Aveva scritto una tragedia diottocento pagine, intitolata Gliultimi giorni dell'Umanità, nellaquale era rappresentato tutto quelloche era successo durante la guerra.Quando ne leggeva dei brani, sirestava come fulminati. In sala nonvolava una mosca, il pubblico nonosava quasi respirare. Leggeva da sétutte le parti, dai profittatori aigenerali, dalla Schalek ai poveridiavoli, vittime della guerra, e tuttiavevano una voce così autentica chesembravano in carne e ossa davantiall'ascoltatore. Chi aveva ascoltatole pubbliche letture di Kraus non nevoleva più sapere del teatro, chenoia, il teatro, in confronto a Kraus,

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lui da solo era un intero teatro, anziera meglio - e questo prodigiouniversale, questo gigante, questogenio portava il comunissimo nome diKarl Kraus.Tutto avrei potuto credere di luieccetto quel nome, non era possibileche uno che si chiamava in quel modofacesse tutto ciò che gli venivaattribuito. Continuando a frastornarmicon le loro informazioni su KarlKraus, gli Asriel - entrambi, sia lamadre sia il figlio, ci prendevanogusto - ironizzavano su quella miadiffidenza riguardo al nome, il nomenon conta, ripetevano tutte le volte,quel che conta è la persona,altrimenti noi, lei o io, dato cheabbiamo un nome armonioso, saremmosuperiori a un uomo come Karl Kraus.Si può immaginare una cosa piùridicola, più assurda?Mi ficcarono in mano il fascicolorosso, e che si chiamasse -DieFakkel , -La Fiaccola , mi piacque assai;eppure assolutamente non mi riuscì dileggerlo. Inciampavo nelle frasi, nonne capivo il senso. Quando finalmenteriuscivo a capire qualcosa, misembravano soltanto delle battute dispirito che non dicevano nulla. E poisi parlava di fatterelli locali, dierrori di stampa, tutte cose che misembravano assolutamente irrilevanti.-Non sono altro che sciocchezze, comefate a leggere questa roba? Allorapreferisco un quotidiano, è piùinteressante, almeno ci si capiscequalcosa, qui bisogna rompersi latesta, e lo stesso non se ne cavafuori nulla! . Ero sinceramenteindignato con gli Asriel, mi facevanovenire in mente il padre di un miocompagno di scuola di Francoforte,quello che quando andavo a trovarlo mileggeva sempre qualche passo delloscrittore locale Friedrich Stoltze ealla fine di ogni poesia diceva: -Chinon lo sa apprezzare va fucilato. E'èil più grande poeta che sia maiesistito . Raccontai, non senzasarcasmo, l'episodio del poetadialettale francofortese. Insomma,riuscii a mettere gliAsriel alle strette e, incalzandoli, liridussi così a mal partito ched'improvviso cominciarono a parlare dicerte signore raffinatissime che nonperdevano una lettura di Karl Kraus ederano talmente affascinate dalla sua

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persona che si sedevano sempre inprima fila, perché egli potesse notareil loro entusiasmo. Ma l'effetto chequella descrizione ebbe su di me fu unvero fiasco: -Signore raffinate! replicai. -E magari impellicciate!Profumate ed estetizzanti! Come non sivergogna il vostro Karl Kraus diparlare davanti a gente simile! .-Ma non sono affatto come dicitu! Sono donne di alta cultura!Perché mai non dovrebbe parlaredavanti a loro? Afferrano al volo ogniallusione; lui non ha ancora terminatouna frase e loro sanno già di che sitratta. Hanno in mente tutta laletteratura inglese e francese, nonsoltanto quella tedesca! ConosconoShakespeare a memoria, per non parlare diGoethe. Sono donne talmente colte chenon puoi fartene un'idea! .-E come fate a saperlo? Aveteparlato con loro? Parlate con gentesimile? Il profumo non vi stordisce?Io non parlerei con una donna delgenere neppure un minuto. Non ne sareicapace. Anche se fosse bellissima levolterei le spalle, dicendole tutt'alpiù: -Eviti di blaterare suShakespeare. Si rivolterebbe nellatomba per il disgusto. E lasci stareGoethe. Il Faust non è roba dascimmiette .Ma a quel punto gli Asriel pensaronodi avere partita vinta, perchégridarono all'unisono: -E Veza! Lo sachi è Veza? Ha mai sentito parlare dilei? .Questa volta sì che il nome micolpì. Mi piacque subito, benché nonvolessi ammetterlo. Mi ricordava unadelle mie stelle, la stella Vega dellacostellazione della Lira, e ilmutamento di consonante me lo feceapparire ancora più bello. Dissisoltanto in tono brusco: -Che razza dinome è mai questo? Non c'è nessuno chesi chiami così. Sarebbe un nome fuoridel comune. Ma non esiste .-Esiste eccome. Noi la conosciamo,abita con sua madre nellaFerdinandstrasse. A dieci minuti da qui. E'èdavvero una creatura meravigliosa, conun viso spagnolo. E'è così raffinata esensibile che davanti a lei nessuno siazzarderebbe a dire una volgarità. Haletto più lei di tutti noi messiinsieme. Sa a memoria delle poesieinglesi lunghissime, e mezzo

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Shakespeare per giunta. E Molière,Flaubert, Tolstoj . -E quanti anni haquesto portento? . -Ventisette . -E hagià letto tutte queste cose? .-Sicuro, e anche di più. Ma legge conintelligenza. Se qualcosa le piace, saperché. Sa spiegarne le ragioni.Nessuno la mette nel sacco . -E sisiede in prima fila da Karl Kraus .-Sì, ad ogni lettura .Il 17 aprile 1924 doveva aver luogola trecentesima lettura di Karl Kraus.Era stata prenotata la sala grande delKonzerthaus. E neppure quella,dicevano, sarebbe stata abbastanzagrande per contenere tutti gliappassionati. Ma gli Asriel pensaronoin tempo ai biglietti e insistetteroche andassi anch'io. Perché starsempre a litigare sulla -Fackel ?Tanto valeva che ascoltassi una buonavolta il grand'uomo. Così avrei potutogiudicare da me. Hans sfoderò il suosorriso più altezzoso; e non sorriselui solo all'idea che chiunque(figurarsi uno studentello arrivato daFrancoforte fresco fresco dopo lamaturità) presumesse di resistere alfascino di Karl Kraus in persona;perfino la sua graziosa e sveltamammina non poté trattenere unsorrisetto mentre continuava aripetermi quanto mi invidiasse quelprimo incontro con Karl Kraus.Alice Asriel mi preparò con consigliappropriati. La veemenza con cui gliascoltatori manifestavano il loroassenso non doveva spaventarmi: nonerano i soliti viennesi da operettache si davano appuntamento da Kraus,non erano dei buontemponi da osteria eneppure gli adepti di un cenacolo diesteti decadenti alla Hofmannsthal:era la vera Vienna intellettuale, laparte migliore e più sana di quellacittà in apparente declino. Laprontezza con cui quel pubblico sapevacogliere anche l'allusione più sottilemi avrebbe sbalordito, la gente ridevagià quando Kraus apriva la bocca perparlare, e non aveva ancora finito chela sala intera si scatenava. Krausaveva educato bene il suo pubblico,poteva farne ciò che voleva, e direche era tutta gente di elevatacultura, quasi soltanto professoriuniversitari, o per lo meno studenti.Non le era mai capitato di vedere trail pubblico una faccia stupida, aveviun bel cercarla, era tempo perso.

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Leggere sul viso degli ascoltatori lareazione ai punti più salienti deldiscorso di Kraus era sempre stato perlei un grande divertimento. Ledispiaceva moltissimo non venire allalettura, ma preferiva di gran lungaquelle che si svolgevano nella salamedia del Konzerthaus, lì veramentenon sfuggiva nulla di nulla. Nellasala grande - benché la voce di Krausla reggesse benissimo - qualcosa perforza andava perduto, e lei eratalmente fanatica di ogni parola diKraus che ci teneva a non perdernenemmeno una. Perciò questa volta miaveva ceduto il suo biglietto,assistere alla trecentesima letturasignificava più che altro un omaggio aKraus, e l'affluenza sarebbe statacomunque tale che avrebbe fatto pocadifferenza che lei ci fosse o no.Io sapevo che gli Asriel vivevano ingrandi ristrettezze - benché non se neparlasse mai: c'erano tante questionipiù importanti, di carattereintellettuale, che li assorbivanocompletamente. Eppure insistettero peroffrirmi il biglietto: soltanto perquesta ragione la signora Asrielrinunciò ad assistere alla trionfalericorrenza.La serata aveva anche uno scoporecondito che mi era stato taciuto, malo scopersi da solo e non appena Hansed io prendemmo posto nella sala,piuttosto indietro, cominciai aosservare furtivamente il pubblicointorno a me. Hans stava facendo, nonmeno furtivamente, la stessa cosa;ciascuno nascondeva all'altro chestava cercando qualcuno, eppurecercavamo entrambi la stessa persona.Dimenticando che la giovane signoradal nome inconsueto prendeva sempreposto in prima fila, speravo, benchénon avessi mai visto un suo ritratto,di notarla improvvisamente nellanostra. Non riconoscerla subito misembrava inconcepibile, dopo ladescrizione che me ne avevano fatto:la più lunga delle poesie inglesi chelei sapeva a memoria era The Raven(Il corvo) di Poe, e lei stessaaveva l'aspetto di un corvo, un corvoche un incantesimo aveva tramutato inuna donna spagnola. Hans era troppoirrequieto per interpretare a doverela mia irrequietezza, guardavaostinatamente verso le prime file,scrutando le porte che sul davanti

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davano accesso alla sala.Improvvisamente balzò in piedi, masenza darsi delle arie, anzi, sembravain soggezione e disse: -Eccola. E'èentrata proprio adesso . -Dov'è? dissi io, senza domandare di chistesse parlando. -Dov'è? . -In primafila, in fondo a sinistra. In primafila, proprio come pensavo .Da quella distanza vedevopochissimo, eppure riconobbi i capellicorvini e me ne rallegrai. Trattennile osservazioni ironiche che mi eropreparato, preferivo tenerle in serboper dopo. Quasi subito arrivò KarlKraus, che fu salutato da applausicosì scroscianti come mai li avevosentiti, neppure ai concerti. Sembrò -il mio occhio non era ancoraesercitato - non prestarvi moltaattenzione, indugiò solo un poco, inpiedi, la sua figura sembravalievemente curva. Quando si sedette ecominciò a parlare fui sorpreso dallasua voce, nella quale vibrava qualcosad'innaturale, una specie di prolungatogracidio. Ma quell'impressione sidileguò in fretta, la voce mutòall'improvviso e seguitò a mutare incontinuazione, e quasi subito rimasisbalordito dalla ricchezza e dallavarietà dei suoi toni. Tanto era ilsilenzio che all'inizio l'accolse chesembrava davvero di essere alconcerto, ma l'attesa era diversa,completamente diversa. Fin dal primomomento, e per tutta la durata dellospettacolo, era il silenzio cheprecede la tempesta. Già la primabattuta, in realtà era soltantoun'allusione, venne anticipata darisate che mi spaventarono. Suonavanoentusiastiche e fanatiche, soddisfattee minacciose a un tempo, avevanoaddirittura preceduto le parole allequali si riferivano. Ma anche quandoquelle parole furono pronunciate, comeavrei potuto comprenderle? Alludevanoa episodi locali, che non soltantoavevano a che fare con Vienna, maappartenevano ormai all'intimità fraKraus e il suo pubblico, che proprioquelle parole stava aspettandoavidamente. Non erano ascoltatoriisolati a ridere, ridevano moltepersone insieme. Mentre guardavoobliquamente davanti a me, fissandouno spettatore alla mia sinistra percercar di capire la strana anomaliadelle sue risate, di cui mi sfuggivano

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i motivi, dietro di me risuonavanorisate identiche, e così pure a due otre posti di distanza, da ogni altrolato; soltanto allora mi accorsi cheanche Hans accanto a me - nelfrattempo l'avevo quasi dimenticato -rideva esattamente nello stesso modo.Erano sempre molte persone insieme cheridevano, e il loro era sempre un risoaffamato. Non ci misi molto a capire:quella gente era venuta per unbanchetto, non per festeggiare KarlKraus.Non so che cosa disse Kraus la seradel mio primo incontro con lui. Lecentinaia di conferenze ascoltate inseguito vi si sono sovrapposte. Maforse non lo sapevo nemmeno allora,tutto preso com'ero da quel pubblicoche mi faceva paura. Karl Kraus lovedevo male, un volto che ringiovanivaverso il basso, così mobile che non sipoteva fissare su nulla, penetrante edestraneo come quello di un animale maivisto, diverso da tutti quelli che siconoscevano. Ero sconcertato daicrescendo improvvisi di cui quellavoce era capace, la sala era moltogrande, eppure nella voce di Krausvibrava un tremito che si comunicava atutta la sala. I sedili e le personesembravano cedere a quel tremito, nonmi sarei meravigliato se i sedili sifossero piegati. La dinamica di quellasala gremita fino all'ultimo postosotto l'effetto della voce di Kraus -era sempre presente anche quandotaceva - davvero non si puòdescrivere, così come non si puòdescrivere l'-Esercito di spettri delle fiabe. Ma credo che sia questal'immagine che meglio la può rendere.Ci si immagini l'-Esercito di spettri che prende posto in una sala,rinchiuso da colui che l'ha evocato eguidato, costretto a sedere insilenzio e poi incessantementerichiamato alla alla sua vera,selvaggia natura. Non che questavisione si avvicini molto alla realtà,tuttavia, poiché non ne conosconessuna che sia più precisa, rinuncioa dare un'idea di com'era Karl Krausin azione.Ad ogni modo, durante l'intervallouscii dalla sala e Hans mi fececonoscere la giovane signora chemeglio di chiunque altro potevatestimoniare sulle impressioni che ioavevo appena provato su di me. Ma lei

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era molto calma e controllata, inprima fila tutto sembrava più facileda sopportare. Aveva un aspetto assaiinconsueto, un essere con qualcosa diprezioso che nessuno si sarebbeaspettato di vedere a Vienna, mapiuttosto in una miniatura persiana.L'arco alto delle sopracciglia, lelunghe ciglia nere che muoveva ora infretta ora adagio, proprio come unvirtuoso, mi facevano sentire inimbarazzo. Anziché guardarla negliocchi le fissavo le ciglia ed erostupito da quella bocca così piccola.Non mi domandava, disse, come mi erasembrata la lettura, perché non volevamettermi in imbarazzo. -Lei è qui perla prima volta aggiunse, con un tonoda padrona di casa, quasi che la salafosse casa sua e lei, dal suo posto inprima fila, dispensasse agli ospititutto ciò che quella serata potevaoffrire. Conosceva i visitatori,sapeva sempre chi stava entrando eosservò senza sbagliarsi che io eronuovo. Mi sembrava di essere invitatoda lei e le ero grato perl'ospitalità, che consisteva nelprender nota della mia esistenza. Ilmio accompagnatore - il tatto non erail suo forte - disse: -E'è davvero ungran giorno per lui indicandomi conun movimento della spalla. -Questo nonè detto; disse lei -da principio èsconcertante . Non mi sentivo affattopreso in giro; benché avvertissi inognuna delle sue frasi un sottofondocanzonatorio, ero felice che la suaosservazione corrispondesse cosìesattamente al mio stato d'animo. Maproprio questa capacità dicomprensione mi sgomentò, come pure lesue ciglia che ora si muovevano conuna certa solennità, quasi che sualcune cose importanti dovesserotacere. Così dissi la frase piùsemplice e meno impegnativa che inquella circostanza avrei potuto dire:-Già, è davvero sconcertante . Potevasembrare una frase sgarbata, ma nonper lei, che infatti mi domandò: -Leiè svizzero? .Non c'era nulla al mondo che sareistato più volentieri. Nei tre anni cheavevo passato a Francoforte il mioamore per la Svizzera si eratrasformato in una rovente passione.Sapevo che la madre di Veza era una-spagnola , il suo cognome da nubileera Calder¢n e ora viveva con il terzo

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marito, un uomo vecchissimo di nomeAltaras; Veza, perciò, aveva certocapito dal mio nome che anch'io erouno -spagnolo . Perché allora mi avevadomandato se ero proprio ciò che avreivoluto essere più di ogni altra cosaal mondo? Dell'antico dolore per ildistacco da Zurigo non parlavo connessuno, e soprattutto mi sareiguardato dal fare una similefiguraccia davanti agli Asriel, iquali, spocchiosi e arroganticom'erano, o forse proprio a causa diKarl Kraus, si sentivanoorgogliosissimi di essere viennesi.Perciò la bella dama del corvo nonpoteva aver saputo da nessuno dellamia sventura, e la sua prima domandadiretta mi giunse dritta al cuore. Fuicolpito più profondamente da quelladomanda che non dalla lettura, che perme - anche qui lei aveva colto nelsegno - per il momento era solosconcertante. Le risposi: -Purtroppono volendo dire con questo chepurtroppo non ero svizzero. Con quellafrase mi misi nelle sue mani. Con lasola parola -purtroppo rivelai di mestesso più di quanto a quell'epocasapesse di me ogni altra persona. Leiparve comprenderlo, ogni sfumaturad'ironia scomparve dai tratti del suoviso e disse: -A me piacerebbe essereinglese . Hans, al suo solito modo, lasommerse con un diluvio dichiacchiere, del quale riuscii adafferrare soltanto questo: che sipoteva conoscere Shakespeare anchesenza essere inglesi e che ormai gliinglesi di oggi non avevano conShakespeare più nulla in comune. Malei non gli badò più di quanto glibadassi io, benché - come mi accorsisubito - non le sfuggisse una paroladi quello che Hans stava dicendo.-Dovrebbe ascoltare una letturashakespeariana di Karl Kraus. E'è giàstato in Inghilterra? . -Sì, dabambino. Ci sono andato a scuola perdue anni. E'è stata la mia primascuola . -Io ci vado spesso, a trovaredei parenti. Lei mi deve raccontaredella sua infanzia in Inghilterra.Venga presto a trovarmi! .Ogni affettazione era sparita, anchela civetteria con cui aveva fatto glionori della serata. Parlò di cose cheerano importanti per lei e le stavanoa cuore, per rispondere alla cosaimportante per me che aveva subito

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toccato con tanta facilità, ma non inmodo offensivo. Quando tornammo insala Hans, nel poco tempo che cirimase, mi domandò in fretta due o trevolte di seguito come l'avevo trovata,ma io feci finta di non capire, e soloquando mi accorsi che era sul punto dipronunciare il suo nome dissi, perprevenirlo: -Chi? Veza? . Ma era giàricomparso Karl Kraus, nella sala siscatenò l'uragano e il nome di Veza nefu sommerso.Il buddhista.Non credo di averla rivista dopo lafine della lettura, ma anche se fosseaccaduto non avrebbe avuto importanza,perché nel frattempo Hans aveva apertole sue cateratte. Mi fu riversatoaddosso un sottile flusso dichiacchiere, dal quale era assentetutto ciò che era servito all'oratoreper conquistare il pubblico: lapassione convinta, l'ira, ildisprezzo. Ogni cosa che Hans dicevapassava accanto al suo interlocutorecome se fosse rivolta a un'altrapersona, che però era assente.-Naturalmente e -ovviamente erano leparole che usava di più,accompagnavano ogni sua frase perrafforzarla, e invece le toglievano lapoca forza che aveva. Hans sapeva chele sue affermazioni non avevano peso equindi cercava di innalzarle su unpiano generale, nella speranza dimetterle al sicuro. Ma il suo pianogenerale non era meno debole di quantofosse lui stesso, per disgrazia nulladi quel che diceva veniva creduto.Nessuno lo riteneva un bugiardo, eraun uomo troppo debole per inventarsialcunché; ma invece di usare unaparola ne usava cinquanta e perciòdelle cose che aveva in mente, cosìdiluite, non restava più nulla.Ripeteva la stessa domanda tante diquelle volte e così in fretta da nonlasciare al suo interlocutore il tempomateriale di rispondere. Diceva: -Sulserio? , -Questo non mi va giù , -Losappiamo , interpolando a mo'd'interiezione queste brevi frasi neisuoi interminabili discorsi, forse perdare ad essi un'enfasi maggiore.Già da bambino Hans era esile, maadesso era talmente sottile che tuttii vestiti gli ballavano addosso.L'aspetto più saldo e risoluto loassumeva quando nuotava, per questonon faceva che parlare di nuoto. I

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-feloni (dirò più avanti chi sono)tolleravano la sua presenza quandoandavano a fare il bagno allaKuchelau, anche se in realtà egli nonera dei loro. Hans in realtà nonfaceva parte di nessun gruppo, stavasempre ai margini. Era piuttosto suamadre che attirava in casa deigiovanotti per assistere ai lorotornei verbali, e organizzava le cosein modo che suo figlio in quelleoccasioni parlasse poco, in un certosenso per dovere di ospitalità, eperché la conversazione riuscisseinteressante. Hans in compensoascoltava con attenzione, recepivatutto, starei per dire con ingordigia,e non appena i veri contendenti sen'erano andati, il torneo si ripeteva,come un postludio, fra Hans e qualcheamico intimo della famiglia cherimaneva più a lungo, credendo dipoter aspirare ai favori della madre.Così ogni disputa e ogni tema venivanorimasticati, finché di ognuno di essi,che pure, espresso con spontaneità,aveva una sua vita e un suo fascino,non restava che un sapore stantio.Hans a quel tempo non era ancoraconsapevole del suo difficile rapportocon gli altri. C'erano sempre tantigiovani in casa, e immancabilmenteavevano luogo nuove tenzoni - sotto losprone dello sguardo ammirato dellasignora Asriel; niente sfuggiva adAlice, niente le sembrava che andassetroppo per le lunghe. I contendenti sitrattenevano finché ne avevano voglia,ma nessuno li obbligava a restare,andavano e venivano a loro piacimento.Grazie alla socievolezza della signoraAsriel - vivere liberamente in mezzoagli altri le piaceva molto ed eraanzi un suo bisogno naturale - in casadi Hans gli ospiti non mancavano mai.E grazie a lei Hans, che viveva diimitazione intellettuale e ne eraintimamente costituito, aveva semprequalcosa da imitare, le -suggestioniintellettuali , come venivanochiamate, erano inesauribili. Hans nonsi accorgeva di non essere invitatocon piacere, perché tutti gli ambientinon troppo rigidamente borghesiricevevano volentieri sua madre, elei, com'è ovvio, portava sempre consé quel suo figlio che riteneva tantointelligente.Dopo il 17 aprile, che fu davvero ungran giorno per me, perché in quella

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stessa data e nello stesso luogo eranoentrate nella mia vita le due personeche per moltissimo tempo l'avrebberodominata, dopo quel 17 aprile cominciòun periodo di simulazione che duròquasi un anno. Avrei rivisto moltovolentieri la donnacorvo, ma nonvolevo assolutamente che gli altri siaccorgessero di questo mio desiderio.Lei mi aveva invitato ad andare atrovarla, e gli Asriel, sia la madreche il figlio, ritornavanocontinuamente su quell'invito,chiedendomi se non volevo accettarlo.Dato che reagivo con malgarbo, e anzidavo a intendere di non averne affattovoglia, pensarono che fossi troppotimido e per incoraggiarmi mi fecerocapire che erano disposti a venire conme. Erano stati a trovarla già più diuna volta, presto ci sarebbero tornatie - semplicemente - mi avrebberoportato con sé. Ma era proprio quelloche più mi atterriva. Alle chiacchieredi Hans mi ero ormai abituato - non leprendevo più troppo sul serio, ma ilpensiero di quelle chiacchiere a casadi Veza era troppo sgradevole, ealtrettanto sgradevole era laprospettiva che Alice poi mi avrebbechiesto di raccontarle per filo e persegno come avevo trovato questo oquello. Davanti agli Asriel non avreimai potuto parlare dell'Inghilterra emai e poi mai sarei riuscito a direuna sola parola riguardo allaSvizzera: e parlare di questo eraproprio ciò che mi attirava sopra ognialtra cosa.Alice non voleva privarsi di quellagioia, e ogni sabato, quando andavodagli Asriel, arrivava di punto inbianco la sua domanda, gentile mainsistente: -Quando andiamo a trovareVeza? . Per me era già sgradevolesentir pronunciare il suo nome, misembrava talmente bello da non doversiproferire così, davanti a chiunque.Perciò facevo finta di trovarlaantipatica, evitavo di pronunciarne ilnome e parlavo di lei con scarsorispetto.A casa di Alice conobbi FredlWaldinger, che fu per qualche anno ilmiglior compagno di conversazione chepotessi desiderare. A dire il vero lapensavamo diversamente quasi su tutto,eppure non arrivammo mai né aoffenderci né a litigare. Fredl non silasciava sopraffare né prendere alla

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sprovvista, e alla foga delle mietumultuose esperienze opponeva unaresistenza placida e allegra. Quandolo incontrai per la prima volta eraappena tornato dalla Palestina, doveera vissuto sei mesi in un kibbutz.Intonava volentieri canzoni ebraiche,ne sapeva molte, aveva una bella vocee le cantava bene. Non c'era bisognodi pregarlo, per lui intonare unacanzone a metà di un discorso eranaturale, usava le canzoni comeriferimenti, erano le sue citazioni.Altri giovani che incontrai inquello stesso ambiente si ammantavanodi una certa qual boria da grandiletterati: il loro modello, se non eraKarl Kraus, era Weininger oSchopenhauer. Le sentenze pessimistiche omisogine erano particolarmenteapprezzate, benché nessuno di essifosse misogino o misantropo. Avevanotutti un'amica con cui andavanod'amore e d'accordo e, insieme a lei eagli altri amici (dal nome di uno diessi, un certo Felo, si chiamavano i-feloni ), andavano a fare il bagnoalla Kuchelau, dove regnavaun'atmosfera sana, cordiale evigorosa. Eppure le frasi taglienti,argute e sprezzanti venivanoconsiderate da quei giovani il più belfiore dello spirito. Era assolutamentevietato pronunciarle in formainesatta, e buona parte della stimache gli uni avevano per gli altridipendeva dall'attitudine a prenderela forma linguistica di quelle trovatenon meno sul serio di come avrebbepreteso Karl Kraus, il vero maestro ditutti quei gruppi. Fredl Waldinger lifrequentava un po' alla lontana, liaccompagnava volentieri a fare ibagni, ma non era un fanatico di KarlKraus, per lui esistevano cose nonmeno importanti di Kraus, e altre acui teneva addirittura di più.Ernst Waldinger, il suo fratellomaggiore, che aveva già pubblicatodelle poesie ed era tornato dallaguerra con una grave ferita, avevasposato una nipote di Freud ed eraamico di Josef Weinheber (la loroamicizia era fondata sulla comuneconcezione dell'arte). Entrambi eranolegati ai modelli classici, laseverità della forma aveva per lorouna grande importanza. Ilcesellatore di cammei era il titolodi una poesia di Ernst Waldinger che

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si poteva definire programmatica, eperciò fu scelto come titolo di unasua raccolta poetica. Fredl Waldingerdoveva in parte la propria libertàinteriore a questo fratello, per ilquale nutriva una grande stima. Ma nonandava oltre la stima, menar vanto delsuccesso esteriore non era nel suocarattere. I soldi non facevano colposu di lui, e neppure la notorietà;tuttavia non gli sarebbe mai venuto inmente di disprezzare l'autore di unlibro di poesie solo perché costuicercava a poco a poco di farsi unnome. Quando conobbi Fredl, era appenauscito Boot in der Bucht [la barcanella baia] di Weinheber. Fredl avevacon sé il libro e lo lesse ad altavoce, un paio di poesie già le sapevaa memoria. Mi piaceva moltissimo cheprendesse sul serio le poesie, a casamia le poesie erano disprezzate, lechiamavano -poesiole per partitopreso. Ma le vere citazioni di Fredl,come ho già detto, erano le canzoni, icanti popolari ebraici.Fredl, mentre cantava, teneva lamano destra sollevata a mezz'aria, conil palmo aperto rivolto verso l'altocome un guscio, sembrava che offrissequalcosa di cui dovesse scusarsi. Ilsuo aspetto era umile e nel contemposicuro di sé, faceva quasi pensare aun monaco itinerante, il quale,tuttavia, invece di fare la questua,portava tra la gente i suoi doni.Fredl non cantava mai a piena voce,ogni mancanza di misura sembravaestranea al suo carattere, alla graziacampagnola con cui si conquistava ilcuore degli ascoltatori. Fredl sirendeva certamente conto della suabravura e ne era compiaciuto, comeogni altro cantore; ma più cheall'autocompiacimento dava importanzaal suo modo di sentire, e di essorecava testimonianza: il suo amore perla vita dei campi, la cura dellaterra, la sua attività manuale,chiara, umile, ma anche esigente.Raccontava volentieri che aveva degliamici arabi, non faceva differenze traarabi ed ebrei, ogni alterigia fondatasulla superiorità culturale gli eraestranea. Era forte e sano e avrebbepotuto fare tranquillamente a pugnicon i suoi coetanei, eppure non ho maiconosciuto un uomo più mite, la suamitezza era tale che non entrava incompetizione con nessuno. Essere il

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primo o l'ultimo per lui era la stessacosa; Fredl non si inseriva in alcunagraduatoria e sembrava che neanche siaccorgesse dell'esistenza dellegraduatorie.Con lui entrò nella mia vita ilbuddhismo, al quale Fredl si eraaccostato attraverso la poesia. ICanti dei monaci e delle monache,nella traduzione di Carl EugenNeumann, lo avevano affascinato. Nerecitava a memoria lunghi brani, inuna cantilena ritmata, incantevolenella sua stranezza. In quell'ambientetutto dedito alla discussioneintellettuale, che ogni volta assumevala forma di una gara fra due giovanicontendenti, nella quale le opinionivalevano se erano sostenute conarguzia e incisività, inquell'ambiente senza pretesescientifiche, dove contavano lascioltezza, la versatilità, la varietàdella conversazione, la cantilena diFredl, sempre uguale a se stessa, maichiassosa, mai ostile, mai esausta,non poteva che sortire l'effetto diuna sorgente inesauribile ma un pocomonotona.La sua conoscenza del buddhismo,tuttavia, andava oltre quellecantilene, benché esse gli apparisserosingolarmente familiari. Fredl sapevaanche orientarsi con sicurezza nelcampo della dottrina. Conosceva beneil canone pali, nella parte tradottada Carl Eugen Neumann, e così pure ilibri dei Medi e dei Lunghi Discorsi,il Libro dei Frammenti, il Camminodella Verità - insomma tutto ciò cheera stato pubblicato lo conosceva afondo e lo illustrava durante lenostre lunghe conversazioni con untono cantilenante, simile a quellodelle sue canzoni.Io ero ancora tutto pervaso dalleesperienze collettive del periodo diFrancoforte, quando, di sera, mi univoalle manifestazioni, ascoltavo icomizi e mi sentivo profondamenteemozionato dalle discussioni che poicontinuavano per le strade. Uomini fraloro diversissimi, borghesi e operai,giovani e vecchi, si davano sulla vocea vicenda con una tale foga, un taleaccanimento, una tale sicurezza delleproprie opinioni che un diverso pareresembrava inconcepibile; eppure il lorointerlocutore si dichiarava convintodel contrario con lo stesso

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accanimento. Poiché il tutto sisvolgeva di notte e io non eroabituato a stare per la strada aquell'ora, avevo l'impressione chequelle dispute non dovessero maifinire, che dovessero continuare persempre, e dormire, ormai, non fossepiù possibile, tale era l'importanzache ciascuno dava alle proprieconvinzioni.Un'esperienza particolarissima deglianni di Francoforte, un'esperienza cheavevo vissuto di giorno, era statala massa. Abbastanza presto, circa unanno dopo il mio arrivo a Francoforte,avevo assistito sulla Zeil a un corteooperaio. Era una manifestazione diprotesta contro l'assassinio diRathenau. Io mi trovavo sulmarciapiede, dovevano esserci accantoa me altre persone che guardavano,però non le ricordo. Vedo ancora lefigure alte e vigorose che marciavanodietro lo striscione delleAdlerWerke. Marciavano compattilanciando intorno a sé sguardi disfida, le loro grida mi colpirono comese fossero rivolte proprio a me. Ilcorteo s'ingrossava continuamente, lepersone che vi entravano avevanoqualcosa in comune, non tantonell'aspetto quanto nel comportamento.Il corteo non finiva mai, ne sentivoemanare una salda convinzione, chediventava sempre più salda. Mi sarebbepiaciuto essere uno di loro, non eroun operaio, eppure quelle grida mitoccavano come se lo fossi. Non so sele persone accanto a me abbianoprovato la stessa sensazione, non levedo, comunque non ricordo nessuno cheabbia lasciato il marciapiede perentrare nel corteo, può darsi che icartelli inalberati da alcuni gruppidi manifestanti abbiano trattenuto lagente dal farlo.Il ricordo di quella manifestazione,la prima che ho vissuto in modocosciente, rimase vivissimo in me. Nonriuscivo a dimenticarne l'attrazionefisica, il violento desiderio dipartecipare, indipendentemente da ogniconsiderazione o ragionamento, cosìcome non furono certo i dubbi di unqualche genere a trattenermi dal passoestremo di unirmi al corteo. Inseguito, quando cedetti al mio impulsoe mi trovai realmente in mezzo allamassa, ebbi la sensazione che fosse unfenomeno simile a quello che in fisica

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è noto come forza di gravità. Maquesta, è ovvio, non era una veraspiegazione di quel fattosorprendente. Infatti non eri néprima, come individuo isolato, nédopo, come parte della massa, unoggetto inanimato, e la metamorfosiche si verificava all'interno dellamassa, un mutamento completo dellacoscienza, era un fatto che penetravain profondità, rimanendo peròenigmatico. Che cos'era? Era questoche volevo sapere. Questo enigma nonmi ha più dato pace, mi haperseguitato in tutta la partemigliore della mia vita, e seppuresono arrivato a qualcosa, l'enigmanondimeno è rimasto tale.A Vienna ho incontrato alcunigiovani coetanei con i quali laconversazione era semprepiacevolissima: da una partem'incuriosivano quando parlavano delleloro esperienze più importanti edall'altra erano pronti ad ascoltarmiquando io tiravo fuori le mie. Il piùpaziente di tutti era Fredl Waldinger,ma poteva permetterselo, essendoimmune da qualsiasi contagio: la miadescrizione dell'esperienza dellamassa - allora la chiamavo così - lometteva di buon umore, ma non misentii mai preso in giro da lui. Ioparlavo (Fredl l'aveva capitobenissimo) di uno stato di ebbrezza,di un'intensificazione dellepossibilità di esperienza, di unaccrescimento della persona, che,superate le proprie limitazioni,incontrava altre persone in unacondizione analoga e con esse formavaun'unità superiore. Lui dubitavadell'esistenza di una simile unitàsuperiore, e ancor più del valore diun'intensificazione dell'esperienza instato di ebbrezza. Buddha gli avevasvelato che la vita non ha valore senon riesce a liberarsi da qualsiasiattaccamento alla vita stessa. La suameta era la graduale estinzione dellavita, il nirvana, che mi sembravasimile alla morte. Fredl negava, conmolti argomenti di grande interesse,che il nirvana e la morte fossero lastessa cosa - tuttavia era innegabileche dal buddhismo egli aveva assorbitola tendenza a porre l'accento sullanegazione della vita.Attraverso la discussione le nostreposizioni si rafforzavano. Grazie

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all'influenza reciproca stavamosoprattutto diventando più attenti epiù cauti. Fredl andava sempre più afondo nello studio dei testi religiosidel buddhismo, non si limitava piùalle traduzioni di Carl Eugen Neumann,che tuttavia rimasero le più vicine alsuo cuore. Si immergeva nellafilosofia indiana, ne studiava lefonti su testi inglesi che traducevain tedesco con l'aiuto di Veza. Io misforzavo di apprendere più coseriguardo alla massa della qualeparlavo. Avevo comunque deciso distudiare il fenomeno che tantooccupava la mia mente e che per me eradiventato l'enigma di tutti glienigmi, ma forse, senza Fredl, non misarei interessato così presto allereligioni indiane, per le qualisentivo una grande ripugnanza, perchémoltiplicavano la morte con ladottrina della trasmigrazione. Durantele nostre discussioni, mi rendevoconto con un senso di imbarazzo dipoter opporre alla complessa dottrinaseguita da Fredl - una delle piùsignificative e profonde che l'uomoabbia creato - soltanto la descrizioneun po' sparuta di un'unica esperienza,che egli definiva pseudomistica.Esponendo le sue idee, Fredl potevarichiamarsi a un gran numero dispiegazioni, interpretazioni e catenecausali - mentre io non ero in gradodi esibire neppure una spiegazionedell'unica esperienza della qualeparlavo con tanto fervore. L'estremacaparbietà con cui mi ci aggrappavo -proprio perché non riuscivo aspiegarla - doveva sembrare a Fredl unpo' corta di vedute, forse addiritturasenza senso. E lo era; ma se dovessidire dove si trovavano i miei veripunti di forza, li indicherei propriolà dove ero sopraffatto da esperienzeper le quali non riuscivo a trovareuna spiegazione. Nessuno è mairiuscito a togliermele dalla testa,neppure io stesso.Ultimo viaggio sul Danubio.Il messaggio.Nel luglio 1924, terminato il primosemestre all'Università di Vienna,andai ospite per tutta l'estate inBulgaria. Ero stato invitato a Sofiain casa delle sorelle di mio padre.Una tappa a Rustschuk, dove avevotrascorso i primi anni della miainfanzia, non era neppure prevista,

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dato che lì non era rimasto nessunoche potesse invitarmi. Col passardegli anni tutti i miei parenti sierano trasferiti a Sofia, che, essendola capitale, era diventata sempre piùimportante trasformandosi a poco apoco in una grande città. Le mievacanze non dovevano essere un ritornonella città natale, bensì un'occasioneper visitare il maggior numeropossibile di parenti. Ma la cosafondamentale doveva essere il viaggio-all'ingiù , il viaggio sul Danubio.Poiché Bucco, il fratello maggioredi mio padre, che allora abitava aVienna, aveva alcuni affari dasbrigare in Bulgaria, decidemmo dipartire insieme. Fu un viaggiocompletamente diverso da quelli chericordavo dall'epoca della miainfanzia, quando passavamo la maggiorparte del tempo in cabina e la mammaci pettinava ogni giorno con unpettine rigido per toglierci ipidocchi: le navi erano sporche, e inviaggio era impossibile nonprenderseli. Questa volta non si parlòmai di pidocchi, dividevo la cabinacon lo zio, un gran burlone, lo stessozio che quand'ero molto piccolo sidivertiva a prendermi in giroimpartendomi la sua solennebenedizione. Durante il viaggiorimanemmo quasi sempre in coperta. Lozio aveva bisogno di gente perraccontare le sue storielle, cominciòcon alcuni conoscenti incontrati percaso e ben presto fu attorniato da unfolto gruppo di ascoltatori ai qualiammannì le sue barzellette con visoimpassibile, ammiccando appena ditanto in tanto. Ne aveva un repertorioassai vasto, ma il mio interesse,avendole sentite moltissime volte, siera completamente esaurito. Aidiscorsi seri non era in grado direggere per molto tempo. In cabina,tuttavia, si sentì in dovere di dareal nipote che aveva appena iniziatogli studi universitari qualcheconsiglio utile per la vita. Ma i suoiconsigli mi annoiavano ancor più deisuoi scherzi; perché, se è vero checonoscevo anche troppo bene tutti isuoi accorgimenti per strappare ilriso e l'applauso, è altrettanto veroche trovavo i suoi consigli oltremodoirritanti.Non avendo la più pallida idea diciò che in effetti mi passava per la

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mente, quegli stessi consigli avrebbepotuto rivolgerli a qualsiasi altronipote. Dell'utilità della chimica neavevo fin sopra i capelli. Non c'eraparente di una certa età che non sidilungasse su quel tema, tutti siaspettavano da me l'accesso a un nuovocampo che ad essi finora era precluso.Nessuno dei miei parenti era andatooltre l'istituto superiore dicommercio, e adesso si stavanoaccorgendo a poco a poco che, al di làdelle operazioni di compravendita,nelle quali avevano sufficienteesperienza, era ormai indispensabileprocurarsi delle cognizioni specifichedi carattere tecnicoscientifico dicui erano ancora del tutto digiuni. Iosarei dovuto diventare lo specialistain chimica della famiglia e, graziealle mie conoscenze, sarei riuscito aestendere il campo delle loroiniziative commerciali. Di tuttequeste cose parlavamo in cabina ogninotte prima di addormentarci, era unaspecie di preghiera serale, sia purepiuttosto breve. La benedizione concui egli, quand'ero bambino, si erapreso gioco di me deludendomiimmancabilmente, mentre io la prendevocosì sul serio che ogni volta mimettevo sotto il palmo della sua manocon gioiosa impazienza, per via dellebelle parole iniziali (-Yo tebendigo... ) - quella benedizione dicui da tanto tempo non volevo piùsentir parlare, perché si eratramutata nella maledizione del nonnoe nella morte improvvisa di mio padre,questa volta era intesa sul serio:proprio io avrei portato fortunaalla famiglia, accrescendone ilbenessere con le mie conoscenze nuove,moderne, -europee . Zio Bucco, però,si interrompeva presto, perché, primadi addormentarsi definitivamente,doveva ancora raccontare almeno due otre storielle. Al mattino, poi,tornava di buon'ora in coperta, dovelo aspettava il suo uditorio.Il battello era pieno zeppo, unnumero incalcolabile di personestavano sedute o accampate in coperta,ed era un vero piacere serpeggiare daun gruppo all'altro ascoltando i lorodiscorsi. C'erano studenti bulgari chetornavano a casa per le vacanze, maanche gente che lavorava già, come adesempio un gruppo di medici cheavevano rinfrescato le proprie

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conoscenze in -Europa . Uno di loro,con un immenso barbone nero, misembrava di conoscerlo; niente distrano: mi aveva aiutato a venire almondo, era il dottor Menachemoff diRustschuk, il medico di famiglia, dilui in casa si parlava spessissimo,tutti gli volevano bene, quandol'avevo visto l'ultima volta non avevoancora compiuto sei anni. Non lo presidel tutto sul serio, come tutto ciòche faceva parte di quel periodobalcanico della mia vita, di quelperiodo -barbaro (così almenopensavo), e fui sorpreso - prestoattaccammo discorso - dalla quantitàdi cose che quell'uomo sapeva e dellequali s'interessava. Aveva seguìto iprogressi della scienza, e non solonel proprio campo. Rispondeva in modocritico, discutendo di tutto, senzarifiutare a priori ciò che dicevo iosolo perché era detto da un ragazzo didiciannove anni, e nei nostri discorsila parola -denaro non fu pronunciataneppure una sola volta.Di tanto in tanto, mi disse, avevapensato a me; era sempre stato sicuroche, dopo la morte improvvisa di miopadre - evento che nessuno era statoin grado di spiegare in modosoddisfacente - io avrei potutostudiare soltanto medicina, perché ilmistero di quella morte avrebbe disicuro impegnato la mia mente finoalla fine dei miei giorni. Anche sequell'enigma si fosse rivelatoinsolubile, sarebbe stato lo stessouno sprone fortissimo: se mi fossidedicato alla medicina cercando dirisolverlo, avrei certamente fattonuove e importanti scoperte. Egli erapresente quando mio padre, tornandoprecipitosamente dall'Inghilterra, miaveva salvato la vita dopo quellatremenda scottatura. A mio padredovevo la vita due volte. Un anno emezzo dopo, a Manchester, io non avevopotuto salvarlo e, poiché mi erarimasto quel debito verso di lui,avevo il dovere di pagarlo salvandoaltre vite. Lo disse con la massimasemplicità, senza pathos né toniampollosi, eppure in bocca sua laparola -vita suonava come un beneprezioso e soprattutto raro, il che,data la folla enorme ammassata incoperta, faceva davvero uno stranoeffetto.Provai vergogna davanti a lui,

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vergogna soprattutto per l'ipocrisiacon cui giustificavo di fronte a mestesso l'assurda decisione di studiarechimica. Però non dissi nulla, temevodi fare una figura indegna. Parlaiinvece del mio desiderio di saperetutto ciò che al mondo val la pena disapere. Egli m'interruppe, indicandomile stelle - era già notte - e midomandò: -Conosci i nomi dellestelle? . Allora ci indicammo avicenda le costellazioni, cominciai ioadditando la Lira, con Vega, perchéera stato lui a fare la domanda, poiil dottore additò il Cigno, con Deneb,perché la sua domanda doveva purbasarsi su qualcosa. E così cimostrammo l'un l'altro tutta la voltaceleste, senza che nessuno dei duepotesse sapere in anticipo qualesarebbe stata la prossima stellaindicata dall'altro. Presto l'interofirmamento fu esaurito, anche se nonavevamo tralasciato una solacostellazione; un duetto simile nonl'avevo mai cantato con nessuno; poiil dottore mi disse: -Sai quantiuomini sono morti nel frattempo? ,intendendo il breve lasso di tempo cheavevamo dedicato all'elencazione dellestelle. Io non dissi niente, lui nonfece cifre. -Tu non li conosci. Lacosa non ti riguarda. Un medico liconosce. La cosa lo riguarda .Quando l'avevo incontrato -all'imbrunire - il dottore stavaseduto in mezzo a un gruppo di personeche conversavano animatamente; pocolontano alcuni studenti cantavano asquarciagola ardenti canzoni bulgare.Il mio compagno di viaggio mi avevadetto già a Vienna che sulla naveavremmo trovato il dottor Menachemoff,chissà come sarebbe stato contento dirivedermi, dopo tanto tempo (eranopassati tredici anni). Io non ci avevopiù pensato, poi, di colpo, mi erotrovato di fronte la sua barba nera. -Quanto avevo odiato, nel tempotrascorso, una barba nera simile aquella! - Forse era stato proprio unresiduo di quell'antico sentimento adattirarmi nelle vicinanze della suabarba. Sapevo che era lui, quella erala barba di un medico, e in preda asentimenti discordanti lo avevoguardato fisso in faccia, e lui,interrompendo la sua frase in mezzo auna discussione, mi aveva detto: -Seitu, lo sapevo, sei proprio tu. Eppure

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non ti ho riconosciuto. Come avreipotuto, del resto. Quando ti ho vistol'ultima volta non avevi ancoracompiuto sei anni .Assai più di me il dottore vivevaimmerso nei tempi passati. Io avevovoltato le spalle a Rustschuk con unacerta arroganza, quella era l'epoca incui ancora non sapevo leggere. Dallepersone rimaste laggiù, che ogni tantoinopinatamente incontravo in -Europa ,non mi aspettavo nulla. Invece ildottore, che era sempre rimasto aRustschuk, non aveva mai perso divista i suoi antichi pazienti, e daquelli che avevano lasciato Rustschukda bambini si aspettava impresestraordinarie. Sapeva dellamaledizione del nonno, quando eravamopartiti per l'Inghilterra tutta lacittà ne aveva parlato, ma era troppofiero della propria scienza per potercredere alla sua efficacia. La mortedi mio padre, pur seguita a così brevedistanza, era rimasta per lui unmistero, e poiché nessuno era riuscitoa risolverlo, gli sembrava naturaleche io consacrassi la mia vita allasoluzione di quel mistero, o di altrianaloghi enigmi.-Ricordi le sofferenze di allora? disse, ritornando di colpo con ilpensiero alle ustioni che avevosubìto. -La pelle non c'era più. Solola testa era stata risparmiatadall'acqua bollente. Era acqua delDanubio. Forse non lo sapevi. E oranavighiamo tranquilli su quello stessoDanubio . -Ma non è lo stesso, dissiio -è sempre un altro. Le sofferenzenon le ricordo più, ma ricordobenissimo il ritorno del babbo .-Fu quasi un miracolo, disse ildottor Menachemoff, -è stato il suoritorno che ti ha salvato. Ecco comeun uomo diventa un grande medico. Unuomo a cui è successa una cosa similenella primissima infanzia devediventare un medico. Sarebbeimpossibile fare qualsiasi altra cosa.E'è per questo che tua madre si ètrasferita a Vienna con voi bambinisubito dopo la morte di tuo padre.Sapeva che là avresti trovato tutti igrandi maestri di cui hai bisogno. Chene sarebbe di noi, senza la scuola dimedicina di Vienna! E'è sempre statauna donna intelligente, tua madre. Hosentito dire che è piuttostomalaticcia. Ci penserai tu a lei. Il

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migliore dei medici l'avrà in casa,sarà suo figlio. Vedi di finire infretta; poi specializzati, ma senzaesagerare .E qui mi fu prodigo di consigli peri miei studi universitari. Per quanteobiezioni facessi - sia pure contitubanza - il dottore non ci facevacaso, purché si trattasse di medicina.Ma parlammo anche di altri argomenti,e a tutto il resto egli rispose atono; diceva solo cose che avevalungamente meditato. Era un uomoduttile e saggio, pieno di speranza edi sollecitudine; solo a poco a pococompresi che una cosa non aveva capitoe che non l'avrebbe capita mai. Eglinon poteva credere che non sareidiventato un medico, in fondo dopo unsolo semestre restavano aperte moltepossibilità. Tale era la mia vergognache smisi di fare sforzi per svelarglila verità e lasciai cadere quel temacosì imbarazzante. Può anche darsi chein quel momento cominciai a vacillare.Quando egli mi chiese notizie dei mieifratelli ed io, come sempre, parlaisolo del minore, esaltando con grandeorgoglio il suo grande talento,nemmeno fosse stato mio figlio, ildottor Menachemoff volle sapere checosa avrebbe studiato lui. -Medicina risposi, sentendomi sollevato: quella,infatti, era ormai una decisionepresa. -Due fratelli - due medici disse lui ridendo. -E perché non ilterzo? . Ma era solo una battuta, einfatti non ebbi bisogno di spiegarglii motivi per cui quella del medico nonsarebbe stata la professione adattaper Nissim.Sulla mia vocazione, in ogni caso,non aveva dubbi. Durante il viaggio ciincontrammo in coperta ancora un paiodi volte. Mi presentò a parecchi suoicolleghi dichiarando con semplicità:-Un futuro luminare della scuola dimedicina viennese . Non suonava comeuna fanfaronata, sembrava una cosanaturale. Per me diventava sempre piùdifficile esporgli la crudele,inequivocabile verità. Parlava tantodi mio padre, era stato presentequando mio padre era ritornato persalvarmi la vita, come avrei potutodeluderlo?Fu un viaggio bellissimo, vidi unnumero incalcolabile di persone e conmolte di esse attaccai discorso. Ungruppo di geologi tedeschi osservava

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le formazioni intorno alle Porte diFerro e ne discuteva con parole per meincomprensibili. Uno storico americanocercava di illustrare alla propriafamiglia le campagne di Traiano. Eradiretto a Bisanzio, il vero tema dellesue ricerche. Solo sua moglie gli davaretta, le figlie, due belle ragazze,preferivano chiacchierare con glistudenti. Parlando inglese facemmo unpo' amicizia; le ragazze silamentavano del padre che vivevasempre nel passato; loro, invece, cheerano giovani, vivevano nel presente.Come dubitarne? Lo dicevano con unatale convinzione... Alcuni contadinisalirono a bordo con ceste di frutta everdura. Un facchino portava sullaschiena un intero pianoforte,camminava in fretta sulle assi dilegno, alla fine lo mise giù. Erapiccolo, con il collo taurino e tuttomuscoli, ma neppure oggi riesco acapire come potesse farcela da solo.A Lom Palanka Bucco e io scendemmo.Dovevamo pernottare, e il mattinoseguente proseguire in treno per Sofiaattraverso i Balcani. Il dottorMenachemoff, che tornava aRustschuk, restò sul piroscafo. Quando micongedai da lui non sentendomi affattoa posto con la mia coscienza, egli midisse: -Non dimenticare quel che miaspetto da te . E aggiunse: -Nonlasciarti sviare da nessuno, capisci?Da nessuno! . Non aveva mai usato untono così energico, le sue parolesuonarono come un comando, e iosospirai profondamente.Per tutta la notte che passammo aLom tormentati dalle cimici, nonchiusi occhio neanche per un attimo econtinuai a riflettere sul significatodella sua ultima frase. Il dottoredoveva aver compreso che avevotradito. Avevo simulato. Avendo iorinunciato a dirgli la verità in modochiaro e incontrovertibile, poi mi erovergognato del mio inganno. Ma anchelui aveva simulato. Aveva fatto fintadi non capire cosa mi era successo.Senza aspettare il mattino andai dallozio Bucco, tanto anche lui non potevadormire in quella camera infestatadalle cimici, e gli domandai: -Cos'haidetto al dottor Menachemoff? Gli haidetto che cosa studio? . -Certo,chimica, che cosa avrei dovutodirgli? . Allora lo sapeva davvero, eaveva tentato di riportarmi sulla

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retta via. Lui solo aveva fatto quelloche avrebbe fatto mio padre: avevacercato di concedermi la libertà discegliere da me. Era stato testimonedi ciò che era accaduto fra me e miopadre ed era l'unico ad averlocustodito. Si era trovato sulla naveche mi riportava laggiù e mi avevatrasmesso un messaggio che agli occhidel mondo non era di sua competenza.L'aveva fatto con astuzia, rifiutandodi prender atto di ciò che erasuccesso. Gli stava a cuorel'integrità del messaggio, il testonella sua purezza. Non aveva avutoriguardi per la situazione in cui mitrovavo nel momento in cui venivoraggiunto da quel messaggio.L'oratore.A Sofia nelle prime tre settimaneabitai dalla zia Rachel, la sorellaminore di mio padre. Era la piùamabile di tutti i fratelli, una belladonna diritta, alta e imponente,affettuosa e allegra. Aveva dueespressioni caratteristiche: o la sivedeva con il volto ridente o le sileggeva in viso una convinzionesostenuta con temperamento e passione,la sua causa era sempredisinteressata, era piuttosto unafede, un ideale. Aveva un maritoabbastanza anziano, un uomo avveduto estimato per il suo senso di giustizia,e tre figli, il più giovane dei qualiaveva otto anni e portava, come me, ilnome del nonno. La loro era una casapiena di vita, allegra e chiassosa,tutti ridevano continuamente e sichiamavano gridando da una stanzaall'altra, nessuno poteva isolarsi,chi voleva un po' di pace correvafuori e la trovava più facilmente perla strada che non a casa propria. Mac'era in famiglia un punto fermo epacifico, il consorte e padre - equello che gli passava per la menteera per tutti un mistero. Non aprivaquasi mai bocca, e si lasciava carpiresolo qualche sentenza, peraltroinappellabile: pronunciava un sì o unno, una frase brevissima, ma cosìpiano che si faceva fatica a sentirlo.Quando voleva dire qualcosa tuttitacevano, non occorreva intimare ilsilenzio. Per un attimo, così breveche faceva un effetto inquietante, nonsi udiva un rumore, poi arrivava, avoce bassa, appena percepibile, conparole contate e un po' vaghe, la

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sentenza, la decisione. Subito doporicominciava il baccano, era difficiledire se erano più squillanti glistrilli di quei ragazzi scatenati o lavoce acuta della madre che chiedeva,raccomandava, domandava qualcosa.Per me quel trambusto era nuovo.Quei ragazzi erano tutti protesi versol'attività fisica, di libri nonparlavano mai, di sport invecemoltissimo. Erano dei giovanivigorosi, attivi, che non riuscivano astar fermi un momento e provocandosiallegramente a vicenda si urtavano incontinuazione. Il padre, che aveva uncarattere completamente diverso,sembrava auspicare e favorirequell'eccesso di vitalità fisica. Miaspettavo in ogni momento di sentirgligridare -Ya basta! , e quando iltumulto era al culmine guardavo dallasua parte. Lui se ne accorgevabenissimo, nulla gli sfuggiva, esapeva ciò che mi aspettavo da lui, manon diceva nulla e il tumultocontinuava; cessava soltanto, perbreve tempo, quando tutti e tre iragazzi uscivano di casacontemporaneamente.Ma dietro questo incoraggiamentoalla vitalità c'era una convinzione,un metodo. La famiglia stava peremigrare. Insieme a molte altrefamiglie aveva deciso di lasciare lacittà e il paese entro pochesettimane. La Palestina, così sichiamava allora, era la meta agognata;sarebbero stati fra i primi a partire,erano considerati dei pionieri e neerano altamente consapevoli. L'interacomunità degli -spagnoli di Sofia, enon solo di Sofia ma di tutto ilpaese, si era convertita al sionismo.Non stavano male in Bulgaria, nonsubivano alcun tipo di persecuzione,non esistevano ghetti né casi diopprimente miseria, eppure c'erano fraloro dei capipopolo che avevano accesola scintilla e non si stancavano dipredicare il ritorno alla TerraPromessa. I loro discorsi, notevoli dapiù di un punto di vista,stigmatizzavano il separatismoaltezzoso degli -spagnoli : tutti gliebrei sono uguali, dicevano, ogniforma di isolamento è riprovevole, enon si può certo dire che negli ultimitempi siano stati gli -spagnoli aessersi distinti per le loro impresein favore dell'umanità. Gli -spagnoli

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sono caduti, anzi, in una sorta diprofondo torpore spirituale, ed ètempo che si destino e si gettinodietro le spalle, come un'inutilefissazione, la loro alterigia.Un mio cugino, Bernhard Arditti,passava per essere l'oratore piùfocoso di tutti, capace di autenticiprodigi di persuasione. Era il figliomaggiore di quel Josef Arditti,ossessionato dal -diritto , cheaccusava di furto tutti i membri dellafamiglia e sguazzava nei processi, edella leggiadra Bellina, una donna chesembrava uscita da un quadro diTiziano e non pensava ad altro, giornoe notte, che al modo di fare deiregali per rallegrare il cuore del suoprossimo, chiunque esso fosse.Bernhard, pur essendo avvocato, nonaveva il minimo interesse per lapratica legale, probabilmente lavoglia gli era passata a causa di suopadre, che si sentiva felice solo inmezzo agli articoli e ai commi.Giovanissimo, Bernhard si eraconvertito al sionismo e avevascoperto la propria eloquenza cheaveva messo al servizio della causa.Quando arrivai a Sofia, tuttiparlavano di lui. Migliaia di personesi riunivano per ascoltarlo, lasinagoga maggiore quasi non bastava acontenerle tutte. La gente sicongratulava con me per quel cugino,compiangendomi per il fatto che nonavrei potuto ascoltarlo di persona:nelle poche settimane del miosoggiorno, infatti, non era previstanemmeno una riunione. Tutti eranotravolti e conquistati dalle sueparole; fra coloro che conobbi, efurono moltissimi, nemmeno uno facevaeccezione, era come se un'onda immensali avesse afferrati e trascinati in unmare, ormai ne facevano parte. Nonincontrai una sola persona che siopponesse alla sua causa. Bernhard sirivolgeva ai suoi seguaci in spagnolo,ma li fustigava per la loro superbiache si fondava proprio sull'uso diquella lingua. Adoperava il vecchiospagnolo, ed io mi resi conto constupore che nel linguaggio da meconsiderato un idioma infantile, undialetto poverissimo da usare nellecucine, si potevano trattare problemigenerali e infondere negli uominitanta passione da indurli a pensareseriamente di abbandonare ogni cosa,

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voltando le spalle a un paese in cuivivevano da generazioni, dov'eranoriconosciuti e stimati e non se lapassavano affatto male, per emigrarein una terra sconosciuta, promessa damigliaia di anni ma che a quell'epocanon era affatto la loro terra.Ero giunto a Sofia in un momentocritico. Niente di strano, dunque, chein quella situazione non si trovassein casa un letto per me. Uno deiragazzi dovette andare a dormire daun'altra parte per farmi posto. Tantopiù notevole fu dunque l'affabileospitalità che mi accolse. Gli ziistavano chiudendo la casa, preparandoi bagagli, e al solito trambusto, cheevidentemente in quella casa regnavasovrano, si univa la confusione di untrasferimento affatto insolito.Sentivo nominare altre famiglie in cuisuccedeva la stessa cosa.L'emigrazione interessava un interogruppo di famiglie, era la primainiziativa del genere di ampiaportata, e raramente si parlavad'altro.Andando a spasso, per vedere Sofia oanche solo per sfuggire al baccano diquella casa, mi capitava sovente diincontrare mio cugino Bernhard;proprio lui coi suoi discorsi erastato il promotore di tutto, o, per lomeno, aveva dato l'impulso decisivoall'iniziativa di cui ho appenaparlato. Era un uomo tarchiato elievemente pingue, con sopraccigliacespugliose, di circa dieci anni piùvecchio di me, ma giovanilenell'aspetto e sempre in movimento;aveva la caratteristica di non parlaremai di fatti privati (l'esattocontrario di suo padre). Il suotedesco era talmente armonioso esicuro che sembrava la sua linguamaterna; tutto ciò che diceva apparivaimmutabile, eppure restavaincandescente e fluido, una specie dilava che mai si raffredda. Se provavoa fargli un'obiezione, soltanto permetterlo alla prova, la spazzava viacon ironica superiorità, e al tempostesso sembrava scusarsi per lapropria dimestichezza con ladiscussione politica, ridendo inmaniera magnanima e per nullaoffensiva.Quel che mi piaceva era il fatto chenon dava alcun peso alle cosemateriali. Poiché le scartoffie non lo

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interessavano, o meglio non le potevasoffrire, non si occupava mai diquestioni d'interesse. Camminando alsuo fianco per le strade larghe epulite di Sofia, ti chiedevi soltantocome facesse a sbarcare il lunario.Era evidente che aveva bisogno di unnutrimento particolare: che viveva diciò che gli riempiva l'anima. Forse lesue parole facevano effetto suglialtri proprio perché non gli accadevamai di forzarle e deformarle in mododa farle coincidere con il proprioquotidiano tornaconto. Poiché nonvoleva nulla per sé, gli altricredevano in lui, ed egli credeva inse stesso perché i suoi pensieri nonsi perdevano mai dietro al guadagno.A Bernhard confidai che non avevo laminima intenzione di fare il chimico.Studiavo chimica solo per salvare leapparenze e prepararmi, intanto, afare altre cose.-Perché questo sotterfugio? michiese. -Tua mamma è una persona cosìintelligente! .-Ma si è lasciata influenzare dagente volgare. Quando era malata adArosa ha conosciuto delle persone che-sanno vivere , come si dice, e chenella vita hanno avuto successo.Adesso vuole che anch'io -impari avivere ; a modo loro, però, non a modomio .-Attento! disse Bernhard,fissandomi ad un tratto con unosguardo serissimo, come se in quelmomento mi vedesse per la prima voltacome persona. -Stai attento! Sennòsei perduto. Quella razza la conoscobene. Anche mio padre voleva chestessi dietro a tutti i suoiprocessi .Non disse altro, l'argomento eratroppo privato per interessarlo oltre.Ma era chiaro che stava dalla miaparte. Solo quando gli dissi chevolevo scrivere in tedesco, e innessun'altra lingua, scosse il capocon disappunto e replicò: -Perché?Impara l'ebraico, piuttosto! E'è quellala nostra lingua. Credi che esista almondo una lingua più bella? .Incontravo volentieri Bernhard,perché era riuscito a sottrarsi allaservitù del denaro. Guadagnava poco,ma nessuno era stimato come lui;neppure uno degli schiavi delcommercio- categoria alla quale appartenevano

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quasi tutti i membri della miafamiglia - lo biasimava. Bernhardsapeva diffondere a piene mani unasperanza che a loro serviva molto dipiù della ricchezza e della normalefelicità. Sentivo che volevaconquistarmi; ma non brutalmente,magari con un discorso durante unamanifestazione di massa, bensì da uomoa uomo, come se pensasse che sareipotuto diventare altrettanto utilealla causa quanto lui stesso. Glidomandai quale fosse il suo statod'animo quando parlava: non smarrivaper caso la sua identità, non temevadi perdersi nella massa entusiasta?-Mai! Mai! mi disse con grandissimarisolutezza. -Quanto più loro sonoentusiasti, tanto più io mi sento mestesso. La gente si può tenere inpugno come cera molle, si può farnetutto quello che si vuole. Si puòspingerla ad appiccare il fuoco alleproprie case, non ci sono limiti aquesto potere. Prova anche tu! Bastavolerlo! Tu non abuserai di questopotere! Anche tu, come me, lo useraiper una causa giusta, per la nostracausa .-Io gli dissi -l'esperienza dellamassa l'ho avuta a Francoforte. Ero ioa essere come cera. Non possodimenticarlo. Vorrei sapere che cos'è.Vorrei proprio riuscire a capirlo .-Non c'è niente da capire. E'èdappertutto lo stesso. O sei unagoccia che si dissolve nella massa osei l'uomo che sa dare una direzionealla massa. Non hai altra scelta .Gli sembrava ozioso chiedersi checosa fosse in realtà la massa. Laaccettava come un dato, una realtà chesi può evocare al fine di raggiungeredeterminati scopi. Ma io gli domandaise chiunque ha il diritto di evocarela massa, purché ne sia capace.-No, non certo chiunque! disseBernhard con la massima decisione.-Solo chi la usa per la vera causa .-E come fa a sapere che è la veracausa? .-E'è una cosa che si sente, si sentequi! e si batté più volte il pettocon forza. -Chi non la sente non ècapace di far nulla! .-Ma allora quel che conta è solocredere nella propria causa. E magaril'avversario crede nella causaopposta! .Lo dissi esitando, tastando il

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terreno, non avevo intenzione né dicriticarlo né di metterlo inimbarazzo. Non ci sarei riuscito, delresto, era troppo sicuro di sé, volevosolo arrivare a una cosa che sentivoin maniera indistinta e che,dall'epoca di Francoforte, non avevacessato di occupare la mia mente anchese non riuscivo a capirla bene. Erostato afferrato dalla massa, eraun'ebbrezza, nella massa ti perdevi,dimenticavi te stesso, ti sentiviimmensamente dilatato e al tempostesso appagato, qualsiasi cosasentissi, non la sentivi per testesso, era l'esperienza piùaltruistica che tu avessi maiconosciuto, e poiché l'egoismo che tiera stato inculcato da tutti ticircuiva di continuo e in fondo timinacciava, avevi bisogno di quellafrastornante esperienza altruisticacome dello squillo di tromba delGiudizio Universale, e dunque tiastenevi dal disprezzare la massa odallo sminuirla. Al tempo stessosentivi però di non essere più padronedi te, di non essere libero, ti stavasuccedendo qualcosa di inquietante,per metà vertigine, per metà paralisi,com'era mai possibile tutto questoinsieme? Che cos'era?Tuttavia non mi aspettavo affattoche Bernhard, l'oratore, proprio nelmomento in cui aveva raggiunto ilculmine della sua capacità disuggestione, rispondesse a questo miointerrogativo, peraltro ancorainarticolato. Gli opponevo resistenza,pur apprezzandolo. Diventare un suoseguace non mi sarebbe bastato. Digente da seguire ce n'era a volontà,conoscevo sostenitori e paladini dellecause più svariate. In fondo - anchese ancora non lo dicevo a me stesso -consideravo Bernhard come un essereche aveva la facoltà di trasformaregli uomini in massa.Tornando nella casa di zia Rachel,vedevo che essa era dominata dalleemozioni che Bernhard suscitava daanni con i suoi discorsi in quellafamiglia, non meno che in tante altre.Per tre settimane fui testimonedell'atmosfera della partenzaimminente. Il momento culminante ful'addio alla stazione. Centinaia dipersone si erano radunate peraccompagnare i parenti. Gli emigranti,si trattava di parecchie famiglie che

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occupavano tutto il treno, furonosommersi dai fiori e dalleinvocazioni, la gente cantava,benediceva, piangeva, era come se lastazione fosse stata costruitasoltanto per quell'addio, come sel'avessero fatta così grande proprioperché potesse accogliere quellaricchezza di affetti. Bambini tenutiin braccio venivano fatti sporgere daifinestrini degli scompartimenti, ivecchi, soprattutto donne già un pocoavvizzite, stavano in piedi lungo ilbinario con gli occhi pieni dilacrime, non vedevano più i lorobambini e salutavano quelli sbagliati.Erano i loro nipoti che se ne stavanoandando, i nipoti partivano e i vecchirestavano, questa era l'impressione -non del tutto esatta - della partenza.Un'attesa immane riempiva l'atriodella stazione, forse i nipoti eranolà in funzione di quell'attesa e delmomento dell'addio.L'oratore era venuto con gli altrima rimaneva a Sofia. -Ho ancora dafare, disse -non posso andar via.Devo far coraggio a chi ancora non sela sente . Si fermò all'ingresso dellastazione, non si fece avanti, sembravache preferisse rimanere in disparte,in incognito, nascosto sotto una cappamagica che doveva renderlo invisibile.Ogni tanto qualcuno lo salutava,chiamandolo in causa, e questosembrava irritarlo. A un certo puntola gente lo pregò con insistenza didire due parole. Sin dalla prima frasesi trasformò in un altro uomo, focosoe risoluto, sembrava che le sue stesseparole lo facessero sbocciare, esubito seppe trovare e donare aipresenti le parole di benedizione e diaugurio di cui essi avevano bisognoper affrontare l'impresa.Dalla casa di zia Rachel, ormaivuota e abbandonata mi trasferii nellacasa di zia Sophie, la sorellamaggiore di mio padre. Dopo labaraonda delle settimane precedenti,tutto qui mi sembrava sciapo eovattato, come per una sorta didiffidenza verso qualsiasi iniziativache andasse al di là del solito trantran quotidiano. Si condividevano,certo, le idee degli emigranti, ma nonse ne parlava, l'eccitazione venivarisparmiata per le occasioni solenni,e nel frattempo si faceva la solitavita. Quella casa era il regno della

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ripetizione, vi imperava la routinedella mia infanzia più remota, cheormai per me aveva perso ognisignificato; le avevamo voltato lespalle partendo per l'Inghilterra, ela via verso l'infanzia mi erasbarrata dal fatto atroce avvenuto aManchester. Ascoltavo i discorsicasalinghi di Sophie, grande espertadi diete e clisteri, donnapremurosissima che non aveva mainiente da raccontare, ascoltavo suomarito, uomo prosaico e di pocheparole, e il prosaico figlio maggiore,che con molte parole dicevaaltrettanto poco, e infine, delusionedelle delusioni, ascoltavo la lorofiglia Laurica, la compagna di giochidella mia infanzia che a cinque annivolevo assassinare con la scure.Già nelle proporzioni c'era qualcosache non tornava: io me la ricordavoalta, molto più alta di me, e adessoera più piccola, graziosa, civettuola,e pensava solo a sposarsi, a trovarmarito. Dov'era la sua pericolosità,che ne era dei suoi quaderni che tantoavevo invidiato? Non ne sapeva piùnulla, nel frattempo aveva disimparatoa leggere, non ricordava affatto lascure con cui l'avevo minacciata eneppure le proprie urla. Non era statalei a spingermi nell'acqua bollente,c'ero caduto da solo, non ero rimastoa letto per settimane, -ti sei soloscottato un po' ; e quando, pensandoche avesse dimenticato soltanto lecose che la riguardavano da vicino, lericordai la maledizione del nonno,scoppiò in una risata argentina comela servetta di un'opera buffa.-Figurarsi, un padre che maledice ilfiglio, sono cose che non esistono, telo sarai inventato tu, sono solofavole, e a me le favole nonpiacciono ; allora le rinfacciai che aVienna avevo assistito a innumerevoliscenate fra il nonno e la mamma, tutteincentrate su quella maledizione, eche il nonno scappava via infuriatosenza neanche salutare, e la mamma,affranta, piangeva poi per ore e ore;ma lei se la cavò con aria saputadicendo: -Sono solo fantasie, è tuttofrutto della tua immaginazione .Potevo dire tutto ciò che volevo,non serviva a niente, non era successoniente di tremendo, non succedeva mainiente di tremendo. Allora tirai fuori- di malavoglia - l'incontro con il

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dottor Menachemoff sul battello delDanubio. Avevamo parlato per ore eore, e lui si ricordava ogni cosa.Aveva tutto così chiaro davanti agliocchi come se fosse successo il giornoprima. Il dottor Menachemoff erastato, a Rustschuk, anche il medicodella famiglia di Laurica e lei loconosceva meglio di me, perché primadi trasferirsi a Sofia aveva abitato alungo laggiù. Ma anche di fronte aquesto argomento la sua risposta fupronta: -In provincia la gente siriduce così. E'è gente sorpassata. Sonotutte cose che s'inventano. Non hannonient'altro a cui pensare. Credono aun sacco di stupidaggini. Sei cadutonell'acqua da solo. Non sei statoaffatto così male. Tuo padre non ètornato da Manchester. Era troppolontano. Allora viaggiare mica costavapoco. Tuo padre non era più aRustschuk. Quando mai il nonno avrebbepotuto maledirlo? Il dottorMenachemoff non sa niente. Solo lafamiglia conosce queste cose .-E tua madre? . Il giorno prima lazia Sophie aveva parlato di quando miaveva tirato fuori dall'acqua e toltoi vestiti, e tutta la pelle era venutavia. -La mamma non ricorda più niente disse Laurica. -E'è un po' svanita pervia dell'età. Ma non bisognadirglielo .Ero esasperato dalla suatestardaggine e dalla sua ristrettezzadi vedute. Niente le importava eccettouna cosa, un vero chiodo fisso:sposarsi, trovare finalmente marito.Aveva ventitré anni e temeva di essereconsiderata, ormai, una vecchiazitella. Mi subissava di domande,supplicandomi di dirle la verità:poteva ancora piacere a un uomo? Avevodiciannove anni, dovevo conoscerequella sensazione. Mi veniva voglia dibaciarla? Con quella pettinatura miveniva voglia di baciarla di più o dimeno che con quella del giorno prima?La trovavo magra? Era carina, certo,ma magra proprio no. Sapevo ballareio? Per piacere a un uomo non c'eraoccasione migliore che il ballo. Unasua amica si era fidanzata proprio aun ballo. Ma lui, poi, le aveva dettoche quella promessa non contava, gliera solo venuto in mente così,ballando. Secondo me una cosa similepoteva capitare anche a lei? Che nepensavo?

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Niente, ne pensavo, alle sue domandenon sapevo proprio cosa rispondere, e,per quanto veloci mi piovesseroaddosso, restavo impenetrabile. Nonprovavo ancora nessuna sensazione,benché avessi diciannove anni, ledissi. Non sapevo affatto se una donnami piaceva o no. Da che cosa avreidovuto accorgermene? Erano tuttestupide, con loro non si poteva maiparlare di niente. Erano tutte comelei, non si ricordavano niente. Comefa a piacere una persona che nonricorda niente? La sua pettinatura erasempre uguale, certo che era magra,perché mai una donna non dovrebbeessere magra? No, non sapevo ballare.Ci avevo provato una volta, aFrancoforte, ma pestavo continuamentei piedi della ragazza. E poi un uomoche si fidanza durante un ballo è uncretino. Chi si fidanza è sempre uncretino.La ridussi alla disperazione, maalmeno la riportai alla ragione. Perottenere una risposta cominciò aricordare. Non ne venne fuori molto,ma la scure alzata la vedeva ancoradavanti a sé, continuava a sognarla,l'ultima volta l'aveva sognata quandoil fidanzamento della sua amica eraandato in fumo.Allo stretto.All'inizio di settembre andammo adabitare in casa della signora OlgaRing: bellissima, con un profilo daromana antica, era una donnaorgogliosa e appassionata che nellavita non voleva nulla senza darequalcosa in cambio. Il marito eramorto da parecchio tempo; il loroamore era diventato leggendario fragli amici, eppure nella signora Olganon degenerò in un culto per ildefunto, anche per il fatto che neisuoi confronti lei non si sentivacolpevole. Non temeva di pensare almarito, perciò non falsificò mai lasua immagine e rimase se stessa. Ebbemolti pretendenti, ma neppure unmomento di debolezza, e si conservòbella fino alla tarda, terribile fine.La signora Olga trascorreva lamaggior parte dell'anno presso lafiglia sposata, a Belgrado. Nella casadi Vienna, dove niente era statocambiato, o meglio, nella sua partepiù remota, un minuscolo stanzino,viveva il figlio Johnnie, pianista dibar, che ai propri occhi e a quelli di

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sua madre non era affatto un fallito,ma certo lo era per il resto dellafamiglia. Anche Johnnie erabellissimo, proprio il ritratto dellasignora Olga, eppure assai diverso,perché tutta la sua figura era piùcorpulenta. Ci si stupiva che nonandasse in giro vestito da donna,spesso lo prendevano per una donna.Adulatore consumato, accettava tuttoquello che gli davano, il suo braccioera sempre teso, la mano sempreaperta. Pensava che tutto questo, eanche di più, gli spettasse didiritto, perché suonava bene ilpianoforte. Nel suo bar era ilbeniamino del pubblico, suonava sia lecanzonette più in voga sia quelle deitempi andati, per imparare un pezzogli bastava suonarlo una volta, erauna specie di inventario vivente deirumori della notte. Di giorno dormivanel suo stanzino, dove entrava appenail suo letto. Il resto della casa,ammobiliata con pesante decoroborghese, veniva affittato.Per un certo periodo Johnnie avevaavuto il compito di riscuotere lapigione per conto della madre,detrarne una piccola parte e spedireil resto a Belgrado. Questo, almeno,era l'incarico, ma di fatto le suedetrazioni si mangiavano l'interapigione e per la madre non restava piùniente. A Belgrado le arrivavanosoltanto dei conti da pagare e, datoche non sapeva come saldarli - dal suofelice matrimonio non le era rimastonient'altro che quell'appartamento -,bisognava trovare un sistema migliore.Sua nipote, Veza, si incaricò diaffittare la casa e di incassare lapigione mese per mese; provvedeva leia pagare i conti e solo quello cherestava doveva essere consegnato aJohnnie, se ne aveva bisogno. Johnniene aveva sempre bisogno, e la signoraOlga continuava a non ricevere neppureun centesimo. Ma lei non si lagnava,adorava quel figlio. -Mio figlio, ilmusicista diceva sempre di lui, e,poiché in ogni cosa che diceva sisentiva l'impronta della sua fierezza,chi non conosceva Johnnie avrebbepotuto ritenerlo, nonostante il suonome da bar, uno Schubert inincognito.Eravamo contenti di entrare inquella casa; benché ammobiliata daaltri, era pur sempre una casa tutta

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per noi. Avevamo di fronte la visionedella Scheuchzerstrasse e, benché nonsi trattasse di Zurigo, il mioparadiso, eravamo pur sempre a Vienna,il paradiso della mamma. Tornavamo aVienna dopo cinque anni, nel frattempoper me c'era stata -villa Yalta , aZurigo, e per la mamma il sanatorio diArosa in mezzo al bosco, e poi c'erastata la vita di pensione e inflazionea Francoforte. Era ben strano che dopotutto questo potessimo ancoraimmaginare un'esistenza in comunepriva di tensioni. Eppure parlavamotutti, ciascuno a modo suo, come se aVienna dovesse cominciare una nuovaèra di salute, di studio e di pace.Ma c'era un inconveniente, che sichiamava Johnnie Ring. La nostrastanza di soggiorno e sala da pranzoconfinava con il suo stanzino e quandola famiglia, finalmente riunita,sedeva a tavola, la porta si apriva esi affacciava la figura grassoccia diJohnnie, avvolta soltanto in unavecchia vestaglia, che salutando conun -Bacio la mano, gentile signora! ci passava davanti, ciabattando veloceverso la toilette. Era nei patti chepotesse servirsene, ma ci eravamoscordati di escludere l'ora dei pasti,durante i quali ci avrebbe fattopiacere non essere disturbati.Johnnie, invece, giungeva semprepuntualmente non appena avevamoimmerso i cucchiai nella minestra -forse le nostre voci l'avevanosvegliato ricordandogli le suenecessità, o forse, invece, erasoltanto curioso di conoscere ilnostro menu. Infatti non tornavaindietro subito ma faceva in modo diripassare, frusciando, diretto al suostanzino quando nei nostri piattic'era già la pietanza. Era proprio unfruscio, benché Johnnie non fossevestito di seta; quel rumore nascevadal suo modo di muoversi e dallarapida successione di almeno unadozzina di -bacio la mano mi scusigentile signora bacio la mano mi scusibacio la mano mi scusi gentile signorabacio la mano mi scusi . Dovevapassare dietro la sedia della mamma e,con un'agilissima piroetta, siinfilava di stretta misura tra loschienale e il buffet senza maisfiorarla neppure una volta. La mamma,tesissima, si aspettava ogni volta chelui la toccasse con quella sua

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vestaglia bisunta, respiravaprofondamente quando il pericolo erapassato e Johnnie era sparito dietrola porta dello stanzino, e alla fineogni volta ripeteva la stessa frase:-Sia ringraziato Iddio, altrimentiavrei perso l'appetito . Noi cirendevamo conto che quell'uomosuscitava in lei un enorme disgusto,senza sospettarne il vero motivo, euna cosa ci stupiva, il fatto che leirispondesse sempre con grandegentilezza alle sue parole. Nellascelta del saluto- -Bene alzato, signor Ring! -l'ironia non mancava di certo, ma nonera percepibile, il tono erainnocente, gentile, persino affabile.Il sospiro di sollievo quando Johnnieera passato non era mai tanto forteche egli potesse udirlo dietro laporta chiusa dello stanzino; per ilresto, la conversazione proseguivacome se Johnnie non fosse comparsoaffatto.In altri momenti, soprattutto disera, Johnnie coinvolgeva la mamma inuna conversazione cui lei era incapacedi sottrarsi. Cominciava a lodare isuoi tre ragazzi, così bene educati.-E'è una cosa da non credere,gentilissima signora, sono belli comeprincipini! . -I miei figli non sonobelli, signor Ring rispondevaindignata mia madre. -Per un uomo labellezza non conta . -Non lo dica,gentilissima signora, la bellezza è ungrande aiuto! Se sono belli, avrannopiù successo nella vita. Potreiraccontarle tanti episodi! Da noi albar viene il giovane Tisza. Chi eranoi Tisza - non occorre che glielo dica.Vivono ancor oggi in Ungheria. Unapersona incantevole, questo giovaneTisza! E'è una vera bellezza, non èsoltanto carino, ed è un talerubacuori! Li ha tutti ai suoi piedi.Suono per lui tutto ciò che desidera,e ogni volta mi ringrazia, miringrazia in modo speciale per ognipezzo. -Meraviglioso! dice, e miguarda con intenzione. -Lo ha suonatoin modo meraviglioso, caro Johnnie! .Quel che desidera glielo leggo negliocchi. Mi getterei nel fuoco per lui.Dividerei con lui la mia ultimavestaglia! E come mai il giovane Tiszaè così? Educazione, gentilissimasignora, è tutta questione dieducazione. Le buone maniere sono metà

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del buon cuore. E'è la madre che conta.Oh, che fortuna avere una mamma comelei! Chissà se i suoi tre angeli sirendono conto del tesoro chepossiedono in una mamma come lei! Cen'è voluto di tempo prima che ioriuscissi a dire grazie a mia madre.Non che io voglia paragonarmi ai suoitre angeli, gentilissima signora! .-Ma perché li chiama angeli, signorRing? Dica pure birbanti, non mioffendo mica. Non sono sciocchi,questo è vero, ma non è merito loro,mi sono data abbastanza da fare peristruirli . -Vede, gentilissimasignora, vede che ora lo ammette, èlei che si è data da fare! Lei,soltanto lei! Senza di lei senza ilsuo sacrificio, forse sarebberodavvero diventati dei birbanti .-Sacrificio : ecco la parola magicacon cui Johnnie catturava la mamma. Seegli avesse saputo l'importanza cheaveva assunto per lei la parola-sacrificio , e con essa tutti i suoiderivati, certo l'avrebbe usata piùspesso. Da molto tempo la mamma avevacominciato a dire che avevasacrificato la sua vita per noi; eral'unica traccia di religione che lefosse rimasta. Man mano che la suafede nell'esistenza di Dio siaffievoliva, e che in lei la presenzadi Dio si sentiva sempre meno, fino asvanire quasi del tutto, sempre piùaumentava ai suoi occhi l'importanzadel sacrificio. Sacrificarsi non erasoltanto un dovere, era l'atto piùeccelso che potesse compiere un essereumano; ma non per comandamento divino(Dio era troppo lontano peroccuparsene): ciò che contava era ilsacrificio in sé, il sacrificio chederiva dal proprio impulso piùprofondo. Anche nell'estremaconcentrazione di quella parola, ilsacrificio era una realtà complessa edilatata nel tempo, si estendeva perore, per giorni, per anni - ilsacrificio era la vita di tutte le oreche lei non aveva vissuto.Una volta che Johnnie l'avevacatturata con quella parola magica,poteva continuare a parlarle per tuttoil tempo che voleva. La mamma non locongedava, casomai era lui alasciarla, per portare a spassoNerone, il suo cane lupo, oppureperché suonava il campanello cheannunciava una visita. Arrivava un

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giovanotto che spariva con Johnnie econ Nerone nello stanzino e lì restavaper ore, fino a quando non arrivava ilmomento di andare al bar a suonare ilpianoforte. Dallo stanzino nontrapelava il minimo rumore, Nerone,abituato a dormire lì, non abbaiavamai. Non si riusciva a capire seJohnnie e il giovanotto stesseroparlando tra loro. La mamma non sisarebbe mai abbassata sino adorigliare alla porta, che quei dueparlassero era perciò solo una suasupposizione. Nello stanzino nonavrebbe mai gettato neppureun'occhiata (lo evitava come lapeste); tuttavia era davverominuscolo, ci stava un letto o pocopiù, e che ben due persone (una dellequali era il florido Johnnie) e uncane di grossa taglia resistesserocosì allo stretto per tanto temposenza fare il minimo rumore le davaparecchio da pensare. Non diceva mainulla, ma io sentivo quando ci stavapensando. La sua vera preoccupazione,però, era che potessi pensarci io,cosa che a me non veniva neanche inmente, non mi interessava affatto. Unavolta la mamma mi disse: -Credo chequel giovanotto si metta a dormiresotto il letto. Ha sempre un'aria cosìpallida e stanca. Forse non ha unastanza propria, e Johnnie, percompassione, lo lascia dormire un paiod'ore sotto il letto . -E perché nonsopra? dissi io in tutta innocenza.-Pensi che Johnnie sia troppo grasso enon ci sia posto per tutti e due? .-Ho detto sotto il letto rispose lamamma, e lanciandomi un'occhiatapenetrante aggiunse: -Che strane ideeti vengono in mente? . A me non venivain mente proprio nulla, ma lei, adogni buon conto, preveniva i mieipensieri confinandoli nello spaziosotto il letto, in modo che sopra cifosse posto per il cane, il cheprobabilmente le sembrava innocuo. Seavesse potuto guardarmi dentro sisarebbe stupita, agli avvenimentidello stanzino non pensavo affatto, neero distolto da un'altra cosa cheriguardava lei; quella sì che misembrava oscena, anche se allora nonavrei adoperato questa parola.A sbrigare i lavori domestici venivain casa tutte le mattine una donna instato di avanzata gravidanza, lasignora Lischka. Si tratteneva oltre

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il pasto di mezzogiorno, per lavare ipiatti, poi se ne tornava a casa sua.Veniva soprattutto per i lavoripesanti: per il bucato e per battere itappeti. -Per i lavori leggeri non neho bisogno, diceva la mamma -li possofare da me . Nel suo stato, nessunovoleva darle lavoro, spiegò la mamma,tutti temevano che, essendo lagravidanza così avanzata, quella donnanon fosse in grado di fare le cose perbene. Ma lei aveva assicurato chelavorava con coscienza, volevasoltanto esser messa alla prova.Allora la mamma, presa da compassione,le aveva permesso di venire. Era statoun rischio, sarebbe stato spiacevolese improvvisamente si fosse sentitamale, o se, addirittura, si fosseverificato il lieto evento - su ciò lamamma, per riguardo alla nostragiovane età, non si esprimeva in modopiù preciso e ci risparmiava ulterioriparticolari. La donna aveva garantitoche mancavano ancora due mesi e che,nel frattempo, poteva ancora eseguirea fondo tutti i lavori di casa. Ifatti dimostrarono che aveva detto laverità, il suo zelo era straordinario.-Potrebbero prenderla a esempio anchele donne non incinte diceva la mamma.Una volta, tornando a casa per ilpranzo, guardai giù in cortile dalpianerottolo delle scale: vidi lasignora Lischka che batteva i tappeti,faceva fatica a non darsi dei colpisul ventre, a ogni colpo si girava conuno strano movimento rotatorio.Sembrava che distogliesse condisprezzo lo sguardo dal tappeto, comese quella vista la disgustasse, comese non volesse vederlo per nessunmotivo. Aveva il viso paonazzo,dall'alto, a quella distanza, sembravaalterato dall'ira, il sudore legrondava sul viso rosso, stava urlandoqualcosa che non capivo. Poichéintorno a lei non vidi nessuno con cuipotesse parlare, pensai che gridandoin quel modo s'incitasse a battere itappeti con più forza.Sconvolto, entrai in casa e domandaialla mamma se aveva visto la signoraLischka giù in cortile. Sarebbe salitasubito in casa, fu la risposta, quelgiorno avrebbe ricevuto anche ilpranzo, nei giorni in cui batteva itappeti riceveva anche il pranzo. Percontratto la mamma non era affattotenuta a darle da mangiare (-per

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contratto disse la mamma), ma quelladonna le faceva davvero una gran pena.La signora Lischka le aveva detto cheera abituata a non mangiare niente pertutto il giorno, si cucinava qualcosala sera tornando a casa. Ma la mammanon aveva cuore di vederla lavoraredigiuna e nei giorni in cui batteva itappeti le dava anche il pranzo. Leiera sempre così contenta che batteva itappeti con un impegno tutto speciale.Quando tornava su con i tappeti eratutta in sudore, e in cucina non sipoteva resistere per la puzza; perciòin quei giorni la mamma serviva leistessa il pranzo e lasciava la signoraLischka in cucina con la sua fame. Ledava un piatto pieno fino all'orlo, unpiatto enorme, nessuno di noi, diceva,neppure Georg, che era il più piccolo,riusciva a mangiare così tanto. Pocodopo era sparito tutto, forse lasignora Lischka un po' di cibo lometteva in un pacchetto per portarseloa casa nella borsa. Davanti a leila , signora , non mangiava mai, pensavache non stesse bene. Parlammo di tuttoquesto a tavola. Io domandai perché lasignora Lischka non ricevesse ilpranzo tutti i giorni. La mammarispose che anche quando faceva ilbucato riceveva qualcosa, un po' meno,però. Ma nei giorni in cui il lavoroera leggero, allora no, per contrattolei non era tenuta a darle nulla, delresto la signora Lischka erariconoscente per quello che riceveva,più riconoscente di me, in ogni caso.Di -riconoscenza si parlava spesso;quando, indignato per qualcosa,criticavo la mamma, lei era subitopronta ad accusarmi d'ingratitudine.Una discussione pacata fra noi eraimpossibile. Io dicevo senza riguardiquel che pensavo, ma soltanto quandoero in collera, perciò le mie paroleavevano sempre un tono offensivo. Leisi difendeva come meglio poteva.Quando si sentiva con le spalle almuro ritornava ai sacrifici che facevaper noi da ben dodici anni e mirimproverava di non dimostrare laminima riconoscenza nei suoi riguardi.I suoi pensieri erano rivolti allostanzino sovrappopolato del nostroappartamento, e al pericolo che quellapromiscuità poteva rappresentare pernoi; parlava apertamente soltantodella pigrizia di Johnnie, del cattivoesempio dato da un uomo adulto che o

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se ne sta sdraiato sul letto tutto ilsanto giorno, oppure gironzola per lacasa seminudo con addosso una luridavestaglia, ma, dentro di sé, pensava aogni sorta di vizi e depravazioni dicui io non sospettavo nulla. I mieipensieri, invece, erano rivolti allacucina nella quale si trovava lasignora Lischka, che ci era grataperché qualche volta riceveva unpiatto di minestra, tanto che quandomi incontrava non mancava mai diproclamare con voce piena di gioia:-Avete proprio una buona mamma! e,per rafforzare le sue parole, scuotevavigorosamente il capo. La signoraLischka rappresentava per la mamma eper me un'occasione permanente perconfermarci nelle nostre idee: allamamma riconfermava il suo buon cuore,perché, senza esservi tenuta -percontratto , ogni tanto le dava damangiare, e in me riconfermava uncerto senso delle convenienze, che mifaceva sentire come una colpa il fattoche la signora Lischka lavorasse danoi in quelle condizioni. Era unaspecie di torneodell'autocompiacimento nel quale cigettavamo come due instancabilicavalieri. Data l'energia cheimpiegavamo in quelle tenzoni, avremmopotuto battere tutti i tappeti delcaseggiato, e di sicuro ce ne sarebbeancora avanzata per lavare labiancheria. Ma era una questione diprincipio, di questo eravamo entrambiconvinti: il principio dellariconoscenza, pensava lei, dellagiustizia, pensavo io.Fu così che in casa nostra entrò ladiffidenza. Per la mamma era un maleche in casa ci fosse quel segreto, lostanzino sovrappopolato di Johnnie,mentre io ero preso da un senso dispavento per la presenza di quelladonna in stato di avanzata gravidanzache si arrabattava in cortile o incucina. Avevo sempre paura che non cela facesse, tutto a un tratto avremmosentito strillare, saremmo accorsi incucina e l'avremmo vista per terra inun lago di sangue. Gli urli,m'immaginavo, erano quelli delneonato, e la signora Lischka lavedevo già morta.Il dono.Non ricordo un anno più opprimentedi quello che passammo tutti insiemenella Radetzkystrasse, pigiati in quel

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piccolo appartamento.Appena entrato in casa, mi sentivoosservato. Non andava mai bene nientedi quello che facevo o dicevo. Tuttoera così vicino, la stanzetta da lettoe di studio nella quale cercavo dirifugiarmi il più in fretta possibileera posta fra il soggiorno comune e lacamera da letto della mamma e dei mieifratelli. Impossibile sgattaiolarvidentro senza esser visto, e così tuttele volte, appena tornavo a casa,cominciavano i saluti e le spiegazioniin soggiorno. Era un verointerrogatorio, e anche se nonarrivavano subito le accuse vere eproprie, già le domande tradivanosfiducia. Ero stato in laboratorio oero andato a sentire qualche lezione,tanto per perder tempo?A domande di quel genere mi eroesposto da solo con la mia loquacità.Ero abituato a parlare soprattuttodelle lezioni che trattavano argomentinon troppo lontani dalla comunecapacità di comprensione. La storiad'Europa dopo la Rivoluzione franceserisultava a chiunque più accessibileche non la fisiologia delle piante ola chimicafisica. Anche se nonparlavo della chimicafisica, ciò nonsignificava che non mi ci dedicassicon sufficiente impegno. Ma una cosasola contava, quello che dicevo, e lemie stesse parole mi venivano ritortecontro come capi d'accusa: mi occupavopiù del Congresso di Vienna chedell'acido solforico! -In questo modoti disperdi, era la formula -così nonandrai mai avanti .-Devo andare a sentire quellelezioni, rispondevo io -altrimentisoffoco. Non posso mica lasciarperdere tutto ciò che mi interessa sulserio solo perché studio una materiache non mi va giù .-Già, ma perché non ti va giù? Faidi tutto per prepararti a nonesercitare nessuna professione. Haipaura che da un momento all'altro lachimica possa cominciare ainteressarti. Eppure è una professioneche ha un grande avvenire - ma tu seiprevenuto e ti chiudi a doppiamandata. Non sporcarsi le mani, percarità! L'unica cosa pulita sono ilibri. Vai a sentire tutte le lezionipossibili e immaginabili solo perleggere altri libri. E'è una cosa chenon ha fine. Non hai ancora capito

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come sei fatto? Hai già cominciato dabambino. Per ogni libro da cui impariuna cosa nuova hai bisogno di altridieci libri per saperne ancora di più.Una lezione che ti interessa è unanuova lista. L'argomento tiinteresserà sempre più. La filosofiadei Presocratici! Benissimo, dovraifarci su un esame. Non c'è niente dafare. Prendi appunti, hai già riempitoquaderni su quaderni, a che ti servonoi libri che vorresti leggere in più?Credi che non sappia tutto quello chehai già scritto sulla tua lista? Sonospese che non possiamo affrontare. Eanche se potessimo, per te sarebbe unmale. Continuerebbero ad attirartisempre più e ti distoglierebbero daltuo compito principale. Tu stesso diciche in questo campo Gomperz è moltoconosciuto, non hai detto che già suopadre era famoso per il suo libro suiPensatori greci? .-Sì, la interruppi -è un'opera intre volumi, mi piacerebbe leggerli,vorrei proprio averli .-Ecco, mi basta nominare il padredel tuo professore, e subito tu mettiin programma la lettura di un'operascientifica in tre volumi! Nonpenserai che te la regali davvero! Tidovrai accontentare del figlio. Prendiappunti e studia sui tuoi quaderni .-Va troppo per le lunghe. Ci mettetanto di quel tempo, tu sapessi.Vorrei leggere più avanti, non possoaspettare che Gomperz arrivi aPitagora, già adesso vorrei saperequalcosa su Empedocle e su Eraclito .-Di autori antichi ne hai già lettimoltissimi a Francoforte. A quantopare erano sempre quelli sbagliati.Dappertutto trovavo in giro queilibracci che sembravano tutti uguali.Come mai non hai letto anche ifilosofi greci? Fin da allora tiinteressavi a certe cose che poi inseguito non hai saputo utilizzare .-Allora i filosofi non mi piacevano.Da Platone mi teneva lontano la teoriadelle idee, che riduce il mondo a puraapparenza. Aristotele non l'ho maipotuto soffrire. E'è il filosofoonnisciente che vuole incasellaretutto. Con lui hai l'impressione diesser imprigionato in un'infinità dicassetti. Se allora avessi saputodell'esistenza dei Presocratici,credimi pure, li avrei letti parolaper parola. Ma nessuno me ne aveva mai

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parlato. Tutto cominciava con Socrate,era come se prima di Socrate nessunoal mondo avesse mai pensato. E devisapere che Socrate non mi è maipiaciuto molto. Forse evitavo i grandifilosofi perché erano suoi discepoli .-Devo proprio dirti come mai non tipiaceva? . Avrei preferito che non melo dicesse. Anche sulle cose di cuinon s'intendeva, la mamma aveva sempreun'opinione personalissima; sapevo chenon poteva aver ragione, eppure quelloche diceva mi colpiva ogni volta e sidepositava come una nebbia sulle coseche amavo. Sentivo che cercavadeliberatamente di rovinarmi il gustodi quelle letture, solo perché pensavache mi avrebbero fuorviato. Ero sempresul punto di entusiasmarmi per le cosepiù diverse, e questo, data la miaetà, la mamma lo trovava ridicolo epoco virile. Era il rimprovero chesentivo più spesso sulle sue labbraall'epoca della Radetzkystrasse.-Socrate non ti piace perché ètroppo ragionevole, parte sempre dallavita di ogni giorno, ha i piedi perterra, parla volentieri del lavoromanuale .-Non era però certo un granlavoratore. Parlava tutto il giorno .-Per questo non lo potete soffrire,proprio voi che non aprite mai bocca!Oh, come vi capisco! . Eccolo di nuovol'antico sarcasmo che avevo conosciutocosì presto, quando la mamma miinsegnava il tedesco. -Certo, vorrestiessere soltanto tu a parlare, e haipaura della gente come Socrate, cheesamina per filo e per segno quel cheuno dice e non chiude un occhio suniente .Era apodittica come un Presocratico;chissà che il mio amore per iPresocratici, che cominciavo aconoscere soltanto ora, non dipendesseproprio dal suo modo di essere, ormaidiventato parte di me. Con quantasicurezza esprimeva sempre le sueopinioni! Ma si possono ancorachiamare opinioni? Ogni frase che miamadre pronunciava aveva la forza di unarticolo di fede: ogni proposizioneesprimeva una certezza. Non conoscevail dubbio; non su di sé, almeno. Maforse era meglio così; il dubbio, sel'avesse conosciuto, avrebbe avuto lastessa forza delle sue asserzioni, ecosì avrebbe dubitato di sé in ognifibra, sino a farsi a pezzi.

