REM 2 (2010) - Elia e la pittura universale

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In questo numero: Natalino Balasso Romolo Cacciatori Daniele Capra Milena Dolcetto Sergio Garbato Germana Lorenzetti Stefano W. Pasquini Andrea Pirani Aldo Rondina Jahangiri Shahnaz Sergio Sottovia Vainer Tugnolo Marcella Valbusa Margherita Vanore Roberta Veronese ELIA E LA PITTURA UNIVERSALE Anno I, n. 2/3 del 01 dicembre 2010 - € 5.00 9 772038 342001

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Periodico culturale quadrimestrale pensato e scritto tra l'Adige e il Po

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In questo numero: Natalino Balasso Romolo Cacciatori Daniele Capra Milena Dolcetto Sergio Garbato Germana Lorenzetti Stefano W. PasquiniAndrea Pirani Aldo Rondina Jahangiri Shahnaz Sergio Sottovia Vainer Tugnolo Marcella Valbusa Margherita Vanore Roberta Veronese

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Anno I, n. 2/3 del 01 dicembre 2010 - € 5.009 772038 342001

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SOMMARIO

RUBRICHETaccuino futile - Natalino Balasso ....................................................................................7

Visti da lontano - Roberta Veronese .................................................................................9

Flash & News - Sergio Sottovia .....................................................................................11

Visti da vicino - Jahangiri Shahnaz ................................................................................13

ATTUALITA’ Il Parco c’è ma non si vede - Sandro Marchioro .........................................................14

LUOGHIInfrastrutture culturali - Margherita Vanore ....................................................................20

Sotto l’ascella del braccio sinistro di un’Italia senza testa - Monica Scarpari ........26

PAROLE

Toni Cibotto, l’estro tra le righe - Sandro Marchioro ..................................................30

Cosa resta di Marino Marin - Sandro Marchioro ........................................................34

PALCOSCENICOIl Polesine a teatro - Milena Dolcetto ............................................................................39

E ad Adria la stagione è questa..............................................................................43

SUONIJazz time - intervista doppia a Fabio Petretti e Marco Tamburini - Cristiana Cobianco ....44

FORMESerena Fortin: emozioni nelle forme - Sandro Marchioro ..........................................50

COLORITra la caduta e la felicità - Elia e la pittura universale - Stefano W. Pasquini..........54

Elisa Rossi esercizi di intimità - Daniele Capra ...........................................................64

IMMAGINIL’occhio di Antonioni sul Delta - intervista a Elisabetta Antonioni - Vainer Tugnolo ..68

PERSONAGGI Romano Guarnieri un grande polesano dimenticato - Sergio Garbato ..................71

STORIEGiuseppe Mazzetto - Aldo Rondina .............................................................................74

PASSATO REMOTOXanto - Andrea Pirani .....................................................................................................77

SAPORI E SAPERITartufo: Re della tavola... - Romolo Cacciatori ...........................................................81

Crema di patate con uova di quaglia e tartufo - Germana Lorenzetti ......................84

PROGETTILa biblioteca di Mimì - Marcella Valbusa .....................................................................87

Anno I, n. 2/3 del 01 dicembre 2010

Autorizzazione del Tribunale di Rovigo n. 3/2010 del 23/02/2010

Direttore Responsabile:Sandro Marchioro - [email protected]

Editore: Apogeo Editore - [email protected]

Coordinamento Editoriale:Cristiana Cobianco, Monica Scarpari, Paolo Spinello

Grafica e Impaginazione:Michele Beltramini

Stampa:Grafiche Nuova Tipografia - Corbola (Ro) Tel. 0426.45900

Ufficio stampa:Milena Dolcetto

Blog e Social Network:Sabrina Donegà

Hanno collaborato a questo numero:Natalino Balasso, Romolo Cacciatori, Daniele Capra, Milena Dolcetto, Sergio Garbato, Germana Lorenzetti, Stefano W. Pasquini, Andrea Pirani, Aldo Rondina, Jahangiri Shahnaz, Sergio Sottovia, Vainer Tugnolo, Marcella Valbusa, Margherita Vanore, Roberta Veronese.

Il responsabile del trattamento dei dati raccolti in banche dati di uso redazionale è il direttore responsabile a cui, presso Apogeo Editore di Paolo Spinello - Corso Vittorio Emanuele II, 147 45011 ADRIA RO, Tel.0426 21500, Fax 0426 945487, ci si può rivolgere per i diritti previsti dal D.Lgs.196/03.

Iscrizione al Registro degli operatori di comunicazione (ROC) n.19401 del 14/04/2010

Copyright - Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte della rivista può essere riprodotta in qualsiasi forma o rielaborata con l’uso di sistemi elettronici, o riprodotta, o diffusa, senza l’autorizzazione scritta dell’editore. Manoscritti e foto, anche se non pubblicati, non vengono restituiti. La redazione si è curata di ottenere il copyright delle immagini pubblicate, nel caso in cui ciò non sia stato possibile l’editore è a disposizione degli aventi diritto per regolare eventuali spettanze.

Numero chiuso in redazione il 16/11/2010

ISSN 2038-3428

Ringraziamo Andrea Fantinati e il Fotoclub di Adria per la collaborazione e la concessione di molte foto pubblicate in questo numero.Tali foto sono date in utilizzo GRATUITO per l’inserimento nella rivista REM. Tutti gli altri utilizzi sono interdetti, ai sensi della Legge 633/41 e successive modifiche, e ai sensi del Trattato Internazionale di Berna sul Diritto d’Autore. Ai sensi del DPR 19/79, è fatto OBBLIGO la menzione del nome dell’autore delle immagini nella pubblicazione.

www.remweb.it

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di Giribuola Luigi

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RUBRICA

il campo in diagonale anzichè in perpendicolo, perché il trattore il-lumina una porzione del campo e non si ha un’immagine del tutto. Ed è proprio quella piccola por-zione illuminata dai fari, un po’ davanti, un po’ dietro il trattore che ti dà il senso del maschio che ara, nella notte in cui la nenia del diesel sembra eterna e l’aratro penetra la madre scura rivelandone il solco. E’ lì che l’uomo solo con un infinito non rivelato, è. E’ e basta, inse-guendo un compito che è svelato solo quando è compiuto: il termine dell’aratu-ra è il termine del campo. Seduto sul parafango credo di aver avuto l’espres-sione di quel moscone raccontato da Esopo, che si posa sul corno di un bue che sta conducendo l’aratro. Un rospo che sospira ai margini del campo vede il mosco-ne in cima al corno e gli chiede: “Che ci fai lassù?” e il moscone, dandosi una certa importanza, risponde: “Non lo vedi? Stiamo arando!”.Insomma, credo di avere avuto la percezione del limite tra l’essere e l’apparire proprio in quei fran-genti. Certo, anche in campagna, nei giorni di festa, si utilizzava un certo abbigliamento perché “... el par bon” e alle ragazze che non s’interessavano del proprio aspet-to, i genitori ripetevano “Te vesti ‘na fassina, ea pare na rejìna”*;

forse sto parlando di qualcosa di più personale. Quando sento ac-costare l’eleganza di una donna a quella di un felino, chessò, una pantera ad esempio, non posso fare a meno di pensare che le pantere non si specchiano, sono. Sono e basta. E non credo inte-ressi tanto a loro di essere con-siderate eleganti. Qualche bravo

filosofo mi direbbe che in realtà tutto appare, anche ciò che sembra solo es-sere e quindi avere la percezione di es-sere percepiti non è niente di ipocrita, è solo una presa di coscienza. Eppu-re mi dico che do-vremmo sforzarci di essere più che reci-tare il ruolo che gli

altri ci hanno assegnato. Ciascu-no ha un proprio modo di essere uomo, di essere madre, di essere dottore, di essere vigilessa. Ten-diamo però a tradire quello che sarebbe il nostro personale modo di essere quello che siamo, per non disattendere la categoria a cui ci sentiamo di appartenere, per apparire ciò che gli altri si aspettano dal nostro “vestito”. Ovviamente sto parlando di un vestito metaforico perché, dicia-molo pure, spesso anche i nudisti sono vestiti da nudisti.Forse dovremmo passare tutti qualche ora sul trattore.

_______* “Vesti una fascina, sembra una regina”

“...dovremmosforzarci di essere più che recitareil ruolo che glialtri ci hanno

assegnato

di Natalino Balasso

Taccuino futile

Arare o apparire

Uno dei rari momenti nei quali un uomo si sente maschio è quando va ad

arare di notte. A pochi succede e a me è successo qualche volta intorno ai quindici anni. A dire il vero il trattore (coi cingoli) lo guidava per lo più mio padre ed io me ne stavo seduto sul pa-rafango e davo genericamente una mano, immagino che lui mi portasse con sé per non addor-mentarsi. E lì è un attimo perde-re i punti di riferimento e arare

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ICONA DEL TUO PRESENTE

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RUBRICA

sembra che il tempo si sia ferma-to, unico cenno di modernità la voce elettronica che ora segnala, anche in inglese, l’arrivo ad ogni stazione. Fuori dal finestrino, una sorta di no man’s land fatta di case coloniche decapitate, uno scena-rio scarno che ben si presterebbe come location per uno spaghetti western in salsa padana. Duran-te i tempi morti passati in treno, in cui il viaggio si sostituisce alla vita, ho avuto l’oc-casione di stupirmi e di riconsiderare il rapporto tra il territorio e chi lo abita. Tutti i tratti di quell’immobilismo paesaggistico, me-tafora e preludio di un panorama economico-sociale chiuso e ripiegato su se stesso, erano in netta contraddi-zione con il brusio di voci, e lingue straniere, che animavano il vagone del treno. La massiccia presenza di cittadini di origine straniera, in un piccolo treno frequentato di norma da pendolari, mi è apparso come l’evidente segnale che il nostro ter-ritorio si è nostro malgrado trasfor-mato, raggiungendo gli standard multiculturali del resto d’Italia. Cer-to il Polesine non è stato investito dal boom economico del nord est, locomotiva d’Italia, non è stato in-vaso, come direbbe qualcuno, da orde di migranti, ma anche questa striscia di terra tra Adige e Po, da zona storicamente considerata d’emigrazione, si sta lentamente ed inequivocabilmente trasforman-do in territorio d’immigrazione e di accoglienza. Basta fare una

Nel suo libro Vicevita. Treni e viaggi in treno, Valerio Magrelli definisce i viag-

gi in treno una sorta di surrogato della vita, momenti in cui, più che vivere, aspettiamo di vivere, attese, nel corso delle quali resta il tempo per rinnovare lo sguardo ed im-parare, di nuovo, a meravigliarsi. Nella vita mi è capitato di pren-dere innumerevoli treni, a breve o a lunga percorrenza, ad alta e a bassa velocità, espressi notturni, tgv e interregionali. Nel mio lungo curriculum di passeggera, il treno regionale che percorre la linea Ro-vigo - Chioggia, è stato il mezzo di trasporto che ha accompagnato ogni mio ritorno in Polesine. Un mi-cro viaggio di 25 minuti per guar-dare fuori da un finestrino impolve-rato, 25 minuti di sospensione per riabituare l’orecchio ai suoni del dialetto mentre realizzo che sto per tornare a casa. Entrare in una delle sue carrozze, è come fare ingresso in una dimensione parallela, dove

di Roberta Veronese

Visti da lontano passeggiata per i centri delle città polesane per accorgersene, basta andare al mercato, nelle scuole, nei bar, per comprendere che que-sto non è un fenomeno destinato a placarsi, ma bensì ad estendersi. Nell’immaginario collettivo il Po-lesine sembra inossidabilmente le-gato all’alluvione del ‘51, una tra-gedia cronicizzata, che saremo in grado di rimarginare solo quando sapremo ridefinire i confini della

nostra identità. Mi auguro che i miei concittadini e le autorità che gesti-scono il territorio siano in grado di leggere il presente affiancando, a ne-cessarie politiche di sviluppo econo-mico, altrettanto fondamentali pra-tiche di inclusio-ne sociale. Non esistono teorie e modelli di inte-

grazione perfetta, l’immigrazione è un tema complesso e incande-scente attorno al quale i governi sembrano proporre il peggio di sé, “volevamo braccia, sono arrivati uomini”, scriveva Max Frisch più di trent’anni fa sintetizzando con questa frase l’ostilità dei cittadini svizzeri verso gli immigrati italiani. Da allora è difficile stabilire quanto sia veramente cambiato in materia di diritti; se si ripensa ai recenti fat-ti di Rosarno, si ha la percezione di una vera e propria regressione, eppure per comprendere la porta-ta del fenomeno basterebbe cam-biare sguardo, linguaggio e come insegna Gian Antonio Stella, colti-vare l’uso della memoria, in Polesi-ne, come altrove.

La culturadell’accoglienza

“I luoghi sonogomitoli del tempo

che si è avvoltosu se stesso.

Scrivere è sdipanarequesti fili, disfarecome Penelope

il tessuto della storia.Claudio Magris Microcosmi

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RUBRICA

Stavolta le nostre storie traggono spunto da un parallelo, anzi…due. Quello del Polo Nord visto da Umberto Maddalena e quello del Polo Sud visto da Boris Pado-van. Due storie agli antipodi, ma con un solo comune denominato-re: il nostro Polesine. E che vi rac-contiamo partendo da ieri (col pi-lota Umberto e la “tenda rossa”) per arrivare a oggi (con l’astrono-mo Boris e Concordia Base).