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Poiché mi sentivo con le spalle almuro, attaccavo in tutte le direzioni.Ricacciato con le spalle al muro,attingevo dalla resistenza che sentivoin me la forza di attaccare di nuovo.Di notte mi sentivo solo; i mieifratelli, che davano man forte allamamma, sottolineando con le loromaliziose battute le critiche che leimi rivolgeva, dormivano già, e anchela mamma era ormai a letto; cosìfinalmente ero libero, e chiuso nellamia stanzetta sedevo al mio minuscolotavolino per leggere o scrivere,interrompendomi per guardare conaffetto il dorso dei miei libri. Lefile dei miei libri non aumentavanopiù a blocchi interi, come aFrancoforte. Ma la corrente non sidisseccò mai del tutto, di occasioniper ricevere un regalo ce n'eranoancora, e chi avrebbe mai osatoregalarmi qualcosa che non fosse unlibro?La chimica, la fisica, la botanica,e anche la zoologia generale erano lematerie che avevo intenzione distudiare di notte, e il fatto che videdicassi perfino le ore notturne nonera visto dalla mamma come un inutilespreco di energia elettrica. Ma ilibri di studio non restavano aperti alungo, i quaderni universitari neiquali prendevo svogliatamente appuntidurante le lezioni erano ben prestosostituiti dai veri quaderni, dai mieiquaderni, nei quali annotavoscrupolosamente tutti i miei momentidi esaltazione, ma anche i mieitormenti. Prima di addormentarsi, lamamma vedeva ancora filtrare da sottola porta la luce accesa nella miastanza, il rapporto che avevamo nellaScheuchzerstrasse di Zurigo si erainvertito. Lei poteva certo immaginarequel che io stavo facendo al miotavolinetto, ma siccome,ufficialmente, restavo alzato perstudiare, e questo era stato approvatouna volta per tutte, quella miaabitudine doveva accettarla senza dirnulla.La mamma era convinta di dovervigilare sui miei passi in quelperiodo, e per buoni motivi. Non sifidava della chimica: non mi attraevaabbastanza e temeva che alla lunga ilmio interesse sarebbe cessato. Pertener conto delle sue preoccupazionimateriali - benché intuissi che erano

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infondate - io avevo rinunciato astudiare medicina (solo perché eranostudi troppo lunghi) e di questo,certo, la mamma aveva preso atto eapprezzava il -sacrificio implicitoin questa mia decisione. Lei avevasacrificato la sua vita per noi, lemalattie e gli sfinimenti che di tantoin tanto la colpivano dimostravanoquanto le fosse costato quelsacrificio. Era venuto il momento cheanch'io, essendo il primogenito, misacrificassi. Così rinunciai allamedicina, che consideravo unaprofessione disinteressata, unservizio reso all'umanità, perscegliere una professione che tuttoera fuorché disinteressata: il futuro,la mamma lo udiva da ogni parte,apparteneva alla chimica. Ai chimicisi aprivano impieghi promettentinell'industria, la chimica era utile,utilissima, chi riusciva a inserirsiin quel campo guadagnavasplendidamente, e che io mi piegassi ofossi disposto a piegarmi a tantautilità era considerato dalla mamma unsacrificio assai apprezzabile. Masarei davvero andato avanti a studiareper quattro anni? Su questo avevaforti dubbi. Solo a una condizione benprecisa avevo accettato di studiarechimica: a Georg, che dopo i mesitrascorsi insieme nella Praterstrasseamavo più di qualsiasi altra personaal mondo, doveva esser concesso distudiare medicina al posto mio. Gliavevo trasmesso tutto il mioentusiasmo per quella disciplina, edegli non desiderava altro che poterfare un giorno ciò a cui io avevorinunciato per amor suo.I dubbi della mamma eranogiustificati. Io avevo la miainterpretazione della faccenda, il mionon era affatto un sacrificio,perché non mi ero messo a studiarechimica con l'intenzione di diventaresul serio un chimico che guadagnabene. Avevo una prevenzioneinvincibile contro tutte le attivitàesercitate con l'unico scopo di farquattrini e non per un'intimavocazione. Tenevo tranquilla la mammalasciandole credere che un giorno ol'altro mi sarei impiegato comechimico in un'industria. Ma di questonon parlavo mai, mi limitavo atollerare una sua tacita supposizione.Esisteva tra noi una sorta di

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armistizio: io rinunciavo a tutti imiei discorsi sul fatto che solo unaprofessione ispirata da una vocazioneè degna di essere intrapresa e che sipossono apprezzare soltanto leprofessioni più utili agli altri che ase stessi. Lei, in compenso, evitavale descrizioni del futuro dominatodalla chimica. La mamma non avevadimenticato ciò che era accadutodurante la guerra solo pochi anniprima, ricordava bene l'impiego deigas asfissianti, e credo che non lesia stato facile mandar giù questoaspetto della chimica, perché anchenel periodo della disillusione e dellachiusura in se stessa il suo odio perla guerra rimase fortissimo. Cosìtacevamo entrambi sul futuro pocoattraente che mi attendeva in virtùdel mio -sacrificio . La cosaprincipale era che andassi ogni giornoin laboratorio, per abituarmi con untirocinio regolare a un'occupazioneche avrebbe richiesto molta disciplinae certo non avrebbe alimentato né lamia insaziabile avidità di conoscenzené le mie esaltazioni poetiche.La mamma non sospettava che lastessi ingannando sulla natura dellamia impresa. Neppure per un istante miero seriamente proposto di abbracciarela professione del chimico.Frequentavo il laboratorio, cipassavo le ore migliori dellagiornata, facevo quel che mi dicevanodi fare non peggio degli altristudenti; inventai persino unamotivazione per giustificare ai mieiocchi quell'attività. Desideravoancora imparare e far mio tutto ciòche al mondo era degno di essereconosciuto, la mia convinzione che nonsolo ciò fosse desiderabile, ma anchepossibile, era ancora intatta. Nonvedevo limiti da nessuna parte, nénella capacità di assimilazione dellamente umana, né nella mostruosità diuna creatura fatta soltanto delle coseche ha imparato e di quelle che vuoleimparare. Non era ancora mai capitatoche un campo qualsiasi del sapere dame affrontato con impeto e serietà misuscitasse un sentimento difrustrazione. Avevo avuto, certo, deicattivi insegnanti, che non sapevanocomunicare nulla, assolutamente nulla,e per di più riuscivano a ispirarenegli allievi un senso di ripugnanzaper la loro materia. Uno di questi

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insegnanti era stato, a Francoforte,proprio il professore di chimica.Delle sue lezioni non mi era rimastomolto di più delle formule dell'acquae dell'acido solforico; durante quelpaio di esperimenti che ci avevaillustrato i suoi gesti mi riempivanodi disgusto. Era come se davanti a noifosse seduto un bradipo vestito dauomo, che più passavano le ore piùdiventava lento nell'armeggiare allesue apparecchiature. Così, al posto diuna vaga idea della chimica, erarimasta una vera lacuna. Ebbene,questa lacuna si trattava ora dicolmarla, ed era talmente grande che aquesto scopo potevo addiritturastudiare chimica all'università.Non esistono limiti alle possibilitàdi autoinganno. Ricordo bene che miripetevo ogni momento questamotivazione quando, a casa mia, venivoammonito con insistenza a nondedicarmi ad altro, a concentrarmisoltanto sulla chimica. Niente avreiconosciuto tanto a fondo quanto lachimica, di cui non sapevo quasinulla. Questo era il sacrificio concui volevo espiare la mia colpevoleignoranza, mentre la medicina, cuiavevo rinunciato, era il dono chefacevo a mio fratello per dimostrargliil mio amore. Georg era parte di me,insieme avremmo dato fondo a tutto loscibile umano, e allora nulla avrebbepotuto separarci mai più.L'accecamento di Sansone.Fra le accuse che in quell'anno mivenivano rivolte più spesso ce n'erauna che mi dava del filo da torcere:io non sapevo come va il mondo, eroaccecato, non volevo saperlo. Mi eromesso i paraocchi ed ero deciso a nontogliermeli mai. Ero sempre allaricerca delle cose che avevoconosciuto attraverso i libri. Vuoiche mi limitassi a un solo tipo dilibri, vuoi che ne ricavassi le cosesbagliate - fatto sta che ognitentativo di parlare con me di come vail mondo in concreto era condannato alfallimento.-Per te o le cose si pongono sulpiano dei grandi princìpi morali,oppure non ti interessano. La parolalibertà, che ti piace così tanto, inbocca tua è una vera barzelletta. Nonesiste al mondo una persona menolibera di te. Sei incapace di porti difronte a un fatto con animo

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imparziale, senza tirar subito fuoritutti i tuoi pregiudizi, tant'è chealla fine il fatto non si vede più. Equesto, alla tua età, non sarebbe poicosì grave, se non ci fosse questaostinata resistenza, questa tuacaparbietà, il tuo fermo proposito dilasciare le cose come stanno, senzamodificarle di una virgola. Tu ditutto ciò che è sviluppo, maturazionegraduale, miglioramento, e soprattuttosforzo di essere utili agli altri, contutti i tuoi paroloni, non hai davverola più pallida idea. Il male di fondoè il tuo accecamento. Forse avraianche imparato qualcosa da MichaelKohlhaas. Solo che tu non sei un casointeressante. Lui ha pur dovutomettersi a fare qualcosa, a un certopunto. E tu, che cosa fai? .Sì, era vero, non volevo impararecome va il mondo. Avevo la sensazioneche basti guardare e capire qualcosadi riprovevole per diventarnecorresponsabile. Non volevo imparare,se imparare significa esser costrettia percorrere quella via. Eradall'apprendimento per imitazioneche io mi difendevo. Mi difendevo coiparaocchi, in questo la mamma avevaragione. Non appena mi accorgevo chequalcuno mi consigliava qualcosasoltanto perché nel mondo si usavacosì, io m'impuntavo, come se noncapissi quel che la gente pretendevada me. Ma per altre vie arrivavo lostesso vicino alla realtà, molto piùvicino di quanto supponesse la mamma,e forse, a quell'epoca, di quanto iostesso potessi immaginare.Una via verso la realtà, infatti,passa attraverso le immagini. (*) Non(*) Bilder: -immagini ma anche-quadri [N'd'T'].credo che ne esista una migliore. Citeniamo stretti a ciò che non muta ecosì riusciamo a far affiorare ciò chemuta perennemente. Le immagini sonoreti, quel che vi appare è la pescache rimane. Qualcosa scivola via equalcosa va a male, ma uno riprova, lereti le portiamo con noi, le gettiamoe, via via che pescano, diventano piùforti. E'è importante, però, che questeimmagini esistano anche al di fuoridella persona, in lui sono anch'essesoggette al mutamento. Deve esserci unluogo dove uno possa ritrovarleintatte, e non uno solo di noi, machiunque si senta nell'incertezza.

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Quando ci sentiamo sopraffatti dalfuggire dell'esperienza, ci rivolgiamoa un'immagine. Allora l'esperienza siferma, e la guardiamo in faccia.Allora ci acquietiamo nella conoscenzadella realtà, che è nostra, anche sequi era stata prefigurata per noi.Apparentemente, essa potrebbe esistereanche senza di noi. Ma questaapparenza è ingannevole, l'immagine habisogno della nostra esperienza, perdestarsi. Così si spiega che certeimmagini rimangano assopite pergenerazioni: nessuno è stato capace diguardarle con l'esperienza che avrebbepotuto ridestarle.Forte si sente colui che trova leimmagini di cui la sua esperienza habisogno. Saranno molte, ma non possonoessere troppe, perché la loro funzioneconsiste proprio nel tenere insieme larealtà, che altrimenti sidisperderebbe in mille rivoli. Eneanche dovrebbe essere un'unicaimmagine, che fa violenza a chi lapossiede, non lo abbandona e gliimpedisce di trasformarsi. Sono moltele immagini di cui abbiamo bisogno, sevogliamo una vita nostra, e se letroviamo presto, non troppo di noiandrà perduto.Io ho avuto la fortuna di trovarmi aVienna, quando più avevo bisogno diqueste immagini. Contro la falsarealtà con cui mi sentivo minacciato,la realtà della piattezza, dellarigidezza, dell'utile, dell'angustia,dovevo trovare l'altra realtà, che eravasta a sufficienza perché potessidominare anche le sue durezze, senzasoccombere.Capitai davanti ai quadri diBrueghel. Il luogo in cui li vidi perla prima volta non era la vera sede diquelle meraviglie, ilKunsthistorisches Museum. Fra unalezione e l'altra all'Istituto diFisica o di Chimica trovavo il tempodi fare una capatina a palazzoLiechtenstein. Dalla Boltzmanngassescendevo in quattro salti la scalinatadello Strudlhof, e subito mi trovavoin quella meravigliosa pinacoteca, cheoggi non esiste più. Fu là che vidi imiei primi Brueghel. Che importa seerano delle copie? Vorrei propriovedere l'uomo imperturbabile, senzasensi e senza nervi, che trovandosiimprovvisamente di fronte a queiquadri si domandasse: saranno copie o

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originali? Se anche fossero statecopie di copie, io non ci avreiproprio fatto caso, perché erano Laparabola dei ciechi e Il trionfodella morte. Tutti i ciechi che hovisto in seguito sono usciti dal primodi quei due quadri.L'idea della cecità mi perseguitavasin da quando, nei primi annidell'infanzia, mi ero preso ilmorbillo e per qualche giorno avevoperso la vista. Ed ecco ora sei uominiciechi, in una fila storta, che sitengono uniti gli uni agli altri peril bastone o per la spalla. Il primo,che li guida, è già finito nelfossato, il secondo, che sta percadergli addosso, ha la faccia rivoltaverso lo spettatore: le orbite sonovuote e la bocca, aperta per lospavento, scopre i denti. Tra lui e ilterzo la distanza è maggiore che tragli altri, entrambi stringono ancorasaldamente nella mano il bastone cheli unisce, ma il terzo ha avvertitouno scarto, un movimento incerto, edesitando appena si sta alzando sullapunta dei piedi, il suo volto, che èvisto di profilo - un solo occhiocieco -, non tradisce paura ma unaccenno di domanda, mentre dietro dilui il quarto, che è ancora fiducioso,appoggia la mano sulla sua spalla e hail viso rivolto in su, verso il cielo.La bocca è spalancata, come se in essaegli sperasse di ricevere dall'altoqualcosa che agli occhi non èconcesso. Il lungo bastone nella manodestra è soltanto suo, ma egli non visi appoggia. Di tutti e sei è quellocon la fede più salda, è fiduciososino al rosso delle calze, e gliultimi due, dietro di lui, seguonodevotamente i suoi passi, ognunoricalcando le orme di quello che loprecede. Anch'essi hanno la boccaaperta, di meno, però, il fossato èlontano, non si aspettano e non temononulla e non hanno domande da fare. Setutto non dipendesse a tal punto daquegli occhi ciechi, ci sarebbequalcosa da dire sulle dita dei sei,che afferrano e toccano in mododiverso da coloro che vedono; e anchei piedi sentono il terreno in manieradiversa.Quest'unico quadro sarebbe bastatoper riempire una pinacoteca, ma subitodopo mi trovai inaspettatamentedavanti - sento ancora oggi lo shock -

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Il trionfo della morte. Centinaiadi morti, di scheletri, attivissimischeletri, sono occupati a trascinarecon sé un numero altrettanto grande diuomini vivi: sono figure d'ognigenere, in massa o isolate,riconoscibili per ceto sociale, tesein uno sforzo inaudito; la loroenergia supera di molto quella deiviventi che stanno attaccando.Sappiamo che i morti vinceranno, maancora non hanno vinto. Si sta dallaparte dei vivi, si vorrebbe aiutarli adifendersi, ma si rimane sconvolti nelvedere che i morti sembrano più vividi loro. La vitalità dei morti, secosì vogliamo chiamarla, ha un unicoscopo: afferrare i vivi e portarli viacon sé. I morti non si distraggono,non si disperdono in iniziativediverse, vogliono tutti un'unica cosa,quella soltanto; i vivi, invece, sonoattaccati alla propria esistenza, maciascuno a modo suo. Tutti si agitano,nessuno si arrende, in quel quadro nonho trovato un solo uomo stanco divivere, la vita va strappata a tutticon la forza, nessuno è disposto acederla spontaneamente. L'energia diquesta difesa, variata in cento modi,è passata dentro di me, da allora misono spesso sentito come se fossi iotutti quegli uomini che lottano controla morte.Capivo che si trattava di massa, dauna parte come dall'altra, e che, perquanto il singolo senta la propriamorte da solo, la stessa cosa vale perogni altro singolo, e perciò si devepensare a essi tutti.Qui, è vero, la morte ancoratrionfa; ma l'effetto non è quello diuna battaglia che ormai è vinta unavolta per tutte; la battagliacontinua, si rinnova sempre, e, se laviviamo come in questo quadro, nonsaremo affatto sicuri che l'esito saràsempre lo stesso. Il trionfo dellamorte di Brueghel è stata la primacosa che mi ha dato fiducia nella mialotta. Ogni altro Brueghel che ho poivisto al Kunsthistorisches Museum viha aggiunto un nuovo pezzo di realtà,e ogni volta è stato un dono, un donoperenne. Sono stato centinaia di voltedavanti a ogni quadro di Brueghel, liconosco tutti come le persone che misono più care, e fra i libri che avevoprogettato e che mi rimprovero di nonaver portato a termine ce n'è anche

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uno che contiene tutte le mieesperienze con Brueghel.Ma non furono questi i primi quadriche andai a cercare. A Francoforte,per arrivare allo St�delschesKunstinstitut, si deve attraversare ilMeno. Contemplavo il fiume e la città,e poi respiravo profondamente, pertrovare il coraggio di affrontare lacosa terribile che mi attendeva.Sansone accecato dai Filistei, ilgrande quadro di Rembrandt, mispaventava, mi torturava em'incatenava lì. Vedevo quella scenacome se si stesse svolgendo sotto imiei occhi: e poiché raffiguraval'attimo in cui Sansone è privatodella vista, essere testimoni in quelcaso era davvero raccapricciante.Davanti ai ciechi avevo sempre sentitoun particolare malessere, e non liavevo mai fissati a lungo, puressendone affascinato. Poiché nonpotevano vedermi, davanti a loro misentivo in colpa. Ma qui non eraraffigurata la loro condizione, lacecità, bensì l'accecamento.Ecco Sansone disteso, il petto nudo,la camicia tirata giù, il piede destrosollevato di sbieco a mezz'aria, ledita rattrappite da un dolore folle.Un soldato con elmo e corazza, chinosu di lui, gli ha piantato il ferronell'occhio destro, il sangue glisprizza sulla fronte, i capelli diSansone sono tagliati corti, sotto dilui c'è un soldato che gli tiene fermala testa contro il ferro. Un altroscherano occupa la parte sinistra delquadro. E'è piantato a gambe larghe,piegato su Sansone, e impugna contutte e due le mani l'alabarda,puntandola verso l'occhio sinistro diSansone, che rimane spasmodicamentechiuso. L'alabarda attraversa metà delquadro, è la minaccia dell'accecamentoche sarà ripetuto. Sansone ha dueocchi come tutti, ma dello sgherro cheimpugna l'alabarda si vede un occhiosoltanto; quell'occhio, fissando ilvolto imbrattato di sangue di Sansone,è tutto concentrato nel compimentodell'opera.La luce, che scaturisce da un puntoesterno al gruppo in cui tutto accade,investe Sansone in pieno. E'èimpossibile distogliere lo sguardo,l'accecamento non è ancora ma staper diventare cecità, non ci si puòaspettare clemenza o misericordia.

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L'accecamento vuol essere visto, e chilo ha visto una volta sa per sempreche cosa vuol dire, e dovunque sitrovi continua a vederlo. Ci sono dueocchi, nel quadro, che sono fissisull'accecamento, non lo lasciano unistante, sono gli occhi di Dalila chefugge trionfante, in una mano leforbici, nell'altra i capelli recisidi Sansone. Ha paura dell'uomo di cuistringe i capelli? Vuole sfuggire aquell'unico occhio che a Sansone èrimasto, sia pure per poco? Dalilaguarda indietro verso Sansone, sul suovolto si legge l'odio e la tensioneomicida, su di esso cade copiosa laluce, proprio come sul voltodell'accecato. La bocca di Dalila èsemiaperta: -I Filistei ti sonoaddosso, Sansone! ha appena gridato.Sansone capisce la lingua di Dalila?Comprende certo la parola Filistei, ilnome della gente di lei, la stessagente che egli ha vinto e ucciso. Frala prima mutilazione e la secondaDalila guarda ancora verso di lui, nonrisparmierà l'occhio rimasto, nongriderà -Grazia! , non si getteràdavanti al coltello, non ricoprirà ilvolto di Sansone con i capelli chetiene in mano per restituirgli laforza di un tempo. Che cosa stafissando il suo sguardo rivoltoindietro? L'occhio accecato e quelloche sta per esserlo. E'è in attesa cheil ferro colpisca ancora. La volontàdi Dalila muove l'intera scena. Gliuomini con la corazza, l'uomo conl'alabarda sono i suoi scherani.Dalila ha privato Sansone della suaforza, Dalila tiene in pugno la forzadi Sansone e lo odia e lo teme ancora,e fintanto che pensa al suoaccecamento continuerà a odiarlo, eper questo, per odiarlo sempre, cipenserà in eterno.Questo quadro, di fronte al quale hosostato tante volte, mi ha insegnatoche cos'è l'odio. Lo avevo provatomolto presto, l'odio, assai troppopresto, a cinque anni, quando volevouccidere con la scure la mia compagnadi giochi. Ma questo non significaancora sapere ciò che si è provato,per riconoscerlo occorre che essoappaia davanti ai nostri occhi, ma inaltri. Reale diventa soltanto ciò chericonosciamo perché già lo abbiamovissuto. Prima esso giace in noi,senza che possiamo nominarlo, poi

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improvvisamente si erge come immagine,e allora ciò che è accaduto agli altriprende corpo in noi come ricordo: oraè reale.Prime glorie intellettuali.I giovani che frequentavo avevanouna cosa in comune, anche se per tuttoil resto erano assai diversi tra loro:si interessavano soltanto a questioniintellettuali. Sapevano perfettamentetutto ciò che c'era scritto suigiornali, ma si emozionavano soltantoquando parlavano di libri. Alcunilibri, pochi, erano al centrodell'attenzione, sarebbe statoriprovevole non conoscerli. Tuttavianon si può dire che i nostri discorsiripetessero, in qualsiasi forma,un'opinione corrente o dominante;ciascuno leggeva quei libri per contosuo, ne recitava dei passi di fronteagli altri, ne citava lunghi brani amemoria. Le critiche non solo eranoammesse, ma anzi desiderate, ci sisforzava di scoprire i punti deboliche potessero far vacillare lapubblica reputazione di un libro; esviscerando con passione ciascuno diquei punti, grande importanza venivaattribuita alla logica, alla prontezzae all'arguzia. A parte tutto ciò cheera stato stabilito una volta pertutte da Karl Kraus, nulla eraincrollabile, e anzi ci piacevamoltissimo trovar da ridire su tuttele opinioni che con troppa facilità erapidità avevano avuto successo.I libri che contavano davvero eranoquelli che lasciavano più spazio alladiscussione. I tempi della massimainfluenza di Spengler, dei quali erostato testimone alle tavolate dellapensione di Francoforte, sembravanoormai lontani; o forse a Viennal'influenza di Spengler non era maistata altrettanto decisiva. Tuttavia,una nota di pessimismo era presenteinconfondibilmente anche qui. Sessoe carattere di Otto Weininger -benché apparso ormai da vent'anni -entrava ancora in ogni discussione.Tutti i libri pacifisti che avevoamato a Zurigo, durante la guerra,erano ormai messi in ombra da Gliultimi giorni dell'umanità. Laletteratura del decadentismo noncontava più nulla. Hermann Bahr eraormai fuori gioco, aveva recitatotroppe parti, in nessuna delle quali,ormai, veniva più preso sul serio.

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L'atteggiamento che gli scrittoriavevano tenuto nei confronti dellaguerra, e soprattutto durante laguerra, influiva in modo decisivo sulloro prestigio. Il nome di Schnitzler,per esempio, non veniva attaccato, purnon essendo Schnitzler particolarmenteattuale, nessuno si permetteva dideriderlo, perché egli - a differenzadi tanti altri - non si era maipiegato alla propaganda bellica. Nonera certo un momento favorevole per laVecchia Austria. La monarchia, or oraandata in pezzi, era ormai screditata,e monarchiche, mi dicevano, eranorimaste soltanto le beghine. Dellamutilazione dell'Austria e dellastrana sopravvivenza di Vienna - unacapitale ormai troppo grande - comeuna sorta di -idrocefalo erano tuttiben consapevoli. Ma non per questo sirinunciava alle pretese intellettualidi una vera metropoli. La gentes'interessava ancora a tutto ciò cheaccadeva nel mondo, proprio come se ilmondo fosse in trepida attesa di quelche si pensava a Vienna, e restavafedele al gusto tipicamente viennese,alle tradizioni viennesi, soprattuttoin campo musicale. Che si fosseportati o no per la musica, aiconcerti si andava lo stesso, anchenei posti in piedi. Il culto di GustavMahler, che nel resto del mondo eraancora relativamente sconosciuto comecompositore, a Vienna aveva giàraggiunto un suo primo apice: la suagrandezza era incontestata.Non c'era quasi conversazione nellaquale non venisse fuori il nome diFreud, un nome non meno compatto diquello di Karl Kraus, con quel cupodittongo e la -d finale, ma certo piùattraente quanto a significato. (*)Erano allora in circolazione tutta unaserie di nomi monosillabici, chesarebbero bastati per le esigenze piùdiverse, ma Freud era un casoparticolare: alcune parole da luicreate erano già entrate nell'usocomune. Dai personaggi più autorevolidel mondo universitario era ancorasdegnosamente ignorato. Ma gli attimancati, in compenso, erano diventatiuna specie di gioco di società. Perpoter usare spesso quel termine cosìamato, la gente li produceva in serie;in ogni conversazione, per quantoassai animata e apparentemente del(*) Freude: -gioia , Kraus:

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-crespo , -irto [N'd'T'].tutto spontanea, lo si potevaindovinare sulla bocca del propriointerlocutore: ora viene un attomancato. E subito dopo l'atto mancatoera lì materializzato, e si potevaprocedere compiaciuti alla suaspiegazione, svelando quali processil'avevano generato; in quel modo sipoteva parlare di sé all'infinito,senza stancarsi né dare l'impressioned'insistere in modo inopportuno sulleproprie faccende private: si stavaanzi contribuendo a chiarire unfenomeno di interesse generale, anzidi interesse scientifico.Comunque, me ne accorsi ben presto,questa era la parte più illuminantedella dottrina freudiana. Quando siparlava di atti mancati, non avevo maila sensazione che qualcosa venissefatto rientrare a tutti i costi in unoschema preordinato e sempre uguale ase stesso, che, perciò, veniva prestoa noia. E poi i suoi atti mancaticiascuno li inventava a modo suo.Capitavano episodi divertenti, qualchevolta sfuggiva persino un vero attomancato che, evidentemente, non erastato programmato. Con i complessi diEdipo, invece, la situazione eradiversa. Sui complessi di Edipo tuttisi accapigliavano, ognuno voleva ilsuo, oppure venivano usati perscagliarsi contro i presenti. Ognivolta che partecipavi a una riunionemondana potevi metterti l'animo inpace: o il tuo complesso di Edipo lomenzionavi da te, oppure trovaviqualcun altro che, dopo avertilanciato un'occhiata impietosa epenetrante, t'inchiodava al tuo Edipo.In un modo o nell'altro a ciascuno(anche ai figli postumi) toccava ilsuo Edipo, e alla fine si ritrovavanotutti ugualmente colpevoli,potenzialmente erano tutti gli amantidella propria madre e gli assassinidel proprio padre, ciascuno,nell'alone mitico di quel nome,diventava un re di Tebe in incognito.Io avevo i miei dubbi sull'interafaccenda, forse perché, sin dabambino, avevo conosciuto una forma digelosia omicida e mi rendevo ben contoche le sue motivazioni erano affattodiverse. Ma anche se uno degliinnumerevoli sostenitori di quellateoria freudiana fosse riuscito apersuadermi che essa era

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universalmente valida, mai e poi maiavrei accettato di chiamarla con quelnome. Sapevo chi era Edipo, avevoletto Sofocle, nessuno mi potevadefraudare dell'inaudita mostruositàdi quel destino. Quando arrivai aVienna, quel destino era stato ridottoa una tiritera che tutti ripetevano,tutti, nessuno escluso, nemmeno il piùaltero spregiatore della plebe sisentiva superiore all'-Edipo freudiano.Bisogna ammettere, tuttavia, cheperdurava ancora l'effetto dellaguerra appena conclusa. Nessuno potevadimenticare le manifestazioni diferocia omicida di cui era statopersonalmente testimone. Molti viavevano partecipato attivamente, eadesso erano tornati. Costoro sapevanobene di quali atrocità erano staticapaci - per obbedire agli ordini - eora si aggrappavano avidamente a tuttele spiegazioni che la psicoanalisimetteva a disposizione riguardo alleloro inclinazioni omicide. La banalitàdella coazione collettiva alla qualesi erano assoggettati si rispecchiavanella banalità di quella spiegazione.Già il solo constatare che chiunquebeneficiasse del complesso edipicodiventava immediatamente un essereinoffensivo faceva davvero uno stranoeffetto. Moltiplicandosi per mille,anche il destino più spaventoso sivolatilizza, si riduce a un granellinodi sabbia. Il mito penetra nell'uomo,lo afferra alla gola, lo scuote. Ma la-legge di natura a cui il mito vieneridotto non è altro che il piffero chelo fa ballare alla sua musichetta.I giovani che frequentavo io nonerano mai stati in guerra. Ma andavanotutti alle pubbliche letture di KarlKraus e conoscevano - a memoria, sipotrebbe dire - Gli ultimi giornidell'umanità. Era questo il loro mododi fare i conti con la guerra, checerto aveva offuscato la lorogiovinezza, e per conoscere la guerraè difficile indicare un metodo piùconcentrato e al tempo stesso piùlegittimo. Così quei giovani avevanosempre la guerra davanti agli occhi, edato che nessuno di loro era scampatoai suoi pericoli e quindi non c'eraragione di volerla dimenticare, ilpensiero della guerra li occupava dicontinuo. Quei giovani non studiavanola struttura psicologica degli uomini

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in quanto massa, la struttura che liaveva spinti ad andare in guerradocilmente, con entusiasmo, e cheancora adesso, parecchi anni dopo lasconfitta, li rendeva - sia pure inmodo diverso - prigionieri dellaguerra. Su queste cose non era statodetto quasi nulla, una teoria diquesti fenomeni ancora non esisteva.Ciò che Freud sosteneva in proposito -come avrei constatato di lì a breve -era del tutto inadeguato. Perciò queigiovani si accontentavano dellapsicologia dei processi individuali,così come Freud la offriva, con quellasua incrollabile sicurezza di sé.Potevo dire qualsiasi cosa sull'enigmadella massa, il mio rompicapo findall'epoca di Francoforte: a queigiovani sembrava impossibile discuterecon me su quel tema, perché mancavanole formule intellettuali per farlo. Ifatti non riconducibili a una formulaper loro non esistevano, non eranoaltro, sicuramente, che una miafantasia, del tutto priva diconsistenza, altrimenti o Freud oKraus ne avrebbero pur parlato, in unmodo o nell'altro.Non c'era nulla, per il momento, chepotesse colmare la lacuna cheavvertivo. Ma non molto tempo dopo,nell'inverno immediatamente successivodel 1924-1925, ebbi l'-illuminazione che determinò tutto il resto della miavita. Devo proprio chiamarla-illuminazione , perché fuun'esperienza legata a una luceparticolare; ciò che mi investìall'improvviso fu un sentimento diviolenta espansione. Camminavo svelto,con insolita energia, in una strada diVienna, camminai per tutto il tempodell'-illuminazione . Non ho maidimenticato quel che mi accadde quellanotte. L'-illuminazione mi è rimastanella memoria come un fattoistantaneo; dopo cinquantacinque anni(tanti ne sono passati esattamente) lasento ancora come qualcosa che in menon si è esaurito. Il contenutointellettuale della mia illuminazioneè così semplice e scarno che il suoeffetto sembrerebbe inspiegabile;eppure da essa ho tratto, come da unarivelazione, la forza per dedicaretrentacinque anni della mia vita e,fra questi, venti anni interi, altentativo di chiarire che cos'èveramente la massa, come il potere

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nasca dalla massa e come, a sua volta,esso agisca sulla massa. Allora non mirendevo conto di quanto la naturadella mia impresa dipendesse dal fattoche a Vienna esisteva un uomo comeFreud: il solo fatto che di lui siparlasse così tanto già significavache ciascuno può giungere da solo,per propria decisione e volontà, aspiegare le cose. Poiché le idee diFreud non mi bastavano (non spiegavanola cosa per me più importante), eroonestamente e ingenuamente convinto didover battere strade diverse, deltutto indipendenti da Freud. Avevobisogno di Freud come avversario,questo mi era chiaro anche allora. Mache lo usassi inoltre come una speciedi modello, nessuno sarebbe riuscito afarmelo accettare.L'illuminazione che ricordo contanta chiarezza ebbe luogo nellaAlserstrasse. Era notte, nel cielo micolpiva il riverbero rosso dellacittà, lo contemplavo guardando inalto. Dato che non facevo attenzione adove mettevo i piedi, incespicailievemente più volte e, proprio mentrestavo incespicando, la testa in su, ilcielo rosso sopra di me (che in realtàcosì non mi piaceva), mi balenòimprovvisamente l'idea che esistesseuna pulsione di massa in perpetuocontrasto con la pulsione dellapersonalità e che tutto il corso dellastoria umana potesse essere spiegatomediante il conflitto fra queste duepulsioni. Magari non sarà stataun'idea nuova; ma per me lo era,perché mi colpì con violenza inaudita.Mi sembrava che tutto ciò che stavacapitando nel mondo si potessericondurre a quel principio. La massaesisteva: l'avevo già constatato aFrancoforte, e a Vienna l'avevosperimentato di nuovo; qualcosacostringeva gli uomini a farsi massa,era un fatto evidente, inconfutabile;poi la massa si scomponeva di nuovonei singoli, questo era altrettantoevidente; e così pure che quei singoliaspiravano a ridiventare massa.Esisteva una tendenza che spingeva gliuomini verso la massa e una tendenzache li allontanava dalla massa, su ciònon avevo dubbi, mi sembravano duetendenze così forti e così cieche chele percepivo come -pulsioni , e cosìle chiamai. Ma che cosa fosse la massain sé, questo non lo sapevo, era un

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enigma che allora mi proposi dirisolvere, mi sembrava l'enigma piùimportante, e comunque quello chesubito risalta nel nostro mondo.Ma come suona fiacco, estenuato,esangue quello che vado dicendo. Hoparlato di -violenza inaudita : fuproprio così, perché l'energia che adun tratto mi pervase mi costrinse acamminare più in fretta, quasi a passodi corsa. Sfrecciai per laAlserstrasse, la percorsi fino allacirconvallazione in tutta la sualunghezza e mi sembrò di averci messoun attimo, avevo un ronzio nelleorecchie, il cielo, immutato, eraancora rosso, come se quel colore glifosse stato assegnato per l'eternità;di nuovo incespicai, ma senza maicadere, inciampare era una parteintegrante di quel mio moto.L'esperienza di un movimento comequello non l'ho avuta mai più, eneanche me la sarei augurata: era unmovimento troppo strano, troppoestraneo a me, molto più rapido delconsueto; era un'estraneità che venivada dentro, ma che io non dominavo.Patriarchi.L'aspetto esotico di Veza lonotavano tutti, ovunque andasse davanell'occhio. Un'andalusa che non eramai stata a Siviglia, ma di Sivigliaparlava come se ci fosse nata ecresciuta. Ciascuno di noi l'aveva giàincontrata nelle Mille e una notte,sin da quando aveva preso in mano quellibro per la prima volta. Nelleminiature persiane era un'immaginefamiliare. Eppure, nonostantequest'ubiquità orientale, non era unafigura di sogno, l'immagine di Vezaera ben definita, il suo aspetto nonsi offuscava, non si dissolveva,manteneva chiari i suoi contorni e lasua luminosità.Alla sua bellezza, che lasciavasenza parole, opponevo una forteresistenza. Giovane e inesperto,appena uscito dall'adolescenza,sgraziato e maldestro, di fronte a leimi sentivo un Calibano, nonostante lamia giovine età, ero goffo, insicuro,dai modi grossolani, incapace però diservirmi in sua presenza di quella cheera forse la mia unica risorsa: laparola; così, prima di incontrarlaprovai a escogitare le ingiurie piùassurde che dovevano servirmi dacorazza contro di lei. -Affettata era

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di tutte la più lieve; -sdolcinata ,mi dicevo, -ricercata , era solo una-principessa che sapeva usare metàdel linguaggio, la metà raffinata, unadonna lontana da tutto ciò che èautentico, spietato, severo einflessibile. Eppure, per confutarequelle accuse, bastava ripensare allalettura del 17 aprile. La sala nonaveva acclamato Karl Kraus per la suaraffinatezza, ma per la sua severità,e durante l'intervallo, quando l'avevoconosciuta, Veza mi era parsa compostae piena di dignità, e non avevacercato alcun pretesto per sottrarsialla seconda parte del programma. Daallora a ogni lettura - ormai non neperdevo una - la cercavo furtivamentecon lo sguardo, e la trovavo sempre.La salutavo da lontano, non avevo maiosato avvicinarmi, ed ero costernatoquando lei non mi notava; ma Veza perlo più rispondeva al mio saluto.Anche là dava nell'occhio, era lafigura più esotica di quell'uditorio.Poiché sedeva sempre in prima fila,certamente Karl Kraus l'aveva notata.Mi sorpresi a domandarmi qualeimpressione ne avesse lui. Nonapplaudiva mai, neppure questo potevaessergli sfuggito. Ogni volta era là,allo stesso posto: un omaggio cuineppure Kraus poteva essereindifferente. Già in quel primo anno,durante il quale, nonostante il suoinvito, non mi arrischiai a farlevisita, provai una crescenteirritazione per quel posto in primafila. Ma poiché non comprendevo da checosa derivasse quella mia irritazione,mi inventavo le ragioni piùstravaganti. Lassù la voce arrivavatroppo forte, non si poteva resisterea quei crescendo improvvisi. Come nonsprofondare sotto terra per il pudoree la vergogna davanti a certipersonaggi degli Ultimi giornidell'umanità? E come faceva quandonon riusciva a frenare le lacrime,ascoltando I tessitori o il ReLear? Come poteva sopportare cheKraus la vedesse piangere? Ma forsevoleva proprio questo! Che fosse fieradell'effetto che su di lei avevano leparole di Kraus? Era un atto diadulazione mettersi a piangere davantia tutti? Eppure, di questo ero sicuro,non era affatto una donna sfacciata,avevo anzi l'impressione che fosseestremamente pudica, più di chiunque

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altro; e invece, davanti a Karl Kraus,ostentava ogni suo sentimento, ognisua reazione a quel che aveva appenaudito. Al termine della lettura, Vezanon si avvicinava al podio; mentremolti cercavano di farsi avanti, leino, restava in piedi e guardava,nient'altro. Anch'io, dopo le letture,ero sempre talmente scosso e turbatoche rimanevo nella sala ancora per unbel po' e applaudivo in piedi, finchémi dolevano le mani. In quello statola perdevo di vista, senza i suoicapelli nerissimi, quasi blu, e quellanitida scriminatura non sarei riuscitoa ritrovarla. Finita la lettura, Vezanon faceva nulla in cui io potessicogliere una mancanza di dignità. Nonrestava nella sala più a lungo ditanti altri, e quando Kraus veniva afare l'inchino, Veza non era fra gliultimissimi.Forse ciò che cercavo era proprio lasua approvazione; dopo ognuna diquelle letture, che si trattasse deiTessitori, del Timone o degliUltimi giorni dell'umanità,l'eccitazione durava a lungo, leletture di Kraus erano i momenticulminanti della mia esistenza. Vivevonella trepida attesa di quei momenti,ciò che mi accadeva nel frattempogiaceva in un mondo profano. In salame ne stavo da solo, non parlavo connessuno, e facevo in modo di esseresolo anche nel momento di lasciare lasala. Osservavo Veza per evitarla, nonsapevo quanto grande fosse il miodesiderio di sedere al suo fianco.Finché lei stava in prima fila, sottogli occhi di tutti, mi sarebbe statocomunque assolutamente impossibile.Ero geloso del dio che mi riempivatutto; benché dinanzi a lui noncercassi affatto di chiudermi, innessuna parte di me, benché ogni porodella mia pelle fosse aperto per lui,non volevo concedergli quella esoticacreatura coi capelli neri e la riga inmezzo, che sempre gli sedeva cosìvicino e rideva e piangeva per lui,piegandosi sotto il turbine della suaeloquenza. Avrei voluto star sedutoaccanto a lei, ma non lì davanti,soltanto dove il dio non potessevederla, e noi due, io e lei,potessimo raccontarci con gli sguardil'effetto che ci facevano le sueparole.Sin da quel periodo, quando ancora

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mi aggrappavo all'orgogliosarisoluzione di non andare a trovarla,ero geloso di Veza e non sospettavoaffatto che stavo radunando le mieforze per rapirla al dio. A casa misembrava di soffocare sotto lepersecuzioni della mamma, provocatedal mio comportamento; ma intantovedevo davanti a me l'istante in cuiavrei suonato alla porta di Veza.Ricacciavo quel pensiero lontano da mecome un oggetto, ma esso mi venivaancora più vicino. Per non cedere, mimettevo a pensare agliAsriel, e al diluvio di chiacchiere chemi avrebbe investito. -Com'è andata?Che cosa ha detto? Proprio comepensavo! Quello non le piace. E'ènaturale . Sentivo già gli ammonimentidella mamma, che sarebbe venuta asapere tutto in un baleno. Nelledomande e nelle risposte che andavoimmaginando anticipai quel che poiaccadde davvero. Mentre continuavo aevitare scrupolosamente di avvicinarmia Veza e non riuscivo a escogitarenulla da dirle che non fosse o troppogrossolano o troppo insulso, già mifiguravo tutti i discorsi maligni eodiosi che in seguito avrei sentitosul suo conto nella nostra casa.Avevo sempre saputo, a dispetto deidivieti che mi ero imposto, che ungiorno o l'altro sarei andato atrovarla, e ogni volta che la vedevoalle conferenze di Kraus mi sentivorafforzato in questa consapevolezza.Ma quando accadde davvero, in unpomeriggio libero, era passato più diun anno dal giorno del suo invito.Nessuno lo venne a sapere, i mieipieditrovarono da soli la via per laFerdinandstrasse, io mi rompevo la testa pertrovare una spiegazione plausibile,che non suonasse né immatura néservile. Le sarebbe piaciuto essereinglese, aveva detto, che cosa potevaesserci di più naturale, quindi, chefarle qualche domanda sullaletteratura inglese? Avevo ascoltatoda poco il Re Lear, una delleletture più grandiose di Karl Kraus;di tutti i drammi di Shakespeare eraquello che mi faceva pensare di più.Non riuscivo a liberarmi dall'immaginedel vecchio nella landa. Veza, disicuro, lo sapeva tutto in inglese.C'era qualcosa nel Re Lear a cui nonpotevo rassegnarmi. Di questo volevo

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parlarle.Quando suonai, Veza mi aprìpersonalmente e mi salutò come se mistesse aspettando. L'avevo vista pochigiorni prima alla lettura, nella salamedia del Konzerthaus. Per caso, cosìpensavo io, le ero finito vicino ealla fine anch'io ero balzato in piediapplaudendo freneticamente. Mi erocomportato come un invasato, avevoalzato le braccia e battendo le maniavevo gridato -Evviva! Evviva KarlKraus! . Non la finivo più, nessuno lafiniva più, abbassai le mani soltantoquando cominciarono a farmi male eaccanto a me notai una persona che sene stava là come in trance, senzaapplaudire. Era lei, ma non sapevo sesi era accorta di me.Attraverso il corridoio buio micondusse nella sua stanza, dove fuiaccolto da una calda, luminosaatmosfera. Mi sedetti fra quadri elibri, ma senza osservarli con moltaattenzione, perché lei si mise altavolo, di fronte a me, e disse: -Leinon mi ha notato. Ero al Lear . Ledissi che l'avevo notata benissimo:perciò ero venuto a trovarla. Poi ledomandai perché Lear, alla fine,dovesse morire. Era vecchissimo,certo, aveva patito enormemente,sofferenze atroci, eppure avreipreferito uscire dalla sala con l'ideache egli avesse superato tutto evivesse ancora. Lear doveva vivere persempre. Se in un dramma moriva unaltro eroe, un giovane, ero pronto adaccettarlo, soprattutto se era uno diquei tanti smargiassi o attaccabrigheche di solito, appunto, son chiamatieroi; ad essi concedevo di buon gradola morte: la loro fama era propriodovuta al fatto che avevano dispensatola morte a piene mani. Ma Lear, cheera già così vecchio, doveva diventareancora più vecchio. Non si sarebbe maidovuto sapere che moriva. In queldramma c'erano già tanti morti. Almenoun personaggio doveva restare in vitae questi era lui.-Perché proprio lui? Non meritafinalmente il riposo? .-La morte è un castigo. Lear meritadi vivere .-Proprio il più vecchio? Il piùvecchio deve vivere ancora? Mentretanti giovani l'hanno preceduto nellamorte, e sono stati defraudati dellavita? .

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-Quando muore il più vecchio muorepiù vita. Muoiono tutti i suoi anni.Ciò che si perde con lui è molto dipiù .-Allora lei vorrebbe che certa gentevivesse quanto i patriarchi dellaBibbia? .-Sì! Sì! Lei no? .-No. Potrei fargliene vedere uno.Abita due porte più in là. Può anchedarsi che si faccia vivo mentre lei èancora qui .-Lei sta alludendo al suo patrigno.Ne ho sentito parlare .-Non può aver sentito nulla che siavvicini alla verità. La verità laconosciamo soltanto noi, mia madre edio .Quel tema era venuto troppo infretta, non avrebbe voluto parlarnesubito. Era riuscita a proteggersi dalui nella propria stanza, nellapropria atmosfera. Se avessiimmaginato quanta fatica le eracostata, forse avrei evitatol'argomento dei vecchi, che proprioperché ormai così vecchi dovrebberopoter vivere per sempre. Ero giuntodal Re Lear a lei quasi come uncieco e, grato per aver vissuto al suofianco un'esperienza meravigliosa, misentivo in dovere di parlargliene. Eroin debito verso Lear perché era statoLear a condurmi da lei. Senza Lear ciavrei certo impiegato più tempoancora: ebbene, adesso ero seduto là,tutto preso da Lear, come avrei potutonon rendergli omaggio? Sapevo che cosaShakespeare significava per lei, eroconvinto che di nulla avrebbe parlatopiù volentieri. Non mi era venuto inmente di farmi raccontare dei suoiviaggi in Inghilterra e lei non avevapensato alla mia infanzia laggiù.Eppure, al nostro primo incontro, miaveva invitato proprio perché glieneparlassi. L'avevo colpita nel puntopiù dolente, la vita con quel patrignoera per tutte e due, per sua madre eper lei, un vero tormento. Prestoquell'uomo avrebbe compiutonovant'anni: ed ecco che arrivavo io adirle - così sembrava - che per unuomo così vecchio la cosa migliore eravivere per sempre.La colpii così profondamente durantela mia prima visita che poco ci mancòche non fosse anche l'ultima. Fece unosforzo per ricomporsi (aveva lasensazione di doversi giustificare per

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essersi così visibilmente spaventata)e mi raccontò - con uno sforzonotevole - come aveva organizzato lasua vita in quell'inferno.L'appartamento in cui Veza vivevacon la madre era composto da trecamere in fila abbastanza grandi, lecui finestre davano sullaFerdinandstrasse. Era al piano ammezzato,piuttosto in basso, dalla strada erafacile farsi sentire. Dalla porta dicasa un corridoio portava alle stanze,che si aprivano sulla sinistra; adestra si trovavano la cucina e glialtri locali di servizio, e dietro lacucina una cameretta buia per ladomestica, talmente nascosta chenessuno ci pensava mai.Delle tre stanze sulla sinistra, laprima era la camera da letto deigenitori. Il patrigno di Veza, unvecchio magrissimo di circanovant'anni, era sdraiato nel letto,oppure sedeva dritto, in vestaglia,nell'angolo davanti al fuoco. Poiveniva la camera da pranzo, usata,perlopiù, soltanto quando c'eranoospiti. La terza era la camera diVeza, se l'era arredata secondo il suogusto, coi colori che le piacevano,piena di libri e di quadri, seria eariosa al tempo stesso; si entrava inquella stanza con un sospiro disollievo e non la si lasciavavolentieri, era talmente diversa dalresto della casa che quand'eri sullasoglia credevi di sognare. La sogliasevera di un'oasi fiorita, chepochissimi potevano varcare.L'inquilina di quella stanzaesercitava sugli altri un dominio cheaveva dell'incredibile. Non era undominio basato sul terrore, s'imponevasenza chiasso, a Veza bastava inarcarelievemente le sopracciglia perscacciare dalla soglia gli importuni.Il nemico principale era il patrigno,Mento Altaras. In epoche precedenti,delle quali non ero stato testimone,quando la lotta era ancora aperta, iconfini non tracciati, e nessunosapeva se la pace sarebbe mai statafatta, il patrigno, di tanto in tanto,spalancava la porta all'improvviso ebatteva più volte minacciosamentesulla soglia con il suo bastone. Altoe allampanato, stava lì in piedi nellasua vestaglia, la testa sottile, torvaed emaciata assomigliava a quella diDante, del quale non aveva mai sentito

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parlare. Poi, per qualche istante,smetteva di battere e lanciavaspaventose minacce e maledizioni inlingua spagnola; e restava lì, sullasoglia, un poco picchiando e un pocomaledicendo, finché i suoi desideri,voleva arrosto o vino, non venivanosoddisfatti.La figliastra, appena adolescente,aveva cercato di difendersi allameglio chiudendo a chiave dal didentro le due porte della sua stanza -quella comunicante con la camera dapranzo e quella che dava nelcorridoio. Poi, man mano che crescevae diventava più attraente, le chiavicominciarono a sparire; quando ilfabbro ne portava delle altre,sparivano anche quelle. La madreusciva, la domestica non sempre era incasa, e il vecchio, nonostante l'età,quando voleva fortemente qualcosaaveva la forza di tre uomini, esarebbe stato capace di sopraffare lamoglie, la figliastra e la domesticamesse insieme. C'era di che averpaura. Madre e figlia non sopportavanol'idea di essere separate per sempre.Per poter restare nella casa dellamadre, Veza inventò una tattica perdomare il vecchio, una tattica cherichiedeva una perspicacia, una forzae una perseveranza inaudite per unadiciottenne. La tattica, consisteva inquesto: se usciva dalla sua stanza, ilvecchio non otteneva nulla. Potevapicchiare con il suo bastone,strepitare, imprecare, minacciare,tutto era vano. Nessuno gli dava névino né arrosto finché non tornava incamera sua; poi, quando li chiedeva dinuovo, vino e arrosto arrivavanoimmediatamente. La figliastra, senzasaper nulla di Pavlov, aveva inventatoquesto metodo pavloviano. Ci volleroparecchi mesi perché il vecchio sirassegnasse al suo destino. Serinunciava alle sue aggressioniriceveva bistecche sempre piùsucculente, e vini d'annata sempre piùpregiati. Ma se di nuovo si lasciavatrascinare dall'ira e comparivaurlando e maledicendo sulla sogliavietata, allora veniva punito, e finoa sera non riceveva nulla né damangiare né da bere.Il vecchio aveva trascorso lamaggior parte della sua vita aSerajevo. Là da bambino vendevapannocchie calde per le strade. Di

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quei suoi inizi si parlava spesso.Essi risalivano alla metà dell'altrosecolo ed erano diventati il pezzoforte della sua leggenda, o meglio ilsuo preludio. Su quel che era successodopo non si riusciva a sapere nulla,il salto era immenso, ma prima diritirarsi, ormai vecchio, dai suoiaffari, era diventato uno degli uominipiù ricchi di Serajevo e di tutta laBosnia. Possedeva un'infinità di case(tutti dicevano che fosseroquarantasette) e grandi boschi. Ifigli, che continuavano le sueattività, facevano una vita da gransignori e non c'era da meravigliarsiche avessero voluto allontanare ilvecchio da Serajevo. Egli pretendevache vivessero in modo frugale eappartato, senza mettere in mostra laloro ricchezza. Era un uomonotoriamente avaro e duro di cuore,non dava mai un soldo in beneficenza,e questa era considerata una vergognainaudita. Compariva di punto inbianco, inatteso, al grandiricevimenti offerti dai suoi figli eusava il bastone per cacciare gliospiti dalle loro case. I figliriuscirono a farlo risposare a Vienna(era vedovo e aveva ormai passato lasettantina). Una vedova bellissima emolto più giovane di lui, RachelCalder¢n, fu l'esca a cui il vecchionon seppe resistere. Appena raggiunseVienna, i figli si sentironosollevati. Il maggiore acquistò -cosa, allora, poco comune - un aereoprivato, che fece salire notevolmenteil suo prestigio nella città natale.Di tanto in tanto arrivava a Vienna econsegnava al padre spessi rotoli dibanconote, il vecchio pretendeva cheil denaro gli fosse dato in quellaforma.Nei primi anni il vecchio uscivaancora da solo, non voleva che nessunolo accompagnasse. Indossava uncappotto logoro che gli ballavaaddosso, un paio di pantalonisdruciti, e teneva sempre nella manosinistra un cappello sbrindellato chesembrava tirato fuori dal bidone dellaspazzatura; egli lo riponeva in unluogo segreto e non voleva che nessunoglielo pulisse. Non si capiva perchélo prendesse sempre con sé, dalmomento che non lo metteva mai.Un giorno la domestica tornò a casatutta tremante: disse che aveva appena

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visto il signore all'angolo di unastrada in un quartiere del centro, ilcappello era rovesciato per terradavanti a lui, e in esso un passanteaveva gettato una moneta. Non appenarincasò, il vecchio fu messo allestrette e s'infuriò a tal punto chetemettero che ammazzasse la moglie conil pesante bastone che portava semprecon sé. La moglie era una donna mite eaffabile, che normalmente evitava discontrarsi con lui; quella volta perònon cedette. Gli prese il cappello elo gettò via. Rimasto senza cappello,il vecchio non andò più a chiederel'elemosina, ma per uscire di casacontinuò a indossare il suo frustocappotto e i pantaloni sdruciti. Ladomestica, che gli veniva mandatadietro per tenerlo d'occhio, loseguiva per la lunga passeggiata finoal Naschmarkt. Ma aveva di lui unatale paura che là lo perdeva di vista.Il vecchio tornava a casa con uncartoccio pieno di pere e le mostravatrionfante alla moglie e allafigliastra: le aveva ricevute gratisda una donna del mercato, che nonaveva voluto neppure un soldo;riusciva a darsi un'aria così affamatae mal ridotta che le donne delNaschmarkt, tutt'altro che tenere, avevanocompassione di lui e gli davano, dinascosto, della frutta che neanche eramarcia.In casa aveva altro a cui badare:doveva nascondere gli spessi rotoli dibanconote nella sua camera da letto,in modo da averli sempre a portata dimano. I materassi dei due letti neerano pieni zeppi, fra il tappeto e ilpavimento si era formato un secondotappeto di carta moneta, di tutte lescarpe che aveva poteva metterne unsolo paio: le altre le aveva riempitedi banconote. Nel suo cassetto dellabiancheria c'era almeno una dozzina dipaia di calze che nessuno potevatoccare e di cui egli controllavaspesso il contenuto. Solo due paia,portate a turno, erano destinate alsuo uso personale. Sua moglie ricevevaper le spese di casa una sommasettimanale, concordata con precisionecon il figlio maggiore in un appositoincontro. Il vecchio aveva cercato disottrargliene una parte, ma poichétutto ciò aveva avuto delleripercussioni sul suo vino e sul suoarrosto (ne divorava quantità

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spropositate), alla fine avevapreferito lasciar perdere.Mangiava talmente tanto, e non soloall'ora dei pasti, che i familiaritemevano per la sua salute. Sin dallaprima colazione pretendeva arrosto evino; per lo spuntino delle dieci, benprima dell'ora di pranzo, ancora vinoe arrosto. Di contorno non voleva mainulla; quando sua moglie, per evitareche mangiasse troppa carne, cercava disoddisfare il suo appetito offrendoglidel riso o della verdura, lui condisprezzo mandava indietro il piattoe, se la moglie insisteva, dallarabbia buttava tutto sul tappeto;mangiava soltanto la carne, ladivorava in un baleno - ma glienedavano sempre troppo poca - ne volevadi più, sempre di più. La sua fameferoce, di quell'unico cibosanguinolento, era quasi insaziabile.Sua moglie chiamò un medico, un uomopacato e pieno di esperienza, cheveniva anche lui da Serajevo e delvecchio sapeva tutto, capiva la sualingua e poteva servirsene perconversare a lungo con lui. Ma ilmedico non riuscì a visitarlo. Nonaveva bisogno di nulla, disse ilvecchio, magro era sempre stato, lasua unica medicina era arrosto e vino,e se non gliene davano a volontàsarebbe andato a mendicarlo perstrada. Aveva notato che nulla facevatanto spavento ai suoi familiariquanto quel suo vizio di chiederel'elemosina. E infatti quellaminaccia, che era seria, la preserosul serio. Il medico lo mise inguardia: se avesse continuato amangiare in quel modo non sarebbevissuto più di due anni; come tuttarisposta il vecchio gli lanciò unatremenda maledizione. Voleva carne,nient'altro che carne, non aveva maimangiato altro in vita sua, non avevacerto intenzione di farsi menare peril naso a ottant'anni, ya basta!Due anni dopo, al suo posto, morì ildottore. Il vecchio era semprecontento quando moriva qualcuno, maquella volta la sua gioia fu tale cheper diverse notti rimase svegliofesteggiando l'evento con arrosto evino. Un secondo medico ripeté lostesso tentativo; non aveva nemmenocinquant'anni ed era un tipo vigorosoe molto carnale, ma ebbe ancor menofortuna del primo. Il vecchio gli

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voltò le spalle senza dire una parolae lo mandò via senza prendersi neppurela briga di lanciargli unamaledizione. Morì anche lui, come ilpredecessore; ma ci mise un po' dipiù. Il vecchio non fece caso alla suamorte. Sopravvivere, ormai, eradiventato per lui una seconda natura,aveva arrosto e vino a sufficienza pernutrirsi, che bisogno c'era di unaltro medico come vittima sacrificale?In realtà fecero ancora un tentativo,una volta che la moglie, ammalata, silamentò con il proprio medico di quelche le toccava sopportare. Soffrivaper la mancanza di sonno, suo maritosi svegliava a metà della notte epretendeva il suo cibo. Da quando luiusciva meno, era ancora peggio. Ilmedico, un tipo temerario (ma forseignorava il destino dei suoi duepredecessori), volle a tutti i costidare un'occhiata al vecchio, il quale,per l'appunto, stava divorando la suabistecca al sangue nel letto a fianco,senza preoccuparsi affatto dellamoglie malata. Il medico lo investì,strappandogli il piatto di mano: Mache cosa gli saltava in mente? La suavita era in pericolo! Non sapeva chestava per diventare cieco? Allora, perla prima volta, il vecchio sispaventò; ma la ragione dello spaventosi chiarì solo in seguito.Nel suo modo di nutrirsi nullacambiò. In compenso rinunciò del tuttoa uscire di casa e, di tanto in tanto,cominciò a chiudersi a chiave incamera da letto per un'ora o due, cosache prima non aveva mai fatto. Sequalcuno bussava, egli non rispondeva.Lo sentivano rovistare nel camino e,sapendo quanto fosse affascinato dalfuoco, supponevano che se ne stesseseduto davanti al camino a meditare:se avesse avuto voglia del solitocibo, certamente si sarebbe fattovivo. Così, infatti, avvenivaregolarmente; ma una volta lafigliastra, abituata com'era a giocarea nascondino con le proprie chiavi,prese con sé la chiave della porta cheseparava la camera da letto deigenitori dalla sala da pranzo e dicolpo, quando sentì che il vecchioarmeggiava nel camino, entrò nella suastanza. Lo trovò con un rotolo dibanconote in mano, che il patrignogettò nel fuoco sotto i suoi occhi;altri rotoli erano sparsi sul

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pavimento lì accanto, altri ancoraerano ormai inceneriti nel camino.-Lasciami stare disse il vecchio,indicando i rotoli non bruciati sulpavimento. -Non ho tempo. Non hoancora finito . Stava bruciando i suoisoldi per non lasciarli a nessuno, mane aveva talmente tanti che la stanzaera ancora piena zeppa di banconote.Bruciare i soldi fu il primo segnodi debolezza del vecchio Altaras. Quelterzo medico non era stato chiamatoper lui ed egli l'aveva ricevuto senzainteresse, come se la faccenda non loriguardasse; consumando in suapresenza il solito pasto, volevafargli capire quanto gli fosseroindifferenti la moglie e le suelamentele. Ma poi era rimastoimpressionato dalla brutalità diquell'uomo, e si era spaventatodavvero. Forse ogni tanto cominciava adubitare di poter tirare avantiall'infinito; la minaccia ai suoiocchi, in ogni caso, l'aveva turbato.Tutte le volte che poteva, si mettevaa contemplare il denaro e il fuoco - eciò che amava più di ogni cosa eravedere l'uno dissolversi nell'altro.Una volta scoperto, non si diede piùla pena di chiudere a chiave e sidedicò apertamente alla sua impresa.Per impedirglielo ci sarebbe voluta laforza di parecchi uomini. La moglie,impotente, non sapeva cosa fare, ecosì, dopo averci pensato su per unpo', scrisse al figlio maggiore delvecchio che viveva a Serajevo. Questi,malgrado la sua prodigalità, quandoapprese che il padre aveva distruttovolontariamente tanto denaro, siprecipitò a Vienna e fece al vecchioun discorso molto serio. Né Veza nésua madre seppero mai di che cosal'avesse minacciato. Ma fu certamenteuna minaccia più terribile delsolitario ammonimento del medico -forse l'interdizione e l'internamentoin una clinica, dove avrebbe dovutodire addio alla carne e al vino nellequantità abituali. La minaccia,comunque, fu efficace. Il vecchioconservò nei suoi nascondigli i rotolisuperstiti di banconote, ma non nebruciò più e dovette sottoporsi aperiodiche ispezioni nella sua stanza.Veza era riuscita a salvare l'ariache respirava (e aveva solo diciottoanni) dai colpi di bastone, dalleminacce e dalle maledizioni di

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quell'uomo sinistro; ma tutto questol'aveva segnata. Ormai capitavararamente che il vecchio comparissesulla soglia della sua stanza. Un paiodi volte al mese succedeva ancora cheegli spalancasse la porta e a unacerta distanza si ergesse, alto eallampanato, davanti ai visitatori diVeza, i quali rimanevano più stupitiche spaventati. Pur tenendo in mano ilbastone, non batteva, non imprecava,non minacciava più: veniva a chiedereaiuto. Adesso era la paura a spingerlodavanti alla porta vietata. Diceva:-Mi hanno rubato i soldi. I soldistanno bruciando . Siccome nessuno losopportava, viveva molte ore da solo,e ogni tanto lo assaliva un'angosciatremenda che sempre si riferiva aisuoi soldi. Da quando non poteva piùbruciarli da sé, ne veniva derubato:le fiamme invadevano la sua stanza,decise a prendersi con la forza isoldi che non venivano più sacrificatispontaneamente.Egli non veniva mai quando Veza erasola, ma quando sentiva delle vocinella stanza di lei. Sentiva ancorabene, se Veza aveva ospiti se neaccorgeva subito. Il campanello allaporta, i passi davanti alla suacamera, le voci animate in corridoio epoi nella stanza di Veza, cheparlavano in una lingua a luisconosciuta, il fatto di non potervedere chi fosse: tutto ciò scatenavain lui il terrore che qualcunotramasse segretamente un attentatocontro il suo denaro. Nel primoperiodo delle mie visite lo vidi due otre volte e fui colpito dalla suasomiglianza con Dante.Era come se Dante fosse uscito dallatomba. Avevamo appena parlato dellaDivina Commedia, quando di colpo laporta si aprì e ce lo trovammodavanti, sembrava quasi avvolto in unlenzuolo e agitava il bastone, versol'alto, non per difendersi, ma peraccusare: -Me arrobaron las paras - mihanno rubato i soldi! . No, non eraDante, ma piuttosto un personaggio delsuo Inferno.Lo sfogo.Il 24 luglio 1925, la vigilia delmio ventesimo compleanno, ci fu losfogo. E'è un argomento di cui daallora non ho mai parlato e mi riescedifficile farlo adesso.Avevo in programma un giro a piedi

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attraverso le montagne del Karwendelinsieme a Hans Asriel. Volevamo viverenella maniera più modesta possibile,dormendo nelle baite. Non sarebbestata una grande spesa. Hans, chelavorava alle dipendenze del signorBrosig, fabbricante di articoli inpelle, era riuscito a risparmiare lostretto necessario dal suo magrostipendio. Era attentissimo nellespese, e ci era costretto, perchéviveva con la madre, il fratello e lasorella in condizioni economiche assaiprecarie.Hans fece tutti i conti per ilnostro giro, che sarebbe durato menodi una settimana. Dopo, forse, avremmopotuto fermarci da qualche parte perun'altra settimana, perché io volevoutilizzare quel periodo anche perlavorare, e precisamente percominciare il mio libro sulla massa. Aquesto scopo preferivo starmenecompletamente solo in un postoqualsiasi fra le montagne, ma non neparlai in modo esplicito, per nonoffendere Hans. Tanto più minuziosierano in compenso i nostri piani peril giro attraverso il Karwendel. Hans,che era un ragazzo assai metodico,computava, chino sulle carte, ognitratto di strada e ogni vetta. Leprime settimane di luglio trascorseroin quei preparativi, su cui riferivo acasa durante l'ora dei pasti. La mammaascoltava tutto senza dire né sì néno; ma intanto io davo sempre maggioriparticolari, da noi non si sentivaparlare d'altro, come potevo pensareperciò che la mamma avesse delleobiezioni? Mi sembrava, anzi, cheanche lei prendesse parte a queiprogetti con il pensiero. La nostrameta doveva essere Pertisau, sul lagodi Achen. Una volta la mamma accennòpersino alla possibilità che leistessa andasse in vacanza a Pertisau eci aspettasse lì. Non che l'idea fosseseria, e infatti fu subito lasciatacadere, ma le mie discussioni con Hansper mettere a punto i dettaglicontinuarono. Il mattino del 24 lugliola mamma dichiarò improvvisamente chemi dovevo togliere quel progetto dallatesta, quel giro non potevo farlo, nonavevo abbastanza soldi per concedermiquel lusso. Dovevo già essere contentodi poter studiare; non mi vergognavodi avanzare simili pretese, quandoc'era gente che non sapeva neppure

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come tirare avanti?Fu un duro colpo, perché arrivòall'improvviso, dopo che per variesettimane la mamma aveva benevolmentetollerato i nostri progetti, eaddirittura manifestato per essi uncerto interesse. Dopo quasi un anno diconvivenza soffocante e piena diattriti, avevo bisogno di andarmene edi sentirmi libero. Negli ultimi tempila pressione era diventata sempre piùintollerabile, e dopo ogni bisticcio,imbarazzante e penoso, mi rifugiavonel pensiero del nostro viaggio. Lenude rocce calcaree di cui mi avevanotanto parlato mi apparivano in unaluce radiosa, ed ecco che un mattino,durante la colazione, la mannaia calòinesorabile, mozzandomi il fiato e lasperanza.Avevo una gran voglia di prendere apugni le pareti, ma mi controllai, inmodo da evitare un'esplosione diviolenza fisica di fronte ai mieifratelli. Tutto avvenne sulla carta,ma non, come le altre volte, in frasicomprensibili e ragionevoli; non miservii neppure dei soliti quaderni,afferrai invece un grande blocco dicarta da lettere, quasi nuovo, ecominciai a riempire di carattericubitali un foglio dopo l'altro:-Soldi, soldi, sempre soldi e nellariga dopo lo stesso, e nella riga dopodi nuovo, finché il foglio era pieno;allora lo strappavo e ricominciavo ascrivere - -Soldi, soldi, sempresoldi - sul foglio seguente. Nonavevo mai scritto a lettere cosìgrandi, perciò i fogli si riempivanoin fretta, i fogli già staccati eranosparsi intorno a me sul grande tavolodella camera da pranzo, aumentavanosempre più, finché non cominciarono acadere sul pavimento. Il tappetointorno al tavolo ne fu ben prestodisseminato, io non riuscivo asmettere, era un blocco da centofogli, li riempii uno a uno. I mieifratelli si accorsero che stavasuccedendo una cosa insolita perchérecitavo quel che stavo scrivendo, avoce non troppo alta, per la verità,ma chiaramente udibile: -Soldi, soldi,sempre soldi echeggiava per tuttacasa. Avvicinatisi cautamente,tirarono su un foglio e lessero adalta voce quel che c'era scritto:-Soldi, soldi, sempre soldi . PoiNissim, il secondogenito, si precipitò

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in cucina dalla mamma e le disse:-Elias è diventato matto. Vieni avedere! .La mamma non venne, però mi mandò laseguente ambasciata: -Che la smettaimmediatamente. Con quello che costala carta da lettere! . - Ma io nonl'ascoltai e continuai a scrivere comeun forsennato. Forse in quel momentoero diventato matto; ma, comunque lacosa possa esser definita, la parolain cui per me si concentrava ognioppressione, ogni bassezza, avevaacquistato su di me un potereirresistibile, mi dominavacompletamente. Non badavo a niente, néalle urla dei miei fratelli che miprendevano in giro (ma il minore,Georg, lo faceva senza entusiasmo,essendosi spaventato moltissimo), néalla mamma, che alla fine si degnò dientrare nella stanza, forse irritatada tutto quello spreco di carta, oforse non più tanto sicura che davverosi trattasse di una -commedia , comeaveva detto all'inizio. Ma quando sifece viva, non le badai più che aifratelli, non avrei badato a nessuno,ero invasato da quella parola, checonsideravo l'essenza di ogniinumanità. Continuavo a scrivere e laforza della parola che mi ossessionavanon veniva meno, non odiavo la mamma,odiavo soltanto quella parola, efinché c'era carta il mio odio non siestingueva. Quel che fece impressionealla mamma fu soprattutto la velocitàfolle dei miei gesti. La mia manocorreva sui fogli, ma io ero senzafiato come se avessi corso, non avevomai fatto niente a quella velocità.-Era come un treno rapido, disse poila mamma -con tutto il peso di unrapido a pieno carico . Ecco la parolache la mamma non era mai sazia disbandierare, pur sapendo benissimoquanto mi angustiasse, eccolariprodotta in migliaia di esemplari,con insensata prodigalità, unaprodigalità incompatibile con la suaessenza, eccola evocata senza tregua,come se quella parola potesse esserespesa a volontà, come se fossepossibile spenderla fino in fondo. Nonè escluso che la mamma abbia avutopaura sia per la mia sorte sia per lasorte della sua parola chiave, chestavo dilapidando a piene mani.Non mi accorsi che a un certo puntola mamma era uscita dalla stanza, e

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neanche del momento in cui rientrò.Finché non avevo finito il blocco, nonpotevo rendermi conto di nulla. Maecco che ad un tratto vidi nellastanza il dottor Laub, il nostromedico di famiglia, un vecchioprofessionista. Mia madre era in piedimezzo nascosta dietro di lui, con ilviso girato dall'altra parte, sapevoche era lei ma non potevo guardarlanegli occhi, si nascondeva dietro ildottore, e solo allora mi resi contoche qualcuno un attimo prima avevabussato energicamente alla mia porta.-Che cos'ha il nostro ragazzino? domandò il dottor Laub con il suo tonograve. La sua lentezza, le pause chefaceva dopo ogni frase, il suo modoenergico di calcare su ogni parola,l'indicibile futilità delle sueautorevoli spiegazioni, la suaabitudine di ricollegarsi all'ultimavisita come se in mezzo ci fosse statoil nulla (l'ultima volta eraitterizia; e ora?), tutte queste coseinsieme fecero il loro effetto,riportandomi alla ragione. Benché mirestasse ancora qualche foglio, smisiimmediatamente di scrivere.-Ma che cosa scriviamo con tantozelo? disse il dottor Laub,mettendoci un'eternità per arrivarealla fine della frase. Saltando giùdal rapido sul quale ero sfrecciatosulla carta fino a quel momento, gliporsi, con un ritmo che andava piùd'accordo con il suo, l'ultimo foglio.Il dottore lo lesse con solennità. Lapronunciava, quella parola, comel'avevo scritta io, ma nella sua boccanon suonava satura d'odio, suonavacircospetta, come se uno dovessepensarci su dieci volte prima dilasciarsi scappare una parola cosìpreziosa. La sua leggera balbuzie lafaceva suonare parsimoniosa, osservaifra me; eppure rimasi tranquillo,stranamente non si riattizzò il miofurore. Il dottore lesse tutto quelche era scritto su quell'ultimo foglioe, dato che ne avevo riempito più dimetà ed egli non accelerò mai il suoritmo, ci mise un bel po' di tempo.Nessun -soldo , neppure uno, andòperduto, e io, quando ebbe finito,fraintesi un suo gesto e pensai chevolesse da me un altro foglio percontinuare la lettura di tutti queisoldi. Ma, quando glielo porsi, eglifece cenno di no e disse: -Va bene

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così. Per ora può bastare . Poi sischiarì la voce, mi posò una manosulla spalla e domandò, come se delmiele gli gocciolasse dalla bocca: -Eadesso mi racconti un po': che cosa nevogliamo fare di questi soldi? . Nonso se sia stata astuzia o ingenuità,comunque mi si sciolse la lingua e gliraccontai per filo e per segno tuttala storia del Karwendel, con la mammache aveva ascoltato per settimanesenza fare la minima obiezione, e cheanzi quasi interveniva nei nostriprogetti con le sue proposte, e ora dipunto in bianco diceva di no a tutto.Nel frattempo non era accaduto nullache avesse modificato la situazione,il suo era un atto di puro arbitrio,come quasi tutto ciò che succedeva incasa nostra. Volevo andarmene di casa,lontanissimo, all'altro capo delmondo, dove non avrei più dovutosentire quella maledetta parola.-Ah ecco, disse lui, indicando colbraccio i fogli disseminati sulpavimento -per questo quella parolal'abbiamo scritta tante volte, permetterci bene in testa che nonvogliamo più sentirla nominare. Ma,prima di andarcene all'altro capo delmondo, è meglio che facciamo quel girotra le montagne del Karwendel. Ci faràbene . A quella prospettiva il cuoremi si allargò, mi parlava con un tonocosì sicuro come se lui potessedisporre dei soldi necessari, come selui li avesse messi da parte.Cominciai a prestargli ascolto in unaltro modo e a riporre in lui qualchesperanza, e forse adesso penserei aquell'uomo con gratitudine se egli nonavesse subito rovinato tutto conquella sua imperdonabile saggezza:-Dietro c'è dell'altro dichiarò. -Isoldi non c'entrano. C'entra l'Edipo.Un caso lampante che con i soldi nonha niente a che vedere . Mi diede unbuffetto e se ne andò via. La portache dava sull'anticamera era rimastaaperta. Udii la domanda preoccupatadella mamma e il suo responso: -Lolasci andare. Domani stesso, è la cosamigliore. E'è quello che ci vuole perl'Edipo .Con ciò la cosa fu decisa. Per lamamma l'autorità suprema erarappresentata dai medici. Quando sitrattava di una sua malattia, lepiaceva consultarne più d'uno. Cosìpoteva scegliere tra i diversi pareri