Era il 20 giugno 1928 quan-do il “polesano da Bottri-ghe” Umberto Maddalena,

comandante del primo apparec-chio inviato in soccorso della spe-dizione polare diretta da Ronald Amundsen, riuscì a rintracciare la “Tenda Rossa” del generale No-

di Sergio Sottovia

UmbertoMaddalenae Boris Padovan: due storiepolesane

bile e i disperati naufraghi del dirigibile “Italia” precipitati sulla banchisa polare. Ne hanno fatto anche un film drammatico, ma per Umberto (il figlio del medico Ettore e della maestrina Francesca) quel viag-gio al Polo Nord era in linea con la sua formazione professionale. Quella di Umberto Demetrio Vir-gilio, nato a Bottrighe il 14 otto-bre 1894, gioventù a Pettorazza, diplomatosi Capitano di lungo corso al “Paolo Sarpi” di Vene-zia, arruolatosi quindi nella Ma-rina mercantile per navigare sugli oceani fino alle lontane Ameri-che. Rientrato in patria, l’Umberto polesano frequenta l’Accademia navale di Livorno e, da pilota di idrovolanti, partecipa “con ardi-mento e perizia” ad importanti operazioni militari della prima guerra mondiale. Poi - recitano le cronache - sarà “tra i cieli di tutta Europa, pilota prestigioso per la nostra industria”. Tutto propedeu-tico quindi al suo famoso “viag-gio al Polo Nord”.Una storia da grande aviatore, la sua. Tant’è che nel 1931 conqui-sterà per l’Italia il primato di dura-ta e distanza (km 8.188,800) in circuito chiuso con 67 ore ininter-rotte di volo. Quello che dirige e organizza il corso per “Atlantici”, e da pilota partecipa coll’idro-volante S 55 I Madd. alla prima Crociera aerea transatlantica (Or-betello-Rio de Janeiro). Purtroppo il 19 marzo 1931 Um-berto troverà la morte (assieme a due compagni) in un tragico inci-dente di volo, in località Mezza Spagna di Marina di Pisa. Adesso, nel Terzo Millennio, c’è un altro polesano che è approda-

Flash & News to sulla calotta polare.Parliamo di Boris Padovan, figlio del crespinese papà Giancarlo, che è andato però agli antipodi. Cioè al Polo Sud, là nell’Antarti-de. Per una storia moderna, da astronomo per il “Winter Over 2010”, là a Concordia Base. Per un parallelo che ho ricorda-to mandando allo stesso Boris una mia foto sotto il monumento di Umberto Maddalena a Bottri-ghe. Ovviamente una storia da tempi moderni, quella di Boris Pa-dovan, laureatosi in astronomia all’Università di Padova (sua città natale) e che poi ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Scienze e Tecnologie Spaziali tra Padova e il Center for Space Research dell’Università del Texas, ad Au-stin. Base di lancio (dopo 4 anni di esperienza aziendale informa-tica) per “Antartide & Concordia Base”, dove va nel dicembre 2009 come tecnico informatico e telecomunicazionista.Spiega così Boris il suo Winter Over: “Dovrò curarmi del buon funzionamento di progetti scienti-fici rivolti a studi atmosferici, sul campo geoelettrico, sulla riflettivi-tà del ghiaccio e progetti di ricer-ca astronomica”. Ma guardate la foto antartica di “Running Man”: sulla sua maglietta c’è il logo del “Delta del Po” meritata a Taglio di Po. Perché lui, il Boris che da Concordia Base parla di emozio-ne scientifica assieme agli altri 13 Antarctics Boys, è pur sempre il podista “figlio di Fetonte” orgo-glioso di essere Made in Polesine, tant’è che in foto by Antartide lui certifica “Crespino km 15.360”, cioè 45 km più vicina di Padova.

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RUBRICA

delle mie figlie tenendole d’estate a Padova; per questo motivo ogni anno per tre mesi mi trasferivo con il lavoro nell’isola di Albarel-la. Lì ho conosciuto molta gente di Adria e su loro indicazione ho deciso di visitare questa città: ri-cordo bene quel giorno, era una domenica, ed il centro della città era piacevolmente affollato di perso-ne. Mi è piaciuta subito, mi sono in-formata per l’istru-zione delle mie fi-glie. C’era tutto, dal teatro al conserva-torio: insomma una serie di possibilità che mi mettevano a disposizione un’am-pia scelta.Nell’estate del 2001 ci siamo tra-sferiti ad Adria; come tutte le im-migrazioni è stata dura, ma non è durata tanto. Abbiamo conosciu-to un adriese adottivo, France-sco Scidà, meglio conosciuto col nome di “Barone”, che ci ha dato la possibilità di conoscere da su-bito la faccia migliore di Adria. In questa città abbiamo trovato un grande tesoro. Purtroppo, dopo pochi anni, la sua morte ci ha lasciato con l’amaro in bocca, ma i bellissimi ricordi li portiamo sempre con noi. Dopo i suoi fu-nerali ricordo che mia figlia, che allora aveva sette anni, nel diario aveva scritto: “Come faremo sen-za di lui!”. Devo dire che ancora non riesco a controllare le mie emozioni. Abbiamo avuto anche esperienze tanto negative: del re-

Sono nata in Iran nel 1959 e ho frequentato le scuole a Shiraz, città famosa pri-

ma per l’arte e i fiori, e poi per la sua università che è una delle più importanti del medioriente e del mondo. A trenta chilometri da questa città, che supera il milio-ne di abitanti, ci sono le rovine di Persepolis, una delle princi-pali testimonianze della grande fioritura della civiltà persiana, che richiama migliaia di turisti tutto l’anno. Per diversi motivi nel 1988 sono venuta in Italia; ho vissuto 10 anni a Padova, dove mi sono iscritta all’università, mi sono sposata e ho avuto due bambine. Gestivo un negozio di manifatture persiane. Per la mia formazione culturale ed educati-va non volevo sacrificare la vita

sto è una comunità che ha i suoi pregi e i suoi difetti. Ma voglio parlare solo di cose belle. Penso che se riuscissimo a fare a meno di una certa propaganda, che mette in evidenza e fa vedere sol-tanto l’orrore dell’immigrazione, tutto sarebbe diverso. Del resto la responsabilità, come per leg-

ge, è individuale, indipendentemen-te dall’etnia, dalla religione e dalla nazionalità. Come posso definire i Po-lesani? Soltanto vi posso dire come vorrei che fossero: vorrei che il Polesi-ne fosse con tutta la sua popolazione, immigrati compre-

si, meno egoista e più attento nel giudicare; inoltre credo che do-vremmo essere tutti più empatici. Vorrei che rompessimo la gab-bia dei pregiudizi, rispettandoci gli uni con gli altri, che fossimo più generosi e più uniti per poter aiutare chi ha bisogno di essere sostenuto nel suo percorso. In fon-do viviamo in un unico territorio, tutti insieme dovremmo lottare per avere più diritti per tutti e per ga-rantire un futuro migliore ai giova-ni. Vorrei un Polesine più “aper-to” perché è conoscendosi che ti accorgi di quante cose belle puoi imparare e anche insegnare. Vor-rei che passasse il messaggio che il territorio è di tutti coloro che lo amano. Vi ringrazio per avermi offerto questo spazio e la possibi-lità di potermi esprimere.

“...è conoscendosi che ti accorgi di quante cose belle puoi imparare e anche insegnare

“di Jahangiri Shahnaz

Visti da vicino

Vorrei un Polesinepiù aperto

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ATTUALITA’

di Sandro Marchioro

foto di Andrea Fantinati

Il Parco c’è,ma non si vede

Si può percorrere il testo di una legge usando le chiavi interpretative che si usano, solitamente, per comprendere un testo letterario o, più estesamente, artistico? Non, cioè, con l’ottica del leguleio o del politico, ma di chi, partendo da un discorso prettamente culturale, voglia verificare se quel testo abbia realizzato o meno le sue

aspirazioni di partenza, riuscendo a realizzare le sue premesse ideali e dando loro una forma compiuta. La sfida è intrigante ed ho provato ad applicarla alla Legge Regionale n. 36 del 1997, quella che prevede l’istituzione del Parco del Delta del Po veneto. Nel testo, la legge 36 è molto bella: sono soprattutto i primi due articoli a determinarne il respiro, a raccontare la presa di coscienza di un territorio che ha capito il proprio valore e lo vuole difendere, tutelare, promuovere. Da lembo di terra produttivamente marginale il Delta, nelle prime righe della legge, diventa protagonista; si pone come perso-naggio principale di un racconto lungo secoli, a cui si riconoscono l’assoluta originalità, un tessuto fatto di terra e acqua sempre confuse e dai confini sempre mutevoli e incerti. Un tessuto fragile, che ha determinato storie e vicende umane, ambienti e paesaggi irripetibili. In una parola: cultura, nel senso più ampio e aperto del termine. Se è vero che la cultura di un popolo rappresenta la sua vita materiale e spirituale è altrettanto vero che essa è sempre fragile, i suoi lembi si strappano facilmente perché è soggetta all’usura del tempo, alla sua forza disgregatrice. Ed il solo modo per opporsi allo sfacelo, alla dispersione, è che la stessa cultura produca la consapevolezza della propria unicità e la difenda; fissando regole e principi, inducendo modelli di comportamento, spazi di tutela, argini di difesa. Nei suoi primi due articoli la legge 36 induce tutto questo, lo fa con lo stile burocratico con cui sono scritte tutte le leg-

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gi ma dietro si intravede, neanche tanto in filigrana, la passione degli uomini che l’hanno dettata. Uomini che il Delta lo hanno conosciuto ed amato, e dal quale sono stati eviden-temente ispirati. Tutela, recupero, valorizzazione, conservazione; il racconto della legge esordisce con queste parole belle, calde, dense. Subito dopo si parla di “caratteri naturalistici, stori-ci e culturali” del territorio del Delta: sono questi che bisogna custodire e tutelare, mantenere vivi e sani. Non solo perché li riconosciamo come importanti: ma anche perché, sapen-doli gestire, questi elementi possono diventare motori dello “sviluppo eco-nomico, sociale e culturale delle co-munità locali insistenti in tali territori” (lo si legge nell’articolo 2). Anche la parola “comunità” è molto bella: dà l’idea di un gruppo umano solido e

solidale, che condivide i propri de-stini con quelli del paesaggio in cui vive i propri giorni. Poi, in 13 punti, la legge definisce meglio cosa debba significare questa tutela. Ad esempio la gestione delle zone umide, la pro-mozione di un turismo di visitazio-ne, la tutela dell’ambiente naturale in tutti i suoi aspetti, la fruizione del territorio “a fini ricreativi, scientifi-ci, culturali e didattici”. Come dire: qui nel Delta ci si può divertire, ma anche imparare. Perché questo pae-saggio e chi lo ha abitato per secoli qui hanno seminato anche valori che non devono essere sperperati, ma devono anzi essere trasmessi perché sono pieni di potenzialità educati-ve: possono, cioè, rendere migliori le nostre vite e quelle dei nostri figli. E’ proprio in questi passaggi che la legge trasforma il racconto del Delta nel racconto di un’opera d’arte natu-

rale. E lo fa con un elenco semplice e piuttosto efficace delle cose da fare. Dal Capo II in poi (“Strumenti di at-tuazione”) la legge 36 pone le pre-messe del proprio suicidio: l’attuazio-ne del Piano del Parco, lo strumento, cioè, con il quale materialmente si devono realizzare tutte le cose bel-le che si sono raccontate prima, nel Capo I (Norme Generali). Perché accade questo? Perché le premesse non si realizzano, come accade in molti bei romanzi che par-tono bene, costruiscono una trama e dei personaggi credibili ed entu-siasmanti e poi invece non tengono, diventano vuoti e capziosi?E’ troppo semplice dare la colpa alla politica e a chi ha amministrato il Parco in questi anni. Certo, se si pensa che la legge prevedeva che il Piano del Parco venisse realizzato entro 18 mesi dall’entrata in vigore

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ATTUALITA’

della legge, è evidente che le colpe sono ben individuabili, visti che di mesi ne sono passati circa 156, al-tro che 18. Ma la colpa più grave di chi ha gestito il Parco in questi tredi-ci anni non è di non aver fatto nulla (è innegabile che è stato fatto qual-cosa), ma di non aver fatto la cosa indispensabile: diffondere la cultura del Parco.Il ceto politico polesano (ed ovvia-mente non solo quello polesano) ha smarrito da tempo la grammati-ca di base del potere. Anche nella gestione del Parco, quindi, chi ha in mano le leve dell’amministrare lo fa in quanto appartiene ad un ceto poli-tico, non ad un ceto dirigente: l’idea di dirigere, di portare verso un deter-minato obiettivo esiste ed è efficace solo se poggia su una base culturale che nel nostro caso manca del tut-to. Questo che è un vero e proprio

dramma ha fatto sì che il Parco sia stato solamente gestito (più o meno come si gestisce una pro loco) ma non fatto vivere, non fatto diventare cultura del territorio partecipata e condivisa. Un bel quadro, un bel ro-manzo, un’ottima sinfonia diventano davvero opere d’arte quando smuo-vono la cultura e la proiettano in una direzione mai presa prima, quando introducono forme e contenuti inno-vativi. Ma, soprattutto, quando tutto ciò viene condiviso e riconosciuto da chi quelle opere le fruisce, le vive, ne dispone nel presente e nel futuro. Fino al paradosso di toccare e dare significato nuovo anche alle esisten-ze di chi non le conosce o non ne può apprezzare gli aspetti più pro-fondi (Michelangelo, Vivaldi, Dante, “arrivano” anche a chi non ha mai avuto esperienza diretta o profonda delle loro opere).

Anche una legge vive lo stesso rap-porto con il proprio tempo e con il tempo che viene. Ora, possiamo dire che la legge 36 che ha istituito il Parco del Delta del Po veneto ha penetrato e pervaso la mentalità del-la gente che nel Delta vive? Mi pare proprio di no. Nulla di più. I “sacer-doti” di questo territorio, gli appas-sionati custodi del Delta e delle sue peculiarità esistevano anche prima dell’Ente Parco ed esistono tuttora indipendentemente da esso. In definitiva, quindi, senza una cul-tura del Parco diffusa e condivisa questa realtà splendida e potenzial-mente ricchissima di stimoli non de-collerà nella maniera piena sperata da tutti coloro che questo territorio lo amano profondamente. Lasciando spazio ad una profonda, amara di-sillusione.

foto di Andrea Fantinati

www.deltaradio.it

LA RADIO DI ROVIGO

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INFRASTRUTTURE CULTURALIPaesaggi e archeologie del Polesine

La ricerca a cui si fa riferimento è pubblicata in “Infrastrutture Culturali. Percorsi di terra e d’acqua

tra paesaggi e archeologie del Polesine” (a cura di M. Vanore), Padova, Il Poligrafo, 2010

connotano fortemente la struttura insediativa, come l’uso agricolo e industriale. Qui nuovi tratti infrastrut-turali potrebbero intercettare e riformulare il ruolo di un vasto patrimonio culturale mettendo in atto ade-guate strategie di valorizzazione.La ricerca “Infrastrutture culturali del Veneto. Per-corsi di terra e d’acqua nei paesaggi dell’archeolo-gia”1, ha voluto riconoscere, analizzare e proporre - soprattutto in rapporto all’interesse per le diverse testimonianze archeologiche ed in particolare per l’archeologia industriale - delle strategie di ri-signifi-cazione e ri-attivazione della “forma tecnica” eredi-tata, quale testimonianza del ruolo dei processi pro-duttivi nella trasformazione e nella realtà culturale, sociale ed economica del territorio d’indagine.In questi termini lo studio si è avvalso di una lettura sistematica, a scale diverse, di tracce, manufatti, siti

e infrastrutture, connessi alle trasformazioni del terri-torio, patrimonio e memoria dei luoghi, come delle loro variabili e complesse identità.In Veneto la memoria del passato più antico, anche quando affidata a resti poco evidenti, appare spes-so condensarsi nei tratti di diversi paesaggi, la cui bellezza è strettamente correlata ai sistemi ed alle relazioni tra gli elementi che li hanno definiti, come macchine idrovore, canali, argini, piccole architet-ture tecniche, masse arboree, filari d’alberi, case rurali, percorsi, tracciati.Una lettura iniziale estesa all’intera regione, ha pro-gressivamente portato la ricerca alla scelta di con-centrare l’attenzione sul Polesine di Rovigo, lì dove le intersezioni di percorsi antichi e nuovi tracciati viari si confrontano con la presenza di archeologie che potrebbero ancora costituire una risorsa cultura-

di Margherita Vanore

Reti della mobilità esistentie previste nel Polesine di Rovigo(disegno A. Petrecca)

Sistemi ambientali, insediativi e produttivi caratterizzanti la fascia di territorio polesano addossata all’argine sinistro del Po (disegno L. Mosca)

Le infrastrutture possono dare accesso alla conoscenza di un terri-torio e delle sue stratificazioni culturali, esserne allo stesso tempo veicolo d’interpretazione e parte integrante della struttura morfo-

logica, se costruite in relazione ai luoghi più significativi ed ai paesag-gi attraversati.Itinerari sorretti da reti di percorsi antichi, intrecciati a quelli esistenti o solo in progetto, correlati alle necessità di riqualificazione di diverse archeologie, hanno riportato l’attenzione di una ricerca (svolta presso l’Università Iuav di Venezia dal marzo 2009 al febbraio 2010) sul Polesine, territorio innervato da corsi d’acqua e vie navigabili, che ne

(1) Ricerca finanziata dal Fondo Sociale Europeo P.O.R. Veneto 2007-2013 “Investiamo per il vostro futuro” cod 005 DGR 1268/2008. Responsabile scientifico: Margherita Vanore - assegnisti: Sandro Grispan e Andrea Petrecca - tutor: Francesca Zannovello – partners: Cantiere nautico Cavalier (Venezia), Veneto Strade S.P.A., Rete Ferroviaria Italiana S.p.a., Studio di Archeologia Tuzzato.

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le attiva nella trasformazione del territorio.In particolare le aree d’intersezione e di densità del-le diverse archeologie, sono state individuate quali luoghi di criticità, ma anche quali possibili attori di un’estesa valorizzazione, capaci di ricomporre, riatti-vare e dare senso a vari sistemi e contesti.Mappe tematiche hanno per questo evidenziato la densità di presenze e la complessità di relazioni - sia in essere che potenziali - del patrimonio archeologico in rapporto a particolari ambiti territoriali e paesag-gistici, mettendo a confronto elementi di pregio del paesaggio con le tracce ancora riconoscibili di an-tichi assetti, legati tanto alle vie d’acqua quanto alle vie consolari.La lettura a grande scala ha permesso inoltre di in-dividuare diverse situazioni con una loro specificità, riconosciute nei luoghi dell’archeologia e intercettate dalle infrastrutture prese in esame. Gli scenari pro-gettuali hanno infine provato a tradurre quei luoghi in parte del sistema a cui la stessa costruzione del territorio, il paesaggio e le sue architetture di rilievo fanno riferimento.La riconoscibilità di una sorta d’impalcatura del “pa-esaggio dell’archeologia”, capace di indirizzare sia la tutela, sia una fruizione sostenibile del patrimonio storico-archeologico, connota quindi la prefigurazio-ne di diverse azioni e strategie. Si rimettono in gioco rovine di epoche diverse, di varia entità, importanza e consistenza, con l’intento di “riattivarle” per acco-gliere, nella complessità del contemporaneo, nuovi possibili livelli di trasformazione del territorio.Le trasformazioni innescate dalla realizzazione di nuove infrastrutture, che modificano in modo rilevante l’accessibilità al territorio, vengono perciò inquadrate e messe in relazione alle potenzialità che esse hanno di veicolarne la conoscenza.Tra gli interventi significativi per la viabilità a cui si è fatto riferimento vi è il risezionamento e il prolunga-mento della Transpolesana per la realizzazione sulla direttrice est-ovest dell’autostrada Nogara-Mare, la Nuova Romea, nonché altri interventi a livello locale nei comuni di Adria e Ariano Polesine. A questi si aggiunge la costruzione del nuovo tratto ferroviario Adria-Codigoro.La raccolta e l’elaborazione delle informazioni, oltre alla ricomposizione su mappa del previsto assetto in-frastrutturale e del patrimonio di archeologia classica e di archeologia industriale, ha consentito la ricompo-

sizione grafica di elementi diversi in modo da rilegge-re il nuovo sistema di interventi sulla viabilità di terra in Polesine, in rapporto alla presenza diffusa di quelle archeologie, intese come potenziali attori di una valo-rizzazione del territorio.Con gli scenari di fruizione integrata delle risorse culturali, storico-archeologiche e paesaggistiche, si propone quindi una intelaiatura che trovi nei sistemi di architetture tecniche o industriali, di idrovore, del-le case rurali, luoghi capaci di mettere in relazione le principali e più significative risorse del paesaggio, attraverso itinerari che intercettino e comunichino le più interessanti intersezioni tra la contemporaneità e la storia di una terra d’acque qual’è il Polesine.L’individuazione di isole di densità culturali, ha fatto sì che gli itinerari fossero “rintracciati” più che trac-ciati, tanto a partire dalle diverse reti di percorrenza presenti e in progetto, quanto tenendo conto delle ve-locità e caratteristiche variabili delle stesse reti, ma

Carta dei percorsi culturali nel territorio di Adria (disegno S. Grispan)

Carta delle archeologie nel territorio di Adria (disegno S. Grispan)

Localizzazione del patrimonioarcheologico nel Polesine di Rovigo (disegno A. Petrecca)

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anche della capacità di indirizzare nuove modalità di fruizione delle risorse culturali della provincia di Rovigo.In particolare è stata approfondita la possibilità di realizzare un sistema di attraversamenti lenti, di strade panoramiche, che intercettano frammenti di archeologia classica, industriale, edilizia rurale, lì dove maggiori densità culturali si evidenziano. I per-corsi ricalcano in parte i segni di valore storico e paesaggistico, come i tracciati delle linee infrastrut-turali non più in uso, strade poderali, percorsi lungo le rive dei canali di bonifica.Le attività di ricerca hanno così portato a formula-re delle ri-letture da cui emergono la complessità di relazioni esistenti e le potenzialità del patrimonio archeologico di costituire luoghi di approdo/acces-so tanto ai diversi itinerari che ai paesaggi e alla cultura del territorio.Il recupero dei resti di un tracciato ferroviario dismes-so della linea Adria–Ariano Polesine, consente di prefigurare un itinerario che, oltre ad essere elemen-to di riqualificazione urbana, potrebbe veicolare la

percezione e la fruizione del paesaggio attraverso nuovi usi del patrimonio industriale intercettato. Un patrimonio che, per la sua stessa diffusione sul ter-ritorio, può ancora costituire un adeguato sistema di connessione tra luoghi d’interesse archeologico, storico e culturale, ma anche ambientale e turistico.I luoghi inanellati dagli itinerari proposti, nel rico-noscersi come parte di una struttura identitaria este-sa, assumono nuovi ruoli, formalizzati e articolati in diverse soluzioni spaziali, ricomposti da possibili nuove architetture urbane e del paesaggio.La definizione di strategie di valorizzazione si fon-da così sulla “messa a sistema” delle risorse culturali riconosciute, proprio attraverso la trasformazione di alcune infrastrutture quali parti costitutive e veicolo di conoscenza dell’identità dei luoghi attraversati2.Il discorso resta aperto a nuovi sviluppi, perché la riconoscibilità dei valori culturali ereditati e delle tracce identitarie di un territorio, possa appartenere alle diverse scale del progetto ed essere parte inte-grante della ricerca di una qualità nella costruzione e trasformazione dei paesaggi che abitiamo.

(2) Si rimanda per approfondimenti al libro “Infrastrutture Culturali. Percorsi di terra e d’acqua tra paesaggi e archeologie del Polesine” (a cura di M. Vanore), Padova, Il Poligrafo, 2010. Tra i testi che il volume raccoglie, oltre ai saggi relativi alla ricerca (S. Grispan, A. Petrecca, M. Vanore, F. Zannovel-lo) e ad alcune letture correlate sul rapporto tra infrastrutture, realtà archeologica del Veneto e paesaggi della post-produzione polesana (C. Costan-tini, P. Genovesi e G. Masiero, L. Mosca, L. Murmora, S. Tuzzato), sono riportati i contributi dei partecipanti ad una tavola rotonda (tra cui A. Ferlenga, C. Magnani, F. Mancuso), tenutasi nel marzo 2010 all’Iuav in occasione del convegno “Infrastrutture culturali. Paesaggi e archeologie del Polesine”.

Villanova Marchesana, ex fornace Etna (foto L. Murmora)

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ficate quasi a tutti i livelli, ma in genere isola, sperso-nalizza, ruba dimensione, smussa gli angoli di ciò che in realtà siamo, sottrae tempo al già poco tempo delle nostre giornate, setaccia, riduce e disperde calore uma-no. Nella città-città si finisce per essere numero, anche quando si diventa qualcuno. Ma tutto questo non è facile comprenderlo quando si è micce inesplose, accade poi, mentre passano gli anni. Accade quando non si è più alla ricerca di un posto speciale nel mondo, ma quando prevale il bisogno di radici, di crearsi una casa, intesa non solo come mattoni; quando si capisce che, finita la lotta, la ricerca ossessiva, soddisfatta o no l’affermazione di sé, quello che urge, che necessita: è serenità, è familia-rità, è stanziare, non più orbitare attorno a qualcosa, ma diventare il centro di un’orbita, seppur minuscola, banale e anche ordinaria, ma che assicuri affetto e calore, sen-

sazioni che in parte anche un luogo è in grado di offrire. Ecco forse perché, io, ora, amo questa terra e sento che mi appartiene, quanto io le appartengo.Questo posto sotto l’ascella del braccio sinistro di un’Ita-lia senza testa, questi luoghi surreali, spesso assurdi, piatti e vasti, silenziosi, troppo arrendevoli, poco reattivi, questi cieli opachi fatti di umidità e zanzare; amo questa miscela, questo miscuglio di acque e terra che lascia il mio occhio spaziare fino al limite delle sue diottrie; que-sta gente che non cambia mai né dentro né fuori, che parla cantilenando, ma non manca di sorridere e salutare davanti ai negozi e ai bar; amo persino le malelingue in ciabatte e grembiule sugli usci di casa e i fischi e le parolacce che arrivano dai cantieri; i ciottoli di porfido che staccandosi dal suolo mi fanno inciampare, gli olez-zi raccapriccianti che evaporano dall’acqua stagnante

“C’è un paesaggio interiore, una geografia dell’anima; ne cerchiamo gli elementi per tutta la vita.Chi è tanto fortunato da incontrarlo, scivola come l’acqua sopra a un sasso, fino ai suoi fluidi contorni, ed è a casa.Alcuni lo trovano nel luogo di nascita; altri possono andar-sene, bruciati, da una città di mare, e scoprirsi ristorati nel deserto.Ci sono quelli nati in campagne collinose, che si sentono ve-ramente a loro agio solo nell’intensa e indaffarata solitudine della città.Per qualcuno è la ricerca dell’impronta di un altro; un figlio o una madre, un nonno o un fratello, un innamorato, un mari-to, una moglie o un nemico.Possiamo vivere la nostra vita nella gioia o nell’infelicità, ba-ciati dal successo o insoddisfatti, amati o no, senza mai sen-tirci raggelare dalla sorpresa di un riconoscimento, senza patire mai lo strazio del ferro ritorto che si sfila dalla nostra anima, e trovare finalmente il nostro posto….”