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quello che le andava più a genio,senza trasgredire di testa sua leindicazioni di nessuno. Per noi,invece, un medico e un pareredovevano bastare, e a quest'ultimobisognava attenersi. Il viaggio eraormai deciso, non ci furono altreparole. Potevo andare in montagna conHans per due settimane. Restai a casaancora due giorni. Non furonosollevate altre accuse. Eroconsiderato in pericolo, la mia psicheera labile, tutti quei fogli che avevoscritto erano stati tirati su,accuratamente piegati e messi daparte. Dopo un simile spreco di carta,bisognava almeno conservarli in quantosintomo di un disturbo mentale.In quegli ultimi giorni dipermanenza a casa non mi sentii menooppresso; ma ormai avevo laprospettiva di andarmene lontano.Riuscii a tenere la bocca chiusa,contrariamente alle mie abitudini, eci riuscì anche la mamma.L'autodifesa.Il 26 Hans ed io partimmo perScharnitz. Di lì cominciò la nostraescursione a piedi attraverso ilKarwendel. Le brulle montagnecalcaree, incise da profonde gole, mifecero una grande impressione; nel miostato, mi fecero bene. In realtàancora non sapevo quanto stessi male.Comunque era come se avessi lasciatoogni cosa dietro di me, ogni cosasuperflua, la famiglia in primo luogo,per cominciare tutto da capo sullerocce brulle, senza niente,nient'altro che un sacco da montagnache conteneva pochissima roba, ma piùche sufficiente per vivere duesettimane. E forse sarebbe statoancora meglio non avere nemmeno lozaino. Una cosa importante, però, ilsacco la conteneva: due quaderni e unlibro, destinati alla secondasettimana di vacanza. Volevo fermarmiin un posto che mi piacesse e làcominciare il lavoro alla mia -opera ,come pretenziosamente la chiamavo. Unodei due quaderni doveva servirmi perle annotazioni e le obiezioni al libroche avevo portato con me, un librosulla massa. Prendere le distanzedalle cose che già erano state dettesull'argomento doveva essere la basedel mio lavoro. Sapevo già (mi erabastato sfogliarlo) quanto poco quellibro mi soddisfacesse, e avevo deciso

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di liberare la massa da tutti i-ghirigori , così li chiamavo, peraverla di fronte pura e inviolata comeuna montagna che avrei scalato perprimo, libero da ogni preconcetto. Nelsecondo quaderno volevo liberarmi dalsenso di oppressione che avevoaccumulato in casa, e inoltre annotareciò che mi colpiva nel nuovo paesaggioe negli uomini che lo popolavano.Fu un bene per i miei -grandi propositi che durante la gita fosseromessi da parte. Gli strumenti perrealizzarli giacevano in fondo allozaino, e io non tirai fuori né iquaderni né il libro e neanche dissi aHans che li avevo portati. In compensoaccolsi in me la montagna a pienipolmoni, mi sembrava quasi di poterlarespirare. Anche se non mancammo ditoccare più di una vetta, quel che mistava a cuore non era il panorama chesi godeva dall'alto, ma la sconfinatadistesa brulla che ci lasciavamo allespalle e che si estendeva davanti anoi. Tutto era pietra, nient'altro chepietra, persino la volta del cielo miappariva come un alleggerimento nondel tutto compatibile e, ogni voltache vedevamo un corso d'acqua, in cuormio provavo un certo fastidio per ilfatto che Hans vi accorreva perbagnarsi anziché farne a meno econtinuare il cammino.Hans non poteva sapere in qualestato d'animo io avessi intrapresoquell'escursione. Delle difficoltà cheavevo avuto in casa non dicevo nulla.Ero troppo orgoglioso per parlarne epoi, se anche lo avessi fatto,difficilmente Hans mi avrebbe capito.Mia madre godeva di grande prestigiopresso gli Asriel, era considerata unadonna originale e intelligente, chesapeva pensare e giudicare con lapropria testa, senza farsicondizionare dalle sue originiborghesi. Dell'effetto che avevaesercitato su di lei il periodo diArosa, quando tutto ciò che dovevaalle sue origini familiari era comeritornato a nuova vita, Alice Asrielnon sospettava nulla. Per Alice miamadre era quella di un tempo, lagiovane vedova orgogliosa e caparbiadel primo periodo che avevamotrascorso a Vienna. Alice laconsiderava una donna ricca, come untempo era stata lei stessa, e nongliene voleva per questo, giacché non

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aveva il minimo sentore dellaristrettezza d'idee che a quellaricchezza si accompagnava. O, forse,mia madre nascondeva agli occhi diAlice quanto fosse cambiata: comeavrebbe potuto parlare di soldidavanti a un'amica d'infanzia che oraviveva in ristrettezze senza offrirleil suo aiuto? Così i soldi, che fra lamamma e me erano l'argomentoprincipale, l'eterno ritornello, ilmotivo di bisticci quotidiani, nellesue conversazioni con Alice eranotabù, e Hans credeva di aver motivo diinvidiarmi per la nostra -sana situazione economica.Ma parlavamo di tutto il resto,ininterrottamente, con Hans tacere eraquasi impossibile. Lui si sentivacostretto a entrare in competizionecon me e perciò mi strappava di boccaogni frase che cominciavo, laterminava e la corredava di aggiunteche sembravano non finire mai. Perdire più cose di me, parlava più infretta, negandosi il tempo diriflettere. Gli ero grato per quelviaggio, l'idea era stata sua, era luiche l'aveva preparato. Così feci conHans uno strano gioco: finché i nostridiscorsi non toccavano la montagna,ero pronto a parlare di tutto. Egli,notando che, non appena nominava cimeed eventuali ascensioni, io dirottavola conversazione sui libri, pensò chei discorsi sulla montagna miannoiassero. E siccome oltre allerocce brulle e sempre uguali non c'eranient'altro da vedere, sarebbe statodavvero improduttivo continuare adisquisire su quel tema. Così ancheHans smise presto di parlare dellamontagna, che io volevo tutta per me,intatta, come il mio compito. Alloranon avrei certo usato la parola-compito , con la quale cerco adessodi sintetizzare ciò che a quel temposentivo. Avevo bisogno di averedavanti a me una mole brulla eimproduttiva, perché stavo perdedicarmi a un compito (la mia -opera appunto) che per molto tempo sarebberimasto improduttivo. Non sarebbestata un'impresa di tipo minerario, lamia, a quella mole non avrei toltonulla, avrebbe conservato il suocarattere minaccioso, sarebbe rimastaintatta, senza per questo venirmi inuggia o in odio. L'avrei attraversatain lungo e in largo, da un capo

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all'altro, l'avrei toccata in moltipunti, senza mai dimenticare, neppureper un attimo, che mi era ancorasconosciuta.Il Karwendel taciuto, nel qualeentrai subito dopo il mio ventesimocompleanno, si pone all'inizio dellafase più lunga della mia vita, che fuanche, per il suo contenuto, la piùimportante.E'è già una cosa strana che allora ioabbia trascorso cinque o sei giorni,momento per momento, con una personache parlava senza tregua, e che leabbia sempre risposto a tono (credoproprio che fra noi non ci sia statoun attimo di silenzio), senza dire unasola parola sui luoghi che stavamoattraversando, e senza un cenno allapressione tormentosa che avevo subìtonell'ultimo anno. I discorsi sui libriuscivano leggeri e inconsistenti dallenostre labbra, le cose che dicevo,certo, le pensavo, e così pure Hans,ammesso che trovasse in sé la forza dipensare, ma erano solo chiacchiereintercambiabili, nient'altro. Avremmopotuto benissimo parlare di altrilibri, anziché di quelli di cuistavamo discutendo. Hans erasoddisfatto perché riusciva a starmidietro, o addirittura a precedermi, eio lo ero perché riuscivo a non dirglinulla di ciò che davvero mi occupavala mente. Non potrei ripetere nemmenouna frase, nemmeno una sillaba diquelle chiacchiere, i veri torrentidella nostra passeggiata sulle roccecalcaree: filtrando tra le rocce, sonosvanite senza lasciare traccia.Ma le parole, sembra, non possonoessere usate impunemente in quel modo;infatti, quando arrivammo a Pertisausul lago di Achen, la catastrofegiunse inaspettata e improvvisa. Hanssi sdraiò ai sole sulla riva del lago,mentre io, anziché fare come lui, mimisi a camminare su e giù lungo laspiaggia. Hans aveva incrociato lemani sotto la testa e teneva gli occhichiusi. Faceva caldo, il sole eraalto, pensai che si fosseaddormentato. Così non mi curai di luie rimasi a passeggiare poco lontano,lungo la riva. La sabbia scricchiolavasotto i miei pesanti scarponi damontagna, mi chiesi se il rumore nonl'avesse svegliato e mi voltai versodi lui. Hans aveva gli occhispalancati e guardava fisso i miei

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movimenti, con un odio così forte dadiventare palpabile. Non ritenendolocapace di un sentimento intenso -proprio di questo in lui si sentiva lamancanza - il suo odio mi stupì e daprincipio non pensai affatto che fosserivolto contro di me e potesse averedelle conseguenze. Mi fermai,appoggiandomi al parapetto, vicinoall'acqua, in modo da poterlo vederecon la coda dell'occhio: Hans taceva esenza muoversi continuava a guardarmicon gli occhi sbarrati, a poco a pococompresi che l'odio gli impediva diparlare. Il suo silenzio era per meuna novità, come il sentimento da cuisembrava dettato. Io non mi opposi, lorispettai, fra noi le parole avevanoperso ogni valore, ce n'eravamoscambiate troppe. Questo statodev'essersi prolungato per un belpezzo. Hans era come paralizzato, mail suo sguardo no, l'intensità diquello sguardo crebbe a tal punto chemi venne in mente la parola-assassinio . Feci qualche passo indirezione del mio zaino, che erarimasto per terra accanto al suo, losollevai e senza neppure mettermelo inspalla mi allontanai. Egli vide chegli zaini non erano più vicini, sisciolse dalla sua rigidità e alzandosiin piedi con un balzo prese il suo. Inun attimo lo vidi per via, come lamaaperta di un coltello, che scendeva agran passi, senza degnarmi di unosguardo, la strada per Jenbach.Camminava svelto, ed io esitaifinché non l'ebbi perso di vista, poimi misi a camminare nella stessadirezione, proprio a Jenbach pensavodi prendere il treno per Innsbruck. Miaccorsi ben presto che per me era ungrande sollievo essere solo,completamente solo. Fra noi non c'erastata una parola - sarebbe bastata unaparola e, attraverso altre parole,avremmo potuto rimediare a tutto; masarebbero diventate subito centomilaparole, il solo pensarci mi dava lanausea. Egli aveva taciuto, lafrattura, dunque, era irreparabile.Non cercai di trovare una spiegazioneper quel silenzio. Non ero preoccupatoper lui, si era allontanato condecisione, senza annunciare per filo eper segno le sue intenzioni, comefaceva di solito. Camminando tastavoil fondo dello zaino e sentivo illibro e i quaderni. Non glieli avevo

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fatti vedere, non gli avevo neppuredetto che li portavo con me. Sapevache dopo l'escursione volevo fermarmiuna settimana da qualche parte, alavorare, gli avevo detto. Saremmorimasti insieme anche in quellasettimana? Di questo non si eraparlato. Forse Hans si aspettava unchiaro invito da parte mia per laseconda settimana. Ma io non l'avevoinvitato. A Pertisau l'escursione erafinita, il Karwendel era dietro dinoi, la via per Jenbach lungo la valledell'Inn era breve, e là avremmotrovato la stazione, con il mio trenoper Innsbruck e, in direzione opposta,il suo treno per Vienna.E andò proprio così. Lo vidi aJenbach mentre attraversavo i binari.Stava in piedi poco lontano da me,aspettava sul binario dov'eraannunciato il treno per Vienna. Misembrò un po' indeciso, aveva perso lasua rigidità, lo zaino gli pendevafloscio sulle gracili spalle, e il suobastone da montagna, mi sembrò, avevaperso la punta. Ma non fece alcuntentativo di raggiungermi sul miobinario. Chissà, può anche darsi chemi abbia seguito, ma in tal caso sinascose dietro qualche vagone. Iopresi posto sul mio treno e partiisenza rimorsi in direzione diInnsbruck, ero riuscito a sfuggire auna riconciliazione in extremis, tuttociò che sentivo per Hans era unaspecie di gratitudine per nonessermelo trovato sul mio binario,dove una spiegazione sarebbe statadifficilmente evitabile. Compresi solomolto tempo dopo che la vera disgraziadi Hans era questa: creava da solo ledistanze fra sé e le persone che glierano più vicine. Costruire distanzeera il suo talento, le costruivatalmente bene che poi sia per l'altrosia per lui stesso superarle diventavaimpossibile.A Innsbruck presi un treno perKematen, all'imbocco della valle delSellrain. Vi passai la notte e ilgiorno seguente cominciai a risalirela valle, avevo intenzione diaffittare una stanza a Gries ecominciare lassù la settimana disolitudine con i miei quaderni.Era un giorno di pioggia, quasi ditempesta, quello in cui mi misi inmarcia attraverso i banchi di nebbia;la pioggia mi frustava la faccia, era

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la prima volta che facevoun'escursione da solo, e l'inizio nonera incoraggiante. Presto fui bagnatofradicio, i vestiti mi si incollavanoaddosso, per sfuggire a quel tempacciocamminavo troppo in fretta e avevo ilfiato corto. La settimana prima, conquel sole smagliante, era stato tuttotroppo facile. Mi sembrava giustodover pagare un prezzo per la miasolitudine. La pioggia mi scorreva sulviso, la bevevo a gocce, potevo vederesoltanto due passi davanti a me. Ditanto in tanto su un cascinale lungola via leggevo un versetto dellaBibbia che mi salutava in quellagiornataccia. Un simile invito alladevozione sembra quasi una presa ingiro quando uno è zuppo da capo apiedi, e io mi guardai dal bussare auno di quei lindi cascinali adorni disentenze bibliche. Non mi ci vollemolto, forse due ore, per raggiungerela parte alta e pianeggiante dellavalle. A Gries, il capoluogo, trovaipresto una stanza in affitto,apparteneva a un contadino che eraanche il sarto del paese. Fui accoltogentilmente, i miei abiti siasciugarono, verso sera una schiaritaannunciò tempo buono per il giornoseguente, e così cominciai i mieipreparativi. Spiegai ai miei ospitiche, nei dieci giorni in cui contavodi trattenermi, avevo alcune cose dastudiare e che perciò avrei dedicatoal lavoro le mie mattinate. Mi diederoun tavolino pieghevole, che sistemainel minuscolo giardino intorno allacasa. Mi alzavo prestissimo e uscivoappena preso il caffè, con le miematite, i due quaderni e il libro chesappiamo. La prima mattina fumeravigliosamente limpida e fresca.Che i miei ospiti scuotessero il capo,non mi stupiva; mi stupivo piuttostodi me stesso, di riuscir ad aprirelassù quel libro che mi ripugnava sindalla prima parola e che ancora oggi,dopo cinquantacinque anni, mi ripugnaallo stesso modo: è il libro di Freudintitolato Psicologia delle masse eanalisi dell'Io.Vi trovai all'inizio, come spesso inFreud, delle citazioni di autori chesi erano occupati dello stessoargomento, soprattutto Le Bon. Giàquell'esordio mi irritava. Quasi tuttigli autori si erano chiusi alla massa.La sentivano estranea o sembravano

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temerla e, quand'anche si accingevanoa studiarla, questo era il loroatteggiamento: Stammi alla larga, nonmi toccare! Sembrava che vedesseronella massa quasi una lebbra, unaspecie di malattia della qualebisognava individuare e descrivere isintomi. Per loro era decisivoconfrontarsi con la massa conservandola mente lucida, senza lasciarsisedurre, senza smarrirsi. Le Bon,l'unico che tentava una descrizioneesauriente della massa, probabilmenteaveva davanti agli occhi gli inizi delmovimento operaio e la Comune diParigi. Nelle sue letture era statoinfluenzato da Taine, il cui modo diraccontare la Rivoluzione francesel'aveva affascinato, in particolare ilracconto dei massacri di settembre.Freud aveva subìto l'impressionerepulsiva di un altro tipo di massa:da uomo maturo, di sessant'anni oquasi, aveva vissuto a Viennal'entusiasmo per la guerra. Cheopponesse resistenza a quel genere dimassa, che anch'io avevo conosciuto dabambino, era più che comprensibile. MaFreud non disponeva di alcunostrumento adatto per la sua impresa.Per tutta la vita si era occupato diprocessi che si svolgononell'individuo, nel singolo essereumano. Come medico, vedevacontinuamente lo stesso paziente, perla durata di un lungo trattamento. Lasua vita trascorreva fra i suoipazienti e la scrivania. Alla vitamilitare aveva preso parte tanto pocoquanto a quella della Chiesa: duefenomeni, esercito e Chiesa, chesfuggivano ai concetti da lui creati eusati fino a quel momento. Tropposerio e coscienzioso per trascurarel'importanza di questi due fenomeni,Freud, in quella sua tardiva ricerca,aveva provato a esaminarli più davicino, sostituendo però l'esperienzadiretta che gli mancava con ledescrizioni di Le Bon, le quali sibasavano su manifestazionicompletamente diverse del fenomeno-massa .Ciò che aveva messo insieme inquesta maniera risultavainsoddisfacente e incongruo anche perun lettore inesperto di vent'anni. E'èvero che mancavo di qualsiasiesperienza teorica, ma nella praticaconoscevo la massa dall'interno. A

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Francoforte mi ero lasciato per laprima volta travolgere dalla massa,senza opporre resistenza. Da alloranon avevo mai dimenticato come ci silasci travolgere volentieri dallamassa. Proprio questo mi avevastupito. Vedevo la massa intorno a me,ma la vedevo anche dentro di me, e unaspiegazione che servisse a prender daessa le distanze mi era di scarsissimoaiuto. Nella trattazione di Freud mimancava soprattutto il riconoscimentodel fenomeno, che mi sembrava per suanatura non meno elementare dellalibido o della fame. Il problema nonera di sbarazzarsene, riconducendolo aparticolari costellazioni dellalibido. Si trattava, piuttosto, dicoglierlo nella sua pienezza, come unarealtà sempre esistita ma ora più chemai presente; una realtà da esplorarealle radici ma innanzitutto dasperimentare prima di descriverla:descriverla senza averla vissuta eraun modo di imbrogliare i lettori.Non avevo ancora scoperto nulla, miero solo proposto un compito, eccotutto. Ma dietro quel proposito c'eragià la volontà di dedicarci una vitaintera, tutti gli anni, tutti idecenni necessari per venirne a capo.Per mettere in evidenza il caratterefondamentale e ineluttabile delfenomeno, allora parlavo di unapulsione di massa, che collocavo,con uguali diritti, accanto allapulsione sessuale. Le primeannotazioni sulla ricerca di Freudfurono esplorative e maldestre. Nontestimoniavano molto più della miainsoddisfazione per ciò che leggevo,della mia resistenza, e del fermoproposito di non lasciarmi persuadereo turlupinare. Ciò che temevo più ditutto, infatti, era la sparizione difenomeni della cui esistenza nonpotevo dubitare, perché li avevosperimentati su di me. Dallediscussioni in casa nostra avevoimparato fino a che punto si può esserciechi se non si vuol vedere.Cominciai a capire che coi libri lecose non vanno diversamente, chebisogna stare all'erta, che èpericoloso rimandare la critica perinerzia e accettare per buono tuttociò che ci viene propinato.Così, in quelle dieci mattinatenella valle del Sellrain, imparai astare all'erta quando leggevo. Quei

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giorni - dal 1o al 10 agosto 1925 -segnarono l'inizio della mia vitaintellettuale indipendente. Dal nettodistacco da Freud presi le mosse perlavorare a un libro che avreipubblicato soltanto trentacinque annidopo, nel 1960.In quei giorni conquistai anche lamia indipendenza come persona. Legiornate, infatti, erano lunghe, e ioero solo; dopo le cinque ore di lavorodella mattina cominciava un colloquiocon me stesso che durava tutto ilresto della giornata, e si svolgevasoprattutto durante la passeggiatapomeridiana. Esplorai la valle, saliifino a Praxmar e anche più in alto,raggiungendo i passi che portavanoalle vallate vicine. Due o tre voltearrivai in cima al Rosskogel, il monteche domina Gries. Della fatica erofelice, e anche di raggiungere le meteche mi ero prefisso; quelle, infatti,a differenza della grande meta chereputavo lontana, anzi lontanissima,erano raggiungibili. Parlavo molto,ad alta voce, per articolare,esprimere in parole, ordinare eallontanare da me il caos di odio,risentimento e senso di oppressioneche avevo accumulato nell'ultimo anno.Lo confidavo all'aria intorno a me, aigrandi spazi, e al vento che soffiavalimpido in ogni direzione. Sentire cheil vento portava via le parolecattive, che svanivano lontano, midava felicità. Non suonavano ridicole,perché non arrivavano all'orecchio dinessuno. E tuttavia mi guardavo dalleparole arbitrarie, non mi lasciavosfuggire un solo pensiero che nonaspirasse a prender forma dopo esserstato lungamente compresso. Replicavoalle accuse che mi avevano offeso eangosciato senza alcun riguardo e conassoluta sincerità, non c'eranoascoltatori che avrei potuto ferire.Non tacqui nemmeno una delle risposteche avevano preso forma dentro di me;erano frasi violente, nuove, che nonseguivano modelli precostituiti.L'interlocutore principale di tuttequeste mie repliche era lei, miamadre, trasformatasi ormai nel mionemico implacabile, dal momento che siera assunta il compito di sradicare inme tutto ciò che lei stessa avevaseminato. Di questo ero convinto, edera un bene, donde altrimenti avreitratto la forza per oppormi e non

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soccombere? Ero ingiusto; ma comeavrei potuto non esserlo? In quellalotta all'ultimo sangue, non vedevoquel che io le avevo fatto, non mirendevo conto che io stesso avevoistigato le reazioni del mioavversario con l'arroganza e lacrudele serietà delle mie convinzioni.Non era il tempo della giustizia, erail tempo della libertà, e nessuno quipoteva usare le mie parole contro dime fino a mozzarmi il respiro.Alla sera mi sedevo all'osteria escrivevo una buona parte di tuttequeste cose nel secondo quaderno,quello riservato alle discussioni conme stesso.Questo quaderno l'ho ritrovato eriletto. A distanza dicinquantaquattro anni, quella letturami ha spaventato. Che furore, chepathos! Vi ho ritrovato ogni frasedalla quale mi ero sentito minacciatoe offeso. Non una di quelle frasi erastata dimenticata o tralasciata, tuttele accuse più brucianti e più ingiustevi erano state registrate. Ma hotrovato anche tutte le mie risposte, ein esse una passione che andava moltooltre il bersaglio e tradiva forzemicidiali di cui allora non eroconsapevole. Se non ci fosse statonient'altro, se, a partire da quelperiodo, non avessi provato aspingermi in tutte le direzioni allaricerca di un sapere da mettere alservizio di quella passione, tutto ciòavrebbe avuto un esito nefasto eviolento e certo non sarei qui agiustificare la collera immane di queidieci giorni.La sera l'osteria si riempiva dicontadini e forestieri, si beveva e sicantava, ma io riuscivo a tenermifuori dal gioco. Stavo seduto al miotavolo con un bicchiere di vino,tacevo e scrivevo. Da quellostudentello smunto, occhialuto eantipatico che ero, avrei avuto più diun motivo per attaccare discorso ebere con gli altri, in modo da fardimenticare il mio aspettoinsignificante. Ma ero tutto presodalla mia autodifesa; seguivo conocchio attento tutto ciò che accadevaintorno, facendo in modo però chenessuno se ne accorgesse, e sembravoprofondamente immerso nelle cose chestavo scrivendo, sicché alla finenessuno badava più a me. Dato che

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avevo davanti il mio moscatello,nessuno mi poteva portar via il posto.Sentivo che non dovevo lasciarmiinvischiare nella conversazione.Avrebbe spezzato il filo del miosoliloquio e tolto vigore alla miaautodifesa. Davanti a quelle personedel tutto estranee non avrei potutoessere me stesso. A loro, l'odio dicui ero pervaso sarebbe parso purafollia; d'altra parte non ero affattodisposto a recitare una parte.Tuttavia, perfino in quelle insolitecircostanze, riuscii a farmi degliamici. Erano dei bambini, tremaschietti, che si facevano vivi allesei del mattino sotto la mia finestra.Il più piccolo aveva cinque anni, ilpiù grande otto. Il primo giorno miavevano visto seduto al mio tavolinomentre scrivevo e avevano trovato lacosa talmente insolita che eranorimasti a guardarmi per un pezzo, ealla fine mi avevano domandato tuttiinsieme come mi chiamavo. Li trovaicosì simpatici che gli dissi subito ilmio nome. Ma loro con quel nome nonriuscivano a raccapezzarsi, loripetevano con aria dubbiosa,scuotendo il capo. Con quel nome erodiventato più estraneo di prima.Allora il più grande ebbe un'ideabrillante e spiegò agli altri: -Maquesto è il nome di un cane! . Da quelmomento mi vollero bene come a uncane. Al mattino erano il mio orologioe mi svegliavano chiamandomi per nome.Quando mi ritiravo con Freud e il mioquaderno, se ne stavano a lungoallineati in silenzio senzadisturbare. Ma dopo un po'cominciavano ad annoiarsi e se neandavano via trotterellando, in cercadi cani migliori.Al pomeriggio, quando partivo per lemie spedizioni, erano lì in attesa, eogni volta mi accompagnavano per untratto di strada. Io gli domandavo inomi degli animali e delle piante neldialetto locale e m'informavo sui lorogenitori e parenti. I bambini sapevanodi non doversi allontanare troppo dalvillaggio e di colpo si fermavanotutti insieme, come se si fosseromessi d'accordo. La cosa a cuitenevano di più era il mio saluto conun cenno della mano. Quando una voltami dimenticai di farlo, il mattinoseguente mi rimproverarono. In queigiorni di apparente mutismo, quei

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bambini mi fecero compagnia. Nel miostato di esaltazione, alimentato dalleminacce, dalle maledizioni e dallepromesse della mia autodifesa, nessunacreatura umana avrebbe potuto essermipiù cara di quei bambini. Quando, almattino, si mettevano in fila accantoal mio tavolo - non troppo vicino, pernon disturbare - e guardavano mentrescrivevo, io sentivo la loro presenzacome una specie di meritatabenedizione.Parte terza: La scuoladell'ascolto (Vienna 1926-1928).Il rifugio.Verso la metà di agosto ritornai aVienna. Dell'incontro con la mamma nonconservo alcun ricordo. La libertà chemi ero conquistato con la -resa deiconti fra le montagne ebbe su di meun effetto sconvolgente. Cercai, senzaritegni né sensi di colpa, l'unicapersona dalla quale mi sentivoattratto, l'unica a cui potevo parlarecome il cuore mi dettava. Quandoandavo da Veza per parlare dei libri edei quadri che amavamo, nondimenticavo mai con quanta energia erisolutezza lei si era conquistata lasua libertà: la stanza in cui tuttoera come piaceva a lei e nella qualepoteva occuparsi delle cose che leerano congeniali.La sua lotta era stata assai piùdura della mia. Il vegliardo erasempre là, e anche se le sue non eranopiù vere aggressioni, l'atteggiamentoera ostile, non pensava che a sestesso, e per sfuggire al suo assediobisognava che gli altri loassediassero a loro volta e lotenessero d'occhio in continuazione:tutto questo rispondeva al caratteredi Veza assai meno di quantorispondessero al mio carattere gliscontri con la mamma, i quali eranopur sempre veri scontri, fra avversariche sapevano benissimo ciò che avevanoda rimproverarsi.Ormai il rifugio che Veza si eracreata era diventato anche il miorifugio. Potevo andarci in qualsiasimomento, non giungevo mai inopportuno,le mie visite erano gradite, anche senessuno le pretendeva da me come undovere. Si parlava sempre di coseappassionanti. Arrivavo pieno di coseda dire e me ne andavo con l'animoaltrettanto colmo. In un paio d'ore imiei pensieri subivano ogni volta una

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sorta di processo alchemico: doposembravano più puri, più limpidi, manon meno urgenti. In modo diverso esorprendente continuavano a occuparmianche nei giorni seguenti, finché gliinterrogativi che mi ponevo erano talie tanti da costituire un buon motivoper un'altra visita.Parlavamo anche di tutto ciò chedurante quella prima visita, inmaggio, era stato taciuto a causadella mia impetuosa perorazioneaffinché la vita di re Lear potessenon finire mai. Tuttavia non milamentavo della situazione che si eracreata in casa. Ero troppo orgogliosoper dire a Veza la verità. E poi miaggrappavo all'immagine pubblica dimia madre, come se quell'immagineavesse la forza di restituirle lapersonalità di un tempo. Aveva soloquarant'anni, era ancora consideratauna bella donna, la vastità delle sueletture era diventata proverbiale frale persone che la conoscevano. Noncredo che mia madre leggesse a queltempo molti libri nuovi, ma incompenso non dimenticava nulla e avevasempre ben presente tutto ciò cheaveva letto in passato; quindi, purchénon dovesse affrontare argomenti checonosceva solo indirettamenteattraverso di me, nelle conversazionicon gli altri le sue parole suonavanonobili e intelligenti. Solo di frontea me lasciava trasparire fino a chepunto fossero morte le sue idee di unavolta. Quando ci scontravamo conparticolare accanimento, mi accusavadi essere stato io a ucciderle.Nei primi mesi, forse per metàdell'anno, di queste cose non parlaicon Veza durante le mie visite. Leipreferiva che io non dicessi nulla dimia madre. La stimava una donnasuperiore, molto superiore a sé, ed iocominciai a intuire le dotistraordinarie che le attribuiva unavolta che mi domandò, quasi contimidezza, come mai mia madre nonavesse pubblicato nulla. Erafermamente convinta che avesse scrittodei libri e quando io (pur sentendomilusingato) dissi che non era vero,Veza non si lasciò distogliere dallasua idea e trovò perfino unaspiegazione al fatto che mia madretenesse segreta la sua attività discrittrice. -Ci considera tutti deichiacchieroni. E ha ragione. Noi

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ammiriamo i grandi libri e nonfacciamo che parlarne. Lei li fa e cidisprezza moltissimo, tant'è che deisuoi libri non parla con nessuno. Ungiorno o l'altro verremo a saperesotto quale pseudonimo li pubblica.Allora ci vergogneremo di nonessercene mai accorti . Continuai asostenere che non era possibile, se lamamma avesse scritto dei libri, me nesarei accorto di sicuro. -Lo fasoltanto quando è sola. Durante i suoiritiri in sanatorio, lontana da voi.Non è mica malata davvero. Non vuolealtro che un po' di pace per poterscrivere. Lei rimarrà sbalorditoquando leggerà i libri di sua madre! .Mi sorpresi a desiderare che avesseragione, pur essendo sicurissimo cheera impossibile. Veza riempiva tuttidi fiducia in se stessi. Riuscìpersino, sia pure solo a metà, a farmisperare di nuovo in una persona allaquale avevo tolto ogni fiducia. Vezanon sapeva quanto il distacco mi fossefacilitato dall'effettocontraddittorio delle sue parole.Quando la mamma, che non perdevaoccasione per rinfacciarmi la miaingratitudine, dipinse a tinte foscheil proprio avvenire - ormai avevaperduto anche il figlio primogenito,che si era annichilito e immeschinitocon le proprie mani, sicché per leiera come se non esistesse - allora inme si ridestò l'illusione che davveroin segreto fosse una scrittrice:chissà, forse è vero, pensai, forseriuscirà a consolarsi così.Ma ancora più importante era chetutto, in quelle visite, era diversoda come l'avevo conosciuto. Il recentepassato si dissolveva; io non avevostoria. False idee da tempo radicatesi correggevano, ma senza conflitti.Non mi sentivo costretto a ribadire lamia fedeltà a quelle idee soltantoperché venivano attaccate.Veza sapeva molte poesie a memoria,ma non usava molestare il suo prossimorecitandole in continuazione. Neavevamo una in comune: il Prometeo diGoethe. Voleva ascoltarla dalla miavoce, ed io gliela lessi. Non larecitò insieme a me, anche se avrebbepotuto farlo senza difficoltà: volevadavvero ascoltare; e quando alla finemi disse: -Non si è perso nulla , lamia gioia fu davvero incontenibile esolo dopo un po' mi resi conto che

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Veza aveva in mente di recitare unapoesia ancora più lunga e voleva cheio l'ascoltassi in una disposizioned'animo favorevole. La poesia era TheRaven di Edgar Allan Poe, Veza ne eracome invasata. La poesia èlunghissima, Veza l'aveva imparata amemoria molto tempo prima e quellavolta me la recitò in tutta la sualunghezza. Il mio stupore perquell'invasamento non le creò problemi(eppure di solito reagiva con estremasuscettibilità agli stati d'animoaltrui). Sentivo che non dovevointerromperla e, quando mi vennevoglia di gridare -Basta! , temetti dinon essere mai più invitato da lei seavessi ceduto al mio impulso. Cosìascoltai The Raven fino alla fine eanch'io ne fui conquistato. Quel corvomi prese i nervi, cominciai asussultare al ritmo della poesia e,quando essa finì e io continuai asussultare ancora per un poco, Veza,guardandomi, disse tutta allegra:-Adesso ci è cascato anche lei. Per meè stata la stessa cosa. Bisognerebbesempre recitare le poesie ad altavoce, anziché leggerle in silenzio perconto proprio .Presto, com'è ovvio, cominciammo aparlare di Karl Kraus. Veza mi domandòperché alle letture la evitavo in quelmodo. Credeva di saperlo, e se davverola ragione era quella, si sentiva indovere di rispettarla: ero talmentepreso, che non avevo voglia di parlarecon nessuno, volevo portar via tuttodentro di me così com'era, senzaanalizzarlo, senza discuterlo. Anchelei ci andava volentieri da sola, madopo preferiva parlarne, piuttosto cherestare in silenzio. Non si potevaessere d'accordo con tutto ciò cheKraus diceva. Veza aveva la più grandeammirazione per Karl Kraus, ma non silasciava imporre da lui le cose che sidovevano o non si dovevano leggere. Mimostrò i Franz�sische Zust�nde[situazioni francesi] di Heine. Loconoscevo? Era uno dei libri piùdivertenti e intelligenti che leiconoscesse. L'aveva cominciato treanni prima, dopo un viaggio a Parigi,e ora lo stava rileggendo.Rifiutai di prendere in mano ilvolume. Non c'era autore che KarlKraus avesse vietato più severamentedi Heine. Non le credevo, pensavo chevolesse farmi uno scherzo, e persino

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come scherzo mi spaventava. Ma lei,che ci teneva moltissimo a dimostrarmila sua indipendenza di giudizio, mimise il titolo sotto il naso, lo lessead alta voce, sfogliò persino il librodavanti a me e disse: -Allora, èconvinto adesso? . -Non l'avrà micaletto! E'è già abbastanza grave chel'abbia qui a portata di mano! .-Heine ce l'ho tutto: eccolo, guardiqui! . Aprì lo sportello di unalibreria, quella con i libri più cari,-i libri senza i quali non vorreivivere disse, e là si trovavano,anche se non al primo posto, le operecomplete di Heine. Dopo questo colpo,che mi aveva inferto intenzionalmente,Veza mi mostrò ciò che speravo:Goethe,Shakespeare, Molière, il Don Juan diByron, Les Misérables di VictorHugo, Tom Jones, Van-ity Fair, Anna Karenina, MadameBovary, L'idiota, I fratelliKaramazov, e infine un autore cheamava moltissimo, lo Hebbel deiDiari. Non tirò giù dallo scaffaletutti i libri che aveva, ma soloquelli che per lei significavano dipiù. Adorava i romanzi, quelli che mimostrò li aveva letti e riletti, eanche in ciò dimostrava la suaindipendenza da Karl Kraus. -Lui nons'interessa ai romanzi. E neppure aiquadri. Non s'interessa a nulla chepossa mitigare la sua collera. E'è unacosa magnifica, ma inimitabile. Lacollera dev'essere dentro di noi, nonsi può prenderla a prestito danessuno .Suonava più che naturale, ma per mefu uno shock. La vedevo davanti a meseduta in prima fila alle letture diKarl Kraus, radiosa e impaziente, eforse un momento prima aveva letto unapagina di Heine, tratta magari daiFranz�sische Zust�nde! Come osavapresentarsi proprio lì, davanti aisuoi occhi? Ogni frase di Karl Krausera un ordine perentorio, chi nonobbediva era inutile che andasselaggiù. Da un anno e mezzo non perdevouna sola delle sue letture e ne erototalmente preso, come da una Bibbia.Non una sua parola mi suscitava deidubbi. Mai, in nessuna circostanza,avrei agito contro il suoinsegnamento. Kraus era i mieiprincìpi. Kraus era la mia forza. Senon avessi potuto pensare a lui,

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neppure per un giorno avrei tolleratogli stupidi armeggii al laboratorio dichimica. Quando leggeva Gli ultimigiorni dell'umanità, Kraus per mepopolava Vienna. Non sentivo che lesue voci. Ce n'erano altre? Solo dalui si poteva trovare la giustizia, omeglio, trovarla no, Kraus stesso erala giustizia. Gli sarebbe bastatocorrugare la fronte, e avrei rotto irapporti col mio migliore amico. Misarebbe bastato un cenno, e per lui misarei gettato nel fuoco.Queste cose le dissi a Veza, nonpotevo non dirgliele, dissi anche dipiù, dissi tutto. Una mostruosaimpudicizia mi travolse e mi costrinsea svelare i miei impulsi più segretiall'asservimento. Veza ascoltò le mieparole senza interrompermi, le ascoltòfino alla fine. Io parlavo concrescente veemenza, lei era seria,mortalmente seria, quand'ecco, dicolpo, una Bibbia le comparve tra lemani- non so dove l'avesse presa - e leidisse: -Questa è la mia Bibbia! .Sentivo che voleva giustificarsi.Non si opponeva al fatto cheprofessassi una fede così assoluta nelmio Dio. Ma, benché non fosse credentein senso stretto, prendeva la parola-Dio più seriamente di me, e nonconcedeva a nessun uomo il diritto difarsi Dio. La Bibbia era il libro cheleggeva più spesso. Amava i libristorici, ma anche i Salmi, i Proverbie i libri profetici. Soprattutto amavail Cantico dei Cantici. Conosceva benela Bibbia, pur non citandola mai. Nonla imponeva a nessuno, eppure, infondo, valutava la letteraturabasandosi sulla Bibbia e secondo iprecetti della Bibbia valutava anchele persone.Ma è un'immagine scolorita quellache sto dando di Veza, elencando isuoi interessi intellettuali. I titolidi libri famosi, uno dopo l'altro,suonano come altrettanti concetti.Bisognerebbe estrarne un singolopersonaggio, e descrivere comenasceva, a poco a poco, dalle paroledi Veza, per dare un'idea della vitarigogliosa e caparbia che esso vivevadentro di lei. Non nasceva in unavolta sola, si formava nel corso dimolti colloqui, e solo dopo parecchievisite avevi la sensazione diconoscerlo. Allora non dovevi più

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attenderti delle sorprese, le suereazioni erano note, potevi contarci,il segreto del personaggio si eracompletamente calato in quello diVeza.Dall'età di dieci anni, sempre avevoavuto la sensazione di esserecostituito da molti personaggidiversi; ma era una sensazione vaga,non avrei saputo dire chi era ilpersonaggio che parlava in un datomomento per bocca mia, né perché adesso succedesse in seguito un altropersonaggio. Era una correntemultiforme, che, nonostante lanettezza delle esigenze e delleconvinzioni che acquisivo man mano,non si esauriva mai. Desideravoabbandonarmi alla corrente, e ciriuscivo, però non la vedevo. Adesso,con Veza, avevo conosciuto una personache, per costruire la propriamolteplicità, aveva trovato eutilizzato i personaggi della grandeletteratura. Li aveva trapiantati insé, essi fiorivano in lei, ormaipoteva disporne a suo piacimento. Perme erano sorprendenti la chiarezza ela nettezza di tutto questo, l'assenzadi qualsiasi casualità, la mancanza diogni elemento spurio che non facesserealmente parte di lei. In Veza c'erauna tale consapevolezza, che queipersonaggi sembravano scolpiti sulleTavole della legge. Ogni personaggiovi era segnato in tutta la suapurezza, si stagliava davanti agliocchi con contorni precisi, e vivevacome una persona reale, definitosoltanto dalla sua verità, non c'eradannazione che potesse dissolverlo.Osservare Veza che si muovevalentamente in mezzo ai suoi personaggiera uno spettacolo appassionante.Erano il suo scudo contro Karl Kraus,che mai sarebbe riuscito a scalfirlo,quei personaggi rappresentavano la sualibertà. Lei non si lasciò maisoggiogare da Karl Kraus, e fu moltogeneroso, da parte sua, darmi retta,quando giunsi davanti a lei legatomani e piedi. Ma una cosa si avvertivain Veza ancor più intensamente dellasua contenuta ricchezza: il suosegreto.Il segreto di Veza stava nelsorriso. Lei ne era conscia e sapevaevocarlo, ma, una volta comparso, nonera più in suo potere mandarlo via: ilsorriso non se ne andava, era come se

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quel sorriso fosse il suo vero volto,finché Veza non sorrideva, la suabellezza era ingannevole. A volte,sorridendo, chiudeva gli occhi, leciglia nere si abbassavano esfioravano le guance. Era come se siguardasse dal di dentro, illuminatadal suo stesso sorriso. Come sivedeva? Era questo il suo segreto;eppure, anche se taceva, gli altri nonsi sentivano esclusi. Il suo sorrisopassava, come un arco scintillante, dalei a coloro che la guardavano. Nonesiste nulla di più irresistibiledell'invito a entrare nello spaziointerno di un essere umano. E se lapersona sa usare molto bene le parole,il suo silenzio accresce al massimo laseduzione. Cerchiamo di arrivare sinoalle sue parole, e speriamo ditrovarle dietro il sorriso: è là cheesse attendono il visitatore.In Veza c'era un nodo che non potevasciogliersi, perché era satura ditristezza. Alimentava continuamente lasua tristezza, era sensibile a ognidolore, purché fosse il dolore di unaltro; soffriva l'umiliazione altruicome se a subirla fosse stata leistessa. E questo senso di pena non lebastava, doveva rovesciare sugliumiliati una pioggia di elogi e didoni.Di quei dolori lei sentiva il pesoanche quando da lungo tempo si eranoquietati. La sua tristezza eraabissale: racchiudeva e conservava insé tutto ciò che era ingiusto. Vezaera molto orgogliosa, ed era facileferirla; ma a tutti concedeva lastessa vulnerabilità ed era convintadi essere circondata da personesensibili che avevano bisogno dellasua protezione e che lei nondimenticava mai.La colomba della pace.E'è straordinario quante cose possanonascere da dieci giorni di libertà.Dal 1o al 10 agosto 1925 avevotracciato in completa solitudine lamia linea di demarcazione neiconfronti di Freud e mi ero anchedifeso dalle accuse di mia madre,gettando al vento durante il giorno lecose che poi la sera mettevo periscritto; e proprio perché mia madrenon ne sapeva nulla, mi presi lasoddisfazione di essere più duro, piùincisivo e più efficace di quanto nonsarei stato in sua presenza. Quella

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breve parentesi di libertà, che miavrebbe nutrito per tutta la vita, misarebbe rimasta sempre presente, nonfoss'altro perché in ogni fase dellamia esistenza, qualunque cosa micapitasse, ritornavo ad essa con ilpensiero.In quei giorni, mentre stendevo lamia accusa, con frasi così violenteche oggi mi fanno paura, mi apparivaun volto che - così pensavo - nonc'entrava per nulla. Non avevo fattoattenzione al suo sorriso, e ora quelvolto non sorrideva; mi parlavainvece, serio e inflessibile, dellaguerra che aveva combattuto. Era ilvolto di Veza. Mi parlava della sualibertà. Il vecchio allampanato cheallora conoscevo soltanto dalletremende parole di Veza (tanto piùtremende in quanto nessuno se lesarebbe aspettate da lei) aveva persola sua guerra contro Veza. Io,sconcertato, cercavo di scacciarequella visione, ma le parolecontinuavano a uscire dalla bocca diVeza, dandomi più forza per la miaimpresa. Alla lotta per la libertà diquei dieci giorni Veza prese parte conla sua propria lotta. Quando tornai aVienna, mi sentii spinto verso di leie cominciò tra noi un dialogoinesauribile, andavo a trovarla semprepiù spesso, e questo dialogo prese ilposto del vecchio dialogo, che eradegenerato in una lotta di potere e daessa era stato devastato: di tutto ciònessuno avrebbe potuto stupirsi, ma nefu sconvolta la persona che avevaavuto la peggio: mia madre.A settembre era tornata a casa, mal'atmosfera era mutata. Per due mesirestammo ancora insieme nellaRadetzkystrasse. Il fuoco che ci avevaacceso era ormai estinto. Il mio sfogodi luglio l'aveva spaventata, quellavolta il medico aveva pronunciato ilsuo verdetto contro di lei. Non miattaccava, non m'imponeva nulla. Ionon la criticavo, perché ormai potevoparlare con Veza. Non tenevo nascostele mie visite in quella casa, eparlavo apertamente, pur senzascendere nei dettagli, delleinclinazioni letterarie di Veza.Forse, anzi, ne parlavo fin troppoapertamente, soprattutto quandoelogiavo la sua cultura, il suo gusto,la sua capacità di giudizio. Per unpo' la mamma mi ascoltò senza reagire

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in maniera diretta. Ma poi cominciò amostrarsi profondamente irritata dalleinterruzioni durante l'ora dei pasti.Quando Johnnie Ring doveva uscire dalsuo bugigattolo e passava nelsoggiorno appiattendosi dietro lasedia della mamma, lei storceva ilviso in una smorfia di disgusto eneanche rispondeva al suo saluto. Alritorno Johnnie si metteva abalbettare, tanto gli era penoso quelsilenzio, metà dei suoi discorsiadulatori gli restavano in gola; ma lamamma continuava a tacere fino aquando egli non aveva richiuso dietrodi sé la porta dello stanzino.Subito dopo si scatenava ilfinimondo contro Vienna, quellasentina di vizi dove più niente venivafatto come si deve. La mattina iviennesi poltrivano a letto, oppureerano esteti, che chiacchieravanosoltanto di libri. Fannulloni eimpudenti com'erano, si piazzavano inpieno giorno nei musei, davanti aiquadri. E il risultato era uno solo,nessuno voleva più lavorare, perchéstupirsi dunque della disoccupazionese non c'erano più uomini capaci diaffrontare la vita? E magari Viennafosse stata soltanto una sentina divizi, era anche una città provinciale,ormai. In tutto il mondo più nessunoattribuiva importanza alle cose checapitavano a Vienna, bastava nominarlaperché la gente storcesse la bocca inuna smorfia di disprezzo. Perfino KarlKraus (del quale fino a quel momentonon si era mai interessata) venivacitato come testimone dell'inferiorità di Vienna. Lui sì chesapeva di che cosa parlava, lui delmondo se ne intendeva, e la gente chestrapazzava era la stessa che poicorreva a frotte ad ascoltarlo perridere dei propri vizi! Un tempo, neigiorni gloriosi del Burgtheater, tuttoera diverso, allora Vienna era ancorauna città che contava qualcosa. Forseera anche per via dell'Imperatore: contutto ciò che si poteva dire contro dilui, era stato un uomo con unaltissimo senso del dovere. Vecchiocom'era, sedeva ancora, giorno dopogiorno, davanti alle sue carte. Maora? Conoscevo una sola persona chenon pensasse prima di tutto adivertirsi? E in una città simile sidovevano educare dei giovani adiventare uomini? Era solo tempo

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perso; a Parigi sì, a Parigi sarebbestata un'altra cosa.Avevo la sensazione che quell'odioimprovviso per Vienna fosse rivolto inrealtà a una persona determinata,della quale non veniva fatto il nome.Solo a pensarci mi venivano i brividi,benché mia madre evitasseaccuratamente ogni accusa contro dime. Il solo fatto che avesse inclusoper la prima volta i musei nelcatalogo dei vizi e se la prendessecon quelli che perdevano tempo davantiai quadri già mi sembrava sospetto.Non c'era nessuno che nominasse Vezasenza paragonarla a un quadro, esiccome di quadri ne erano statichiamati in causa parecchi, già si eracreato un piccolo museo. Tutto a untratto, durante uno di quei rabbiosiattacchi contro Vienna, sarebbesaltato fuori il nome di Veza. Checosa avrei fatto allora? Alla primaoffesa contro quella persona me nesarei andato di casa, per sempre.Ma prima di arrivare a tanto lamamma, all'inizio dell'inverno, siritirò a Mentone, in Riviera, e di làcominciò a scrivermi delle lettereimploranti. Era abbandonata da tutti,diceva, in albergo nessuno la potevasoffrire, la gente diffidava di lei,le donne avevano paura dei suoisguardi, soprattutto quando sedevanocol marito in sala da pranzo. Rimasiimpressionato, perché in quelledescrizioni c'era qualcosa della suaforza di un tempo. A ciò siaggiungevano minuziosi ed esaurientiresoconti su ogni sorta di disturbifisici. Benché sapessi fin dal tempodi Arosa che si trattava spesso dimali immaginari, non per questo liprendevo meno sul serio. Comunque,ciascuna delle sue lettere sfociava eculminava in vere e proprie esplosionidi odio, un odio così cieco eselvaggio che cominciai a temere perla vita di Veza.Ora infatti, per lettera, facevaapertamente il suo nome. Le attribuivai moventi più bassi e diceva su di leile cose più orribili, senza alcunritegno. Veza aveva capito il mio latodebole, il mio amore per i libri, e losfruttava spudoratamente nonparlandomi d'altro. Veza, che era unadonna e non aveva niente da fare,poteva anche permettersi di vivere daesteta. Se non ne provava disgusto,

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erano fatti suoi, ma attirarvi ungiovane che si stava preparando allalotta per l'esistenza era un verocrimine. Lo faceva per pura vanità,con l'unico scopo di attrarre unanuova vittima nelle sue reti; che cosapoteva mai significare, infatti, unacreatura ridicolmente giovane come me,per una donna esperta come Veza? Ilmio risveglio sarebbe stato atroce,quando fosse venuto il turno della suaprossima conquista. Ero talmentecandido e ingenuo che lei, mia madre,non poteva pensare a me senza sentirsiangosciata. Era decisa a salvarmi.Via, lontano da Vienna! Quella sentinadi vizi, la città dei Johnnie e delleVeza - che non per nulla erano cugini- non faceva per noi.Pensava di trasferirsi a Parigi coni miei fratelli. Avrebbero continuatole scuole laggiù, per poi frequentarvianche l'università. Era chiaro cheormai non potevamo più vivere insieme.A ventun anni dovevo andare per la miastrada. Ma c'erano parecchie città, inGermania per esempio, la cui atmosferanon era appestata dagli esteti e doveavrei potuto continuare proficuamentei miei studi. Non temeva più chelasciassi la chimica, poiché ormaiavevo resistito due anni. Temevasoltanto Vienna, dove mi sareicertamente rovinato, in un modo onell'altro. Non dovevo credere cheVeza fosse un'eccezione, a Viennavivevano migliaia di persone come lei,persone senza scrupoli e avide dipiaceri, che per soddisfare la propriavanità non esitavano a strappare ifigli alle madri, per gettarli poi inun cantuccio quando ne avevanoabbastanza. Di casi del genere neconosceva a bizzeffe. Non me ne avevamai parlato per non confondermi leidee sulle donne, ma ormai era tempoche sapessi come andavano le cose nelmondo - ben diversamente da com'eranodescritte nei libri.Per tutto il tempo in cui rimase aMentone, fino a marzo inoltrato,risposi alle sue lettere. Sapevo chelà era completamente sola, e le suelamentele sulla diffidenza che lacircondava da ogni parte mipreoccupavano. Dalle ingiurie controVeza, che prendevano la metà delle suelettere, mi sentivo colpito eaddolorato. Temevo che potesserogiungere sino all'aggressione fisica,

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e cercai, sia pure con poche speranze,di intervenire sul suo stato d'animoper farle cambiare idea. Le raccontavotante altre cose che capitavano aVienna, per esempio le mie discussionicon la vicina di posto in laboratorio,una ragazza emigrata dalla Russia chemi piaceva molto; oppure che un nano,arrivato da poco, con il suo pigliochiassoso e risoluto dominava l'interaaula; e poi tutte le letture di KarlKraus (adesso che la mamma l'avevaufficialmente accreditato comespregiatore di Vienna, non poteva piùcome prima voltare la testa dall'altraparte ogni volta che si parlava dilui). In tutte le mie lettere dicevomolto chiaramente che ero deciso arimanere a Vienna. Dei suoi attacchicontro Veza non tenevo conto, ecercavo di non prenderli troppo sulserio. Solo due o tre volte, non dipiù, replicai con parole indignatemanifestando i miei veri sentimenti,che erano quelli di una personaprofondamente offesa. Lei, allora,cambiava subito tono e moderava il suoodio per circa una settimana. Ma dopoun paio di lettere ricominciava tale equale, e io ero al punto di prima.Il suo stato mi rendeva inquieto, masoprattutto ero preoccupato per Veza.Conoscevo la sua sensibilità, Veza sisentiva colpevole di tutto ciò che lecapitava intorno e di molte altre coseancora. Se avesse avuto il minimosentore di ciò che mia madre pensava escriveva di lei, di sicuro si sarebberitirata, e non avrebbe più volutovedermi per nessun motivo. Finché nonne avesse saputo una sillaba, tuttosarebbe andato bene. Ogni settimanaero turbato da una lettera chearrivava da Mentone: in quei giorninon andavo a trovare Veza, per evitareche lei si accorgesse di qualcosa.La casa era stata disdetta findall'inizio dell'anno, i miei fratelliabitavano presso una famiglia e io miero preso una stanza in affitto. Inmarzo la mamma andò a Parigi, dovevivevano alcuni parenti e molti amici.e cominciò a guardarsi intorno perpreparare il trasferimento estivo. Perla fine di maggio annunciò il proprioarrivo a Vienna. Voleva fermarsi unmese per sistemare ogni cosa. Dopo seimesi, era tempo che finalmente ciparlassimo di nuovo.Quando venni a sapere di quella

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visita minacciosa, ebbi paura. Ora lasituazione diventava rischiosa, dovevoproteggere Veza ad ogni costo,bisognava evitare assolutamente cheincontrasse mia madre. Ma non dovevanemmeno sapere del suo odio, chel'avrebbe turbata, e poi tra noisarebbe cambiato tutto. Né potevodecidere come comportarmi con la mammaprima che arrivasse. Mi avevaannunciato che sarebbe scesa in unapensione proprio dietro l'Opera, fuoridella città leopoldina, perciò nondovevo temere un incontro casuale conVeza. Il tempo di preparare Veza nonmi mancava. Non avrebbe dovuto saperepiù di ciò che era strettamentenecessario, quel tanto che occorrevaperché acconsentisse al mio desideriodi evitare la mamma, non di più.Confidai a Veza che mia madredesiderava che io lasciassi Vienna.Qualcuno le aveva spiegato che per mesarebbe stato meglio frequentare unagrande università tedesca nella qualeinsegnava un chimico di fama mondiale,e poi far di tutto per laurearmi conlui. A Vienna, a quel tempo, non c'eraun solo professore che godesse di uncosì alto prestigio. Dalla laureadipendeva in gran parte il mio futurodi chimico. Questo non significava,diceva la mamma, che più tardi nonpotessi tornare a Vienna: nessuno puòsapere con precisione quale sarà ilproprio futuro. Naturalmente la mammaaveva notato che qualcosa mitratteneva a Vienna. Io le avevoscritto che non volevo andar via anessun costo. Adesso stava perarrivare, decisa a fare un ultimotentativo, e avrebbe cercato in tuttii modi di persuadermi. Ma non cisarebbe riuscita, la chimica mi eradel tutto indifferente, non avevointenzione di esercitare laprofessione di chimico. Nessuno megliodi Veza sapeva ciò che volevodiventare e che cosa avrei fatto nellavita, comunque e dovunque.Veza mi domandò perché mai ero tantopreoccupato. Se non volevo andar via,nessuno poteva costringermi, dopotutto.-Non si tratta di questo, dissi -tumia madre non la conosci abbastanza.Quando vuole qualcosa, adopera ognimezzo per imporre le sue idee. Verrà atrovarti, ne parlerà con te. Ticonvincerà che per me la cosa migliore

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è lasciare Vienna. Ti porterà a unpunto tale che sarai tu araccomandarmi di partire. E io nonpotrei mai perdonartelo. Ciallontanerà l'uno dall'altra. Ho unapaura terribile che parli con te .-Mai. Mai. Mai. Non ci riusciràmai! .-Ma io ho paura, e quando sarà quinon avrò più un istante di pace. Tremoal pensiero del suo arrivo. Tu stessahai un'altissima opinione delle suedoti intellettuali, della sua forza divolontà. Non hai idea di ciò chesarebbe capace di dire. E io nemmeno,del resto; sai, le cose le vengono inmente di punto in bianco, e di colpotu ti accorgi che ha proprio ragione ele prometti tutto quello che vuole; eallora - allora, che ne sarà di noi? .-Non la vedrò. Te lo prometto. Logiuro. Così non succederà nulla. Saraitranquillo allora? .-Sì, sì, ma solo se farai quel chemi dici .Le dissi che non doveva rispondere anessuna telefonata, a nessuna letteradella mamma, insomma doveva evitarlacon la massima astuzia ecircospezione. La mamma, del resto,avrebbe abitato nel primo distretto,ed evitarla perciò non sarebbe statodifficile. Ma se, inopinatamente,fosse arrivata una sua lettera,avrebbe dovuto consegnarmela, dissi,ancor prima di aprirla. Quando vidicon quanta facilità Veza mi avevacreduto, cominciai a sperare. Non solomi avrebbe consegnato senza aprirlaqualsiasi lettera di mia madre, ma, selo desideravo, non l'avrebbe mailetta, neppure dopo di me, e non leavrebbe mai risposto.La mamma arrivò, e sin dal nostroprimo colloquio notai che anche lei citeneva molto a evitare un confrontocon Veza: l'immagine della -nemica ,così come se l'era costruita, volevaconservarsela nella sua scostanteintegrità. Sentiva che quell'immaginesi sarebbe dissolta nel nulla seavesse visto Veza in carne e ossaanche una sola volta. Dalle mielettere, che aveva riletto a Parigiuna dopo l'altra, aveva concluso che anessun costo avrei lasciato subitoVienna. Credeva di aver capito che,ancor più di Veza, non volevo perdereKarl Kraus. A Mentone, dove si sentivaesclusa perché non conosceva nessuno,

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la mamma dava per scontato che iovedessi Veza ogni giorno. A Parigi,dove aveva i suoi parenti e molteconoscenze, non ne era stata più tantosicura. La sua diffidenza si eraramificata, era diventata più sottile,aveva cominciato a leggere nelle mielettere molte cose che prima non avevanotato. Le avevo scritto della miacompagna di laboratorio, che mi facevapensare a Dostoevskij. Era una veradelizia parlare con lei diDostoevskij, per merito suo cominciavoaddirittura ad andare volentieri inlaboratorio. La mamma era statacolpita dall'espressione -una veradelizia , alla quale a Mentone, appenaricevuta la lettera, non aveva fattocaso, e aveva riflettuto sul fatto cheio passavo in laboratorio tutta la miagiornata. Durante i lunghiprocedimenti di analisi quantitativac'era tanto di quel tempo perparlare...-Vedi ogni tanto quella Eva, midomandò -la tua russa dellaboratorio? .-Sì, certo, andiamo quasi sempre amangiare insieme. Sai, quando parliamodi Ivan Karamazov, che lei detesta,non possiamo smettere come se nientefosse. Allora si va insieme a mangiarequalcosa alla taverna del Regina e sicontinua a parlarne, e così purequando ritorniamo per laW�hringerstrasse verso l'Istituto, nonsmettiamo un istante; e poi, quandosiamo di nuovo davanti ai nostrialambicchi, di che cosa credi cheparliamo? .-Di Ivan Karamazov! Da voialtric'era proprio da aspettarselo! Lei,naturalmente, sarà tutta per Alioªsa!Io invece ho cominciato a capire Ivan,da qualche anno lo considero il piùinteressante dei fratelli Karamazov .La mamma era talmente contentadell'esistenza di questa mia collegache iniziò una conversazione con me sualcuni personaggi letterari, propriocome ai vecchi tempi. Ricordòl'itterizia che mi ero preso nellaRadetzkystrasse, più di un anno prima.Era l'unico periodo al quale ripensavocon piacere; costretto a letto pervarie settimane, avevo lettoDostoevskij, tutti i volumi rossidell'edizionePiper, dal primo all'ultimo. -Insomma,devi esser grato all'itterizia, disse

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la mamma -altrimenti ora nonriusciresti a cavartela con la tuaEva . Quel -tua mi diede una fitta,era come se mi spingesse fra lebraccia di Eva con le sue stesse mani.La ragazza mi piaceva davvero, e lacosa mi aveva anche creato qualcheconflitto. Tuttavia, in un improvvisosoprassalto di astuzia, lasciaicorrere, perché sentivo che la mammami stava osservando con grandissimaattenzione. Dissi addirittura:-Sì, è vero. Parlarne con lei èmeraviglioso. Eva vive in Dostoevskije prende tutto molto sul serio. Inquell'aula non c'è nessun'altrapersona oltre me con cui lei potrebbeparlarne .Appena fra noi tornava laletteratura, mia madre mi piaceva dinuovo. Naturalmente era impossibilenon notare l'intento che l'avevaguidata nel dare quella certa piegaalla nostra conversazione. Era unsondaggio, voleva stabilire quale pesoaveva per me l'attraente collegarispetto a un'altra donna. Che cosacontava, per me? Poteva forse contareanche di più in futuro? Ritornando aDostoevskij, volle sapere se Eva, lamia collega, aveva qualcosa in comunecon le figure femminili diDostoevskij. La domanda suonava giàforiera di nuove ansie, ma io latranquillizzai: no davvero, eraproprio fuori strada. Eva era unapersona straordinariamenteintelligente, il suo vero talento erala matematica, in chimicafisica se lacavava meglio lei di tutti glistudenti di sesso maschile. La suavita emotiva - nonostante leinclinazioni intellettuali - era moltoricca, ma era una ragazza disentimenti coerenti e costanti, ivoltafaccia repentini ai quali lamamma aveva pensato con la sua domandasembravano estranei alla sua natura.-Ne sei proprio sicuro? disse lamamma. -Si possono prendere degliabbagli spaventosi. Avresti maipensato che un giorno saresti arrivatoa odiarmi? .Sorvolai su questa frase, era laprima provocazione dal momento del suoarrivo a Vienna; preferivo tornare altema iniziale del nostro colloquio.-Certo che ne sono sicuro, replicai-ogni giorno passo molte ore con lei.E'è quasi un anno che va avanti così.

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Credi che esista qualcosa di cui nonabbiamo ancora parlato? .-Pensavo che parlaste soltanto diDostoevskij .-Sì, perlopiù è così, è l'argomentodi cui parliamo più volentieri. Puoiimmaginare un modo migliore, perconoscere una persona, che parlare conlei di tutto quello che c'è inDostoevskij? .Ci aggrappammo entrambi a questacolomba della pace. Eva Reichmann sisarebbe meravigliata se avesseconosciuto il ruolo che la mamma leaveva attribuito. Certo non sarebbestata contenta di entrare nei nostridiscorsi in quella maniera, perché, insostanza, mia madre e io volevamo unacosa sola: evitare un altro argomento.In ogni caso non dissi nulla sul suoconto che non pensassi davvero, e,attraverso le mie stesse parole, Evami diventava sempre più cara. Benchémia madre parlasse di lei con tantainsistenza, non la presi affatto inantipatia. Eva fu davvero la nostracolomba della pace. Dopo quei sei mesidi assenza di mia madre e il carteggiotempestoso che c'era stato fra noi, iomi aspettavo un bruttissimo scontro.Adesso tutti e due, lo si avvertivachiaramente, ci stavamo scaricandodella nostra avversione e della nostraangoscia.-Revenons à nos moutons disseimprovvisamente la mamma,un'espressione che le piaceva, ma chenegli ultimi anni, durante i nostriconflitti, non aveva mai usato,neppure una volta. -Ormai dovrestisapere quali sono i miei progetti . Iltrasferimento a Parigi era fissato perl'estate. Sarebbe stato un periodofaticoso per lei. Prima di affrontarlovoleva fare una cura, voleva andare aBad Gleichenberg come l'anno passato,le aveva fatto bene. Avevo voglia dioccuparmi io dei fratelli per quelperiodo? Era importante che facesserodelle vere vacanze, subito doposarebbe iniziato per loro un periododifficile: l'ambientamento nelle nuovescuole francesi, per di più in classiabbastanza alte, alla soglia ormai delbachot, l'esame di maturità francese.Saremmo potuti andare tutti e treinsieme nel Salzkammergut, questol'avrebbe tranquillizzata molto, avreifatto a lei e ai fratelli un veroservizio.

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Capivo a che cosa mirava e accettaisenza esitare. Non c'era nulla, dissi,che avrei fatto più volentieri. Dopo,forse, non avrei più visto i fratelliper un anno intero. E poi anch'ioavevo voglia di andare in vacanza daqualche parte. Ci saremmo trovati unbel posticino. La mamma erasbalordita. Sentivo che aveva unadomanda a fior di labbra. Ma non lafece. Per poco non la feci io per lei.Arrivammo a una sorta di compromesso.La mamma disse: -Ma tu non hai altriprogetti per l'estate? . -E che generedi progetti per l'estate dovreiavere? .Il colloquio poteva finire così, esarebbe andato bene a tutti e due. Lamia unica, assillante preoccupazioneera stata che lei potesse offendereVeza, o comunque farle del male.Invece Veza non era stata nominataneppure una volta. Ma che cosasarebbe successo nei prossimicolloqui, durante le quattro settimanee più che la mamma avrebbe passato aVienna? Era un periodo lungo. Volevoessere del tutto sicuro, e prevenirequalsiasi sgradevole eventualità. Laconversazione sulla mia collega miaveva lasciato un'impressionepiacevole. Fu il diavolo a ispirarmi,o fu davvero l'angoscia per Veza?Dissi: -Sai Eva, la mia collega, mi hachiesto se quest'estate sarei andatoin montagna. Non le ho risposto nientedi preciso. Avresti nulla in contrariose venisse nella nostra stessa zona?Non nello stesso posto, naturalmente,magari a un'ora di strada, poco piùpoco meno. Così potremmo fare ognitanto una gita insieme. Avrebbe disicuro un buon ascendente sui ragazzi.La vedrei soltanto qualche volta,magari una o due volte la settimana, eil resto del tempo lo dedicherei aloro .La proposta la entusiasmò. -Perchénon dovresti vederla anche più spesso?Vedi che qualche progetto per l'estatel'avevi fatto. Sono molto contenta chetu me ne abbia parlato. Le due cose sipossono conciliare magnificamente. Leiè una così brava persona. E anche sete l'ha chiesto per prima, non è ilcaso di biasimarla. Una volta sarebbestato inconcepibile. Ma adesso ledonne sono tutte così .-No, no, dissi io -le cose nonstanno come tu immagini. Fra noi non

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c'è proprio nulla .-Quel che non c'è oggi, può nasceredomani disse la mamma. Non avevacerto molto tatto, una cosa simile conlei non mi era mai capitata. Che cosanon avrebbe fatto, pur di allontanarmida Veza! Con la mia improvvisa alzatad'ingegno avevo comunque scopertol'unica maniera per proteggere Veza.Dovevo parlare a mia madre di altredonne. Per questa volta mi era venutain aiuto una collega che per casolavorava vicino a me in laboratorio.Mi era davvero molto simpatica, ed erasconveniente, da parte mia, alimentarein mia madre l'idea che fosse la miaamica, o che potesse diventarlo. Lasituazione rimase per me un po'imbarazzante anche quando ne parlaicon Eva, e lei, comprensiva e generosacom'era, approvò a posteriori la miacondotta. Ma ormai era cosa fatta, earrivai alla conclusione che nonpotevo fermarmi lì: dovevo inventaredelle donne e parlarne alla mamma. Nondoveva sapere più nulla di me e diVeza, mai più. Presto la mamma sarebbestata lontana, a Parigi, Veza sarebberimasta a Vienna e io, in quel modo,l'avrei salvata da tutte le cosetremende che la mamma avrebbe potutofarle.La signora Weinreb e il boia.La signora Weinreb, presso la qualeavevo affittato una stanza bella espaziosa nella Haidgasse, era lavedova di un giornalista morto in etàavanzata. Lei era assai più giovane egli sopravviveva ormai da molti anni.Tutta la casa era piena dei ritrattidel defunto giornalista, una specie dinonno con barba benigna. La signora,con la sua cupa faccia canina, parlavasempre con grande devozione delmarito, come se anche da morto fossemolto superiore a lei,intellettualmente e moralmente, e unapiccola parte di questa suavenerazione la trasferiva suglistudenti universitari. Ogni studentepoteva diventare un -dottor Weinreb ,non nominava mai suo marito senzachiamarlo -dottore . Nelle foto digruppo coi suoi colleghi, davanti allequali mi sentivo in dovere ditrattenermi per un po' incontemplazione, egli risaltava nonsoltanto a causa della barba, ma ancheperché era sempre al centro dellafotografia. Di rado la signora diceva

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-mio marito , neppure a distanza ditanti anni dalla sua morte si erascordata che sposarlo era stato perlei un grande onore, e perciò lerarissime volte in cui le saliva allelabbra l'espressione -mio marito siinterrompeva spaventata, come se lefosse sfuggita una bestemmia, e dopoun attimo di esitazione aggiungeva,come in estasi, il nome completo dititolo: -il dottor Weinreb . Di sicurolo aveva chiamato così per un pezzoprima delle nozze, e non è escluso cheavesse continuato anche dopo, duranteil loro matrimonio.Ero venuto a sapere della stanzaattraverso una famiglia di amici, illoro figlio vi aveva abitato per unanno. Poi la cosa era finita male, evedremo perché. Quel giovane timido,noto per la sua mitezza, si eratrovato in una situazione incresciosaed era stato perfino trascinato intribunale. Mi avevano detto di starein guardia, non tanto dalla vedova,quanto dalle due donne che vivevanocon lei. Mi aspettavo di trovare unluogo di depravazione, però volevoabitare in una zona non troppo lontanadalla casa di Veza, seppure nonvicinissima, e la Haidgasse, unapiccola traversa della Taborstrasse,mi andava veramente benissimo: se noneraproprio un satellite dellaPraterstrasse, che allora, con i suoidintorni, dominava la mia esistenza,era comunque in una zona limitrofa.Quando andai a vedere la camera, fuisorpreso dalla pulizia e dall'ordineche regnavano in tutta la casa; il suoaspetto non avrebbe potuto essere piùborghese, dappertutto si vedevano lefoto del distinto vecchio signore edavanti a ciascuna di esse la moglieche ne tesseva le lodi. Neppure lastanza che avrei dovuto abitare io eraesente da quei ritratti, ma alle suepareti il defunto compariva un po'meno, tre o quattro pose in tutto. Miera stato detto che preferivanoaffittare la stanza a uno studente. Ilmio predecessore era stato unimpiegato di banca, che guadagnava giàed era indipendente dalla madre; ma ilsuo stipendio era modesto, e siccomenon frequentava l'università nonsarebbe certo andato molto lontano. Lasignora Weinreb si guardò bene,tuttavia, dall'aggiungere altri

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particolari sul suo conto; lo nominòsoltanto perché aveva abitato prima dime in quella stanza, che da allora nonera più stata occupata; ma non presepartito né per lui né contro di lui.La donna che aveva il compito divigilare su di lei e che avevaintentato il processo contro quelgiovane stava in cucina, proprio lìaccanto. Tutte le porte erano aperte,e la signora Weinreb non diceva nullasenza interrompersi a ogni istante etendere l'orecchio con apprensioneverso la cucina.Molto presto, sin dalla mia primavisita, mi resi conto che la signoraera oppressa da un peso da cui nientepoteva liberarla. Poiché nominava ilmarito defunto quasi a ogni frase,pensai che quell'oppressione fosseconnessa con la sua vedovanza. Forsenon aveva circondato il vecchio ditutte le cure che egli avrebbedesiderato. Questo in realtà, misembrava poco plausibile, nella suavita non c'erano stati altri uomini,di questo ero certo. Eppure la signoraWeinreb tendeva sempre l'orecchio auna voce, si atteneva ai suoi ordini,e certo non era la voce del suodefunto marito.La governante, che abitava con lei emi aveva aperto la porta di casa, dopoavermi affidato alla padrona, erasubito sparita in cucina. Era unadonna robusta e massiccia di mezzaetà: le sue fattezze corrispondevanoesattamente a quelle che alloram'immaginavo dovessero essere lefattezze di un boia. Aveva gli zigomimolto sporgenti e un'espressione trucesul volto, che il sorriso rendevaancor più minaccioso. Non mi sareimeravigliato se, come benvenuto, miavesse mollato un ceffone. Invece feceun viso da gatto, che però, essendoproporzionato alla sua mole, faceva uneffetto sinistro. Ecco da chi dovevostare in guardia.La moglie del dottor Weinreb mi aprìcon grande impeto la porta dellacamera da affittare (camminava semprecome se fosse sul punto di cadere inavanti), entrò nella stanza subitodopo di me, si assicurò che la portaalle sue spalle restasse spalancata, egridò addirittura, cosa che mi parvesenza senso, -Subito! Subito! con lafaccia rivolta indietro, più o menocome una domestica grida alla sua

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padrona -Vengo subito! ; poi cominciòa illustrarmi i pregi della stanza, esoprattutto i ritratti del defuntomarito. A ogni frase che diceva siaspettava una conferma o unincoraggiamento.All'inizio supponevo che liaspettasse da me, ma presto mi resiconto che la conferma doveva veniredall'esterno; dato che in casa nonavevo visto nessun altro, pensai chesi trattasse della persona pocorassicurante che mi aveva ricevuto e,con mio grande disappunto, per tuttoil tempo della visita mi sembrò diaverla continuamente davanti agliocchi. Ma l'interessata restò incucina e non intervenne affatto nellanostra conversazione.Mi chiesi dove fosse finita la terzapersona che avrebbe dovuto abitare inquella casa. L'incidente giudiziariodel mio predecessore era sorto percausa sua. Ma essa non si fece vedere,forse non abitava più lì, o forse,chissà, era stata allontanata proprioper via dello scandalo che avevaprovocato e che aveva reso difficileriaffittare la stanza. Della suabellezza contadinesca, delle suelunghe trecce bionde - si diceva chequand'erano sciolti i suoi capelliarrivassero quasi fino a terra -,delle sue arti di seduttrice avevosentito parlare molto, sia pure inmaniera poco chiara. Il suo nome mipiaceva e mi era rimasto impressonella memoria, tutti i nomi boemi misembravano belli, ma il suo, Ruªzena,mi piaceva particolarmente. Speravoche fosse lei ad aprirmi la porta, einvece al suo posto mi era comparsadavanti sua zia, il boia; il ceffoneche mi aspettavo da lei me lo sareimeritato, perché ero davvero curiosodi vedere Ruªzena. Forse quella truceaccoglienza era un avvertimento.Poiché la vicenda era finita suigiornali, era ovvio supporre chequalcuno sarebbe venuto non tanto pervedere la stanza, quanto piuttosto pervedere Ruªzena.Ma in fondo mi andava bene che diRuªzena non ci fosse traccia, cosìpotevo prendere in affitto la stanza,che in effetti mi era piaciuta, senzatemere complicazioni. La signoraWeinreb era contenta che volessientrare subito, sembrava sollevata dalfatto che non chiedessi un po' di

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tempo per riflettere e aggiunse:-Vedrà, nell'atmosfera in cui vivevalui si troverà bene, era un uomomolto istruito . Ormai sapevo di chistava parlando, anche se non faceva ilsuo nome. La signora mi condusse fuorie gridò verso la cucina: -Ilgiovanotto viene subito, va soltanto aprendere i bagagli . La governante,della quale ho dimenticato il nome,perché sin dall'inizio per me fusemplicemente -il boia , venne fuori edisse, sempre sorridendo: -Non è ilcaso di aver paura, da noi non lamorde nessuno . Stava in piedi nelvano della porta della cucina, alta emassiccia com'era lo riempiva tutto, eappoggiandosi all'indietro contro glistipiti con tutte e due le braccia,sembrava che avesse intenzione disaltarmi addosso. Non feci piùattenzione a lei e andai a prendere lamia roba.Nei primi giorni che trascorsi nellanuova camera, la casa era moltosilenziosa. Uscivo al mattino prestoper andare al laboratorio di chimica,e a mezzogiorno restavo nei pressidell'università, di solito mangiavoalla taverna del Regina. Alla sera,quando chiudeva il laboratorio, Vezaveniva a prendermi. Andavamo apasseggio, oppure l'accompagnavo acasa, e solo a tarda ora, a volte dopole undici, me ne tornavo nellaHaidgasse. Trovavo sempre il lettorifatto e ben rimboccato, non sapevochi lo avesse preparato per la notte.Del resto non stavo a rifletterci,davo per scontato che ci pensasse lagovernante. Di notte non sentivo alcunrumore. La signora Weinreb, cheabitava e dormiva nella stanza vicina,camminava silenziosamente nelle suemorbide ciabatte di feltro, immaginavoche scivolasse da un ritrattoall'altro, per eseguire le suedevozioni.Una sera, alla fine della settimana,tornai a casa presto, ero statoinvitato a teatro e volevo cambiarmid'abito. Sentii che c'era qualcunonella mia stanza, entrai e rimasi disasso. Davanti al mio letto,profondamente chinata in avanti, stavauna contadina, le braccia bianche evoluttuose saldamente infilate sottoil mio piumino, che stavasprimacciando. Parve non accorgersidel mio arrivo, perché si chinò ancor

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di più, volgendo verso di me unposteriore addirittura immenso, econtinuò a percuotere vigorosamente ilpiumino, come se volesse sculacciarlo.I capelli biondissimi erano raccoltiin due grosse trecce annodate sopra latesta, che in quella posizionesfiorava il piumino. Il toccocontadinesco era dato dalla gonna apieghe, che arrivava fino a terra; nonpotevo fare a meno di notarla, l'avevodavanti al naso. Diede ancora un paiodi colpi al piumino, come se nonavesse la più pallida idea che lestavo dietro. Non potendo vederla infaccia, non volevo parlare per primo,e mi schiarii la voce con imbarazzo;quel suono decise di sentirlo, sisollevò e si girò di scatto, con unmovimento così ampio che quasi misfiorò. Eravamo in piedi, vicinissimil'uno all'altra; forse tra noi sarebbepassato un foglio di carta, certo nondi più. Era più alta di me e moltobella, una specie di Madonna del Nordche ora teneva le braccia come se, alposto del piumino, stesse perabbracciare me; ma lentamente lelasciò ricadere, arrossendo. Sentivoche aveva la capacità di arrossire acomando. Emanava un odore come dilievito. La sua bellezza mi investì inpieno, e sono certo che, se fossestata tutta nuda come le sue braccia,trovandomi così vicino a lei avreiperso la testa, come del restochiunque altro; invece rimasi immobilee non dissi niente. Allora lei,finalmente, aprì la piccola bocca edisse con una vocina pigolante: -SonoRuªzena, gentile signore . Il nome,sul quale i miei pensieri indugiavanoda un bel po', non mancò di fare ilsuo effetto, e neppure il -gentilesignore fu detto a caso, il titoloche mi spettava sarebbe stato tutt'alpiù -signorino . Chiamandomi così,Ruªzena faceva di me un uomo esperto,un uomo al quale si cede senza opporreresistenza. Ma quella voce pigolanterovinò completamente l'effetto dellasua apparizione e della suaarrendevolezza. Era come se unminuscolo pulcino provasse a parlare,e tutto ciò che prima avevo visto - lebraccia bianche e vigorose chesprimacciavano il piumino, le fulgidetrecce, la mole torreggiante del suodidietro, con un che di enigmatico cheperò non mi allettava - tutto questo

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si dissolse in quei poveri suoniqueruli, e persino il suo nome, che miaveva riempito di tanta attesa, sparì,era ormai per me un nome qualunque.L'incantesimo di Ruªzena era svanitodel tutto, doveva essere una benmisera creatura colui che si lasciavasedurre da quella voce.Tutto ciò mi balenò per la menteancor prima di rispondere al suosaluto, e quando lo feci il mio tonofu così freddo e indifferente che leisi scusò, questa volta pigolando piùin fretta, di essersi fatta trovarenella mia stanza. Non volevadisturbare, mi stava solo preparandoil letto come tutte le sere, non avevapensato che sarei tornato così presto.Il mio tono diventò sempre piùsprezzante, dissi soltanto: -Sì, vabene e, mentre lei si allontanava conmovimenti piuttosto agili dato il suopeso, mi tornò in mente tutta lastoria, così com'era apparsa sulgiornale, e le altre cose che mi eranostate raccontate a voce.Il giovanotto (il mio predecessore),una sera, rincasando dalla banca, sel'era trovata davanti al suo letto.Lei aveva attaccato discorso e lì, suidue piedi, lo aveva sedotto. Lui eratimidissimo e inesperto e quindi, cosarara a Vienna, non aveva mai avutoun'amica. La zia di Ruªzena avevacapito che era incapace di difendersie in tribunale l'aveva accusato diaver rotto la promessa di matrimonio.Lui aveva negato tutto, e i giudici,visto che tipo era, avrebbero certocreduto alla sua innocenza, ma poichéRuªzena era incinta, fu condannato apagarle un indennizzo. Quell'uomoinerme e incapace di difendersi eradiventato lo zimbello generale, tuttilo reputavano innocente, ma proprioper questo la cosa aveva fattoscalpore. Era davvero buffo che untipo come quello fosse stato accusatoe condannato per aver prima sedottouna donna e poi infranto la promessadi sposarla.Ruªzena provò ancora due o tre voltea prepararmi il letto per la notte. Masapeva di non aver molte speranze; lazia aveva scoperto da un pezzo cheavevo un'amica, la quale ogni tanto,di sera, veniva a prendermi e, quandovide che era sempre la stessa,cominciò a fare scarso affidamento suipreparativi di Ruªzena. I pochi

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tentativi che seguirono non furonoaltro che routine. Presto dimenticaitutto, e solo qualche settimana dopo,quando in quella casa ebbiun'esperienza davvero terrorizzante,ricominciai a pensare a Ruªzena.Un pomeriggio - ero tornato a casain anticipo - sentii dei forti rumoriprovenienti dalla cucina. Schiocchi difrusta come su un corpo umano,pigolii, strilli, implorazioni,suppliche, un fischio sibilante, poiciaf! ciaf! ciaf! e, in mezzo a tuttoquesto, una voce profonda e severa,che cominciai a intendere solo quandocompresi a chi apparteneva. Sembravala voce di un uomo, ma era invecequella della zia: -Eccoti qua! Ecco!Tò! Tò! Tò! . I guaiti e i pigolii sifacevano sempre più forti, noncessavano, anzi aumentavano, e anchele minacce della voce profondadiventavano più forti e incalzanti. Lasmetteranno, pensai, e all'iniziorimasi in perfetto silenzio; ma non lasmettevano, anzi, era sempre peggio.Accorsi in cucina e vidi Ruªzenainginocchiata davanti al tavolo, ilbusto denudato, mentre la zia accantoa lei teneva in mano una frusta chestava alzando proprio in quel momentoe con la quale colpì, ciaf!, il dorsodi Ruªzena.Le due donne erano messe in manieratale che, entrando, le si vedevabenissimo, nessun particolare potevasfuggire: i seni di Ruªzena, le spalledi Ruªzena, l'espressione furente sulceffo del boia, la frusta sibilante.Solo che il tutto non suonava più cosìspaventoso come dalla mia stanza; nonappena vidi, anziché udire soltanto,smisi di crederci, mi sembrava diessere a teatro, solo molto piùvicino, e le cose erano sistematepersino troppo bene, in modo che nullapotesse sfuggirmi. E poi sapevo che aquel punto avrebbero dovuto smetteresubito, perché, nonostante il baccano,riuscii a farmi notare. Invece dilasciar cadere la frusta, la zia latenne sollevata ancora per un po'; maRuªzena, per sbaglio, continuò apigolare come se la frusta l'avessecolpita di nuovo. La zia la investì:-Vergognati! Tutta nuda! ; poi sivoltò verso di me: -Questa bimbacattiva non dà retta alla zia. Meritaun castigo .Ruªzena smise di pigolare e, non

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appena le fu ordinato di vergognarsi,premette le mani contro i seni, checon quel gesto si gonfiarono,diventando ancora più vistosi; poistrisciò dietro il tavolo, piùlentamente che poté; la sua mole, aterra, non era meno imponente diquella di sua zia, saldamente piantatadavanti a me. La zia continuò laramanzina infantile che doveva servirea spiegare la scena. -Bimba deveobbedire. Imparare che ha solo zia, seno nessuno al mondo. Bimba cattiva.Senza zia è perduta. Ma zia tieneocchi aperti! Zia sta attenta! . Leparole non venivano fuori spedite,erano pesanti, massicce, e dopo ognifrase la frusta salutare aveva unguizzo. Ma non colpiva più, nonavrebbe più raggiunto la schiena dellabimba colpevole, rannicchiatadall'altra parte del tavolo. La nuditàdi Ruªzena in quel nascondiglio eraancora più evidente, e certofemminilmente assai provocante; ma ilchiacchiericcio infantile rivolto aquella creatura così rigogliosa lariduceva al rango dell'imbecillità. Lasua sottomissione, parte integrantedella scena, e forse elementoessenziale da esibire, non era menodisgustosa, per me del piglio dacarnefice della zia. Uscii dallacucina, facendo finta di credere allascena: la bimba disubbidiente avevaricevuto un meritato castigo. Quando,senza lasciar trapelare il mioimbarazzo, sparii dalla cucina pertornarmene in camera, diventai io unimbecille ai loro occhi, il che misalvò da ulteriori attentati.Da allora fui lasciato in pace, enon le vidi più, né tutte e dueinsieme, né Ruªzena da sola. Ognitanto sentivo la zia che parlava conla signora Weinreb, nella stanzaaccanto. Di colpi non se ne udivano;ma io ero molto stupito che la zia leparlasse con il tono che si usa coibambini. La voce, tuttavia, suonavapiù rassicurante che minacciosa. Eraevidente che la signora Weinreb facevaqualcosa che le era stato proibito, manon riuscivo a immaginare di che cosasi trattasse, e per il momento lasciaiperdere. Udire la voce del boiadall'altra parte della parete non eracerto gradevole, mi aspettavo ad ogniistante un'incresciosa esplosione. Manon si udivano né guaiti né pigolii,