(Josephine Hart)

Sotto l’ascelladel braccio sinistrodi un’Italia senza testadi Monica Scarpari

Queste parole sono l’incipit di un libro che più di qualche volta e, ancora, mi richiama tra le sue pagine. Parole che hanno fatto da scudo,

a volte da filtro e infine da airbag alla mia inquietudine. Un’inquietudine viva o latente che sia, innata o meno, non si risolve mai; si evolve forse, nel tempo si mitiga, col tempo se ne acquisisce il controllo, poi, ma solo poi e solo in parte, grazie alla maturità, la si razionalizza. I luoghi fanno parte del ciclo di terapie di cura verso di essa, agiscono come una specie di sedativo naturale o come tonico energetico al bisogno, soccorrono gli animi eternamente in pena. Non sempre è possibile sceglierli purtroppo: decidere dove andare, dove vivere, dove sem-mai stanziare, non è solo questione di volontà. Talvolta però, aldilà di un’impossibilità materiale, la predilezione di ognuno di noi verso una terra, una città, un clima,

oltre a seguire motivazioni razionali, gusti, correlazioni e relazioni, tende ad essere influenzata da atmosfere, pa-norami, itinerari e geografie che in parte ci somigliano o, per reazione, sono in contrapposizione al nostro essere.L’amore per i luoghi può, e non a caso, anche modifi-carsi negli anni: si trasforma in base al nostro divenire, ai nostri bisogni, è spesso influenzato dalle vicissitudini personali e forse per questo è che a volte, tornano in auge i vecchi amori... Volevo andarmene di qui all’età di diciotto anni, come la maggior parte dei giovani che per motivi di studio, lavoro, sete di libertà, fame di spa-zio e nuovi orizzonti, tendono verso la grande città. Me ne sono andata, credo, proprio per questo: perché ero giovane, chissà, forse anche per altro. Poi ho realizzato quasi da subito: la megacittà offre molto, moltissimo, ma toglie altrettanto. Offre possibilità moltiplicate ed ampli-

foto di Andrea Fantinati

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del canale... Amo tutto questo, for-se perché l’amore vero abbraccia i pregi, ma non sputa sui difetti, e soprattutto perché, credo, ci si senta vivi, si confermi la propria esisten-za e si appartenga al mondo, nel momento stesso in cui è il mondo a riconoscerci e perciò quando lì, dal mondo, qualcuno, qualcosa, cose e persone, mattoni e strade e alberi e cieli e acque e terra, attorno a noi, avvertono la nostra presenza, accol-gono, certificano e consolidano le nostre impronte. “C’è un paesaggio interiore, una ge-ografia dell’anima; ne cerchiamo gli elementi per tutta la vita.Chi è tanto fortunato da incontrarlo, scivola come l’acqua sopra a un sas-so, fino ai suoi fluidi contorni, ed è a casa…”Un tempo non mi erano sufficienti queste poche parole per sentirmi a casa, ho dovuto proseguire, partire, vagabondare, cercare, vagare: solo poi me ne sono resa conto. E que-sto potrebbe capitare anche a voi, se non è già capitato, prima o poi, o, per voi, potrebbe anche essere, perché no, da sempre così. Che nes-sun altro posto vi appaia più luogo di qui. E... se così fosse potrebbe assalirvi la voglia di fare qualcosa per renderlo migliore: il Vostro Posto, e ancora... se questo qualcosa fos-se poi l’unione di tanti qualcosa, di idee, progetti, impegno, azioni, te-nacia, fiducia, pazienza, dedizione, ingegno, entusiasmo, ottimismo, ma soprattutto amore, di tutti, tutti insie-me, ecco che il nostro luogo, questo qui, questo lembo di terra, ancora a misura d’uomo, umida, pigra, bistrat-tata, ma sicuramente sottovalutata e un po’ dimenticata, sotto l’ascella si-nistra della nostra Italia senza testa, ne sono certa, finirebbe per essere senz’altro migliore.

foto di Andrea Fantinati

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narrativa: del resto si sa, più che pro-muovere cultura le pagine culturali dei giornali italiani spesso promuo-vono un’editoria in crisi, che vive più di operazioni di marketing che di operazioni culturali tanto rare, or-mai, da risultare pressoché invisibili. Su quello che fanno i quotidiani loca-li, poi, è meglio sorvolare. Eppure Toni è stato uno scrittore vero, che ha un sua posizione ben precisa nel novecento letterario italiano, che ha svolto un ruolo ben individuabi-le nella cultura del “secolo breve” e non soltanto come testimone di un territorio magico e lunatico come quello polesano. Anche perché im-prigionare Cibotto nel suo amato Delta significa far torto ad uno stile di scrittura sempre personale e co-munque “forte”, che lo rende tutto il contrario di uno scrittore locale.Rivelato da un testo di difficile defi-nizione come Cronache dell’alluvio-

ne – Polesine 1951, pubblicato nel 1954, (con entusiastiche recensioni e con l’approvazione convinta di autori come Giovanni Comisso ed Eugenio Montale), Cibotto si im-pose come narratore quattro anni dopo con un testo provocatorio e sapido come La coda del parroco, del 1958, che gli valse la diffiden-za dell’intero mondo cattolico. Sono gli anni in cui vive e lavora a Roma, in una rivista letteraria di grande importanza come “La fiera lettera-ria”, diretta da Vincenzo Cardarel-li. La sua esperienza narrativa pro-segue con La vaca mora del 1964 e con il grande successo di Scano Boa, del 1984. Ma contemporanea-mente all’attività di narratore e di giornalista culturale Cibotto va asso-lutamente ricordato per il contributo fondamentale che ha dato al teatro italiano del secondo dopoguerra: tra tutto, va ricordato il suo impegno

nella riscoperta di un gigante della nostra storia letteraria come Angelo Beolco, meglio conosciuto come Ru-zante. Quanto poi Cibotto si sia spe-so nel raccontare e nel promuovere la cultura italiana su quotidiani e ri-viste (con una particolare attenzione a quanto si muoveva o s’era mosso nella sua regione e nella sua terra d’origine) lo raccontano i suoi molti volumi che raccolgono articoli, brevi saggi, interviste: Veneto segreto, I ve-neti sono matti, I giorni della merla, San Sebastiano con la viola in mano, Il principe stanco e molti altri. Una vera e propria miniera, non solo per la quantità enorme di profili di figure più o meno importanti del panorama culturale veneto e italiano, ma anche per il tono caldo e colloquiale, per la sua straordinaria capacità di la-vorare l’aneddoto, anche minimo, e di farne uscire figure a tutto tondo, molte delle quali fondamentali nella

Se Google fosse un termometro affidabile di quanto è vivo, in rete, un determinato argomen-

to, il dato che si ottiene digitando il nome di Gian Antonio Cibotto è sconfortante: il motore di ricerca dà soltanto 3130 risultati relativi all’au-tore polesano (qualcuno in più se si digita “Toni Cibotto”). L’abate Giaco-mo Zanella, poeta minore vicentino dell’ottocento ne raccoglie 117.000, lo sconosciutissimo Jacopo Vincenzo Foscarini (poeta e patriota veneziano

dell’ottocento) ne raccoglie 24.900; un altro poeta minore forlivese, Olin-do Guerrini, dà 39.100 risultati. In questo gioco si potrebbe andare avanti a lungo, rischiando di dare a Google un’affidabilità e un senso che questo strumento, per quello che ci in-teressa dire in queste righe, non ha. Però il gioco, per quanto stupido sia, porta a rafforzare un sospetto: sulla figura e sull’opera del nostro Cibotto sta calando un silenzio immeritato e pericoloso. Sappiamo tutti che l’in-

verno è calato come una scure impie-tosa nella vita di Toni, ma questo non giustifica il silenzio e la mancanza di iniziative che, soprattutto ora, do-vrebbero avere l’unico obiettivo pos-sibile per la vita di uno scrittore: la diffusione e la lettura delle sue opere. I grandi giornali nazionali da alcuni lustri non dedicano una riga a Cibot-to; molto meglio dedicare pagine e pagine al nulla spinto, alle polemi-che sterili sulla morte del romanzo, ai dibattiti futili sul ruolo della giovane

ToniCibotto,l’estro tra le righedi Sandro Marchioro

Le immagini sono trattedal cortometraggio“Il Viaggio di Toni”di Lino Bottaro

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GIAN ANTONIO CIBOTTO: BIBLIOGRAFIA MINIMAstoria della nostra cultura, altre da ri-scoprire e da rivalutare. Pagine che bisogna fare molta attenzione a non far ricadere nella categoria della me-morialistica, perché la saldezza cri-tica, pur sembrando nascosta, è in-vece sempre molto viva e rivelatrice nelle pagine che compongono questi libri. Ed anche quando non racconta di uomini di cultura ma di persone comuni, che hanno condiviso con lui la magia di qualche momento nella sua terra, le parole di Cibotto hanno qualcosa di importante da insegna-re, portano con sé un significato che solo i grandi scrittori sanno impre-gnare in storie apparentemente sem-plici e piane: storie di uomini e di pa-esaggi, di amicizie e di malinconie, di gioie perdute e di epoche e mondi che si succedono inesorabilmente.Chi conosce Toni sa benissimo quan-to avesse ragione Cesare De Miche-lis, in una sua postfazione ad una

riedizione di Cronache dell’alluvio-ne, a chiudere in quattro aggettivi la personalità umana e artistica di Cibotto: “lunatico, stravagante, con-traddittorio, umorale”. L’indolenza è sicuramente il dato più immediato del suo carattere: dice De Michelis che è tipica dei polesani, anche se non so quanto il critico ed editore veneziano conosca del carattere più profondo di questa terra. I polesa-ni hanno sempre dovuto lottare con gli elementi, conquistare quello che hanno sgomitando e lavorando. Più che l’indolenza, i polesani soffrono altri limiti che condizionano anche pesantemente la loro relazione con il resto del Veneto. La stravaganza e l’umoralità di Cibotto sono piutto-sto un dato del paesaggio di questa terra, in particolare del suo Delta, dove ancora oggi Cibotto dice che vorrebbe passare i suoi ultimi giorni. Un territorio cangiante, malinconico,

indefinito, ribelle ad ogni forma e ad ogni definizione: se può esistere una condivisione di umore tra un paesag-gio e la vita di un uomo, e se nel caso di uno scrittore questa condi-visione possa anche determinare in parte la forma della sua opera, di certo Gian Antonio Cibotto è imbe-vuto di questo territorio in ogni pa-gina. Non c’è uno solo dei suoi testi in cui non sia costante la piacevole sensazione di stare in un luogo in cui il tempo della grazia non scade, come invece accade continuamente nelle nostre giornate strangolate da un vitalismo di plastica, nevrotico e falso. Anche per questo Cibotto è un grande autore, che non va dimenti-cato e che bisogna sforzarsi di non far cadere nel silenzio. Bisogna leg-gerlo a scuola, fare tornare il suo la-voro al centro del dibattito culturale, dedicargli scaffali ben in vista in tutte le librerie e le biblioteche del Polesi-

Cronache dell’alluvioneVenezia, Marsilio, 2001 (prima edizione: Vicenza, Neri Pozza, 1954)

La coda del parrocoVenezia, Marsilio, 1983 (prima edizione: Firenze, Vallecchi, 1958)

La vaca moraVenezia, Marsilio, 2003 (prima edizione: Firenze, Vallecchi, 1964)

Scano BoaVenezia, Marsilio, 1996 (prima edizione: Milano, Rizzoli, 1961)

StramaloraVenezia, Marsilio, 1982

Diario VenetoVenezia, Marsilio, 1985

Veneto segreto: diario veneto 2Venezia, Marsilio, 1987

Il doge è sordo: notizie dal dominio della SerenissimaVenezia, Marsilio, 1993

Razza de monaVicenza, Neri Pozza, 1994

Contropelo: incontri e scontri con i protagonisti della cultura italianaVicenza, Neri Pozza, 1996

San Bastiano con la viola in manoVicenza, Neri Pozza, 1997

Amen: versi in lingua e in dialetto Venezia, Marsilio, 1998

I giorni della merlaVicenza, Neri Pozza, 2000

Il principe stancoVicenza, Neri Pozza, 2002

I veneti sono matti(a cura di Tiziana Agostini), Vicenza, Neri Pozza, 2003

Bassa marea: versi in lingua e in dialetto Venezia, Marsilio, 2006

ne. Produrre in qualche modo un’eco che possa arrivare anche fuori del nostro territorio. Per questa terra Toni si è speso, è stato un motore culturale importante, anche se qualche volta poco ascoltato. Adesso tocca a noi muoverci. Non per celebrarlo, ma per continuare a far vivere le sue pa-gine: la vera e sola vita a cui aspira uno scrittore vero come lui.

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PAROLE

Leggendo questo nuovo importante lavoro di Nicola Berti mi sono trovato a ripensare a fondo a quel poco che sapevo di Marino Marin. Di Marin avevo

(e continuo ad avere) una conoscenza superficiale, da lettore curioso e, soprattutto, innamorato della città e del territorio che il poeta polesano ha cantato e raccontato. Un atteggiamento di certo non sufficiente ad esprimere quello che in genere viene definito un giudizio critico su un autore, al quale si arrivi dopo un esame accurato ed approfondito di quanto quell’autore ha prodotto. Il libro di Berti, con il suo nitore appassionato e la sua struttura criticamente efficace, mi ha fatto scattare il desiderio di andare a rivedere i testi di Marin partendo proprio dagli esiti che emergono dal suo studio. Già questo credo di-mostri l’efficacia di questo lavoro di ricerca nato da una passione evidentemente più che decennale che Berti sca-rica sulla pagina. Ma a parte questo, mi sono reso conto che più o meno tacitamente le pagine di Berti sono percorse da una domanda che è la stessa che emergeva in me via via che leggevo o rileggevo le opere di Marin: cosa resta, oggi, della sua opera? Una domanda in sè piuttosto perfida, che maschera anche un’altra questione evidentemente innegabile: celebrato come poeta ufficia-

le, diciamo così, della città di Adria e più in generale del Polesine, di questo poeta si conosce ancora troppo poco; perchè finora (fino a questo lavoro di scavo di Nicola Berti), si è pensato più a celebrarlo di tanto in tanto che a studiarlo, con il risultato che la trasmissione della sua opera rischia via via di attenuarsi, di affievolirsi fino a scomparire. Perchè se trattiamo Marin come un reperto, dobbiamo anche capire che i reperti vanno restaurati, continuamente spiegati, spinti verso l’attenzione di un pubblico che bisogna anche saper interessare. Senza questo lavoro, diciamolo con chiarezza, dell’opera di Marin sarebbe restato ben poco. Credo sia questo, essenzialmente, il valore fondamentale della ricerca di Nicola Berti. Che imposta il suo lavoro dividendolo in tre sezioni: “La vita”, “La poetica”, “Le opere”. Una struttura chiara ed essenziale, che propone al lettore in chiave semplice (non certo semplicistica) ma completa tutto ciò che è necessario sapere e che finora si sa sull’opera di Marin. Più volte Nicola mi ha detto: “Non sono un critico letterario di professione, e più che una ricerca di critica letteraria in senso stretto vorrei produrre una ricerca sulla figura e l’opera di Marin che servisse a quanti si volessero avvicinare a lui per riscoprirlo”. Una

Cosa resta diMarino Marin

di Sandro Marchioro

Immagine tratta dal

“Numero Unico 2010”

della Pro loco di Adria.

E’ uscito da poco

uno studio di Nicola Berti

in occasione del

150° Anniversario

della nascita del

poeta adriese.

foto di Andrea Fantinati

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REM

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PAROLE

dichiarazione d’intenti che rivela non solo modestia, ma anche e soprattutto passione e tenacia, e che ha portato Berti a fare l’unica cosa possibile e necessaria se si vuole salvare Marino Marin dall’oblio: delinearne un profilo critico in maniera semplice e lineare, senza lasciare nulla al caso. Che significa, per quanto Berti non sia d’accordo, aver fatto quello che dovrebbe fare un critico letterario: puntare i riflettori e illuminare angoli bui, richiamare all’attenzione, ridestare interesse.Un’operazione tanto più difficile (ma perfettamente riu-scita) quanto più è evidente che la stessa opera di Ma-rin ci chiede questo intervento per poter continuare a sopravvivere. E’ evidente che le sue poesie oggi fatica-no a parlarci. Rileggendolo, ho immaginato spesso un lettore di oggi (penso soprattutto ad un giovane), che si confronti con un suo testo pieno di termini datati, chiusi nello schema poetico faticoso del poetare tardo ottocen-tesco. Marin fa fatica oggi a parlarci perchè è rimasto prigioniero non tanto della provincia che tanto amava (e che, nel caso di Adria, è impossibile non amare), quanto del provincialismo da lui stesso eletto a poetica. Potente e competente dal punto di vista tecnico, con un bagaglio culturale molto ampio, Marin è però rimasto

sordo ai fermenti culturali più innovativi della sua epoca; li ha anzi respinti coscientemente, chiudendosi a riccio e mitizzando un ideale di poesia che già al suo tempo era al di fuori della storia. Si citano spesso Pascoli e Carducci come dei modelli di riferimento: giusto, ma è come se di questi avesse colto ed imparato solo una posa, l’atteggiamento esteriore, senza cogliere la carica assolutamente innovativa che la loro poesia (soprattut-to quella di Pascoli) conteneva. Si è fermato, ha avuto paura, ha temuto sempre che lasciare il viottolo di cam-pagna su cui camminava sereno significasse misurarsi con il nuovo rimanendone sconvolti, sbigottiti, storditi. Spiace dirlo, ma è l’atteggiamento tipico di quelli che la storia della letteratura in genere relega nella categoria dei “minori”. Per dirla con un antico proverbio spagno-lo, quando leggo Marin ho sempre l’impressione che si senta il rumore del mulino, ma non riesca mai a vedere la farina. Tecnicamente si è di fronte ad un poeta vero, ma riesce a parlarci a fatica, ed a fatica oggi lo seguia-mo nei suoi percorsi; soprattutto perchè troppo spesso nelle sue poesie si respira un clima di claustrofobia, tanto più quanto quei testi si chiudono sopra due soli aspetti: dio ed il piccolo mondo (antico) che lo imbeve di

sensazioni, ma in fondo in fondo lo stringe, lo soffoca. Se penso ad un altro Marin, il friulano Biagio, ancora oggi considerato dai critici laureati un grande della poesia del Novecento, la differenza con il nostro Marino è abissale: entrambi raccontano un piccolo mondo, ma il primo sce-glie una lingua viva (il dialetto gradese) per raccontare un mondo che muore perchè muta; il secondo sceglie una lingua morta (quella del canone della tradizione poetica italiana) per raccontare un mondo morto e sepolto. Una bella differenza, che fa diventare Biagio Marin un poeta sempre fresco ed entusiasmante; Marino Marin un poeta faticoso e superato. E allora, cosa fare di Marin? Non è in contraddizione con quanto ho appena detto sostenere che è necessario tornare a leggerlo ed a studiarlo. Perchè sotto il vecchiu-me di maggior parte della sua opera, questo lo abbia-mo detto, c’è comunque un poeta vero. Contraddittorio e faticoso, ma vero. Ha prodotto buoni versi, ha lottato con gli elementi e con l’ispirazione, ha raccontato co-munque una fetta di storia di questo nostro straordinario territorio, ne ha descritto le atmosfere. Ed oltre all’elemen-to locale ha comunque descritto stati d’animo universali, con i quali tutti dobbiamo confrontarci. La storia della

letteratura, quella che si scrive con la maiuscola, lo ha certo dimenticato, anzi, non lo ha nemmeno mai preso in considerazione. Ma Adria ed il Polesine non lo pos-sono e non lo devono dimenticare. Non credo si possa parlare di una riscoperta, che implicherebbe un radicale mutamento di giudizio critico che francamente non vedo possibile. Sono convinto invece che si debba parlare pro-prio di dovere: sia civile che culturale, visto che porsi dei problemi e continuare a conoscere non significa per forza rivalutare. Dovere di conoscere, quindi, che è e deve essere formativo soprattutto per le giovani genera-zioni. Torno a dire che per compiere tutto questo il lavoro svolto da Nicola Berti risulta essere indispensabile; non soltanto perchè questa ricerca ripropone con dovizia di metodo la vicenda umana e poetica di Marino Marin, ma pure perchè insegna che la passione per la propria terra si dimostra anche faticando anni a raccogliere dati e documenti per ricostruire la vita ed il lavoro di un uomo che questo territorio lo ha amato e descritto attraverso un punto di vista particolare che è, comunque sia andata, quello di un poeta. E lo sguardo dei poeti (anche se non va per nulla di moda) ha sempre qualcosa da insegnare.

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PALCOSCENICO

Il Teatro... il luogo, il tempo, parole e musica. Arte. Gesti nel silenzio e voci dell’anima, involucro di stra-tificate storie e passioni, uomo e anima, corpo e pen-

siero. Tradizione e innovazione, le teste che cambiano, che girano, si innamorano e pensano. Lo spazio fisico e quello interiore: un mondo parallelo ma sempre però in-trecciato, indissolubilmente legato alla vita di ognuno. Rovigo e provincia amano il Suo richiamo: il teatro segna le stagioni e, generoso, offre spunti per cogliere i semi della vera Cultura, ora un po’ strapazzata e forse quasi abbandonata; ma non dalla gente, per fortuna. Tre teatri per questo servizio: diversi gli ambiti, diversissimi i per-corsi. La stessa voglia di dare e ricevere, di aprire varchi e di offrire opportunità. Il Teatro Sociale di Rovigo non poteva non aprire questo viaggio. Passione e tradizione ma anche una grande attenzione verso il pubblico del futuro. Indiscutibile che i tagli abbiano provocato grandi problemi e anche tensioni ma i direttori artistici e lo staff, come anche assessori e dirigenti, si uniscono in un muro compatto per garantire le amate e seguite Stagioni. “Un traguardo importante quello del 195mo cartellone del no-

stro Teatro Sociale – spiega Riccardo Rizzo, assessore alla cultura e spettacolo del Comune di Rovigo - frutto di un impegno costante e assiduo in un momento che non possiamo nascondere di grandi difficoltà economiche. I tagli al settore della cultura non ci hanno però impedito di formulare una nuova e articolata proposta, stimolante e di altissima qualità dove, grazie al direttore artistico Stefano Romani e al coreografo Claudio Ronda, il nostro pubblico rimarrà incantato dai titoli di tradizione ma an-che da nuove sperimentazioni contemporanee. Registi, direttori d’orchestra, coreografi e interpreti di fama inter-nazionale, una costante attenzione rivolta al pubblico del futuro con la programmazione del teatroragazzi, le forti sinergie con i partner, il sostegno generoso degli sponsor, il percorso parallelo e sinergico delle associazioni Amici del Teatro Sociale di Rovigo e Francesco Venezze, l’ope-ratività sempre volta all’efficienza di tutto l’assessorato, dei tecnici teatrali: questa è la nostra energia. Il Teatro Sociale di Rovigo rimane il punto di riferimento culturale più importante della nostra città”. Ora Lirica e Danza sono in calendario con un susseguirsi di eventi di eccezio-

Il Polesine a Teatrodi Milena Dolcetto

Sono in partenza in tutta la provincia le stagioni teatrali 2010/2011

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La vita è più leggera se non vengono perduti sulla scala mobile del tempo la curiositàdel bambino, lo stupore per i miracolidi ogni giorno, la gioia di amare e di donare.

PAGINE DI EMOZIONI E SENTIMENTI

RACCONTATI IN PROSA E IN VERSI

TI TENGOD’OCCHIOIo e il signor Parkinsonquattro anni dopo

DanielaZampirollo

Approfondimenti, tabelle e bibliogra�a del Prof. Stefano Gustincich, Professore Associato in Fisiologia presso la SISSA di Trieste,a cui è devoluto il ricavato della vendita di questo libro.

Prefazione del Prof. Gilberto Pizzolato, Professore Ordinario di Neurologia all’Università di TriesteIntroduzione del Prof. Giuseppe Pastega136 pagine interamente a colori, Euro 15,00 ISBN 978-88-88786-76-6

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nale valore. E se gli amanti del Bel Canto hanno appena gustato L’Elisir d’amore di Gaetano Donizetti (in scena il 19 e 21 novembre) e potranno rimanere incantati da Il Ratto dal Serraglio di Mozart a gennaio e Rigoletto di Verdi a fine febbraio, è ora la stagione di balletto che suscita grande interesse per titoli di impegnato valore che partiranno da gennaio. Le mille e una notte con il Balletto dell’Opera di Stato di Turchia, Pulcinella di Igor Stra-vinskij con Fabula Saltica, Flamen Tango con la Com-pañia Maria Serrano, Lorenzo Il Magnifico - Canzona a Bacco con Compagnia Junior BdT e Butterfly con la Com-pagnia Ersiliadanza. E ora passiamo ad una program-mazione di un teatro che da qualche anno ha acquistato agli occhi di tutti una dimensione di eccezionale valore estetico. Una bandiera, un inno alla volontà di fare e di esserci, un risveglio culturale da organizzare e da stimo-lare per un pubblico esigente ma anche da rivitalizzare: il Teatro Comunale di Occhiobello è un vessillo alla pos-sibilità concreta di “dire la propria” e dirla proprio bene! Merito ovviamente dell’Amministrazione ma soprattutto di un direttore artistico di grandi capacità intellettuali e gestionali che, consapevole dello spazio a disposizione, ricama ogni cartellone con sapienza e arguzia, dalle pro-poste alle campagne pubblicitarie, già da sole portatrici di valori. Uno spazio fuori dai canoni di rappresentazio-ne teatrale, restaurato a fine anni ‘90 e in gestione agli

anziani del paese. Un palco 6x8 che viene montato due giorni prima degli eventi e dunque la ricerca di spettaco-li anche di facile allestimento. Ma poi c’è il pensiero e la volontà che supera anche alcuni limiti strutturali. É la ri-cerca sull’Io, il monologo e il dialogo più intimo quello che viene proposto in questo cartellone 2010-2011. E soprattutto l’attenzione al pubblico, alla gente, che già dalle campagne abbonamenti con prezzi abbordabili (e da quest’anno una rete con il Teatro Comunale di Ferrara e il Teatro Comunale De Micheli di Copparo per abbatte-re i costi), segna una scelta di apertura verso tutti, perché tutti possano essere coinvolti e perché “l’obiettivo del tea-tro è anche quello che si misura dal punto di vista socia-le” - spiega Marco Sgarbi - “Giocoforza bisogna prende-re delle posizioni: e in questo momento è il danno che stiamo subendo con i tagli alla cultura che deve essere messo a nudo. Perché il danno è reale: sarà difficile ri-prendere le redini dopo il collasso. Non è solo violenta la decurtazione dei fondi allo spettacolo, è un atto di pro-fonda violenza fare in modo che non si senta più deside-rio di cultura, come altrettanto violenta è l’indifferenza che molti provano di fronte a questa situazione attuale. Il teatro oggi è al muro e non si tratta solo di una questione politica, ma sociale, civile”. Parole forti che si uniscono ad un cartellone altrettanto diretto che insegna e guarda a nuovi modi di dire il Pensiero, per staccarsi dalla pro-