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solo qualcosa che suonava come unaserie di assicurazioni. La signoraWeinreb aveva una voce profonda cupa,mi sarebbe piaciuto ascoltarla ancora,quasi mi dispiaceva quando smetteva diparlare.Una notte mi svegliai e vidiqualcuno nella mia stanza. La signoraWeinreb, in vestaglia, stava in piedidavanti al ritratto del marito, lostaccò con cautela dalla parete eguardò dietro, come per cercarequalcosa. La vedevo benissimo, lastanza era rischiarata dalle lucidella strada le tende non eranotirate. Accostò il naso al muro e losfiorò avanti e indietro, annusando, eintanto stava attenta a tener fermo ilritratto con entrambe le mani. Poiannusò con uguale lentezza il retro.La stanza era talmente silenziosa chela sentivo annusare. Il suo viso, chein quel momento non vedevo, perché mivoltava la schiena, mi era sempresembrato il muso di un cane. Con unrapido movimento la signora Weinrebrimise il ritratto al suo posto escivolò verso la parete attigua,avvicinandosi al ritratto seguente.Questo, assai più grande, aveva ancheuna pesante cornice, e io mi domandaise la signora avrebbe avuto la forzadi tenerlo su da sola. Ma non scesidal letto: pensavo che si muovesse nelsonno e non volevo spaventarla. Lasignora sollevò anche quel ritratto,tenendolo forte con tutte e due lemani; ma l'annusare alla parete nonera più così lieve, la sentivoansimare e gemere piano piano per losforzo. Poi barcollò, e sembrò chefosse sul punto di lasciarlo cadere;invece riuscì a posarlo sul pavimento,con il retro in evidenza, senza peròlasciarlo andare del tutto. Si allungòdi nuovo più che poté e, mentre con lapunta delle dita toccava il listellosuperiore della cornice, continuò adannusare la parete nel punto in cui ilritratto era stato appeso. Quando ebbefinito, si accoccolò sul pavimento esi dedicò al retro. Pensavo checontinuasse ad annusare poiché sentivolo stesso rumore al quale, in quelbreve tempo, mi ero abituato. Ma vidiinvece con stupore che stava leccandoil retro del ritratto. Lo faceva diproposito, allungando molto la linguaproprio come un cane, la signoraWeinreb sembrava contenta di essersi

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tramutata in cane. Ci mise un bel po'a leccarlo tutto, il ritratto eragrande. Poi si alzò in piedi, losollevò con un certo sforzo e, senzatentare né di guardare la foto delmarito, né di toccarla, riappese ilritratto al suo chiodo e scivolòsvelta, senza far rumore, fino alritratto successivo. Nella mia cameradi ritratti del dottor Weinreb cen'erano quattro, e lei non netralasciò neanche uno, il suo doverelo fece con tutti. Gli altri due, perfortuna, non erano più grandi delprimo, e così poté svolgere la suamansione rimanendo in piedi; nonessendo più accovacciata per terra,non si mise a leccare, si limitò adannusare.Poi uscì dalla stanza. Pensando aimolti ritratti del marito defuntosparsi per la casa, calcolai chequella procedura potesse facilmentetenerla occupata per metà della notte.Mi chiesi se non fosse già stata da mealtre volte a quello scopo, senza chemi accorgessi di nulla a causa del miosonno pesante. Perciò mi proposi diabituarmi a un sonno più leggero, inmodo che la cosa non si ripetesse maipiù: volevo essere sveglio, quando lasignora Weinreb veniva da me.Backenroth.Quando entrai nel terzo semestre,dal vecchio Istituto nero di fumoall'inizio della W�hringerstrasse mitrasferii nel nuovo Istituto diChimica all'angolo dellaBoltzmanngasse. All'analisiqualitativa dei primi due semestriseguiva ora l'analisi quantitativa,sotto la guida del professor HermannFrei. Il professore era un uomopiccolo e gracile, che senza molestarenessuno era fatto in buona parte disenso dell'ordine, e dunque sembravafatto apposta per l'analisiquantitativa. I suoi gesti eranocauti, quasi aggraziati, gli piacevamostrare come si deve procedere pereseguire un lavoro veramente accurato;e poiché in quelle analisi siimpiegavano minime quantità dimateria, lui stesso sembrava quasi unessere senza peso. La sua gratitudineper le dimostrazioni di benevolenzache aveva ricevuto era fuori delnormale. Non aveva il dono diimpressionare gli studenti conasserzioni scientifiche; il suo campo

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era la pratica, l'esecuzione delleanalisi in senso stretto, e in quellaera abile, sicuro, veloce e, malgradola sua grande delicatezza, aveva nelpiglio un che di risoluto.Delle frasi che diceva restavanoimpresse soprattutto le sueattestazioni di deferenza, cheripeteva piuttosto spesso. Era statoassistente del professor Lieben, chelo aveva aiutato nella carriera, eogni tanto lo nominava, ma semprecosì, in questo modo enfatico eprolisso: -Come il mio veneratomaestro, il professor dottorAdolf Lieben, era solito dire... .Costui, un chimico, aveva lasciatodietro di sé una buona fama; vennefondata una società che portava il suonome e aveva il compito di vegliaresul progresso della scienza e sullacarriera dei soci. In bocca alprofessor Frei, Adolf Lieben eradiventato una figura mitica; eppurenon diceva un gran che su di lui, silimitava a nominarlo in quel modo. Mac'era un personaggio del passato cheper il professor Frei contava ancoradi più, molto di più, benché neparlasse raramente, e senza maichiamarlo per nome. Vi alludeva conuna frase ben precisa, sempre lastessa, e allora la sua gracilepersoncina si animava di un fervoreche lasciava sbalorditi, benchénell'intero Istituto di Chimica non cifosse una sola persona checondividesse la sua fede.-Quando verrà il mio Imperatore, mitrascinerò in ginocchio fino aSch�nbrunn! . Non c'era che lui adattendere e augurarsi il ritornodell'Imperatore e, se pensiamo chedieci anni prima il vecchio imperatoreera ancora in vita, come non stupirsiche nessuno, assolutamente nessunofosse almeno in grado di comprenderequel suo desiderio? Tutti, assistentie studenti, prendevano ladichiarazione di fede del professorFrei come un segno di bizzarria; forseproprio per questo egli la proclamavacon tanta veemenza e decisione; suquel punto, a dispetto del suocandore, non si faceva la minimaillusione: sapeva di essere solo comeun cane nell'augurarsi fervidamente ilritorno dell'Imperatore. Mi chiedevo achi pensasse, quando diceva -il mioImperatore : al giovane Karl, del

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quale nessuno sapeva immaginare chetipo fosse, o proprio all'imperatoreFrancesco Giuseppe, redivivo?Forse era anche un po' merito delsuo venerato maestro, il professordottor Adolf Lieben, rampollo di unastimata famiglia di banchieri ebrei,se il professor Frei non si lasciavasfuggire il minimo accenno dianimosità nei riguardi degli ebrei. Citeneva molto a essere giusto, etrattava ciascuno secondo i suoimeriti. La sua correttezza arrivava alpunto che neppure i nomi degli ebreigaliziani li pronunciava in mododiverso da tutti gli altri nomi,mentre parecchi dei suoi assistenti litrovavano irresistibilmente buffi.Quando il professore non era presente,poteva succedere che qualcunostrascicasse uno di quei nomi,sciogliendolo voluttuosamente fra lalingua e il palato. C'era unostudente, figurarsi che stranezza, dinome Josias Kohlberg, un ragazzonefurbo e gioviale il quale non silasciava guastare il buonumore danessuno, neanche da uno che perchiedergli qualcosa strascicasse ilsuo nome; abile e rapido nellosbrigare il suo lavoro, non cercava laconfidenza dei compagni, nonstrisciava davanti a nessuno, némanifestava il minimo desiderio diavere con gli assistenti un rapportoche non fosse strettamenteprofessionale. Alter Horowitz, chelavorava accanto a lui - la vocesoffocata, i movimenti lenti -, era ilsuo malinconico opposto; mentrel'aspetto di Kohl-berg faceva venire in mente ungiocatore di calcio, Alter Horowitznon si poteva immaginarselo se nonchino sui libri, benché io non loavessi mai visto con in mano un volumedel quale non dovesse servirsi permotivi di studio.I due si completavano bene ed eranoinseparabili; facevano tutto insieme,come due gemelli; si poteva pensareche non avessero bisogno di nessunaltro. Ma non era così, perché a duepassi da loro lavorava un terzostudente, anch'egli originario dellaloro patria, la Galizia: si chiamavaBakkenroth. Non ho mai saputo quale fosseil suo nome di battesimo, o forse losapevo e l'ho dimenticato. Era l'unicapersona bella della nostra aula: un

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ragazzo alto, snello, con occhichiarissimi, intensi e luminosi, ecapelli biondi tendenti al rosso.Raramente rivolgeva la parola aqualcuno poiché il tedesco loconosceva appena, e raramente guardavain faccia le persone. Ma se per casouna volta lo faceva, l'immagine cheveniva in mente era quella di Gesù dagiovane, com'è raffigurato in alcunidipinti. Di lui non sapevo nulla estargli vicino mi metteva insoggezione. La sua voce l'avevosentita, con i suoi connazionaliparlava o yiddish o polacco; quando miaccorgevo che stava dicendo qualcosa,senza rendermene conto mi avvicinavo alui per udire la sua voce, benché noncomprendessi una sola parola. Era unavoce morbida, sconosciuta estraordinariamente dolce, tanto che midomandavo se non fossero i suonicinguettanti del polacco a simularetanta dolcezza. Ma quando parlavayiddish, la voce non suonava diversa;io mi dicevo che anche quella era unalingua dolcissima, e ne sapevo quantoprima.Notai che che Horowitz e Kohlbergnon parlavano con lui nello stessomodo in cui parlavano tra loro.Horowitz evitava di abbandonarsi allasua tristezza e sembrava più concretoe obiettivo del solito, mentreKohlberg, anziché ridere e scherzare,dava l'impressione, in presenza diBackenroth, di stare sull'attenti conil pallone in mano. Nessuno dei due,era chiaro, si considerava al suolivello; ma neppure una volta miazzardai a domandare la ragione ditanto rispetto, di tanto riguardo. Erapiù alto di loro, ma anche piùinnocente e sensibile, sembrava quasiche Horowitz e Kohlberg si sentisseroin dovere di fargli da scudo e diiniziarlo a certe situazioni dellavita. Ma da Backenroth emanava unaluce che non veniva mai meno. Neparlai a un collega col quale avevofatto amicizia; ma questi, preferendosottrarsi a quella sensazione, chepure avvertiva, provò a scherzarci sue disse che tutto dipendeva dal coloredei capelli, non era né rosso nébiondo, ma una via di mezzo, l'effettoera quello dei raggi del sole. Delresto, anche gli assistenti erano insoggezione davanti a Backenroth. Acausa delle sue difficoltà

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linguistiche, i contatti con luipassavano perlopiù attraverso Horowitzo Kohlberg, ma gli assistentipronunciavano il suo nome in modotutto diverso, con riservatezza eriguardo, mentre strascicavano-Horowitz e -Kohlberg in tonovagamente canzonatorio.Era evidente che tutti e due, masoprattutto Kohlberg, cercavano diproteggere Backenroth dalle offese dacui essi sapevano difendersi, a cuiessi erano avvezzi. Mi domandavo sefosse davvero così necessario.Backenroth mi sembrava protetto dallasua ignoranza della lingua, e anche dauna cosa che non senza un certoimbarazzo definisco -fulgore , perchéin quel periodo non ammettevo alcunaautorità, né religiosa né mondana, etendevo piuttosto a sottoporle tutte auna critica assolutamente impietosa.Tuttavia, neppure una volta entrai inlaboratorio senza accertarmi cheBackenroth fosse al suo posto, col suocamice bianco, alle prese con leampolle e i beccucci, che così pocogli si addicevano. Nella sua attivitàdi laboratorio dava quasi lasensazione di essere mascherato, ma ionon credevo a quel travestimento easpettavo che da un momento all'altrolo gettasse via, per palesarsi ainostri occhi nella sua vera natura.Però non avevo un'idea chiara di qualefosse la sua vera natura; di una cosasola ero certo: l'ambiente chimico,con il suo trafficare tra soluzioni,preparati, distillati e pesate, nonera il mondo che faceva per lui.Backenroth era un cristallo, non duroe refrattario però, ma un cristallosensibilissimo che nessuno dovevapermettersi di prendere in mano.Quando guardavo verso il suo postoed egli era là, mi sentivo tranquillo,ma solo per poco, il giorno dopo miassaliva di nuovo il dubbio e temevoche non fosse venuto. La mia vicina,Eva Reichmann, la russa di Kiev con laquale parlavo di tutto, era l'unicapersona alla quale potevo confidare lemie apprensioni riguardo a Backenroth.Con quelle paure ci giocavo un poco,non le prendevo del tutto sul serio, elei, che era una donna di una serietàincantevole - tutto ciò che riguardavagli esseri umani era sacro per Eva -me lo fece notare dicendo: -Lei neparla come se fosse malato. Ma non è

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affatto malato. E'è soltanto bello.Come mai la bellezza maschile le fatanta impressione? . -Maschile?Maschile? La sua bellezza è quella diun santo. Non so che cosa stia facendoqui. Che cosa ci fa un santo in unlaboratorio di chimica? Tutt'a untratto sparirà .Sul pensiero di come sarebbe sparitoindugiammo per parecchio tempo. Sisarebbe dissolto in vapori rossastri,per ritornare al sole, dal quale eravenuto? Oppure avrebbe voltato lespalle alla chimica per iscriversia un'altra facoltà? E quale? EvaReichmann lo avrebbe visto bene neipanni di un nuovo Pitagora. L'unionedella geometria con le stelle e con lamusica delle sfere celesti, disse, eraquel che ci voleva per un giovane comelui. Eva conosceva a memoria un grannumero di poesie russe che mi recitavavolentieri e mi traducevamalvolentieri. Era una bravissimastudentessa, affrontava lachimicafisica con maggiore facilitàdi qualunque collega di sessomaschile. -E'è la materia più facile diceva spesso della matematica. -Ognivolta che c'è di mezzo la matematica,tutto diventa un gioco da bambini .Era alta e rigogliosa, nessun fruttoaveva una pelle seducente come la sua.Mentre nel corso della conversazionetirava fuori le sue formulematematiche con ammaliante facilità enaturalezza - e senza i toni solenniche riservava alle poesie - latentazione di sfiorarle le guance eradavvero fortissima; al petto, chedurante i nostri scontri verbali sisollevava impetuosamente, non osavonemmeno pensare. Forse eravamoinnamorati, ma poiché tutto sisvolgeva fra noi come in un romanzo diDostoevskij, e non nel mondo reale,non ce lo confessammo mai; soltantooggi, a cinquant'anni di distanza,riconosco in lei e in me tutti i segnidell'innamoramento. Le nostre frasi siintrecciavano come capelli le une allealtre, gli abbracci delle nostreparole duravano ore e ore, i lunghi ecomplicati esperimenti chimici ce nedavano il tempo; e, come accade agliamanti che privano le persone che licircondano del loro peso specifico ele inglobano nel proprio discorsoamoroso, abusando di esse peraccrescere l'intensità del proprio

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eccitamento, così i nostri pensieriruotavano intorno a Backenroth.Parlavamo continuamente conapprensione del fatto che l'avremmoperduto, e così facevamo svanire ilpericolo che in effetti incombeva sudi lui.Domandai a Eva Reichmann se non lesarebbe piaciuto rivolgergli laparola. Ma lei scosse il capo condecisione e disse: -In quale lingua? .La lingua materna di Eva era ilrusso. Quando la sua famiglia, tra lepiù agiate della città, aveva lasciatoKiev, lei aveva dodici anni.Stabilitisi i suoi a E'ªcernovcy, Evaaveva frequentato in quella città unascuola tedesca; ma il suo tedescoaveva conservato la molle cadenza cheè tipica delle donne russe. Lafamiglia aveva perso la maggior partedel suo patrimonio, anche se nontutto, ma Eva non parlava con rancoredella Rivoluzione russa; dicevaspesso, con profonda convinzione:-Nessuno dovrebbe essere così ricco ;e anche se il discorso cadeva suqualche speculatore dell'Austria diallora, arricchitosi con l'inflazione,si capiva benissimo che Eva stavapensando alla ricchezza passata deisuoi. In casa Eva non aveva maiparlato yiddish. Mi sembrava chequella lingua le fosse estranea nonmeno che a me, non la consideravaparticolarmente interessante e neanchene parlava con la tenerezza chenormalmente si serba per una linguadestinata a scomparire. La vocazionedi Eva era la grande letteraturarussa, ne era totalmente posseduta,pensava e sentiva identificandosi coni personaggi dei romanzi russi; ebenché non fosse facile trovare unapersona della sua naturalezza espontaneità emotiva, tuttavia ogni suareazione assumeva le forme che leerano familiari dalla lettura deilibri russi. Eva opponeva unaresistenza ostinata alla mia propostadi affrontare il polacco diBakkenroth (ero convinto che, con un po'di buona volontà, un russo potessebenissimo capire il polacco); forsedavvero non capiva quella lingua, oforse aveva succhiato con il lattematerno le idee di Dostoevskij e isuoi pregiudizi contro tutto ciò che èpolacco. Ogni insistentesollecitazione in questo senso fu

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respinta con le mie stesse armi:-Vuole che mi metta a parlare con luia forza di strafalcioni? I polacchi citengono molto alla loro lingua. Nonconosco la loro letteratura. Eppure cel'hanno. E così pure i russi .L'ultima frase la disse in un soffio,Eva era ostile per principio a ogniforma di sciovinismo, perciò non fupossibile tirarle fuori niente più diquel -E così pure i russi .Rifuggiva dal parlare con Backenrothperché mancava una persona che potessefare da mediatore; dato che anche leiaveva di Backenroth un'-alta considerazione, le dava un certofastidio sentirlo parlare con Kohlberge con Horowitz. Disprezzava Kohlbergperché aveva l'aspetto di uncalciatore e non faceva chefischiettare, mentre Horowitz lotrovava poco interessante perché aveval'aspetto di -un ebreo qualunque .Prendeva sul serio soltanto gli ebreiche, attraverso la letteratura, sierano completamente assimilati allalingua di un paese, senza diventareper questo dei nazionalisti sfegatati;Eva rifiutava con molta coerenza ipregiudizi di tipo nazionalistico eperciò i suoi preconcetti sirivolgevano soltanto contro gli ebreiche non riuscivano a percorrere finoin fondo la strada dell'emancipazione.E non era per niente sicura cheBackenroth ce l'avesse fatta. -Forse èsoltanto un giovane virgulto delchassidismo mi disse una volta,lasciandomi di stucco -solo che ancoranon lo sa . Scoprii che non avevasimpatia per i chassidim. -Sonoproprio dei fanatici disse. -Sonosuccubi della loro fede miracolosa,bevono e saltellano qua e là. Nonhanno ancora la matematica nelsangue . Non pensava che la matematicaera la sua fede miracolosa. Eva,però, alimentava il nostro dialogo aproposito di Backenroth. Era questo ildiscorso amoroso che potevamoconcederci. Perché io appartenevo aun'altra donna, che lei aveva vistoqualche volta in laboratorio, quandoveniva a prendermi. Eva Reichmann erauna donna troppo orgogliosa per cedereall'attrazione per un uomo che lefaceva capire di sentirsi legato aun'altra donna. Finché parlavamo diBackenroth, quell'attrazione restavasottaciuta, e la paura che Backenroth

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potesse ad un tratto scomparirediventò la paura che l'attrazione franoi potesse esaurirsi.Un mattino Backenroth non venne, alsuo posto non c'era nessuno. Pensaiche fosse in ritardo e non dissinulla. Poi mi accorsi che Evadiventava sempre più inquieta esfuggiva i miei sguardi. -Sono assentitutti e tre, disse alla fine-dev'essere successo qualcosa . Anchei posti di Kohlberg e di Horowitzerano vuoti, io non me n'ero accorto;Eva, a differenza di me, Backenrothnon lo vedeva nel suo isolamento, masempre insieme agli altri due, gliunici ai quali rivolgesse la parola, equesto in qualche modo latranquillizzava; Eva preferiva nonriconoscere del tutto la suasolitudine, che a me faceva paura.-Saranno insieme a una cerimoniareligiosa dissi io. Cercavo diinterpretare favorevolmente lacircostanza che mancassero tutti etre, e non lui solo. Lei invecesembrava turbata proprio da quello.-E'è un brutto segno mi disseGli . èsuccesso qualcosa, e quei due sono conlui . -Lei sta pensando che siaammalato replicai io con una certairritazione. -Ma in tal caso gli altrinon sarebbero rimasti a casa tutti edue . -Già, è vero, disse leicercando di calmarmi -se lui è malato,uno dei due andrà a vedere come sta, el'altro verrà qui . -No, risposi-quei due non si separano mai. Ne hamai visto uno far qualcosa senzal'altro? . -E'è senza dubbio per questoche abitano insieme. E'è mai stato daloro? . -No, ma so che hanno unastanza insieme. Lui abita vicinissimoa loro, tre case più in là . -Però,quante cose è riuscito a scoprire! E'èforse un investigatore privato? . -Unavolta li ho seguiti mentre tornavano acasa dopo il laboratorio.Kohlberg e Horowitz lo hanno accompagnatofino a casa sua. Poi lo hannosalutato, in modo molto formale, comese fosse uno sconosciuto. e sonotornati indietro pochi passi, verso lapropria casa. Quanto a me, non mihanno notato . -Perché lo ha fatto? .-Volevo sapere se vive solo. Forse,pensavo, è veramente solo, e così,all'improvviso, mi trovo vicino a luicome per caso, e lo saluto. Pensavo difar finta di cadere dalle nuvole,

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vedendo che era lui, in modo daattaccar discorso . -Ma in qualelingua? . -Oh, non è mica difficile.Posso farmi capire anche da gente chenon sa una parola di tedesco. L'hoimparato da mio nonno . Lei rise:-Parlando a gesti. Non sta bene. Non èda lei . -Di solito non lo faccio. Macosì avremmo rotto il ghiaccio. Lei sada quanto tempo desidero parlargli! .-Forse avrei davvero dovuto provarecon il russo. Non avevo capito che leici tenesse tanto .Così continuammo a parlare, sempre esoltanto di Backenroth, mentre laggiùi posti restavano vuoti. La mattinatapassò e cercammo di non pensarci.Cambiai discorso e mi misi a parlaredi un libro che avevo iniziato qualchegiorno prima: erano i Racconti diPoe, Eva non li conosceva, cominciai araccontargliene uno, Il cuorerivelatore, che mi aveva messoaddosso un grande spavento.Provai a liberarmi da quellospavento continuando il mio racconto,ma ogni volta che guardavo il postovuoto sentivo l'angoscia cresceresempre più. Ad un tratto la signorinaReichmann mi interruppe dicendo: -Iomi sento male per l'angoscia .In quell'istante entrò in aula ilprofessor Frei accompagnato dagliassistenti (di solito erano due,quella volta al suo seguito c'eranoquattro persone). Con un gesto vagofece cenno di avvicinarci; aspettò unpoco, fino a quando ebbe intorno lamaggior parte dei presenti, poi disse:-E'è successa una cosa molto triste.Bisogna che ve lo dica. Questa notteil signor Backenroth si è avvelenatocon il cianuro . Restò immobile perqualche istante. Poi scosse il capo edisse: -Sembra che fosse molto solo.Nessuno di loro aveva notatoqualcosa? . Non ottenne risposta, lanotizia era troppo sconvolgente,nell'aula non c'era nessuno che non sisentisse colpevole, eppure nessuno gliaveva fatto niente. Era proprioquesto: nessuno aveva provato a fareniente.Appena il professore e il suoseguito furono usciti dall'aula, lasignorina Reichmann, non riuscendo piùa trattenersi, scoppiò in singhiozzistrazianti, sembrava che avesseperduto un caro fratello. Non avevafratelli, e Backenroth ora era suo

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fratello. Sapevo che anche tra noi erasuccesso qualcosa, ma non avevaimportanza di fronte alla morte diquel giovane di ventun anni. Sapevo,inoltre, e lo sapeva anche lei, cheavevamo approfittato della figurainquietante del giovane Backenroth perusarla nei nostri colloqui. Mese dopomese, egli era stato tra noi, cieravamo crogiolati alla sua bellezza,era il nostro segreto, lo avevamousato per difenderci da noi stessi, maanche da lui. Nessuno di noi due gliaveva parlato, né Eva né io; e chepretesti avevamo escogitato, pergiustificare, l'uno di fronteall'altra, il nostro silenzio! Cisentimmo in colpa e su questo siinfranse la nostra amicizia. Non misono mai perdonato, ma neppure a leiho mai perdonato. Quando oggi, nelricordo, riascolto le frasi di Eva,che tanto mi incantavano per il loroaccento straniero, l'ira mi assale emi rendo conto di non aver fattol'unica cosa che avrebbe potutosalvarlo: convincere Eva ad amarlo,invece di giocare con lei.I rivali.C'era un altro studente, nel nostrolaboratorio, che non parlava quasimai; ma non perché ignorava la linguatedesca. Veniva dalla campagna, da unpaesino dell'Alta Austria, credo, esembrava timido e affamato. I miserivestiti che indossava, sempre glistessi, gli ballavano addosso; forsegli erano stati regalati da qualcunoche non li usava più. O forse eramolto dimagrito da quando era incittà, perché certamente mangiavapochissimo. I suoi capelli non eranoluminosi, ma di un rosso sbiadito,stanco, che ben si accordava con ilsuo viso pallido e malaticcio. Sichiamava Hund, cioè cane, ma che razzadi cane era mai quello, che non aprivala bocca e neanche restituiva il -Buongiorno ; le rare volte in cui prendevaatto del saluto altrui, si limitava aun ruvido cenno del capo, per lo piùguardando dall'altra parte. Non venivamai a chiedere aiuto, non prendevaniente in prestito, non domandava mainulla. Adesso cade lungo disteso,pensavo io tutte le volte che guardavonella sua direzione. Non era moltoabile, e ci metteva molto a fare lesue analisi; ma con gesti talmentemisurati e rari che da essi non si

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poteva capire quanto tribolasse. Nonriusciva mai a prendere la rincorsa,si dava solo una spintarella e, nonappena si era messo in moto, l'impulsoera già esaurito.Una volta trovò sul suo ripiano unpanino col burro, ancoraimpacchettato, che qualcuno avevaposato lì per lui senza farseneaccorgere. I miei sospetti cadderosulla signorinaReichmann, che aveva il cuore tenero.Egli aprì il pacchetto, vide ciò checonteneva, lo incartò di nuovo ecominciò ad andare da uno studenteall'altro. Porgeva il pacchetto,dicendo con tono astioso: -E'è robasua? e poi passava al prossimo. Nondimenticò nessuno, era la prima voltache in laboratorio parlava con i suoicolleghi, ma diceva soltanto quelletre parole, sempre le stesse. Nessunovolle riconoscere il pacchetto.Arrivato all'ultimo collega e fattosidire l'ultimo -no , agitò in aria ilpacchetto e si mise a gridare con voceminacciosa: -Qualcuno di voi ha fame?Questa roba va a finire nel cestinodella carta straccia! . Non ottennerisposta, non foss'altro perchénessuno voleva passare per l'ideatoredi quel tentativo fallito, e alloraHund, furente, scagliò il pacchettonel cestino (tutt'a un tratto parveche di forza ne avesse anche troppa);quando si udì qualche voce che azzardòun timido -Peccato! , egli sibilò:-Vada pure a prenderselo! . Di tantadisinvoltura e di tanta risolutezzanessuno l'aveva ritenuto capace.Insomma, Hund aveva cominciato a farsirispettare, e l'elemosina non erastata vana.Pochi giorni dopo, Hund arrivò inaula con un pacchetto che posò accantoa sé, proprio dov'era stato messo ilpanino imburrato. Lo lasciò chiuso perun po', dedicandosi a uno dei suoilunghi e vani armeggii. Non erol'unico a domandarmi che cosacontenesse mai quel pacchetto.L'ipotesi che si fosse procurato da séun panino col burro e volessemettercelo sotto il naso fu prestolasciata cadere, giacché il pacchettosembrava contenere qualcosa dispigoloso. Alla fine Hund lo prese inmano, venne verso di me e me losventolò davanti agli occhi dicendo:-Foto! Guardi! . Suonava come un

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ordine, e io non ebbi nulla daeccepire. Nessuno si aspettava cheHund volesse mostrare qualcosa aqualcuno; ma se prima tutti avevanonotato che Hund non faceva mai nullache implicasse un contatto con glialtri, ora tutti capirono subito chesi trattava di un invito, e quindi,avvicinandosi al mio posto, sidisposero a semicerchio intorno a lui.Hund aspettò tranquillamente che tuttisi fossero radunati, come se unasimile esperienza gli capitassespesso, poi aprì il pacchetto ecominciò a mostrarci una foto dopol'altra, eccellenti istantanee deisoggetti più svariati: uccelli,paesaggi, alberi, persone, oggetti.Non era più un povero diavoloaffamato, era un accanito fotografoche dedicava tutto il suo denaro aquella passione; ecco perché sivestiva così male, ecco perchépativa la fame. Si udironoesclamazioni di lode, che egliricompensava con nuove foto; ne avevaa dozzine, quella prima volta sarannostate cinquanta o sessanta, ed erasorprendente il loro contrasto, ognitanto ce n'erano alcune dello stessotipo, poi all'improvviso ne venivanoaltre, del tutto inaspettate. A modosuo, Hund ci aveva ormai in suopotere, e quando una collega disse:-Ma signor Hund, lei è un artista! (elo pensava davvero), Hund sorrise,senza contraddirla; si poteva vederela parola -artista scivolargli piùper la gola, più preziosa e prelibatadi qualsiasi cibo, di qualsiasibevanda. Tutti rimasero dispiaciutiquando terminò la sua esibizione. Lacollega disse: -Come fanno a venirlein mente tutti questi soggetti, signorHund? . La domanda era seria, comeserio era stato il suo stupore, edegli rispose con dignità e concisione:-Basta applicarsi! . Un amante deiproverbi se ne venne fuori con lafrase: -Chi la dura la vince! , manessuno rise.Hund era dunque un maestro, e allasua arte sacrificava ogni cosa.Mangiare non era importante per lui,finché poteva fare fotografie; enemmeno di studiare sembrava avere unagran voglia. Passò un mese o due, poiarrivò con un nuovo pacchetto. Icolleghi si radunarono immediatamente,pronti a sgranare gli occhi, e lo

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spettacolo non fu meno vario delprecedente. Presto fu cosa assodatache Hund veniva in laboratorio soloper fare di tanto in tanto a noi, cheeravamo il suo pubblico, la sorpresadi un nuovo pacco di fotografie.Non molto tempo dopo la secondaesibizione di Hund, un nuovo arrivatoattirò su di sé l'attenzione dellaboratorio: si chiamava FranzSieghart ed era un nano. Però era benproporzionato e di corporatura fine edelicata; invece di montare leapparecchiature sul banco di lavoro,che per lui era troppo alto, lemontava sul pavimento. E, con le suepiccole agili dita, ci riusciva primadi tutti noi. Mentre armeggiava làsotto, analizzando e distillando, ciparlava ininterrottamente,instancabilmente, con voce stridula eun po' gracchiante, cercando dipersuaderci che egli aveva provatotutte le esperienze che può conoscereun uomo -alto , e anche qualcuna dipiù. Ci annunciò inoltre la visita diun fratello che era più alto di tuttinoi, disse, un metro e ottantanove;era capitano dell'esercito, lui e suofratello si assomigliavano come duegocce d'acqua, era davvero impossibilenon confonderli; quando fosse statolì, nella sua uniforme, non avremmopiù saputo dire chi era il chimico echi l'ufficiale. Sieghart la sapevalunga e di solito veniva creduto; isuoi discorsi avevano una forza dipersuasione che molti di noi gliinvidiavano. Dubitavamo tuttaviadell'esistenza di quel fratello.-Ancora ancora se fosse alto uno esessantacinque diceva la signorinaReichmann. -Ma uno e ottantanove! Nonci credo. E perché mai dovrebbe venirequi da noi in uniforme? . A Siegharterano bastate un paio d'ore dilaboratorio, che aveva passato asfaccendare sul pavimento, per imporsiin mezzo a noi, e non gli ci vollemolto per far colpo anche sugliassistenti, visti i risultati dellasua prima analisi. Era riuscito aportarla a termine in un tempo assaiminore di quello normalmente richiestoda quei lavori piuttosto complicati,la sua rapidità derivava dalladestrezza delle sue mani - tuttavia,annunciando troppo presto l'arrivo delfratello, aveva commesso un errore. Lavisita promessa si faceva sospirare.

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Naturalmente nessuno era così privo ditatto da rammentargliela; ma luisembrava indovinare i pensieri deisuoi vicini, perché, di tanto intanto, prendeva l'iniziativa dicendoqualcosa che si riferiva al fratello.-Questa settimana non può venire. Làil servizio è una cosa seria. Quiavete la vita facile, e neanche ve nerendete conto! Si è già pentito da unpezzo di essersi arruolatonell'esercito! Ma non lo vuoleammettere. Che cos'altro avrebbepotuto fare, lungo com'è! . Sulledifficoltà procurate al fratello dallasua alta statura Sieghart sidiffondeva con abbondanti particolari.Franz Sieghart in fondo compativa suofratello, anche se riconoscevaesplicitamente i suoi meriti,osservando, con rispetto, che erariuscito a diventare capitano, giovanecom'era.Ma alla fine l'argomento cominciò adiventare noioso e nessuno gli diedepiù retta. Appena Sieghart tiravafuori il fratello, la gente si tappavale orecchie. Sieghart, abituato afarsi ascoltare, sentì tutto a untratto un muro intorno a sé e, purcontinuando il suo discorsosull'altezza, gli cambiò rapidamentesoggetto. Oltre al fratello, avevaanche delle ragazze. Tutte le ragazzeche Sieghart conosceva erano, se nondi statura gigantesca come suofratello, almeno normali. Ma qui lavarietà e il numero contavano piùdell'altezza. Non che egli fosse tantomaleducato da rivelare particolariintimi riguardanti il loro aspetto,questo no, anzi era un perfettocavaliere che si ergeva a difesa diciascuna delle sue ragazze. Non lecitava mai per nome; ma, per poterledistinguere e farci sapere di qualestesse parlando, le aveva numerate, eogni volta che doveva riferirciqualche episodio che le riguardava,usava il numero corrispondente. -Lamia amica numero 3 mi ha mollato, oggideve restare in ufficio più a lungodel solito. Ma io mi consolo e vado alcinema con la mia amica numero 4 .Aveva delle foto di tutte. Una peruna, le fotografava. Era la cosa chele sue ragazze amavano di più: farsifotografare da lui. A ognirendezvous, era quella la primadomanda. -Di' un po', me le fai oggi

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un paio di foto? . -Su, su, un po' dipazienza rispondeva lui. -Ogni cosa asuo tempo. Arriverà anche il tuoturno . Ci tenevano soprattutto aposare nude. Tutte foto decenti, percarità. Ma quelle poteva mostrarlesoltanto se il viso non si vedeva. Nonera il tipo, lui, da commettereindiscrezioni. Ma sì, qualcuna cel'avrebbe anche mostrata. Un giorno ol'altro ne avrebbe portato un belmucchio in laboratorio. Tanti nudidelle sue ragazze. Ma non c'erafretta. Dovevamo aver pazienza. Unavolta incominciato, non gli avremmopiù dato pace. -Sieghart, non haqualche altro nudo? . Non poteva micastar sempre a pensare a quello, avevaanche dell'altro per la testa, oltrealle sue ragazze. E noi dovevamoimparare a frenare la nostraimpazienza. Quando fosse arrivato ilmomento, avrebbe pregato le colleghedi farsi un po' in là, non era robaper i loro casti occhi. Era roba persoli uomini. Ma, per favore, ci tenevaa sottolinearlo: lui faceva solo fotodecenti.Sieghart sapeva stimolare lacuriosità dell'aula. Portò inlaboratorio una scatola da scarpeaccuratamente legata con dello spago ecominciò a chiuderla a chiave nel suoarmadietto. Ma, non essendosoddisfatto di quella sistemazione, latirò fuori di nuovo, la rimise dentro,ci pensò un attimo, disse: -Così vameglio , la tirò fuori un'altra volta,e infine dichiarò: -Bisogna proprioche tenga gli occhi aperti. In realtànon dovrei dirvi nulla. E'è tutta pienadi nudi. Non ci sarà mica qualcheladro, fra voi? . Continuava a trovarescuse per rigirarci la scatola davantiagli occhi. -Che nessuno la apra a miainsaputa! So io come l'ho annodata. Loso perfettamente. Qualsiasi cosadovesse succedere, mi riporto a casala scatola e non se ne parla più!Avete capito tutti? . Suonava come unaminaccia, e in effetti lo era, perchétutti ormai credevano al contenuto diquella scatola. La signorinaReichmann, che era molto pudica, avevaun bel dire: -Guardi, signor Sieghart,che la sua scatola da scarpe noninteressa a nessuno! . -Oho! replicava Sieghart, strizzandol'occhio a tutti i maschi presenti, alche qualcuno rispondeva a sua volta

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con una strizzatina d'occhio, e tuttisapevano perché il contenuto di quellascatola li allettava così tanto.Sieghart ci tenne sulla corda permolte settimane. Aveva sentito parlaredi Hund, il nostro fotografo provetto,e perciò si fece descrivere da noi isuoi soggetti in tutti i particolari.Al che arricciò il naso e dichiarò:-Roba vecchia! Tutta roba vecchia!Anche prima si facevano delle fotocosì. Per favore, anche a me piace lanatura. Ma son capaci tutti difotografarla. Basta andare all'ariaaperta e subito, zaf zaf, ecco pronteuna dozzina di istantanee. Per me, èroba vecchia. Che ci vuole! Le mieragazze, prima devo andarmele acercare tutte le volte. Uno, prima, ledeve scoprire. Poi devo corteggiarle.D'accordo che d'estate ai bagni non èdifficile. Ma d'inverno, prima te ledevi scaldare. Altrimenti ti dicono dino chiaro e tondo e la cosa nonprocede. Ma io so come si fa, non mifaccio lasciare a bocca asciutta. Dame si fanno fotografare tutte. Forsesiete convinti che mi prendano per unbambino solo perché sono piccolo.Macché! Errore madornale. So bene comefar capire quant'acqua è passata sottoi ponti. Per loro io sono un uomo comechiunque altro. Solo allora possonoottenere il loro trionfo davanti allamacchina fotografica - e dovrestevedere come ne sono fiere! E ricevonosoltanto una foto! Una copia, non dipiù, una per ogni fotografia, e solose è venuta bene. Per quella nonvoglio niente. Cari miei, devo anchepensare ai costi. Se una vuole avernepiù copie, bisogna che le paghi. Ecapita spesso, le vogliono per i loroamici, faccio un bel po' di soldi, evi assicuro che i soldi non sono dabuttar via .Ora tutte quelle amicizie diSieghart cominciavano a spiegarsi.L'-amicizia consisteva in questo:Sieghart era il loro fotografo personale.Ma lui badava bene a non essere troppochiaro su questo punto, e sitrincerava dietro una formulaoriginale: -Per piacere, nessuno credadi ottenere da me particolari piùprecisi. Esiste pure una cosa che sichiama discrezione. E per me ladiscrezione è una faccenda d'onore.Questo le mie amiche lo sannobenissimo. Mi conoscono a fondo, come

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io conosco loro! .Un bel mattino, ecco nel vano dellaporta un gigante in uniforme, chechiede di Franz Sieghart. Aspettandole fotografie delle ragazze, cieravamo completamente dimenticati delfratello; fissammo sbigottiti il lungocapitano, che terminava con una testapiccolissima e davanti aveva - comeuna maschera - la stessa faccia diFranz Sieghart. Quando chiese di lui,qualcuno gli indicò il posto del nano,che in quel momento, inginocchiato perterra, stava inserendo con attenzioneun piccolo e ritorto becco di Bunsensotto un'ampolla piena di alcool.Quando riconobbe le gambe in uniformedi suo fratello, Sieghart saltò su esi mise a gracchiare: -Salve.Benvenuto fra noi. La chimica, aula dianalisi quantitativa, ti porge il suosaluto. Posso presentarti i colleghi?Prima le signore, su, non far tantemoine, ti conosco! . Il capitano eraarrossito. -E'è timido spiegò il nano.-La caccia ai nudi non farebbe perlui! .Grazie a questa allusione latimidezza del fratello diventò totale.Stava appunto cercando di farel'inchino davanti a una delle-signore , quando il nano se ne uscìcon la storia dei nudi: il capitanoscattò indietro a metà dellariverenza, rosso come un tacchino, maisuo fratello sarebbe potuto diventarealtrettanto rosso, ora i due volti sidistinguevano chiaramente. -Non averpaura, disse il piccolo -ti lasceròstare. E'è così compìto, non potetefarvene un'idea. Tutto deve andarliscio esattamente come alle sueparate. Quella di prima era greca,mentre questa è una dama russa. E qui,tanto per cambiare, eccoti unaviennese, la signorina Fr�hlich, chefa onore al suo nome, e infatti ridesempre, anche se nessuno le fa ilsolletico. Alla dama russa, invece,queste spiritosaggini non piaccionoaffatto. Nessuno si azzarda a farle ilsolletico sopra i polpacci, nemmenoio, che pure avrei l'altezza giusta .La signorina Reichmann fece unasmorfia e si girò dall'altra parte. Ilcapitano espresse con una leggeraalzata di spalle il suo rammarico perla sfacciataggine del fratello, maquesti aveva già notato che lariservatezza della signorina Reichmann

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era piaciuta al capitano: -E'è una grandama, questa. Coltissima e di ottimafamiglia. Non è roba per te. Che ticredi. Chi non ci farebbe unpensierino? Autocontrollo, ci vuole!Per piacere, datti un contegno. Comeufficiale, dovresti esserci abituato .Poi venne il nostro turno. Ma FranzSieghart continuava a teneresaldamente al guinzaglio il fratello,non lo lasciava andare lontano. Cipresentò a uno a uno e per ciascunotrovò una formula sfottenteestremamente azzeccata. A tutti fuchiaro che ci aveva osservato congrande attenzione; comunque, anche seil suo modo di presentarci era piùmordace che amichevole, le sue battutesi succedevano con tale rapidità,colpo su colpo, che non la finivamopiù di ridere, non riuscivamo a tenereil passo, stavamo ancora ridendo diuna sua battuta e lui già faceva isuoi apprezzamenti due persone più inlà. Ci sembrò una fortuna che Hundquel giorno non fosse in laboratorio.Egli aveva sempre guardato Sieghartcon aperta ostilità, ancor prima chesaltasse fuori il discorso dei nudi.Era come se fin dal primo sguardo Hundavesse intuito quale iattura gli stavapreparando l'instancabile attività delnano. In realtà Sieghart non gli avevamai rivolto direttamente la parola,benché si fosse informato sul suogenere di fotografie e avessedichiarato apertamente a tutti quantole disprezzava. Ma ora avrebbe dovutochiamarlo per nome e dire qualcosa sudi lui, perché il fratello fupresentato a tutti, persino a Wundel,il nostro scemo del villaggio, checonduceva un'esistenza alquantooscura. Sieghart, insomma, non avrebbepotuto fare a meno di dire qualcosaanche sul conto di Hund, e, datal'evidente suscettibilità di costui,le cose certo sarebbero finite male.In realtà le presentazioni nondurarono a lungo, Sieghart sembravatenerci in pugno tutti quanti come suofratello, ci tirava fuori uno dietrol'altro e, dopo aver appioppato aciascuno la sua razione, lo metteva daparte. Il fratello, però, cadde dallapadella nella brace, la dose disarcasmo che spettò a lui era pari aquella di tutti noi messi assieme.Cominciai a capire perché portaval'uniforme. Era fuggito nell'esercito

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per sottrarsi alla sete di dominio ealle continue beffe del nano; là,almeno, tutto era previsto, si muovevain base agli ordini che riceveva e nonaveva da temere le imprevedibilitrovate del piccoletto. Mi chiesiperché mai fosse venuto a trovarci,doveva pur sapere a che cosa sarebbeandato incontro. La risposta arrivòsubito dopo che egli si fu congedato.-Gli ho detto, vieni un po' qua avedere la chimica, se non ti manca ilfegato. Qui non si fila comenell'esercito, qui si può anchechiacchierare, mentre si lavora. Malui, lui dice sempre che quando silavora bisogna fare silenzio. Tuttidevono tenere la bocca chiusa, come lereclute. Non sapete quante volte gliho detto e ridetto di venire qui! Seiun fifone, certo, sei proprio un granfifone! gli ho detto. Non sai com'èfatta la vita. Nell'esercito sietecome sotto tutela. Non capita mainiente a nessuno. La guerra è finita.Di guerre non ce ne saranno mai più.Dunque a che cosa serve un esercito?Serve per i fifoni che hanno pauradella vita. E'è alto un metro eottantanove e ha paura della chimica!Arrossisce a ogni donna che vede. Cisono cinque donne in aula e cinquevolte è diventato rosso. Allora io,con i miei otto numeri. non dovreismettere mai di arrossire, di amichene ho proprio otto, né più né meno. Epoi gli ho raccontato delle nostresignorine. In particolare gli hoparlato della distinta dama russa.Ecco una donna che fa per te, gli hodetto; non guarda né a destra né asinistra, ma perché è colta, non perla fifa! Oh, la paura lo ha bloccatoper un pezzo, ma alla fine è venuto; eadesso l'avete visto, quel baccalàalto uno e ottantanove, ci sarebbequasi da vergognarsi di avere unfratello così alto. E'è uno che vivenel terrore. Ha paura anche di me!Quando eravamo bambini lo facevopiangere, tanta era la paura che avevadi me. Nessuno se n'è accorto? Hapaura di me! Trema come un coniglio!Il signor capitano ha paura! Non è daridere? Io non ho mica paura. Ne avreidi cose da insegnargli! .Le millanterie di Sieghart, a tuttovolume, erano ogni tanto assaifastidiose, ma non pregiudicavanoaffatto lo svolgimento del suo lavoro.

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Mandava avanti abile e svelto le sueanalisi, ma nulla gli sfuggiva,nemmeno Wundel, l'imbroglione, chesembrava lo scemo del villaggio e che,con un cauto sorrisetto, si aggiravaper l'aula senza dare nell'occhio, lascatolina di vetro con la sostanzachimica nella mano adunca nascostanella tasca destra del camice. Andava,senza fare rumore, dall'uno all'altro,a zigzag, non seguiva l'ordine che tisaresti aspettato, tutto a un trattote lo trovavi inaspettatamentedavanti, ti guardava in faccia vicinovicino, con aria supplichevole, ediceva: -Signor collega, la conoscequesta? Sa di bosco . Ti metteva sottoil naso la scatolina aperta, tuaspiravi profondamente, daviun'occhiata alla sostanza e dicevi:-Sì, certo, l'ho ricavata anch'io ,oppure: -No, non so che roba sia . Nelprimo caso Wundel voleva sapere comel'avevi ottenuta; a furia di insisteresi faceva dare il quaderno con lemisure e i calcoli, e tu glielolasciavi per un po'. Wundel copiava dinascosto gli appunti e si metteva allavoro con fiducia, tanto i risultatili conosceva in anticipo.Tutti sapevano che imbrogliava, manessuno lo denunciò mai. Wundel facevain modo che nessuno la sapesse troppolunga sul suo conto. Anch'egli montavai suoi apparecchi, armeggiava nei suoialambicchi, pesava i suoi crogioli alabbra strette, e perciò supponevamoche facesse il suo lavoro come tuttigli altri e si limitasse a mettere aconfronto i suoi risultati con lecifre che aveva racimolatoelemosinando i nostri appunti. Seavessimo saputo che tutti i suoipreparativi erano simulati, dal primoall'ultimo, e che aveva sempre esoltanto fatto finta di lavorare,avremmo esitato a dargli un aiuto cosìcostante. Non andava mai dallo stessocompagno, i suoi percorsi a zigzag gli servivano a evitare quei colleghiche già lo avevano aiutato in passato;un paio di volte al mese lo vedeviaggirarsi furtivo qua e là, ma nonsempre era chiaro lo scopo di quellesue indagini così discrete. Aveva iltalento di farsi sottovalutare. Tantometodo e tanta scaltrezza eranol'ultima cosa che ci sarebbe venuta inmente di attribuire a quella focacciasorridente. Proprio così, la maschera

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che portava era questa: una focacciasorridente. I suoi occhi guardavanosempre a terra, come quelli di uncercatore di funghi, il sorrisetto,invece, era proprio fuori posto, ecosì pure la voce acuta e strascicata.Per i suoi traffici doveva esseresilenzioso, perciò evitava Sieghart,che parlava sempre a voce altissima;ma non poté impedire che questi, benpresto, cominciasse a riconoscere e asalutare in lui il cercatore difunghi. -Noi due ci conosciamo, signorcollega! lo investì Sieghart ungiorno con voce squillante - al cheWundel trasalì, spaventato - -Sa doveci siamo conosciuti? E'è da un pezzoche ci conosciamo! Provi a indovinaredov'è stato! Non ci arriva? A me nonsfugge niente. Io non dimenticoniente . Wundel agitò le braccia,impotente, come se volesseallontanarsi a nuoto dall'aula; ma nongli servì a nulla, Sieghart lotrattenne per uno degli ultimi bottonidel camice e ripeté due o tre volte lasua domanda. -Come, come, non lo sa?Ma andando per funghi, naturalmente, edove, se no? La vedo sempre nel bosco,quando va per funghi. Ma lei guardasempre per terra, non c'è niente chelei conosca bene come i funghi. Comefarebbe altrimenti ad avere sempre ilcanestro pieno? Anch'io però, me lacavo bene; sa, sono così vicino alsuolo. Non so proprio chi riempia ilcanestro di più, se lei o io. Ma iotengo d'occhio anche la gente, sono uncuriosaccio matricolato, per via dellefotografie. E adesso, che ne direbbese le facessi vedere una fotografiache le ho fatto una volta mentre l'hobeccata a coglier funghi? .L'espressione -l'ho beccata Wundelnon la sentiva volentieri, lechiacchiere gioviali del nano eranoper lui un vero tormento. In seguitofece del suo meglio per evitarlo,modificando opportunamente i suoipercorsi a zigzag; ma non sempre ciriusciva. Sieghart andava a nozze conlui. Quando, grazie a una delle suetrovate, attaccava discorso conqualcuno, non lo mollava più; eWundel, il conoscitore di funghi, erala sua vittima preferita.Ma erano solo scaramucce. Wundel,anzi, gli era simpatico; forse capivala sua scaltrezza, perché quandoqualcuno parlava di lui con disprezzo,

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chiamandolo lo -scemo del villaggio ,Sieghart si opponeva decisamente:-Quello? Non è affatto lo scemo delvillaggio. E'è uno che sa bene quel chevuole. E non dice una parola ditroppo . Ma in aula Sieghart avevapreso di mira una persona che volevafar fuori, perché si trattava di unfotografo riconosciuto.La scatola da scarpe piena dipromesse giaceva dunque da un pezzonel suo armadietto. Di tanto in tantola tirava fuori rigirandola a lungofra le mani; talvolta cominciavapersino a slegarla dai suoi nodicomplicati; ma appena i colleghi se neaccorgevano e facevano due o tre passiin direzione della scatola, Sieghart,quasi colpito da un'improvvisaispirazione, si fermava dicendo: -No,oggi non mi va. Non ve lo meritateancora. Prima ve lo dovete meritaresul serio! . Ma in che cosaconsistesse questo -meritarselo , nonlo spiegava mai. Aspettava qualcosa,ma nessuno sapeva che cosa, e intantosi divertiva a far venire l'acquolinain bocca agli sciocchi allentando inodi della scatola, che poi venivasubito riannodata e rimessa al suoposto; neppure frasi come -Ma va' là,tanto in quella scatola non c'èniente! riuscivano a metterlo inimbarazzo.Poi, un giorno, Hund arrivò di nuovocon un pacchetto, piuttosto voluminosoquesta volta, che lasciò cadererumorosamente sul tavolo accanto a sé.Non era affatto il suo stile; ma avevaimparato proprio da Sieghart, che sumolti faceva colpo, in aula il suomodo di darsi importanza aveva fattoscuola. Hund aspettò un poco, menodelle altre volte però, poi, con vocepiù alta del solito, disse: -Ho quidelle fotografie! Chi le vuolvedere? . -Se le voglio vedere! gracchiò il piccoletto, e subito corseavanti per primo, mettendosi a fiancodi Hund. -Son qui che aspetto! dissecon aria di sfida, mentre gli altri,molto più lentamente, si raggruppavanointorno a Hund. Questa volta vennerotutti, chiunque fosse in grado dilasciare il suo lavoro anche solo perun attimo si fece avanti. -Io mi sonobeccato il posto migliore disse ilpiccoletto; ma la frase, che avrebbedovuto essere allegra, suonò velenosa,e altrettanto velenosa fu la replica

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di Hund: -Si faccia ancora più sotto,altrimenti non vedrà niente, data lasua statura! .-Qui la statura non c'entra affatto,c'entrano le foto. Non sto più nellapelle. Subito dopo aprirò il mioscatolone. Tutti nudi di signorine.Non mi dica che ha finito perspecializzarsi in nudi anche lei,signor collega, sarebbe un veropeccato - o invece siamo rimastifedeli alla natura? Un gattino allafinestra o un pioppo bianco battutodal vento? Un paesaggio di montagnadello scorso inverno, con tanta bellaneve? A me piacerebbe una dolcechiesetta di paese, col camposantointorno e magari due pie croci. Ehgià, i morti non bisogna dimenticarli.Oppure mi piacerebbe un gallo su unmucchio di letame; e con questo nonvoglio dire che sia un mucchio diletame quello che lei vuol farcivedere, signor collega, per favore,non mi fraintenda, voglio dire un verogallo su un vero mucchio di letame! .-Se lei adesso non se ne va nonfaccio vedere più niente a nessuno disse Hund. -Non fa vedere niente anessuno ahi, come faremo a consolarci!E allora non mi resta - gridò adessoil nano - -che risarcirvi con i nudidelle mie signorine! Venite qui da me,riveriti signori, eccovi qualcosa chevale la pena, cambia la musica, vel'assicuro io! .Sieghart afferrò per il braccio duecolleghi e li portò con sé ammiccandoenergicamente. Gli altri gli andaronoappresso. Finalmente era giunto ilmomento tanto atteso. A chiinteressava più il combattimento tradue fringuelli maschi fotografato daHund? Accanto gli rimase un solocollega, mentre un altro, a mezzastrada, si voltava verso di luiindeciso.-Andate, andate pure! disse Hund.-Adesso non faccio vedere proprioniente! Oggi avevo roba speciale,andate pure, e guardatevele bene lesue porcherie! .Spinse via a gomitate l'unicocompagno che - forse per compassione -gli era rimasto fedele e non si placòfino a quando non rimase solo al suoposto, come sempre. Non fece nulla perdisturbare l'esibizione di Sieghart.Restò in piedi, cupo e silenziosodavanti al suo pacchetto, sopra il

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quale aveva posato la mano destra,come per difenderlo da un'infamemanomissione.Sieghart, intanto, stava sciogliendoi nodi. Lo fece in un lampo, ecco, lascatola era aperta, e subito il nanosi mise a tirar fuori un mucchio difotografie, che sparse sul ripianocome se niente fosse.-Prego, prego, servitevi, riveritisignori, qui ci son donne per tutti igusti, ognuno può prendersi quelle chepreferisce. Ce n'è un paio perciascuno. Per piacere, niente falsamodestia! Ognuno può mettersi insiemeil suo harem. Come sarebbe? Nessuno hail coraggio di allungare la mano versola felicità? Devo guidare io la manodei signorini? Così fifoni, signorimiei? Non me lo sarei mai aspettato. Eadesso s'immaginino un po' che tuttoquesto io l'ho avuto davanti agliocchi come natura l'ha fatto.Bisognava darsi da fare per scattarein fretta, proprio così, che cosacredono, se non fossi stato svelto edeciso a scattare - le signorine nonsi sarebbero certo spogliate unaseconda volta, e poi chissà che cosaavrebbero pensato di me! E che cosapenseranno adesso di voi le signorine,se non vi decidete ad allungare lemani! .Agguantò la mano di uno studente cheera in piedi vicino a lui e la guidòin mezzo al mucchio delle fotografie,ma, così facendo, le comunicò untremito, come se la mano arretrassespaventata di fronte alle meraviglieche stava per afferrare. Sieghart,allora, ficcò in mano al compagno unabuona dozzina di fotografie e gridò:-Il prossimo, prego! . Ormai gli altrisi facevano avanti da soli, e prestofurono là a bocca aperta, come tantiallocchi, davanti alle ragazzesvestite, che si offrivano ai lorosguardi senza assumere tuttavia poseseducenti, volgari o maliziose. Atutti gli spettatori sembrava un attopiuttosto arrischiato, che cosasarebbe successo se fosse arrivato unassistente, o addirittura ilprofessore con il suo seguito? Maindecenti quelle fotografie non sipotevano proprio definire, se noparecchi studenti non si sarebberoazzardati a prenderle in mano davantiai compagni. Solo il fatto che lestudentesse fossero escluse era un po'

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imbarazzante, e di fronte allasignorina Reichmann, che lavorava pocolontano - guardando per aria davanti asé e facendo finta di non sentire -tutti provarono un senso di colpa.Hund, nel frattempo, era statocompletamente dimenticato, nessuno siricordava più che era rimasto in aula.Tutto a un tratto egli piombò in mezzoagli studenti e alle foto, sputò perterra e gridò: -Puttane, sono tutteputtane! . Poi sparì, ma non fu più lastessa cosa. Sieghart si sentì offesoper le sue amiche. -Questo le mieamiche non se lo meritano proprio disse raccogliendo rapidamente lefoto. -Se avessi saputo una cosasimile, non avrei portato niente. Sele mie amiche lo vengono a sapere, èfinita tra noi. Devo pregare i signoridella massima discrezione. Nemmeno unasillaba deve uscire da quest'aula. Lescuse non basterebbero, anche seandassimo tutti in visita ufficialedalle signore e non la finissimo piùdi chiedere scusa in coro, nonservirebbe a niente. Qui ci vuole unacosa sola: il silenzio, il silenziopiù assoluto. Posso contare sulla lorodiscrezione, signori, non è vero? Quinon è stato aperto nessun pacco, equella parola offensiva non è statapronunciata. Anch'io starò zitto. Nonlo racconterò neppure al miofratellone .Un mormone rosso.L'estate del 1926 la passai con imiei fratelli a Sankt Agatha, unapiccola località fra Goisern e il lagodi Hallstatt. Una bella, vecchialocanda, che in passato era stata unafucina, aveva uno spazioso ristorante.Non sarebbe stata adatta a unsoggiorno di adolescenti; ma propriolì accanto sorgeva, con l'insegna-Fucina di Sant'Agata , una pensionepiù piccola e più recente, diretta daun'anziana signora. Le stanze eranostrette, modeste, e la sala da pranzoin proporzione, non ci stavano più didue o tre tavoli. A uno di essisedevamo noi, con la padrona una donnadi polso, più severa all'aspetto diquanto non fosse poi nellaconversazione, perché, come si vide,non aveva pregiudizi contro lecoppiette illegali.Di ospiti veri e propri, oltre anoi, c'era solo una coppia: un registadi mezza età sempre in vena di

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spiritosaggini, di carnagione scura,con folte sopracciglia e il volto unpo' segnato, e la sua amica,giovanissima e slanciata, molto piùalta di lui, biondo cenere, non privadi fascino e molto impressionata daisuoi discorsi interminabili. Per ognicosa il regista aveva la suaspiegazione, non c'era argomento sucui non la sapesse lunga. Si mettevavolentieri a parlare con me, perchégli davo corda; lui ascoltava quel chedicevo e sembrava perfino prenderlosul serio. Ma presto arrivava il suoturno, e allora faceva piazza pulitadi tutto ciò che avevo detto io, miprendeva in giro, faceva lo spiritoso,sfotteva, fischiettava, recitava unmucchio di parti diverse, come ateatro - e mai una volta finiva il suodiscorso senza lanciare ad Affi, lasua amica, una lunga occhiata datrionfatore. Per lui era naturale chel'amico avesse sempre l'ultima parola;ma non per me. Mentre lei non fece maiil tentativo di dire la sua, io invececi provai ancora un paio di volte. Nonappena lui mi aveva messo a terra,subito mi rialzavo con mossainaspettata e cominciavo a ribattere,scatenando di nuovo la sua replicamordace. Il signor Brettschneider nonera cattivo, semplicemente il suopossesso indisturbato di Affiimplicava che lei non dovesseascoltare per troppo tempo nessunapersona di sesso maschile, fosse pureun adolescente. La signora Banz, lapadrona, ascoltava in silenzio, senzamai parteggiare per nessuno e senzafar trapelare, neppure con il piùpiccolo moto del viso, il suoorientamento, eppure sapevamo cheseguiva la conversazione in ogni suapiega.Il signor Brettschneider e Affioccupavano una cameretta accanto allamia, e le pareti erano talmentesottili che io sentivo tutti i rumoriprovenienti dalla loro stanza: fischi,scherzetti, risatine, e spesso unbrontolio soddisfatto. Solo ilsilenzio mancava del tutto; può anchedarsi che il signor Brettschneidertacesse ogni tanto, quando dormiva;ma, se così era, io non me neaccorgevo, perché allora dormivoanch'io.Non c'era da stupirsi che i nostripensieri ruotassero intorno a quella

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coppia, così male assortita, perché,oltre a noi, erano gli unici ospitidella pensione. Ma in quelle settimaneun'altra cosa mi occupava la menteancora di più. Le rondini. Ce n'eranoun'infinità, avevano nidificato nelbell'edificio della vecchia fucina.Quando stavo seduto al tavolo di legnoin giardino, e scrivevo nei mieiquaderni, le rondini sfrecciavanovicinissime sopra il mio capo. Leguardavo per ore, ne ero comeincantato. Talvolta, quando i mieifratelli volevano andare a fare unapasseggiata, io dicevo: -Andate pureavanti, io vi seguo fra poco, finiscodi scrivere una cosa ; ma scrivevopoco, perlopiù restavo a guardare lerondini, non volevo separarmene.Per due giorni a Sankt Agatha sifesteggiò la sagra del paese, ed èquesto l'avvenimento che mi è rimastopiù vivo nel ricordo. Le bancarelleerano state sistemate intorno ai tigliche si ergevano maestosi sulla piazzaantistante la vecchia fucina, maalcune arrivavano anche fino alla casadove stavamo noi. Proprio sotto la miafinestra, un giovanotto avevasistemato un tavolo sul quale avevaammonticchiato alla rinfusa una grandequantità di camicie da uomo. Ilvenditore rimescolava le camicie congesti rapidi e impetuosi, ne tirava sudal mucchio ora una ora un'altra,perlopiù due o tre insieme, e poi lelasciava ricadere nel mucchiogridando:-Oggi non me ne importa un ficosecco@ Se faccio i soldi o se rimangoa secco! .Lo gridava con convinzione,accompagnando le sue parole con ungesto nervoso, come se non volendoavere più niente a che fare con quellecamicie preferisse buttarle via.Intanto le contadine affluivanonumerose al suo banco per acciuffarela merce che lui regalava. Qualcunaesaminava dubbiosa una camicia conl'aria di intendersene, ma lui alloragliela strappava di mano e poi glielatirava di nuovo, come se volesseregalargliela, e nessuna contadina,una volta presa in mano una camicia,rinunciava a portarsela via, sembravache le camicie rimanessero appiccicatealle loro mani. Quando pagavano,sembrava che i soldi lui neanche livedesse, li gettava in uno scatolone

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che si riempiva molto in fretta,mentre le pile di camicie scemavano avista d'occhio. Io lo guardavo dallamia finestra, ero proprio sopra dilui, non avevo mai visto niente dicosì rapido, e intanto continuavo asentire il suo grido:-Oggi non me ne importa un ficosecco@ Se faccio i soldi o se rimangoa secco! .Notai che l'apparente sventatezzadelle sue parole si stava comunicandoalle contadine, che tiravano fuori isoldi come se niente fosse - e tutt'aun tratto le camicie erano finite, ilbanco era stato completamenteripulito; il giovanotto, allora, alzòla mano destra e gridando -Alt! Unmomento! sparì dietro l'angolo con lascatola di cartone piena di soldi. Dalpunto in cui io mi trovavo non potevovedere dove fosse diretto, e pensandoche avesse finito lasciai la finestra,ma prima di raggiungere la porta dellamia stanzetta udii di nuovo, sepossibile ancor più forte di prima, ilsuo grido: -Oggi non me ne importa unfico secco, eccetera . Sul banco eranoricomparse un gran numero di camicie,che egli tirava su con espressioneamara e poi gettava via con gestosprezzante. Le contadine siavvicinavano da ogni parte e cadevanonella sua rete.Non era una gran fiera, perciòandando a zonzo fra le bancarellefinivo sempre per ricapitarglidavanti, nessuno sapeva vendere comelui. Mi notò subito, mi aveva giànotato quando ero alla finestra; cosìin uno dei rari momenti in cui erasolo dietro il suo banco, mi domandòse ero uno studente. Non fui sorpreso,lui pure aveva un'aria da studente, einfatti tirò subito fuori il librettodell'Università di Vienna e me lo misesotto il naso. Studiava legge, era alquarto semestre, e faceva un po' disoldi nelle fiere. -Vede come èfacile, disse -potrei venderequalsiasi cosa. Ma non c'è niente dimeglio delle camicie. Queste stupidedonnette credono che le regali .Disprezzava le sue vittime, quellecamicie si strappavano tutte nel girodi una settimana, una camicia così nonla si poteva portare più di quattro ocinque volte, poi era finita... ma luise ne infischiava, quando quelledonnette se ne fossero accorte, lui

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sarebbe stato mille miglia lontano. -El'anno prossimo? domandai. -L'annoprossimo? L'anno prossimo? . La miadomanda lo lasciò esterrefatto.-L'anno prossimo avrò tirato le cuoia.E se per caso non avrò tirato lecuoia, sarò da qualche altra parte.Cosa crede, che tornerò qui? Me neguarderò bene. E lei, l'anno prossimo,tornerà qui? Se ne guarderà bene anchelei. Lei per la noia, io per lecamicie . Mi vennero in mente lerondini, e pensai che sarei tornatoper rivederle; ma mi guardai bene daldirglielo, ed ebbe lui l'ultimaparola.Alla sagra c'erano molte altre coseda vedere, ma io feci amicizia con unasola persona, un uomo con i capellirossi e una gamba di legno; se nestava seduto sui gradini della vecchialocanda, con una gruccia accanto, lagamba di legno allungata davanti a sé.Mi chiesi che cosa stesse facendo, nonmi sarebbe mai venuto in mente chechiedesse l'elemosina. Ma poi notaiche, di tanto in tanto, qualcuno gliallungava una moneta e che lui, senzascomporsi, diceva: -Dio ve ne rendamerito! . Gli avrei domandatovolentieri da dove veniva, avevaun'aria da forestiero, con queglienormi baffi rossi, che sembravanoancora più rossi dei capelli, ma quel-Dio ve ne renda merito! aveva unsuono del tutto locale. Mi imbarazzavarivolgergli la parola come a unmendicante, così feci finta di nonaver notato niente e per il momentonon gli diedi nulla, proponendomi dirimediare in seguito. Sono certo dinon aver usato un tono dicondiscendenza quando gli domandai dadove venisse; ma lui non nominò né unalocalità né una nazione e, con miograndissimo stupore, disse. -Sonomormone .Non sapevo che in Europa ci fosseroi mormoni. Ma forse quell'uomo erastato in America e là era vissuto frai mormoni. -Quanto tempo è stato inAmerica? . -Non ci sono mai stato! .Sapeva che la risposta mi avrebbesorpreso e aspettò un poco prima dispiegarmi che anche in Europa, epersino in Austria, c'erano deimormoni, e nemmeno tanto pochi.Tenevano le loro riunioni ed erano incontatto gli uni con gli altri. Potevaanche mostrarmi il loro giornale.

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Avevo la sensazione di disturbarlo nelsuo lavoro, doveva fare attenzionealla gente che entrava e usciva dallalocanda, perciò me ne andai dicendogliche sarei tornato più tardi. Ma quandolo feci l'uomo era sparito, e io nonriuscivo a capacitarmi di non averlovisto mentre si allontanava; con lasua gamba di legno, la gruccia e icapelli rosso fuoco non poteva passareinosservato.Entrai nella locanda, che era pienazeppa, e improvvisamente, nella grandesala, lo vidi seduto a un tavolo conaltra gente davanti a un piccolobicchiere di vino del colore dei suoicapelli. Sembrava solo, nessunoparlava con lui, o forse era lui chenon parlava con nessuno. Mi sembròstrano che si mescolasse, comequalsiasi altra persona, ai clientidel locale davanti a cui aveva chiestol'elemosina fino a pochi minuti prima.Ma non sembrava preoccuparsene, stavatranquillamente seduto, con il bustoeretto; forse alla sua destra e allasua sinistra c'era un po' più dispazio che fra le altre persone. Conquei capelli di fuoco, e soprattuttocon quei baffi, spiccava fra tutti,lui solo mi sarebbe saltato agliocchi, fra la gente del suo tavolo,anche se non gli avessi parlato prima.Aveva un'aria da attaccabrighe, manessuno gli rivolgeva la parola.Appena mi ebbe notato, mi fece segnotutto contento per invitarmi al suotavolo. Dovette appena spostarsi perfarmi posto, e trovammo persino unasedia lì vicino, perché qualcuno siera alzato per andarsene. Alla finesedemmo vicini, stretti stretti, comevecchi compari, ed egli insistette peroffrirmi un bicchiere di vino.Aveva la sensazione, disse, entrandosubito in argomento, chem'interessassero i mormoni. Tuttierano contro i mormoni. Nessuno volevaaver niente a che fare con lui soloperché era mormone. Tutti pensavanoche avesse un sacco di mogli. La gentenon sapeva altro dei mormoni, ammessoche ne sapesse qualcosa. Era una talescemenza, lui era senza moglie deltutto, sua moglie aveva tagliato lacorda, proprio per questo era andatodai mormoni. Erano brava gente, tuttilavoravano, nessuno se ne stava maicon le mani in mano, nessuno bevevaalcoolici, era una cosa che da loro

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non esisteva proprio, non come là, eaccennò irosamente al mio bicchiere -che il suo fosse già vuoto forsel'aveva dimenticato - e con un ampiomovimento del braccio incluse tuttigli altri bicchieri della sala. Glipiaceva parlare di quell'argomento,non si stancava di ripetere che imormoni erano brave persone. Ma lagente, disse, era molto irritabile,bastava che lui aprisse bocca perchéqualcuno dicesse: -Chiudi il becco! oppure -Vattene in America dai tuoimormoni! . Gli era già capitato diesser sbattuto fuori da un localesoltanto perché si era messo a parlaredei mormoni. Tutti ce l'avevano conlui, soltanto per quello. Eppure luinon chiedeva niente agli altri, nonprendeva soldi da nessuno quando eraal chiuso, solo all'aperto, ma questonon li riguardava, ci rimettevanoforse qualcosa? La gente nonsopportava che uno potesse trovarequalcosa di buono nei mormoni, per lagente i mormoni erano come i pagani ogli eretici, qualcuno gli avevaperfino domandato se tutti quelli coicapelli rossi erano mormoni. Suamoglie glielo diceva sempre: -Levatidi torno, coi tuoi capelli rossi. Seisbronzo. Puzzi . A quel tempo bevevaparecchio, e perciò era capitato varievolte che sua moglie gli facessesaltare la mosca al naso e si buscasseun paio di legnate dalla sua gruccia.Per questo l'aveva piantato. Era tuttacolpa dell'alcool, e così un tale, unavolta, gli aveva detto che i mormonifacevano perdere alla gente il viziodi bere, nessuno di loro beveva,proprio nessuno. Allora era andato daloro, ed era proprio vero; i mormonilo avevano curato, e adesso nontoccava più una goccia d'alcool; e dinuovo fissò con rabbia il miobicchiere, che non osavo vuotare.Sentivo l'irritazione della genteseduta al nostro tavolo. E'è vero chelui non fissava mai i loro bicchieri;ma in compenso le sue parole eranochiarissime. La sua predica control'alcool si fece più rumorosa eviolenta, aveva finito il suobicchiere da un pezzo e non ordinò piùnulla. Non osavo offrirgli uncicchetto. Mi alzai per un momento epregai la cameriera di portargli unaltro bicchiere, ma non subito, dopoun po' che fossi tornato a sedermi.

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Lessi sulle sue labbra la domanda chestava per farmi, ma riuscii aprevenirla pagando subito laconsumazione. Improvvisamente egli sitrovò di nuovo davanti il bicchierepieno; disse -Dio ve ne renda merito e subito lo tracannò tutto d'un fiato:alla salute bisognava bere, questo si,lo facevano anche i mormoni. Eranobrava gente, tanto brava che eraimpossibile farsene un'idea, qualcosaa un povero diavolo lo davano tutti,non erano persone senza cuore, unacompagnia di mormoni seduta a untavolo era capace di offrire unbicchiere dopo l'altro a un poverodiavolo e di continuare a bere allasua salute finché si ritrovavano tuttiubriachi; ma lo facevano percompassione, perciò era diverso, percompassione bere era permesso. Perchénon brindavo con lui? Lui mi avevaofferto, per compassione un bicchieredi vino e ora qualcuno gli aveva fattoarrivare, per compassione, un altrobicchiere; oh, potevamo beretranquillamente, anche i mormoni lofacevano, e quella era gente severa,se gente così severa lo permetteva,nessuno poteva averci niente daridire.Ma a nessuno veniva in mente di direalcunché; adesso che aveva bevuto,nessuno ce l'aveva più con lui. Glisguardi degli uomini seduti al nostrotavolo (fra cui un paio di giovanottiforzuti che prima avevano avuto unagran voglia di dargli una lezione) sifecero più gentili e inoffensivi. Lagente brindò con lui all'America. Eglidisse che io venivo di là, ero venutoa trovarlo, dovevo per forza direqualcosa, perché sentissero comeparlavo bene la lingua. Tirai fuori,molto imbarazzato, due o tre frasi ininglese, e quelli brindarono con me,forse per verificare se bevevo sulserio: dati i miei contatti con queltipo, infatti, mi avevano presosicuramente per un emissario deimormoni.La scuola dell'ascolto.Tornato a casa nella Haidgasse,dalla signora Weinreb, ricominciai aorigliare mio malgrado - ma non potevofare diversamente - la voce cattivadel -boia nella cucina. Dopo lavisita notturna della signora Weinrebil mio sonno si era fatto più leggero,ero sempre in attesa di episodi

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analoghi. Ma, soprattutto, non mi davapace il rapporto malsano della signoraWeinreb con i ritratti del marito,appesi dappertutto. I ritratti eranotanti e, tranne che per le dimensionie le cornici, si distinguevano amalapena uno dall'altro; ma ciascunodi essi aveva un significato e tuttifacevano il loro effetto. La signoraWeinreb assolveva le sue devozionidavanti a quei ritratti seguendo unturno preciso; ma, poiché non ero incasa durante il giorno, non ero ingrado di determinarlo. Avevo lasensazione che entrasse nella miastanza tutti i giorni; come avrebbepotuto trascurare i ritratti che vierano appesi?Quella notte era venuta in uno statoche sembrava di trance; ma che cosasuccedeva di giorno, quando il boianon dormiva, e seguiva, controllavaogni sua mossa? Forse la signoraWeinreb era sempre in stato di trance,forse il suo stato era prodotto dallavista delle fotografie che aveva sottogli occhi in ogni momento, su ogniparete. Due occhi, e poi ancora dueocchi, sempre gli stessi occhi, fissisu di lei. In tutte le fotografie ilsignor Weinreb era vecchio, a quantopare non esistevano foto del marito dagiovane; lei, certamente, non l'avevamai conosciuto senza la barba che gliincorniciava il volto e se, al momentodella sua morte, avesse trovato deiritratti di lui in età giovanile, liavrebbe messi da parte come quelli diuno sconosciuto. Ma immaginare cheegli avesse un aspetto severo sarebbeun errore; lo sguardo era mite,bonario, sempre lo stesso. Anchequando era fotografato in mezzo aicolleghi, il suo aspetto non eraminaccioso, bensì conciliante, comequello di un paciere, di un mediatore,di un conciliatore. Tanto piùincomprensibile mi apparival'inquietudine della signora Weinreb.Che cos'era che la spingeva senza posada un ritratto all'altro, qual era ilcomando che quell'uomo aveva lasciatodentro di lei, e non le dava pace,rinnovandosi come un'ipnosi-multipla , davanti agli occhi di ognifotografia?Una volta, incontrando la signoraWeinreb in anticamera, mi misi ascambiare due parole con lei, edovetti farmi forza per non domandarle

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come stesse il signor Weinreb. Ma leinon faceva che ripetere, tutte levolte, quanto era caro, buono edistinto, e che uomo istruito erastato il dottor Weinreb. Una voltadissi con rammarico: -Peccato che nonsia più in vita da tanto tempo ; malei rispose subito, spaventata: -Nonda tanto tempo . -Ah no? E da quanto? domandai, cercando di assumereun'espressione altrettanto affabilequanto quella del defunto; ma poichémi mancava la barba, non ne fuicapace. -Questo non posso dirlo, nonlo so proprio rispose lei, e sparìsvelta nella sua stanza. Non appenamettevo piede in casa, diventavoinquieto come lei; ma non lo davo avedere e cercavo di non guardare iritratti, per i quali sentivo unacerta ripugnanza. Le loro cornicierano sempre perfettamente spolverate,e la lastra di vetro lavata di fresco.Li guardavo come se fossero costituitisoltanto dalla cornice e dalla lastradi vetro. Ero, credo, in attesa di unacatastrofe, mi aspettavo un esitotremendo, cioè la distruzione di queiritratti.Una volta sognai che c'era il boianella mia stanza, la cuoca, la zia diRuªzena, che per la verità, di solito,nella mia stanza non entrava mai; unghigno feroce sul volto ed in mano unenorme fiammifero acceso, andava da unritratto all'altro del signor Weinrebe, con tutta calma, gli dava fuoco.Teneva le braccia, la mano e ilfiammifero sempre alla stessa altezza,e più che camminare sembrava chescivolasse. I piedi non li vedevo,nascosti com'erano dalla lunga sottanache arrivava fino a terra. I ritrattisi accendevano subito, ma senza ilminimo rumore, come fossero candele.Il luogo si trasformava in una chiesa,ma io sapevo che là c'era il mio lettoe che ci stavo dentro, e mi svegliaiin preda al terrore per l'empietà distare a letto in una chiesa.Questo sogno lo raccontai a Veza,che prendeva sul serio i sogni, senzaprivarli della loro forza coninterpretazioni scontate. Non le erasfuggito che il culto dei ritrattidella signora Weinreb mi avevaprofondamente turbato. -Forse disse-è il boia che incoraggia questoculto. Quella donna sa tutto, e conl'aiuto dei ritratti tiene la sua

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padrona in uno stato di soggezione.Quella casa è la chiesa di Satana, esiccome tu ci abiti e ci dormi,fintanto che rimarrai in quel postonon sarai mai tranquillo . Sentivo cheVeza, con poche parole, aveva tradottoil sogno nella nostra lingua, quellache conosciamo meglio, senzaingarbugliarne i nessi più sottili.Sapevo che dovevo andarmene daquella stanza, da quella casa, daquella strada, da quel quartiere. Mada lì alla Ferdinandstrasse, doveabitava Veza, non c'erano più di dieciminuti a piedi, ecco il vero motivoche mi aveva indotto a prendere quellastanza in affitto. Potevo comparire dicolpo sulla via di Veza e farle unfischio, proprio sotto la suafinestra, e così placare le mieinquietudini esercitando su di lei unasorta di controllo. E non solo potevoappurare se era a casa o era uscita,se era sola o aveva visite; anchequando leggeva per conto suo, o stavastudiando, in ogni momento, insomma,purché mi venisse voglia di andare dalei, Veza si sentiva in dovere diinvitarmi a salire. Non ebbi mail'impressione di disturbarla, e forsein effetti non la disturbavo, ma eracomunque una schiavitù: per lei, chenon poteva mai esser sicura che non lecomparissi davanti all'improvviso; perme, che mi sentivo attirato anche damotivi indegni, cioè dal desiderio disapere esattamente che cosa Vezastesse facendo.Mi avrebbe attirato in ogni caso,perché non c'era nulla di più belloche stare con lei, ammirarla e, mentrel'ammiravo, raccontarle le cose cheavevo pensato o che avevo fatto. Leiascoltava, nulla le sfuggiva, e benchéevitasse i commenti espliciti, siriservava su ogni cosa un giudiziopersonale, che nulla potevaconfondere. Prendeva nota fra sé e sédelle cose che le sembravanointelligenti, nei nostri colloquisarebbero tornate. Per lei non eraozioso né presuntuoso occuparsi dellecose dello spirito, ma anziperfettamente naturale. C'eranopensieri altrui che trovavano in noiuna rispondenza, una sorta di eco, equindi ci davano forza. Veza liconosceva, apriva i Diari di Hebbel emostrava al suo interlocutore ciò cheegli stesso aveva appena detto, ma

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questi non si vergognava, perché quelpasso non lo conosceva. Le suecitazioni non erano paralizzanti,arrivavano solo quando il loro effettoera corroborante. Anche le sueriflessioni, del resto, erano spessostimolate dalle tante letture, che leerano familiari. Fu lei che alloraportò Lich-tenberg nella mia vita. Altre volteopponevo resistenza; notai presto inlei, per esempio, una sorta disciovinismo per tutto ciò che èfemminile. A chi esaltava le donne nonsapeva resistere; per Peter Altenberg,che aveva visto molte volte (sin daquando, ragazzina, lo incontravatalora ai giardini pubblici) - avevauna vera adorazione, simile a quellache Altenberg stesso aveva manifestatoper le donne e per le ragazzine. Ioquesta cosa la trovavo ridicola, eglielo dissi senza peli sulla lingua.Meno male che qualcosa mi aiutava aprendere le distanze da Veza;altrimenti, a poco a poco, sareirimasto schiacciato dalla sua cultura.Al suo Altenberg opposi i mieisvizzeri: Il ragno nero, diGotthelf e I tre pettinai amantidella giustizia di Keller.Su alcuni punti importanti, avevamovedute opposte. Lei amava Flaubert, ioStendhal. E quando aveva voglia dilitigare, quando aveva perso lapazienza a causa della mia diffidenzao per gli eccessi della mia gelosia (apiccole dosi, la mia gelosia le facevapiacere), allora cominciava adattaccarmi con il suo Tolstoj. AnnaKarenina era il personaggio femminileche Veza amava di più e, quandoparlavamo di lei, arrivava talvolta auna tale veemenza da dichiarar guerraa Gogol, il mio grande russo.Pretendeva da me una palinodia perAnna Karenina, un personaggio che miannoiava perché non aveva proprionulla in comune con Veza, e siccome ionon cedevo (in quei casi avevo lafermezza di un martire: avreipreferito lasciarmi fare a pezzipiuttosto che offrire sacrifici a unafalsa dea), lei metteva mano senzabattere ciglio ai suoi strumenti ditortura; ma, anziché infierire su dime, infieriva su Gogol. Conoscendone ilati deboli, cominciava subito conTaras Bulba, quel cosacco che lericordava da vicino Walter Scott.

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Io mi guardavo bene dal difendereTaras Bulba e cercavo di spostare ildiscorso sulle opere davvero immensedi Gogol, sul Cappotto e sulle Animemorte; peccato, diceva lei con ariaipocrita, che della seconda parte diquest'ultimo romanzo fosse rimastotanto poco. Forse, dopo i primicapitoli, quella parte sarebbemigliorata; e che ne pensavo deglianni trascorsi da Gogol in Russia dopoil ritorno in patria, quando,spaventato per gli effetti prodottidalla sua stessa opera, aveva cercatodi dimostrare a ogni costo la sua fedee la sua devozione al governo,scrivendo quelle miserabili Lettereagli amici e bruciando la sua operapiù vera?Nell'intera storia della letteraturauniversale non conosceva nulla di piùspaventoso degli ultimi anni di Gogol;e pensare che era morto a soliquarantatré anni. Come si potevastimare ancora un simile concentratodi viltà quand'anche avesse avutopaura delle fiamme dell'inferno? Chene dicevo, in confronto, dell'ultimoTolstoj, che era vissuto il doppio deisuoi anni e, anche dopo aver portato atermine Anna Karenina, della qualeio non capivo una parola, era riuscitoa creare dei capolavori che persinoio, misogino incallito, dovevo perforza rispettare? Ma, soprattutto,Tolstoj aveva dimostrato sino alleultime ore della sua vitaun'ostinazione, un coraggio, perfinouna generosità senza pari, quello chegli inglesi chiamano spirit. Unapersona che stimava Gogol più diTolstoj lei non riusciva proprio aprenderla sul serio.Io mi sentivo annientato, certo,eppure non volevo cedere. Che cosa eracapitato a Tolstoj, al conte Tolstoj,con tutto il suo coraggio? ledomandavo. Era mai finito in prigione,era mai stato processato? Aveva maidovuto lasciare la sua signoriledimora? Era morto in esilio?Gli è capitata la donna, mirispondeva; sì, l'ha proprio lasciatala sua -signorile dimora , ed è mortoin una sorta di esilio.Io ci provai a salvare l'onore diGogol. Aveva osato di più, si eraspinto più in là. Nelle opere davveroimportanti, dicevo, la sua audacia nonha eguali. Ma egli stesso non si era

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reso conto della propria audacia equando, ad un tratto, gliel'avevanomessa sotto gli occhi, si eramortalmente spaventato di se stesso,sentendosi come le cose che avevaattaccato, e tutti gli zeloti da cuifu circondato dopo il suo ritorno inRussia lo minacciarono con le penedell'inferno: l'inferno per tutti ipersonaggi che aveva creato. Propriola sua fine spaventosa stava adimostrare la grandissima forza enovità di quei personaggi. Veza potevaanche deriderlo, ma derideva la fededi Gogol, nient'altro. E non eraproprio la fede che venerava di piùnel vecchio Tolstoj?Ma Veza non tollerava che iomettessi sullo stesso piano l'odiosafede bigotta instillata in Gogol daivescovi ortodossi e la fede cheTolstoj si era conquistato da solo, aprezzo di un indefesso esame dicoscienza. Erano due cose del tuttoincommensurabili. La nostra faidaaccanita e interminabile sfociava allafine in una sorta di compromesso.Questo, in accordo con la materialetteraria del contendere, era a suavolta un'opera letteraria: leannotazioni di Gorkij sul vecchioTolstoj che le avevo dato da leggere.I ricordi su Tolstoj erano la cosamigliore che Gorkij avesse maiscritto: annotazioni sparse che avevalasciato a lungo nel cassetto, primadi tirarle fuori, e mai aveva guastatocon una patina di falsa ed esterioreunitarietà.Questo ritratto del vecchio Tolstojaveva profondamente commosso Veza.Diceva che era il più bel regalo chele avessi mai fatto. Quando ladiscussione si avvicinava aquell'opera, entrambi sapevamo che ilpeggio era passato. Allora potevasuccedere che lei dicesse una fraseper me torturante: -Ecco la cosa chedesidero di più al mondo: vorrei chetu scrivessi così .Non era una meta che mi potessiprefiggere. E non soltanto perché erairraggiungibile. Molte cose sonoirraggiungibili, ma uno può cercare diinclinare le proprie vele in quelladirezione. La grandezza di queiricordi però, dipendeva più dal temache dallo scrittore. Forse che oraesisteva, nel mondo, un Tolstoj? E,quand'anche fosse esistito, ce ne

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saremmo accorti? E, ammesso che fossicapace di meritarmelo, l'avreiincontrato? Era un desideriotemerario, e forse Veza non avrebbedovuto esprimerlo. Tuttavia, anche senon ho mai ripensato a quella suafrase senza sentire la stessa fittadolorosa che allora mi provocava,penso che dire l'irraggiungibile siagiusto. Dopo non possiamo piùcontentarci di poco el'irraggiungibile rimane tale.La cosa strana di quei colloqui eraquesta: non riuscivamo a influenzarcia vicenda. Veza restava fedele allecose che si era conquistata da sola.Molto di ciò che le proponevo lacolpiva: ma solo se lo trovava già insé lo faceva suo. Nelle nostre lottenon c'era mai un vincitore. Quellelotte si protrassero per mesi, anzi,come si vide poi, per anni; e non siconclusero mai con una capitolazione.Ciascuno aspettava il giudiziodell'altro, ma senza prevenirlo.Poteva succedere che le cose da direfossero affrontate in manierasbagliata, ma in tal caso la voce sisarebbe spenta sul nascere. Veza siingegnava proprio di evitare questo,era la sua preoccupazione segreta. Lofaceva con tenera premura, ma non comeuna madre, perché noi due eravamosullo stesso piano. Nonostantel'irruenza delle sue parole non sidava mai arie di superiorità. Ma nonle sarebbe neppure venuto in mente disottomettersi: se, per amor di pace oper debolezza, avesse taciuto la suaopinione, non avrebbe mai potutoperdonarselo. Forse -lotta non è laparola giusta per le nostrecontroversie, perché lo scopo eraconoscerci a fondo, non solo valutarela prontezza dell'altro e le sueforze. Veza non avrebbe mai potutoferirmi con intenzione maligna. Io pernulla al mondo avrei voluto ferirla.Eppure il nostro impegno allasincerità intellettuale non era menostringente di quello che avevoconosciuto negli anni della mia primaadolescenza.Di tutta l'intolleranza che avevoereditato non riuscii a liberarmineppure con lei. Tuttavia imparai aconoscere l'intimità con un esserepensante, e in questo l'essenzialenon era soltanto ascoltare ogniparola, ma cercare di comprenderla, e

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dimostrare di averla compresarispondendo con precisione, senzatravisarla. Il rispetto per le personecomincia da questo: non passar sopraalle loro parole. Potrei dire chequella fu la lezione tacita di quelperiodo, benché fosse fatta di tanteparole; perché l'altra lezione dellostesso periodo, la lezione opposta, fuuna lezione squillante, clamorosa.Con le parole degli altri si puòfare di tutto: questo me lo insegnòKarl Kraus. Operava sulle cose cheleggeva in un modo che toglieva ilfiato. Era un maestro nell'inchiodaregli uomini alle loro stesse parole. Manon per questo risparmiava ad essil'accusa esplicita delle sue parole.Usava entrambe le armi, e sapevaschiacciare chiunque. L'ascoltatore sigodeva lo spettacolo non solo perchériconosceva la legge da cui le sueparole erano dettate, ma anche perché,trovandosi in mezzo a tanti altri,sentiva in sé quell'immensa risonanzache si chiama massa e che si manifestaquando non sentiamo più di urtare inqualcosa di esterno a noi. Ero decisoa non perdere una sola di quelleesperienze, neanche una me ne lasciavoscappare. Alle letture di Kraus andavoanche quando ero ammalato, con lafebbre alta. E così mi abbandonavo algusto dell'intolleranza, che era giàforte per natura e che, in quellecircostanze, venendo per così direlegittimato, si accresceva in modoinaudito.Ma intanto imparavo ad ascoltare, equesto era molto più importante. Ognicosa che veniva detta, dovunque, inqualsiasi momento, da chiunque, erauna cosa che si offriva all'ascolto,una dimensione del mondo che fino aquel momento uno non aveva nemmenosospettato: e poiché si trattava delrapporto fra la lingua e gli uomini,in tutte le sue varianti, era forse ladimensione più importante, in ognicaso la più ricca. Ascoltare in quelmodo era impossibile senza rinunciareai propri impulsi. Non appena si eradato via libera alle cose daascoltare, occorreva tirarsi indietroe limitarsi a recepire, senzalasciarsi ostacolare da giudizi,indignazioni, entusiasmi. Il puntoimportante era che ciascuna di questemaschere acustiche (come poi le avreichiamate) non si mescolasse con le

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altre, anzi mantenesse la sua formapura, non falsata. A lungo non mi resiconto delle riserve che stavoaccumulando. Sentivo soltanto unabramosia di modi di dire, desideravoche avessero un profilo chiaro enetto, che uno potesse prenderli inmano come un oggetto, dovevano venirein mente all'improvviso, senza nessiavvertibili con qualcos'altro, eallora uno doveva recitarseli da soloa voce alta non senza stupirsi per laloro rotonda levigatezza, per lasicura cecità con cui essi escludevanotutto il resto che al mondo c'è dadire, dunque quasi tutto, tutto,perché quei modi di dire conservavanouna sola proprietà: quella di doversiripetere senza fine.Quel bisogno di maschere acustiche,di maschere autonome, per così dire,indipendenti da quelle che avevopotuto ascoltare negli Ultimi giornidell'umanità di Karl Kraus e cheormai conoscevo a memoria, lo sentiiper la prima volta, credo, a SanktAgatha, nell'estate del 1926, mentreme ne restavo per ore e ore acontemplare le rondini, il loro volorapido e leggero, e intanto ascoltavole loro strida sempre uguali. Quellestrida non mi stancavano mai,nonostante la ripetizione; propriocome i guizzi meravigliosi del lorovolo. Forse, in seguito, le avreidimenticate; ma venne la sagra, e conessa il venditore di camicie sotto lamia finestra, con il suo grido sempreuguale: -Oggi non me ne importa unfico secco se faccio i soldi o serimango a secco! . Sin da bambino mipiaceva ascoltare la gente chestrillava per la strada; speravosempre che restassero nei paraggi, chenon se ne andassero troppo in fretta.Il venditore di camicie era rimastodue giorni nello stesso posto,piantato sotto la mia finestra. Quandoio, proprio a causa di tutto quelbaccano, mi ritiravo nel piccologiardino per mettermi a scrivere comeal solito al tavolo di legno, subitoritrovavo le rondini, le quali, senzalasciarsi disturbare per nulla daltrambusto della fiera, seguitavano acompiere le stesse evoluzioni, alanciare le stesse strida. Le dueripetizioni sembravano uguali, tuttoera ripetizione, quei suoni, ai qualinon riuscivo a sfuggire, erano fatti

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di ripetizione; e anche se la mascherausata dal venditore di camicie erafalsa, anche se nel colloquio cheavevo avuto con lui egli si erarivelato uno studente in legge chesapeva perfettamente ciò che voleva ediceva, il suo uso coerente di quellamaschera, insieme ai suoni sempreidentici ma naturali delle rondini, mifece una grande impressione, tanto chepiù tardi, appena ritornato a Vienna,la ricerca dei -modi di dire mispinse a infaticabili spedizioninotturne per le strade e le osteriedella città leopoldina.Verso la fine dell'anno il quartierecominciò a diventare troppo strettoper me. Cominciavo a desiderare stradepiù lunghe, percorsi più ampi, gentediversa. Vienna era una cittàgrandissima, ma il cammino dallaHaidgasse alla Ferdinandstrasse era moltobreve, e inoltre la Praterstrasse,dove avevo abitato qualche mese conmio fratello, sembrava non offrirmipiù nulla di nuovo. Ormai queipercorsi eran diventati una routine.Nella Haidgasse mi attendevo ogninotte una catastrofe. Forse anche perquesto avevo spesso cattivi pensieri ecorrevo sotto le finestre di Veza,nella Ferdinandstrasse, per placare lamia inquietudine alla luce della suastanza. Se la trovavo buia, e Veza erauscita, le serbavo rancore, anche seero stato avvertito in anticipo.Qualcosa in me sembrava pretendere cheVeza restasse sempre in casa,indipendentemente dai suoi impegni.A poco a poco mi accorsi che quellapossibilità di controllo, la vicinanzatra la mia casa e la sua, latentazione di cedere ogni volta aimpulsi di questo genere stavanoaccentuando la mia diffidenza ediventavano un pericolo sia per leiche per me. Bisognava creare unadistanza fra noi, dovevo andarmenedalla Haidgasse; la cosa miglioresarebbe stata mettere tutta Vienna inmezzo a noi, in modo che ogni volta,andando da Veza o ritornando, potessifare la conoscenza delle strade, dellegrandi porte cittadine, dellefinestre, dei locali, per poterascoltare tutte le voci senzalasciarmene spaventare, per potermiconsegnare a loro e incorporarle inme, pur rimanendo disponibile arecepirne di nuove. Volevo trovarmi e

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crearmi un quartiere mio, all'altrocapo della città; e Veza, almeno unavolta ogni tanto, doveva venire atrovarmi, libera dalla tirannia delcattivo vegliardo addomesticato che lacostringeva a stare sempre conl'orecchio teso: nessuno potevagarantire infatti che un giorno, tuttoa un tratto, strappandosi dal fuocodel proprio inferno, egli non avrebbefatto irruzione nel sacro recinto.Inventare altre donne.Durante le vacanze di Pasqua del1927 me ne andai a Parigi, a trovarela mamma e i fratelli. Ormai erano làda quasi un anno, e non si eranoorganizzati male. I miei fratellierano riusciti ad ambientarsi nellenuove scuole, con la lingua (l'avevanoimparata molto tempo prima, quandoerano stati due anni in collegio aLosanna) non avevano avuto difficoltà.A Parigi si trovavano bene, esoprattutto Georg, il minore, cheormai veniva chiamato Georges, stavaevolvendo esattamente nel modo che ioavevo desiderato. Era un ragazzo moltoalto, con gli occhi scuri e la parolafacile, bravo soprattutto infilosofia. Il suo talento per ledistinzioni logiche mi lasciavasbalordito (non era certoriconducibile alla mia influenza) egli dava, a sedici anni, una certaautonomia, che egli faceva valere consuccesso nelle lunghe lettere che miscriveva e durante la mia visita,anche nei nostri colloqui. Era acuto eingegnoso, a scuola erano convinti chesi sarebbe dedicato alla filosofia.Adorava il francese, come io adoravoil tedesco, anche se né il francese néil tedesco erano stati la nostra primalingua. Fra noi, però, parlavamo intedesco; anche Georg era un fedelelettore della -Fackel , che avevoavuto l'incarico di mandargliregolarmente da Vienna. Una delle suequalità più notevoli era che parlavaogni lingua che sapeva (e con l'andardel tempo ne imparò parecchie) nonmeno bene di un nativo, anzi, perlopiùmeglio.Con tutto il suo acume e la sualimpidità intellettuale Georg era unragazzo dolcissimo, che purprodigandosi per nostra madre, pensavadi non far mai abbastanza. Riempiva ilvuoto che io avevo lasciato in lei, edevitava ogni conflitto. Era ben

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consapevole di quanto profondamente iol'avessi colpita. Con una maturitàpsicologica che andava ben oltre isuoi anni, aveva capito che cosa erasuccesso fra noi e non lo scordava.Ascoltava con pazienza le dure accuseche la mamma lanciava contro di me e,pur senza contraddirla, badava a nondarle ragione in tutto, in modo da nonprecludere ogni via alla nostrariconciliazione. Sembrava che si fosseaccollato il mio antico amore,arricchito e affinato da una dolcezzache a me era sempre mancata. Era unavera fortuna per la famiglia che io mene fossi andato, ed era una fortunaanche per me. Ma, per completarel'opera, per tranquillizzare la mammae me stesso, dovevo levarle dal cuorela spina più dolorosa, una spina cheaveva un nome.Ancor prima che si trasferisse aParigi, avevo capito che c'era un solomezzo per alleviare il tormento dellamamma e, cosa che mi stava anche più acuore, per proteggere Veza dal suoodio: inventare altre donne. Avevocominciato a farlo, nelle mie lettere,e presto cominciai a prender gusto aquelle mutevoli storie. Di donnedovevo inventarne più d'una, ognidonna che avessi preso troppo sulserio, ogni donna che acquistasse unaposizione dominante l'avrebbeangosciata, ridestando il suo odio.Avrebbe cominciato a temere il suoinflusso su di me e ne avrebbe fattouna figura satanica, capace ditoglierle il sonno; per questi motivisi imponeva un avvicendamento. Dopo unpo' di esperienza, arrivai allasoluzione perfetta. Dovevo inventaredue donne molto diverse, fra le qualinon sapevo risolvermi. Una non abitavaa Vienna, ma neppure l'altra eratroppo vicina, altrimenti lo studio neavrebbe sofferto, perché avrei persotroppo tempo. Nessuna delle due dovevastrappare all'altra la vittoria,questo le avrebbe dato un poterepericoloso: sarei stato, come scrivevala mamma, in sua balìa. Non ebbiscrupoli di coscienza a inventarequelle storie, non le consideravobugie nel senso usuale della parola.Ulisse, che era sempre rimasto il miomodello, mi aiutò a superare gliaspetti imbarazzanti della situazione.Una cosa bene inventata era unastoria, non una bugia, e inoltre il

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fine dell'iniziativa era buono,addirittura caritatevole, come si videben presto dai suoi effetti.La difficoltà maggiore consistevanel fatto che mi sentivo in dovere diinformare Veza. Senza che lei losapesse, senza il suo consenso, nonpotevo né inventare né sviluppare lemie storie; così, non potei fare ameno di dirle la verità, sia pure apoco a poco, a piccole dosi, e contutta la delicatezza possibile, sullaprofonda animosità che la mammanutriva nei suoi confronti. Perfortuna Veza aveva letto un numerosufficiente di buoni romanzi percapire che cos'era successo. E poi,siccome avevo cominciato ad attuare ilmio piano prima che lei ne venisse aconoscenza, ormai non poteva più farmitornare indietro. Ma Veza temeva chemia madre potesse venire a sapere laverità da altri, e questo, ne eracerta, avrebbe solo peggiorato lasituazione. Io le obiettai che la cosamigliore era guadagnare tempo.Quando fosse passato qualche anno emia madre si fosse abituata al fattoche io avevo una mia vitaindipendente, e magari avessi scrittoun libro che lei potesse veramenteapprezzare, allora anche sapere comein effetti stavano le cose l'avrebbecolpita assai di meno. Mi riuscì diconvincere Veza, che intuiva anche,senza che io gliene avessi maiparlato, il mio grande timore che lamamma, per gelosia, potesse giungere auna vera e propria aggressione controdi lei.A una cosa, tuttavia, non avevopensato: al modo in cui le mie storie,piuttosto asciutte e povere diparticolari, avrebbero acceso lafantasia di mia madre. Quando arrivaia Parigi per Pasqua, le donne, in basealle mie lettere, erano due: -Maria di Salisburgo ed -Erika , unaviolinista che abitava a Rodaun, unsobborgo di Vienna; Veza la vedevosolo di tanto in tanto, non mi piacevapiù. Quando arrivai a Parigi, eroancora in anticamera, non avevo ancoravisto la casa, ci eravamo appenasalutati e già mia madre mi chiedevadi Erika. Ma soltanto quando per unattimo rimanemmo soli, senza i mieifratelli, aggiunse: -Ai ragazzi non hodetto nulla: ma dimmi, come va conMaria? Vieni direttamente da Vienna o

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ti sei fermato a Salisburgo? . Non lesembrava opportuno disse, che i mieifratelli sapessero di quel doppioamore, avrebbe potuto influirenegativamente sulla loro moralità.Aveva raccontato di Erika, sperava chela cosa non mi desse fastidio, e cosìlo spauracchio di Veza era bandito pertutti i membri della famiglia,ciascuno di loro poteva pensare allamia vita viennese senza eccessivepreoccupazioni.Così stavano ormai le cose; oradovevo accontentare la curiosità dimia madre, che mi faceva un'infinitàdi domande. Voleva sapere tutto; ma lesue domande erano diverse a secondache i miei fratelli fossero presentioppure no. Trovava divertentissimo cheMaria, la salisburghese, fosse unsegreto fra me e lei. Mi consigliòpersino di non farne parola con ilresto della famiglia: la cosa avrebbepotuto nuocere al mio buon nome,perché, in fondo, sembrava un po'peccaminosa. Ma lei, personalmente,doveva confessarmi che non mi avrebbemai giudicato capace di tantaassennatezza in un problema praticodella vita. Ma, probabilmente, tuttoera avvenuto per caso, e lei nonavrebbe dovuto elogiarmi, dato che sitrattava di una pura coincidenza.Qualche giorno dopo, quando feci lamia prima lunga passeggiata con Georg(mio fratello voleva farmi vederealcune cose che, malgrado fossi giàstato a Parigi, sicuramente non avevoancora visto) egli mi disse - ma solodopo aver discusso con me dei nostri-veri argomenti, quelli di carattereintellettuale - che la mamma stavamolto meglio. La fine della mia storiacon Veza aveva avuto su di lei uneffetto miracoloso. Poi mi fissò conuno sguardo serissimo, esitando, comese dovesse dire una cosa che non sidecideva a tirar fuori. Io loincoraggiai, benché avessi intuitoquel che stava per arrivare. -Che cosane penso io di questa faccenda, nonhai bisogno di chiedermelo disse.-Spero che non continuerai per semprea giocare con le persone come haifatto con Veza . Esitò di nuovo. -Saialmeno come sta? Non hai paura chepossa farsi del male? .Gli avevo sempre voluto bene, e inquel momento lo amai ancora di più. Miriproposi di dire la verità a Georg

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prima che a chiunque. Ma ora eratroppo presto. Mi faceva davvero unagran tristezza lasciargli credere chela sorte di una persona a cui iotenevo tanto mi stesse meno a cuoreche a lui, Georg in fondo la conoscevaappena. A questo aspetto delle miestupide frottole non avevo pensatoaffatto, era giusto che ora dovessifarci i conti.Georg ci pensava sempre, quandoeravamo soli. Era convinto che unapersona piantata in asso in manieracosì indegna dovesse sentirsi inpericolo, e avesse bisogno diparticolari premure. La stessadelicatezza e capacità diimmedesimazione di cui dava prova perla vita della mamma a Parigi, Georg leaveva, con il pensiero, anche per lavita di Veza a Vienna. Cercava diinfondere nel mio animo affetto ecalore per lei, ma non me ne parlava,né tanto meno mi dava consigli. AlLouvre, che visitammo insieme più diuna volta, si fermò davanti allaSant'Anna, la Vergine e il Bambinodi Leonardo, guardò a lungo la figuradi Sant'Anna e poi guardò me. Ilsorriso di Sant'Anna, disse, gliricordava il sorriso di Veza. Insomma,Georg aveva visto Veza e si ricordavabenissimo di lei, benché, forse, nonsi fossero scambiati neppure unaparola. Poi mi domandò, come sestessimo parlando di pittura enient'altro, se mi piaceva Leonardo.C'era gente che trovava sdolcinato ilsorriso dipinto sui volti di Leonardo;lui no. Dipende da questo, dissi io:se si conoscono delle persone capacidi sorridere a quel modo, benché laloro vita non sia affatto sdolcinata.Georg fu soddisfatto. Sentivo chevoleva scoprire la mia vera opinionesu Veza, verso la quale era convintoche io mi fossi comportato malissimo.Sentivo che per lui era un problema digiustizia, perché, a casa, avevasentito su Veza le cose più orribili,e aveva sempre taciuto, pur essendoconvinto di sapere come stavanoveramente le cose.Quando arrivammo davanti allaZattera della Medusa di Géricault,ne rimanemmo entrambi affascinati. Mistupivo che Georg non riuscisse astaccarsene, aveva soltanto sedicianni. -Sai perché queste teste sonocosì vere? mi disse, e mi raccontò -

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la cosa mi giungeva nuova - cheGéricault aveva prima ritratto leteste di alcuni ghigliottinati perriuscire a dipingere le figure dellaZattera. -Io non avrei mai potuto risposi. -E'è per questo che non haifatto il medico. Non saresti mai statocapace di eseguire un'autopsia .Allora capii che Georg non avevarinunciato all'idea di studiaremedicina, e ne fui felice; lafilosofia, allora in primo piano, nonavrebbe tenuto il campo per sempre. Lasua partecipazione, la sua conoscenzadel dolore, la sua capacità disopportare la vista della morte senzalasciarsene travolgere, la suapazienza, ma anche il senso digiustizia che lo spingeva a nondefraudare nessuno dell'attenzione cuiaveva diritto - tutto questo mi dicevache Georg era fatto apposta per laprofessione del medico, e che là doveio, malgrado il mio profondo rispettoper quell'attività, avrei fallito, luiinvece sarebbe riuscito.In fatto di coscienziosità ci davamodei punti a vicenda; era buffo cheentrambi ci soffermassimo a lungodavanti a quadri che non ci dicevanonulla, mentre ci sentivamo attratti daaltri quadri, che conoscevamo beneperché ci piacevano in modoparticolare. Georg ebbe il pensierogentile di domandarmi se ci tenevo avedere la sezione di archeologiababilonese; quel gesto alludeva allamia vecchia passione per Gilgamesh.Neppure questo aveva dimenticato, nonaveva dimenticato proprio nulla, ilperiodo turbolento dellaRadetzkystrasse non aveva cancellatonessun ricordo degli anni precedenti.Rinunciai ai babilonesi, che loannoiavano, ed egli mi condusse, perricompensarmi, davanti ai Quattrostorpi, un piccolo, splendidoBrueghel. -Così verrai di nuovo atrovarci mi disse. -Credi che nonsappia perché non lasci Vienna? Sono iBrueghel, Karl Kraus e... ma l'ultimacosa che in passato avrebbe detto, nonriuscì a pronunciarla.Eravamo più vicini che mai; il fattoche Georg circondasse di milleattenzioni proprio la persona che perme era stata la più importante ditutte, e alla quale io avevo fatto delmale, mi dava un grande sollievo.Sapevo, certo, di essere innocente (le

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cose non sarebbero potute andarediversamente); eppure mi sentivocolpevole; e soltanto quando ero solocon mia madre, e vedevo coi miei occhila sua espressione raggiante perchéalle sue domande su Maria iorispondevo con ricchezza diparticolari, soltanto allora mipassavano i rimorsi. Mia madres'interessava soltanto a Maria, e nonalla violinista, che pure aveva giàdato dei concerti e suscitava neicritici un certo interesse. Aveva perMaria parole di commiserazione, perchéviveva a Salisburgo, lontano da me; mala sua lontananza rappresentava permia madre un vero toccasana. Labellezza di Maria aveva fatto colpo sudi lei; e mi riteneva fortunato peraverla incontrata; tuttavia non simeravigliava troppo che piacessi aMaria, anche se io, paragonato al miofratello più giovane, che erabellissimo, non ero certo un ragazzoattraente. -Tu sei un poeta mi disseuna volta all'improvviso, propriomentre stavo poeticamente sviluppandola mia storia per lei. -Hai talentoimmaginativo. Non sei noioso, cometanti giovani. In una città comeSalisburgo la gente è sensibile aipoeti. Lei non vede in te un chimico.E'è questa la tua fortuna .Rimasi a Parigi tre settimane, nellacasa di rue Copernic, e non passògiorno senza che la mamma cercasse difarmi raccontare qualche cosa di nuovosul conto di Maria. Al suo modo didomandare ero incapace di resistere.Non tacqui neppure qualche particolarepreoccupante, la spaventosa avariziadella madre di Maria, per esempio;Maria ne soffriva. -Capita anche nellemigliori famiglie, rispose la mamma-pensa soltanto al patrigno di Veza! .- Già questo indicava che il suo statod'animo era radicalmente mutato. Anchelei, dunque, aveva pensato qualchevolta che Veza in casa sua dovessesentirsi tremendamente oppressa. E, almomento del distacco, mezz'ora primache chiamassimo il taxi che avrebbedovuto portarmi alla stazione, lamamma, cedendo a un impulso dimagnanimità, parlò - riferendosi aVeza - come avrebbe parlato una volta:-Non essere duro con lei figliolo! Haavuto un colpo crudele, e adesso è aterra. Non raccontarle tutto. Non devesapere come sono belli i tuoi due

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amori. Non dimenticare che adesso devevivere sola. E'è difficile, per unadonna, dopo una simile sconfitta,conservare la stima di se stessa. Peruna donna vivere sola è la cosa piùdifficile. Non ti ha fatto nulla dimale, perché sei riuscito a sfuggirealle sue reti. Non ne troverà un altrocome te, che si lasci accalappiarenelle sue reti, perché nessuno èingenuo com'eri tu allora. Vi hoeducati alla purezza dei sentimenti, elei se n'è accorta subito. Che abbiamesso gli occhi su di te, figliolo, èuna cosa che depone a suo favore.Falle una visita di tanto in tanto, manon troppo spesso, per non alimentarela sua sofferenza. Dille che non puoiandare perché lo studio ti impegna piùdi prima - tu adesso ti staipreparando alla vita, è una faccendaseria e non puoi permetterti disprecare il tuo tempo .Avevo in testa questo discorso,quando la lasciai. Ero contento che inlei il Burgtheater non fosse morto deltutto. Ma ero ancora più contento cheil suo odio si fosse tramutato incompassione. Mia madre si era talmentecalata nel mio racconto che, senzaalcun ritegno, manifestava la suapreferenza per una delle due rivali. Aquale delle due io volessi più benenon era affatto chiaro; ma lei sigettò con tutto il suo peso dallaparte di Maria. E'è sempre meglio,diceva, pensare a una persona lontana.Se si è troppo vicini, è facileirritarsi e farsi del male a vicenda,tutto diventa insipido, e poi quelviolino portava nel nostro rapportouna nota falsa. Bisogna amare lapersona, non lo strumento che suona;altrimenti ci si potrebbe accontentaredei suoi concerti. Ma non dovevocredere che lei volesse conoscerequesta Maria. Pensava che avrei potutorestarle fedele sino alla fine deimiei studi, cioè ancora per due anni,appunto perché Maria abitava aSalisburgo e non a Vienna.Naturalmente era curiosa di vederla,questo sì, io ero portato alleesagerazioni, lei forse non l'avrebbeaffatto trovata questa gran bellezza.E poi, se a Maria avessi fattoconoscere mia madre, certo si sarebbemontata la testa, e questo non eraopportuno. Non dovevo legarmi, percarità, avevo tutta la vita davanti a

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me, al giorno d'oggi chi si lega aventidue anni è proprio uno sciocco.La vista dello Steinhof.A Colmar rimasi un giorno interodavanti alla pala di Isenheim, non miero accorto del momento in cui eroarrivato e neanche mi accorsi diquello in cui me ne andai. Quando ilmuseo chiuse, provai il desiderio diessere invisibile per poterci restaretutta la notte. Guardavo il corpo diCristo senza lacrimevole smarrimento,lo stato orripilante di quel corpo misembrava vero, e davanti a quellaverità compresi ciò che mi avevaturbato nelle altre crocifissioni: labellezza, la trasfigurazione. Latrasfigurazione si addice al concertodegli angeli, ma non alla croce. Ciòda cui nella realtà avremmo certodistolto lo sguardo con raccapriccioqui, in questo dipinto, era ancorapossibile coglierlo nella suapienezza: un ricordo dell'orrore chegli uomini si procurano l'un l'altro.La guerra e la morte chimica eranoancora abbastanza vicine, nellaprimavera del 1927, per conferireveridicità a quel dipinto. Troppospesso, forse, il compito piùinsostituibile dell'arte è statodimenticato: non è la catarsi, né laconsolazione, né il talento didisporre ogni elemento in funzione diun lieto fine. Perché il lieto finenon ci sarà. Ma peste, e piaghe, etormento, e orrore - e se la peste hasmesso di infierire, al suo postoinventiamo orrori più atroci. Che cosapossono le illusioni consolatorie,davanti a questa verità? Essa è sempreuguale a se stessa e deve rimaneredinanzi ai nostri occhi. Tutti gliorrori che incombono sull'umanità sonoanticipati in questo dipinto. Il ditodi Giovanni, mostruosamente, lo dice:così è adesso, e così sarà ancora. Equal è il significato dell'agnello inquesto paesaggio? Era questol'agnello, quest'uomo che imputridiscesulla croce? E'è cresciuto, è diventatouomo per essere inchiodato alla crocee farsi chiamare agnello?Mentre io ero là, davanti alla palac'era anche un pittore, che stavacopiando Gr�newald. Non sembrava néoppresso né imbarazzato, rifletteva alungo su ogni pennellata. Avrei volutoche non ci fosse, non c'era nessunaltro all'infuori di lui, pensavo che

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avrebbe attaccato discorso. Ma nondisse una sola parola, anch'eglipreferiva esser lasciato in pace, eanzi, se una cosa saltava agli occhi,era che proprio non badava a me.Cercai di togliermi dalla mente la suacopia. Mi spostai in modo da nonvederla. Ma non pensarci eraimpossibile. Anche restare così alungo mi imbarazzava. Ero sempre là,senza far niente, un po' come lui,neanche lui se ne andava, ma, almeno,aveva il pennello in mano e si dava dafare. Era un uomo solido, di mezzaetà, con il volto inespressivo, nonsegnato dal dolore; era quasiincredibile che quel volto fosse làaccanto al volto del dipinto, chefosse là nello stesso tempo, nellostesso spazio, e fosse, per mestiere,alle prese con l'incommensurabile, chenon perdeva di vista nemmeno per unattimo.Mi vergognavo talmente, davanti alcopista, che di tanto in tanto sparivodietro la pala, come se volessiguardarla dall'altra parte. Sentivo ilbisogno di sottrarmi alla copia dellacrocifissione, ma anche allacrocifissione stessa, e il pittoredoveva pensare che lo facessi per unriguardo a lui. Forse quando era solosi trasformava, forse faceva deiversacci per sostenere quel confronto.Quando sbucai di nuovo da dietro,sembrò sollevato, mi sembrò chesorridesse. Io osservavo lui come luiosservava me. E'è strano che di frontea un simile dipinto si noti un uomo incarne e ossa? Se ne ha bisogno, perchéegli non è appeso alla croce. Finché èoccupato con la sua copia, nulla glipuò capitare. Era questo il pensieroche più mi colpiva. Contro ciò che sivedeva c'era un'unica difesa, nondistogliere mai lo sguardo. Lasalvezza consiste nel non voltare ilcapo. Non è la salvezza dei vili. Nonè una falsificazione. Ma allora è ilcopista che attua la salvezza nellasua forma più compiuta? No, perchédato il modo in cui deve vedere, egliscompone. Egli si salva rifugiandosiin frammenti la cui appartenenza altutto è procrastinata. Finché lidipinge, essi non fanno parte di queltutto. Poi torneranno a farne parte.Ma in certi periodi egli non puòaffatto vedere il tutto, essendoassorbito da un particolare, ciò che

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conta per lui è la precisione di quelparticolare. Il lavoro del copista èfinzione. Non è come il dito diGiovanni. Il dito del copista nonindica, ma si muove ed esegue. Non c'èniente di meno impegnativo di questosuo modo di guardare, un modo che nonlo trasforma. Qualora lo trasformasse,non riuscirebbe a finire la sua copia.Dimenticai il copista soltantoalcuni anni dopo, quando riuscii atrovare le grandi riproduzioni dellapala di Gr�newald che appesi nella miacamera. Tornando da Colmar dovevo,prima di tutto, cercare la stanzanella quale in seguito le avreiappese. La trovai presto, per cosìdire al primo colpo, e senza potervalutare ciò a cui, in realtà, misarebbe servita.Volevo degli alberi, tanti alberi, egli alberi più vecchi che conoscevonei dintorni di Vienna si trovavanonel Lainzer Tiergarten. Il primoannuncio su cui mi cadde l'occhio siriferiva proprio alle vicinanze delTiergarten. Andai a Hacking, capolineadella Stadtbahn, la ferrovia urbana,varcai il misero fiumiciattolo di nomeWien, sul cui periglioso passato siraccontano delle storie assolutamenteinverosimili, poi cominciai a risalireil pendio, oltrepassai laErzbischofgasse (che di là, correndolungo un muro, arrivava sino aOberSanktVeit - per quella via avevosempre avuto una predilezione), perpiegare infine nella Hagenberggasse.Proprio all'inizio della salita, nellaseconda casa a destra, si trovava lacamera segnalata dall'annuncio.La padrona di casa mi condusse alsecondo piano, tutto occupato daquella camera, e aprì la finestra.Alla prima occhiata fuori, la miadecisione fu presa: in quella stanzaci dovevo abitare, e per molto tempo.Oltre lo spiazzo di un parco giochi, eal di là della Erzbischofgasse, losguardo si posava sugli alberi, moltigrandi alberi che - come pensavo -facevano parte del giardinoarcivescovile. Più oltre, dall'altrolato della valle della Wien, sullacollina che avevo di fronte, vedevo loSteinhof, la città dei pazzi, cintatada una lunga muraglia, all'internodella quale in altri tempi ci sarebbestato posto per una città. Aveva ilsuo duomo, e lo sfavillio della cupola

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della chiesa di Otto Wagner giungevafino a me; la città era composta damolti padiglioni, che, da lontano,sembravano ville. Da quando ero aVienna, avevo spesso sentito parlaredello Steinhof, nella città dei pazzivivevano seimila persone. In realtà,pur non essendo proprio vicina, miappariva nitidissima, e io cercai diimmaginare che cosa avrei potutovedere inoltrandomi con lo sguardo,attraverso le finestre, dentro lesale.La padrona di casa, che certo avevainterpretato male la mia occhiatafuori dalla finestra - avrà avutosessant'anni, la sottana le arrivava aterra -, mi fece un discorsetto sullagioventù moderna e sulle patate cheormai costavano il doppio. Io laascoltai sino alla fine, senzainterromperla (forse ebbi lasensazione che quel discorso l'avreirisentito spesso, in futuro) e, perevitare malintesi, dichiarai subito,appena ebbe finito, che volevo da leiil permesso di ricevere le visitedella mia amica. Lei la chiamò subito-la signorina fidanzata , e mise benein chiaro che doveva venirmi a trovareuna sola -signorina fidanzata . Ledissi anche che nella stanza avreidovuto portare i miei libri, e che neavevo molti. Questo sembròrallegrarla, che uno studente avessemolti libri le sembrava giusto enaturale. Le difficoltà furonomaggiori invece, per quello che volevoappendere alle pareti, poiché dagliaffreschi della Cappella Sistina, lecui riproduzioni portavo sempre con mesin dall'epoca zurighese di villaYalta, non volevo separarmi. -Dovràusare per forza le puntine? disse lasignora; ma poi cedette, il prezzo,che non era alto, l'avevo accettatosubito, e parlandole dei libri leavevo ispirato fiducia; non le piacevacambiare continuamente inquilino, euno che portava con sé molti libriaveva certo intenzione di restare perparecchio tempo.Arrivai, dunque, con le riproduzionidella Sistina; ma non perdetti divista il mio vero proposito, cercarele riproduzioni della pala diIsenheim e appendere alle pareti tutti iparticolari di quel dipinto di cuifossi riuscito a entrare in possesso.La ricerca durò a lungo. In questa

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stanza ho abitato per sei anni e quiho scritto, dopo aver appeso intorno ame le riproduzioni di Gr�newald, Autoda fé.La padrona di casa, che abitava alpianterreno con il marito e i figligià grandi, la vedevo di rado, solouna volta al mese, quando le davopersonalmente la cifra dell'affitto e,subito dopo, lei saliva in camera perportarmi la ricevuta. Ma ogni tantoqualcuno veniva a cercarmi mentre erofuori; allora lei mi aspettava sullaporta di casa e ricevevo un resocontoparticolareggiato sull'aspetto, lemaniere e i desideri del miovisitatore. Diffidava di qualunquevisita e, se veniva da me qualcuno cheavevo conosciuto per caso nelquartiere, per prendersi qualche cosada leggere, lei mi mettevaenergicamente in guardia daimalintenzionati, che venivano soltantoa ficcare il naso, per vedere che cosac'era da rubare. Qualunque cosa la miapadrona avesse da dirmi, finiva con ildiscorso sulla gioventù moderna.Più in basso ancora, nelloscantinato, abitava la vedova di unguardaboschi, che aveva passato lamaggior parte della sua vita, insiemeal marito, nel Lainzer Tiergarten.Aveva più o meno le funzioni di unadomestica. Rifarmi il letto e spazzarela mia stanza era compito suo. Io lavedevo nei giorni in cui non andavo inlaboratorio e restavo a casa quasitutta la mattinata, e lei mi parlavadel periodo vissuto nel LainzerTiergarten. La signora Schicho era unadonna anziana, gentile, molto grassa,con i capelli bianchi e il viso rosso,che al minimo sforzo e a ognimovimento si imperlava di sudore; lerare volte in cui ero presente mentremetteva in ordine, la stanza erapresto invasa da un odore penetrante,benché porte e finestre restasseroaperte, creando una corrente cheavrebbe dovuto cambiare l'aria. Nonera un tanfo disgustoso, ma un odoredi burro non più freschissimo, eppurenon ancora veramente rancido. Sareiuscito, anche per sottrarmi aquell'odore, ma la signora Schichoaveva un modo di raccontare al qualenon sapevo resistere. Di solito nonparlava del bosco, e neppure dellacasa del guardaboschi dove avevavissuto con il marito, a meno che non

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fossi io a farle delle domande aproposito dei cinghiali e dei gufi; intal caso rispondeva gentilmente, masenza alcuna partecipazione. Assai piùsovente riandava col pensiero agliospiti illustri che avevano visitatoil parco al seguito dell'Imperatore.Con orgoglio, ma senza prosopopea, lasignora Schicho mi parlò della-giornata dei tre Imperatori , quandol'imperatore di Russia, l'imperatoredi Germania e l'imperatore FrancescoGiuseppe si erano fermati, alti suiloro cavalli, davanti alla casa delguardaboschi, e lei aveva offerto aciascuno un brindisi di benvenuto. Liaveva ancora davanti agli occhi tuttie tre, come se fossero lì, descrivevai loro pennacchi, le uniformi, ivolti, ricordava i cavalli chemontavano e le parole con cuil'avevano ringraziatadell'accoglienza. Il racconto nonaveva un tono servile, sembrava,piuttosto, che fossero ancora lì e,mentre allungava le braccia permostrarmi in che modo aveva offerto ilbicchiere a ciascuno dei treimperatori, la signora Schichosembrava un po' stupita che nessuno levenisse incontro a prenderle il calicedi mano. Tutto era svanito; dov'eranogli imperatori? Com'era possibile chedi tutto ciò non fosse rimasto piùnulla? Anche se la signora Schicho nonlo disse mai ben chiaro, né diede avedere di rammaricarsene, io sentivoche quello era per lei un mistero nonmeno che per me, e che proprio quelmistero la spingeva a raccontarel'episodio con tanta energia evivacità.Non facevo mai colazione nella miacamera, non ci tenevo neppure il paneo la frutta. Avevo sempre desideratoun posto che fosse libero dal cibo, eche non fosse disturbato da nulla diciò che ritenevo insignificante ofastidioso. La chiamavo,scherzosamente, la mia ansia di-pulizia ; Veza, quando veniva atrovarmi, la capiva, e non cercò mai,come fanno di solito le donne, diorganizzare nella mia stanza unaspecie di economia domestica. Anche diquel mio desiderio di conservare lastanza libera da cose del genere Vezadiede come al solito unainterpretazione originale e per melusinghiera: era dovuto al mio

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rispetto per i Profeti e le Sibilleappesi alle pareti, o forse al miorispetto per Michelangelo, che potevalavorare indefinitamente senza pensareal cibo.Ma questo non significava che milasciassi mancare nulla o che facessiaddirittura la fame. NellaAuhofstrasse, a cinque minuti da casamia, scendendo la collina, c'era unalatteria che vendeva yogurth, pane eburro, cibi che potevo consumaretranquillamente all'unico tavolino delnegozio, seduto sull'unica sedia. Eralà che facevo colazione prima diandare in laboratorio. E quandorestavo a casa ci tornavo anche piùtardi, durante la giornata. In queglianni vivevo volentieri di pane e burroe yogurth, perché risparmiavo il piùpossibile per comperarmi dei libri.La signora Fontana, che mandavaavanti la latteria, non aveva nulla incomune con la signora Schicho. La voceera puntuta, proprio come il suo nasoche ficcava dappertutto. Durante ilpasto ricevevo informazionidettagliate su ogni cliente che avevalasciato il locale o che secondo lei,sarebbe entrato fra breve. Quandoquell'argomento era esaurito, il chenon succedeva tanto in fretta,arrivava il turno del suo primomatrimonio, che era andato storto sindall'inizio. Il primo marito dellasignora Fontana, prima prigioniero inRussia, era finito in Siberia, c'erarimasto qualche anno e lì era morto dimalattia. Molto tempo dopo, eraritornato un suo amico, portando ilsuo estremo saluto, la fede nuziale euna foto di gruppo nella quale sivedevano il defunto, l'amico stesso ealtri compagni di prigionia. Quellafoto era un ricordo prezioso, e il suoproprietario non se ne separava mai,benché la mostrasse spesso evolentieri. Tutti i prigionieri sierano fatti crescere la barba e perciònon era possibile riconoscerli. Ilproprietario della foto aveval'abitudine di puntare il dito su unabarba, la seconda in basso da destra,e ogni volta diceva: -Ecco quello sonoio. Non mi riconosce? Eh, quelli eranotempi! . Poi assumeva un'espressionesolenne e, indicando un'altra barba,la seconda in basso da sinistra,dichiarava: -E questo era il mio amicoe predecessore, dica pure

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tranquillamente il primo signorFontana; ma, naturalmente, non sichiamava così. Dovrebbe chiedere a miamoglie. Le canterà su di lui un'interalitania .Perché di litanie sul suo secondomarito la signora Fontana non potevacerto cantarne. Lei si alzava moltopresto, dato che il negozio apriva dibuon'ora. Lui dormiva tutta lamattina, perché rincasava molto tardi,all'una di notte, con l'ultima corsadella ferrovia urbana, e talvoltaanche più tardi, tornando a piedi dalsuo solito caffè in città; la mogliedormiva da un pezzo, e lui non lavedeva nemmeno. Si alzava nelpomeriggio, quando lei era in negozio,e subito ritornava in città a trovarei suoi amici.Lei era facile alle scenate, e luistava lontano di casa più che poteva.Ma nel primo pomeriggio, prima ditornarsene in città, qualche volta ledava il cambio in negozio. Fu così chelo conobbi e che egli mi raccontòdella Siberia. Dopo un paio d'anni, latensione fra i coniugi Fontana eraarrivata a un punto tale che lei locacciò di casa. Il loro non era unmatrimonio, diceva la signora, nonavevano nulla in comune. Lui siserviva della casa di lei soltanto pervenirci a dormire. Per il resto, nonle rivolgeva nemmeno la parola. Quandolei era in piedi il marito dormiva, eappena lei si era addormentata, eglisi alzava di nuovo.Alla fine lui se ne andò, e ilmattino seguente lei me lo disse,soddisfatta e amareggiata al tempostesso. Il marito non si era portatovia quasi nulla, perché in effetti nonpossedeva nulla; ma quel poco cheaveva se l'era preso, persino duechiodi arrugginiti. -Si figuri un po',i chiodi arrugginiti si è portato via,neppure un chiodo mi ha lasciato . Daltono sembrava che lei avrebbeconservato volentieri uno di queichiodi arrugginiti (per ricordo? perdispetto?); e invece neppure un chiodoaveva voluto lasciarle. Almeno fosserostati nuovi; ma non lo erano, eranosoltanto dei vecchi chiodiarrugginiti.Il signor Fontana era un uomo moltopiccolo, che camminava tutto storto epiegato in avanti, come se si fosserotto malamente la spina dorsale.

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Senza più un capello in testa, avevaun'aria smunta e mal ridotta; sembravasempre che gli occhi dovesseroriempirglisi di lacrime da un momentoall'altro; ma in realtà il suo cigliorestava asciutto. Quando si trovavanel negozio, capitava qualche voltache entrasse la splendida, floridacontessa che abitava con la famiglianelle vicinanze. Era una donna alta erobusta, che sapeva cavalcare ecacciare (io però non la vidi mai né acavallo né a caccia), aveva una vocesquillante e faceva gli acquisti comese la latteria esistesse soltanto perlei. Tuttavia i suoi acquisti nonerano affatto cospicui, non aveva maiabbastanza denaro con sé. Ogni tantosi portava dietro i tre figli piccoli,e allora non si poteva fare a meno dipensare al suo petto prorompente; alsignor Fontana schizzavano fuori gliocchi dalle orbite stanche. Serviva lacontessa con sollecitudine, e senza lasua solita aria astiosa; chiunquealtro entrasse, quando lui era innegozio, veniva accolto con una facciaseccata. La contessa non era ancorauscita tutta intera dalla porta, chelui si voltava verso di me e mi dicevacon entusiasmo (allora sì che aveva lelacrime agli occhi): -Che giumenta! Darimanerci secchi! .Credo che venisse nel negozio aquell'ora soltanto per vederla(altrimenti avrebbe dormito ancora unpo'); e lei, come se avesse unappuntamento, veniva sempre allastessa ora, e si faceva serviresoltanto da lui. Certe volteammucchiava davanti a sé, sul bancodella latteria, tutte le cose che siera fatta dare e poi (non era moltobrava nei calcoli) cominciava a rifareil conto di quel che aveva preso. Ilsignor Fontana, che era felice ditrattenerla, per potersela rimirareancora un po', l'aiutava a fare lesomme. I soldi che la contessa portavacon sé erano sempre di gran lungainsufficienti e, benché piacessemoltissimo al signor Fontana, acredito non riceveva mai nulla; cosìgli acquisti dovevano sparire dalbanco uno dopo l'altro. La contessanon si vergognava affatto di quellaoperazione; non saper fare i conti nonera mica un disonore; di cavalli, incompenso, se ne intendeva molto. Senzamanifestare il minimo disappunto,

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restituiva una cosa dopo l'altra,mentre il signor Fontana si permettevadi aprirle la mano con una pressioneaffettuosa, e resosi conto, conun'occhiata fulminea, di quanti soldiaveva portato con sé, di colpointerrompeva la restituzione dicendo:-Basta così. Ha giusto i soldi che leservono! .La contessa sentì la sua mancanzaquando egli se ne andò, perché oraveniva servita dalla signora Fontana,la quale dimostrava minor comprensioneper le sue scarse doti aritmetiche ein fondo sospettava che essenascondessero l'intenzione diimbrogliarla. Anche la signora Fontanafaceva i suoi commenti quando lacontessa usciva dal negozio con ibambini: -Quella a scuola non c'èstata mai. I conti non è capace difarli, e neanche sa scrivere. Ma pensiun po' se un tipo del genere dovessemandare avanti un negozio come ilmio! . La contessa non era insensibilea quella ostilità, e uscita dalnegozio diceva a me: -Peccato che nonci sia più quell'uomo così educato!Lui sì che era una persona educata! .Era chiaro che non aveva saputo nulladei chiodi arrugginiti.Anch'io sentivo la mancanza delsignor Fontana, ma soprattutto deisuoi discorsi sulla Siberia. In realtàlui viveva ancora laggiù. Gli amiconidel solito caffè ascoltavanovolentieri i suoi racconti sullaSiberia. Al caffè doveva andarcitutti i giorni, mi diceva, loaspettavano, volevano che continuassea raccontare. E di cose da dire neaveva ancora moltissime, era ben lungidall'aver vuotato il sacco. Avrebbepotuto scrivere un libro intero sullaSiberia. Ma gli riusciva più facileparlarne a voce. Subito, sin dallaprima volta, quando lui avevacominciato a parlare della Siberia,sua moglie si era addormentata. Perlei esisteva soltanto l'anellonuziale. Gliel'aveva già detto il suoamico, il primo marito: per l'amor diDio, riportale la fede, altrimenti nonavrà più un momento di pace! Per leiera un oggetto di valore. Lui avrebbeanche potuto tenerselo. Ma era unapromessa a un amico morto, e l'avevamantenuta. Anche se fosse stato unmilione, l'avrebbe restituito,accontentandosi della mancia che si

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riceve consegnando un oggettosmarrito. E a essere leale che cosa ciaveva guadagnato? Adesso sul groppoaveva una lattaia, anziché unacontessa.Un anno dopo la partenza del signorFontana, nella zona riapparve laSiberia.In mezzo a maschere mortuarie.Ibby Gordon mi attraeva per il suospirito e la sua allegria, e parlavaper trovate. Mai una volta ho sentitoda lei la frase che mi aspettavo,diceva sempre una cosa diversa. Eraungherese, ma riusciva a trasformareanche quel fatto in una sorpresa,poiché da ogni errore faceva nascereuna trovata. Di alcune parole ho presocoscienza per la prima volta grazie aIbby; quando una parola tedesca lepiaceva in modo particolare, se laportava via; da quel momento la parolariappariva soltanto in forme nuove;queste forme ricordavano che la parolaera sparita e rimandavano, in modosempre diverso, all'entità perduta.Ibby parlava adagio, nulla di quel chediceva andava smarrito, ogni sillabaaveva la sua particolare intonazione,nessuna parola si lasciava incalzare espingere avanti dalla parola seguente.Ma Ibby pensava in fretta, perciòmolte cose premevano, aspettando ilproprio turno e, prima di venir fuori,si crogiolavano nella sua mente,soddisfatte di sé. Tante cosesoddisfatte, sempre nuove, simettevano in fila una dietro l'altrae, nella sconfinata allegria che daquesto derivava, non c'era posto perlo spavento, per il dolore, per lanoia o per l'angoscia. Se eri insiemea Ibby, non potevi credere che, daqualche parte, esistesse il dolore,perché tutto ciò che di triste lecapitava di vedere o di ascoltareperdeva il suo peso, si trasformava inqualcosa di lieve, di aereo; e poichéIbby non si lamentava mai di quel chesuccedeva a lei, come serbarle rancorese si prendeva gioco delle paurealtrui?Sembrava una scultura di Maillol,una classica figura agreste, e il visoassomigliava a un frutto, un fulgidofrutto che sta per maturare. Il suonutrimento consisteva in tutto ciò chevedeva intorno a sé d'incongruo e digrottesco. L'avresti potuta giudicarespietata; ma lo era anche verso se

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stessa. Ti stupivi che la sua ironia,così acuta e mordace, le facesse tantobene. Quel ritratto della felicità edella salute spesso non aveva nienteda mangiare; ma su questo non spendevauna parola, tranne che per farlodiventare una storiella divertente: ecome appariva ben nutrita, aglisguardi degli uomini, mai sazi dicontemplare le sue magnifiche spalle!Tutto ciò che ha a che fare con letradizioni, il senso dell'ordine e lenormali regole della vita quotidianale era scivolato addosso senzalasciare traccia. Raccontava qualcosadel suo passato, ma con grandenoncuranza, come se non fosse maiesistito. Ricordo il nome del suopaese d'origine (Marmaros Sziget,nell'Ungheria orientale, ai piedi deiCarpazi), perché mi ricordava il marmoin cui Maillol l'aveva scolpita. Ilsuo nome, Ibolya, in unghereseVioletta, sembrava ridicolo, e perfortuna nessuno ci pensava; lachiamavamo, brevemente, Ibby. Il nomeda ragazza, Feldmesser, mi piaceva dipiù, ma lei ne era imbarazzata, forseper via della sua famiglia, di cui nonsapevo nulla. Come poetessa avevaadottato il nome Gordon, e a quelloteneva molto; sembrava la sola cosadella propria persona che le stesse acuore.A Budapest aveva incontratoFriedrich Karinthy, uno scrittoresatirico ungherese, che laggiù era unacelebrità; io non avevo letto nulla dilui, ma, a giudicare da ciò che nediceva Ibby, ricordava Swift. Ibbydiventò la sua amica, scriveva poesieche gli piacevano, Karinthy, sidiceva, era stato conquistato dallesue poesie non meno che dalla suabellezza. Aranka, sua moglie, unadonna appassionata, una tenebrosabellezza zigana, come diceva Ibby, siera gettata dalla finestra del terzopiano per gelosia; benché gravementeferita, si era salvata per un puromiracolo. Karinthy era rimasto a talpunto sconvolto dal gesto disperato disua moglie, che aveva deciso ditroncare immediatamente il legame conIbby; e, per salvare la vita dellamoglie, aveva esiliato Ibby daBudapest, nonché dall'Ungheria.Un suo amico la scortò oltre ilconfine, sino a Vienna, dove Ibbyarrivò senza bagaglio, soltanto con

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uno spazzolino da denti, che mostravavolentieri. Non aveva la vita facile,ma ne parlava senza lamentarsi. PerAranka non provava pietà, ma neppureper se stessa, si limitava a osservareil lato ridicolo della situazione. Ilfamoso scrittore le aveva messo comesentinella il suo amico più fidato, ilquale doveva controllare che lei nonvarcasse di soppiatto il confine pertornare in Ungheria. L'amico leaffittò una stanza nella Strozzigasse.Ibby doveva presentarsi ogni giorno inun certo caffè. Così l'amico correvasubito a telefonare a Karinthy, aBudapest: -Ibby è qui. Non è sparita .Allora otteneva qualcosa da mangiare.L'affitto le veniva pagato, ma non ledavano nient'altro, temevano chepotesse acquistare il biglietto pertornare a Budapest. Se non sipresentava al caffè, l'amico veniva acercarla a casa sua, nellaStrozzigasse; ma, in tal caso, non le davaniente da mangiare. Ecco come miapparve, quando la vidi per la primavolta: la dea Pomona, solo che inmano, al posto della mela, aveva unospazzolino da denti.Passò qualche settimana, e Ibbycapitò in un circolo della jeunessedorée di Vienna, dove subitocominciarono a contendersela duefratelli. In quell'ambiente tutti leavevano messo gli occhi addosso; ma,dato che i pretendenti erano molti, ele facevano la corte tutti insieme,Ibby fece appello a tutta la suascaltrezza e riuscì, mettendoli unocontro l'altro, a respingere ogniassalto. Le maggiori difficoltà leebbe comunque con i due fratelli, chefacevano uno più sul serio dell'altro.Ibby rimase a Vienna quasi un anno ein quel periodo la vidi spesso, ciincontravamo al caffè, e lei miraccontava, con voce calma edistaccata e quel suo modo di parlarefreddo, radioso e irresistibilmentecomico, tutto ciò che capitava intornoa lei. Io non potevo evitare diascoltarla, e lei non poteva evitaredi raccontare. Mi era grata del fattoche non cercavo di tirar l'acqua almio mulino. Con me, diceva, siriposava dalla sua bellezza, unabellezza incolpevole; intuiva chesentivo la sua bellezza come lasentiva lei stessa: un peso di fronteai cui effetti si restava disarmati.

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Uno dei due fratelli dirigeva unagrande libreria che aveva ereditatoalla morte del padre; l'altro,considerato il più intelligente e ilpiù colto, aveva studiato di tutto,gli piaceva cambiare, e ora sioccupava di filosofia. Rudolf, illibraio, era un ometto insignificante,minuto, poco appariscente, che sisforzava di far colpo vestendosi concura e pettinandosi continuamente ipochi capelli che aveva in testa. Eratotalmente succubo di Ibby, non menodell'altro; ma, arido e privo difantasia com'era, per lui era moltopiù difficile interessarla. Suofratello, invece, ascoltava volentierila gente e poi distribuiva i suoiconsigli, balbettando lievemente, masenza mai fermarsi. Rudolf, che nondava mai consigli perché lui stesso neavrebbe avuto bisogno, dovevaaffidarsi alle novità librarie,soprattutto ai libri d'arte che avevasotto mano in negozio, e infatti se neserviva per fare a Ibby dei regali asorpresa e per intrattenerla. Ungiorno le portò un libro intitolatoL'eterno sembiante, una collezionedi maschere mortuarie pubblicata dapoco. Io arrivai proprio nel momentoin cui Ibby stava aprendo il pacco, eben presto, dopo poche pagine, sia leiche io ne fummo conquistati. Accaddeuna cosa che fino a quel momento tranoi sarebbe stata impensabile:tacemmo, rimanemmo ammutoliti. Eravamoseduti uno accanto all'altra, e cosìRudolf, che mal sopportava quelsilenzio carico d'intesa, ci lasciò illibro e se ne andò.Non avevo mai visto delle mascheremortuarie, erano una cosa totalmentenuova per me. Sentii di essere più chemai vicino a quell'attimo del qualenon sapevo quasi nulla.Sul titolo del libro, L'eternosembiante, non stetti a rifletterepiù che tanto. La diversità degliuomini mi aveva sempre affascinato, manon mi aspettavo che quella diversitàgiungesse, più nitida che mai, sino almomento della morte. Ero inoltresbalordito del fatto che fossepossibile preservarla fino a quelpunto. Della sparizione dei mortiavevo patito sin da bambino. Rimangonoil nome e le opere, ma a me nonbastava. A me interessava anche laloro corporeità, ogni tratto, ogni

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minima contrazione del volto. Quandosentivo la sua voce, che sempre avevonell'orecchio, invano cercavo il suovolto; egli mi appariva in sogno,anche quando non lo desideravo; ma nonpotevo evocare quel volto a miopiacimento. Anche se lo vedevo (assairaramente), ormai era cambiato, avevasubìto le leggi della propriadissoluzione. E ora mi vedevo davanti,immutabili, coloro che vivevanoinsieme a me con i loro pensieri e leloro opere, coloro che amavo per leloro azioni, oppure odiavo per i loromisfatti; li vedevo con gli occhichiusi - ma era come se potesseroriaprirli, come se ancora non fosseaccaduto nulla d'irreparabile; liavevano ancora gli occhi? sentivanoancora ciò che si diceva soltanto aloro? Erravo, indeciso, dall'unoall'altro volto, come se dovessiafferrarli e trattenerli uno per uno.Non riuscivo a capacitarmi che fosserotutti riuniti in quell'unico libro.Temevo che se ne andassero nelledirezioni più diverse, ognuno nellapropria. Pochi ne riconobbi senzaguardare il nome. Senza nome eranoinermi, totalmente indifesi. Ma, nonappena venivano ricongiunti al loronome, si sentivano garantiti dalladissoluzione. Sfogliai avanti, poi,inopinatamente, tornai indietro; eranoancora là, c'erano tutti, nessuno erascappato, nessuno protestava control'ordine che gli era stato assegnatonella fila, il caso che aveva messoinsieme quel libro non li avevaoltraggiati.L'ultimo istante prima delladissoluzione: come se uno avesserichiamato a sé per l'ultima voltatutto ciò che può essere, e avessedato il suo benestare a quella estremapresentazione. Ma questo assenso nonè di tutte le maschere: ci sonomaschere che feriscono, maschererivelatrici. Il loro senso sta nellatremenda verità che svelano, ed èquesto l'elemento dominante in cuiquella vita doveva sfociare: ilfardello di Walter Scott, la demenzastraziante del vecchio Swift,l'orrenda, divorante malattia diGéricault. In tutte le maschere sipotrebbe cercare soltanto l'orrore,l'orrore della morte. Allora sarebberomaschere di uomini assassinati. Masarebbe anche una falsificazione: c'è

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dell'altro, al di là della morte cheassassina.E'è l'arresto del respiro, ma come seesso venisse conservato. Il respiro èciò che l'uomo possiede di piùprezioso ed è più che mai preziosoproprio alla fine. L'ultimo, estremorespiro è conservato come immaginenella maschera.Ma come può il respiro diventareimmagine? La prima maschera che vidiaprendo il libro, e che continuai acercare e guardare, era la maschera diPascal.Qui il dolore ha raggiunto la suaperfezione, ha trovato il suo senso, alungo cercato. Il dolore che deverimanere pensiero non è in grado difare di più. Se esiste un morire cheva oltre il lamento, è qui che loabbiamo di fronte. Una dimestichezzacon la morte conquistata a poco apoco, a piccoli passi, indicibilmentepiccoli, sostenuta dal desiderio divarcare quella soglia per attingere,di là da essa, l'ignoto. Esistonomolti libri sui credenti e sui martiriche, per amore dell'altra vita,vogliono essere liberati da questavita. Ma qui abbiamo di frontel'immagine di un credente nel momentoin cui ha raggiunto la sua meta. E'è uncredente, certo, che ha saputo anchemortificarsi; ma, infinitamente di piùdi quanto si sia mortificato, egli hapensato. Così tutto ciò che haintrapreso contro questa vita si èspecchiato nel suo pensiero. Il suosembiante può dirsi eterno, poichéesprime, appunto, l'eternità allaquale anelava. Egli riposa nel suodolore, non vuole più lasciarlo. Vuoletutto il dolore che l'eternità èdisposta ad accogliere e, quando lo haraggiunto nella pienezza massima cheda essa gli è concessa, quel dolore looffre all'eternità e varca la suasoglia.Il 15 luglio.A distanza di pochi mesi dal miotrasferimento nella nuova stanza,accadde un fatto che esercitò uninflusso profondissimo sulla mia vitasuccessiva. Fu un avvenimentopubblico, uno di quei rari avvenimentiche turbano a tal segno una cittàintera che essa, da allora in poi, nonè più la stessa.La mattina del 15 luglio 1927 erorimasto a casa, non ero andato come al

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solito all'Istituto di Chimica nellaW�hringerstrasse. Nel caffè di Ober--SanktVeit mi misi a leggere igiornali del mattino. Sento ancoral'indignazione che mi travolse quandopresi in mano la -Reichspost e lessiun titolo a caratteri cubitali: -Unagiusta sentenza . Nel Burgenland c'erastata una sparatoria, alcuni operaierano rimasti uccisi. Il tribunaleaveva assolto gli assassini. L'organodi stampa del partito al governodichiarava, o meglio strombazzava, checon quella assoluzione era stataemessa una -giusta sentenza . Più chel'assoluzione in quanto tale, fuproprio questo oltraggio a ognisentimento di giustizia che esasperòenormemente gli operai viennesi. Datutte le zone della città i lavoratorisfilarono, in cortei compatti, fino alPalazzo di Giustizia, che già per ilnome incarnava ai loro occhil'ingiustizia in sé. La reazione fuassolutamente spontanea, me ne accorsipiù che mai dai miei sentimenti.Inforcai la bicicletta, volai in cittàe mi unii a uno di questi cortei.Gli operai di Vienna, chenormalmente erano disciplinati,avevano fiducia nei loro capi delpartito socialdemocratico e sidichiaravano soddisfatti del modoesemplare in cui essi amministravanoil Comune di Vienna, agirono in quelgiorno senza consultare i loro capi.Quando appiccarono il fuoco al Palazzodi Giustizia, il borgomastro Seitz, suun automezzo dei pompieri, cercò ditagliar loro la strada alzando la manodestra. Fu un gesto assolutamenteinefficace: il Palazzo di Giustiziaandò in fiamme. La polizia ebbel'ordine di sparare, i morti furononovanta.Sono passati cinquantatré anni,eppure sento ancora nelle ossa lafebbre di quel giorno. E'è la cosa piùvicina a una rivoluzione che io abbiamai vissuto sulla mia pelle. Da alloraso con assoluta precisione quel cheaccadde durante l'assalto dellaBastiglia, è un tema sul quale nonavrei più bisogno di leggere unaparola. Mi trasformai in un elementodella massa, la massa mi assorbì in sécompletamente, non avvertivo in me labenché minima resistenza contro ciòche la massa faceva. Mi meraviglio chein una simile disposizione di spirito

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fossi ancora in grado di percepire intutti i particolari ogni singola scenache si svolgeva davanti ai miei occhi.Ne voglio raccontare una.In una strada laterale non lontanadal Palazzo di Giustizia che stavabruciando, ma in posizione defilata ecomunque ben distanziata rispetto allamassa, un uomo con le braccia alzate ele mani congiunte sopra la testa in ungesto di disperazione, gridavagemendo: -Bruciano i fascicoli! Tuttii fascicoli! . -Meglio i fascicoli chegli uomini! gli dissi, ma a luiquesto non importava affatto, aveva intesta soltanto i fascicoli, e a mevenne in mente che forse in quelpalazzo egli stesso aveva a che fare,magari come archivista, con deifascicoli; l'uomo era inconsolabile, ea me, malgrado la situazione, fece uneffetto comico. Al tempo stesso peròmi indignava. -Ma non vede che laggiùhanno sparato sulla gente, dissiiroso -e lei parla di fascicoli! . Luimi guardò in faccia come se neancheesistessi e gemette di nuovo:-Bruciano i fascicoli! Tutti ifascicoli! . Pur essendosi messo indisparte, la situazione non era perlui priva di pericoli, non erapossibile non udire il suo lamento,anch'io infatti l'avevo udito.Nei giorni e nelle settimane diprofondissimo abbattimento cheseguirono, in cui non riuscivamo apensare ad altro e gli eventi di cuieravamo stati testimoni siripresentavano continuamente davantiai nostri occhi perseguitandoci ogninotte fin dentro il sonno, in queigiorni, dicevo, esisteva un unicocollegamento legittimo con laletteratura: Karl Kraus. La miaidolatrica venerazione per Krausraggiunse allora il suo culmine.Provai, questa volta, un sentimento digratitudine per un'azione pubblica benprecisa, non saprei indicarenessun'altra persona per la quale ioabbia mai provato tanta riconoscenza.Sotto l'influsso del massacro di quelgiorno, Kraus aveva fatto affiggeredappertutto a Vienna dei grandimanifesti nei quali, rivolgendosi alcapo della polizia Johann Schober,responsabile di avere ordinato lasparatoria e responsabile dunque deinovanta morti, gli intimava di -darele dimissioni . Fu un atto

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individuale, Kraus fu l'unica figurapubblica che prese un'iniziativa, ementre gli altri personaggi celebri -a Vienna non ne mancavano mai - nonvolevano esporsi o forse non volevanorendersi ridicoli, soltanto in Krausil coraggio fu pari all'indignazione.I suoi manifesti furono in quei giornil'unico nostro sostegno. Io passavo daun manifesto all'altro, mi fermavodavanti a ciascuno di essi, e avevo lasensazione che tutta la giustizia diquesta terra fosse penetrata nellelettere dell'alfabeto che componevanoil suo nome.E'è già da qualche tempo che ho messosulla carta questa cronaca del 15luglio e delle sue conseguenze. Lariprendo, qui, alla lettera; (*) forseproprio la sua concisione può dareun'idea dell'importanza di ciò cheaccadde quel giorno.Da allora ho cercato a più ripresedi avvicinarmi a quel giorno, cheforse, dopo la morte di mio padre, èstato quello che ha inciso di piùnella mia vita: sono costretto a dire-avvicinarmi , perché afferrarlo èmolto difficile; fu così vasto, cosìdiffuso, si estese per tutta la città,una grande città; e fu anche per me ungiorno di movimento, non fecinient'altro che percorrere la città inlungo e in largo. Tutte le miesensazioni, in quel giorno, eranovincolate a un'unica direzione. E'è(*) Sono qui riportate, in effetti,con qualche lievissima variazione,alcune pagine del saggio del 1973,Das erste Buch: Die Blendung [Ilmio primo libro: Auto da fé], trattodalla raccolta Das Gewissen derWorte, Carl Hanser Verlag,M�nchenWien, 1975. Il saggio èapparso nella traduzione italiana diRenata Colorni, che qui è riprodotta,in appendice al romanzo di E' Canetti,Auto da fé, Adelphi, Milano, 1981[N'd'T'].il giorno che mi è rimasto piùchiaro nel ricordo; ma questachiarezza è dovuta esclusivamente alsentimento che provai, un sentimentoche col passare delle ore nulla potédeviare.Io non so chi abbia dato come metail Palazzo di Giustizia agli immensicortei che provenivano da ogni zonadella città. Si potrebbe anche pensareche la cosa avvenne da sé; ma non è

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un'ipotesi molto attendibile. Qualcunodeve pur aver lanciato per primo laparola d'ordine -Al Palazzo diGiustizia! . Tuttavia, non èimportante conoscere il nome di quellapersona, dal momento che la parolad'ordine fu fatta propria da chiunquepoté udirla, e da ciascuno fu accoltasenza esitazioni, riflessioni,titubanze indugi o dilazioni, e tuttitrascinò in una sola direzione.Può darsi che l'essenza del 15luglio sia entrata senza residui nelmio libro Massa e potere. Se cosìfosse, sarebbe impossibile ricostruirein qualsiasi forma l'esperienzaoriginaria nella sua interezza apartire dalle singole sensazioni diquella giornata.La lunga corsa in bicicletta versola città. Il percorso non lo ricordopiù. Non so dove ho cominciato aincontrare la gente. Non mi vedo conchiarezza in quel giorno; ma sentoancora quella febbre, le corseconcitate avanti e indietro, lafluidità del movimento. Tutto èdominato dalla parola -fuoco , e poidal fuoco stesso.Un colpo in testa. Forse è un casoche io non abbia visto nessunaaggressione contro i poliziotti. Hovisto invece sparare sulla folla e lagente crollare a terra. Gli sparisembravano frustate. E ho visto lagente correre nei vicoli laterali esubito dopo riapparire e di nuovoradunarsi in massa. Vedevo la gentecadere e i morti stesi al suolo, manon ero vicinissimo a loro. Un orroretremendo, soprattutto davanti a queimorti. Mi avvicinavo, ma poi liscansavo, non appena gli ero vicino.Nella mia eccitazione mi sembrava chei morti diventassero più grandi. Poiper raccoglierli, arrivavano gliuomini del servizio d'ordine, eintorno a loro di solito si faceva ilvuoto, come se la gente temesse chegli spari piovessero di nuovo proprioin quel punto.I soldati a cavallo facevano piùspavento di tutti, forse perché essistessi avevano paura.Davanti a me un uomo sputò, facendocenno con il pollice della mano destraa un punto imprecisato dietro le suespalle. -Là ne hanno appeso uno! Glihanno tolto i calzoni! . Contro chisputava? Contro l'assassinato o contro

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l'assassinio? Non vedevo il puntoindicato. Una donna, davanti a me,lanciò un grido fortissimo: -Peppi!Peppi! . Aveva gli occhi chiusi ebarcollava. Tutti cominciarono acorrere. La donna cadde. Ma non erastata colpita. Sentii uno scalpicciodi cavalli. Non andai verso la donna,che era stesa a terra. Corsi con glialtri. Sentivo che dovevo correre conloro. Volevo rifugiarmi in un portone,ma non riuscivo a separarmi dallagente che correva. Un uomo molto altoe robusto, che camminava veloceaccanto a me, si batté il pugno sulpetto e continuando a correre urlò:-Hanno sparato qui! Qui! Qui! Qui! .D'un tratto non lo vidi più. Non eracaduto. Dov'era?Questa era forse la cosa piùinquietante: si vedeva e si sentivauna persona, un gesto vigoroso cheoscurava tutto il resto, e poi, ad untratto, quella persona spariva, comeinghiottita dal suolo. Tutto cedeva,ovunque si aprivano baratriinvisibili. Ma i fili che tenevanounito l'insieme non si spezzavano;anche quando all'improvviso ti trovavida solo, ti sentivi scuotere e tirarecon forza. Perché dappertutto udiviqualcosa, c'era come un ritmonell'aria, una musica crudele. Si puòchiamarla musica, ne eri trascinato.Non avevo la sensazione di camminaresulle mie gambe. Eri immerso in unvento, una folata di suoni. Una testarossa emerse davanti a me, ora qui oralà, emerse e scomparve, riemerse escomparve, si alzava e si immergeva,mi sembrava che nuotasse, la cercaicon gli occhi come se dovessi seguirei suoi ordini, pensavo che fossero deicapelli rossi, ma poi mi accorsi cheera solo un fazzoletto rosso e smisidi cercarla.Non incontrai e non riconobbinessuno, se rivolgevo la parola aqualcuno era gente sconosciuta. Maparlai a poche persone. Ascoltavomolto, c'era sempre qualcosa daascoltare nell'aria, il suono piùtagliente erano urla di sdegno, quandosparavano sulla folla, e la gentecadeva. Le urla, allora, diventavanotremende, soprattutto quelle delledonne si sentivano con chiarezza. Misembrava che le urla di sdegnoevocassero gli spari. Eppure vedevoche non era così, perché gli spari

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continuavano, anche quando le urlacessavano. Dappertutto si sentivanogli spari, anche molto lontano,schiocchi di frusta, di continuo.L'ostinazione della massa, cheappena ricacciata, subito risbucavacompatta dai vicoli laterali. La gentenon si lasciò distogliere dall'ideadel fuoco, il Palazzo di Giustiziaandò in fiamme, bruciò per ore, e inquelle ore la febbre salì, raggiunseil suo apice. Era una giornatacaldissima, le fiamme non si vedevano,ma il cielo era rosso per un largotratto, e si sentiva l'odore dellacarta bruciata, migliaia e migliaia difascicoli dati alle fiamme.Gli uomini del servizio d'ordine sivedevano dappertutto, eranoriconoscibili dalle giacche a vento edalla fascia intorno al braccio, sidistinguevano dai poliziotti perchéerano disarmati. Come armi avevano lebarelle sulle quali adagiavano i mortie i feriti. Si prodigavano con grandezelo, e spiccavano per la lorodiversità tra la gente che imprecavacon furore, sicché non sembravanoappartenere a quella stessa massa.Spesso il loro apparire in ogni puntodella manifestazione segnalava lapresenza di vittime che la gente nonaveva ancora visto.Non vidi appiccare il fuoco alPalazzo di Giustizia, però me neaccorsi, prima ancora di vedere lefiamme, dal mutamento nel tono di vocedella massa. Quel che era successo lagente se lo gridava da lontano;dapprima non capii; le voci suonavanogioiose, non stridule, non avide, macome liberate.Era il fuoco l'elemento di coesione.Sentivi il fuoco, la sua presenza eraschiacciante, anche laddove nonriuscivi a vederlo lo avevi in mente,la forza di attrazione del fuoco equella della massa facevano tutt'uno.Le salve della polizia scatenavanourla di sdegno, le urla di sdegnonuove salve: ma dovunque ti trovassiesposto agli spari o dovunque tu tifossi apparentemente rifugiato - illegame con gli altri, palese onascosto, a seconda del luogo,conservava comunque la sua efficacia,magari per vie tortuose, visto che nonera possibile diversamente, e quellegame ti riconduceva nella sferadominata dal fuoco.