grammazione televisiva imperante, per fare breccia e far pensare. Il programma è importante, con artisti come Paolo Cevoli, Fausto Russo Alesi, Irene Serini, Corrado Nuzzo e Maria di Biase, Maria Paiato, Maurizio Camilli e Ambra Chiarello, Ussi Alzati, Andrea Appi, Martino Duane, Giulio Costa e altri ancora (sino ad aprile 2011). E poi c’è Lendinara. Qui il Teatro Ballarin (riaperto al pubblico il 2 settembre del 2007) ha già superato i 100 eventi dopo il restauro. Terzo teatro comunale di questo viaggio, anche questo spazio si è rianimato con una ef-fervescenza esponenziale che non lascia dubbi: i lendi-naresi sono da sempre gente di cultura. Pubblico sapien-te, esigente e desideroso di riappropriarsi del suo gioiello che aveva subito una chiusura forzata per 20 anni e ora si è rianimato con grande vitalità. Dice Alessandro Ferlin, sindaco e assessore alla cultura del Comune di Lendina-ra: “Siamo alla terza stagione di prosa ufficiale dalla ria-pertura. Il braccio operativo per questo cartellone che prevede sei titoli di ampio respiro è Arteven che ha dise-gnato un programma che prevede l’ospitalità di artisti quali Anna Mazzamauro, Ivana Monti, Rosario Coppoli-no, Barbara Terrinoni, Leonardo Manera, Walter Maffei, due appuntamenti con il Teatro Stabile del Veneto e uno spettacolo di danza con i Solisti del Balletto Nazionale di Sofia (Rousse State Ballet). Ma è tutta la programmazione che ci rende fieri del grande e rinnovato fermento cultura-

le: il pubblico ci segue con una imponente richiesta di abbonamenti ma anche in tutte le aperture l’affluenza è soddisfacente. Il nostro teatro programma eventi vari per accontentare gli appassionati di ogni genere: dalle opere liriche in collaborazione con il Conservatorio Venezze di Rovigo, agli spettacoli per i più piccoli e le famiglie con una attenzione rivolta anche al mondo della scuola, lo spazio dedicato al teatro amatoriale in collaborazione con la Fita, i concerti che programma la Fondazione Ca-riparo e la collaborazione con il Festival Montagnana con il quale c’è la volontà di ritessere il connubio che ci ha visto per due anni in sinergia e ora accantonato solo per problemi di fondi”. Uno spazio pregevole, 450 posti a sedere e una trentina di posti in piedi per un uso che sposa anche le attività dell’associazionismo locale che programma i sempre apprezzati eventi di cabaret. E poi la rete di sinergia che la Provincia di Rovigo vuole forte-mente mettere in atto. E in questo caso è significativo l’in-tervento del Sindaco di Lendinara che sottolinea: “Una sinergia tra i teatri della nostra provincia deve tener ben presente la tradizione, il sapere, la cultura del fare Cultu-ra e di allestire lo spettacolo. Noi abbiamo in Polesine una forte, ricca e consapevole esperienza lavorativa in questo campo. Bisogna tramandarla, passare il testimo-ne, costruire anche posti di lavoro con la consapevolezza che il nostro passato in questo campo è forte e vincente”.

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REM

Più breve del solito, ma di grande qualità la stagione 2010/2011 del Teatro Co-

munale di Adria. Otto spettacoli in tutto, con una prevalenza del balletto e dell’operetta sulla prosa, per un car-tellone che non è stato facile mettere in piedi date le molteplici difficoltà: economiche da una parte, strutturali dall’altra. Il Comunale è infatti in atte-sa dell’inizio dei lavori per il restauro che dovrebbero partire proprio alla fine della stagione, in primavera. O almeno tutti lo sperano, dato che il recente collasso della politica adriese, con la caduta della giunta comunale guidata da Massimo Barbujani ed il commissariamento del Comune, pos-sono far venire il sospetto che i lavori di ristrutturazione del Teatro Comuna-le (attesi da molto tempo) qualche ri-tardo potrebbero subirlo. La stagione comunque partirà di certo il 3 dicem-bre con lo spettacolo di Ale e Franz dal titolo Aria precaria di Alessandro Besentini e Francesco Villa, scritto con

Martino Clericetti, Antonio De Santis, Rocco Tanica, Fabrizio Testini, regia e scene di Leo Muscato. Il 12 dicembre sarà la volta del Teatro dell’Opera del-la Macedonia che metterà in scena Il lago dei cigni, su musiche di Tchaiko-vskji. Il 21 gennaio sarà la volta del Balletto di Roma, sotto la direzione artistica di Walter Zappolini, che met-terà in scena L’Otello, con coreogra-fie di Fabrizio Monteverde e musiche di Antonin Dvorak. Il primo febbraio toccherà al Teatro Nero di Praga con Dreams di Jiří Srnec. La Compagnia Italiana di Operette sbarcherà ad Adria il 15 febbraio con La principes-sa della Czarda, libretto di Leo Stein e Béla Jenbach, musica di Emmerich Kàlmàn, regia e coreografia di Ser-ge Manguette. Ancora balletto il 23 febbraio, con il coraggioso La Divina Commedia, su musiche di Marco Frisi-na, libretto di Gianmario Pagano, co-reografie di Manolo Casalino e regia di Maurizio Colombi. Uno spettacolo che vanta anche la presenza in sce-

na di creature fantastiche prodotte dal grande Carlo Rambaldi, l’inventore di E.T. Per il secondo spettacolo di prosa bisognerà attendere il 4 marzo 2011, quando saliranno sul palco del Comu-nale Gianfranco D’ Angelo e Eleonora Giorgi in Suoceri sull’orlo di una crisi di nervi, di Mario Scaletta, regia di Giovanni de Feudis, con Nini Salerno (ex “Gatti di vicolo Miracoli”) e Paola Tedesco. Chiuderà la stagione la Com-pagnia Italiana di Operette con La ve-dova allegra operetta di Franz Lehar, libretto di Victor Leòn e Leo Stein M° Direttore d’Orchestra: Orlando Pulin con Umberto Scida, Elena D’Angelo, Armando Carini, Milena Salardi, Emil Alekperov, Giuseppe De Carlo, Rocco Magnoli, Monica Emmi, Mariateresa Nania, Stefano Centore, Stefano Ca-rusi, Serge Poggi regia e coreografie di Serge Manguette. Tutti gli spettacoli inizieranno alle ore 21.00.

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E ad Adriala stagioneè questa

LIRICA

8 / 10 OTTOBRE 2010

CARMENDI GEORGES BIZET

19 / 21 NOVEMBRE 2010

L’ELISIR D’AMOREDI GAETANO DONIZETTI

7 / 9 GENNAIO 2011

DIE ENTFÜHRUNG AUS DEM SERAILIL RATTO DAL SERRAGLIODI WOLFGANG AMADEUS MOZART

25 / 27 FEBBRAIO 2011

RIGOLETTODI GIUSEPPE VERDI

BALLETTO

16 GENNAIO 2011

LE MILLE E UNA NOTTEBALLETTO DELL’OPERA DI STATO DI TURCHIA

5 / 6 FEBBRAIO 2011

PULCINELLACOMPAGNIA FABULA SALTICA

20 FEBBRAIO 2011

FLAMEN TANGOCOMPAÑIA MARIA SERRANO

13 MARZO 2011

LORENZO IL MAGNIFICOCOMPAGNIA JUNIOR BDT

19 / 20 MARZO 2011 TEATRO STUDIO

BUTTERFLYCOMPAGNIA ERSILIADANZA

TEATRORAGAZZI

6 e 7 OTTOBRE 2010 / 17 NOVEMBRE 201023 FEBBRAIO 2011

ANTEPRIME LIRICACARMEN / L’ELISIR D’AMORE / RIGOLETTO

4 FEBBRAIO 2011

PULCINELLACOMPAGNIA FABULA SALTICA

DATA DA DEFINIRE 2011

MUSICA A FUMETTII VIRTUOSI DELLA ROTONDA

23 MARZO 2011

ALLA RICERCADI BABARRCQ ENSEMBLE

Botteghino Piazza Garibaldi, 14 - ROVIGOTel. 0425 25614 - Fax 0425 423164E-mail: [email protected]

Orari: 10.00-13.00 / 16.00-19.30Giorni di spettacolo : 10.00-13.00 / 16.00-22.00

TEATRO SOCIALE DI ROVIGO Piazza Garibaldi, 14 - ROVIGOUffici: Piazza Garibaldi, 31 - ROVIGOTel. 0425 27853 / 21734 - Fax 0425 29212E-mail: [email protected] www.comune.rovigo.it/teatroCa

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CENTONOVANTACINQUESIMA STAGIONEBALLETTO 2010 2011

Stagione di balletto a cura di Claudio Ronda

con il contributo di:Comune di Rovigo

16 GENNAIO 2011 LE MILLE E UNA NOTTE

5 / 6 FEBBRAIO 2011 PULCINELLA

20 FEBBRAIO 2011 FLAMEN TANGO

13 MARZO 2011 LORENZO IL MAGNIFICO

19 / 20 MARZO 2011 TEATRO STUDIO

BUTTERFLY

realizzata da

TEATRO SOCIALE DI ROVIGO Piazza Garibaldi, 14 - ROVIGO

BOTTEGHINO Tel. 0425 25614 - Fax 0425 423164E-mail: [email protected]

Con il contributo della

StagioneLirica2011_CARLINO_261x322:Layout 1 19-10-2010 17:12 Pagina 1

foto di Andrea Fantinati

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SUONI

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REM

Jazz TimeFabio Petretti e Marco Tamburini

Nei Conservatori della Provincia di Rovigo da molti anni si suona il jazz. REM ha incontrato e intervistato le anime dei dipartimenti di jazz dei Conservatori di Adria e Rovigo: Fabio Petretti e Marco Tamburini. Entrambi affermati musicisti emiliano-romagnoli, hanno attraversato il Po

per contribuire ad innovare i nostri Conservatori, dare la giusta dignità alla musica jazz, ancora troppo poco considerata dal mondo della classica. Lavorano tra Adige e Po come coltivatori di

talenti nostrani, e per la loro professionalità attirano studenti da fuori confine che proprio grazie ai dipartimenti di jazz vengono a contatto con il nostro territorio.

Cosa significa aprire un dipartimento di Jazz in un Conservatorio della Provincia di Rovigo?Significa rimboccarsi le maniche, organizzandosi a dovere, ma soprattutto avere un appoggio concreto a partire dal Pre-sidente, Direttore, dai colleghi e dai tuoi stretti collaboratori. Bisogna innanzitutto amare la musica cercando di creare un polo di attrazione musicale solido e un ambiente sano, pun-tando soprattutto sul “fare musica” e quindi sulla produzio-ne. E’ quello che sta succedendo al Conservatorio di Rovigo

Quali sono state le difficoltà e le soddisfazioni in-contrate? Come le soddisfazioni, anche le difficoltà sono state e sono tante. Ma con la voglia di fare, la buona volontà degli in-segnanti e, scusa se mi ripeto, con un appoggio concreto dell’istituzione ”Conservatorio” si riescono a superare gli osta-coli più duri raggiungendo gli obiettivi prefissati.Come tutti sappiamo, soprattutto di questi tempi, la difficoltà primaria è di trovare le risorse economiche per poter lavorare con professionalità, e in questo servirebbe un aiuto maggiore da parte degli enti locali.Una delle tante difficoltà incontrate e fortunatamente superate con successo è stata sensibilizzare le opinioni più conserva-trici nei confronti dell’inserimento a pieno diritto del jazz nei Conservatori. Un linguaggio musicale nuovo che ai più ha suscitato una sensazione di invadenza; come difficoltoso è sta-to il percorso per superare diffidenza e luoghi comuni, dimo-strando che il jazz non è una musica così distante dal mondo classico, anzi, che i due generi musicali si compensano vicen-devolmente fino a renderne indispensabile la loro coesione. Per lo più il futuro della musica non sarà classico, pop, et-nico o jazz, ma una sorta di nuova musica che comprende un po’ tutto e a maggior ragione i ragazzi devono assolu-tamente assimilare e comprendere il maggior numero di lin-guaggi possibili. Solo così si potranno formare musicisti di spessore, capaci di farsi strada in campo internazionale. Le soddisfazioni di questi anni di insegnamento a Rovigo sono state tante e sarebbe troppo lungo elencarle tutte, ma fra que-ste quelle per me più significative sono:•aver creato a Rovigo un polo importante per studenti e appassio-

nati di musica dove ci si può incontrare, confrontare, ascoltare e soprattutto esprimersi creando così nuova musica e nuove idee.

•aver prodotto una quindicina di gruppi nati dai laboratori di musica d’insieme e una big band: la “Venezze Big Band”, realtà

Cosa significa aprire un dipartimento di Jazz in un Conservatorio della Provincia di Rovigo?Il tutto ha cominciato a prendere forma dall’anno acca-demico 1997/98 con il mio arrivo ad Adria dal Con-servatorio di Benevento.Quando arrivai alcuni allievi, sapendo che mi occupavo di jazz oltre ad insegnare saxofono classico, mi chie-sero se potevo aiutarli ad imparare l’improvvisazione.Cominciai, nel tardo pomeriggio dopo aver terminato le mie lezioni “accademiche”, a fare qualche lezione di musica d’insieme e al gruppo dei miei allievi di sax si aggiunsero sempre più persone con altri strumenti solo per il gusto di fare musica insieme. L’entusiasmo inizia-le è cresciuto sempre più tanto che, insieme al collega Stefano Bellon, abbiamo scritto arrangiamenti mirati ed organizzato a fine anno un concerto in collaborazione con una scuola di danza al teatro comunale. L’anno se-guente il collega si trasferì ma io continuai con tenacia.Gli allievi interessati al jazz sono sempre aumentati tanto che, con l’aiuto di qualche strumentista aggiun-to, abbiamo cominciato a lavorare con una big band completa.Siamo riusciti a preparare diversi repertori, dalla musi-ca italiana arrangiata in chiave jazz, ai concerti Sacri di Duke Ellington per big band, coro a quattro voci mi-ste e voce soprano solista. In quella ultima occasione abbiamo iniziato a collaborare con musicisti di fama in-ternazionale come: Roberto Rossi (trombone), Fabrizio Bosso (tromba), Tomaso Lama (chitarra).Da quelle esperienze, dall’interesse che suscitavano, dall’entusiasmo che si respirava in Conservatorio in quei tempi, è nata l’idea a me e all’allora Direttore M° Giorgio Fabbri di preparare un progetto di biennio jazz da presentare al Ministero.Il nostro progetto inaspettatamente fu approvato e fum-mo i primi in Italia ad iniziare con un Biennio di spe-cializzazione jazz nell’Aprile del 2004. Dico inaspetta-tamente perché, nel nostro Conservatorio di provincia, non c’era neppure la cattedra di jazz ordinamentale. Per rispondere alla tua domanda perciò potrei dire, che grazie alla competenza, all’entusiasmo e all’amore sin-cero verso quello in cui credi, superando diverse diffi-coltà si scatenano tante energie che sommate danno notevoli risultati.

Fabio Petretti Marco Tamburini

INTERVISTA DOPPIA

Dati dei due dipartimenti

CONSERVATORIO DI ADRIAIl dipartimento di jazz ad Adria è stato attivato nell’anno acca-demico 2003-2004.I corsi attivati di triennio e biennio: saxofono e clarinetto, trom-ba e trombone (da 2 anni), canto, pianoforte, chitarra, contrab-basso e basso elettrico, batteria.Il numero di allievi varia tra i 70 e gli 80 ogni anno.Hanno conseguito il titolo 55 allievi.

CONSERVATORIO DI ROVIGOL’istituzione della cattedra di Jazz al Conservatorio di Rovigo risale alla fine degli anni novanta, l’anno di istituzione del dipartimento jazz invece all’anno accademico 2005-2006.I corsi attivati nel biennio e triennio Jazz: corsi di tromba, sa-xofono, canto, chitarra, pianoforte, contrabbasso e batteria.Il numero di studenti iscritti quest’anno è di 170 comprensi-vi delle nuove iscrizioni.Hanno conseguito il titolo di laurea 8 allievi per il biennio e 10 allievi per il triennio.

di Cristiana Cobianco

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La città balla a ritmo di jazzRovigo - Cresce ed è in continuo fermento il jazz nella provincia di Rovigo, grazie anche ai corsi organizzati dei due conservatori che rappresentano una continua fucina di talenti e di nuove proposte.Sono iniziati sabato 6 novembre una serie di quattro appuntamenti musicali che vedono protagonisti altrettanti gruppi la cui gran parte è nata nei corsi di musica d’insieme del dipartimento jazz del Venezze.Il 6 novembre, al Caffettiamo di Corso del Popolo si è esibito il Vincenzo Dalla Malva 5et in un programma interamente dedicato alle musiche di Wayne Shorter. I componenti del quintetto sono Nazzareno Brischetto (tromba e flicorno), Luca Grani (chitarra), Giulia Facco (piano), Vincenzo Dalla Malva (contrabbasso) e Lorenzo Bonucci (batteria).Il 25 novembre, al Baruc di Giacciano con Baruchella, lo spettacolo Glaucorius plays Pastorius con Davide Agnoli (sax alto), Luca Grani (chitarra), Glauco Benedetti (tuba) e Lorenzo Terminelli (batteria).Nuovamente al Caffettiamo, il 4 dicembre è protagonista il Bear jazz trio, gruppo pre-sente da parecchi anni sulla scena jazzistica rodigina e formato da Enzo “Orso” Valsecchi (pianoforte), Sandro Dardani (contrabbasso) e Lucio Chini (batteria).Il 16 dicembre, al Baruc di Giacciano con Baruchella, la musica dell’Intersection Quintet con Mattia Dalla Pozza (sax alto e soprano), Paolo Garbin (pianoforte), Joseph Circelli (chitarra), Marco Quaresimin (contrabbasso) e Enrico Smiderle (batteria) concluderà que-sto ciclo di concerti.46

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Quali sono state le difficoltà e le soddisfazioni incontrate?L’organizzazione iniziale è stata importante e laborio-sa. Se poi teniamo conto che non c’era mai stato nei Conservatori un percorso didattico di II livello costruito per ogni strumento la cosa è stata ancora più difficile. La compilazione dei piani di studio, la costruzione dei percorsi didattici per ogni materia, la didattica unita alla pratica direttamente nei locali della zona, la ca-renza di spazi dove fare lezione e attività, sono solo alcune delle cose sulle quali abbiamo lavorato. Dico abbiamo perché sin dal primo anno ho avuto il piacere di coordinare e collaborare con musicisti/insegnanti di grande livello fra i quali: Bruno Tommaso, Roberto Rossi, Paolo Ghetti, Stefano Paolini, Paolo Sil-vestri, Antonio Cavicchi, Diana Torto, Michele Francesconi, Luca Bragalini, Paolo Birro, Bruno Cesselli.Anche la stesura/incastro degli orari, che doveva tene-re conto della distanza degli allievi iscritti (da Milano, Bolzano, Trento, Torino, Pesaro, Bologna ecc.) raziona-lizzando la frequenza alle lezioni concentrata su tante ore al giorno ed eventualmente su giorni attaccati, è stata una sfida vinta ogni anno. Infatti spesso ai corsi si iscrivono tuttora musicisti che già lavorano nel campo della musica e/o laureati professionisti in altri settori che non riuscirebbero a frequentare le lezioni se troppo frammentate.Soddisfazioni tante, a cominciare dalle produzioni musicali realizzate (Concerti sacri di D. Ellington, il nostro originale Synketismos de las Americas di Paolo Silvestri, Concerto dedicato Leo Ferré di Bruno Tommaso, per non parlare delle Jam Session nei locali e i concerti organizzati per gli allievi...). Altra soddisfa-zione è arrivata dalla didattica che si è perfezionata di anno in anno vedendo gli allievi fiorire e perfezionarsi a dispetto di quelli che asseriscono che il “jazz” non si possa insegnare…Negli anni oltre al team di Docenti “fissi”, sono riuscito ad organizzare ed ho avuto il piacere di collaborare con musicisti di fama internazionale fra i quali: Jer-ry Bergonzi, Steve Turre, Steve Styepko Gut, John Mosca, Andrew Speght, Barbara Casini, Michael Blake, Massimo Manzi, Ben Hallison, Jay Clayton con grandi stimoli per gli allievi e scambi fra i docenti.

Come ha risposto il territorio in termini d’iscri-zioni, ospitalità, eventi collegati e di promo-zione?Il territorio ha risposto bene in termini d’iscrizioni, in-fatti riusciamo a mantenere ogni anno un alto nume-

ro d’iscritti anche dopo il boom iniziale. L’ospitalità è cresciuta sono nati alcuni B&B e alcuni alberghi, bar e ristoranti hanno operato sconti per i docenti e gli allievi. Alcuni locali di Adria e dintorni inoltre hanno collabora-to ospitando concerti e/o seminari: “Ostello Amolara”, “Il pozzo dei desideri”, “La Distilleria” di Cavarzere, “L’elefante Rosso” di Mestre ecc. Abbiamo collaborato in vari modi con l’associazione “Veneto Jazz” sia a livel-lo concertistico che didattico.A causa dei budget sempre più bassi, la promozione non è stata curata a sufficienza e, pur avendo fatto cose di alto livello, non si è riusciti a creare un’attenzione continua e largamente partecipata alle attività svolte. Lo stesso Conservatorio ha investito tantissimo sulle pro-poste didattiche, abbastanza in produzione musicale, sacrificando sovente la promozione.

Qual è il valore aggiunto del jazz nel pano-rama musicale dei nostri Conservatori? Quali sono le potenzialità ancora da sviluppare?Il valore aggiunto a mio avviso è enorme!Il jazz può essere considerato l’emblema della contami-nazione e della “libertà d’espressione” e la costruzione del Musicista di jazz si basa su presupposti differenti dagli altri generi. Si potrebbe dire che il jazz è una

professionale attiva nel territorio e in campo nazionale. Fra i concerti più significativi della Big Band ricordo le collaborazioni con Paolo Fresu, Paul Jeffrey, Francesco Cafiso, Billy Hart e Ca-meron Brown.

•aver vinto il “Premio delle arti” concorso indetto dal Ministero per tutti gli studenti dei Conservatori.

•il sodalizio artistico e didattico con il “Conservatorio Jazz” di Amsterdam.

•essere riusciti ad organizzare un vero e proprio jazz festival in-titolato “Venezze Jazz Festival” che quest’anno compie quat-tro anni e che ha ospitato musicisti di fama internazionale, da Danilo Rea a Cedar Walton, e ancora Joey Calderazzo, Billy Hart, Scott Colley, Brian Blade, Ed Simon, Darryl Hall, Cameron Brown, Francesco Cafiso, Al Foster, Buster Williams , Paolo Fre-su, Paul Jeffrey, Franco Cerri, Christian Escoudè coi quali abbia-mo collaborato nella realizzazione di vere e proprie produzioni originali con insegnanti e allievi.

•aver prodotto insieme al nostro dipartimento di musica classica concerti in cui si fondono repertori classici a quelli jazz con rivi-sitazioni ed improvvisazioni che vanno da Bach a Puccini, come per esempio i due progetti originali: “Da Bach al jazz” per trio jazz e quartetto d’archi, “Arie d’Opera” per voce pianoforte e quartetto jazz e il concerto di Friedrich Gulda per violoncello e orchestra jazz.

•avere un corpo insegnanti collaborativo e formato da professio-nisti riconosciuti in campo internazionale.

Come ha risposto il territorio in termini di iscrizioni, ospitalità, eventi collegati e di promozione? Il territorio ha risposto bene in termini di iscrizioni, anche buona parte degli studenti provengono da altre provin-cie del Veneto o, in alcuni casi, da altre regioni: Sicilia, Emilia Romagna, Toscana e Lombardia. Ma questo è un punto a favore perché è la riprova di come siamo riusci-ti a creare un importante polo di attrazione nel panorama didattico del jazz. Abbiamo anche uno studente provenien-te dal Brasile, che ora è in ERASMUS ad Amsterdam. Tut-to ciò non può che essere un valore aggiunto per la città. Molti dei nostri studenti che vivono fuori provincia, in alcuni casi anche in zone limitrofe, hanno deciso di abitare a Ro-vigo per l’accoglienza e l’ambiente che si è creato attorno al Conservatorio. Il comune dovrebbe tener conto di questo e contribuire di più alla promozione delle nostre iniziative sensibilizzando la popolazione e collaborando con i gestori di locali, adatti ad ospitare concerti, promuovendo maggior-mente la musica dal vivo con i gruppi laboratorio del Con-servatorio. Molti dei nostri gruppi laboratorio sono diventati realtà professionali che si esibiscono nei circuiti jazz nazionali. Ringrazio, anche a nome del Conservatorio di Rovigo, la Fondazione Banca del Monte per il finanziamento di alcuni progetti originali del dipartimento jazz fra i quali: Musica e Poesia e “Concerto per la Pace” realizzati nell’anno accade-

mico appena concluso.E’ in progetto per l’anno 2011, sempre con la Fondazione Banca del Monte, uno spettacolo di teatro e musica impron-tato sui poeti Polesani in collaborazione coi Minimi Teatri e il Rovigo Jazz Club col quale collaboriamo da circa due anni.

Qual è il valore aggiunto del jazz nel panorama musicale dei nostri Conservatori?E’ il valore aggiunto di una lingua e fraseggio musicale di uso corrente, che oramai fa parte della nostra storia e che non può che aprire la mente e accrescere il livello culturale. In effetti non è altro che una sorta di musica antica dei giorni nostri. Voglio dire che l’improvvisazione, che è alla base del jazz, esisteva già nella musica antica e nella pratica musicale classica è andata via via scemando fino a scomparire. Il principio dell’articola-zione jazzistica è esattamente lo stesso che si usava allora, ma con un linguaggio diverso. Fra l’altro questo modo di suonare aiuta a superare molti preconcetti che sfociano di frequente in difficoltà tecniche insormontabili nella musica in generale. Forse mi ripeto, ma la musica classica aiuta il jazz e viceversa. Ciò è indispensabile per un musicista di oggi.

Quali sono le potenzialità ancora da sviluppare?Migliorare la già notevole produzione artistica incremen-tando i progetti misti, ossia che comprendono classica e

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musica (a trasmissione prevalentemente “orale”) basata sulla ricerca della propria individualità e personalità fil-trate dalla conoscenza del linguaggio comune. Diventa fondamentale nel jazz l’ascolto, l’imitazione e la capa-cità di reagire agli stimoli (armonici, melodici e ritmici) che sono alla base di una buona esecuzione. Non si può interagire con gli altri jazzisti se non si parla lo stesso linguaggio musicale o non si è in grado di ricono-scere ed elaborare simultaneamente buona parte degli stimoli che ti arrivano. Queste caratteristiche spesso ven-gono sviluppate a discapito della preparazione tecnica o dello sviluppo della lettura veloce.Nella musica “classica” (esagerando ma non troppo) lo studio potrebbe passare attraverso la lettura spesso pedissequa e/o solitaria di pagine e pagine che al-trettanto spesso alla fine del percorso scolastico porta-no gli allievi ad un iper tecnicismo unito però ad una scarsa capacità d’ascolto e di condivisione partecipata dell’evento musicale.Risultato di solito ottenuto: “solisti” che spesso eseguono passi difficilissimi, con intonazione, leggendo bene ma che altrettanto spesso non “godono” della musica che suonano e non sono in grado d’interagire musicalmente con gli altri musicisti.Il mio sogno sarebbe un Conservatorio “moderno” che riesca a rispondere alle esigenze musicali dei nostri tem-pi e che diventi un punto di riferimento sia per chi è in-teressato a imparare il genere “classico”, ma anche per chi vuole perfezionarsi o avvicinarsi ad altri linguaggi musicali.Noi attraverso la nostra esperienza dovremmo creare punti di contatto e, grazie alla RICERCA e alla SPERI-MENTAZIONE, mettere a disposizione dei “jazzisti” le esperienze “classiche” e ai “classici” le esperienze dei “Jazzisti”. A queste due categorie si potrebbe ag-giungere la categoria della musica di consumo che va dal cantautore alla musica da film, fino ad arrivare alle musiche popolari, ma questo diventa un discorso molto lungo…

Il musicista che ami di più?Non ho un musicista di riferimento preciso, un tempo passavo da Coltrane, Ellington, Evans per tornare a Gil-lespie. Il tipo di musicista che amo è quello che riesce a sorprendermi con le sue idee musicali sia come esecu-tore che come compositore. Non sempre mi piace tutto quello che sento di uno stesso musicista.