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Quel giorno, che fu pervaso da unasensazione unitaria (un'unica, immensaondata, che si abbatté sulla città ela sommerse: quando l'onda lentamenterifluì, sembrava incredibile che lacittà esistesse ancora), quel giorno èfatto di innumerevoli particolari,ognuno dei quali mi si è incisoprofondamente nella memoria, nessunodi essi è svanito. Li ricordonitidamente tutti, ciascuno isolatodagli altri e ben riconoscibile nellesue caratteristiche; eppure ognuno èparte dell'immensa ondata senza laquale ogni singola scena apparirebbevacua e priva di senso. E'è l'ondatache bisognerebbe afferrare, non iparticolari; io ho tentato di farlo apiù riprese, nell'anno immediatamentesuccessivo, e poi sempre, di continuo;ma non ci sono mai riuscito. Nonpotevo riuscire, perché nulla è piùenigmatico e incomprensibile dellamassa. Se l'avessi capita sino infondo, non avrei inseguito per più ditrent'anni il progetto di decifrarla edi descriverla, come altri fenomeniumani, nel modo più completopossibile.Nemmeno se mettessi in fila, unadietro l'altra, tutte le singole sceneche per me costituiscono quellagiornata, con rigore e nettezza,badando a non imbellettare nérimpicciolire né esagerare nulla -nemmeno così riuscirei nel mio intentodi renderle giustizia, perché in essaci fu anche dell'altro. Ho sempresentito lo strepito dell'ondata chespingeva in superficie i particolari,e solo se potessi interpretare eraffigurare l'ondata in sé potreidire: sì, nulla è stato rimpicciolito.Anziché prendere di mira questo oquel dettaglio, potrei parlare delleconseguenze che quel giorno ha avutoin seguito sul mio pensiero. Alcunedelle nozioni più importanti confluitenel mio libro sulla massa le devo al15 luglio. Le cose che sono andato acercare nelle fonti più disparate, cheho estrapolato, esaminato, trascritto,letto e riletto quasi al rallentatore,le ho tutte potute confrontare con ilricordo di quell'evento centrale; unricordo che rimase nitidissimomalgrado tutto ciò che accadde inseguito su scala più ampia,coinvolgendo un maggior numero dipersone e con effetti mondiali di più

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vasta portata. Proprio il caratteredel 15 luglio come fatto isolato ecircoscritto alla città di Viennaconferì a quel giorno, per lariflessione degli anni successivi,placato lo sdegno e scemata la febbre,un valore quasi emblematico: quello diun evento che è stato delimitato conprecisione nello spazio e nel tempo,che ha avuto una motivazioneinconfutabile e poi si è svolto inmaniera chiara e inconfondibile.Avevo sperimentato, una volta pertutte, ciò che in seguito avreichiamato una massa aperta; avevovisto come si era formata: moltissimiuomini erano confluiti da ogni partedella città in lunghi cortei che danulla si lasciavano deviare oconfondere, orientati dalla posizionedell'edificio che portava il nomedella Giustizia, ma che a causa diquell'infame verdetto incarnava ailoro occhi l'ingiustizia in sé. Avevovisto che la massa non può nondisgregarsi, che teme moltissimo lapropria disgregazione e fa di tuttoper evitarla; che essa si specchia nelfuoco che ha acceso e riesce a evitarela disgregazione solo finché quelfuoco continua a bruciare. La massa sioppone a ogni tentativo di spegnere ilfuoco, perché la sua vita dura quantodura quel fuoco. La massa sopportaogni assalto, si lascia mettere infuga, dividere, ricacciare indietro;ma, benché i caduti, i morti e iferiti siano distesi per le strade,sotto gli occhi di tutti, e benché lamassa sia priva di armi, essa siraduna di nuovo, perché il fuocobrucia ancora, e il suo riflessoillumina il cielo sopra le piazze e lestrade. Ho visto che la massa puòfuggire senza farsi prendere dalpanico; che -fuga di massa e -panico sono due cose ben diverse. Finché,nella fuga, la massa non si disgreganei singoli individui, incapaci ormaidi pensare ad altro che a se stessi ealla propria incolumità personale,finché ciò non accade, la massa, puressendo in fuga, continua a esistere;e quando cessa la fuga, la massa puòtornare di nuovo all'attacco.Ho capito che la massa non habisogno di un capo per formarsi,checché ne dicano le teorie correntisu di essa. Ho avuto davanti agliocchi, per un giorno intero, una massa

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che si era formata senza capi. Qua elà, molto raramente, c'era qualcuno,un oratore, che interpretava lo statod'animo della massa. Ma l'importanzadi questi oratori era minima, eranopersone anonime, che non avevanocontribuito in alcun modo alloscatenarsi della massa. Ognidescrizione che riservi a costoro unaposizione centrale falsifica i fatti.Se c'era una cosa che, spiccando sututto il resto, scatenava la massa,questa era la vista del Palazzo diGiustizia in fiamme. Le salve dellapolizia frustando la massa, non ladisperdevano, ma anzi la rendevano piùcompatta. La vista degli uomini infuga per le strade era una meraapparenza; poiché, anche correndo,essi capivano che alcuni di lorosarebbero caduti per non rialzarsi maipiù. E questo scatenava l'ira dellamassa non meno del fuoco.Quel giorno tremendo, di luceabbagliante, lasciò in me la veraimmagine della massa, la massa cheriempie il nostro secolo. La lasciò inme a tal punto, che ritornai acontemplarla, sia per libera sceltasia per una specie di coazione. Sonotornato di continuo a quell'immagine,e anche adesso sento quanto mi siadifficile staccarmene, perché solo inminima parte ho raggiunto l'intentoche mi ero prefisso: arrivare aconoscerla.Le lettere nell'albero.L'anno che seguì fu totalmentedominato da questo avvenimento. Finoall'estate del 1928, i miei pensieriruotarono intorno ad esso, non mioccupai di nient'altro. Più che maiero deciso a scoprire cosa siaveramente la massa, quella massa chemi aveva soggiogato dall'esterno edall'interno. Stando alle apparenze,continuavo i miei studi di chimica ecominciai a lavorare per la tesi dilaurea, ma l'argomento che mi avevanoassegnato era talmente pocointeressante che a stento scalfiva insuperficie la mia mente. Appena avevoun momento libero, passavo allo studiodelle cose che veramente ritenevoimportanti. Per strade tra lorodiversissime e in apparenza assairemote dal mio tema, cercavo diaccostarmi al fenomeno della massacosì come l'avevo vissuto. Cercavo lamassa nella storia, ma nella storia di

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tutte le civiltà. La storia el'antica filosofia cinese miaffascinavano ogni giorno di più. Aoccuparmi dei Greci avevo giàincominciato molto tempo prima,all'epoca di Francoforte; ora miimmersi nello studio degli storiciantichi, Tucidide in primo luogo, einoltre nella filosofia deiPresocratici. Che studiassi lerivoluzioni era naturale, larivoluzione inglese, quella francese equella russa, ma ora cominciò anche abalenarmi l'importanza delle masse neifenomeni religiosi, e quell'avidità diconoscere tutte le religioni, che daallora non mi ha più abbandonato, simanifestò per la prima volta in quelperiodo. Lessi le opere di Darwinnella speranza di trovarvi qualcosasulla formazione delle masse fra glianimali, e lessi anche, già allora connotevole impegno, alcuni libri sullesocietà degli insetti. In quel periododevo aver dormito poco, passavo nottiintere a leggere. Provai a scriverequalcosa, mi cimentai in qualchesaggio. Erano tutti lavori disondaggio e di preparazione per il miolibro sulla massa, (*) ma di scarsovalore, perché si basavano su(*) Canetti riproduce, dall'iniziodel capoverso fino a questo punto, unpasso del suo saggio del 1973 Il mioprimo libro: Auto da fé. Vedi soprala nota a p' 39 [N'd'T'].conoscenze troppo esigue.In realtà quello fu l'inizio di unnuovo espandersi delle mie indagini inmolte direzioni, che imboccai tutteinsieme, senza pormi alcun limite, equesto fu un bene. Non che l'obiettivodelle mie ricerche fosse vago (volevotrovare delle testimonianze sullanatura e sugli effetti della massa intutti i campi dell'esistenza); ma,dato che alla massa si era fatta pocaattenzione, queste testimonianze eranoscarse, e il vero risultato fu cheimparai ogni sorta di cose che con lamassa non avevano niente a che vedere.Nomi cinesi, e presto anchegiapponesi, mi divennero familiari,cominciai a sentirmi a mio agio inmezzo a loro, come all'epoca dei mieistudi liceali con i Greci. Fra letraduzioni dei classici cinesim'imbattei in Chuangtzu, che, ditutti i filosofi, è quello che hoconosciuto più a fondo; influenzato

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dalla lettura delle sue opere,cominciai a scrivere un saggio sulTao. Per scusarmi con me stesso diessermi tanto allontanato dal mio temaprincipale, cercai di convincermi chenon sarei mai riuscito a capire lamassa senza aver prima sperimentatol'estremo isolamento. Ma il veromotivo del fascino che esercitava sudi me quella tendenza originalissimadella filosofia cinese era, anche seallora non me lo sarei confessatoapertamente, l'importanza che in essaè attribuita alle metamorfosi. Fu unbuon istinto, oggi me ne rendo conto,a spingermi verso le metamorfosi;l'attenzione che vi dedicai mipreservò dal diventare schiavo delmondo dei concetti, rispetto al qualesono sempre rimasto ai margini.E'è sorprendente l'abilità, non possochiamarla in altro modo, con cuiriuscii a tenermi alla larga dallafilosofia astratta. Di ciò che stavocercando in quanto massa, un fenomenocosì concreto e imponente nellafilosofia, a quell'epoca, non trovaila minima traccia. Solo molto piùtardi riuscii a cogliere itravestimenti della massa e la formain cui essa si presenta nel pensierodi alcuni filosofi.Fu così, in questo modo precipitosoe tumultuoso, che imparai moltissimecose, e credo che nessuna di esse siarimasta in superficie; tutto ha messoradici, tutto si è esteso e diramatoin zone adiacenti. Fra cose tra lorolontanissime si sono creati fortilegami sotterranei. Essi mi rimasero alungo nascosti, e questo fu un bene,perché vennero alla luce parecchi annidopo, più forti e più saldi che mai.Mettere troppa carne al fuoco non misembra un grosso rischio. La vita ciinduce di per sé a chiusure elimitazioni, non possiamo evitare deltutto questa tendenza; tuttavia lapossiamo arginare e contrastarecercando di dare alle nostreconoscenze un impianto il piùpossibile vasto.La disperazione che mi assalì dopoil 15 luglio, una specie di paralisida orrore che a volte mi sorprendeva ametà del mio lavoro, impedendomi diproseguirlo, durò più di seisettimane, fino all'inizio disettembre. Il manifesto che Karl Krausfece affiggere in quel periodo ebbe

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l'effetto di una catarsi, liberandomidi quella paralisi. Ma il mio orecchiorimase sensibile alla voce dellamassa. Quel giorno era stato dominatodal tremendo fragore delle urla, urladi sdegno. Erano urla micidiali, alleurla rispondevano gli spari, e le urladiventavano più forti ogni volta chele persone colpite crollavano alsuolo. In alcune strade le urla sispegnevano, in altre si gonfiavanosempre più, e man mano che ci siavvicinava all'incendio diventavanopiù forti, addirittura inestinguibili.Non molto tempo dopo le urla sitrasferirono nelle vicinanze dellaHagenberggasse. A meno di un quartod'ora di strada dalla mia camera, aH�tteldorf, dall'altra parte dellavalle, si trovava il campo sportivodella Rapid, sul quale si giocavano lepartite di calcio. Nei giorni di festavi accorreva una gran folla, che nonsi lasciava sfuggire una sola partitadi quella celebre squadra. Io non ciavevo mai badato gran che; il calcionon mi interessava. Ma una delledomeniche dopo il 15 luglio, era ungiorno altrettanto afoso, mentre stavoaspettando visite e tenevo aperta lafinestra, sentii, all'improvviso, legrida della massa. Pensai che fosserourla di sdegno; l'esperienza di quelgiorno terribile era ancora a talpunto radicata in me che per un attimorimasi sgomento e cercai con losguardo il fuoco da cuiquell'esperienza era stata illuminata.Ma il fuoco non c'era, sotto il solebrillava la cupola dorata della chiesadello Steinhof. Tornai in me e mi misia riflettere: quelle urla dovevanovenire dal campo sportivo. Come perdarmi una conferma, quei suoni siripeterono; tesi spasmodicamentel'orecchio; non erano urla di sdegno,eppure era la massa che gridava.Ormai vivevo laggiù da tre mesi, enon ci avevo mai badato. Chissà quantevolte quei suoni potenti e stranierano già arrivati sino a me; ma ioero stato sordo, e solo il 15 lugliomi aveva aperto le orecchie. Quelladomenica non mi mossi più dal mioposto, e ascoltai tutta la partita. Leurla di trionfo erano state causate daun goal, e venivano dalla parte deivincitori. Si sentì anche e suonò bendiverso, un grido di delusione. Dallamia finestra non potevo vedere nulla,

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me l'impedivano alberi e case, ladistanza era troppa; ma sentivo lamassa, essa sola, come se tutto sisvolgesse a pochi passi da me. Nonpotevo sapere da quale parte venisserole grida. Non sapevo quali erano lesquadre in campo, i loro nomi non liavevo notati e neanche cercai diappurarli. Evitai perfino di leggerela cronaca sportiva sul giornale e,nella settimana che seguì, non milasciai coinvolgere in discorsisull'argomento.Ma durante i sei anni che trascorsiin quella stanza non persi occasionedi ascoltare quei suoni. Vedevo lafolla affluire laggiù, alla stazionedella ferrovia urbana. Se a una certaora ne vedevo più del solito, sapevoche di lì a breve ci sarebbe stata unapartita e prendevo posto alla finestradella mia camera. Non mi è faciledescrivere la tensione con cui seguivoda lontano la partita invisibile. Nonero parte in causa, perché le partineanche le conoscevo. Erano due masse,questo era tutto ciò che sapevo, duemasse ugualmente eccitabili, cheparlavano la medesima lingua. Separatodal teatro degli avvenimenti, e perciònon disturbato da cento particolari dipoco conto, ho avuto allora lasensazione di ciò che in seguito avreidefinito e cercato di descrivere come-massa doppia . Ogni tanto, quando eromolto preso dal mio lavoro, mettevo ilmio tavolo al centro della stanza escrivevo anche durante la partita. Ma,qualunque cosa scrivessi, non c'erasuono proveniente dal campo dellaRapid che potesse sfuggirmi. A quellegrida non mi abituai mai, ogni suonoproveniente dalla massa lasciava in mela sua impronta. Nei manoscritti diquell'epoca che ho conservato mi paredi poter riconoscere ancora oggi ognisingolo brano che scrissi mentre udivoquelle grida, come se essi fosserocontraddistinti da un'arcana notazionemusicale.Quel luogo, non ci sono dubbi,teneva desto l'interesse per il miovero compito anche quando mi dedicavoa tutt'altro. Ogni tanto, a intervallidi tempo non troppo lunghi, ricevevocosì un nutrimento sonoro. Nell'epocadel mio isolamento al margine dellacittà, un isolamento che per ottimimotivi avevo voluto e cercato, e alquale, infatti, devo le poche cose che

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sono riuscito a portare a terminenegli anni di Vienna, sono rimastosempre in contatto, anche quando infondo non ne avevo voglia, con quelfenomeno oscuro e misterioso che primadi ogni altro si imponeva alla miamente. Di tanto in tanto, in unmomento che non ero mai io ascegliere, esso si metteva a parlarmicon insistenza, riportandomi alprogetto al quale, altrimenti, avreiforse cercato di sottrarmi, perdedicarmi a compiti meno gravosi.A partire dall'autunno, ricominciaiad andare ogni giorno all'Istituto diChimica, per lavorare alla tesi, cheperaltro non m'interessava affatto. Laconsideravo un'occupazione secondaria,e accettavo di svolgerla soltantoperché ormai l'avevo incominciata.Prima o poi dovevo portare a terminetutto ciò che avevo iniziato: era unalegge fondamentale del mio carattere,di cui io stesso non sapevo farmi unaragione, non mi sarebbe sembratogiusto interrompere neppure i mieistudi di chimica, per i quali alloraostentavo disprezzo, dal momento cheormai ero arrivato a buon punto. Ma vicontribuiva inoltre un segretorispetto per la disciplina, che maiavevo voluto ammettere: la conoscenzadei veleni. Dopo la morte diBackenroth, li avevo sempre in mente,mai una volta mettevo piede inlaboratorio senza pensare con quantafacilità ciascuno di noi potevaprocurarsi del cianuro.In laboratorio c'era più d'unapersona che sosteneva, non del tuttoapertamente, e tuttavia in manierainequivocabile, che le guerre nonpossono essere evitate. Questaopinione non era sostenuta soltanto dacoloro che simpatizzavano per inazionalsocialisti. Essi erano giànumerosi, anche se quelli checonoscevo più da vicino, i mieicompagni di laboratorio, non avevanoun atteggiamento aggressivo e ostile.Nell'ambiente quotidiano di lavoro,essi non esprimevano quasi mai leproprie convinzioni. Personalmente,tutto ciò che avvertivo in loro era uncerto riserbo, che però si trasformavatalvolta in cordialità, non appenaessi notavano il mio disgusto per ogniforma di attaccamento al denaro.Alcuni dei compagni più parsimoniosierano gente di campagna, che non

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avrebbe affatto potuto mantenersi aglistudi senza fare economia, era genteche dimostrava apertamente la propriafelicità ogni volta che gli si dava unoggetto senza farsi pagare. Mi divertìlo sbalordimento di un ragazzotto dicampagna che, senza conoscermiaffatto, si sarebbe aspettato da me (adispetto di tutte le apparenzeesteriori) la personalità bendissimulata, di un perfettocommerciante di bestiame.Ma ho conosciuto anche qualchestudente alla cui franchezza eingenuità ripenso ancora oggi constupore. Durante una lezione incontraiun giovanotto che mi colpì per il suosguardo luminoso e per il suo modoenergico e al tempo stesso riservatodi muoversi in mezzo alla folla.Attaccammo discorso, e in seguito cirivedemmo ogni tanto. Era figlio di ungiudice e, a differenza di suo padre,mi disse che aveva fiducia in Hitler.Quella fede era sostenuta da motiviassolutamente personali, che eglidichiarava con assoluta franchezza,direi quasi con grazia: guerre nondovevano essercene mai più, la guerraera la peggiore delle sventure chepotesse capitare all'umanità, e sec'era un uomo in grado di salvare ilmondo dalla guerra, questi era Hitler.Quando gli dissi che ero convinto delcontrario lui tenne duro, dicendo chel'aveva sentito parlare, e Hitleraveva detto proprio così. Perquesto era dalla sua parte, e nessunoavrebbe mai potuto fargli cambiareidea. Rimasi talmente sbalordito chelo cercai di nuovo e ripresi con luiparecchie volte quello stessodiscorso. Ma egli non faceva cheripetere le stesse frasi sulla pace, one trovava di ancora più belle. Lovedo ancora davanti a me, il voltoardente di un apostolo della pace, emi auguro che non sia stato costrettoa pagare con la vita questa sua fede.Vivevo a tal punto a lato dellachimica, che non posso ripensare aquel periodo senza che mi vengano inmente volti e conversazioni che con lachimica non hanno nulla a che vedere.Forse era proprio questo uno deimotivi che mi spingevano ad arrivarepuntuale in laboratorio e afrequentare regolarmente le lezioni:la possibilità di incontrarvi un grannumero di giovani, senza bisogno di

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andarmeli a cercare. In quel modo hoconosciuto, incidentalmente e connaturalezza, tutti gli orientamentiideologici dell'epoca, senza farci suuno studio particolare. Alloraperlopiù, nessuno pensava realmentealla guerra, o, ammesso che qualcunoci pensasse, si trattava della guerrapassata. Ricordare che allora, nel1928, ci sentivamo così lontani da unanuova guerra, mi riempie di terrore.Che la guerra, così, all'improvviso,potesse tornare, e tornare come fede,non era senza rapporto con la naturadella massa, e non fu affatto unistinto sbagliato quello che miindusse a indagare nelle pieghenascoste di quella natura. Allora nonmi rendevo conto di quante cose stavoimparando, in laboratorio, daconversazioni su argomentiapparentemente futili e di scarsaimportanza. Venivo a contatto contutte le fedi politiche chesuggestionavano il mondo a quel tempoe, se fossi stato realmente aperto(come mi illudevo di essere) a ognirealtà concreta, avrei potuto ricavareda quelle conversazioni apparentementeirrilevanti tutta una serie dicognizioni assai significative. Ma ilmio rispetto per i libri era ancoratroppo grande; avevo appena cominciatoa percorrere la strada verso il verolibro, il singolo uomo raggomitolatoin se stesso.Da quando abitavo nellaHagenberggasse, la strada per arrivare fino aVeza era davvero lunga; fra noi c'eratutta Vienna, nella sua massimaestensione. La domenica lei miraggiungeva, nelle prime ore delpomeriggio, e andavamo al LainzerTiergarten. Il tono dei nostricolloqui non era cambiato, iocontinuavo a darle ogni nuova poesiache scrivevo, lei le custodiva tutte,con cura, in una piccola borsa dipaglia e durante la settimana miscriveva, commentandole, delle bellelettere che io custodivo in casa miacon cura non minore. Ormai c'era moltospazio fra noi, e nel LainzerTiergarten sviluppammo un vero eproprio culto per gli alberi. Sitrovavano, in quel parco, alcunisplendidi esemplari che andavamo acercare con aria da intenditori, persederci ai loro piedi.Uno di quegli alberi svolse una

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parte piuttosto inconsueta. AttraversoIbby Gordon, la persona più gaia delmondo, avevo conosciuto le mascheremortuarie. Quelle immagini miappassionavano a tal punto che regalaiil libro a Veza. Era, non ci avevopensato, una grave mancanza di tattoda parte mia, perché tutto ciò cheaveva a che fare con la morteapparteneva al regno di Veza. Quandole portai il libro di cui le avevoparlato, lei fece una smorfia da corvomaligno e lo gettò con rabbia sulpavimento. Io lo tirai su, lei dinuovo lo gettò a terra e si rifiutò diaprirlo. Non era roba per lei, disse,era roba per quell'altra persona, chesi spacciava per poetessa esghignazzava sempre, era lei che miaveva fatto scoprire le maschere.Disse proprio -sghignazzava ; Veza nonconosceva Ibby, ma io le avevoraccontato della sua gaiezza e, datoche la gaiezza era ciò che a Veza piùmancava, lei pensava che io ritenessiIbby una poetessa soltanto per quellaragione, per la sua gaiezza; e nonpoteva accettare che Ibby, con le suemaschere mortuarie, facesse irruzionenel suo mondo.Mi ripresi il libro, Veza minacciavadi gettarlo fuori dalla finestra ecertamente l'avrebbe fatto. La suagelosia era per me una novitàpiacevole. A Veza raccontavo tutto,ero assolutamente sincero con lei, leavevo detto che a Ibby non mi legavanull'altro che le nostrechiacchierate, e lei ci credeva. Madurante quelle chiacchierate capitavaogni tanto che Ibby mi recitasse lesue poesie in ungherese. Un giornoarrivai da Veza tutto entusiasta ecominciai a inneggiare alla bellezzadell'ungherese, il cui suono finoallora non mi era mai piaciuto. Dissiche era, senza alcun dubbio, una dellelingue più belle del mondo, eraccontai a Veza che Ibby cercava ditradurre nel suo buffo tedesco lepoesie che scriveva in ungherese. Ioavevo messo un po' d'ordine in queltedesco impossibile, pieno zeppo dierrori, e Ibby poi aveva ricopiato laversione corretta. Erano, dissi,poesie estremamente argute, bendiverse dalle mie, così selvagge efrenetiche; erano poesie fredde epiene di spirito, che Ibby avevascritto assumendo un ruolo ben

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preciso, che cambiava di volta involta. Veza ascoltò ogni cosa per filoe per segno; le dissi esplicitamenteche non potevo certo riconoscere aquei versi la dignità di vere poesie(e questo era vero, stando alle mieconvinzioni di allora); tuttaviabastava guardarmi mentre parlavo percomprendere che le avevo ascoltate ecorrette con grande piacere.Passò un po' di tempo, poi ci fu lascena delle maschere mortuarie, e nonmi è facile riferire i fatti cheseguirono. Dovrei raccontare come Vezaarrivò un giorno nella Hagenberggasse,salì in camera mia (io non c'ero),prese tutte le sue lettere (sapevadove le tenevo) e se le portò nelLainzer Tiergarten. Dovette camminareper un bel po', ma finalmente trovò unpunto in cui il muro era sbrecciato, eperciò poté scalarlo senza troppafatica. Poi cercò un albero che sibiforcava più o meno all'altezza deisuoi occhi e lì, in una cavità, deposeil grosso pacco delle sue lettere.Quindi se ne tornò nellaHagenberggasse e, arrivando, mi trovòa casa. Mi accorsi che era in unostato di grande eccitazione, e benpresto riuscii a farle dire che le suelettere non c'erano più; ammise diaverle portate via; nel bosco, disse,le ho buttate nel bosco. Fui preso dalpanico e la scongiurai di farmi vederedove, certamente non ci era passatoancora nessuno, quel giorno il parcoera chiuso, ero sicuro che avremmopotuto trovare e salvare le suelettere. Il mio panico le fece bene,quanto tenessi alle sue lettere eraimpossibile non vederlo; insomma, silasciò ammansire e mi guidò subito suisuoi passi, mentre io non le davotregua, ripercorrendo il cammino,tutt'altro che breve, nel parco. Ciarrampicammo sul muro, Veza ritrovòl'albero (se l'era guardato moltoattentamente), mi disse che dovevoraggiungere la biforcazione, cosìfeci, le mie dita sentirono la carta.Erano le sue lettere, ne ero sicuro;le tirai fuori, le abbracciai e lebaciai. Ballai, tenendole in mano, sulmuro e per tutta la strada, fino allaHagenberggasse. Veza mi veniva dietro,ma io non le badavo, tutta la miaattenzione era concentrata sullelettere salvate, tenevo il pacco frale braccia come se fosse un bambino,

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salii in camera facendo gli scalini aquattro a quattro e rimisi le letterenel loro cassetto. Veza fu moltocommossa dal mio comportamento, lagelosia era sparita, ora ci credevache la amavo moltissimo.Può darsi che da allora io abbiavisto Ibby più raramente; ma continuaia vederla, e quando ci incontravamo alcaffè, le chiedevo nuove poesie. Ibbyle recitava volentieri, io volevosempre sentirle prima in ungherese epoi, dopo che mi ero lasciatoincantare dal loro suono, ci mettevamoinsieme a tradurle in tedesco. Ricordoancora qualche titolo: Suicida sulponte, Il capo dei cannibalimalato, Culla di bambù, Pamela,Emigrante sul Ring, Funzionaricomunali, Déjàvu, Ragazza conspecchio. Con l'andar del tempo, Ibbyaccumulò una piccola scorta di poesietradotte in tedesco, ma, finché rimasea Vienna, non ne fece nulla; le suepoesie servivano solo a divertire noidue. Se prima non le avessi ascoltatein una lingua di cui non capivo unasola parola, forse quelle poesie nonmi avrebbero detto proprio niente. Mami piaceva la loro leggerezza,l'assenza di ogni pretesa aulica oprofonda, quel -parlato fatto dilocuzioni correnti ma sempre inattese,tutti elementi che prima non avrei maimesso in relazione con la -poesia .Non le feci vedere nessuna delle miepoesie, la cosa mi imbarazzava. Dallanostra conversazione, sempre coloritae ricca di trovate, Ibby si era fattal'idea che fossero cose mirabolanti,di cui lei non era del tutto degna.Risparmiargliene la lettura lesembrava solo un riguardo da partemia. Non volevo umiliarla, pensava, edi questo mi era grata; e intanto miintratteneva con tutte le storie deglisciocchi che le facevano la corte,assillandola vanamente.Le cose andarono avanti così finoalla primavera del nuovo anno. PoiIbby non ne poté più. Soprattutto trai due fratelli la lotta per ottenere isuoi favori era diventata feroce,insomma la faccenda si era fattaseria. Ibby ne fu molto infastidita,tutto questo la annoiava; così ungiorno sparì da Vienna. Per quasi duemesi non seppi più niente di lei. Poi,quando ormai avevo perso quasi ognisperanza, arrivò una sua lettera da

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Berlino. Stava bene, scriveva, letraduzioni delle sue poesie le avevanoportato fortuna. Non so chi l'avesseintrodotta a Berlino; anche in seguitosu questo punto Ibby non mi disse mainulla, neanche una sillaba; fatto stache di colpo si trovò in mezzo apersone interessanti, conobbe Brecht eD�blin, Benn e George Grosz; le suepoesie erano state accettate dal-Querschnitt e dalla -LiterarischeWelt , e presto sarebbero statepubblicate. Poi scrisse di nuovo,insistendo con calore perché andassi aBerlino anch'io, almeno per le vacanzeestive. Lo sapeva benissimo, diceva,che da luglio a ottobre ero libero,per tre mesi interi. Un suo amico, uneditore, mi avrebbe ospitatovolentieri, aveva bisogno di qualcunoche gli desse una mano a mettereinsieme il materiale per un libro. Perme far colpo su quella gente sarebbestato facile come un gioco, e leiaveva una tale quantità di cose daraccontarmi che neppure tre mesisarebbero bastati.Le lettere si infittirono e, manmano che l'estate si avvicinava,diventarono più pressanti. Dovevoproprio sempre andare in montagna?Ormai le conoscevo certamente amemoria, e poi, che cosa c'era almondo di più noioso delle montagne? Lemontagne avevano la tremendacaratteristica di non cambiare mai, edunque non sarebbero scappate. Ma cheBerlino rimanesse ancora per moltotempo così interessante com'era ora,questo no, non poteva garantirmelo. Eche cosa ne sarebbe stato di lei ilgiorno che non avesse più avutopoesie? Nessuno era bravo come me atradurle, e non sarebbe stato affattoun lavoro, a noi due bastava stareinsieme a chiacchierare per far saltarfuori le poesie in tedesco. Avevodavvero il coraggio di lasciarlamorire di fame laggiù, proprio ora cheaveva finalmente la possibilità diguadagnarsi da vivere con le suepoesie?Forse pensava davvero allatraduzione delle sue poesie; ma credoche tenesse ancor di più alle nostrechiacchierate, a potermi raccontaretutto, prendendo in giro la gente asuo piacimento, senza guastarsi con isuoi nuovi amici. Non ce la faceva piùa tacere, aveva un'infinità di cose da

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raccontarmi. Una volta mi scrisse che,se non fossi andato subito da lei,presto avrei letto sui giornali unanotizia tremenda: a Berlino eraesplosa una poetessa, perché costrettaal silenzio.Le sue lettere erano dosate in modotale da farmi intendere con estremachiarezza che tacevano qualcosa: maquello che non poteva scrivermi mel'avrebbe raccontato a voce a Berlino.Era una città estremamente eccitante epiena di cose straordinarie, leistessa non poteva credere ai suoiocchi.La mia curiosità cresceva ogni voltache ricevevo una sua lettera. Tutte lepersone da lei nominate erano famoseper qualche motivo. Dei poeti checitava non avevo letto quasi nulla ma,come chiunque altro, sapevo chi erano.E, più di qualsiasi poeta, per mecontava George Grosz. L'idea che avreipotuto vederlo fu decisiva.Il 15 luglio 1928, appena terminatoil semestre, partii per Berlino conl'idea di passarvi l'estate.Parte quarta: La ressa dei nomi(Berlino 1928).I fratelli.Wieland Herzfelde aveva una mansardain una casa del Kurf�rstendamm, alnumero 76. La casa sorgeva proprio inmezzo alla baraonda, ma lassùl'atmosfera era tranquilla, al chiassoquasi non si pensava. Durante l'estateWieland si era trasferito con lafamiglia fuori città, vicino alNikolassee; una parte della casa diBerlino l'aveva affittata, il resto melo mise a disposizione per lavorare.Avevo una piccola camera da letto e,accanto ad essa, uno studio con un beltavolo rotondo. Sul tavolo eraammucchiato tutto ciò che potevaessermi utile per il mio lavoro. Inquesto modo, con mia grandesoddisfazione, potevo lavorareindisturbato, senza bisogno di andarein casa editrice, dove il chiasso eramolto e lo spazio poco. Wieland siallontanò dal suo ufficio per un paiod'ore, per discutere a casa con me ilsuo progetto. Si trattava di unabiografia di Upton Sinclair, cheproprio in quei giorni festeggiava ilsuo cinquantesimo compleanno. La casaeditrice Malik era nota soprattuttoper la pubblicazione dei disegni diGeorge Grosz. Ma si interessava anche

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alla letteratura russa più recente, enon soltanto a quella. Infatti, dopoaver pubblicato un'edizione delleopere complete di Gorkij e un'edizionedi Tolstoj, si concentrò soprattuttosugli autori che si erano affermatidopo la Rivoluzione. Per me il piùimportante di tutti era Isaac Babel,che ammiravo molto, non meno di GeorgeGrosz.La Malik, tuttavia, oltre ad avereun nome di prestigio, vantava anche unnotevole successo di pubblico, dovutoessenzialmente a Upton Sinclair,l'autore più importante della casa. Inseguito alle sue rivelazioni suimattatoi di Chicago, Upton Sinclairera diventato uno degli scrittori piùletti d'America. Scriveva moltissimo,sforzandosi continuamente di trovarenuovi abusi degni di esserestigmatizzati dalla sua penna. Questinon mancavano, Sinclair era coraggiosoe lavorava molto, e così ogni annousciva un suo nuovo libro, ogni voltapiù grosso. Di lui si parlava conrispetto, soprattutto in Europa.Allora stava per compierecinquant'anni e aveva già pubblicatoun numero tale di libri che per unaltro potevano essere l'opera di tuttauna vita. E'è anche dimostrato che ilsuo romanzo su Chicago [La giungla]portò all'eliminazione di alcuni abusinella gestione dei mattatoi cittadini.Non meno importante per la suanotorietà fu la circostanza che laletteratura americana moderna,destinata in seguito a conquistare ilmondo, era a queli'epoca soltanto agliesordi. La fama di Upton Sinclair eralegata al -tema dei suoi libri,l'America, ed è significativo che siastato proprio Sinclair, il qualeattaccò quasi ogni aspetto della vitaamericana, da vero muckraker (*)qual era, a diffondere più di ognialtro l'interesse per il suo paese, ea dare il contributo più rilevante aquella moda -americana che alloraimperversava a Berlino e contava frale sue vittime Brecht, George Grosz emolti altri ancora. L'influenza di DosPassos, di(*) Cacciatore di scandali[N'd'T'].Hemingway, di Faulkner, scrittori distatura incomparabilmente più elevata,si fece sentire soltanto in seguito.Allora, nell'estate del 1928, non si

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poteva criticare Wieland Herzfelde seprendeva sul serio Upton Sinclair eaveva persino in mente di scrivere unasua biografia. Ma poiché il lavorodella casa editrice lo occupavamoltissimo, Wieland aveva bisogno diuna mano; per questo mi avevainvitato, su raccomandazione di Ibby,a passare in casa sua i mesi estivi.Arrivato a Berlino, non potevocamminare in città per più di diecipassi senza incontrare un uomo famoso.Wieland conosceva tutti e subito mipresentò a tutti. Io a Berlino non eronessuno, e lo sapevo benissimo; aventitré anni ancora non avevo fattonulla, avevo soltanto una grandefiducia in me stesso. Eppure fuitrattato in un modo che mi sorprese:non con disprezzo, ma con curiosità e,soprattutto, senza condannesbrigative. Dal canto mio, dopo aversubìto per quattro anni l'influenza diKarl Kraus, non avevo in testanient'altro se non una quantità digiudizi sprezzanti e di condanne senzaappello, e non potevo attribuire alcunvalore a tutto ciò che recava i segnidell'egoismo, dell'avidità o dellasuperficialità. Karl Kraus aveva datoprescrizioni precise riguardo a tuttociò che bisognava condannare. A noinon era neanche permesso di prenderlein esame, perché Kraus lo aveva giàfatto e la sua decisione valeva pertutti. A Vienna, perciò, la vitaintellettuale era come sterilizzata,vi regnava una forma particolared'igiene che vietava qualsiasipromiscuità. Appena un argomento eradiventato di dominio pubblico e finivasulle pagine dei giornali, subitoveniva messo al bando da Kraus eperciò diventava intoccabile.A Berlino mi trovai immerso di colpoin una vita totalmente opposta; là icontatti, contatti incessanti e diogni genere, erano diventati il verocontenuto dell'esistenza. Pur senzarendermene conto, dovevo esserepredisposto a quel tipo di curiositàintellettuale, perché ad essa cedettiingenuamente, con assoluto candore;proprio come a Vienna, subito dopo ilmio arrivo, mi ero gettato a capofittonelle fauci della tirannide, che miavevano graziosamente preservato daqualsiasi tentazione, così ora, aBerlino, mi lasciai travolgere peralcune settimane dalla Babele del

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peccato. Per fortuna non ero solo,avevo due persone che mi guidavano,Ibby e Wieland, ed erano talmentediverse tra loro che ricevetti unduplice aiuto.Wieland conosceva tutti, perché erasul posto da tempo. Era arrivato aBerlino prima della guerra, adiciassette anni, e si era conquistatol'amicizia di Else LaskerSch�ler.Grazie a lei aveva conosciuto lamaggior parte dei poeti e dei pittoriberlinesi, soprattutto coloro che siraccoglievano intorno allo -Sturm . MaWieland doveva alla LaskerSch�leranche di più, ossia il nome della casaeditrice che aveva fondato all'età diventun anni, insieme a suo fratello ea George Grosz; ebbene, non sono io ilsolo a ritenere che quel nome esotico- Malik - contribuì notevolmente a farconoscere la casa editrice. Fra lostupore di tutti, Wieland si erarivelato un ottimo uomo d'affari. Lasua abilità contrastava talmente conil suo fresco aspetto d'adolescenteche quasi non sembrava credibile.Wieland, in fondo, non era unavventuriero, e tuttavia molte personeerano conquistate dal gustodell'avventura che gli venivaattribuito. Entrava facilmente instretto contatto con la gente, propriocome un bambino, ma non si lasciavamai irretire da nessuno e siallontanava dalle persone con lastessa rapidità con cui le avevaavvicinate. Non avevi mai lasensazione che appartenessecompletamente a qualcuno. Sembrava chepotesse piantarti in asso in qualsiasimomento. Non gli si attribuivanolegami sentimentali e la gente sidomandava da dove egli traesse lapropria forza. In effetti era sempresul chi vive, sempre agile e pronto,mai appesantito da cognizioni inutili;benché aborrisse la cultura corrente,era sempre bene informato, ma solograzie al suo ottimo fiuto e non aletture astratte coltivate con zelo;eppure, quando si trattava dipubblicare un libro, diventavasorprendentemente preciso e, tutto aun tratto, ostinato e puntiglioso comeun vecchio signore. I dueatteggiamenti, quello dell'adolescentee quello del vecchio signore ricco diesperienza coesistevano in luisimultaneamente e in parallelo e si

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facevano avanti a turno, a secondadelle circostanze.C'era un uomo, però, che per Wielandera più che un parente. Wieland gliera legato da un cordone ombelicaleche probabilmente non era affattosegreto; la cosa, tuttavia, tendeva apassare inosservata, perché tra i due,nonostante il fortissimo legame, ladiversità era tale che sembravano natisu due diversi pianeti: quest'uomo eraJohn Heartfield, il fratello maggioredi Wieland, di circa cinque anni piùvecchio di lui. Wieland si abbandonavavolentieri alla tenerezza e allacommozione, lo si sarebbe potutodefinire un sentimentale, ma tale erasoltanto a tratti. Era un uomo chepoteva scegliere fra ritmi diversitutti ugualmente a lui congeniali; esolo uno, quello della commozione, eraun ritmo lento. John Heartfield,invece, era sempre rapido, le suereazioni erano talmente spontanee cheegli stesso ne era travolto; era unuomo magro, piccolissimo, e ogni voltache gli veniva un'idea faceva unsalto. Pronunciava le sue frasi conveemenza, come se, con un balzo,volesse avventarsi sul suointerlocutore, per poi ronzargliintorno con ira, come una vespa. Laprima volta lo notai in pienoKurf�rstendamm: stavo camminando,ignaro, fra lui e Wieland, cercando dispiegare a quest'ultimo, che mel'aveva chiesto, non so che cosariguardo alle termiti: -Sonocompletamente cieche, dissi -e simuovono soltanto in galleriesotterranee . Tutt'a un tratto JohnHeartfield saltò su, accanto a me, emi diede sulla voce, come se fossi ioil responsabile della cecità delletermiti, o come se le avessi accusatedella loro cecità: -Termite sarai tu!Tu sì che sei una termite! ; e dopo diallora non mi chiamò più in altromodo. Quella volta mi spaventai,pensavo di averlo offeso, e non sapevoperché, non gli avevo mica detto cheera lui una termite. Mi ci volle unbel po' per comprendere che eglireagiva così a tutto ciò che per luiera nuovo. Era questo il suo modo diimparare, poteva imparare soltanto conaggressività; e si potrebbedimostrare, credo, che in ciò risiedeanche il segreto dei suoifotomontaggi. Riuniva e metteva a

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confronto le cose che l'avevano fatto-saltar su , e la tensione di queibalzi è rimasta nei suoi fotomontaggi.John era, io penso, il piùirriflessivo di tutti gli uomini. Lasua vita era un continuo succedersi dimoti spontanei e irruenti. Riflettevasoltanto quando era alle prese con unfotomontaggio. Dato che non stava aragionare su ogni cosa come altriuomini, rimaneva giovanilmenteiracondo. Il suo modo di reagire erasenza dubbio una forma di collera, cheperò di egoistico non aveva nulla.John imparava soltanto se si sentivaaggredito; perciò, se voleva impararequalcosa di nuovo, doveva percepire lanovità come aggressione. Altrilasciano che il nuovo gli scivoliaddosso senza far presa, oppure lomandano giù a grandi sorsate, come unosciroppo. John doveva scuoterlo confurore, per poterlo trattenere senzaprivarlo della sua forza.Solo a poco a poco compresi quantoquei due fratelli fosseroindispensabili l'uno all'altro.Wieland non criticava mai nulla diquello che faceva John. Non cercavascuse per il suo insolitocomportamento, e neanche cercava dispiegarlo. Per lui era semplicementeovvio, e solo quando cominciò aparlare della sua infanzia compresiciò che li legava. Erano quattroorfani, due fratelli e due sorelle, ederano stati educati, da genitoriadottivi, ad Aigen, vicino aSalisburgo. Wieland si era trovatobene coi genitori adottivi, mentreHelmut, il maggiore (così si chiamavaJohn prima di prendere quel nomeinglese) aveva incontrato parecchiedifficoltà. Avevano sempre saputo chequelli non erano i loro veri genitori,e così tra loro si era creato unfortissimo attaccamento. La vera forzadi Wieland stava in quel legame consuo fratello. Si erano fatti insiemeuna posizione a Berlino. Perprotestare contro la guerra, Helmutaveva cambiato ufficialmente ilproprio nome in John Heartfield. C'eravoluto del coraggio, perché lo avevafatto in tempo di guerra. GeorgeGrosz, che incontrarono in quelperiodo, divenne per entrambi unintimo amico. Quando fondarono la casaeditrice Malik, John Heartfield,com'era naturale, si assunse

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l'incarico di progettare le copertine.Ciascuno aveva la propria famiglia,vivevano separati, non si opprimevanoné si limitavano a vicenda; eppure lisi vedeva sempre insieme, nella vitaturbolenta e iperattiva di Berlino simuovevano all'unisono.Brecht.La prima cosa che mi colpì in Brechtfu il suo travestimento. Mi portaronoa mezzogiorno da Schlichter, ilristorante frequentato dalla Berlinointellettuale. Soprattutto gli attorivi affluivano in gran numero, tiindicavano ora questo ora quello, esubito li riconoscevi, attraverso igiornali illustrati erano entrati afar parte dell'immagine d'obbligodella vita pubblica. Ma, bisogna dire,nel modo di muoversi, di salutare, diraccontarsi i pettegolezzi, dimangiare, di bere e di pagare il contonon facevano poi questa gran scena.Era un quadro variopinto, ma senza ilcolore del palcoscenico. Brecht ful'unico fra tutti che mi saltò agliocchi, a causa del suo travestimentoproletario. Era magrissimo, con unviso affamato che a causa delberretto, sembrava un po' storto; leparole gli uscivano di bocca legnose esmozzicate; sotto il suo sguardo tisentivi un oggetto prezioso ormaiprivo di valore, che lui l'uomo delbanco dei pegni, soppesava con i suoiocchi neri e penetranti. Parlava poco,e sul risultato della valutazione nonriuscivi a sapere nulla. Sembravaincredibile che avesse solotrent'anni; non aveva l'aspetto di unuomo invecchiato precocemente, ma diun uomo che è sempre stato vecchio.L'idea che Brecht assomigliasse a unvecchio usuraio in quelle settimanenon mi diede pace. Da quell'idea misentivo perseguitato, non foss'altroperché sembrava un controsenso. Essaera alimentata dal fatto che Brechtonorava l'utilità più di qualsiasialtra cosa e faceva notare in tutti imodi il suo grandissimo disprezzo peri -nobili sentimenti. E per utilitàegli intendeva utilità pratica, solidaefficienza; in ciò aveva qualcosadella mentalità anglosassone, nellasua variante americana. Il cultodell'americanismo allora aveva messoradici, soprattutto fra gli artisti disinistra. Per il numero delle insegneluminose e delle automobili, Berlino a

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quell'epoca gareggiava con New York.Non c'era nulla per cui Brechtmanifestasse una tenerezza pari aquella che dedicava alla suaautomobile. I libri di Upton Sinclair,che denunciavano scandali e abusi diogni genere, producevano un effettocontraddittorio. I lettoricondividevano, certo, lo stato d'animoche aveva portato all'aspra denunciadella corruzione, ma al tempo stessoassimilavano profondamente il sostratodella vita americana da cui quellastessa corruzione era sorta, eauspicavano il diffondersi, inestensione e profondità, di quel mododi vivere. Anche Chaplin, fra glialtri, allora si trovava a Hollywood,e il suo successo, persino inquell'atmosfera, poteva essereapplaudito con la coscienzatranquilla.Brecht aveva nell'aspetto anchequalcosa di ascetico, era una dellesue contraddizioni. La fame potevasembrare digiuno, come se egli siastenesse a bella posta da ciò che eraoggetto della sua cupidigia. Non eraun gaudente, in tutto ciò che èeffimero non trovava appagamento, nonriusciva a espandersi. Ciò cheprendeva (e prendeva alla rinfusa adestra e a manca, di sopra e di sotto,tutto ciò che poteva essergli utile)doveva adoperarlo subito, era lamateria prima della quale si servivaper produrre incessantemente. Erafatto così, fabbricava semprequalcosa, era questa la sua veranatura.I discorsi con cui provocavo Brecht,soprattutto quando affermavo che sideve scrivere soltanto perconvinzione, mai per denaro, nellaBerlino di allora dovevano suonaredecisamente ridicoli. Brecht sapevamolto bene ciò che voleva, e si facevaguidare a tal punto dalle proprieintenzioni che non gliene importavaaffatto se per quello che facevaveniva anche pagato. Anzi, dopo unperiodo di angustie economiche, ilfatto di ricevere dei soldi loconsiderava un buon segno, un segno disuccesso. Brecht sapeva come valutareil denaro, contava soltanto lapersona che lo prendeva, laprovenienza del denaro non avevaimportanza. Brecht era sicuro chenulla potesse distoglierlo dai suoi

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propositi. Chi lo aiutava arealizzarli si metteva dalla sua parte(altrimenti, si sarebbe dato la zappasui piedi). Berlino pullulava dimecenati, facevano parte delloscenario. Brecht se ne serviva senzafarsene dominare.Detto questo, i discorsi con cui iolo infastidivo pesavano meno di unapiuma. Del resto non lo vedevo quasimai da solo. C'era sempre Ibby connoi, e Brecht, data la sua mentalità,scambiava l'arguzia di Ibby percinismo. Aveva notato che Ibby mitrattava con rispetto, non accadevamai che lei si mettesse dalla suaparte; scandalizzarmi e farsi gioco dime, quando Ibby mi chiedeva unchiarimento in sua presenza, era unacosa che lo stuzzicava. Certe volte,riguardo a una cosa qualsiasi, dinessuna importanza, Brecht commettevaun errore; in tal caso Ibby non silasciava fuorviare da lui, adottava ilmio punto di vista e ne faceva tesoronella conversazione senza batterciglio, astenendosi però dalle battutecanzonatorie, che, a quel punto,sarebbero state indirizzate controBrecht. Dal fatto che Ibby, quando eracon lui, evitasse di prenderlo ingiro, Brecht doveva aver capito che lasua compagnia non le era indifferente.A modo suo, Ibby aveva cedutoall'eccitante atmosfera d'avanguardiache lo circondava.Brecht aveva scarso interesse per lepersone, e tuttavia le tollerava; davaretta a coloro che continuavano aessergli utili; gli altri li prendevain considerazione soltanto serafforzavano la sua concezione delmondo, peraltro piuttosto monotona.Col passar del tempo, proprio questaconcezione del mondo ha datoun'impronta sempre più forte ai suoidrammi, mentre nella poesia Brecht siè rivelato all'inizio di una vitalitàche non ha eguali tra i suoicontemporanei, e in seguito, grazie aicinesi - ma non è questo il luogo perparlarne -, egli ha raggiunto unasorta di superiore saggezza.La cosa suonerà sorprendente,eppure, con tutta l'ostilità cheprovavo per lui, devo ammettere chegli devo molto. Proprio in quelperiodo - pensare che quasi ognigiorno avevo con Brecht qualche brevebaruffa - lessi il Libro di

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devozioni domestiche. Quelle poesiemi entusiasmarono, le divorai in unsoffio, senza pensare all'autore.Alcune di esse mi penetrarono nelleossa, come la Leggenda del soldatomorto o Contro la seduzione; maanche Ricordo di Maria A' e Delpovero B' B'. Molte, la maggior partedi quelle poesie, mi fecero una grandeimpressione. Le mie composizioni eranopolverizzate, ridotte in cenere. Direche me ne vergognavo sarebbe dirtroppo; semplicemente non esistevanopiù, non era rimasto nulla, neppure lavergogna.Da tre anni la stima che avevo di mestesso traeva alimento dalle poesieche scrivevo. Eccetto che a Veza, nonle avevo mostrate a nessuno; a lei,però, le facevo vedere quasi tutte.Avevo preso sul serio il suoincoraggiamento, mi ero fidato del suogiudizio. Alcune poesie mi avevano atal punto inebriato, che mi sembravadi espandermi sino ai confinidell'universo. Avevo scritto di tutto,non solo poesie, ma per me contavanosoltanto le poesie - oltreall'intenzione di scrivere un librosulla massa. Ma quella era soloun'intenzione, chissà, potevanovolerci degli anni, e comunque, per ilmomento, ancora non c'era quasi nulla;solo qualche appunto, qualche breveabbozzo su cose che avevo imparato invista del mio libro; ma ciò che avevoimparato non erano idee mie, quelleerano ancora di là da venire. Ciò cheritenevo mio erano le moltecomposizioni in sé conchiuse, lepoesie ora brevi ora lunghe che avevoscritto, e ad un tratto tutto questoera spazzato via con un colpo dispugna. Non sentivo alcuna pietà perquella roba, me ne sbarazzai senzarammarico, erano solo macerie fumanti,nient'altro. Non cambiai ideasull'uomo che aveva scritto le verepoesie; tutto in lui mi respingeva, daquell'impulso irresistibile atravestirsi fino alla sua lingualegnosa; ma ammiravo, amavo le suepoesie.La mia avversione per Brecht eradavvero grandissima, sicché quando lovidi non gli dissi una parola sullesue poesie. In sua presenza, esoprattutto quando apriva bocca,venivo preso ogni volta da unsentimento di collera, che però non

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lasciavo trapelare più del mioentusiasmo per il Libro di devozionidomestiche. Ogni volta che Brechtpronunciava una delle sue solite frasiciniche, subito io replicavo con unafrase severa e altamente morale. Unavolta dissi - nella Berlino di alloradev'essere suonato buffo - che unpoeta deve isolarsi, se vuol farequalcosa di buono. Un poeta ha bisognodi periodi dentro il mondo e diperiodi fuori dal mondo, nel piùstridente contrasto tra loro. Brechtdisse che teneva sempre il telefonosul tavolo e che riusciva a scriveresoltanto se lo sentiva squillare incontinuazione. Una grande cartageografica del mondo era appesa allaparete di fronte a lui ed egli laguardava sempre, per non essere maifuori dal mondo. Io non cedetti, e,benché annichilito dallaconsapevolezza che le mie poesie eranoassolutamente inutili einsignificanti, perseverai nel dare imiei consigli all'uomo che scrivevaquelle poesie bellissime. La moraleera una cosa, i fatti un'altra:davanti a Brecht che teneva contosoltanto dei fatti, per me contavasolo la morale. Me la presi coimanifesti pubblicitari che infestavanoBerlino. Brecht replicò che lui non neera affatto disturbato e che anzi lapubblicità aveva il suo lato positivo.Aveva scritto una poesia sulleautomobili Steyr, disse, e in cambiogli avevano dato un'automobile. A mesembrava che quelle parole le avessepronunciate il diavolo in persona. Conquella confessione, sbandierata comeuna vanteria, Brecht mi debellò e miridusse al silenzio. Appena ce nefummo andati, Ibby osservò, come seniente fosse: -Gli piace molto guidarel'automobile . A me - sovreccitatocom'ero - sembrava un assassino: ioavevo in mente la Leggenda delsoldato morto e lui, intanto,partecipava a un concorso a premi perle automobili Steyr! -Anche adessovezzeggia la sua macchina, disse Ibby-ne parla come se fosse la sua amante.Perché non avrebbe dovuto vezzeggiarlaprima, in modo da farsela regalare? .Ibby piaceva a Brecht, cherispettava in lei quel piglio arguto epoco sentimentale che tantocontrastava col suo florido aspetto daragazza di campagna. Ibby, del resto,

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non lo disturbava, non gli chiedevamai niente, non si poneva inconcorrenza con nessuno, era comparsaa Berlino come la dea Pomona, e cosìcom'era venuta in qualsiasi momentopoteva scomparire. Il mio caso era bendiverso; ero arrivato da Vienna congrandi arie, votato alla purezza ealla severità di Karl Kraus, al quale,dopo il manifesto sul 15 luglio,appartenevo più che mai, anima ecorpo. E, come se non bastasse, nontenevo per me le opinioni altisonantie corroboranti di Karl Kraus, misentivo in dovere di sbandierarle.Erano passati solo due o tre anni daquando ero riuscito a sottrarmi allediscussioni domestiche riguardanti ildenaro, e il loro effetto non si eraancora esaurito: non vidi Brecht unasola volta senza manifestare il miodisprezzo per il denaro. Dovevoalzare la mia bandiera, dovevo giocarea carte scoperte: non si scrive per igiornali, non si scrive per denaro, diogni parola che si scrive si rispondecon tutto il proprio essere. Tutto ciòirritava Brecht per più di un motivo:non avevo pubblicato nulla, di me nonaveva mai sentito parlare e, per lui,che teneva in grande considerazione larealtà, dietro le mie parole c'era ilvuoto. Dato che nessuno mi aveva fattodelle offerte, non mi era mai capitatodi rifiutare nulla. Nessun giornale miaveva proposto una collaborazione,perciò non avevo avuto resistenze daopporre. -Io scrivo solo per denaro diceva Brecht, asciutto e astioso. -Hoscritto una poesia sulle automobiliSteyr, e in cambio mi han datoun'automobile Steyr . Eccola di nuovoquell'automobile, veniva fuori spessonei suoi discorsi, era fierissimodella sua Steyr, che guidava a rottadi collo. La distrusse in unincidente, ma riuscì a procurarseneuna nuova con un'altra trovatapubblicitaria.La mia situazione, però, era ancorapiù complicata di quanto si potrebbecredere da ciò che ho detto sin qui.Infatti l'uomo che era la mia fede ele mie idee, l'uomo che veneravo piùdi ogni altro al mondo, l'uomo che conle sue collere e il suo fervore eraper me una ragione di vita, l'uomo alquale non avrei mai osato avvicinarmi(una sola volta, dopo il 15 luglio,gli avevo rivolto una preghiera; ma

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non era una supplica, era unapreghiera di ringraziamento, e nonimmaginavo neppure che lui potesseascoltarla) - Karl Kraus, insomma, inquel periodo si trovava a Berlino edera in rapporti di amicizia conBrecht, lo incontrava spesso, e fuproprio attraverso Brecht che io loconobbi, quando mancava qualchesettimana alla prima dell'Opera datre soldi. Non vidi mai Kraus dasolo; era sempre in compagnia diBrecht e di altre persone interessatea quello spettacolo. Non gli rivolsila parola, mi vergognavo di farglicapire tutto ciò che egli significavaper me. Dalla primavera del 1924, dalmio arrivo a Vienna, non avevo persouna sola delle sue letture. Ma lui nonlo sapeva, e anche se Brecht il qualesenza dubbio aveva intuito quel che mipassava nell'animo, gli aveva rivoltoqualche osservazione scherzosa inproposito (il che era poco probabile),Kraus, comunque, non lasciò trapelarenulla. A quella esaltata lettera diringraziamento per il suo manifestosul 15 luglio non aveva badato perniente, ma era ovvio, il mio nome nongli diceva nulla, chissà quantelettere simili alla mia aveva ricevutoe buttato via.Preferivo di gran lunga che Krausignorasse tutto di me. Sedevo, incircolo, accanto a Ibby, senza direuna parola. Mi sentivo oppressodall'idea di esser seduto allo stessotavolo di un dio. Avevo la vagasensazione di essere un intruso. Krausera completamente diverso da come loavevo visto durante le sue letture.Non lanciava né frecciate né folgori,non condannava nessuno. Fra tutte lepersone sedute in quella stanza -saranno state dieci o dodici - egliera il più cortese. Li trattava tutticome se fossero persone fuoridell'ordinario, e le sue parolesuonavano premurose, come seassicurasse a ciascuno la suaparticolare protezione. Si sentiva chenessuno sfuggiva alla sua attenzione,sicché l'onniscienza che gli venivaattribuita restava intatta. Eppure simetteva a bella posta dietro aglialtri, uno fra i tanti, un uomo mite,pacifico preoccupato di non urtare lasuscettibilità dei presenti. E conquanta naturalezza sapeva sorridere! Ame in verità sembrava che fingesse.

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Dopo averlo sentito recitare nei ruolipiù diversi, sapevo quanto gliriusciva facile fingere; ma quellavolta lo vidi nell'unica parte che nonmi sarei aspettato da lui; e non lacambiò, per un'ora o più rimase lastessa. Da lui mi aspettavo coseinaudite e sentivo delle frasicomplimentose. Trattava condelicatezza ogni persona seduta a queltavolo; ma con amore, come se fossesuo figlio, trattava solo Brecht, ilgiovane genio - il suo figliod'elezione.La conversazione ruotava intornoall'Opera da tre soldi che ancoranon si chiamava così; si stava appuntodiscutendo del titolo da dare aquell'opera. Furono fatte molteproposte, Brecht le ascoltava conpacatezza, non sembrava affatto che siparlasse del suo dramma, né che eglisi riservasse la decisione ultima. Leproposte furono talmente numerose chenon riesco più a ricordarmi chi lefece. Anche Karl Kraus illustrò unasua idea, ma senza cercare d'imporla;anzi la gettò nel dibattito con ariainterrogativa, come se egli stessoavesse dei dubbi. Fu subitosoppiantata da un'idea migliore, maneppure quella restò padrona delcampo. Non so a chi sia venuto inmente il titolo definitivo; a proporlofu Brecht stesso, ma può darsi che glifosse stato suggerito da una personache non era presente, e che eglivolesse sentire che cosa ne pensavanogli altri. Nel suo lavoro Brecht avevauna sorprendente spregiudicatezza nelpassare sopra a ogni precisademarcazione di possesso.Ecce homo.-Adesso si va da Grosz mi disseWieland un giorno. A me non sembravapossibile che ci si potesse andarecosì, come se niente fosse. Wielandvoleva andare da Grosz a prendere nonso che di cui aveva bisogno per lacasa editrice, ma voleva anche farcolpo su di me; aveva notato subitoche a Berlino c'era un personaggioche io ardevo dalla voglia diconoscere. E per lui era un verodivertimento offrirmi tutto ciò che aBerlino esisteva di interessante. Lamia inesperienza non gli riuscivasgradevole. Gli ricordava la sua,quando era appena arrivato. Non avevala sete di dominio di Brecht, che era

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sempre circondato da adepti. Brecht,che voleva essere considerato un duro,aveva certo cominciato precocemente apresentarsi come tale. Sforzarsi disembrare più vecchi di quanto si è,non apparire mai giovani, così lapensava Brecht, l'ingenuità per Brechtera spregevole, lui la odiava e lametteva sullo stesso piano dellastupidità. Brecht non voleva farsimettere i piedi in testa da nessuno e,anche quando ormai non ne avrebbeavuto più bisogno da un pezzo,continuava a ostentare la sua precocematurità, come uno scolaretto che fumail suo primo sigaro e raduna i suoicompagni intorno a sé, perincoraggiarli. Wieland, invece erainnamorato della ingenuità dei proprianni infantili, li vedeva come unastagione idillica. Nella cinicaBerlino di quell'epoca gli erariuscito di affermarsi. Era tutt'altroche un uomo indifeso, aveva a portatadi mano tutte le leve giuste e si eradimostrato abile nella cosiddettalotta per la vita, che richiededurezza, ma soprattutto indifferenza.Eppure era in grado di farsi largosolo se restava fedele all'immagine diquell'ingenuo orfanello che un tempoera stato, e sapeva parlare di sestesso come se la sua situazione nonfosse mutata. Mentre lavoravamo cilasciavamo prendere, di tanto intanto, da quei discorsi e, per quantoassillante fosse allora il ritmo dellavita berlinese - quando stavamo sedutial tavolo rotondo in quella stanzadella sua mansarda, ci capitava spessodi allontanarci da Upton Sinclair, iltema del nostro lavoro, per rivolgercial giovane Wieland. In fondo ilWieland di allora aveva soltantotrentadue anni; ma il salto dalWieland di quindici anni primaappariva comunque vistoso. Wieland mimostrava tutto, e in primo luogo lepersone da conoscere a Berlino, comese egli stesso fosse arrivato per laprima volta in quella città, e sidivertiva al mio sbalordimento, senzaosservarlo troppo da vicino perché nonera tanto di me che gli importava,quanto di se stesso, di com'era statolui alla mia età. Per fortuna, non miumiliava mai: dappertutto mipresentava come -amico ecollaboratore . Eppure lo conoscevosoltanto da pochi giorni, e non avevo

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ancora collaborato affatto. Nonpretendeva da me alcuna garanzia, nonvoleva leggere niente di mio, forsegli avrebbe dato fastidio leggerequalcosa (è strano che Wieland,l'editore che ho conosciuto meglio epiù intimamente di ogni altro, non siamai diventato, neppure in seguito, ilmio editore). Per lui era sufficienteparlare con me. Alcune cose le avevasentite da Ibby, altre le raccontai iostesso, ma la cosa più importante perlui era potermi raccontare, nella suaBerlino, le sue ingenuità e il suoamore per la propria giovinezza.Insomma, ciò che gli importava era cheio lo stessi ad ascoltare e ineffetti, ascoltandolo, lo conquistai;non posso dire di averlo fatto percalcolo; lo ascoltavo volentieri, hosempre ascoltato volentieri la genteche parla di sé, questa inclinazioneapparentemente mite e passiva è in memolto forte, talmente forte dacostituire la mia idea più intimadella vita. Morto, sarò, quando nonascolterò più ciò che un uomo miracconta di se stesso.Perché mi aspettavo tanto da Grosz?Che cosa significava quell'uomo perme? Ammiravo i disegni di Grosz fin daquando, a Francoforte - dunque seianni prima - avevo visto i suoi librinella vetrina della libreria perragazzi. Da allora quei disegni nonero più riuscito a togliermeli dallamente, e sei anni, quando si ègiovani, sono molti. Fin dalla primaocchiata mi avevano colpito nelprofondo. Era proprio la stessasensazione che aveva suscitato in metutto ciò che avevo visto al tempodell'inflazione, compresa la visitadel signor Hungerbach e la sordità dimia madre, il suo rifiuto di prendereatto di qualunque cosa succedesseintorno a noi. Mi piaceva che queidisegni fossero così violenti, senzariguardi per nessuno, spietati,atroci. Vi erano raffigurate coseestreme, che perciò mi sembravanovere. Una verità di compromesso, unaverità che attenua, che si sforza dispiegare o di fornire giustificazioni,per me non era una verità. Sapevo chepersonaggi di quel genere esistevanodavvero, lo sapevo fin dagli anniinfantili di Manchester, quando nello-zio orco avevo ravvisato il mionemico, che tale per me sarebbe poi

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sempre rimasto. Non molto tempo dopoaver visto quei disegni, ascoltai KarlKraus a Vienna, e l'effetto fu lostesso. Ma sentendomi io votato allaparola, cominciai a imitare KarlKraus, il quale, soprattutto, potevainsegnarmi l'arte dell'ascolto, maanche, sino a un certo grado (e nonsenza una certa ripulsa da parte mia),la retorica dell'accusa. George Grosznon lo imitai mai, disegnare mi erasempre stato precluso. Cercavo etrovavo nella realtà i suoipersonaggi; ma sentivo nei suoiconfronti l'inevitabile distacco chederiva dall'uso di un diverso mezzoespressivo. Ciò che Grosz sapeva fareper me era irraggiungibile; egliparlava in un'altra lingua; riuscivo acomprenderla, ma non avrei mai potutoimparare a usarla per conto mio.Perciò Grosz non diventò mai unmodello per melo ammiravomoltissimo, ma non fu mai un modello.Quando entrai per la prima volta incasa sua, Wieland mi presentò, secondoil suo solito, come -amico ecollaboratore . Per conseguenza, nonmi sentii troppo piccolo. Non pensaiche Grosz conosceva bene tutti gliamici di Wieland e quindi, giàsoltanto per questo, sapeva certamenteche non ero uno di loro. Tutto a untratto mi trovavo a Berlino, di me nonsi era mai parlato prima, Ibby avevaannunciato il mio arrivo da Vienna,questo era tutto. La mia insicurezza,tuttavia, fu presto superata, perchéGrosz cominciò a mostrarci i suoidisegni. Mi trovai di fronte ad alcunilavori che aveva appena terminato.Grosz era abituato a mostrare i suoidisegni a Wieland, che li avevapubblicati e fatti conoscere. Lisceglievano insieme, e Wieland trovavai titoli. Anche quella volta, come perabitudine, vennero fuori dei titoli. AWieland piaceva suggerirne più d'uno,in fretta, uno dietro l'altro. Nonc'erano discussioni, di solito Groszaccettava i titoli di Wieland, che gliavevano portato fortuna.Grosz portava un abito di tweed e,diversamente da Wieland, era vigorosoe abbronzato. Stava aspirando la pipae sembrava un giovane capitano, noninglese però (parlava molto), caso maiamericano; ma aveva un atteggiamentocosì aperto e cordiale che il suo mododi vestire non mi parve un

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travestimento. Mi faceva sentirelibero e perciò davanti a lui milasciai andare, dimostrandomientusiasta di tutti i disegni che manmano ci mostrava. Lui se ne rallegrò,come se il mio entusiasmo contassemolto, e di tanto in tanto, se facevoqualche osservazione su un disegno,guardava Wieland ammiccando. Mivenivano in mente le parole giuste e,mentre davanti a Brecht non sapevoaprir bocca senza farmi prendere ingiro, in Grosz suscitavo interesse esimpatia. Mi domandò se conoscevo ilsuo album intitolato Ecce homo; no,dissi, la censura l'aveva vietato.Egli si avvicinò a una cassapanca, nesollevò il coperchio e prese unacartella, che mi porse come se fosseuna cosa da nulla. Pensavo che mel'avesse data da guardare e la aprii;ma la mia idea fu subito corretta:avrei potuto farlo a casa, con comodo,la cartella era un regalo per me. -Unregalo così non capita a tutti disseWieland, che conosceva l'impulsivitàdell'amico; ma avrebbe anche potutonon dirlo, nessun atto di generositàmi è mai sfuggito, e da quello rimasiletteralmente sopraffatto.Posai la cartella, per non lasciarmiandare a ridicoli gesti di felicitàcon la cartella in mano, e non avevoancora finito di esprimere la miagratitudine quando arrivò unvisitatore, l'ultima persona che avreidesiderato e che mi sarei aspettato divedere in quel momento: BertoltBrecht. Entrò con atteggiamentorispettoso, camminava un po' curvo eportava un regalo per Grosz, unamatita, una matita normalissima, chedepose, con gesto energico e carico disignificato, sul suo tavolo dadisegno. Grosz accettò il modestoomaggio, trasformandolo in qualcosa dipiù grande. Disse: -Mi mancava propriouna matita così. Mi fa veramentecomodo . Quella visita mi disturbava;tuttavia mi fece bene vedere Brecht daun punto di vista nuovo. Ecco com'era,quando voleva esprimere la suaapprovazione; il fatto che lo facessecon tanta riservatezza e parsimoniafaceva ancora più effetto. Mi chiesiin che rapporti fosse Grosz con lui, ese Brecht gli andasse a genio. Brechtnon rimase a lungo, e quando se ne fuandato, Grosz disse a Wieland,prendendolo da parte, come se io non

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dovessi sentire: -Non ha tempo, deveandare a piluccare la letteraturaeuropea . Il tono non era astioso, maforse un po' dubitativo, come seavesse su Brecht varie opinioni chetra loro non collimavano.Quando lasciammo Grosz, le nostrestrade si separarono; Wieland se neandò in casa editrice, mentre ioritornai nella mansarda, dove, al miotavolo rotondo, mi attendeva il lavoroai documenti sulla vita di UptonSinclair. Paragonata alle cose cheaveva scoperto come muckraker,ovvero cacciatore di scandali, la vitadi Sinclair sembrava noiosa: non percolpa delle vicende della suaesistenza (aveva avuto una vitadifficile), ma per la linearità dellesue idee. Era un puritano dalla testaai piedi, e a dire il vero, essendoloanch'io, una certa affinità tra noiera inevitabile; tuttavia, benchéapprovassi di tutto cuore i suoiattacchi contro la corruzione e gliabusi, la degradazione el'ingiustizia, mi rendevo conto cheessi erano totalmente privi di smalto,lo smalto della satira. Nulla distrano, perciò, che invece di mettermisubito al lavoro aprissi la cartellacon i disegni di Ecce homo: là c'eratutto ciò di cui si sentiva lamancanza in Upton Sinclair.La raccolta era stata vietata perchéritenuta oscena. E non si potevanegare che più di un disegno potessedare quell'impressione. Ma io accettaitutto, con una sensazione strana, incui si mescolavano orrore eapprezzamento. Dalla cartellaemergevano le figure più schifosedella vita notturna berlinese; maerano raffigurate in quel modo proprioperché l'autore provava nei loroconfronti un senso di schifo; così,almeno, pensavo io, attribuendo il miodisgusto anche all'artista. Non nesapevo ancora molto, ero a Berlino dauna settimana, giorno più giorno meno;quella a Grosz era stata una delleprime visite. A Brecht mi avevapresentato Ibby, da Schlichter; sitrattava di un poeta, e tanto bastavaperché Ibby fosse convinta che Berlinonon potesse offrire nulla di piùinteressante. Andavamo da Schlichterogni giorno; Brecht vedeva Ibbyvolentieri, ma siccome lei mi portavasempre con sé, forse proprio per

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questo Brecht mi aveva preso abersaglio delle sue beffe. Wieland nonvolle essere da meno; sapeva che citenevo a vedere Grosz molto di più chea vedere Brecht, e così, il sestogiorno circa dopo il mio arrivo, micondusse da lui.Ora che l'avevo portata a casa mia,la cartella di Ecce homo s'interposecome una lente fra me e Berlino; daallora quasi tutte le cose che vidi inquella città, soprattutto di notte,presero le tinte di quei disegni.Probabilmente, se non li avessi avuti,quelle stesse cose ci avrebbero messopiù tempo per penetrare in me.Continuavo ad avere un interessepiuttosto scarso per la libertàsessuale. Ma quei disegni, violenti espietati come mai ne avevo visti invita mia, mi ci fecero sbattere ilnaso, e tutto ciò che raffiguravano lopresi alla lettera; non mi sarebbeneanche venuto in mente di dubitarne:come certi paesaggi si vedono soltantocon gli occhi di determinati pittori,così io vidi Berlino con gli occhi diGeorge Grosz.Guardando quei disegni per la primavolta, ero talmente estasiato espaventato al tempo stesso, che nonriuscivo a staccarmene; e a un certopunto, quando Ibby entrò nella miastanza, vide disseminati sul tavologli acquarelli colorati che avevotrovato nella cartella come foglisparsi. Non mi aveva mai visto con unacosa simile in mano, e la scena lesembrò buffa: -Ci hai messo poco adiventare un berlinese; a Viennaandavi pazzo per le maschere mortuariee ora... disse, abbracciando i foglicon un ampio gesto della mano, come seio li avessi disposti sul tavolointenzionalmente e con cura. -Sai, continuò -a Grosz questa roba piacemolto. Quando è ubriaco si mette aparlare del -prosciutto . E'è alledonne che pensa e comincia a guardarlein una certa maniera. Io faccio fintadi non capire. Ma lui, allora, simette a cantare le lodi del-prosciutto . Ero indignato. -Non èvero! Non gli piace affatto! Perquesto i suoi disegni sono così belli.Credi che se no li guarderei? . -Tunon puoi soffrire questa roba, feceIbby -lo so, lo so benissimo. Perciò ate posso dire tutto. Ma a lui sì, alui piace! Aspetta di vederlo una

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volta ubriaco, quando se ne vien fuoricol suo -prosciutto .Ibby poteva parlare in questo modo,faceva parte del suo personaggio.Quando usava, in quel contesto, laparola -prosciutto , era impossibilenon capire a che cosa alludesse.Grosz, ubriaco, aveva cercato dimetterle le mani addosso e poi avevacominciato a cantare le lodi del suocorpo, lodi che forse avrebberooffeso, o quanto meno irritatoprofondamente, un'altra donna del suotipo. Quella parola si riferiva aIbby, e lei la ripeteva, ma dal tonodella sua voce non sembrava che lacosa la toccasse minimamente. Ibbyrestava inviolata, come se Grosz nonavesse mai cercato di allungare lemani, tutto ciò che la interessava erail racconto nudo e crudo che mi stavafacendo.Per questo mi aveva voluto aBerlino, per potermi raccontare tutto.Gli uomini la perseguitavano, dovunquesi presentasse fioccavano le allusionipiù scabrose. Con lei ci provavanosempre tre o quattro uominicontemporaneamente; prima o poi,pensavano, qualcuno l'avrebbespuntata. Ma nessuno ci riusciva, ecosì Ibby diventò un personaggioenigmatico. Si escogitavano le ipotesipiù astruse: non era affatto unadonna, dicevano, ne aveva soltantol'aspetto, era riuscita diversa dallealtre, forse era come sbarrata. Unindividuo particolarmente diffidentedella cerchia di Brecht, Borchardt sichiamava, sosteneva che Ibby fosse unaspia. -Da dove viene? E'è saltata fuoridi punto in bianco. Chi è? La si trovadappertutto, e sta sempre a sentirequel che si dice . Lei ne rideva,conservando il suo buon umore. Tuttoquesto lo trovava ridicolo; ma, finchéera sola a Berlino, non potevaconfidarsi con nessuno, perché in quelmondo, dove tutto era permesso, irapporti sessuali erano sacri evenivano presi terribilmente sulserio; mai quella gente avrebbeperdonato a Ibby le battute sfottentiche erano l'unica reazione che queltema le suggeriva. Ibby non potevavivere senza canzonare, prendere ingiro la gente con frasi spiritose einaspettate era la sua necessità, ilsuo impulso; per questo non avevaavuto pace finché non era riuscita ad

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attirarmi a Berlino.Quel che avevamo in comune era uninteresse insaziabile per ogni generedi persone. In lei la curiosità eravenata di umorismo, e io ascoltavovolentieri i racconti che mi ammannivacon tanta dovizia. Ma in realtà non litrovavo tanto buffi. Mi sentivoturbato dalla diversità delle persone,che pur facendo di tutto per riuscirea capirsi continuavano tuttavia a noncapirsi mai. Ognuno faceva parte perse stesso e, a dispetto di tutte leapparenze, restava solo; eppure nonsmetteva, continuava nel propriotentativo. Ibby mi raccontava deifraintendimenti clamorosi ai qualiaveva assistito, e in un gran numerodi malintesi incappavo io stesso, malei portava nel mio mondo molti esempiche io, uomo, non avrei mai potutosperimentare. Bella e corteggiatacom'era, Ibby non faceva che riceverele proposte più assurde; ma era comese lei non esistesse affatto, e al suoposto ci fosse una statua dotata diuna vita apparente, alla quale quelleproposte venivano indirizzate. E ciòche lei rispondeva non veniva uditoaffatto, neanche giungeva alleorecchie dei suoi corteggiatori; adessi premeva una cosa soltanto: farele loro proposte e, possibilmente,soddisfare i loro appetiti. Nonavrebbero saputo dire, alla fine, comemai non erano riusciti a ottenerenulla, dal momento che non erano ingrado di intendere le risposte di lei.E neanche li interessava molto saperequalcosa sui loro rivali; pur avendotutti il medesimo obiettivo, qualsiasicosa avessero appurato, l'avrebberotrovata strana e incomprensibile.Mentre Ibby teneva a mente con estremaesattezza ciascuna delle lorodichiarazioni e delle loro avances,per poterle capire, ognuno di loroavrebbe dovuto prescindere da sestesso; e nessuno era disposto afarlo.Isaac Babel.Un grande spazio, nei miei ricordidel periodo berlinese, è occupato daIsaac Babel. Non può essere rimasto aBerlino per molto tempo, eppure hocome la sensazione di averlo visto oree ore ogni giorno, per settimaneintere, anche se non sempre parlavamomolto. Mi piacque a tal punto (più ditutte le altre persone - e furono

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molte - da me incontrate in quelperiodo) che nella memoria mi si èdilatato, sicché, basandomi su diessa, sarei propenso a concederglitutti i novanta giorni che hotrascorso a Berlino.Babel veniva da Parigi, dove suamoglie, pittrice, era allieva di AndréLhote. In Francia si era fermato invarie località. Considerava laletteratura francese la sua terrapromessa e Maupassant il suo veromaestro. Gorkij, che aveva scopertoBabel, lo proteggeva con affetto e gliaveva dato i consigli più intelligentie lungimiranti che un uomo possadesiderare; l'aveva aiutato conprofonda intuizione delle suepossibilità, ma anche con acumecritico, senza egocentrismo,preoccupandosi di lui e non di sestesso, con serietà e senza ironia,ben sapendo com'è facile distruggereuno scrittore giovane, debole esconosciuto, prima ancora che egliabbia potuto rendersi conto dei suoitalenti nascosti.Dopo un periodo piuttosto lungopassato all'estero, Babel era aBerlino di passaggio, sulla via delritorno in Russia. Arrivò, se nonsbaglio, verso la fine di settembre, ecredo che in realtà non si siatrattenuto più di due settimane. Deidue libri che l'avevano reso famoso,L'armata a cavallo e le Storie diOdessa, entrambi pubblicati intraduzione tedesca dalla casa editriceMalik, il secondo l'avevo letto più diuna volta. Potevo ammirare Babel senzasentirmi troppo lontano da lui. DiOdessa avevo già sentito parlare dabambino, quel nome si collegava a unperiodo molto remoto della miaesistenza. Ritenevo che il Mar Nero miappartenesse, benché lo avessiconosciuto soltanto, per pochesettimane, durante il mio soggiorno aVarna. Era come se la forza variopintae selvaggia delle storie di Odessafosse stata alimentata dai ricordidella mia infanzia; senza saperlo,avevo trovato in Babel il capoluogonaturale di quella piccola regione delbasso Danubio; seOdessa fosse sorta alle foci delDanubio, la cosa mi sarebbe parsanaturale. In tal caso il famosoviaggio che aveva dominato i sognidella mia fanciullezza, il duplice

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viaggio che scendeva e risaliva lacorrente del Danubio, sarebbe andatoda Vienna aOdessa e da Odessa a Vienna, eRustschuk, che era piuttosto in basso,avrebbe trovato in quel percorso lasua giusta collocazione.Ero curioso di Babel come se fossenato in quella regione, della quale miriconoscevo figlio soltanto a metà.Solo in un luogo che si apriva sulmondo mi sentivo perfettamente a mioagio. E Odessa lo era. Così Babelaveva sentito quel luogo e le suestorie. Nella casa della mia infanziatutte le finestre guardavano Vienna.Ora, su un lato rimasto fino a quelmomento in disuso, era stata apertauna finestra verso Odessa.Era un uomo piccolo, tarchiato, conla testa perfettamente rotonda, nellaquale la prima cosa che ti colpivaerano le spesse lenti degli occhiali.Forse per via delle lenti, anche gliocchi, che teneva molto aperti,sembravano particolarmente rotondi esbarrati. Appena arrivava Babel,subito ti sentivi acutamenteosservato; e intanto ti dicevi, comeper ricompensarlo di tanta attenzione,che malgrado l'impressione suscitatadagli occhiali, era un tipo largo dispalle, vigoroso e niente affattogracile.L'incontro tra noi avvenne daSchwanecke, un ristorante che allorami parve assai lussuoso, forse perchéci si andava di notte, dopo il teatro,e pullulava soprattutto di divi dellascena. Quasi non facevi in tempo anotarne uno, che un altro, consideratoancora più importante, ti passavadavanti agli occhi; ce n'eranomoltissimi in quell'epoca di fiorituradel teatro, tant'è che rinunciavi benpresto a prender nota di tutti. MaSchwanek-ke era anche frequentato dascrittori, pittori, mecenati, criticie giornalisti di primo piano, e ognivolta Wieland - che sempre miaccompagnava - si dichiaravadispostissimo a darmi le informazioniche desideravo. Li conosceva tutti datanto di quel tempo che non glifacevano più il benché minimo effetto;in bocca sua i loro nomi non suonavanopomposi; sembrava, anzi, che eglimettesse in dubbio il loro dirittoalla celebrità, come se fossero

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sopravvalutati, e destinati ben prestoa scomparire dalla scena. Aveva anchelui la sua scuderia, gli autori cheaveva scoperto e di cui pubblicava ilibri e, com'è naturale, cercava diattirare su costoro l'attenzione delpubblico e di essi parlava piùvolentieri e più diffusamente che nondegli altri. Da Schwanecke, la notte,Wieland non si metteva a sedere a untavolo isolato insieme ai suoi fedeli,non teneva a distanza le altrepersone, anzi si mescolava volentieriai crocchi più folti, dove amici enemici sedevano alla rinfusa, ecercava un bersaglio da attaccare.Combatteva per la sua causa con audacisortite, non amava le posizionidifensive; di solito, però, non sifermava a lungo, perché notava benpresto un altro crocchio, nel qualesedeva qualcuno che gli faceva venirvoglia di partire di nuovoall'attacco. Non mi ci volle moltotempo per scoprire che non era il soloa prediligere questo metodoaggressivo. Ma c'era anche chisosteneva la sua battaglia a forza dilamentose recriminazioni, e persinoqualcuno che veniva lì, in mezzo aquel fracasso, soltanto per tenere labocca chiusa; era una minoranza,certo, che però si notava molto: voltimuti e contratti, che emergevano, comeisole, nel paesaggio tumultuoso,tartarughe attaccate alla lorobottiglia; dovevi chiederne il nomeagli altri, perché essi non reagivanoalle domande dirette.La sera in cui Babel comparve daSchwanecke per la prima volta, erariunita, intorno a un lungo tavolonella prima stanza, una brigatanumerosa. Io ero arrivato tardi e miero timidamente seduto all'estremitàdel tavolo, molto vicino alla porta,sul bordo di una sedia, in modo dapotermi eclissare velocemente inqualsiasi momento. Il -pezzo forte della compagnia era Leonhard Frank;aveva un viso marcato e rugheprofonde, sembrava che dopo averattraversato tutte le cime e tutti gliabissi ne fosse rimasto segnato, macon un certo compiacimento, in modovisibile a tutti; di figura eraslanciato e muscoloso, indossava unvestito di ottimo taglio e sembravasempre sul punto di scattare; unafrase gli sarebbe bastata per

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slanciarsi come una pantera sopra iltavolo, per tutta la sua lunghezza;ma, nel balzo, il vestito non sisarebbe sgualcito, non si sarebbespostato neanche di un millimetro.Nonostante le rughe profonde, nonaveva l'aspetto di un vecchio, maquello di un uomo nel fiore deglianni. Da giovane, si diceva conreverenza, aveva fatto il fabbro (o,come dicevano altri, menopoeticamente, il lattoniere). Forte eagile com'era, non c'era dastupirsene; riuscivo a immaginarmelodavanti all'incudine, ma senza quelvestito, che mi disturbava. Comunquenon si poteva negare che qui, daSchwanecke, egli si sentisseinfinitamente a suo agio.In modo diverso, la stessa cosavaleva anche per i poeti russi sedutiintorno al tavolo. Essi a quel tempoviaggiavano spesso, e a Berlino civenivano volentieri; quella vitaturbolenta e spensierata andavad'accordo con il loro temperamento.ConHerzfelde erano in rapporti cordiali; nonera l'unico editore dei loro libri, matra tutti era il più seguìto. I suoiautori non passavano mai inosservati,sarebbe stato impossibile, nonfoss'altro per le copertine disegnateda suo fratello, John Heartfield. Altavolo sedeva anche Anja Arkus, sidiceva che fosse una nuova poetessa;certo era la donna più bella cheavessi mai visto in vita mia, anche secrederlo sarà difficile, perché avevala testa di una lince. Il suo nome nonl'ho mai più sentito; forse ha scrittocon uno pseudonimo, o forse è mortaprecocemente.Dovrei parlare di altre personesedute a quel tavolo soprattutto dicoloro, oggi dimenticati, dei qualisono forse il solo a ricordare ilvolto, se non il nome. Ma qui nonposso farlo, perché quella sera èstata importante per un motivo benpreciso, sicché tutto il resto sembraimpallidire. Fu la sera in cui vidiper la prima volta Babel, un uomo chenon si faceva notare per nessuno degliaspetti che appartenevano tipicamenteall'atmosfera di Schwanecke: Babel nonera venuto come l'attore di se stessoe, per quanto fosse attratto daBerlino, non era -berlinese nellostesso senso degli altri, era

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piuttosto -parigino . La vita dellecelebrità non lo interessava più diquella della gente comune; forse,anzi, di meno. Non si sentiva a suoagio nella cerchia delle personeillustri e anzi cercava di evitarle;per questo motivo si rivolse all'unicapersona sconosciuta che sedeva a queltavolo e che, con quella compagnia,non aveva niente a che spartire.Quella persona ero io, e la sicurezzacon cui Babel se ne accorse, sin dalprimo sguardo, la dice lunga sul suocolpo d'occhio e sulla infallibilelucidità che aveva conquistato conl'esperienza.Non riesco a ricordare le primefrasi. Gli feci posto, ma lui restò inpiedi. Pareva indeciso se trattenersio no. Eppure, piantato lì, sembravairremovibile, come se si fossepiazzato davanti a un profondissimobaratro, noto a lui solo, persbarrarne l'accesso. L'impressionedipendeva forse dal fatto che le suelarghe spalle impedivano la vistadell'ingresso. Non vedevo più chientrava nel ristorante, vedevosoltanto lui. Con un'espressione discontento dipinta sul volto, rivolseai russi seduti al tavolo due o trefrasi incomprensibili, che però miispirarono fiducia. Ero sicuro che siriferissero al locale, che gliappariva sgradevole non meno che a me,ma lui poteva dirlo. Può anche darsiche mi sia accorto che quel locale nonmi piaceva soltanto grazie a Babel.Infatti la poetessa con il volto dilince sedeva poco lontano da me, e lasua bellezza compensava tutto. Citenevo che Babel restasse e in leiriponevo tutte le mie speranze. Chinon sarebbe rimasto, per starleaccanto! La poetessa gli rivolse uncenno per fargli capire che potevasedersi vicino a lei; ma Babel scosseil capo e indicò me con il dito. Quelgesto poteva significare soltanto chegli avevo già offerto io un posto asedere; tanta cortesia mi lasciòestasiato e confuso. Io mi sareiseduto senza esitare, sia pure conestremo imbarazzo, accanto allapoetessa; Babel invece, per nonmortificarmi, aveva rifiutato. A quelpunto lo costrinsi a sedersi al mioposto e andai a cercarmi una sedia. Manon se ne trovavano, mi avvicinai atutti i tavoli, vagai inutilmente nel

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locale per un po'; quando ritornai, amani vuote, Babel era sparito. Lapoetessa si riferì che, siccome nonvoleva rubarmi il posto, aveva decisodi andarsene.Quella sua prima azione, della qualeio ero stato il pretesto, potrà forsesembrare insignificante; ma, com'ènaturale, a me fece una grandeimpressione. Mentre stava là in piedi,con quella sua aria solida emassiccia, mi aveva ricordatoL'armata a cavallo e gli eventimeravigliosi e terrificanti da luivissuti, fra i cosacchi, durante laguerra russopolacca. Anche la scarsasimpatia per il locale che avevocreduto di notare in lui andavad'accordo con quell'impressione; equell'uomo, che aveva dietro di séun'esperienza così dura, così crudele,non solo aveva dimostrato tantadelicatezza d'animo e tanto rispettoper un giovane che non conosceva, mada quel momento lo onorò del suointeresse.Babel era molto curioso, a Berlinovoleva vedere tutto, ma -tutto perlui significava la gente, gente diogni tipo, non soltanto quelli chefrequentavano i locali degli artisti edelle celebrità. Il posto che glipiaceva più di tutti era Aschinger; làci ritrovavamo, fianco a fianco, amangiare, molto lentamente, una zuppadi piselli. Con i suoi occhi a palla,dietro le lenti molto spesse, Babelguardava gli avventori intorno a noi,li guardava tutti, uno per uno, esembrava non averne mai abbastanza.Gli seccava che a un certo punto laminestra finisse, avrebbe desideratoun piatto senza fondo; voleva,infatti, una cosa sola: continuare aguardare e, siccome la gente cambiavain fretta, di cose da osservare cen'erano molte. Non ho mai vistonessuno guardare con tanta intensità;rimaneva perfettamente immobile,soltanto l'espressione degli occhi,che inseguivano senza posa i varipersonaggi, mutava in continuazione.Guardando, non rifiutava nulla, erasempre serissimo, le cose più normalie quelle più insolite erano per luiugualmente importanti. Si annoiavasoltanto in mezzo agli spendaccioniche si trovavano regolarmente daSchwanecke o da Schlich-ter. Quando c'ero anch'io, Babel,

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entrando, mi cercava con gli occhi, eprendeva posto non troppo lontano. Manon restava seduto a lungo; poco dopo,mi faceva un cenno e diceva: -Andiamoda Aschinger! . E io, con chiunque mitrovassi, balzavo in piedi e loseguivo: il fatto che a Babel piacesseportarmi con sé da Aschinger loritenevo infatti l'onore più grandeche a Berlino potesse essermiconcesso.Ma non era tanto lo scialo neilocali celebri che Babel intendevastigmatizzare, facendo il nome diAschinger. Ciò che veramente nonpoteva soffrire era il continuopavoneggiarsi degli artisti. Tuttivolevano accentrare l'attenzione su disé, ognuno recitava la propria parte,l'atmosfera era resa letteralmenteirrespirabile da tante manifestazionidi vanità spietata. Babel era un uomogeneroso; per arrivare più in frettada Aschinger prendeva volentieri iltaxi, anche per distanze brevi, e almomento di pagare si avvicinava comeun fulmine al tassista e mi spiegava,con cortesia squisita, che dovevapagare lui. Aveva appena ricevuto unasomma di denaro, diceva, e non potendoportarla con sé, doveva spenderla aBerlino; l'istinto mi suggeriva chetutto ciò non era affatto vero; eppuremi costringevo a credergli, incantatodalla sua prodigalità. Babel non silasciò mai sfuggire quel che pensavadella mia situazione: che ero unostudente il quale, con ogniprobabilità, non guadagnava un soldo.Gli avevo confessato che ancora nonavevo pubblicato nulla. -Non importa, aveva detto -c'è tempo per questecose , come se fosse quasi unavergogna aver già pubblicato deilibri. Credo che mi avesse preso insimpatia perché aveva sentito il mioimbarazzo in mezzo a tutti queitromboni, preoccupati soltanto dellapropria celebrità. Con lui parlavopoco, molto meno che con tanti altri.E non parlava molto nemmeno lui,preferiva stare a guardare la gente;con me diventava loquace soltantoquando il discorso cadeva sullaletteratura francese. Ammiravasoprattutto Stendhal e Maupassant.Pensavo che mi avrebbe parlato alungo dei grandi scrittori russi; maper lui era certo un argomento tropposcontato; o magari gli sembrava una

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forma di ostentazione dilungarsi sullaletteratura del proprio paese. Forseperò c'era dell'altro; forse Babelrifuggiva dall'inevitabilesuperficialità di una simileconversazione: la lingua in cui eranoscritte le grandi opere di quellaletteratura era anche la sua lingua,mentre io, nel migliore dei casi,potevo conoscerle soltanto intraduzione. Non avremmo parlato dellastessa cosa. Babel prendeva laletteratura talmente sul serio che nonpoteva non detestare ogni giudizioimpreciso, ogni forma diapprossimazione. Il mio ritegno, delresto, non era minore: neanch'io me lasentivo di mettermi a parlare con luidell'Armata a cavallo e delleStorie di Odessa.Comunque sono convinto che dallenostre discussioni sugli scrittorifrancesi, Stendhal, Flaubert eMaupassant, Babel si sia reso contodel grande significato che le storieda lui narrate avevano per me.Infatti, ogni volta che gli chiedevoqualcosa, su questo o quell'argomento,mi riferivo, pur senza dirglielo, a unpasso dei suoi libri che avevo inmente. Babel riconosceva all'istantequel nesso da me sottaciuto, erispondeva in modo semplice e preciso.La soddisfazione per la sua rispostame la leggeva in faccia, e forse glifaceva piacere che io non mi sentissiimbarazzato nel porgli ulterioriquesiti. Babel mi parlava di Parigi,dove sua moglie, la pittrice, vivevaormai da un anno. Credo che fossestato da lei di recente, per portarlavia con sé, e che già avesse di nuovonostalgia di Parigi. Babel preferivaMaupassant a Cechov; tuttavia, quandofeci cadere il discorso su Gogol (ilmio scrittore preferito), egli così siespresse, con mio lieto stupore:-Questo i francesi non l'hanno, Gogolmanca ai francesi . E aggiunge, dopouna pausa di riflessione, percompensare quella che poteva sembrareuna vanteria: -I russi hanno forseStendhal? .Mi accorgo che su Babel hopochissimi elementi concreti dariferire, anche se per me ha contatopiù lui di qualsiasi altra personaincontrata a Berlino. In suacompagnia, mi sembrava di vedere tuttociò che avevo letto di lui: non era

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molto in verità, ma era stata unalettura così concentrata che il suoriverbero si proiettava su ogniistante che passavamo insieme. Eun'altra cosa mi piaceva di lui: ilsuo modo di accogliere le impressionidi una città sconosciuta, di unalingua che non era la sua. Non usavaparoloni ed evitava con cura dimettersi in mostra. Se poteva passareinosservato, vedeva meglio. Deglialtri accettava tutto, non scartavaneppure ciò che gli riuscivasgradevole, anzi, quanto più una cosalo faceva soffrire, tanto più lalasciava agire su di sé. Lo sapevo giàdalle sue storie di cosacchi: al lorofascino sanguinoso soggiacevano tutti,pur senza conoscere l'ebbrezza delsangue. Ora che Babel si trovava a tuper tu con il fascino smagliante diBerlino, ebbi modo di vedere quantofosse indifferente alle chiacchiere ealle vanità in cui tanti altrisguazzavano. In presenza di quel vuotosfavillio, Babel passava oltre confastidio, mentre osservava con occhiavidi un'infinità di persone intente aconsumare la loro zuppa di piselli.Sentivi che non sapeva prendere nullaalla leggera, anche se una cosa similenon l'avrebbe mai detta. Laletteratura per lui era sacra; era unuomo incapace di risparmiarsi, e mai epoi mai avrebbe potuto abbellirealcunché. Il cinismo gli era estraneo,e questo era in rapporto con la suaconcezione severa e impegnativa dellaletteratura. Ciò che trovava buono nonavrebbe mai potuto utilizzarlo, adifferenza di altri scrittori i quali,piluccando qua e là, davano aintendere di volersi presentare comeuna specie di coronamento di tutto ciòche c'era stato prima di loro. Per ilfatto di sapere che cos'è laletteratura, Babel non si sentivasuperiore agli altri. Dallaletteratura era posseduto, e non daglionori o dai quattrini che da essapotevano derivargli. Non credo di avervisto Babel diverso da com'era inrealtà, solo per il fatto che parlavacon me. Sono certo che Berlino miavrebbe corroso come liscivia, se nonl'avessi incontrato.Le metamorfosidi Ludwig Hardt.Una domenica capitai a una matinéedi Ludwig Hardt un dicitore amato dai

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poeti, un talento apprezzato da tutti,ma in particolare dall'avanguardia.Quando si parlava di Hardt, nessunostorceva il naso; neppure Brecht, chedi solito ne diceva di tutti i colori,osava pronunciare uno dei suoi solitiverdetti legnosi. Si diceva chesoltanto Ludwig Hardt sapesse recitarecon pari maestria la poesia classica equella moderna. La sua capacità ditrasformarsi veniva esaltata da tutti,era un vero attore, si diceva, unattore di rara intelligenza. I suoiprogrammi erano costruiti con granderaffinatezza. Nessuno, andando adascoltarlo, si era mai annoiato; equesto a Berlino voleva dir molto,perché era una città dove erano intanti a tentare la fortuna. Per quantoriguardava me e lo stato diasservimento nel quale allora mitrovavo, c'era un altro elemento chemi rendeva perplesso: Hardt era statoamico di Karl Kraus e infatti, neglianni precedenti, aveva letto alcunibrani degli Ultimi giornidell'umanità. Ma poi, proprio a causadi quella lettura, lui e Kraus avevanolitigato e rotto ogni rapporto. E oraal repertorio degli scrittori modernirecitati da Hardt mancava un soloautore significativo, l'unico che glifosse stato espressamente proibito:Karl Kraus.La matinée era dedicata a Tolstoj,e io ci andai con Wieland, Hardt avevascelto dei brani dall'edizione diTolstoj pubblicata dalla casa editriceMalik. Wieland, altrimenti, nonsarebbe certo venuto; già non smaniavaper gli attori in genere, e comunqueassisteva a uno spettacolo solo quandoproprio non poteva farne a meno. Erail suo modo di difendersi dall'eccessodi offerta che c'era a Berlino. Quellacittà, mi spiegava, logorava in frettale persone. Chi non trovava in sé lacapacità di resistere era perduto.Bisognava risparmiare la curiosità eriservarla soltanto alle coseimportanti per il proprio lavoro. Unconto erano quelli che venivano invisita e se ne andavano dopo un paiodi settimane, un conto erano loro, chesiccome a Berlino dovevano viverci unanno dopo l'altro non potevanocontinuamente lasciarsi intenerire.Perfino da Ludwig Hardt, ammirato datutti, Wieland si recava soltanto inonore della sua edizione di Tolstoj;

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comunque mi convinse ad accompagnarlo.Andai con lui e non me ne sonopentito. Non ho mai potuto dimenticareciò che Hardt recitò inquell'occasione. Ma quando, dopo lospettacolo, ci ritrovammo tuttiinsieme in casa di un mecenateberlinese, Hardt mi fece fare una diquelle figuracce dalle quali si imparadi più che da qualsiasi offesa. Ottoanni dopo, a Vienna, Ludwig Hardtdiventò mio amico.Era un uomo piccolissimo, cosìpiccolo che mi fece impressione. Avevauna testa stretta, scura, dameridionale, capace di trasformarsi inun batter d'occhio, così in fretta ecosì profondamente da non riuscire piùa riconoscerlo. Sembrava che fossescosso da lampi, lampi che recitava,figure e poesie che aveva nellamemoria, e che a tal punto gliappartenevano che sembravano nate conlui. Non poteva star fermo un attimo,a meno che non diventasse unpersonaggio corpulento e tardo neimovimenti, come lo zio Eroªska deiCosacchi di Tolstoj; e fu proprio inquesta parte che lo vidi per la primavolta. La sua testa era diventataperfettamente rotonda, il torace ampioe robusto. Era bravissimo a giocarecoi baffi, e io avrei giurato che inscena si fosse messo un paio di baffifinti (quando in seguito dichiarò chenon aveva mai portato i baffi in vitasua, e neanche si sognava di andare ingiro con i baffi finti in tasca, ionon gli credetti). Fra tutti ipersonaggi di Tolstoj, quel cosacco èrimasto per me il più vivo, perchélui lo recitò. Era un vero prodigiovedere come il piccolo, delicatoLudwig Hardt si trasformava ad untratto in un cosacco alto, pesante,massiccio - senza spostarsi dallasedia e dal tavolo, senza saltare inpiedi neppure una volta, néassecondare con movimenti appropriatiquella sua metamorfosi. Il brano chelesse era piuttosto lungo, ma sembravaaccorciarsi sempre più, gliascoltatori temevano che cessasse dicolpo. Hardt lesse poi alcuni raccontipopolari; ricordo soprattutto Diquanta terra ha bisogno l'uomo?, e nefui talmente commosso che mi persuasiche quei racconti fossero l'essenza diTolstoj, le cose più belle e piùautentiche che egli avesse mai

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scritto. Ogni libro di Tolstoj chepresi in mano in seguito mi sembròsenza vita, al confronto, perché nonlo sentivo più dalla viva voce diLudwig Hardt. Egli, in parte, mi haguastato Tolstoj. Il suo Eroªska daiCosacchi mi è rimasto familiare. Daallora, dal 1928, mi pare diconoscerlo, di conoscerlo meglio ditanti intimi amici.Ma Hardt intervenne ancora più afondo nei miei rapporti con Tolstoj.Quando, subito dopo la guerra, rilessiLa morte di Ivan Iliªc, quelracconto mi conquistò con la stessaforza con cui, nel 1928, mi avevanoconquistato i racconti popolari. Misentivo trasportato lontano; nellacamera del malato, pensai all'inizio;ma poi mi resi conto, con stupore, chesentivo le parole di quel raccontodalla voce di Ludwig Hardt. Mi trovavoa teatro, nella sala semibuia nellaquale Hardt aveva recitato. Hardt eramorto, eppure il suo programma si eraesteso, e La morte di Ivan Iliªc,pur essendo un racconto assai piùlungo, era entrato a far parte deiracconti popolari che avevo ascoltatoallora dalla sua viva voce.La cosa più incisiva che mi sento didire su quella matinée è proprioquesta: il suo influsso si dilatò neltempo, si estese fino a un'epoca moltopiù tarda. Tuttavia, per renderequesto racconto un po' menoinverosimile, aggiungerò che, neglianni seguenti, ho ascoltato moltealtre letture di Ludwig Hardt. AVienna, dopo che diventammo amici,veniva spesso a casa nostra, e ciparlava per ore, ci parlava fintantoche avevamo voglia di starlo asentire. Aveva pubblicato un libro coni suoi programmi, e di tutte lemeraviglie in esso contenute ben pococi fu negato. Imparai a conoscere lavoce di Hardt in tutta la ricchezzadelle sue possibilità. Parlavamospesso della metamorfosi, di quel temami occupavo sempre di più. E propriolui per primo mi aveva spinto inquesta direzione con la suametamorfosi nel vecchio Eroªska,durante quello spettacolo a Berlino.Dopo la guerra, quando seppi della suascomparsa, presi in mano La morte diIvanIliªc; credo che sia stato una speciedi rito funebre in onore di Hardt

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l'attribuire alla sua voce quelracconto che da lui non avevo maiascoltato.Ma torniamo a quel primo incontro;non ho ancora riferito tutto. Manca ildramma satiresco di cui diventai, allafine, la vittima paziente. Dopo lamatinée il dicitore fu invitato,insieme a parecchie altre persone,nella casa di un avvocato berlinese;qui gli ospiti furono abbondantementerifocillati, e si trovarono così beneche si trattennero quasi tutto ilpomeriggio. Tutto era perfetto, nonsolo il buffet. Alle pareti pendevanoi quadri dipinti dai pittori di cui siparlava, sui tavolini erano sparse lenovità librarie che la critica avevacommentato, in bene o in male. Nonmancava nulla, appena nominavi unlibro, il padrone di casa siaffrettava a portartelo; te lo mettevasotto il naso, lo apriva, non rimanevaaltro che cacciarselo in bocca. Ognisforzo ti veniva risparmiato.Personaggi famosi stavano seduti qua elà, masticando o ruttando. A dispettodello zelante padrone di casa,tuttavia, si intrecciavano anche tra isuoi ospiti conversazioni intelligentie stimolanti. Più di tutti si sentivaa suo agio Ludwig Hardt. Era l'unicoche superasse in mobilità lo scattanteanfitrione; era ancora più attivo,saltava in continuazione sui tavolini,recitava orazioni famose, passando daMirabeau a Jean Paul. Non era affattostanco, avrebbe potuto continuare arecitare chissà per quanto tempo. Lacosa più straordinaria era questa: siinteressava persino agli sconosciuti;infatti, fra un balzo e l'altro,faceva di tutto per coinvolgerli nellaconversazione. Non si dava pace finchénon aveva scoperto la paternitàspirituale dei suoi interlocutori.Anch'io gli capitai sotto gli occhi,e, contagiato dalla sua espansività,non gli nascosi il mio entusiasmo.Mi ringraziò, a modo suo,raccontando delle cose interessantisulla propria origine. Era figlio diun allevatore di cavalli della Frisiae, da giovane, scorrazzava moltospesso a cavallo su e giù per lacampagna. Piccolo e leggero com'era,faceva proprio pensare a un fantino.Finalmente avevo capito perché nonpoteva fare a meno di saltellarecontinuamente e, con molto rispetto,

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avanzai questa interpretazione. Ognifrase che gli riusciva gradita egli laricambiava con espressioni di squisitacortesia. La sua ricchezza di trovatee la suavena parodistica lo accomunavano aE'T'A' Hoffmann. Di questo rapportoHardt era cosciente, ma non era unrapporto esclusivo. Hardt non potevaripetere una frase altrui, da chiunqueessa provenisse, senza imitare coluiche l'aveva pronunciata. La miafiguraccia - è arrivato il momento diparlarne - ebbe origine da uno deisuoi salti: Hardt saltò da Hoffmann aHeine, e su di lui cominciò asbizzarrirsi con tale virtuosismo chefu subito chiaro: Heine era uno deisuoi cavalli di battaglia. Non appename ne resi conto, certamente devoessermi bloccato, e ci fu unrallentamento nel processo di liberoscambio che tra noi si era instaurato;Hardt, tuttavia, capì al volo quel cheera successo e, di punto in bianco,cominciò a tirar fuori tutti gliargomenti che erano stati portaticontro Heine, proprio con le paroledi Karl Kraus che io conoscevo fintroppo bene. Le diceva come si recitauna parte, ma con grande convinzione.Io ci cascai in pieno, e completaifedelmente più di una citazione, senzaaccorgermi che Hardt mi stavaprendendo in giro. La cosa andò avantiper un bel pezzo; avevo la sensazionedi essere esaminato sulla miaconoscenza della -Fackel . Solo quandoHardt s'interruppe di colpo, e,passando ad altri temi della -Fakkel , intonò un peana in onore diMatthias Claudius, di Nestroy e diWedekind, mi caddero le bende dagliocchi e mi accorsi di essermi resoridicolo sino alla fine dei mieigiorni. Come per scusarmi, a un certopunto gli dissi: -Lei però non lapensa così, su Heine! . -In effetti! fece lui, e cominciò (fu un belloschiaffo per me) a recitare con forzatrascinante alcune poesie di Heine chefacevano parte del suo repertoriopreferito.Credo che Hardt, in questo modo,abbia scosso per la prima volta la miafede in Karl Kraus. Egli, infatti, siera misurato con lui sul suo stessoterreno, come oratore, e gli avevatenuto testa. Hardt recitò I rattivagabondi e I tessitori dellaSlesia con una violenza e una furia

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che nulla avevano da invidiare a KarlKraus. In me fu l'irruzione delproibito; e, nonostante i divieti, leminacce, le maledizioni, il mio cuoreera troppo sano per non fargli spazio.L'effetto fu tanto più intenso inquanto Hardt stesso aveva appenafinito di enumerare tutti gliargomenti che erano stati portaticontro Heine: ma ora quelle accuse sisbriciolavano, diventavano polvere.Sentii che qualcosa stava cedendodentro di me e che ne avrei dovutosubire le conseguenze. Giacché lebarriere erette da Karl Kraus eranostate la mia difesa contro Berlino.Ora mi sentivo più debole di prima eil mio smarrimento aumentava semprepiù. Il nemico aveva già espugnato duebaluardi. Il mio dio, Karl Kraus, siera seduto a fianco di Brecht, cheaveva scritto una poesia pubblicitariasulle automobili, e i due si eranoscambiati una quantità di complimenti;e ora Ludwig Hardt, che una voltaaveva capito Kraus ed era stato suoamico, aveva dischiuso nel mio animouna breccia irreparabile in favore diHeine.Invito nel vuoto.A Berlino tutto era ugualmente aportata di mano, e ogni effetto erapermesso; non si impediva a nessuno difarsi notare, purché non temesse difar fatica. Perché farsi notare nonera certo facile; si sentivadappertutto un gran baccano, e inmezzo al baccano e alla ressa erisempre consapevole che di cose dasentire e da vedere ce n'eranomoltissime. Tutto era permesso; idivieti, presenti in qualsiasi luogo,e più che mai in Germania, cadevano aBerlino come rami secchi. Anche sevenivi da una vecchia capitale comeVienna, a Berlino ti sentivi unprovinciale e spalancavi tantod'occhi, finché non ti abituavi atenerli bene aperti. Nell'aria c'eraun che di penetrante e di corrosivo,che attirava e stimolava. Ti gettaviavidamente su ogni cosa, senzaguardarti da nulla. L'orrendo bailammeche ti colpiva nei disegni di Grosznon era affatto un'esagerazione, aBerlino era naturale, era come unaseconda natura che qui diventavainsostituibile, a poco a poco ci sifaceva l'occhio. Ogni tentativo diisolarsi aveva un che di perverso,

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anzi era l'unico atteggiamento cheveniva ancora considerato perverso; e,ammesso che per breve tempo ci siriuscisse, presto tornava la smania edi nuovo ci si tuffava nella mischia.Tutto era permeabile a tutti,l'intimità non esisteva e, quandoesisteva, non veniva perseguita per sestessa, era solo una messa in scenacon la quale si sperava di vincerel'intimità di un altro.In una specie di corrente alternata,l'elemento animalesco e quellointellettuale, nella loro nudità e almassimo della tensione, qui siintrecciavano di continuo. Chi ancheprima di arrivare a Berlino aveva bendesti i propri istinti animali, qui liesaltava al massimo, per tener testaagli istinti altrui, e se non eramolto forte si logorava in fretta.Chi, invece, essendo piuttostodeterminato dal proprio intelletto,ancora non aveva concesso gran chealla propria animalità, non potevafare a meno di sentirsi soggiogatodalla ricchezza e dall'abbondanza diciò che Berlino offriva al suospirito. Assaliti da ogni parte esenza riguardi dagli stimoli piùdiversi e contraddittori, non si avevail tempo né per capire né perriflettere; le sferzate arrivavano dicontinuo e così numerose che non sisentiva altro, e ancora non erapassato il dolore per i colpi appenaricevuti che già ne arrivavano altri.Aggirandosi per Berlino, ci si sentivacome un pezzo di carne frolla; nonfrolla abbastanza, però, e proprio perquesto ci si aspettava ad ogni istanteuna nuova frustata.Tuttavia, ciò che mi impressionò piùprofondamente, e si rivelòdeterminante per tutto il resto dellamia vita sino ad oggi, ful'inconciliabilità delle diverseimpressioni che ricevevo. Ogni singoloindividuo che -era qualcuno , e moltilo erano, si scagliava addosso aglialtri con tutto il suo peso. Gli altrilo capivano, o forse no, chi lo sa; maalmeno era riuscito a farsi ascoltare,né sembrava turbato dal fatto chealtre persone si facessero ascoltarein maniera diversa. Chi trovavaudienza contava qualcosa; ma, a quelpunto, doveva continuare a menar botteda orbi, per non smettere di ottenereudienza presso l'opinione pubblica.

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Forse nessuno aveva agio di domandarsiquale sarebbe stato il risultato ditutto questo. Certo non una vitalimpida, ma non a questo si eramirato; il risultato erano libri,quadri, opere di teatro, una control'altra, alla rinfusa.Ero sempre in compagnia, o diWieland o di Ibby, non andavo mai ingiro da solo per Berlino - non èquesto il modo giusto per conoscereuna città, ma forse era appropriatoalla Berlino di allora. Si viveva ingruppi, in cricche; forse laggiù lavita era così dura che nessunol'avrebbe potuta sopportare in altromodo. Udivi continuamente dei nomi,per lo più nomi conosciuti: qualcunoera atteso, qualcun altro stava perarrivare. Che cos'è un'epoca displendore? Un'epoca di grandi nomi,tanti, vicinissimi gli uni agli altri,che però non si soffocano, purcombattendosi aspramente a vicenda.Ciò che importa è il contatto, uncontatto quotidiano, permanente, e icolpi che ciascuno è disposto atollerare, poiché non offuscano il suosplendore. Una certa insensibilità aicolpi che vengono inferti, quasi unpretenderli, la voglia di star lì ariceverli.I nomi si sfregavano l'uno control'altro, a questo avevano mirato; inuna osmosi misteriosa, un nome cercavadi carpire all'altro tutta laluminosità possibile, e poi lopiantava immediatamente in asso, pertrovare in fretta un altro nome su cuiripetere lo stesso procedimento.Questo saggiarsi e strusciarsi deinomi aveva qualcosa di frettoloso, maanche di arbitrario. La cosadivertente era questa: non si riuscivamai a sapere quale sarebbe stato ilprossimo nome. Tutto dipendeva dalcaso; poiché da ogni parte arrivavanoa Berlino nomi nuovi in cerca difortuna, tutto era possibile.La perpetua attesa di sorprese, difatti inaspettati o spaventosi, timetteva in un leggero stato diebbrezza. Per sopportare quell'enormequantità di stimoli, per non cadere inuno smarrimento totale e definitivo,chi viveva stabilmente a Berlino siabituava a non prender nulla tropposul serio, e men che mai i nomi. Ilprimo in cui osservai questo -cinismodei nomi fu un individuo che vedevo

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abbastanza spesso. Tale cinismo sitraduceva nella sua abitudine diesprimersi in maniera ostile eaggressiva nei confronti di chiunquesi fosse messo in luce in un qualsiasicampo. La sua sarebbe anche potutapassare per una posizione politica, main realtà era tutt'altro, era solo unaforma di lotta per l'esistenza. Doveviessere parco di riconoscimenti, dovevitirare calci in tutte le direzioni, sevolevi essere qualcuno. Chi non eracapace di tirar calci in tutte ledirezioni era perduto, poteva ancheandarsene subito, Berlino non erafatta per lui.Importantissimo era farsi vedere incontinuazione; per giorni, persettimane, per mesi. Passare alRomanisches Café (e, ancora più in su,da Schlichter o da Schwanecke) erapiacevole, d'accordo, ma certo non cisi andava solo per divertirsi. Quellefrequentazioni nascevano da unanecessità alla quale nessuno osavasottrarsi, la necessità di mettersi inmostra. Chi non voleva esseredimenticato doveva assolutamente farsivedere. Questo valeva per ogniposizione e ceto sociale, anche pergli scrocconi, i quali, purchémantenessero in buono stato ilpersonaggio che recitavano e lopreservassero dalle alterazioniaggirandosi di continuo per i tavolidel Romanisches Café, riuscivanosempre a ottenere qualcosa.Un fenomeno essenziale della vitaberlinese in quell'epoca erano imecenati. Ce n'erano molti, sparsidappertutto a fare la posta allenovità. Parecchi erano fissi in città,altri venivano a Berlino di tanto intanto; qualcuno faceva la spola traBerlino e Parigi. Il primo - un uomobaffuto, con un viso rotondo come unapalla e labbroni che tradivano il suoamore per la buona cucinalo incontrai al Romanisches Café. Ero conIbby, non c'era molto posto, e quandoal nostro tavolo si liberò una sedia,il signore con baffi e labbroni siaccomodò vicino a noi e rimase inperfetto silenzio. Noi due parlavamo,tanto per cambiare, delle poesie diIbby, a cui avevano offerto dipubblicarne un certo numero, e Ibby mene recitò alcune per decidere con mequali dovesse consegnare. Il signoreascoltava sorridendo con ostentazione,

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come se capisse tutto. Con quellaespressione sul viso sembrava un menucoi nomi delle pietanze scritti soloin francese. Aprì la bocca un paio divolte, come per dire qualcosa, ma poiriammutolì. Forse stava cercando leparole. Alla fine le trovò, conl'aiuto di un biglietto da visita, checi porse. Era il proprietario di unafabbrica di sigarette, e abitava aParigi, nei pressi del Bois deBoulogne: di là si poteva guardarenella pentola di ogni operaio, erendersi conto di quel che c'eradentro. Quella storia della pentola edel suo contenuto, assolutamentegenuino, venne fuori minacciosa, fuquasi un'esplosione che ci fecesobbalzare, e proprio in quell'attimoegli ci invitò a pranzo con estremacortesia e cordialità. Ci schermimmo,dicendo che dovevamo discutere di unacosa importante. Insistette, anche luidoveva parlarci. Fu così incalzanteche cominciammo a incuriosirci eandammo a pranzo con lui.Ci portò in un ristorante costosoche non conoscevamo; si dilungò inqualche frase ampollosa sulla bontàdella cucina francese, nominòBadenBaden, la sua città natale, epoi mi domandò, con grande modestia,se poteva avere il piacere di offrire,per un anno, una rendita mensile diduecento marchi alla giovane poetessa.Un contributo minimo, una cosa danulla, ma veniva proprio dal cuore.Non disse una parola sulle poesie cheaveva udito. Gli bastava non averlecomprese. Conosceva Ibby da un'ora enon l'aveva mai vista prima in vitasua. Era bella, certo, e quandorecitava le sue poesie, persino il suoungarotedesco aveva un suonoseducente. Ma dubito che quell'uomoavesse una grande sensibilità per cosedi questo genere. Quando Ibby,rispondendo alla mia domanda, espressain un tono pieno di riserve, sidichiarò invece ben disposta adaccettare la sua offerta, il mecenatele baciò la mano con gratitudine,senza però permettersi null'altro.Eppure era un uomo nel fiore deglianni, che sapeva ciò che voleva, e nonsoltanto in fatto di menu. Ma qui sitrattava di mecenatismo, era di questoche voleva parlarci. Egli mantenne laparola e, siccome fra l'altro nonviveva a Berlino, non ci provò neppure

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a imporre a Ibby la sua compagnia.Avevo diviso i mecenati in duecategorie: i rumorosi e i silenziosi;questo faceva parte dei silenziosi. Ilvolume della loro voce cresceva sepotevano prender parte allaconversazione; ma, per poterlo fare,dovevano familiarizzarsi con il gergodei gruppi che avevano deciso disostenere. In compagnia di Grosz edella gente che ruotava intorno allacasa editrice Malik, si vedeva spessoun giovanotto del quale non ricordopiù il nome. Era ricco, chiassoso, eci teneva a esser preso sul serio.Partecipava alle discussioni eargomentava volentieri; forse ognitanto capiva anche qualcosa, comunquela prima volta che parlò in miapresenza mi toccò sentire la teoriadel bicchier d'acqua. Era una teoriamolto in voga a quell'epoca, tutti aBerlino la conoscevano a memoria; ma,quando egli la raccontò, prese proprioin mano un bicchiere vuoto, lo portòalla bocca, fece finta di vuotarlo, einfine lo posò sul tavolo, condisprezzo, lontano da sé: -L'amore? -Un bicchier d'acqua, vuotato ilbicchiere, è finito tutto! . Aveva deibaffi biondi che si gonfiavano conorgoglio: ogni volta che se ne uscivacon la teoria del bicchier d'acqua, ibaffi si rizzavano. Quel giovanottoera un finanziatore munifico, forsesovvenzionò anche la casa editriceMalik; in ogni caso era un benefattoredi George Grosz.Un mecenate davvero silenzioso, chenon interloquiva mai, perché conoscevatalmente bene il suo campo chepreferiva non dire delle sciocchezzesu argomenti di competenza altrui, eraun uomo piuttosto giovane di nomeStark, che aveva a che fare con lelampadine Osram. Lo si incontravaspesso, ascoltava tutto conattenzione, non diceva mai nulla e, diquando in quando, si rendeva utile, seproprio era necessario, ma senzamettersi in mostra e comunque conmisura. In una casa in centro cheapparteneva a lui, o alla sua società,c'era un appartamento libero, trebelle stanze in fila. Stark lo offrì aIbby per un paio di mesi; dopo, eraimpegnato. Nelle stanze c'erano deitappeti stesi per terra, ma per ilresto erano completamente vuote. Starkci fece mettere un divano per dormire,

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nient'altro. A tutto il resto dovevaprovvedere Ibby.Lei ebbe l'idea divertente dilasciare la casa vuota, senza neppureun mobile, e di invitare la gente nelvuoto. -I mobili devono dirli loro, sosteneva Ibby -voglio solo ospitiinventivi . Per stimolare la loroinventiva, nella stanza di mezzopascolava, sul tappeto verde, unasinello di porcellana. Eragraziosissimo, Ibby lo aveva vistonella vetrina di un antiquario, eraentrata, e in cambio di quell'asinellosi era offerta di dedicargli unapoesia. -Brecht un'automobile e io unasino: che cosa preferisci? mi avevachiesto, ben sapendo quale sarebbestata la mia risposta. La proprietariadel negozio aveva accettato l'affare,a Berlino c'era anche gente fattacosì, e Ibby, stupefatta, avevascritto per leila sua poesiamigliore , che è andata perduta.Per inaugurare la nuova casa Ibbyinvitò molta gente; ogni ospite, perprima cosa, veniva condotto davantiall'asino, per fare la sua conoscenza;poi era invitato ad accomodarsi dovepiù gli piaceva. In tutto l'alloggionon c'era una sedia, la gente restavain piedi, oppure si accoccolava sulpavimento. Alle bevande si eraprovveduto; anche per questo c'eranodei mecenati. Vennero tutti, nessunodi coloro che avevano sentito parlaredella casa vuota voleva perdersi lospettacolo; e la cosa strana fu chetutti restarono, nessuno aveva vogliadi andarsene. Ibby mi pregò di tenerd'occhio George Grosz: temeva che,appena un po' brillo, si mettesse adassalirla e, in quello stato, dicessetutte le cose alle quali io non volevocredere. Ma Grosz, quando arrivò, eradavvero incantevole, un dandy ingrandissima forma, che si era perfinoportato dietro un tipo carico dibottiglie per Ibby. -Peccato che ionon m'innamori mai disse Ibby.-L'inizio di oggi è delizioso. Ma...aspetta! .Non ci fu bisogno di aspettaremolto. Grosz era arrivato giàalticcio, anche se recitava la partedel raffinato. Si mise a sedere suldivanoletto, Ibby era accoccolata lìaccanto sul pavimento. Egli allungò ilbraccio verso di lei, ma Ibby siritrasse in modo da non farsi toccare.

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Allora Grosz sbottò, non ci fu modo ditenerlo: -Eh, già, lei non si fa maiavvicinare da nessuno! Non becca mainiente nessuno! Chissà cosa crede difare! . E avanti di questo passo, epeggio, molto peggio ancora. Poi,cambiando solfa, cominciò a cantare lelodi del -prosciutto : -Prosciutto,prosciutto, tu sei il mio diletto! .Ibby mi aveva anticipato tutto, sindal giorno in cui ero stato da Groszper la prima volta, quando ero tornatoa casa con la cartella di Ecce homoda lui regalata, totalmenteconquistato dalla sua persona e pienodi venerazione per l'acume del suosguardo e l'inflessibilità con cuifustigava i vizi della societàberlinese. E adesso Grosz era là,paonazzo, ubriaco, in preda aun'agitazione incontrollabile perchéIbby lo evitava; era là che imprecavasenza vergogna sotto gli occhi ditutti, anche se i presenti non siscandalizzavano per nulla; tutto a untratto Grosz mi sembrò uno dei suoipersonaggi.Ero disperato, non ce la facevo più;ero furioso con Ibby che l'aveva messoin quella situazione, sapendobenissimo ciò che sarebbe accaduto.Volevo andarmene, ero l'unico ospiteche non si sentiva a suo agio, e cosìsgusciai verso l'uscita. Ma nonriuscii a passare; Ibby, che mi avevatenuto d'occhio per tutto il tempo,era già davanti alla porta d'ingresso,e mi sbarrava la via. Aveva paura.Aveva provocato tutto per dimostrarmiche Grosz si comportava davvero neisuoi confronti come lei mi avevaraccontato. Ma quella voltal'esplosione era stata talmenteviolenta e prolungata che ora Ibbyaveva paura di quell'uomo. Lei, chenon temeva mai nulla, che mille voltesi era salvata da situazioniincresciose (me le aveva raccontatetutte, le conoscevo a memoria),proprio lei non aveva il coraggio dirimanere in quella casa, che purebrulicava di gente, se io non restavoa proteggerla. In quel momento laodiai, perché non potevo lasciarlasola. Ormai ero costretto a ubbidirle,e a star lì, davanti a uno dei pochiuomini che ammiravo a Berlino, un uomoche era stato generoso con me e si eracomportato nel modo che continuavo adaspettarmi da ogni essere umano,

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ebbene quell'uomo ero costretto avederlo mentre perdeva la sua dignità;e, per di più, dovevo fare attenzioneche Ibby riuscisse a sottrarsi allasua vista e non gli capitasse più atiro. Avrei preferito che Ibby se neandasse via con lui, tanto eratremendo sentire le sue urla. Nessunosembrava stupito, benché nessunoridesse; la gente era avvezza a quellescenate, a Berlino facevano partedella vita quotidiana. Volevoandarmene, andarmene e basta; e,poiché non potevo andarmene da quellacasa, volevo andarmene da Berlino.Fuga.Questo accadde a settembreinoltrato. Alla fine di agosto erostato con Ibby alla prima dell'Operada tre soldi. Un'esecuzioneraffinata, freddamente calcolata.L'espressione più fedele di quellaBerlino. La gente si applaudiva, siriconosceva, si piaceva. Prima la miapancia, poi la mia morale, nessunodegli spettatori avrebbe potuto dirlomeglio, è un verso che fu preso allalettera. Adesso che era stato detto,nessun maiale avrebbe potuto sentirsipiù soddisfatto. E ancheall'abolizione della pena avevaprovveduto il messaggero a cavallo, suun autentico cavallo.All'autocompiacimento smaccato chetrasudava da quello spettacolo puòcredere soltanto chi l'ha visto con ipropri occhi.Se il compito della satira èfustigare l'uomo per le ingiustizieche pensa e che commette, e per leazioni malvagie che compie, le quali,crescendo e moltiplicandosi, lo fannoassomigliare a una belva, ebbenequello spettacolo esaltava alcontrario tutto ciò che di solito vientenuto pudicamente nascosto; incompenso ogni forma di pietà venivairrisa nella maniera più azzeccata edefficace. Certo, era tutta roba diseconda mano, il sapore era appenaravvivato da qualche fresca volgarità;ma proprio quelle volgarità erano laparte autentica dello spettacolo. Nonera un'opera, e neppure ciò che erastata in origine, una parodiadell'opera; (*) era un'operetta - ilsolo elemento non falsato di tuttol'insieme. Alla forma dolciastradell'operetta viennese, nella quale ilpubblico ritrovava intatto tutto ciò

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che desiderava, Brecht avevacontrapposto un'altra forma dioperetta, l'operetta berlinese, le cuidurezze, turpitudini e banaligiustificazioni erano desiderate dalpubblico non certo meno, e anzi forsedi più delle sdolcinature viennesi.La mia accompagnatrice non si eradimostrata affatto ben disposta neiconfronti di quest'opera, e non fumeno sorpresa di me nel vedere gli(*) Riferimento a The Beggar'sOpera [l'opera del mendicante] delpoeta inglese John Gay (1685-1732), ilmelodramma satirico rielaborato daBrecht nell'Opera da tre soldi[N'd'T'].spettatori, che alla fine dellospettacolo si precipitarono entusiastisul palcoscenico con una vogliatremenda di sfasciare tutto.-Romanticismo da bassifondi, fu ilcommento di Ibby -è tutto falso . Iole fui grato, avevo la stessasensazione e infatti adoperai anch'iola parola -falso ; tuttavia, ciò cheavevamo in mente erano due cose assaidiverse. Lei pensava, ed era un'ideapiù originale di quella dell'opera,che ognuno sarebbe stato ben contentodi essere un falso mendicante comequelli là, solo che era troppo vileper proclamarlo apertamente. In tuttoquesto lei vedeva dunque una forma diraffinata ipocrisia, piagnistei dipronto impiego regolabili a piacere,perché tanto sul tutto vegliava unasuperiore autorità che lasciava aciascuno la libertà di divertirsi,sollevandolo però da ogniresponsabilità. Io vedevo le cose inmodo molto più semplice: ognispettatore sapeva benissimo di essereMackie Messer, e ora, finalmente,aveva trovato qualcuno che lo avevadichiarato apertamente; ma, per dipiù, si sentiva approvato e ammiratoper questo. Le nostre interpretazionierano assai divergenti, ma, nontoccandosi, neanche si disturbavano eanzi si confermavano a vicenda nelrifiuto.Quella fu la sera in cui mi sentiipiù vicino a Ibby. Mai nulla potevacoglierla di sorpresa. La massarumoreggiante del pubblico per lei nonesisteva. Ibby non si sentiva maiinclusa in una massa. L'opinionepubblica non la prendeva neppure inconsiderazione; era come se non la

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sentisse. Berlino pullulava dimanifesti pubblicitari, ma lei, purpassandoci in mezzo, non ne erasfiorata. Non le restava impresso unsolo nome di tutti quegli -articoli ;quando aveva bisogno di qualcosa peril suo uso quotidiano, non sapeva mainé come si chiamava, né dove potevatrovarlo e, per ottenere questeinformazioni, era costretta a indaginiavventurose in qualche grandemagazzino. Osservando unamanifestazione di centomila personesfilarle sotto gli occhi, Ibby non sisentiva né attirata né respinta; lecose che diceva subito dopo non sidistinguevano in nulla da quelle cheaveva detto prima. Aveva guardato conattenzione, notando più particolariconcreti di qualsiasi altra persona;ma nulla di tutto ciò contribuiva,connettendosi, a formare unadirezione, una volontà, unacostrizione. In quella Berlino tuttaecheggiante di violente lottepolitiche, mai una volta la sentiipronunciare un giudizio politico.Forse tutto ciò dipendeva dal fattoche Ibby era incapace di ripetere lecose che dicevano gli altri. Igiornali non li leggeva, e neanche leriviste. Se per caso la vedevo con inmano una rivista, sapevo perché: viera stampata una delle sue poesie, elei voleva mostrarmela. Era propriocosì, non mi sbagliavo mai, e quandole domandavo che cos'altro c'era inquel fascicolo, mi diceva, scuotendoil capo, che non ne aveva la piùpallida idea. Spesso questo suoatteggiamento mi dava fastidio e laaccusavo di amare troppo se stessa. Sicomportava come se al mondo nonesistesse che lei. Ma questorimprovero era ingiusto, perché Ibbyera attenta alle persone - a tutti itipi di persone - più di chiunquealtro. Per me era un vero mistero chenon si lasciasse mai trascinare dallamassa; tuttavia, alla primadell'Opera da tre soldi, ciò che mipiacque fu proprio l'atteggiamento chespesso avevo criticato in lei.A Berlino avevo visto molte cose chemi avevano sconcertato e confuso.Trasformate, trasposte altrove, eormai riconoscibili soltanto per me,esse sono confluite nei libri che hoscritto in seguito. Ma a me ripugnaridurre e riportare alle sue

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motivazioni originarie ciò che ormaiha una sua vita autonoma. Perciò hopreferito scegliere pochissime cose,di quei tre mesi passati a Berlino, eprecisamente le cose che hannoconservato una fisionomiariconoscibile, e non si sono del tuttodissolte nelle vie tortuose e segrete,dalle quali prima dovrei estrarle, perpoi rivestirle a nuovo. A differenzadi molte persone, e in particolare dicoloro che soggiacciono al fascino diuna verbosa psicologia, io sonoconvinto che non si debba malmenare,tormentare, estorcere il ricordo, nétentare di renderlo più seducente conapposite esche; io mi inchino dinanzial ricordo, al ricordo di ogni uomo.Ma voglio lasciarlo intatto, così comeappartiene all'uomo, che esiste peressere libero; e non nascondo la miaripugnanza per coloro che si arroganol'arbitrio di sottoporre il ricordo auna serie di interventi chirurgici chealla fine lo fanno assomigliare airicordi di tutti gli altri. Che sifacciano pure operare il naso, lelabbra, le orecchie, la pelle, icapelli, se proprio ci tengono; che sifacciano mettere degli occhi di unaltro colore, se così dev'essere, emagari un altro cuore, che batta unannetto di più; che tocchino,smussino, liscino, livellino tutto; mail ricordo, per favore, lo lascino inpace.Dopo questa professione di fede,parlerò di ciò che ho ancora benchiaro davanti agli occhi, evitandoanche in seguito di indagare le zonein penombra.Quando l'epoca, grazie al suo comunedenominatore, L'opera da tre soldi,riconobbe se stessa nella gioia diriempirsi la pancia prima di pensarealla morale, e quando si avventòavidamente su quella parola d'ordinedi comodo, che tutte le forze in campopotevano sottoscrivere, solo allora lamia resistenza cominciò aorganizzarsi. Fino a quel momento, latentazione di restare a Berlino eradiventata per me ogni giorno piùforte. Mi muovevo in un caos, ma uncaos che appariva inesauribile. Ognigiorno giungeva a Berlino qualcosa dinuovo a cacciar via il vecchio, che asua volta era stato nuovo tre giorniprima. Le cose fluttuavano in mezzo alcaos come cadaveri, e in compenso gli

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uomini si trasformavano in cose. Lachiamarono -Nuova Oggettività . Dopole lunghe grida disperatedell'espressionismo, non poteva cheessere così. Eppure la gente, malgradotutto, sia che continuasse a gridare,sia che fosse già diventata -oggetto ,riusciva a passarsela piuttosto bene.I nuovi arrivati, purché dopo qualchesettimana riuscissero a dissimulare ilproprio smarrimento e a farsi notarecome persone lucide e argute, venivanosubito considerati utilizzabili ericevevano buone offerte che avrebberodovuto allettarli a restare. Ogninovità era buona, non foss'altroperché non sarebbe rimasta tale permolto tempo. Tutto ciò che era nuovoveniva accolto a braccia aperte, maintanto la gente già si guardavaintorno alla ricerca di altre novità,perché l'esistenza e il rigoglio diquell'epoca, a suo modo davverogrande, dipendeva dal fatto che lenovità si susseguivanoininterrottamente. Ancora non erinessuno, ma venivi utilizzato lostesso; ti muovevi quasi sempre inmezzo a gente che poco prima, a suavolta, era stata nuova.-Vecchio residente era consideratochi esercitava una professione-decorosa , e la più decorosa di tutteera pur sempre - e non soltanto aimiei occhi - la professione medica.D�blin e Benn, per esempio, non eranocerto personaggi qualunque. Il lorolavoro li sottraeva alla routine dellacontinua autoesibizione. Li vidientrambi, ma di rado e di sfuggita,sicché non potrei dire nulla disignificativo sul loro conto. Amaggior ragione ero colpito dal modoin cui la gente ne parlava. Brecht,che non dava mai credito a nessuno,nominava D�blin con il massimorispetto. Le rare volte in cui lo vidiincerto su qualcosa, sentii chediceva: -Di questo dovrò parlare conD�blin , come se D�blin fosse ilsaggio a cui egli era solitorivolgersi per avere un consiglio.Benn, che trovava piacevole lacompagnia di Ibby, era l'unico uomoche non la molestasse. Ibby mi regalòun biglietto che Benn le avevamandato; egli le augurava per l'annonuovo -tutte le cose che una bella egiovane donna può desiderare dallavita , enumerandole una per una. Non

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c'era nulla, su quel biglietto, a cuiIbby avesse pensato anche una solavolta. Benn si era fatto un'idea diIbby basandosi sulle apparenze, e aquella impressione si era attenuto. Ilbiglietto, che con Ibby non avevaniente a che vedere, proprio perquesto sembrava vergato da unoscrittore assai vigoroso e sicurodelle proprie sensazioni.In quanto -nuovo sarei potutorimanere a Berlino e, dal punto divista del successo esteriore, sonosicuro che le cose non mi sarebberoaffatto andate male. Una certamagnanimità faceva parte integrante diquell'ingranaggio. E non era cosìfacile dire di no, quando si eraincoraggiati a restare con tantacordiale insistenza. La mia, inoltre,era una posizione del tutto anomala;non soltanto potevo incontrareliberamente chiunque desiderassi, ma,attraverso i racconti di Ibby, eroinformato su ogni persona in unamaniera particolarissima, del tuttoinattingibile a chiunque altro. Ibbyconosceva la gente nei suoi aspettipiù ridicoli; il suo sguardo eraspietato, ma preciso; nei suoiracconti non c'era mai nulla di falsoo di approssimativo: ciò che nonvedeva coi suoi occhi e non sentivacon le sue orecchie per lei nonesisteva. Ibby era un testimoneoculare assai ricercato, che aveva dadire più cose di chiunque altro,perché il sottrarsi era una partedavvero essenziale del suo modo divivere.Nelle settimane dopo la -prima ,quando l'impulso a salvare me stessoda quel mondo cominciò ad articolarsi,mi consigliai con Ibby. Dovevo tornarea Vienna, le dissi, per dare gliesami, e poi in primavera mi sareilaureato. Questa era sempre stata lamia idea. Poi, nell'estate successiva,sarei potuto ritornare a Berlino, echissà, avrei preso forse unadecisione diversa, non potevo saperlo,dipendeva da come mi sarei sentito.Ibby, che non era affattosentimentale, disse: -Tu non tilegherai mai. Non puoi legarti. Io ete siamo fatti allo stesso modo, anchea me con l'amore succede così . Ibbyintendeva dire che lei non si lasciavaimporre nulla da nessuno; né con lechiacchiere, né con le lusinghe, né

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con la forza. E inoltre trovava unottima idea che io pensassi agliesami. -E'è qui che ti vogliono, tuttiquesti artisti! Rompersi la testa perquattro anni in laboratorio e poi nondare la tesi, la troverebbero una verapazzia. Non è proprio il caso! .Di poesie era ben fornita, glieneavevo tradotte in tedesco un numeronotevole, più di quante glienesarebbero servite nel corso di unanno. L'uomo delle sigarette, quelloche aveva ascoltato la nostraconversazione sulle sue poesie, leaveva messo a disposizione una renditamensile per tutto l'anno, e Ibby avevagià ricevuto la seconda rataaccompagnata da un biglietto cortese erispettoso.Ibby mi facilitò le cose esattamentenel modo che da lei mi aspettavo. Noneravamo amanti, non ci eravamo maibaciati; ma fra noi erano presenti,quasi in carne e ossa, tutte lepersone delle quali avevamo parlato,una foresta che continuava a crescere,che non poteva esaurirsi, né da partesua, né da parte mia. Le lettere nonerano il suo forte, e neanche il mio;lei, certamente, mi scrisse, etalvolta le scrissi anch'io; ma eraben povera cosa, senza vederla e senzaudire i suoi racconti.Tre settimane dopo la -prima , ilricevimento nella sua casa vuotarappresentò per me uno shock chedistrusse l'incanto delle suestorielle.Cominciai a vergognarmi di ciò chesentivo raccontare da lei sulle altrepersone. Mi accorsi che era Ibby aprovocare negli uomini un certo tipodi reazioni, al solo scopo dipotermele raccontare. Quando, allafine, compresi che le sue storie eranocosì fresche, originali e preciseperché lei stessa allettava gliuomini, suscitando in loro icomportamenti ridicoli di cui avevabisogno per i suoi racconti - quandomi accorsi, insomma, che Ibby dirigevale voci che io non mi saziavo diascoltare; quando, alla fine,confessai a me stesso che non avevomai sentito dalla sua bocca, neppureuna volta sola, una frase benevola suqualcuno, non foss'altro perchésarebbe risultata noiosa, ad un trattocominciai a provare antipatia per lei,e barattai volentieri i suoi discorsi

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sfottenti con il silenzio di Babel.Nelle ultime due settimane passate aBerlino vidi Babel ogni giorno. Poichélo vedevo da solo, mi sentivo piùlibero, e credo che anche luipreferisse così. Da Babel ho imparatoche possiamo guardare un uomo per unpezzo e tuttavia non saper nulla dilui; che solo dopo molto tempo - soloquando l'abbiamo perso di vistasi capisce se sappiamo davvero qualchecosa di un uomo; e che, anche senzasapere nulla, possiamo benissimotenere a mente le cose che vediamo esentiamo; che le cose riposano in noi,intatte e incontaminate, fintanto chenon ne abusiamo per divertire glialtri. Da Babel ho imparato ancheun'altra cosa, che, dopo la scuoladella -Fakkel , alla quale ero andato per tantotempo, mi sembrava forse ancora piùimportante: quanto sia meschinotrinciare giudizi e condanne per ilpuro gusto di farlo. Mi fu dato diconoscere il suo modo di guardare gliuomini: a lungo, il più a lungopossibile, senza dire una sillaba suciò che aveva visto; ho conosciuto lasua lentezza, il suo riserbo, il suomutismo; ma anche l'importanza cheegli assegnava a tutto ciò che sioffriva al suo sguardo, perché Babelguardava con avidità instancabile, lasua unica forma di avidità. Anch'ioero avido, ma la mia avidità eraancora rozza, e non del tutto sicuradella propria legittimazione.Forse ci siamo incontrati in unaparola che non abbiamo mai pronunciatomentre eravamo insieme, e che ora mitorna in mente di continuo, quandopenso a lui. La parola apprendere.Della dignità dell'apprendere Babelera pervaso, non meno di me. Sia ilsuo spirito che il mio erano statidestati da un apprendimento precoce, eda un rispetto smisurato per ogniforma di apprendimento. Ma il suoapprendere era già tutto rivolto agliuomini. Babel non aveva bisogno di unpretesto - quello di ampliare le sueconoscenze - né di una necessità, diuno scopo, di un proposito qualsiasiper studiare gli uomini. Anch'io, inquel periodo, cominciai a interessarmidavvero agli uomini e, da allora, hopassato la maggior parte della miavita a cercare di comprenderli. Ma aquell'epoca avevo ancora bisogno didire a me stesso che lo facevo

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soltanto per allargare le mieconoscenze. A un certo punto, però,tutti i pretesti si sbriciolavano,tranne uno solo, l'attesa: volevo chetutti gli uomini, me compreso,diventassero migliori, e per questosu ciascuno di loro dovevo essereinformato con assoluta precisione.Babel, con la sua immensa esperienza,benché avesse soltanto undici anni piùdi me, aveva superato da un pezzoquesto punto di vista: il desiderioche gli uomini diventassero migliorinon serviva da pretesto alla sua setedi conoscenza. Sentivo che, benché inBabel questo desiderio fosse non menoinsaziabile che in me, esso non loinduceva mai ad autoingannarsi. Lecose che Babel cercava di conosceresugli uomini erano indipendenti dallagioia, dal tormento o dalladesolazione che questo poteva dargli:studiare gli uomini gli eranecessario.Parte quinta: Il frutto del fuoco(Vienna 1929-1931).Il padiglione dei pazzi.Nel settembre 1929, quando ritornaia Vienna dopo un secondo soggiorno aBerlino, ebbe inizio finalmente quellache io chiamavo la vita -necessaria ,una vita, cioè, determinata dalleproprie intime necessità. Con lachimica avevo chiuso, a giugno mi erolaureato, concludendo degli studi chemi erano serviti a rinviare ledecisioni, e dei quali, per il resto,non mi era mai importato nulla.Il problema della sussistenza erarisolto: avevo un contratto ditraduzione per due libri americani,con una scadenza che potevo rispettarelavorando quattro o cinque ore algiorno. La prospettiva di ulterioritraduzioni non mancava. Dato che illavoro era ben pagato - conducevo unavita assai modesta nellaHagenberggasse - avevo davanti a medue o tre anni di libertà. Latraduzione mi riusciva facile, ed eraun lavoro che avevo preso sul serio,in quanto mi dava da vivere; ilcontenuto di quei libri, però, mitoccava solo superficialmente, e diquando in quando mi sorprendevo,durante il lavoro, a pensare atutt'altro, cioè ai fatti miei.Con la decisione di staccarmi daBerlino mi ero procurato, certo, unacalma esteriore; ma il ritorno a

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Vienna non fu affatto un idillio. Eropieno di domande e di chimere, didubbi, di cattivi presagi, di timoridi un'imminente catastrofe, ma eroanche animato da una volontàtenacissima di orizzontarmi, diisolare le singole cose, di accertarela loro direzione e farmene, in questomodo, un'idea chiara. Nulla di tuttociò che avevo visto nei due perioditrascorsi a Berlino si lasciavamettere da parte. Di giorno e dinotte, veniva a galla tutto quanto,senza regola, senza senso, così almenomi sembrava, assillandomi in formediverse, proprio come i diavoli diGr�newald, la cui pala d'altare avevoappeso, nelle riproduzioni dei suoiparticolari, alle pareti della miastanza. Era chiaro che da quellaesperienza avevo assorbito più diquanto io stesso volessi ammettere.L'espressione alla moda, -rimuovere ,non sembrava fatta per me. Nulla erastato rimosso, tutto era presente,sempre, contemporaneamente, e contanta nitidezza che sembrava dipoterlo toccare con mano. Ciò cheprima emergeva davanti a me, a ondate,e poi veniva spinto via da altreondate, era l'effetto di una mareasulla quale non avevo alcun potere.Avevo la sensazione continua dellavastità e della ricchezza di quelmare, ribollente di mostri chericonoscevo uno per uno. La cosaspaventosa era che ognuno di queimostri aveva il suo volto, miguardava, apriva la bocca, dicevaqualcosa o almeno voleva dirla. Levisioni deformi che mi assillavanoerano premeditate, rispondevano aun'intenzione precisa, mi trascinavanonel loro tormento, avevano bisogno dime, mi sentivo costretto a mettermi aloro disposizione. Ma, appena avevotrovato la forza per farlo, quellevisioni erano cacciate via da altrevisioni, che m'investivano con pretesenon minori. E poi, di nuovo, tuttoritornava, ma niente si fermavaabbastanza a lungo da lasciarsiafferrare e decifrare. Invanoallungavo le braccia e le mani, troppecose mi assillavano da ogni parte,dominarle era impossibile, mi sentivoperduto.In realtà, pensavo, non era affattouna sfortuna che nulla di ciò cheavevo vissuto nelle settimane

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berlinesi si fosse inaridito, chetutto si fosse conservato intatto.Avrei potuto metterlo sulla carta, ene sarebbe risultata una cronacacolorita, e forse non privad'interesse. Sarei in grado dimetterlo sulla carta anche oggi, tantoa lungo si è conservato. Ma una puracronaca mai e poi mai sarebbe riuscitaa cogliere l'essenziale: la minacciadi cui quell'esperienza era carica, ledirezioni contrapposte verso le qualimi tirava. Perché l'uomo unico,unitario, che aveva accolto tuttequelle esperienze e che ora,apparentemente, le conteneva in sé,altro non era che un'immagineillusoria. Ciò che egli conteneva insé era mutato, perché veniva custoditoinsieme ad altro. La tendenza veradelle cose era una tendenzacentrifuga, esse cercavano distaccarsi il più rapidamente possibilele une dalle altre, puntando indirezioni opposte. La realtà non eranel centro, con le briglie in mano, atenere insieme il tutto, esistevanosolo, ormai, molte realtà, tutteall'esterno. Erano realtà lontanissimetra loro, prive di collegamentireciproci, chi cercava di conciliarleera un falsario. Molto lontano, allimite estremo di un cerchio, quasi aiconfini del mondo, stavano, come duricristalli, le nuove realtà verso lequali mi avviavo. Bisognava che lepuntassi come riflettori versol'interno, sul nostro mondo, perpoterlo scandagliare con la loro luce.Queste realtà erano il verostrumento della conoscenza: grazie adesse avrei potuto penetrare il caos dacui mi sentivo invaso. Se queiriflettori non erano troppo pochi, seerano stati concepiti nella giustamaniera, il caos si sarebbe lasciatoscomporre nei suoi elementi. Nulladoveva essere trascurato, nulla dovevaesser lasciato cadere, i solititrucchi per armonizzare il tuttofacevano ribrezzo, nessuno escluso.Chi ancora si credeva nel migliore deimondi possibili, che continuasse purea tenere gli occhi chiusi, seguitandoad appagarsi dei suoi ciechientusiasmi: la conoscenza di ciò checi stava dinanzi non gli era certoindispensabile.Poiché tutto ciò che avevo visto erastato possibile contemporaneamente,

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dovevo trovare una forma checontenesse quel tutto senzaimpoverirlo. Descrivere gli uomini e iloro comportamenti così come mi sierano presentati, senza parlare altempo stesso di ciò che sarebberodiventati in seguito, sarebbe stato,per l'appunto, un impoverimento. Lapotenzialità delle cose, che affioravaogniqualvolta mi confrontavo con ilnuovo, e restava inespressa, benché laavvertissi con grandissima intensità,quella potenzialità andavacompletamente perduta proprio nelledescrizioni che si consideravano-precise . In realtà tutto aveva unacerta direzione, tutto tendeva asopraffare il resto, l'espansione erauna proprietà essenziale degli uominie delle cose; ma per riuscire a capirealmeno in parte questo processo, lecose bisognava isolarle una per una.Era un po' come doversi districare inuna foresta vergine, dove tuttocresceva in un confuso groviglio, eracome se ogni virgulto bisognassesepararlo da tutti gli altri, ma senzadanneggiarlo o sradicarlo, per poterlopoi osservare intensamente da solo,lasciando che continuasse a cresceresenza mai più perderlo di vista.Con il ritorno in un ambiente le cuicaratteristiche principali erano laquiete e la moderazione, ciò che avevoportato con me, la mia esperienzavissuta, diventò più che maiinvadente. Avevo un bel cercare diplacarmi e limitarmi, l'esperienzavissuta non mi dava pace. Provavo conlunghe passeggiate, prive diparticolari sorprese. Percorrevo lalunga strada di Auhof, da Hacking aHietzing e ritorno, costringendomi anon camminare troppo in fretta. Cosìpensavo di abituarmi a un ritmodiverso. Qui non c'era nulla che aogni angolo di strada mi cogliessealla sprovvista; costeggiando quellecase basse e a un solo piano, misembrava di percorrere una strada diperiferia del secolo passato.Cominciavo a camminare piano piano,non mi ponevo una meta precisa, nonpensavo a un locale nel quale avreivoluto fermarmi, sia pure soltanto peril piacere di scrivere. Durante ilcammino nulla doveva indurmi a girarela testa di colpo a destra o asinistra, non dovevo avere davantiagli occhi un ballo di san Vito,

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niente suoni striduli e penetranti -ma un viandante della preistoria:questo volevo essere, una creatura chenon ha nulla da cui scappare, nullaverso cui accorrere, che non scantona,non inciampa, non urta, non spinge,che non deve per forza trovarsi in unposto o in un altro, che ha tempo,tempo libero, e che, soprattutto, nonsi sogna neanche di avere un orologio.Ma, quanto più perfetto era il vuotoche mi ero fatto intorno, quanto piùcominciavo a camminare leggero edisinvolto, tanto più irresistibilearrivava l'aggressione: un pugno sugliocchi, una pietra in testa;irresistibile, perché veniva dadentro. Una figura del tempo al qualecercavo di sfuggire non mi lasciavapiù, ed era una figura che nonconoscevo. Era appena nata, e, benchésapessi di dove veniva - la suacaratteristica era l'invadenza -,benché si impadronisse senza pietà ditutto quello che avevo dentro, per meera una figura completamente nuova.Non l'avevo mai incontrata, losbigottimento iniziale diventavaterrore, mi saltava addosso,accoccolandosi sulle mie spalle miincrociava le gambe sul petto, e poimi dirigeva, alla velocità voluta,dove più le piaceva. Io mi ritrovavo,senza fiato, sulla strada di Auhof,una strada che avevo scelto perché erainoffensiva e senza vita, a fuggirecome un invasato, con il pericolo, alquale non potevo sottrarmi,accoccolato sulle spalle. Eroterrorizzato; eppure sapevo che mistava succedendo l'unica cosa cheavrebbe potuto salvarmi dal caos chemi ero portato dietro.La salvezza fu che si trattava diuna figura dai contorni ben definiti,che andava avanti senza fermarsi,radunando le cose disperse e prive disenso e dando ad esse un corpo. Era uncorpo terrificante, ma vivo. Miminacciava, ma seguiva una direzione.Sapevo a che cosa mirava; mi incutevaun terrore del quale non riuscivo maia liberarmi del tutto, però eccitavaanche la mia curiosità. Che cosa saràcapace di fare? Dove vuole andare aparare? Per quanto tempo durerà? A uncerto punto dovrà scomparire? Appenacominciano a definirsi i contorni diuna simile figura, il rapporto siinverte e non è più tanto sicuro chi

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dei due possieda l'altro trascinandolodove meglio crede.Quando correvo in quello statoavanti e indietro per un bel po',ripercorrendo sempre più furiosamentelo stesso cammino, finivo per fermarmiin un locale qualsiasi, dove ero statosbattuto, e lì mi mettevo a sedere.Quaderno e matita erano subito pronti,e cominciavano le annotazioni; ciò chemi era accaduto durante quel moto siconvertiva in parole scritte.Come descrivere quello stato diannotazione continua? All'iniziomancava ogni nesso. Annotavo allarinfusa. Un'articolazione, qualcosache potesse essere definito l'iniziodi un ordine cominciò con lasuddivisione in personaggi. L'attivitàprevalente alla quale mi dedicavo eraun iroso tentativo di distogliere losguardo da me stesso mediante unametamorfosi. Abbozzai dei personaggiche avevano un modo personalissimo divedere le cose, che non potevano piùdarsi da fare a casaccio, e anziincanalavano tutti i loro sentimenti etutti i loro pensieri in una direzioneben precisa: alcuni di questipersonaggi ritornavano spesso, altrisparirono dopo i primi tentativi.Esitavo a dar loro dei nomi, non eranoindividui qualsiasi, come questo oquell'altro che conoscevo, ognuno diessi era inventato a partire dal suointento principale, da ciò che lospingeva innanzi senza posa, lontanodagli altri. Ogni personaggio dovevaavere una visione tutta sua dellecose, e quella visione, che dominavail suo mondo, non era paragonabilealla visione di nessun altro.Bisognava che tutto combaciasse conquel punto di vista. Il rigore con cuitutto il resto era escluso dal mondodel personaggio era forse la cosa acui tenevo di più. Era un laccio cheavevo estratto da una matassaaggrovigliata, e volevo che fossepuro, indimenticabile. Dovevaimprimersi nella memoria come un donChisciotte. Doveva pensare e diredelle cose che nessun altro individuoavrebbe mai potuto né pensare né dire.Doveva impersonare a tal punto unaspetto del mondo, che il mondo senzadi lui sarebbe stato più povero, manon solo più povero, anche più falso.Uno di loro era l'Uomo della Verità,colui che aveva gustato fino

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all'ultima goccia tutte le gioie etutti i dolori della verità; ma tuttiloro avevano a che fare con unaparticolare specie della verità:quella della coerenza con se stessi.Alcuni, non molti, scomparvero; nerimasero in vita otto, che miavvinsero senza tregua per un annointero. Ognuno era indicato con unalettera maiuscola, l'inizialedell'intento o della qualità che lodominava. Dell'Uomo della Verità hogià parlato. V' era il Visionario,che voleva lasciare la terra eraggiungere gli spazi interplanetari;tutti i suoi pensieri erano diretti aquesto scopo, andarsene dalla terra,la sua indomita sete di scoprire cosenuove si nutriva dell'avversione pertutto ciò che gli toccava vederequaggiù. La sua sete di nuovo ed'inaudito si nutriva del disgusto perl'-al di qua . - C'era R', il fanaticoReligioso e C', il Collezionista.C'era lo Scialacquatore e il Nemicodella Morte. C'era anche A',l'Attore, che poteva vivere soltantoin perenne, rapida metamorfosi, e poil'Uomo dei Libri.Bastava che una di queste inizialifosse scritta in cima a una pagina,perché io mi sentissi incanalato e milanciassi con furore in quell'unicadirezione. La massa infinita di coseche avevo dentro di me cominciava aselezionarsi, a separarsi nei suoielementi. Avevo a che fare - ho giàusato questa parola - con deicristalli, e quei cristalli dovevoisolarli da un informe garbuglio. Nonero ancora riuscito a tenere nullasotto controllo, nulla di tutto ciòche, dopo Berlino, mi aveva riempitodi orrore e di sinistri presagi. Chepoteva mai venirne fuori, se non unincendio spaventoso? Sentivo laspietatezza di quella vita: le cosescorrevano l'una accanto all'altra,senza mai veramente affrontarsi.Saltava agli occhi che non soltantonessuno capiva l'altro, ma che nessunovoleva capirlo.Cercai di venire a capo del problemacostruendo dei lacci, pochi lacci benindividuati che legavo ad alcuniindividui, e fu allora che nacquequalcosa che assomigliava a unprincipio di chiarezza nella massa delvissuto. Scrivevo ora su questo ora suquel personaggio, senza una regola

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riconoscibile, a seconda dell'impulsoche mi assaliva, talvolta lavoravoperfino a due lacci diversi nellostesso giorno, attenendomi tuttaviastrettamente ai limiti di ciascuno,che in effetti non furono maioltrepassati.La linearità dei personaggi, i lorolimiti intrinseci, l'impeto che lisospingeva in un'unica direzione -ciascuno di questi uomini era unaspecie di missile vivente -, le loroincessanti reazioni a un ambientemutevole, la lingua di cui siservivano in maniera inconfondibile(comprensibile, sì, ma diversa daquella di chiunque altro), il fattoche fossero fatti soltanto di quelloro limite e, all'interno di esso, dipensieri audaci e sorprendenti cheesprimevano in quella loro lingua -nulla di tutto ciò che ne dico, cosìin generale, può dare di essi un'ideaprecisa e convincente. Un anno interofu riempito dagli abbozzi su questiotto personaggi, e fu l'anno piùricco, ma anche più dissipato di tuttala mia vita. Avevo la sensazione diavere a che fare con una -Comédiehumaine , e siccome si trattava dipersonaggi estremi, chiusiermeticamente gli uni verso gli altri,la chiamai la -Comédie humaine deifolli .Quando scrivevo in casa (nonscrivevo solo durante le miepasseggiate) avevo davanti agli occhii padiglioni dei pazzi dello Steinhof.Pensai a coloro che vi erano rinchiusie li misi in relazione con i mieipersonaggi. La muraglia che circondavaloSteinhof divenne la muraglia della miaimpresa. Scelsi il padiglione chevedevo più distintamente e là miimmaginai una corsia, nella quale imiei personaggi, alla fine, sisarebbero ritrovati. A nessuno pensavodi riservare come fine la morte.Nell'anno degli abbozzi era andatocrescendo sempre più il mio rispettoper gli uomini che si erano a talpunto allontanati dai propri simili daessere ritenuti pazzi, e perciò mimancava il coraggio di uccidere i mieipersonaggi, foss'anche uno solo.Nessuno di essi era arrivato al puntoin cui io potessi prevederne la fine.Ma la morte, come fine, la escludevo apriori, li vedevo tutti insieme nella

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corsia del padiglione che avevo sceltoper loro. La loro esperienza, chesentivo preziosa e unica nel suogenere, doveva conservarsi laggiù.Come conclusione intravedevo questo:si sarebbero messi a parlare fra loro.Ciascuno, dalla propria segregazione,avrebbe trovato qualcosa da dire aglialtri, e quelle frasi, nella lorostranezza, avrebbero avuto unsignificato inaudito. Mi sembrava unadegradazione per loro, pensare allaguarigione. Nessuno di essi dovevaritornare alle ore insignificanti diuna normale vita quotidiana. Adattarlia noi sarebbe stato sminuirli, equesto non lo volevo: le loroesperienze, così uniche eirripetibili, mi erano troppopreziose.Un grande, inesauribile valoreattribuivo invece alle loro relazionireciproche. Se i detentori di quellelingue a senso unico avessero trovatoqualcosa da dirsi, qualcosa che perloro avesse un senso, allora anche noicomuni mortali, cui era preclusa ladignità della follia, avremmo potutoancora sperare.Questo era l'aspetto utopistico delmio progetto; e, benché nella cittàdello Steinhof l'avessi semprepresente, per così dire in carne edossa, dal punto di vista temporaleesso era ancora lontano, anzilontanissimo. I personaggi stavanoancora prendendo forma e i lorodestini erano così vari, che tutto eraancora possibile, qualsiasi colpo discena. Una fine irrevocabile, però, laescludevo: era come se avessi dato alpersonaggio per me più assillante, ilNemico della Morte, il potere didisporre della vita degli altri.Qualunque fosse stata la loro sorte,sarebbero rimasti in vita. Dalla miafinestra avrei guardato verso di loro,nel loro padiglione, e ora l'uno oral'altro si sarebbe mostrato alla suafinestra, chiusa dall'inferriata, e miavrebbe fatto un cenno.L'ammansimento.A Hacking, proprio accanto alponticello sulla Wien, frequentavo unpiccolo caffè che restava aperto finoa tarda ora. Una notte fui colpito daun giovane seduto in mezzo a un gruppodi persone che non sembravano adatte alui. Era alto, con un viso luminoso eocchi chiarissimi. Beveva e parlava

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volentieri, ma al suo tavolol'animazione era forse eccessiva,volavano insulti e improvviseesplosioni di collera che non losfioravano. Lo riconobbi da unafotografia che avevo visto, era AlbertSeel, autore di una casa editriceberlinese; dopo esser statoprigioniero in Russia, Seel avevascritto un libro sulla propriaesperienza; io il libro non l'avevoletto, mi era rimasto in mentesoltanto il titolo, nel qualecompariva la parola Siberia. Essendoseduto al tavolo accanto al suo, glidomandai senza imbarazzo, da tavolo atavolo, se era veramente Albert Seel;egli, sempre raggiante, ma con uncerto impaccio, disse di sì. Poim'invitò a sedermi al suo tavolo e mipresentò i suoi amici. Ricordo i nomiMandi e Poldi, gli altri li hodimenticati. Mi presentai comestudente e traduttore, anche sestudente non ero più, suscitando unasonora risata fra i compagni di Seel.Costoro mi osservavano in un modoche per me era del tutto nuovo, comese avessero grandi progetti su di me edovessero esaminarmi per vedere se eroil tipo adatto. Intellettuali nonerano, parlavano un linguaggioprimitivo, rozzo e violento,giustificandosi con me a ogni frase,come se li avessi criticati. Non liconoscevo per niente, non avevo ideadi chi fossero, ma il fatto che fraloro si trovasse uno scrittore, siapure tutt'altro che famoso, m'ispiravafiducia: da quando ero tornato aVienna, qualche mese prima, non avevopiù incontrato un solo scrittore.Davanti a loro non provai nédiffidenza né paura; notai però laloro insicurezza davanti a me, erimasi meravigliato dal grande valoreche attribuivano alla propria forzafisica. Seel parlava rivolgendosi alvino che aveva davanti a sé, e prestonon reagì più ai miei tentativi diportare il discorso su temi letterari.-Ogni cosa a suo tempo disse,scacciando via le mie domande comemosche importune. -Quando sono con imiei amici voglio divertirmi . Maforse evitava i discorsi letterari peruna specie di tatto, dal momento che isuoi amici non sarebbero stati certoin grado di seguirli. Presto, dunque,mi accontentai di ascoltare quel che

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dicevano gli altri, e non mi ci vollemolto a capire che parlavano di-prodezze della cui natura, peraltro,non riuscivo a farmi un'idea esatta.Soprattutto Poldi, il più alto e ilpiù forte di tutti, amava vantarsi diaver messo fuori combattimento questoo quell'altro con il suo pugno enorme.In fatto di pugni non c'era mainessuno che osasse affrontarlo. Mandi,il più piccolo, con il suo viso dascimmia e il suo aspettostraordinariamente agile e snodato,raccontò con grande vivacità come,poco prima, fosse riuscito ad aizzarei cani di una villa. Non sapevo perchémai avesse dovuto aizzare quei cani, estavo ad ascoltarlo con l'ingenuità diun neonato, quando Poldi, di punto inbianco, mi diede una gran pacca sulpetto con la sua manaccia e mi domandòse conoscevo la villa nella qualevolevano entrare - saltò fuori che erala casa della contessa, la -giumenta della latteria. Mi venne voglia difare uno scherzo e risposi, come se sifosse trattato di un tentativo dieffrazione, che avevano scelto la casasbagliata: dal -conte non c'eraniente da rubare. Mi presi una secondapacca sul petto, ancora più forte, ePoldi mi disse, con un tono tra ilminaccioso e il beffardo: che cosa misaltava in mente, non si sarebberocerto sognati di andare a rubare daquella gente! Proprio a Hacking, dovetutti li conoscevano! Non erano micacosì stupidi, al Mandi piacevaspararle grosse.Mi resi conto che scherzando avevodetto qualcosa di inopportuno, e pursenza capire il motivo della reazioneirritata di Poldi, ammutolii di colpo.La conversazione proseguì in tonipiuttosto grevi, e a voce sempre piùalta. Il tavolo intorno al quale,oltre a me, non sedevano più di cinqueo sei persone era il più animato dellocale, frequentato di solito da gentepiuttosto silenziosa e amante dellasolitudine: qualche vecchiopensionato, due o tre coppiette, maicompagnie numerose. Quella sera, però,il locale mi sembrò particolarmentesilenzioso, come se nessuno siazzardasse a far chiasso, per nonmettersi in competizione su quelterreno con il nostro tavolo. Ilsignor Bieber, il proprietario, cheera in piedi dietro il suo banco - dal

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mio posto potevo vederlo bene -sembrava irritato. Di solito avevasempre qualcosa da fare, non lo vedevomai con le mani in mano, ma quellasera era diritto, immobile, e guardavasempre dalla mia parte; avevo persinol'impressione che ammiccassediscretamente, ma non ne ero sicuro.Al nostro tavolo l'atmosfera si facevasempre più minacciosa. Poldi e Mandicominciarono a litigare e ainsultarsi, con espressioni chepersino in quel luogo mi colpivano perla loro trivialità. Seel,immutabilmente raggiante, cercava dimettere pace, accennando a me, come seio da quel litigio potessi farmi unacattiva opinione della loro compagnia.La cosa sortì un certo effetto, nelsenso che i due contendenti siriconciliarono e, in compenso,cominciarono entrambi a guardarmi conaria torva. Seel disse che era tempodi andare a casa, il locale stavachiudendo; ma i suoi amici rimaseroseduti; io, invece, mi alzai, e certoera questo che Seel voleva ottenere;stava cercando di proteggermi dai suoicompagni, dato che l'atmosferadiventava sempre più truce. Mi alzai,dunque, e mentre salutavo un po' delmio stupore davanti a quella gente,che per me era del tutto nuova, sitrasformò probabilmente in cordialità,tant'è che Poldi mi disse: -Io sonosempre qui . Mandi, che aveva un'ariaassai più perfida, aggiunse: -Venga atrovarci! Uno studente può semprefarci comodo! .Andai al banco per pagare, e ilsignor Bieber mi accolse con vocesepolcrale e soffocata; non l'avevomai sentito parlare in un tono cosìcupo, e men che mai sussurrando. -Peramor di Dio, dottore, facciaattenzione, è brutta gente, quella.Non si sieda più al loro tavolo! .Aveva paura, il suo avvertimentopoteva insospettire la tavolatalaggiù, perciò, parlandomi in unsussurro, sorrideva ostentatamente. Iorisposi sullo stesso tono esussurrando a mia volta: -Ma è unoscrittore, conosco un suo libro .Sembrò cadere dalle nuvole. -Macchéscrittore, viene sempre con quellagente e gli dà man forte . Nelle suefrasi c'era come un tremito, davveroaveva paura per me, ma anche per sestesso, perché, come mi disse il

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mattino dopo durante un lungocolloquio che ebbi con lui, essendotornato da solo nel locale, i mieinuovi conoscenti erano una famigeratabanda di scassinatori. Tutti erano giàstati in prigione più di una volta. IlMandi, che si arrampicava come ungatto, l'avevano appena rilasciato;prima era stato in carcere con Poldi,ma poi i due erano stati separati.Erano tutti della zona, e il signorBieber li avrebbe cacciati volentieridal suo locale se non fosse statotroppo rischioso. Quando gli chiesiche cosa mai avrebbero potuto farmi,non ero mica una casa, e da me, aparte i libri, non c'era niente darubare, egli mi guardò come se fossiun mentecatto: -Ma non capisce,dottore, vogliono farla cantare,vogliono sapere da lei dove possonoandare a rubare. Non gli ha mica giàdetto qualcosa, per caso? . -Ma se nonho la più pallida idea di quello chepuò esserci da rubare! Qui non conosconessuno risposi. -Ma come, non abitalassù, dove ci sono le ville, nellaHagenberggasse? Stia attento, percarità. La prossima volta uno diquelli l'accompagnerà fino alla portadi casa e le chiederà informazioni suognuna di quelle ville. Chi ci abitaqui? E là chi ci sta? Non dica niente,dottore, non dica niente, per l'amordi Dio, altrimenti, se poi succedequalcosa, la colpa è sua! .Non ero ancora del tutto convinto, euna sera, poco tempo dopo, ritornai inquel locale e mi sedetti accanto a unaltro conoscente, un vecchio pittore,facendo finta di non aver notato la-ganga che era seduta abbastanzalontano, all'angolo opposto dellasala. Quella volta erano venuti senzaSeel, e non c'era neppure Mandi; notaisoltanto Poldi, quando alzò in altouna mano per indicare non so che. Madoveva essere successo qualcosa, nonfacevano baccano, anzi parlavano abassa voce; i fatti sembravano darragione a me e non alle sinistreprevisioni del signor Bieber; nessuno,infatti, badò a me, non mi salutarono,e tanto meno m'invitarono al lorotavolo. Portandomi il caffè, il signorBieber disse: -Oggi non resti sinoall'ora di chiusura, dottore, oggi sene vada prima . Dal tono sembravaconvinto che io avessi in mente difare chissà che cosa a notte fonda.

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Trovavo la sua sorveglianza un tantinofastidiosa, ma, per amor di pace, mene andai via presto.Mi ero allontanato dal caffèsoltanto di pochi passi quando sentiisulla spalla la mano possente. -Facciola sua stessa strada disse Poldi, chemi aveva rapidamente seguito. -Abitalassù anche lei? . -No, ma debbo farequella strada . Su quel -debbo nondiede altre spiegazioni. Trovavo assaipoco piacevole percorrere in suacompagnia quel viottolo buio - l'unicoche portasse alla Hagenberggasse - manon lo feci notare; domandai soltanto:-Il Seel oggi non c'era? E neppure ilMandi? . Ma non fu una frase felice;seguì infatti una mostruosaimprecazione contro il Mandi, e undiluvio di episodi su quell'uomo-d'interesse (così lo chiamava,volendo dire -interessato ) si riversòsu di me. Che non osasse comparirglimai più davanti agli occhi, disse, nonera mai riuscito a sopportarlo,preferiva addirittura Seel, che pureera un tipo con cui non si potevaandare d'accordo. Che razza di libroera quello che aveva scritto il Seel?Sulla prigionia, dissi, sulla genteche aveva conosciuto in Siberia,quando era prigioniero di guerra.-Siberia? sghignazzò Poldi, dandomiuna manata sulla spalla. -In Siberiaquello non c'è mai stato! In galera,sì. Ma non in Siberia . -Sì, c'è statotanto tempo fa, quando era ancoramolto giovane . -Certo, certo, quandoera ancora in fasce, non è così? . Perfarla breve, Poldi non volevaammettere che Seel fosse stato ingalera non come delinquente ma comeprigioniero di guerra, e mi spiegò chementiva, mentiva sempre. Nessuno diloro gli credeva mai, qualsiasi cosadicesse, quello era un tipo cheinventava continuamente qualcosa; mache esistesse un libro scritto da lui,questo a loro non l'aveva mai detto.Se n'era guardato bene, altrimentiavrebbero scoperto che, come alsolito, erano solo bugie. Che nepensavo, io, di un uomo che ha semprebisogno di dir bugie? Lui non cel'avrebbe mai fatta, lui diceva semprela verità.Mi aspettavo che, secondo leprevisioni del signor Bieber, Poldicominciasse a interrogarmi sulle villeche incontravamo per via; ma era

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talmente preso dalle bugie di Seel edal proprio amore per la verità chenon mi domandò nulla. Fu la miafortuna, perché sui proprietari diville che interessavano a lui, anchevolendo, non avrei saputo dirgliassolutamente niente. Della maggiorparte di quella gente non conoscevoneppure il nome, e se, messo allestrette, fossi riuscito a farmi venirein mente qualche particolare innocuo,certo gli sarebbe sembratoinsignificante o simile a una dellebugie di Seel.Arrivati vicino allaErzbischofgasse, Poldi interruppe per un attimoi suoi sproloqui sulla sincerità.Sfruttai la pausa per indicare unacasa sulla destra: -Conosce il Marek,quello che abita nellaErzbischofgasse, al numero 70, e vieneportato a spasso da sua madre incarrozzella? . Non lo conosceva, e lacosa mi stupì; il giovane Marek, nellasua carrozzella, si vedevadappertutto; quando sua madre non loportava in giro, se ne stava sdraiatoal sole davanti a casa sua. Da solo oin compagnia, stava sempre coricato,non poteva camminare, non potevamuovere né le braccia né le gambe; latesta, sollevata obliquamente, erapure appoggiata, e accanto ad essa, suun cuscino, stava aperto un libro; unavolta, passando, l'avevo visto tirarfuori la lingua e girare con essa unapagina del libro. Non ci avevocreduto, benché avessi vistochiaramente la scena: la lingua eralunga, a punta e di un rossosorprendentemente vivo. Così gli eropassato davanti di nuovo, come percaso, camminando lentamente in modo dalasciargli il tempo di leggere conattenzione una pagina intera; einfatti, quando ormai gli ero arrivatomolto vicino, vidi la sua linguaschizzar fuori e girare il foglio.Da due o tre anni, ormai, ossia dalmio arrivo nella Hagenberggasse, avevonotato quel giovane; ogni volta che loincontravo con sua madre che spingevala carrozzella, facevo un cortesecenno del capo verso di loro,mormorando -Buon giorno ; ma da luinon avevo mai ricevuto risposta.Supponevo che parlare gli riuscissedifficile non meno che muoversi, daquesto derivava il mio ritegno aintavolare una conversazione con lui.

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Aveva un viso piuttosto lungo, lacarnagione scura, capelli folti egrandi occhi castani che teneva fissisu di te quando gli andavi incontro; eanche dopo, quando eri passato oltre,continuavi a sentirteli addosso per unbel pezzo. Di tanto in tanto stavasdraiato al sole senza leggere, congli occhi chiusi. E allora erabellissimo vedere come li apriva, nonappena sentiva un rumore. Sembravasensibilissimo al rumore dei passi,perché, anche quando era assopito,nessuno gli passava vicino senza cheegli aprisse gli occhi. Anche se sicercava di camminare piano, per nonsvegliarlo, lui sentiva sempre i passisulla ghiaia e non perdeva occasionedi gettare la sua lunga occhiata sulpassante.Sapevo che una volta o l'altra avreiattaccato discorso; ma, dato chesperavo di abitare a lungo nella zona,non avevo fretta. Nessun'altra personadei paraggi occupava di più i mieipensieri. Chiedevo a tuttiinformazioni su di lui, e ad alcunecose che mi furono dette quasi nonriuscivo a credere. Dicevano che fosseuno studente universitario difilosofia, ecco perché accanto a lui,sul cuscino c'erano sempre quei libri.Aveva un tale talento, si diceva, chealcuni professori dell'Università diVienna venivano fino a Hacking di loroiniziativa, per dargli lezioniprivate. Sciocchezze, pensai,assurdità, fino al giorno in cui,durante un pomeriggio assolato, vidiil professor Gomperz, quell'uomo altoe barbuto, con un aspetto quale ioimmaginavo dovessero avere i cinicigreci, seduto accanto alla carrozzelladel giovane Marek. Il suo corso suiPresocratici l'avevo seguito parecchiotempo prima; l'eloquio del professorGomperz non era esaltante come il temache trattava, ma in compenso ce lametteva tutta. Quando lo vidi sulserio, seduto davanti al giovaneMarek, rivolgersi a lui con gesti ampie lenti, mi spaventai a tal punto checambiai strada e feci una deviazioneper non passargli vicino e non doverlosalutare. Eppure sarebbe statal'occasione migliore, e anche piùdignitosa, per conoscere finalmente ilparalitico.Adesso - era passata la mezzanottedi una notte scurissima - stesi il

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braccio, dalla sommità del viottolo,in direzione della casa di Marek, edomandai all'omaccione che miaccompagnava, più alto di me di tuttala testa, se conosceva il paralitico.Poldi si stupì della direzione cheindicavo - a destra del viottolo. Peressere sicuro che io intendessiproprio quel punto, egli stese nellastessa direzione, con la lentezza chegli era abituale, la sua manona. -Malà non c'è niente, disse -non c'ènessuna casa . E invece sì, una casac'era, una sola, il numero 70, unacasa bassa, certo, a un piano solo,una casa poco appariscente, non unavilla; le ville, le sole cheinteressassero a Poldi e di cui egliconoscesse l'esistenza, s'inerpicavanosu per la collina dalla partesinistra, formando per l'appunto laHagenberggasse, la strada in cui ioabitavo.Poldi volle sapere che cos'eraquella storia del paralitico, e io mimisi a parlarne, raccontando tuttoquello che ero riuscito a sapere dilui. Avevo appena incominciato,quando, ad un tratto, mi venne inmente che i due, di viso, siassomigliavano moltissimo, anche sequello di Marek era assai più sottile,e sembrava il viso di un asceta,mentre Poldi aveva la faccia gonfia:forse mi ero accorto della somiglianzasoltanto perché ora, nell'oscurità,non ci vedevo bene. Ma ricordavobenissimo Poldi da quellaconversazione notturna nel caffè, miaveva colpito proprio per i suoi occhiscuri e imploranti, così in contrastocon le sue manacce.-Vi assomigliate, dissi ora -masolo di viso. Lui è completamenteparalizzato. Non può muovere nébraccia né gambe. Ma non creda che siaun tipo triste. E'è coraggioso, nessunolo penserebbe. Non può muoversi,eppure studia. I professori vengonoapposta a trovarlo nellaErzbischofgasse, per fargli lezione. Enon gli chiedono un soldo. Del resto,non potrebbe pagare. Non ha soldi . -Equello assomiglia a me? domandòPoldi. -Sì, ha i suoi stessi occhi.Proprio gli stessi occhi. Se una voltavien qui a vederlo, mi creda, lesembrerà di guardarsi allo specchio .-Ma se è uno sciancato! disse Poldicon un certo malumore; sentivo che

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cominciava ad arrabbiarsi per quelparagone. -Non di testa, però! Ditesta è più intelligente di tutti noi!Non può andare da nessuna parte, estudia all'università. I professorivanno a trovarlo perché possastudiare. Una cosa mai successa. Devepur avere in testa qualcosa,altrimenti non andrebbero. Vuolproprio saperlo? Io per quel ragazzoho una grandissima stima! Anzi, loammiro! . Era la prima volta cheparlavo con tanto entusiasmo di ThomasMarek. E pensare che in realtà neanchelo conoscevo. Ma neppure in seguito,quando diventai suo amico, avreipotuto parlare di lui con maggioreentusiasmo.Ci eravamo fermati. Da quando avevofatto segno in direzione di quellacasa non eravamo andati avanti di unpasso. Poldi si rese conto soltanto apoco a poco delle reali condizionifisiche di Thomas Marek. Un paio divolte domandò se veramente non potevamuoversi da sé. -Assolutamente no. Nonpuò fare un passo. Non può mettersi inbocca da solo un pezzo di pane. Nonpuò portarsi un bicchiere allelabbra . -Ma bere, può bere? Emasticare? Può inghiottire, puòingoiare il cibo, almeno? . -Sì, sì,questo sì. E sa anche guardare! Leinon sa come è bello da vedere, quandoapre gli occhi! . -Ed è uno cheassomiglia a me? .-Sì, ma solo di viso! Come sarebbecontento, lui, se avesse le suemanacce! Pensi come sarebbe contento,se potesse accompagnare qualcuno,come lei ora accompagna me! Ma non puòfarlo, non ha mai potuto! Neppurequando era ancora un ragazzino ha maipotuto farlo . -E a lei piace! Pensareche è solo uno sciancato! . Ma, a quelpunto, la parola -sciancato mi fecearrabbiare: dopo tutto quello cheavevo detto, non avrebbe più dovutousarla. -Per me non è uno sciancato! dissi. -Per me è un uomo meraviglioso.Se lei non lo capisce mi fa solo pena.Credevo che lei capisse . Ero talmenteinfuriato che dimenticai a chi stavoparlando e mi misi a fare la vocegrossa. Continuai con il mio peana,non la smettevo più, non potevosmettere. Una volta esauriti iparticolari concreti di cui ero aconoscenza, cominciai a inventarne dinuovi, ed ero talmente convinto di

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dire il vero che Poldi continuava adascoltarmi, limitandosi ainterrompermi, di tanto in tanto, conuna sola frase, sempre la stessa: -Equello assomiglia a meDi ? . viso, hodetto; di viso le assomigliamoltissimo .E subito, era più forte di me,riprendevo il mio racconto. Venivanoin visita delle donne da lontano,soltanto per vederlo. -Si mettonodavanti alla sua carrozzella, e loguardano. Sua madre porta fuori unasedia, perché possano sedersi. Potreigiurare che sono innamorate di lui.Stanno lì in attesa che lui le guardi.Lui non può accarezzarle, non può farniente con loro. Ma può guardarle, congli occhi . E tutto quello che dicevoera vero, anche se lo stavo inventandoquella notte. Quando, poco tempo dopo,diventai amico di Thomas Marek, vidicon i miei occhi le donne e le ragazzeche venivano a vederlo, e quello chenon vidi me lo raccontò lui stesso.Quella notte il mio accompagnatoreed io non facemmo insieme più neancheun passo. Poldi era diventato semprepiù silenzioso, non usò più la parola-sciancato e dimenticò che volevaaccompagnarmi sino al cancello del miogiardino per dare a modo suoun'occhiata in giro. Dimenticò leville. Aveva in mente il giovane cheassomigliava a lui, ma non potevastare in piedi e neanche camminare.Gli porsi la mano, ma solo quando ebbifinito il mio peana. Egli la prese,quasi con titubanza, e non la strinseforte come faceva sempre. Si voltò, eandò giù per il viottolo che avevamopercorso insieme in salita. Non mifaceva più paura.Il sostegno della famiglia.A partire da quella notte il mioimbarazzo davanti a Marek diminuì dicolpo. Avevo parlato talmente tanto dilui che smisi di evitarlo. Quel peanache gli avevo intonato me l'aveva resopiù familiare. E non mi era sfuggitoche il mio racconto così pieno dislancio aveva ammansito quel tipaccioche dopo la mezzanotte mi avevaaccompagnato con passi pesanti su perla Erzbischofgasse. Da allora ogniinteresse per Poldi e per la suacombriccola svanì del tutto. Io nonbadavo quasi più a loro, quandoentravo in quel caffè ci facevamo uncenno da lontano, ed essi non

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manifestarono più la minima curiositànei miei confronti. Non so in qualeforma fosse stato loro riferito il miocomportamento di quella notte.Comunque, quale che fosse la lorovalutazione della faccenda, non miriuscì di cavare una parola di boccadalle persone che bazzicavano queipoveri diavoli. Il loro originariointeressamento, tuttavia, non sitrasformò in disprezzo e neppure inodio; mi lasciarono tranquillo, milasciarono in pace a tal punto chesentivo da parte loro quasi una lievesimpatia; tutt'altro che ostentata,certo, anzi a malapena percettibile, etuttavia sufficiente a suscitare ladisapprovazione del proprietario delcaffè.Che l'individuo più robusto eintrattabile della banda mi fossevenuto dietro non era sfuggito alsignor Bieber, che perciò volle sapereche cosa era successo tra noi quellanotte. Con sua grande delusione, glirisposi che non era successo nulla.-Ma come, non l'ha accompagnata finoalla porta di casa? disse lui, con untono che era quasi una minacciaNo, . fino alla Erzbischofgasse . -E poi? .-Poi ha fatto dietrofront . -Senzachiederle niente?! . -No, non mi hachiesto niente . -Se non fosse lei,dottore, nessuno la crederebbe . Erasicuro che gli nascondessi qualcosa; ein effetti aveva ragione, perché ionon dissi una parola sul veroargomento della nostra conversazione;non avevo abbastanza stima per l'uomoche m'interrogava. Forse, inoltre, nonavevo voglia di stare a sentire - emeno che mai da uno come lui - lesolite frasi sprezzanti sulle personeche, non essendo in grado di stare inpiedi e di muoversi da sole, non sonoaltro, alla fin fine, che un peso peril contribuente. -E cosìquell'individuo sarebbe venuto su conlei zitto zitto. Non sembra proprio dalui . -Non ho detto che sia statosempre zitto; comunque non mi hachiesto niente. Del resto, non avreisaputo proprio che cosa rispondergli .Forse fu questa frase a rendere ilproprietario del caffè ancora piùdiffidente nei miei confronti.Figurarsi se non avrei saputo che cosarispondergli! Abitavo nella zona dadue o tre anni. In tanto tempo sivengono a sapere una quantità di cose.

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E, in ogni caso, dichiarando che nonmi aveva chiesto niente e che perciònon aveva manifestato intenzionicriminose, io, in realtà, proteggevoquel manigoldo.Mi accorsi che adesso il signorBieber faceva molta attenzione almomento in cui io entravo nel suocaffè. Quando erano arrivati -loro ?Quando arrivavo io? Quand'è che loroevitavano a bella posta di venire,anche se io c'ero? Perché non mirivolgevano più la parola? C'era sottoqualcosa. Poiché di un rapporto palesenon c'era traccia, il signor Bieberconcluse che esisteva tra noi unrapporto segreto; e anzi era cosìrigorosamente segreto che doveva avereun significato ben preciso. Il signorBieber subodorava qualcosa, era certo,graniticamente certo, che ci fossesotto qualcosa di losco, e aspettavache un colpo di scena mettesse tuttoin chiaro. Raramente di mattina iocomparivo nel suo locale, ma, quandoun giorno vi entrai di buon'ora, eglivenne diritto verso di me e mi dissesenza tanti complimenti, nel suosolito modo: -Questa volta è andatastorta! . -Che cosa è andato storto? .-Su, l'avrà certo sentito anche lei!Li hanno acciuffati tutti! Prima lihanno lasciati entrare in casa, e poihanno fatto scattare la trappola. Iquattro li han già messi dentro. Glidaranno parecchi anni! Con tutti queiprecedenti! Doveva finire male perforza! E stanno cercando anche ilSeel. E'è sparito, lo scrittore! .Pronunciò l'ultima parola con un tonodi scherno che era diretto o a me (mivedeva scrivere spesso), oppure allamia pretesa di conoscere un libroscritto da Seel. Notò che la notiziami aveva colpito, e coronò le sueinformazioni con queste parole pienedi premura: -Vede come ho fatto bene ametterla in guardia. Se no anche lei,adesso, avrebbe delle noie .Mi immaginai il mio accompagnatoredi quella notte, sprizzante energia datutti i pori, in una cella angusta, eallora compresi perché il mio raccontosul paralitico l'aveva colpito tantoprofondamente da fargli dimenticare isuoi propositi e da indurlo atornarsene indietro a mani vuote. Già,non mi aveva chiesto niente, nemmenouna domanda mi aveva fatto, glie n'eramancato il tempo, era rimasto

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invischiato in quella storia che gliavevo gettato sul capo come una rete.Si parlava di uno che gli assomigliavae non poteva muovere né gambe nébraccia; era davvero mal messo, ancorapeggio di lui quand'era in cella.Tutto era capitato abbastanza infretta; dalla notte del mio colloquiocon Poldi al giorno in cui seppi cheil ragazzone dalle mani possenti eradi nuovo chiuso in una cella eranopassati pochi mesi. Ma ormai mi erocostruito un'immagine così viva edeccitante del giovane paralitico cheun incontro con lui era inevitabile.Non giravo più alla larga, quandovedevo che qualcuno parlava con lui,in piedi accanto alla carrozzella,anzi gli passavo davanti, salutavoscandendo le sillabe, e quando udiiper la prima volta la voce delparalitico rispondere al mio saluto,ne fui lietamente sorpreso. Era comeun soffio che saliva dal di dentro,dal profondo, e dava colore e forma alsuo saluto; continuavo ad averenell'orecchio quel suono, e avevovoglia di riascoltarlo. Il giornosuccessivo fortuna volle che trovassiseduto accanto a lui il professorGomperz. Lo riconobbi da lontano dallasua lunga barba e dalla figura che,anche seduta, sembrava alta e dritta.Non sapevo se mi avrebbe riconosciuto,quando a lezione gli avevo rivolto laparola ero sempre in mezzo amoltissimi altri studenti, e una voltasola gli avevo fatto una breve visitaper una faccenda di ordinariaamministrazione.Ma lui, mentre mi stavo avvicinando,mi notò subito e mi guardò con tantasorpresa che, senza provare alcunimbarazzo, mi fermai e gli porsi lamano. Egli fece solo un cenno del capoe non mi tese la sua, e io arrossii divergogna per la mia mancanza di tatto.Come avevo potuto porgergli la mano,in presenza di un uomo paralizzato! Mail professore, rivolgendosi a me conlenta affabilità, mi pregò di dirgliil mio nome, che gli era passato dimente, e subito dopo mi presentò aThomas Marek. -Il mio giovane amico lavede spesso passare di qui, disse -eha capito che anche lei è studente; haun istinto infallibile per le persone.Perché non viene una volta a trovarlo,dato che abita da queste parti? .Marek gli aveva già detto tutto

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questo, mentre io mi stavoavvicinando; anch'egli mi avevanotato, proprio come io avevo notatolui, e si era fatto dire dove abitavo.Il professor Gomperz aggiunse cheThomas Marek studiava filosofia comemateria principale; andava da lui unavolta alla settimana, per due ore, edera così soddisfatto dei risultati chegli sarebbe piaciuto venire su piùspesso; purtroppo, però, non avevatempo: la strada era lunga, quellevisite prendevano un pomeriggiointero; Thomas Marek, tuttavia, se losarebbe meritato che egli venisse sudue volte alla settimana. Il tono nonera di adulazione, anche se quelleparole erano certo dette perincoraggiarlo: era il tono diretto eunivoco che mi sarei aspettato da unfilosofo cinico. Ma il paralitico, conil suo forte soffio, dichiarò: -Io nonso ancora fare niente. Ma farò dipiù .Da quel momento in poi le coseprocedettero in fretta. Era l'iniziodi maggio, il paralitico se ne stavaspesso sdraiato al sole davanti acasa, io gli facevo visita e sua madrecorreva dentro a prendermi una sedia,in modo che non me ne andassi viatroppo presto. Così mi fermavo alungo, sin dalla prima volta più diun'ora. Quando feci per salutarlo,egli mi disse: -Lei crede che io siagià stanco. Non mi stanco mai, quandoho la possibilità di fare unadiscussione seria. Con lei parlovolentieri. Si fermi ancora un po'! .Fui spaventato dalla vista delle suemani, che prima, passandogli davantiin fretta, non avevo mai notato. Ledita erano anchilosate e rattrappite,ed egli non poteva muoverle a suopiacimento; quel giorno erano finitecontro il fil di ferro della rete direcinzione del giardino e, ferendosi,vi si erano attorcigliate con una taleforza che non riuscivano più astaccarsi. La prima volta che suamadre venne fuori di casa, liberò conprecauzione le dita dalla rete, unaper una, e non fu affatto una cosasemplice; poi spinse la carrozzella diThomas un poco più lontano, in modoche le dita non potessero piùimpigliarvisi. E intanto mi scrutò coni suoi occhi infossati (era una donnaprecocemente invecchiata), e mirivolse la tacita preghiera, soltanto

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con gli occhi, di fare attenzione chela carrozzella non scivolasse di nuovocontro il reticolato.Thomas era sempre scosso da un lievemovimento che si comunicava anche allacarrozzella. Sua madre gli versò inbocca la sua medicina; dovevaprenderla parecchie volte al giorno,disse Thomas, quando lei si fuallontanata; aveva degli spasimi cosìviolenti che non poteva far nullasenza quel farmaco, né leggere néparlare; ma quello era un buonrimedio, lo prendeva già da moltianni. Faceva sempre effetto, perqualche ora. Quale fosse la suamalattia, nessuno lo sapeva. Era unamalattia completamente sconosciuta.Era già stato più volte, per lunghiperiodi, alla clinica neurologica,dove era stato visitato dal professorPappenheim in persona, dato che il suocaso era molto interessante. Maneppure Pappenheim era riuscito acapirci qualcosa, la sua malattia eraunica, tant'è che ancora non aveva unnome. Questo lo ripeté più volte; chenessuno avesse la sua stessa malattiaera una cosa importante per Thomas. Epoiché non aveva un nome, anche perlui rimaneva un segreto, e non dovevavergognarsene. -Non ne verranno mai acapo, disse -non in questo secolo,almeno; in seguito, chissà; ma allorala cosa non mi riguarderà più .Sin da piccolo aveva avutodifficoltà a stare in piedi, ma i suoiarti non erano deformi, non si notavanulla di particolare. Aveva circa seianni, quando le braccia e le gambeavevano cominciato a deformarsi erattrappirsi, e da allora lasituazione era andata continuamentepeggiorando. Thomas non disse mainulla sul periodo in cui eranocominciati gli spasimi, forse lo avevadimenticato, e comunque fra noiesisteva un tacito accordo per cui ionon dovevo domandare mai nulla a suamadre. Tutto ciò che sapevo di Thomasme lo diceva lui stesso; detto da unaltro, non avrebbe certo avuto lostesso significato; la forza del suosoffio, infatti, un soffio che salivada dentro, dal profondo, conferivaalle sue parole la caratteristicainconfondibile del respiro. Le sueerano parole in statu nascendi,lasciando la sua bocca si espandevanocome tiepido vapore, non erano i

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detriti solidi che rotolano giù dallenostre bocche.Già la prima volta mi parlò diun'opera filosofica che avevaintenzione di scrivere, ma non dissesu quale argomento. Volevainnanzitutto finire gli studi, elaurearsi; lo riteneva necessarioaffinché in seguito la sua opera fossepresa sul serio. Una volta chel'avesse scritta, non voleva essereletto per compassione, desideravainvece essere giudicato come tutti glialtri, cioè in base al merito. Accantoa lui, sul cuscino, era stato posatoun volume della Storia dellafilosofia di Kuno Fischer. Si eraproposto di leggere quell'opera indieci volumi, frase per frase, ed eraarrivato circa a metà di quello suLeibniz, un grosso tomo. Voleva farmivedere un errore di stampa che trovavabuffissimo. Di colpo tirò fuori lalingua, e con essa in un battibalenosfogliò il libro tornando indietro didieci pagine; ecco, lo aveva trovatoil passo che cercava, e muovendo ilcapo di scatto m'invitò a leggerlo iostesso. Non avevo capito bene sedovevo prendere in mano il volume, nonmi sembrava il caso di levarlo dalcuscino, e mi facevano un po' ribrezzoquelle pagine che - sino al punto incui era arrivato - erano tutte statelambite dalla sua lingua ed eranoimpregnate della sua saliva. Siccomeesitavo, egli mi disse: -Lo prenda, loprenda pure in mano. Viene dallabiblioteca del professor Gomperz, cheha la più grande biblioteca filosoficadi Vienna . L'avevo sentito dire, e mifece una grande impressione sapere cheil professor Gomperz metteva adisposizione di Thomas Marek i volumidi quella biblioteca.-Non gl'importa se i suoi librirestano qui da me per tanto tempo. Ilvolume su Spinoza ce l'ho ancora incasa. Dice che è un onore, per ilibri, essere letti così a fondo . E,dicendo questo, estrasse la lingua conmossa fulminea e scoppiò a ridere.Sentiva che tutto ciò che si riferivaal suo modo di leggere mi toccavaprofondamente, ed era raggiante difelicità per il fatto di potermioffrire una cosa così fuori delcomune. Lui stesso voleva goderne,prima che io mi ci abituassi. Glicapitava spesso di avere delle visite,

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mi disse in seguito, ma dopo una voltao due i visitatori pensavano di avervisto ornai tutte le sue peculiarità enon tornavano più. Questo looffendeva, perché di cose da dire neavrebbe avute moltissime, tutte cosedi cui quella gente non aveva la piùpallida idea. Ma non se nemeravigliava, perché conosceva gliuomini. Aveva un metodo infallibileper riconoscere il carattere dellepersone, le osservava mentrecamminavano.Quando era sdraiato al sole davantia casa e, non avendo più voglia dileggere, chiudeva gli occhi, nondormiva mai. E rideva fra sé e sédella gente che si preoccupava dicamminare senza far rumore, per nonsvegliarlo. Quello era appunto uno deisuoi metodi per studiare il caratteredei passanti: il loro modo di cambiarepasso mentre si avvicinavano, e poi dinuovo quando si erano allontanati epensavano che lui non potesse piùsentirli. Ma lui li sentiva moltoprima di quanto pensassero, e anchemolto dopo. Aveva sempre in mente ilpasso di qualcuno; c'erano persone cheodiava per il loro modo di camminare,e altre di cui sarebbe volutodiventare amico, perché gli piacevacome camminavano. E comunque liinvidiava tutti. Il suo più profondodesiderio era di poter camminare; edera convinto (me lo confidò con unritegno per lui insolito) che ungiorno, chissà, avrebbe potutomeritarsi di camminare grazie a unagrande opera filosofica. -Quandol'opera sarà scritta, mi alzerò ecamminerò. Non prima. Ci vorrà ancoramolto tempo .Da coloro che gli passavano vicinosi aspettava molto, ascoltava i loropassi trepidando, come in attesa di unprodigio. Ogni nuova persona chepassava doveva dimostrarsi degna dellapropria fortuna, e distinguersiattraverso parole speciali, che nessunaltro avrebbe saputo dire. Thomas nonpoteva sopportare le frasi insulse ebanali che sentiva mormorare dallecoppiette di innamorati che,credendolo addormentato, siavvicinavano alla sua carrozzella. Perlui ascoltare le loro -idiozie erauna delusione bruciante, che ognivolta si rinnovava; quelle frasi se leannotava mentalmente, e le più insulse

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le ripeteva con rovente disprezzo. -Aquello bisognerebbe proibire dicamminare, diceva -un tipo simile nonmerita davvero di camminare . Maforse era un bene per Thomas che lecoppie di innamorati che siavvicinavano a lui non mormorasserofrasi di Spinoza. Anche se egli siaspettava sempre che qualcuno glirivolgesse la parola, nella scelta dicoloro che si degnava di ascoltare eraassai selettivo. Far finta di esseresordo gli costava fatica - era la suaparticolare forma di autocontrollo -ed era fiero se gli riusciva didimostrare il suo disprezzo a unaterza persona. Appena il passante, cheThomas sembrava non ascoltare affatto,se n'era andato, tutto il suo viso sianimava, ed era capace di ridere cosìforte che la sua carrozzellacominciava a ondeggiare; poi diceva:-Adesso quello è convinto che io siasordo. Ma guarda un po' cosa si èmesso in testa! A uno così nondovrebbe neanche essere permesso distare in piedi! E gli faccio ancorapiù compassione perché mi crede sordo.Ma in realtà è lui che mi fa pena. E'èun tale imbecille! .Era suscettibile in tutto, ma inparticolare nei confronti del modo incui stavano in piedi e camminavanocoloro che non si rendevano conto delproprio privilegio. Thomas era certoconsapevole dell'effetto dei suoigrandi occhi scuri, e li usava persostituire tutti quei movimenti degliarti che gli erano preclusi. A metà diuna frase si interrompeva e chiudevagli occhi con una tale drammaticitàche il suo interlocutore ne era ognivolta un po' spaventato, anche se daun pezzo aveva fatto l'abitudine aquel suo gioco. Mai, tuttavia, egli silasciava sfuggire l'attimo in cuiThomas, molto lentamente, sollevava lepalpebre e apriva gli occhi con calmamaestosa. In quei momenti assomigliavaal Cristo di un'icona orientale.Aprendo gli occhi con grandissimalentezza Thomas era serissimo, era ilsuo modo di esibirsi: una specie dispettacolo rituale.La parola Dio non gli saliva maialle labbra. Quando era ancora moltopiccolo - aveva una sorella e unfratello - sua madre esortava glialtri figli a pregare ad alta voceper la guarigione di Thomas. Questo lo

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riempiva di rabbia e di disperazione.All'inizio, quando i fratellicominciavano a pregare, lui si mettevaa piangere, ma poi cominciò ainterromperli, urlando, ingiuriandoli,bestemmiando Dio e scatenando un taleputiferio che la madre si spaventò ealla fine lasciò perdere le preghiere.Thomas non era affatto devoto.Raccontandomi quegli episodi lontani,giustificava così i suoi sfoghiprecoci contro Dio: -Che razza di Dioè mai questo, che prima bisognapregarlo! Ma se sa benissimo tutto!Dovrebbe fare qualcosa per conto suo,di sua iniziativa! . E poi aggiunse:-Ma non fa nulla e, da quest'ultimafrase, si sentiva che in lui lasperanza non era morta del tutto.La seconda volta che andai a farglivisita non lo trovai più davanti acasa. Entrai; sua madre mi stavaaspettando e mi condusse nelsoggiorno. Thomas era là, nella suacarrozzella, vicino al tavolo dapranzo; sopra il sofà, alle suespalle, pendeva un quadro delGiorgione, I tre filosofi. Avevorivisto da poco l'originale alKunsthistorisches Museum, e mi sembròuna buona copia. Thomas me ne parlòsubito, e ben presto notai che miaveva ricevuto in casa per parlarmidella sua famiglia. Qui era piùfacile, poteva accennare direttamentea ogni cosa, fuori le sue parolesarebbero suonate meno credibili. Suopadre era pittore, la copia delGiorgione era opera sua; quel quadroera il suo unico capolavoro, la cosamigliore che avesse mai dipinto. Nonc'era nient'altro, nella suaproduzione, disse Thomas, che valessela pena di vedere. Certamente suopadre dovevo averlo già visto, ognitanto portava a spasso la sua bellachioma da artista, era un bell'uomoche camminava diritto come un fusoposando arditamente lo sguardo suquesto e su quello. Ma dietro quellosguardo non c'era nulla, a casa nonfaceva che trascinarsi da una sediaall'altra, non guadagnava il becco diun quattrino, una volta ogni due annigli capitava ancora di riceverel'incarico di eseguire una copia, manessuna gli era più riuscita così benecome I tre filosofi, un lavoro cherisaliva a molti anni addietro.Sua madre se n'era andata; faceva

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sempre in modo che Thomas rimanessesolo con i suoi visitatori, così dapermettergli di parlare anche di lei.Veniva da un paesino di campagna dellaBassa Austria, da ragazza faceva lamungitrice. Il giovane pittore erapassato di là, tutto impettito, era unuomo che faceva colpo con quellachioma ondeggiante e il cappellofloscio, e le ragazze non gli levavanogli occhi di dosso: lei si era presauna cotta, l'aveva sposato, e lesembrava Dio sa quale onore; ma dietrola chioma non c'era niente, si erafatta abbindolare dalle sue pose,l'arte del padre era tutta lì.La madre doveva mantenere lafamiglia, perché il padre nonguadagnava quasi nulla. Erano venutitre figli, sua sorella, suo fratello elui stesso, il preferito della mamma;dai sei anni in poi, aveva avutosempre più bisogno di lei, e infattimandare avanti la casa le dava menolavoro che occuparsi di lui. La vitaera stata difficile per sua madre, cheaveva mosso mari e monti per trovareun medico capace di guarirlo. Avevaspinto la sua carrozzella in tutte lecliniche, non si lasciava mandar via,ci riprovava continuamente - era ilsuo unico pensiero, un'idea fissa. Mada un po' di tempo era tutto cambiato,da otto anni, ormai, era lui, Thomas,il sostegno della famiglia. Suofratello lavorava come impiegato e simanteneva da sé; sua sorella - perpoter andar via di casa - si erasposata, con grande dispiacere diThomas: era una donna meravigliosa,tutti la notavano, nell'incederesembrava una dea - o anche unaballerina, un'attrice all'apice dellagloria. Da bambini erano statilegatissimi. La sorella badava a luiquando la madre andava a lavorare, sidicevano tutto, non avevano segretil'uno per l'altra, lei gli leggeva deilibri ad alta voce, mentre lui avevadestato la sua ambizione e non sistancava di alimentarla. Sarebbe statobellissimo se fosse rimasta a casa; manon ce la faceva. I giovanotti chel'ammiravano, e venivano a trovarla,Thomas non li trovava degni di lei econtinuamente li sminuiva ai suoiocchi; sua sorella si era accorta chenessuno di essi poteva competere conlui sul piano intellettuale. Ma poiera saltato fuori un -impiegatuccio ,

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un professore di scuola media, che luistimava meglio di tutti gli altri- -un tipo noioso, ma tenace che perònon mollava -, e così sua sorellaaveva deciso di sposarlo. Eppure aquel tempo, ormai, Thomas riceveva ilsuo mensile, che sarebbe bastato amantenere tutta la famiglia. Sì, eraproprio così, manteneva la famigliacon i suoi studi.Lo disse con orgoglioso sarcasmo, unsarcasmo diretto alla sorella, chepreferiva farsi mantenere dal marito,invece che da lui; con il suo mensileavrebbe potuto dar da vivere anche alei, se fosse rimasta a casa. Noncapivo bene che cosa intendesse con laparola -mensile e mi venne voglia dichiederglielo; ma poiché mi sembravauna mancanza di tatto, mi astenni dalfarlo. Ma non ce n'era bisogno, perchéThomas mi spiegò l'intera faccenda inmodo esauriente e particolareggiato.Non appena i professori che venivanosu a trovarlo si furono convinti cheThomas era un giovane di notevoletalento, tanto che gli predissero unbrillante avvenire come filosofo,pensarono di sottoporre il suo caso auna ricca e anziana signora, nota peril suo mecenatismo. Quel che leinteressava non era una qualsiasiattività di beneficenza, era una donnache cercava piuttosto casiassolutamente straordinari, unici nelloro genere. Voleva che le sueiniziative tornassero utili a tuttal'umanità, non a un unico esseresvantaggiato. Il professor Gomperz, manon solo lui, le spiegò che Thomas, sesolo avesse potuto completare conserietà la sua preparazione, avrebbeottenuto nel campo del pensiero deirisultati assolutamenteineguagliabili. Ciò che nellasituazione di partenza appariva comeuno svantaggio, si sarebbe rivelato unvantaggio: c'era solo bisogno di moltapazienza e di una rendita adeguata. Lapresenza della madre eraindispensabile per lui; e, se quelladonna voleva fare le cose a dovere,bisognava darle la possibilità dioccuparsi del figlio tutto il giorno;Thomas, inoltre, non avrebbe potutostudiare con la necessariaconcentrazione se avesse saputo chesuo padre era in miseria. Il padre, èvero, si poteva considerare unfallito; ma purché non gli si facesse

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pesare troppo la sua inettitudine, nonavrebbe dato il minimo fastidio. Nonera un uomo cattivo, bisognavacompatirlo, come tutti coloro che siaffidano alle proprie gambe, e nonalla propria testa, e se ne vanno aspasso impettiti, anziché leggere deilibri ponderosi.La signora era venuta in casa unavolta soltanto: il padre di Thomas lastava aspettando seduto sul sofà,davanti al -suo Giorgione. Leicontemplò a lungo il quadro e sicomplimentò con lui, ed egli ebbe laspudoratezza di tacere che si trattavasoltanto di una copia. Il quadro eracosì bello, disse la signora, che leisarebbe stata felice di rilevarlo -disse rilevarlo, non comprarlo, erauna persona estremamente delicata -,ma suo padre diventò sgarbato edichiarò: -Questo quadro non è invendita. E'è la mia opera migliore enon intendo separarmene . Lei sispaventò e gli fece le sue scuse. Nonvoleva essere indiscreta, era più chenaturale che egli conservasse pressodi sé la sua opera migliore, al fine,se non altro, di trarne ispirazioneper altre opere. A Thomas, che eranella stanza, seduto nella suacarrozzella, era venuta una granvoglia di interrompere quel colloquiogridando: -Non le piacerebbe vederegli altri quadri? , oppure: -E'è giàstata al Kunsthistorisches Museum? .Quando c'era di mezzo l'impudenza disuo padre (così la chiamava Thomas),di solito non lo teneva più nessuno.Ma quel giorno era stato zitto. Lasignora non osava guardarlo fisso infaccia, ma aveva visto, naturalmente,che sul cuscino accanto a lui c'era unpesante libro di filosofia, e Thomasle avrebbe mostrato volentieri come sela cavava bene nella lettura. Avevapensato di leggere in sua presenzaun'intera pagina ad alta voce, in mododa darle la certezza che nessunovoleva imbrogliarla. Ma la signora eratroppo delicata, e forse aveva anchepaura della sua lingua - parecchiepersone avevano paura di vederloleggere con la lingua -, sicché silimitò a guardarlo con grandegentilezza e chiese a suo padre sepensava di riuscire a cavarsela con400 scellini al mese; e, aggiunseancora, se quella cifra non bastava,potevano dirlo tranquillamente. Il

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padre scosse la testa e disse di no,quella cifra era sufficiente, ma laquestione era un'altra: per quantotempo avrebbe potuto contarci? Glistudi del figlio potevano durare alungo.-Per tutto il tempo che sarànecessario. Di questo non devepreoccuparsi disse la signora. -Seper lei va bene, cominciamo a fissareun periodo di dodici anni. In modo chesuo figlio non si senta assillato.Forse gli verrà voglia di cominciare ascrivere il suo libro. Ci si aspettamolto da lui, da tutte le parti sentodire un gran bene delle sue capacitàintellettuali. Se poi avrà voglia diandare avanti con il suo libro,potremo sempre prolungare il periododi quattro o cinque anni .Il padre, invece di cadere inginocchio davanti a quella donnaringraziandola per la fiducia cheriponeva in suo figlio, si limitò alisciarsi la barba e a dire: -Credo dipotermi dichiarare d'accordo, a nomedi mio figlio . La signora loringraziò con calore, sembrava quasiche lui le avesse salvato la vita, edisse al padre di Thomas, che nonfaceva mai niente: -Lei avrà certomolto da fare. Non voglio trattenerlaoltre . Poi fece a Thomas un cennogentile. Andando verso la porta dovevapassare molto vicino alla suacarrozzella, e così aggiunse: -Lei midà una grande gioia. Ma temo che ilsuo libro non riuscirò a capirlo. Nonsono portata per la filosofia . E sene andò. Da allora, il primo di ognimese, erano arrivati puntualmente 400scellini da parte sua. Erano giàpassati otto anni, da quel giorno, enon se n'era dimenticata nemmeno unavolta.Mi sembrava di non aver mai uditouna storia così bella. Thomas si eraassunto un unico impegno: continuare aleggere. Ma questo l'avrebbe fattocomunque, non c'era niente che glipiacesse di più. Pensavano, certo, chesi sarebbe laureato, se solo fossestato materialmente possibile. Ma suquesto la signora non aveva dettoneanche una parola. Probabilmentesapeva che c'erano delle difficoltà.Dove, per esempio, avrebbe potutosostenere gli esami, quando fossevenuto il momento? Sua madre avrebbedovuto portarlo in carrozzella fino

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all'università, oppure i professoriche venivano a fargli lezione (eranoparecchi) speravano, dato il casoparticolare, di ottenere per luil'autorizzazione a essere esaminato incasa? In fondo tutto il suo studio sisvolgeva in casa, oppure, nei giornidi sole, all'aperto, nellaErzbischofgasse.Thomas fece il nome di un secondodocente che veniva fin lassù appostaper lui; gli dava lezioni di economiapolitica, era il segretario dellaCamera del Lavoro, Benedikt Kautsky,uno dei figli del famoso Karl Kautsky.Thomas trovava divertente che i suoiinsegnanti di maggior spicco, duepersone di indubbio valore, fosseroentrambi figli di padri ancora piùfamosi. Il padre di Heinrich Gomperzera Theodor Gomperz, il filologoclassico; la sua opera in più volumisui Pensatori greci era statapersino tradotta in inglese; nellavecchia Austria era stato elettosenatore e veniva considerato unautorevole portavoce del partitoliberale. -Da me sono rappresentatitutti i partiti diceva Thomas. -Io miriservo la libertà di pensare con lamia testa e non sono legato anessuno .Al padre l'essere entrato in scenadavanti al suo Giorgione era bastato,e subito dopo fu messo in secondopiano, il che corrispondeva airapporti effettivamente esistenti inquella famiglia. Di tanto in tanto lovedevo, quando entravo nella casa diThomas; ma spesso era fuori, apasseggio all'aria aperta, era unresiduo del suo antico amore per lanatura. Tuttavia non mi sembravapossibile che fosse sempre a spasso;dove altro andasse, tuttavia, non loso proprio. Nei caffè non lo si vedevamai, e in realtà suppongo che,nonostante le affermazioni del figlio,che non gliene passava una liscia, daqualche parte andasse a lavorare. Acasa, per combinazione, lo si trovavasempre seduto davanti ai Trefilosofi; uno si abituava a vedere lasua testa aggiunta alle altre tre,accanto alle quali non faceva poi unacattiva figura. Con il tempo brutto,quando bisognava entrare in casa, ec'era anche il padre di Thomas, sipassava davanti alle quattro teste delsoggiorno per raggiungere, sul retro,

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la camera da letto dei genitori, doveThomas veniva spinto in carrozzella dasua madre; là si restava soli con lui,e si poteva parlare indisturbati, comese in casa non ci fosse nessuno.La madre era talmente dedita a luiche neanche si notava il suo sguardo,o solo assai di rado. I suoi occhierano sempre puntati su Thomas o suqualcosa che lei gli stava portando, avolte gli versava in bocca lamedicina, a volte gli dava da mangiareimboccandolo. Thomas era di buonappetito, e la madre cucinava soltantoper lui; quel che mangiavano gli altriera del tutto secondario. Ma Thomasnon lodava mai quello che mangiava;spregiare una cosa ordinaria come ilcibo si addiceva a un filosofo. Permanifestare il suo disprezzo, Thomassi era abituato a fare una certasmorfia, che sempre ti spaventava unpoco, perché la interpretavi comediretta a te, anche se venivi a sapereche riguardava tutt'altro. Il giocotra le sopracciglia, le narici e gliangoli della bocca era simile a quellodi una maschera orientale, che pureegli non poteva conoscere. Una voltaThomas mi confessò che aveva studiatola mimica della sua espressione didisprezzo e, quando gli raccontai, frail serio e il faceto, come mi avessecolpito la seguente frase di Leibniz,tratta da una delle sue lettere: -Jene méprise presque rien , egli andò incollera e sbuffò contro il volume diLeibniz posato sul suo cuscino: -Vuoldire che Leibniz ha mentito! . Non glipiaceva che lo si stesse a guardaredurante l'-imboccamento , come lui lochiamava. Se però ogni tanto capitavadi esser lì, Thomas riusciva amantenere sul viso quella suaespressione di disprezzo per tutto iltempo necessario all'operazione. Poirespingeva gli ultimi due o trebocconi che restavano sul piatto ediceva alla madre, in tono piuttostosgarbato: -Porta via questa roba! Nonla voglio più vedere! .Lei non lo contraddiceva mai. Noninsisteva mai perché lui facessequalcosa. Eseguiva in silenziociascuna delle sue disposizioni, avolte così sbrigative e imperiose dasuonare come ordini. Mentre svolgevail suo compito, gli occhi infossatidella madre sembravano non guardare,se fosse stata cieca avrebbe potuto

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fare ogni cosa altrettanto bene;eppure in realtà non le sfuggiva ilpiù piccolo cenno di Thomas, né dichiunque altro, quando quel cenno siriferiva a suo figlio. C'erano personeche le piacevano, perché vederlefaceva bene a Thomas, e persone cheodiava, perché lo deprimevano. Quandouno se ne andava, lei guardava in chestato d'animo era Thomas e, non appenasi accorgeva che qualcuno era riuscitoad accrescere la sua fiducia in sestesso, subito costui diventava unodei visitatori più graditi, un suobeniamino. Odiava soprattutto chiparlava a Thomas di viaggi o diattività sportive. C'era gente che eraindotta a parlarne proprio a causadello stato di Thomas, gente che allasua vista si sentiva a tal puntostringere il cuore da provare ildesiderio di parlare di tutto ciò chenella propria vita era il piùpossibile lontano da quellacondizione. Quando queste personecercavano una giustificazione -ammesso che la cercassero - a questaloro crudeltà, dicevano a se stessiche farlo partecipare proprio a quellecose che più gli mancavano potevaessere un buon modo di -svagarlo .Thomas li stava a sentire respirandopesantemente, e spesso scoppiava inuna breve risata, il che liincoraggiava a continuare.Uno studente che andava a trovarlotutte le settimane -per compiere unabuona azione , gli raccontò un giornocon toni drammatici come avesse vintouna corsa a ostacoli. Non glirisparmiò un solo particolare, eThomas, quando mi riferì questoepisodio molti anni dopo, li avevaancora tutti in mente. Quando ilmatador se ne fu andato, Thomas fupreso da una tale disperazione che nonvoleva più vivere. Il termometro concui gli era stata misurata latemperatura era ancora appoggiato sulcuscino, Thomas riuscì a prenderlo conla lingua, se lo mise in bocca, lomasticò fino a ridurlo in minutissimiframmenti, che ingoiò insieme almercurio. Ma non gli accadde nulla, loportarono subito all'ospedale, e ilsuo intestino, straordinariamenterobusto, gli giocò un brutto scherzo:non solo restò in vita, ma non ebbeneanche un dolore.Fu il suo primo tentativo di

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suicidio. Nel corso degli anni ne fecealtri due. Dato che con le braccia ele mani non poteva far nulla, ognitentativo richiedeva una rapidità euna risolutezza assolutamentestraordinarie. La seconda volta spezzòcoi denti un bicchiere e ne inghiottìle schegge. La terza volta mangiò ungiornale intero. Con lacrime di rabbiaconfessò, concludendo il suo racconto,che né l'una né l'altra volta gli eraaccaduto nulla, proprio nulla. -Sonol'unico essere umano che non si puòammazzare . Di alcune delle suepeculiarità era fiero, ma non diquella. Non trovavo che in fondo, datala sua situazione, non ci avevaneanche provato troppo spesso?Passi falsiCon Marek parlavo della massa senzaalcun ritegno ed egli aveva un modo diascoltarmi diverso dagli altri. DopoFredl Waldinger, fu Thomas la secondapersona con la quale intavolaisull'argomento lunghe conversazioni.Egli non aveva l'atteggiamento ironicoche a Fredl derivava da una conoscenzadel buddhismo sostanziata da una riccae complessa cultura. Quando parlavocon Fredl della massa - soprattuttonei primi anni - mi sembrava quasi diessere un barbaro, che ripeteva semprele stesse cose, mentre il miointerlocutore era in grado dicontestare le mie argomentazioni conragionamenti complicati e puntuali chespesso mi colpivano. Ma soprattutto ilpunto di partenza di Buddha - ilsignificato di fenomeni come lamalattia, la vecchiaia e la morte - miinduceva a riflettere: già alloratutto ciò che riguardava la morte eraper me più importante della massa.Invece quando dicevo a Thomasqualcosa sulla massa, avvertivo untipo di reazione completamentediversa, che all'inizio mi sorprese.Egli riferiva a se stesso ladescrizione del processo che per meera diventato il mistero di tutti imisteri, la dissoluzione del singolonella massa, ed esprimeva il dubbio dipoter mai diventare parte di unamassa. Una volta aveva pregato lamadre di portarlo con sé alla sfilatadel Primo Maggio, e lei, controvoglia- ma Thomas aveva tenutoduro -, l'aveva spinto nella suacarrozzella per la lunga strada cheportava in città. Tuttavia, quando

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fece per unirsi alla sfilata, fucostretta ad entrare in un gruppo diinvalidi che erano venuti incarrozzella per partecipare allamanifestazione. Thomas protestò, gridòcon quanto fiato aveva in corpo chevoleva rimanere in mezzo agli altri,ma nessuno gli diede retta. Non sipoteva, lui non era in grado disfilare insieme agli altri, dissero,avrebbe solo rallentato il corteo, no,no, gli handicappati dovevano andaretutti insieme alla stessa velocità,anche da vedere era meglio così, nonera mica l'unico, ce n'erano tantialtri, c'erano tutti gli invalidi diguerra.Ma lui non era un invalido diguerra, aveva gridato Thomas conrabbia, era uno studenteuniversitario, della facoltà difilosofia. Doveva sfilare dietro laLegione Accademica, costituita daglistudenti socialisti militanti; isimpatizzanti marciavano sempre dietrogli studenti della Legione e anche luivoleva essere lì, insieme ai suoicompagni di università, altrimenti lacosa non lo interessava affatto. Magli organizzatori del corteo noncedettero; dovevano badare all'ordine,dissero; e così lo infilarono senzamisericordia fra gli invalidi diguerra, tutti nelle loro carrozzine,alcune delle quali potevano muoversida sole, mentre altre, come appunto lasua, erano spinte a mano.Per tutto il tempo della sfilata, aThomas sembrò di subire una violenza.Si trovava all'estremità della fila, egli spettatori che facevano alapotevano vederlo particolarmente bene;per fortuna però non capivano quel cheegli cercava di dire, con quella voceche era un soffio: -Questo non è ilposto per me! Io non sono invalido diguerra! . Era l'ultima cosa cheavrebbe voluto essere. Lui in guerranon c'era mai stato. Non avevaammazzato nessuno. E faceva sul serio,quando diceva che mai e poi mai cisarebbe andato. Gli altri ci eranoandati tutti quanti, per puravigliaccheria, e per castigo eranostati feriti, feriti gravemente. Moltierano andati in guerra perfino conentusiasmo. Ma gli era passato presto.Adesso sfilavano tutti insieme, dietroquegli striscioni giganteschi suiquali era scritto: -Mai più guerre! .

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Oh, certo che no, loro alla guerranon ci sarebbero andati mai più, tantonon potevano; almeno, però, nonmentivano; tutti gli altri, invece,quelli che camminavano con le propriegambe, sarebbero corsi alla guerra dinuovo, come tante pecore, dimenticandole belle parole d'ordine del PrimoMaggio. Thomas parlava di quellamanifestazione con odio profondo. Eraproprio come nell'esercito. Tutti glisciancati insieme, in una compagnia asé. Egli era dell'idea che ognunodovesse sfilare dove più gli piaceva;contro la divisione per quartieri nonaveva nulla, e neppure contro quellaper fabbriche; ma la divisione frasani e storpi era una vergogna; edegli non ci andò mai più.Gli domandai se non potevaimmaginare una situazione diversa,nella quale egli fosse ben disposto adissolversi nella massa. In fondo, daprincipio anche lui si era sentitoattratto dalla sfilata del PrimoMaggio, altrimenti non avrebbeinsistito tanto con la madre perchéesaudisse il suo desiderio. Lei,infatti, aveva ceduto di malavoglia,forse si figurava già quel che sarebbeaccaduto. Ma c'erano altre occasioni,nelle quali la capacità di muoversinon aveva importanza, riunioni alchiuso, per esempio. Possibile che nonavesse mai vissuto qualcosa delgenere, e con un certo piacere? Erosicuro che si era già trovato in unsimile frangente. Già il modo in cuiparlava della guerra, dissi,costituiva per me una prova che egliaveva ascoltato dei discorsi contro laguerra, e in particolare che li avevaascoltati in quello stato dieccitazione nel quale ci si trovaquando si è in mezzo a molte altrepersone.Un'espressione scettica si dipinsesul viso di Thomas. Se aveva capitobene le mie parole, diquell'esperienza faceva parteintegrante un sentimento diuguaglianza, che era esattamente ciòche lui non conosceva. L'avevo maivisto il giornale per storpi,pubblicato dall'Associazione deglistorpi? No? Ebbene, egli avrebbepregato sua madre di mettermi da parteun numero del giornale per storpi, inmodo da mostrarmelo la prossima volta.Quegli storpi - usava la parola così

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spesso per sottolineare che non sisentiva affatto uno di loro -, queglistorpi tenevano le loro assemblee, chevenivano annunciate sul giornale. Unavolta ci si era fatto portare, pervedere che roba era. Ma non ce n'eranessuno in carrozzella, tutti sedevanoin fila sulle loro sedie, mentre untipo senza un braccio, là davanti,stava seduto sul podio e cercava dimantenere l'ordine. Sua madre avevamesso la carrozzella da un lato,piuttosto avanti, in modo che sisentissero le sue interruzioni, perchélui era deciso a non fargliene passareuna liscia, a quegli storpi.Il livello di quelle assemblee nonpotevo immaginarmelo, disse. Lepersone lì riunite si consideravanouna specie di sindacato e sicomportavano di conseguenza. Parlavanosempre e soltanto di diritti daconquistare, denunciando - con lagneinsopportabili - la tristezza delleloro condizioni. Eppure era tuttagente a cui mancava soltanto unbraccio o un occhio. Qualcuno avevauna gamba di legno, qualcun altro latesta ciondolante, e non ce n'era unoche non fosse brutto; tutti li avevapassati in rassegna, fila per fila,alla ricerca di un viso intelligente,ma aveva constatato che non c'era unasola persona con cui poter intavolareuna discussione filosofica. Avrebbepotuto scommettere che nemmeno uno deiquattro o cinquecento individuipresenti in quella sala aveva maiudito in vita sua il nome di Leibniz.Tutto quel che si sentiva eranorichieste di aumento della pensione;un'assemblea di pensionati, ecco checos'era. Ogni volta che saltava fuoriun'altra richiesta del genere, lui siintrometteva gridando. Avevanoottenuto abbastanza, se la passavanofin troppo bene, ma che cosa volevano,insomma? Tutti quegli individui eranovenuti alla riunione camminando con leproprie gambe, e avevano ancoral'impudenza di lamentarsi! Lui,comunque, aveva disturbato la riunioneil più possibile, le sue interruzionierano assai più forti di quanto iopotessi immaginare; non era sicuro diesser sempre stato capito, maparecchie volte certamente sì, perchéquelli si erano arrabbiati e alla fineerano proprio furibondi. Ecco dov'erafinita la libertà di parola di cui

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andavano tanto orgogliosi! Ilpresidente con un braccio solo lopregò di non disturbare, c'erano altrepersone in sala che volevano prenderela parola. Ma lui non ce la facevaproprio ad ascoltare quelle scemenze,e continuò a disturbare sempre più,finché il monco lo pregò di lasciarela sala!-E come faccio? aveva rispostoThomas. -Me lo spiega lei come devofare? . Il monco aveva avuto lasfacciataggine di dirgli: -Se hatrovato il modo per arrivare fin qui,troverà certo anche il modo peruscirne! . Voleva dire che sua madredoveva spingerlo fuori, e lei,purtroppo, lo fece, dato che si eramessa paura. Lui, invece, sarebberimasto volentieri, per vedere checosa quella gente gli avrebbe fatto.Forse quegli individui, che potevanocamminare, non si sarebbero fattiscrupolo di scagliarsi addosso a lui,e di colpirlo, proprio lui, un esseretotalmente indifeso. Che ne pensavoio, l'avrebbero fatto? Sarebbe valsala pena di aspettare e di fare laprova. Lui non aveva avuto paura. Gliavrebbe sputato in faccia, e avrebbeurlato: -Canaglie! . Ma sua madre nonera il tipo da affrontare situazionidi quel genere. Tremava sempre perlui, il suo piccolo tesoro. In realtàlo trattava come un bimbo in fasce, elui era talmente bisognoso del suoaiuto che non poteva farci niente. Incomplesso, del resto, sua madre facevaquel che voleva lui.Adesso, però, io dovevo dirgli sequella era stata un'-esperienza dellamassa . Lui non si era affatto sentitouguale. Quelli pensavano, tuttiquanti, che lui stesse molto peggio diloro; eppure era gente che leggeva ilgiornale per storpi, e nient'altro.Dunque stavano molto peggio di lui:ecco perché gli si erano avventaticontro per una cosa da nulla. Aripensarci retrospettivamente, nonpoteva fare a meno di dire che eranoinvidiosi di lui; forse gli sileggeva in faccia che si stavapreparando per il dottorato infilosofia.Sulla massa Thomas non aveva altroda aggiungere; e io cominciai arendermi conto di quanto ero statoprivo di tatto con i miei discorsisulla massa. Come avevo potuto parlare

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davanti a lui della densità edell'uguaglianza all'interno dellamassa? Quale uguaglianza poteva maiesistere per Thomas? E quanto potevaessere fitta la gente attorno a lui,che se ne stava sempre in carrozzella?Per Thomas era una questione di vita odi morte riuscire a trasformare la suadolorosa e irrevocabile diversità inqualche cosa di cui poter esserefiero. Per questo aveva imparato aleggere con la lingua, per questo sidava da fare con libri ponderosi, chesolo pochi eletti potevano conoscere;benché insistesse tanto sul fatto diessere uno studente, anche questa erasolo una condizione provvisoria, inrealtà lui voleva essere consideratoun filosofo, voleva scrivere delleopere così vigorose e originali cheanche su di lui, un giorno - come suSpinoza, Leibniz e Kant - siscrivessero libri ponderosi. Quellaera l'unica -compagnia che gliinteressava, il suo posto era tra ifilosofi; e, pur non essendo ancoraarrivato a tanto, solo nei momenti diestrema umiliazione e mortificazione,Thomas dubitava che un giorno sarebbestato veramente accolto in quellaschiera.Non avevo mai conosciutoun'ambizione così bruciante, e mipiaceva, pur non sapendo su che cosasi basasse. Infatti le cose che Thomasaveva dettato alla madre sino a quelmomento, pensieri isolati e spunti perun'autobiografia, non mi avrebberoaffatto colpito se non avessiconosciuto le condizioni di vita delloro autore. Thomas non aveva ancorauno stile personale, la lingua dellepagine che aveva dettato era incoloree cartacea, tutto ciò che egli miraccontava nelle lunghe ore chepassavamo insieme era assai piùinteressante; anzi, l'aspetto che piùmi colpiva era questo: nel corso dellaconversazione, quei racconti salivanodi tono e diventavano interessanti.Thomas notò ben presto che non avevouna grande opinione dei suoi frammentie disse che a quelle cose nonattribuiva alcun valore: innanzituttole aveva dettate parecchi anni prima,quando non aveva ancora imparato apensare; inoltre - e qui si riferivaai brani autobiografici - eranopensieri lamentosi e sentimentali. Isuoi veri, duri pensieri non poteva

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certo dettarli a sua madre, che neavrebbe fatto una malattia. Per queidettati avrebbe avuto bisogno di unamico degno di lui, una persona comeme; e, comunque, non era ancora ilmomento. La sua idea della gloria edell'immortalità mi piaceva a talpunto che gli credetti. Decisi dicredergli, mettendo a tacere i mieidubbi, che però non cessarono mai deltutto.Thomas mi diceva tutto, in vita mianon avevo mai incontrato una personache mi parlasse così apertamente. Dimolti fatti che prima mi sembravanoovvii, e ai quali perciò non pensavomai, acquistai coscienza soltantograzie a Thomas. Alle cose del miofisico avevo sempre badato poco; ilmio corpo non significava nulla perme; era lì, mi serviva, lo prendevocosì com'era. A scuola le materie incui il corpo acquista per così direuna sua autonomia, la ginnastica peresempio, mi annoiavano in modoindicibile. Perché correre, se nonavevo fretta, perché saltare in alto,se non dovevo salvare la pelle, perchémisurarmi con i miei compagni, senessuno di loro partiva dai mieistessi presupposti - non aveva cioè lamia forza o la mia debolezza? Facendoginnastica non si imparava mai nulladi nuovo, si ripetevano continuamentegli stessi esercizi, si stava semprenella stessa area, che sapeva disegatura e di sudore - le passeggiateall'aperto erano già un'altra cosa,almeno si conoscevano posti nuovi,nuovi paesaggi, niente si ripeteva.Ma ora mi resi conto che proprio leattività che mi annoiavano di piùinteressavano a Thomas sopra ognialtra cosa. Continuava a domandarmiquale sensazione si prova a saltare inalto; ma neppure il salto in lungo erada disprezzare, né la capriola o lacorsa dei cento metri. Io cercavo didescrivergli quei movimenti in modo dadargli soddisfazione e senza farglisentire troppo acutamente il rammaricodi non poterli eseguire. Le miedescrizioni, però, non gli bastavanomai. Ogni volta ammutoliva, stavazitto per parecchio tempo, e poi,perlopiù la volta dopo, tirava fuorialtre domande, dalle quali si capivache voleva da me informazioni assaipiù dettagliate. A volte Thomas mirimproverava il mio modo sommario di

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raccontargli quei fatti. Quell'aria disufficienza non era da me, gli facevol'effetto di un uomo con la panciapiena che parla di cibo con unaffamato e cerca di dimostrargli chenon val proprio la pena di mangiare.Così Thomas mi costrinse a dedicaremaggiore attenzione alle cose delcorpo. Mi capitò, improvvisamente, disorprendermi, camminando, a pensare alcamminare, e soprattutto, cadendo, apensare al cadere. Avevo sempre lasensazione che raccontare a Thomas ipropri scacchi fosse importante eutile per lui; e, anche se egli non loammetteva mai, sentivo quanto fossefelice quando gli riferivo, in tonopieno di vergogna, che ancora unavolta, cadendo, mi ero coperto diridicolo.A scuola ero stato davvero unpessimo allievo in ginnastica, perciò,per quel che riguardava il passato,non avevo bisogno di inventarminiente: bastava che ricordassi alcuniepisodi, ai quali altrimenti non avreiripensato volentieri. Per il presente,invece, mi abituai a inciampare piùspesso durante le mie passeggiate e,cadendo, a sbucciarmi ora un ginocchioora le mani, in modo da poterlimostrare a Thomas durante le mievisite. Non ne parlavo subito, matenevo nascosta la mano colpita, comese me ne vergognassi. Thomas sidivertiva a quel gioco, mi osservavacon attenzione e alla fine diceva:-Che cos'hai a quella mano? . -Niente,niente . -Fa' vedere! . Io mischermivo un poco, poi la tiravo fuorie vedevo come lui gioiva della miainettitudine. -Ancora! Sei cadutoun'altra volta! . Si ricordò diTalete, il filosofo ionico cheammirava le stelle anziché guardareper terra davanti a sé, e così eracaduto in un pozzo. -Da oggi in poi tichiamerò Talete! Su, va' in casa alavarti il sangue! Ci troverai miamadre . Il sangue non era gran cosa,ma gli faceva bene far sapere anche asua madre quanto io fossi maldestro;perciò entravo in casa e lei insistevaper lavarmi la ferita.Quando addirittura inciampavo ecadevo camminando verso di lui, apochi passi dalla sua carrozzella, ilgiubilo di Thomas non aveva più fine.Certo, non capitava spesso, perché nonvolevo insospettirlo. Comunque avevo

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imparato a cadere in modo moltocredibile; Thomas mi prendeva in giro,e un giorno mi consigliò perfino discrivere un saggio sull'-arte delcadere : un'opera del genere nonesisteva ancora. Thomas non sospettavadi dirmi una cosa assai vicina allaverità; io, infatti, per accrescere lasua stima in se stesso, ero diventatoun vero artista delle cadute. Perfortuna, anzi, già prima diconoscerlo, avevo preparato il terrenoin questo senso. Per tre anni cieravamo osservati a vicenda, prima dirivolgerci la parola, ed io erorimasto talmente affascinato da luiche sul serio non facevo attenzione adove mettevo i piedi; una volta,infatti, vicinissimo a Thomas, eroinciampato malamente finendo a terralungo disteso. Quella caduta gli avevafatto una grande impressione, ne avevapreso mentalmente nota, e quando poidi proposito riesumai e continuai latradizione del cadere, egli fu ingrado di ricordarmela in tutti iparticolari.Io credo che Thomas mi serrò nel suocuore a causa dei passi falsi cheinscenavo per amor suo. Ma anche lenostre discussioni erano importantiper lui, perché anche lì facevo inmodo di commettere dei passi falsi.L'impresa era tutt'altro che facile:per nulla al mondo avrei volutorinunciare alle nostre discussioni e,per averne il diritto e guadagnarmi lasua fiducia, dovevo fargli capire diaver letto a fondo un certo numero dilibri. Ma ogni tanto, non troppospesso, facevo finta di non aver lettoun'importante opera scientifica chelui conosceva bene, magari il testofondamentale di un grande filosofo. Ilgioco non era privo di pericoli: sedavo a intendere di conoscere soltantodai riassunti un'opera che Thomasconosceva a menadito per averlastudiata sul testo originale, dovevopoi rinunciare a molti argomenti che,durante la discussione, mi salivanoalle labbra anche troppo facilmente.Quando, durante una discussione, eroriuscito a evitare determinatecitazioni, diventavo audace, eaddirittura avevo l'impudenza dicommettere un errore madornale:attribuivo a Spinoza una frase diDescartes, e poi, insistendo sul miopunto, lasciavo a Thomas il tempo di

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mettere in azione i suoi calibri piùgrossi, lo osservavo con simulataapprensione diventare sempre piùbaldanzoso e, alla fine, quando la miacausa sembrava irrimediabilmenteperduta, assumevo un'espressione cosìafflitta e vergognosa che Thomasritrovava la sua magnanimità eaddirittura doveva consolarmi.Arrivato a questo punto, sapevo che iltiro era riuscito e che Thomas avevaacquistato e stava assaporando unsentimento di superiorità nei mieiconfronti, senza tuttavia disprezzarmitroppo, perché nella discussioneprecedente non me l'ero cavata male.Ero infinitamente felice quandotrovavo la forza di congedarmi da luisubito dopo che il suo sapere avevatrionfato sul mio; e ancora oggi pochecose mi rallegrano come tornare colpensiero a uno di quei momenti.Ma Thomas non soltanto mi superavain storia della filosofia, che dopotutto era il suo campo di studio piùspecifico. Avevo la sensazione cheegli non mancasse di una certaesperienza anche in un altro campoassai importante. All'inizio ne avevaparlato con un certo ritegno, forseper non spaventarmi. Ma forse volevaprima capire fino a che punto potevaspingersi, perché mi ritenevaestremamente pudico. Avevo sempresotto gli occhi la sua totaleinermità; quando riceveva da mangiareo da bere, ciò che talora avveniva inmia presenza, potevo constatare la suaincapacità di avvicinare da solo alsuo corpo qualsiasi cosa. Thomasfaceva attenzione che io non fossi mainelle vicinanze quando dovevaprovvedere alle sue evacuazioni; se ilbisogno era urgente, mi mandava viasenza tante cerimonie, e chiamava suamadre quando già mi ero allontanato diqualche passo. Dopo non dovevoritornare, potevo rivederlo solo ilgiorno successivo. Qui il pudico eralui, e questo mi piaceva. Quale nonfu il mio stupore, dunque, quando unavolta Thomas mi disse chiaro e tondoche il giorno prima era venuta -laragazza . Era carina e stupida,serviva a una cosa sola, dopo un'ora,infatti, lui la mandava via. Si erasbagliato sul suo modo di camminare, eaveva voglia di sostituirla conun'altra. Sembrava che disponesse diuno stuolo di ragazze delle quali

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potesse servirsi a suo piacimento. Iorimasi senza parole, e Thomas,rendendosi conto del mio imbarazzo, midiede sull'argomento maggioriragguagli.Una volta non aveva la ragazza;doveva anche quella conquista alprofessor Gomperz. Desideravaterribilmente avere una donna, espesso si sentiva così infelice, perquella ragione, che perdevacompletamente la voglia di studiare.Non toccava i libri per giorni egiorni, la lingua gli si atrofizzavanon avendo più niente da fare, ed egliprendeva in giro ferocemente lasorella, per via dei suoi spasimanti,tanto che lei scoppiava in lacrime ese ne andava di casa. Il professorGomperz, che durante l'ora di lezionenon riusciva a combinare niente conlui, una volta gli domandò che cos'erasuccesso, e Thomas gli disseapertamente che aveva bisogno di unadonna. Doveva ad ogni costo avere unadonna, altrimenti non avrebbe piùpotuto studiare. Il professor Gomperzs'infilò il dito mignolonell'orecchio, un suo tipico gestonelle situazioni difficili, e promisedi trovare un rimedio.Andò in un caffè di una piccolatraversa della K�rntnerstrasse,notoriamente frequentato da varieragazze, e si sedette, da solo, a untavolo rotondo. Non era mai stato inun locale simile. Inforcò un paio diocchiali scuri per non farsiriconoscere: dopo tutto era unprofessore universitario, oltre che unuomo piuttosto anziano. Seduto a queltavolo con addosso la sua pellegrinadi loden - non la toglieva mai,figurarsi poi in un posto simile -,era alto e diritto come un piolo. Nonrestò solo a lungo; tre ragazze sisedettero al suo tavolo, sia puresenza molte speranze, perché aveval'aria di una persona capitata in quellocale per sbaglio. Ma lui non fuaffatto spocchioso, e anzi rivolse perprimo la parola alle ragazze,spiegando, nel suo tono lento, distesoed energico, di che cosa si trattava.Aveva un giovane amico, che eraparalizzato, e cercava una ragazza perlui. Non era un malato ripugnante, ela sua infermità non era fastidiosa avedersi; aveva, al contrario, capellistraordinariamente folti e occhi

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stupendi. Era un giovanesensibilissimo, e da solo non potevafar nulla, neppure portarsi il ciboalla bocca; ma era una personadelicata e di grande talento, per laquale era giusto fare qualsiasi cosa.Era venuto lì per cercare una ragazzagiovane, fresca e sana che andasse atrovarlo su a Hacking una volta allasettimana, di giorno, nel pomeriggio.Egli stesso, il professore, avrebbeprovveduto al pagamento. Quandoavessero convenuto il prezzo, ildenaro sarebbe sempre stato pronto sulcassettone della camera da letto.Prima di andarsene, la ragazza nondoveva far altro che ritirare ildenaro dal cassettone, ma solo setutto era andato bene, la condizioneera questa.Tutte e tre le ragazze, a quanto sivide, sarebbero venute volentieri,dopo essersi assicurate ancora unavolta che il giovane paralitico nonaveva nessun'altra malattia. Volleroanche sapere come si chiamava, etrovarono simpatico sia il nome che ilcognome. Anche una loro amica, chelavorava nel locale, si chiamavaMarek. Pregarono dunque il professorGomperz di scegliere fra loro, cheerano tutte ben disposte, quella chepiù gli piaceva per il suo amico-Thomas - l'avevano chiamato subitocosì. Per un puro caso erano tutte etre graziose, ciascuna a modo suo. Lascelta del professore non era statafacile e in seguito, raccontando aThomas la propria avventura ilprofessor Gomperz l'aveva denominata-il suo giudizio di Paride .Ma quando la ragazza era venuta super la prima volta, il professore nonsi era fatto trovare: la presenzadella sua barba grigia - così avevadetto - avrebbe certo guastato ilpiacere alla giovane coppia. Laragazza era stata affettuosa ezelante, e Thomas aveva avutol'esperienza che tanto avevadesiderato. Era davvero fuori di sédalla gioia, sicché, nella suaesaltazione, si era dimenticato diricordare alla ragazza il denaro sulcomò. E anche lei era talmente presadal suo nuovo compito che non aveva névisto né chiesto i soldi, e anzi avevapromesso di sua spontanea volontà ditornare il sabato della settimanasuccessiva, alle tre di pomeriggio. Da

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allora era ritornata puntualmente,senza saltare un solo sabato. Thomasdoveva sempre ricordarle di prendere isoldi della volta precedente. E lei liprendeva; ma dopo essere stata con luinon li prendeva mai; quando Thomas laesortava a farlo, la sua risposta era:-No, così non lo voglio! Da te nonvengo per questo! , e doveva passareuna settimana intera prima che lei sidecidesse a prendere dal comò il suocompenso che, dopo tutto, era statopattuito.La cosa andò avanti per più di seimesi, e ogni volta Thomas le ricordavadi prendere i soldi. Dentro di sé,però, desiderava che li lasciassestare, e lo desiderava a tal punto chesempre escogitava un nuovo modo diaffrontare l'argomento. -Qualcuno deveaver rovesciato il suo borsellino sulcassettone, diceva -ti dispiacerebberaccogliere il denaro? ; oppure: -Noncapisco perché mai continuino alasciare i loro soldi in camera mia!E'è una cosa che non posso soffrire!Sono forse un mendicante? . Dovevadirlo subito, appena la ragazzaarrivava, perché dopo non c'era piùverso di farglieli prendere. Ognisabato, quando Thomas avrebbe volutorallegrarsi al pensiero che lei stavaper arrivare, tutto a un tratto gliveniva in mente quella stupidafaccenda dei soldi, e non poteva farea meno di escogitare qualche nuovatrovata. Un'altra cosa che looffendeva era il legame colprofessore, come se, dopo mesi e mesi,fosse ancora Gomperz a mandare avantila cosa. Quando era di cattivo umore,e voleva fare un dispetto allaragazza, diceva: -Ti porto i salutidel tuo amico, il professore ; oppure:-Il professore si è fatto di nuovovivo con te, nel tuo locale? . Lei erauna ragazza semplice, e siccome nonvoleva vederlo arrabbiato, facevasempre quello che lui chiedeva.Thomas, ostinato, non mollava, e laragazza, prima di aver fatto ciò chelui ogni volta le ricordava, non siazzardava neppure ad avvicinarsi.Avrebbe anche desiderato portargli suqualche cosa; ma, quando aveva cercatodi fargli un piccolo regalo, le erasempre andata male. -Il tuo regalo èlà diceva bruscamente Thomas,accennando con la testa in direzionedel comò. -Qui l'unico che fa regali è

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il professore .Se la ragazza avesse capito il verodesiderio di Thomas, tutto sarebbeandato avanti benissimo; ma l'orgogliodi lui era grande, non gli dava pace,per questo la costringeva a prenderecontrovoglia quei soldi; accadde cosìche la sconfinata riconoscenza di untempo si tramutò in rancore. Ognitanto, durante la settimana, Thomas dicolpo pensava a lei con odio. Mentreera fuori, sdraiato al sole nella suacarrozzella, ad un tratto gli passavadavanti una donna che gli piaceva peril suo modo di camminare, e allorapensava con odio alla visita delprossimo sabato. Thomas mi raccontòcome avvenne la rottura, e nonsembrava rimpiangerla. La consideravaun'azione virile, degna di uno spiritolibero, tanto più che in seguito erarimasto a lungo senza nessuno. Thomasun giorno le disse, in tono piuttostosgarbato: -Ti sei di nuovo dimenticatauna cosa! , aspettò che lei si fossemessa in tasca l'odiato denaro e poiaggiunse: -Non c'è più bisogno che tuvenga , senza dilungarsi inspiegazioni. Quando lei fu sullasoglia, e si guardò intorno perl'ultima volta con aria interrogativa,Thomas sibilò: -Non ho tempo. Devostudiare di più . Lei gli scrisse unalettera, goffa e piena di errori, unalettera d'amore come non ne ho vistemai più; è un vero peccato che io nonl'abbia imparata a memoria.Thomas me la diede da leggere, eintanto mi osservava. Non sembravacommosso, era già passato parecchiotempo; tuttavia quella lettera l'avevafatta riporre, e quando la volevadiceva a sua madre, con quel suo tonosbrigativo che per lei bastava: -Dammila lettera! . Non spiegava qualelettera desiderasse, ma la madrecapiva ciò che lui intendeva. Quandola lessi mi resi conto perfettamenteche Thomas aveva fatto alla ragazza ungravissimo torto. Ma lui rimaseinflessibile; e l'ultima cosa chedisse sull'argomento fu questa:-Allora avrebbe dovuto restituiretutto a Gomperz, tutto quanto! .Nel frattempo aveva imparato a farcolpo sulle donne e, durante laconversazione, faceva capire di essereun uomo esperto nelle questioniamorose. Le donne venivano a trovarlo,avevano il permesso di stare sedute al

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sole accanto alla sua carrozzella, egli parlavano dei loro matrimoniinfelici, e di quanto soffrissero perla brutalità dei loro mariti. Lui leascoltava, ed esse si sentivanocomprese. Ogni tanto Thomas davaqualche consiglio, che esse seguivano,e infatti tornavano per ringraziarlo:il consiglio aveva funzionato. Se alui non piaceva il modo di camminaredi una donna, neanche si concedeva perun colloquio. Alla madre bastava unsuo cenno per riportare in casa lacarrozzella; la seduta era tolta, omeglio, non era neanche incominciata.Il miracolo che Thomas stavaaspettando accadde dopo che diventammoamici. Una dottoressa che aveva lostudio a OberSanktVeit venne unavolta a visitarlo per motiviprofessionali, a causa di unraffreddore con un po' di febbre.Arrivò con la sua piccola automobile efu subito introdotta nella camera daletto; così Thomas non poté affattovederla camminare. Un po' intontitoper la febbre, stava sonnecchiando. Adun tratto, dunque, se la trovòdavanti, e subito lei gli si presentòcome dottoressa. Neppure in quellostato Thomas dimenticò di spalancaregli occhi con grande lentezza, com'erasua abitudine, e l'effetto fu ilsolito. La dottoressa si innamorò dilui immediatamente e, non appena eglisi fu ristabilito, lo invitò a farecon lei qualche piccola gita inautomobile. Veniva a prenderlo tuttele volte che era libera, e se il tempoera bello.Facendosi aiutare dalla madre dilui, almeno all'inizio, la dottoressasollevava Thomas dalla carrozzella elo deponeva come un fagotto nellapropria auto. Poi gli domandava checosa desiderasse vedere, potevascegliere di andare dove più glipiaceva. Le gite, all'inizio brevi,diventarono sempre più lunghe, e allafine si spinsero fino al Semmering.Thomas intonava un canto specialequando veniva tirato su per una diquelle gite in automobile. Mi capitòpiù volte di sentirlo: quando avevodeciso di fargli visita e vedevodavanti alla sua casa la macchinadella dottoressa, non tornavoindietro, ma anzi mi avvicinavo, conil pretesto di salutarlo; in realtàvolevo sentire il soffio felice della

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sua voce, che cercava di gridare digioia, perché il mondo si aprivadinanzi a lui. La dottoressa, che locircondava di attenzioni e dedicava aquelle gite ogni momento di libertà,diventò la sua amica, e lo rimasefinché lo conobbi.Kant prende fuoco.Da quando mi ero trasferito sullamia collina all'estremo limite urbano,Vienna, o meglio tutta la parte dellacittà che si estendeva tra la casa diVeza, nella Ferdinandstrasse, e Hak-king, era diventata il mio quartiere.Quando lasciavo Veza per tornare acasa a notte alta non prendevo laStadtbahn fino a H�tteldorfHakking, il capolinea, che pure sarebbestato il collegamento più breve.C'erano due tram che, non lontanodalla Stadtbahn e paralleli unoall'altro, attraversavano un quartierefittamente popolato. Salivo su untram, il percorso era molto lungo, eper via, in un punto qualsiasi, quandomi veniva voglia, saltavo giù e me neandavo poi a destra e a manca per lestrade buie. In quel vasto quartierenon c'era vicolo, o forse neppurecasa, che non avessi osservato nellemie scorribande. E, di sicuro, entraialmeno una volta in tutti i caffè cherestavano aperti fino a tarda ora.Dopo il mio ritorno a Vienna, ilpiacere di quelle camminate si eraaccresciuto. Sentivo una profondainsofferenza per i nomi, non volevosentirne parlare, e soprattutto misarebbe piaciuto sparare a zero controtutti i nomi. Da quando ero vissutonel bel mezzo del grande calderone deinomi - tre mesi la prima volta e seisettimane la seconda -, mi era rimastaaddosso un'acutissima sensazione didisgusto; mi sembrava di essere -visione terrificante che già risalivaalla mia infanzia - un'ocaall'ingrasso, tenuta ferma e nutritaper forza a furia di nomi. A Berlinoti tenevano aperto il becco, e cificcavano dentro nomi a tutto spiano,una poltiglia di nomi. Quali nomientrassero nel calderone non importavaaffatto, poiché il risultato era solouna poltiglia che ingoiavi per forzacredendo di soffocare. Contro queltormento, contro quella persecuzionedei nomi, facevo scendere in campoogni uomo senza nome, ogni -povero dinome .Volevo vederli e ascoltarli uno

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per uno gli uomini senza nome,ascoltarli e riascoltarli tutti,all'infinito. Quanto più ero libero difarlo, quanto maggiore era il tempoche ci dedicavo, quante più cosevenivo a sapere, tanto più ero stupitoche ne esistessero così tanti:un'enorme varietà di persone cheparlavano in un linguaggio povero,banale e usato a sproposito, e nonnella lingua ridondante e tronfiadegli scrittori o dei poeti.Quando capitavo, la notte, in uncaffè che offriva occasioni di ascoltofavorevoli, mi fermavo a lungo, finoall'ora di chiusura, verso le quattrodel mattino, e mi abbandonavoall'avvicendarsi dei personaggi cheentravano, uscivano, ritornavano. Midivertivo a chiudere gli occhi, comese fossi mezzo addormentato, o avoltarmi verso la parete, limitandomiad ascoltare. Così imparai adistinguere le persone soltanto permezzo dell'udito. Non vedevo sequalcuno usciva dal locale, ma a uncerto punto non sentivo più la suavoce, e poi, quando la sentivo dinuovo, sapevo che era rientrato. Seuno non aveva paura della ripetizione,se la accettava pienamente e senzastorcere il naso, presto riconoscevaun ritmo di voci che parlavano erispondevano; il viavai, il movimentodelle maschere acustiche formava dellescene; e quelle scene, a differenzadegli strilli di quelli là, dei nomiche cercavano soltanto di autoimporsi,erano scene interessanti, perché noncalcolate. Che raggiungessero il loroscopo oppure no, esse ritornavanocomunque, e forse sarebbe più esattodire che l'efficacia dei loro calcolisi esplicava in un ambito talmenteristretto che subito l'ascoltatoredoveva percepirli come calcolisbagliati, e perciò inutili einnocenti.Mi piacevano quegli uomini, anche ipiù detestabili, perché ad essi nonera stato concesso il potere deldiscorso. Essi si rendevano ridicolicon le parole, combattevano con leparole. Quando parlavano, era come sesi guardassero in uno specchiodeformante, si presentavano infattinel travisamento delle parole,diventato, presumibilmente, il lororitratto. Quando cercavano di farsicapire, fallivano miseramente; e si

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incolpavano a vicenda in modo cosìmaldestro che le offese suonavanoelogi e gli elogi offese. A Berlino ioavevo fatto l'esperienza del potere,l'avevo visto assai da vicino nellaforma ingannevole della celebrità, enel potere mi pareva di soffocare;dopo di allora, era più checomprensibile che guardassi con favorea ogni forma d'impotenza. L'impotenzami commuoveva, le ero grato, nonriuscivo a saziarmene; e non eral'impotenza pubblicamente dichiaratadi cui molti si servivano per ilproprio tornaconto; ma l'impotenzaconnaturata e nascosta dei singoli chefacevano parte per se stessi, che nonavevano fra loro nulla in comune, emen che mai la parola, che anzichéunirli li separava.In Thomas Marek mi attiravano moltecose, ma soprattutto gli sforzi cheegli faceva ogni giorno per dominarela propria impotenza. Fra tutti gliuomini che avevo conosciuto, nessunostava peggio di lui; eppure parlava, eio lo capivo, e quello che dicevaaveva senso e mi interessava nonsoltanto perché gli costava tantafatica formare delle parole da quelsuo soffio. Ammiravo Thomas perchégrazie alla sua intelligenza avevaacquisito una superiorità che lo avevatrasformato: non era più un poveroessere degno solo di pietà, ma unafigura da cui la gente si recava comein pellegrinaggio; eppure non era unsanto in senso tradizionale, perchéanzi era attaccato alla vita, amava lavita in ogni suo aspetto, e più chemai in quelli che gli erano statinegati. Fin da quando era piccolo,Thomas aveva dovuto scontrarsi conun'ascesi non voluta e, dopo anni difatiche indicibili, il risultato eraquesto: l'acquisizione di capacità eabitudini che per gli altri eranoassolutamente ovvie.Domandai a Thomas se sentire unaltro che leggeva non gli facesse percaso un'impressione più forte cheleggere egli stesso. Prima era statocosì, fu la risposta; quando era piùgiovane, la sorella gli leggeva adalta voce poesie, racconti, drammi. Laloro amicizia era proprio cominciatain questo modo, così erano diventatiinseparabili. Ma poi tutto ciò non erapiù bastato a lui poiché volevaimparare delle cose difficili che non

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erano alla portata di sua sorella. Chefare dunque? Sua sorella avrebbedovuto leggere meccanicamente perlui, senza capire il significato dellefrasi che pronunciava? Stimava tropposua sorella, e lei stessa si stimavatroppo per accettare una cosa simile;quel che lei gli leggeva locondivideva con lui, ed era giusto,doveva essere ugualmente importanteper entrambi; Thomas non volevadenigrarla al ruolo di pappagallo. Epoi sentiva anche il bisogno diriflettere ogni tanto per conto suo einoltre di consultare direttamente unlibro per ritrovare una frase o unpasso di cui si era scordato l'esattaenunciazione. Per queste due ragioniaveva dovuto imparare a leggere dasolo; trovavo qualcosa da ridire sulmetodo che aveva adottato?No davvero, al contrario, risposi;aveva risolto il problema in modo cosìbrillante che sembrava la cosa piùnaturale del mondo.E in effetti lo era; eppure non mici sono mai abituato; ogni volta cheThomas mi leggeva qualcosa (magarisoltanto una frase, oppure una paginaintera), mi sembrava di assistervi perla prima volta. Era più che rispetto,ciò che sentivo; era vergogna, perchéleggere mi era sempre stato cosìfacile, ed era l'attesa di quel chesarebbe successo. Ogni frase cheThomas formava in quel modo, con ilsuo soffio, per me suonava diversa datutte le frasi che avevo sentito invita mia fino a quel momento.Nel maggio 1930, quando cominciaronole mie visite a Thomas, avevo giàpassato più di sei mesi in compagniadei miei abbozzi. Gli otto personaggidella -Comédie humaine dei folli esistevano già tutti, e sembravastabilito ormai che ognuno di essidovesse diventare la figura centraledi un romanzo. Le loro vicendescorrevano parallele; io non avevopreferenze per nessuno, e cambiavospesso, rivolgendo la mia attenzioneora all'uno ora all'altro; nessuno deimiei personaggi veniva trascurato, maneanche prendeva il sopravvento,ognuno aveva la sua lingua e il suomodo di pensare; era come se io mifossi diviso in otto persone diverse,senza perdere né il mio dominio su diloro né quello su me stesso. Nondesideravo affatto di dare un nome ai

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miei personaggi; li designavo come hogià detto con la qualità da cui eranodominati, accontentandomidell'iniziale. Finché non avevano unnome proprio, passavano inosservatigli uni agli altri, erano liberi dascorie, si comportavano in modoneutrale e non cercavano di assumereil comando su ciò che non appartenevaal loro orizzonte. C'era un bel saltodal -Nemico della Morte allo-Scialacquatore , e da quest'ultimoall'-Uomo dei Libri ; ma la via eralibera, nessuno di essi la bloccava.Non mi sentivo mai sotto pressione,vivevo con uno slancio e un'euforiache da allora non ho mai piùconosciuto, mi sentivo, infatti, ilreggitore e dominatore solitario diotto territori esotici lontanissimitra loro, continuamente in cammino dauno all'altro, e perfino durante lemie peregrinazioni ogni tanto decidevodi cambiare dimora; non ero trattenutoin nessun luogo contro la mia volontà,nessuno mi dettava legge, ero come unuccello da preda che può disporre diotto riserve di caccia anziché di una,e non approda mai nella gabbia dellaprudenza.Con Thomas parlavo di argomentifilosofici o scientifici. Di cose dadire ne aveva parecchie, e le dicevavolentieri, ma voleva anche sapere diche cosa mi occupavo io. Io gliparlavo delle civiltà e dellereligioni che stavo studiando nelcorso della mia ricerca sui fenomenidi massa. Anche allora, all'epocadegli abbozzi letterari, dedicavo aquel lavoro qualche ora ogni giorno.Dei miei tentativi letterari Thomasnon venne a sapere nulla; un istintosicuro mi diceva che i miei personaggiavevano in sé qualche cosa chel'avrebbe inevitabilmente ferito, siaperché l'ampiezza dei loro movimentipoteva sembrargli disperatamenteirraggiungibile, sia perché la lorolimitatezza poteva rammentargli le suelimitazioni. Mi ero imposto di nondirgli una parola di tutto questo; ela cosa non mi riuscì nemmeno troppodifficile, perché per le nostreconversazioni restava comunque, comeargomento inesauribile, l'opera cheentrò nella mia vitacontemporaneamente a Thomas, e chedivenne per me d'importanza capitale:la Storia della civiltà greca di

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Jacob Burckhardt. I Greci Thomas liconosceva bene ormai da un pezzo,avendoli però incontrati a tempodebito, seguendo il ciclo regolare deisuoi studi. Thomas sapeva spiegarmi inche cosa gli autori più recenti sidiscostavano da Burckhardt, ma era ingrado di cogliere al tempo stessol'importanza delle sueinterpretazioni, che eranoincomparabilmente più profonde.Pensavamo entrambi che fosse lui,Burckhardt, il grande storico delsecolo passato, ed eravamo convintiche fosse giunto il momento direndergli giustizia.Il dialogo con Thomas, per me cosìimportante, lo conducevo soltanto conuna parte della mia natura. Ma sentivoche il rapporto con lui e la frequenzadei nostri incontri influivano anchesull'altra parte, quella che glitenevo nascosta.Thomas era presente nella mia vitapiù di qualsiasi altra persona checonoscessi; e ciò non soltanto perchéla sua esistenza non poteva essereparagonata a quella di nessun altro,ma anche perché egli mi sorprendevacon reazioni del tutto inaspettate.Per più di un aspetto era come uno deipersonaggi che avevo inventato: c'erauna condizione dalla quale dipendevaogni cosa e, se la conoscevi, tuttociò che egli faceva era chiaro ecoerente, nulla avrebbe potuto esserediverso, il suo comportamento,pensavi, appariva trasparente ecomprensibile. Thomas diventò ilnocciolo della -Comédie humaine e,pur senza comparirvi direttamente, laprova regina della sua verità. Ma,essendo egli così diverso da tutti glialtri, la sua influenza fu molto piùforte. Ammazzarlo era impossibile, isuoi tre tentativi di suicidio,peraltro molto seri, non lo avevanoneanche sfiorato, quel che sarebbebastato a uccidere un'altra persona alui non aveva fatto alcun male. Ormaiera vaccinato contro ogni tentativo difarsi del male, lo sapeva benissimo esi era messo l'anima in pace. Se nonera in un momento di particolaresconforto, ne era persino orgoglioso;tutto ciò che prendeva dagli altri, mecompreso, serviva a renderlo piùforte.Thomas era qualcosa di più deipersonaggi che occupavano la mia

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mente, perché, nella sua dipendenza,creava da sé la propria vita. Anchenella sua situazione, era capace diimprevedibili metamorfosi, era questoche in lui mi stupiva più di qualsiasialtra cosa. Credevi di conoscerlo, einvece c'era sempre dell'altro.Proprio perché era tanto più forte emisterioso di loro, credo che avrebbepotuto distruggere gli otto personaggicon i quali si era scontrato dentro dime. Lui non li conosceva, ma essi loconoscevano, e, poiché non avevano unnome, erano in sua balìa.Ma proprio Thomas, che in pochi mesiera diventato un pericolo silenziosoma continuamente presente per il mioprogetto, giacché senza saperlo avevatrovato il modo d'insinuarsi in ognunodei miei personaggi, e lo svuotava,privandolo della sua forzadall'interno, proprio lui fu anchel'occasione di un salvataggio. Settepersonaggi perirono, ma uno rimase invita. La mia impresa smisurata portavain sé il suo castigo; ma la catastrofeche le mise fine non fu totale:qualcosa si salvò, e oggi si chiamaAuto da fé.Thomas mi chiedeva spesso diparlargli delle esperienze che a luierano precluse, e una volta preteseanche una dettagliata descrizionedegli eventi del 15 luglio. Gli dissitutto, senza alcuna remora, con tantiparticolari ai quali non avevo piùripensato e che non mi era maicapitato di raccontare tutti insieme.E sentii quanto quella giornata fosseancora viva dentro di me, a distanzadi tre anni. Thomas reagì in mododiverso dal mio, lo spavento non loassalì, il movimento rapido e ilcambiamento frequente del punto diosservazione produssero su di lui uneffetto stimolante. -Il fuoco! continuava a ripetere. -Il fuoco! Ilfuoco! . Mi sembrava quasi un po'ubriaco; così, quando gli parlaidell'uomo che se ne stava defilatorispetto alla massa e, con le bracciaalzate e le mani congiunte sopra latesta, gridava gemendo: -Bruciano ifascicoli! Tutti i fascicoli! , aThomas venne da ridere, da rideresgangheratamente; e rise tanto che lacarrozzella cominciò a ondeggiare epoi se ne andò, portandoselo via. Ilriso era diventato forza motrice;visto che non riusciva a smettere,

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dovetti corrergli dietro per fermarlo,e sentii i vigorosi scossoni che lesue risate comunicavano allacarrozzella.In quel momento vidi davanti a mel'-Uomo dei Libri , uno dei miei ottopersonaggi; al posto dell'uomo chegemeva per i fascicoli saltò fuorilui, tutto a un tratto: stava vicinoal Palazzo di Giustizia in fiamme, eio fui come folgorato dall'idea chedovesse bruciare con tutti i suoilibri.-Incendio, mormorai -incendio . EThomas ripeté, quando la carrozzellasi fermò ed egli finalmente smise diridere: -Che incendio! Quello sì chefu davvero un incendio! . Non sapevache per me quella parola era ormaidiventata un nome, il nome dell'eroedei libri, che da quel momento sichiamò così, Brand, (*) il primo eunico dei miei personaggi che ebbe unnome; e fu proprio per quel nome che,a differenza degli altri, si sottrasseall'autodissoluzione.(*) In tedesco -incendio si diceBrand, qui usato come cognome[N'd'T'].L'equilibrio tra i personaggi eradistrutto. Brand cominciò ainteressarmi sempre più. Non sapevoancora qual era il suo volto; è veroche era saltato fuori al postodell'uomo dei fascicoli, ma non avevaaffatto il suo aspetto. Brand non sene stava da parte, io lo prendevo sulserio così come lui prendeva sul serioil fuoco, che era il suo destino, nelfuoco egli avrebbe trovato la morteper sua libera volontà. Credo che siastato quel fuoco, l'attesa di quelfuoco, a disseccare, a poco a poco,gli altri personaggi. Cercai ancora,qualche volta, di riprenderli in mano,di continuare a scrivere. Ma il fuoco,ormai ridestatosi, era troppo vicino,e al suo cospetto quei personaggidiventavano vuoti, cartacei. Che razzadi creature erano mai, se non eranominacciate dalla morte? Non le avevoforse espressamente esentate dallamorte, perché dovevano vivere e poiritrovarsi nel padiglione che avevoscelto per loro? Là doveva svolgersiil dialogo dal quale mi aspettavotanto; mi ero addirittura immaginatoche quel dialogo avrebbe avuto unsenso, a differenza di quelli fra lepersone -normali , che sapevano dire

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soltanto banalità e tuttavia nonriuscivano a capirsi.Anche l'idea di quel dialogo avevaperso di smalto, da quando imbastivodelle vere discussioni, le quali,benché guidate da un sentimento dipremurosa sollecitudine, non eranocerto prive di sorprese. Erano intesecome un atto di delicatezza neiconfronti di una persona la cuisensibilità mi stava a cuoremoltissimo, più della mia; eppure lecose che mi capitava di ascoltare nelcorso di quei colloqui mi facevanoriflettere più di tutte le mieinvenzioni. Il padiglione delloSteinhof, che continuavo ad averesotto gli occhi, di lì a poco sisvuotò, e così pure i personaggi cheavrebbero dovuto radunarvisi.Cominciai a trovarlo ridicolo; volevaemergere per forza rispetto aglialtri, non riuscivo a capire come mailo avessi eletto a quel grande onore:un padiglione qualunque sarebbe statoaltrettanto adatto. Non sidistinguevano neppure uno dall'altro.Mentre i personaggi restavano semprepiù abbandonati a se stessi, senza cheio mettessi fine violentemente allaloro esistenza - non li ripudiai, nonli nascosi, solo a un certo punto lipiantai lì, uno dopo l'altro, a metàdi una frase -, Brand, l'uomo deilibri, aveva invaso a tal punto i mieipensieri che camminando per la stradalo cercavo con lo sguardo. Me loimmaginavo lungo e secco, ma ancoranon conoscevo il suo viso. Finché nonlo vidi, anche questo personaggioconservò qualcosa della naturaspettrale che aveva ridotto gli altrisette al lumicino. Sapevo che nonabitava aHakking, la casa di Brand era nel centrodi Vienna o quasi, per questo ci andaipiù spesso, convinto che un giorno ol'altro lo avrei incontrato.Le mie speranze non m'ingannarono.Lo trovai nel proprietario di unnegozio di cactus; ci ero passatodavanti spesso, ma senza far caso alui. Proprio all'inizio della galleriache portava dal Kohlmarkt al caffèPucher c'era, a sinistra, un piccolonegozio di piante grasse. Avevaun'unica vetrina, non molto larga,nella quale stavano diritti molticactus di tutte le misure, spinacontro spina. Dietro di essi il

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proprietario, un uomo lungo e secco,guardava in direzione della galleria:uno sguardo appuntito, dietro tuttequelle spine. Mi fermai davanti allavetrina, e lo guardai fisso in viso.Era più alto di me di tutta la testa eil suo sguardo mi passava sopra; maavrebbe anche potuto passarmiattraverso senza accorgersi di me. Eraassente non meno che secco, senza lespine dei cactus nessuno l'avrebbenotato: era fatto di spine.Così avevo trovato Brand, che daquel momento non mi lasciò più. Mi erotrapiantato un cactus in corpo, cheora cresceva risoluto e senza badare ame. Eravamo in autunno, ormai, ed iomi misi subito al lavoro, che proseguìogni giorno, senza interruzioni. Erafinito lo sperpero dell'annoprecedente, ora regnavano leggisevere. Non mi concessi il minimoscarto, non cedetti ad alcunatentazione. Ciò che mi stava a cuoreera la densità della costruzione, unaqualità che fra me e me io chiamavo-illacerabilità . Nell'anno dellosperpero il mio maestro era statoGogol, lo scrittore che ammiravo piùdi tutti gli altri. Alla sua scuola miero abbandonato alla libertàdell'invenzione, e la voglia diinventare mi rimase anche in seguito,quando ormai ero preso da tutt'altremire; ora, invece, nell'anno dellaconcentrazione, in cui volevoraggiungere la chiarezza e la densitàe una trasparenza senza scorie comequella dell'ambra, mi affidai a unaltro modello, per il quale nutrivoun'ammirazione non minore: Il rossoe il nero di Stendhal. Ogni giorno,prima di cominciare a scrivere, neleggevo qualche pagina, ripetendo quelche aveva fatto Stendhal stesso con unaltro modello, il famoso nuovo Codicecivile della sua epoca.Per qualche mese rimasi fedele alnome di Brand. All'inizio non erodisturbato dal contrasto fra lequalità del personaggio e i baglioridel suo nome; ma, quando tutte le suequalità furono chiaramente delineate,dure e immutabili, il nome cominciò aespandersi a spese del personaggio.Quel nome mi faceva pensare alla suafine, mentre io volevo che mi fosserammentata soltanto a tempo debito.Cominciai a temere che il fuocoavanzasse, divorando ciò che era

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ancora sul nascere, e così Brandcambiò nome e fu ribattezzato in Kant.Per un anno intero Kant mi ebbe insuo potere. L'inesorabilità con cui illavoro si dipanava fu un'esperienzadel tutto nuova. Sentivo una legge piùforte di me, qualcosa che ricordava ladisciplina della scienza della natura,la quale, dunque, in qualche modo erapenetrata in me, benché io le avessivoltato le spalle con tantarisolutezza. I primi segni del suoinflusso erano avvertibili qui, nellaseverità di questo libro.Nell'autunno del 1931 Kant diedefuoco alla sua biblioteca e morìbruciato insieme ai suoi libri. La suafine mi toccò da vicino, come se fossestata la mia. Quest'opera segnal'inizio della visione edell'esperienza che posso chiamaremie. Per alcuni anni il manoscrittorimase intatto presso di me con iltitolo Kant prende fuoco. Il doloredi quel titolo era difficile dasopportare. Quando, a malincuore, midecisi a cambiarlo, non riuscii asepararmi completamente dal fuoco.Kant diventò Kien, la minacciaincombente che il mondo s'incendiasserimase nel nome del protagonista. (*)Ma il dolore diventò più forte, finoal titolo Die Blendung. (**) Queltitolo conteneva, irriconoscibile perchiunque altro, il ricordodell'accecamento di Sansone, cheneppure oggi io oso rinnegare.(*) Kien significa legno resinoso(di pino) [N'd'T'].(**) -Accecamento , -Abbagliamento .Per le traduzioni inglese e italianadel romanzo Die Blendung, pubblicatonel 1935, l'autore è ritornato alfuoco, scegliendo il titolo Auto dafé [N'd'T'].