Il CD che non ti stanchi mai di ascoltare?Se dovessi proprio fare una scelta cadrei su due CD che per certi versi hanno segnato molto la mia vita musicale: Three Quartets di Chick Corea e Thelonious Monk with

NOTE BIOGRAFICHE

FABIO PETRETTI (Pe3tti) Sassofonista compositore e arrangiatore diplomato in clarinetto, saxo-fono e musica jazz. Ha collaborato con vari musicisti fra i quali: Evan Parker, Kenny Wheeler, Paolo Fresu, Slide Hampton, Paolo Birro, Fabri-zio Bosso, Enrico Rava, Paolo Silvestri, Stefano Bollani, Barbara Casini, Gato Barbieri, Jimmy Cobb, Simone Zanchini. Negli anni ha sviluppato metodi didattici molto efficaci che lo hanno portato ad insegnare in vari seminari e corsi fra i quali: Isola Jazz (Alba-rella), Arquato Jazz (Piacenza), Corso Musicale Estivo (Castrocaro Terme), Festival internazio-nale del saxofono (Faenza), Summer Jazz Workshop (Bassano) organizzato da Veneto Jazz e “The new school for jazz and Contemporary Music” di New York e OFP Orchestra Formazione Professionale (Bologna). Ha tenuto anche master class presso i conservatori di Pesaro, Bologna, Milano, Fermo e presso le università di Bologna e Banska Bistrika in Slovacchia.

Discografia essenziale: “The Song Is Ended... But the Melody Lingers On” Fabio Pe3tti Trio - Splas(h); “Mozart in Jazz” Trip Saxophone Quartet & Rhythm Section - Splas(h);“Blue Berceuse” Ico Manno Quartet - Splas(h); “Italiani Si Nasce” Meldola Jazz Band – Z-Best Music; “Ripescan-do” T.S.M.N. & Friend- Splas(h) 2001; “Passo Breve” Valerio Pappi Trio- Z-Best Music “Ulisse e L’Ombra” M.J.O. – Print Records; “The Big Small Band” Z-Best Music 1999;”Piedi”n”stallo” F.P.Quartetto - Z-Best Music; “Variazioni Climatiche” T.S.M.N. - Z-Best Music “La geo- metria dell’abisso” Kaos Ensemble- Splas(h) 1997; “Blues for Bud” Dada Orchestra- Live Iseo Jazz; ”Ti Sha Man Nah” Z-Best Music; “Urt’o Logique” Ivano Torre Quintetto-Unit Records; “Summertime in Jazz” Ti Sha Man Nah Saxophone Quartet Splas(h); ”Dies Irae” Marche Jazz Orchestra-Philology 1989;

MARCO TAMBURINITrombettista, compositore e arrangiatore, ha studiato al Liceo Musicale “A.Corelli” di Cesena sotto la guida del M° Elio Comandini conseguendo il diploma in tromba al Conservatorio di Musica “G.B. Martini” di Bologna nel 1979. Presente sulla scena jazzistica internazionale dal 1984, l’atti-

vità concertistica lo porta ad esibirsi nei più importanti festivals L’esperienza in palcoscenico e di-scografica lo porta a importanti collaborazioni musicali tra cui ricordiamo Billy Hart, Paul Jeffrey, Ray Drummond, George Cables, Gary Bartz, Gianni Basso, Furio Di Castri, Pietro Tonolo, Cameron Brown, Enrico Rava, Paolo Fresu, Rachel Gould, Steve Coleman, Ray Mantilla, Joe Lovano, Steve Lacy, Eumir Deodato, Slide Hampton, Gianluigi Trovesi, Giovanni Tommaso, Franco Cerri, Eddie Henderson, Sal Nistico, Ray Mantilla, Christian Escoudè, Dado Moroni, Giorgio Gaslini, Franco Ambrosetti, Maurizio Caldura, Curtis Fuller, Claudio Fasoli, Louis Heyes, Ben Sidran, Danilo Rea, Flavio Boltro, Fabrizio Bosso, Natalie Cole Big Band e Mingus Big Band.L’esplorazione nell’ambito pop lo porta a collaborare, inoltre, come turnista e come arrangiatore con molti cantanti sia in studio che dal vivo fra i quali Lorenzo Jovanotti, Laura Pausini, Irene Grandi, Raf. Già docente di Musica jazz al Conservatorio “F. Morlacchi” di Perugia e ai Corsi speri-mentali di jazz del Conservatorio “G.B. Martini” di Bologna, attualmente è titolare della cattedra di Musica jazz presso il Conservatorio “F. Venezze” di Rovigo e docente ai Seminari di Siena Jazz.

Discografia essenziale: Thinking Of You, Trip Of Emotion (con Slide Hampton), Feather Touch, Amigavel (in duo con Marcello Tonolo), The Trumpet In The XX Century (con Stefano Bollani), Frenico, Two Days In New York (con Billy Hart, Paul Jeffrey, Ray Drummond, George Cables, Gary Bartz e Marcello Tonolo), Jazz Contest , Isole per la storica etichetta Emarcy – Universal (con Billy Hart, Cameron Brown e Marcello Tonolo) e Childreams (con Christian Escoudè e Darryl Hall) Tra le collaborazioni citiamo Why Not (2002, Dreyfus Jazz) come direttore musicale dei Massive Groove, Uragano Elis con Barbara Casini, Taking A Chance On Love di Jimmy Cobb e in No More Fire e Dancing on a dime di Rachel Gould.

John Coltrane. All’interno ci sono composizioni a mio avviso straordinarie unite ad una intenzionalità ed una personalità musicale dei singoli che mi tocca ogni volta.

I tuoi prossimi progetti?Ultimamente sto scrivendo delle nuove composizioni per un gruppo abbastanza ampio costituito da un’orchestra d’archi, unita ad una sezione ritmica composta da pia-no contrabbasso e batteria ed una sezione di sette fiati (di varia tipologia). Sto portando avanti anche la stesu-ra di un libro sulle tecniche d’improvvisazione che spero terminerò entro il prossimo anno. Inoltre ho intenzione di intensificare un poco la mia attività concertistica.

jazz, esportando di più la nostra musica fuori dal Conser-vatorio. Altro aspetto importante è quello che riguarda il miglioramento delle strutture necessarie ad ospitare un nu-mero elevato di studenti con spazi più adeguati a lezioni d’insieme e a sale studio insonorizzate. Non capisco per-ché nella maggior parte dei Conservatori italiani si trascuri quest’aspetto così importante. Capisco che servano risorse economiche, ma ritengo che sia una delle priorità assolute da rispettare. Acustica e strutture non sono da sottovalutare.

Il musicista che ami di più?Non c’è un musicista che amo di più, sono tanti e troppo nu-merosi. Non riesco a darti una preferenza. In questo momento mi viene in mente Tom Harrel, come Billy Hart, come Shirley Horn, Maurice Andrè, Puccini... Louis Armstrong... Più che ai musicisti e alle false etichette, attribuite principalmente da chi per pensare alla musica ha bisogno di rinchiuderla in un gene-re specifico, farei riferimento alla musica bella, sincera e ben suonata, e a quella brutta. Io sono molto curioso, ascolto di tutto e mi interesso ad ogni nuova tendenza; soprattutto a quelle seguite da musicisti più giovani di me. La cosa più importante è quella di cercare di entrare dentro a ciò che ascolti e quindi a ciò che suoni e solo così non ti crei preconcetti inutili. Il concetto è che non basta toccare la musica, devi viverla.A questo proposito grazie a un mio studente, che mi ha fat-to ascoltare una demo del suo gruppo mi sono appassionato maggiormente all’elettronica addentrandomi nell’ascolto e nel-la creazione di suoni particolari, divertendomi ad usare dal vivo la tromba insieme al live electronics creando così nuovi suoni ed atmosfere a volte rarefatte, a volte vertiginose e piene di energia.Ciò mi ha ispirato a nuovi soli e nuove composizioni in uno sti-le personale che continua il suo cammino ma con una visione più ampia. In pratica ho allargato la mia concezione di suono nello spazio.Tant’è vero che ora quando suono la tromba in maniera acu-stica riesco a realizzare nuove sfumature con un sound più personale e definito. Tutto ciò grazie all’esperienza del live electronics che sto portando avanti. Oggi abbiamo tutti i mez-zi a disposizione per fare di tutto, si tratta solo di imparare ad usarli e ad impadronirsene. Il CD che non ti stanchi mai di ascoltare? Fra i tanti preferiti sicuramente “Sonny Side Up”, con Dizzy Gillespie, Sonny Rollins, Sonny Stitt, Ray Mantilla, Tommy Bryant e Charlie Persip registrato a New York nel dicembre del 1957, è il CD che non mi stanco mai di ascoltare. Sarà per la profondità e la freschezza delle frasi e della musica, che scaturisce spontanea e senza blocchi, che mi fa sembrare il suo ascolto sempre come fosse la prima volta. In quel cd c’è tutto ciò di cui necessita la musica e l’ascoltatore: sincerità,

verità, classe, calore, umanità e una esegerazione di swing. Tant’è che ascoltandolo ti viene voglia di muoverti e di ballare.

I tuoi prossimi progetti? Riguardo ai miei prossimi progetti è in uscita a febbraio il CD e DVD “Sangue e arena” realizzato col mio trio “Three Lower Colours“ insieme ai miei preziosi collaboratori Stefano Ono-rati-piano/tastiere/live electronics e Stefano Paolini-batteria/live electronics e un nuovo CD che ancora non ha un titolo, sempre con “Three Lower Colours” e” Vertere String Quartet”.Insieme al trio continua la mia produzione in quintetto col nuovo gruppo Roberto Rossi-t.bone, Marcello Tonolo-piano, Cameron Brown-c.basso e Billy Hart-batteria e il prossimo anno è in previsione tour e registrazione. Se sarà possibi-le aggiungerò la Small Band del conservatorio di Rovigo. Sto continuando a collaborare col quintetto di Roberto Gatto “Remembering Shelly” col quale suonerò a New York a novem-bre e a Orvieto in occasione di “Umbria Jazz Winter” 2010. Ho in progetto anche un duo con Danilo Rea col quale col-laboro da tempo e sto provando con Fabrizio Sferra per la realizzazione di un trio con Tromba, Tuba e Batteria, trio nel quale è coinvolto Glauco Benedetti, studente laureando del Biennio Jazz. L’idea di coinvolgere nuovi talenti nei miei futuri progetti è sicuramente la cosa che mi alletta maggiormente.

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Capita, più spesso di quanto si creda, di riuscire ad intuire lo spessore artistico di un’opera

o del suo autore da particolari secon-dari, da espressioni o atteggiamenti che non nascono in maniera diretta e lineare ma vagano più o meno ni-tidamente o dentro la polpa formale dell’opera o nella personalità di chi l’ha prodotta. Ho incontrato Serena Fortin in un piacevole pomeriggio di inizio autunno in centro a Rovigo, sua città Natale. Non la conoscevo né avevo mai sentito parlare di lei prima di allora. E’ facilissimo entrare in sintonia con Serena: parla in ma-niera fluida e tranquilla, racconta del suo lavoro con passione autentica. Si trova molto bene in Spagna, dove si è trasferita da qualche anno e dove sembra aver trovato condizioni di vita ed opportunità che il nostro paese non sa più dare. In quel breve pomeriggio Serena mi ha descritto quello che fa e mi ha fatto capire molto della sua arte, prima ancora che avessi la possibilità di vederla. Ma la cosa che mi ha colpito di più e che ha illuminato il suo modo di sen-tire l’arte che produce è stata l’inten-sità con cui mi ha raccontato di un incontro con un cieco che ha voluto conoscere le sue opere. Un appas-sionato d’arte spagnolo che, dopo aver toccato, accarezzato, sfiorato le sue opere ha saputo dirle di più sulla sua arte di quanto le avessero mai detto molti critici. Un’esperienza che mi ha raccontato solo alla fine, praticamente quando ci stavamo sa-lutando; ma l’ha fatto con un calore tale che questo breve episodio mi è parso dire molte cose non soltanto sulla sensibilità umana di Serena ma anche sul suo rapporto con quello che fa e con il modo in cui lo fa. Sappiamo tutti che i non vedenti per-cepiscono la realtà non soltanto vi-

vendo con la massima intensità i sen-si attivi ma anche sviluppando una capacità percettiva in un certo qual modo estranea ai sensi stessi eppure fortemente operativa. Credo ci sia una relazione molto forte tra questa capacità percettiva tipica dei non ve-denti e la capacità di Serena di senti-re la realtà e di trasformarla in opera d’arte. Lo conferma la sua emozione di fronte al cieco che comprende la sua opera: un’emozione dettata dal fatto, mi pare, che quel non vedente nell’interpretare le sue opere ha per-corso assolutamente le stesse strade percorse da Serena nel produrle. Una condivisione totale, rara, che non ap-partiene a nessun altro critico il qua-le, nel giudicare, è quasi costretto dal suo percorso culturale ad usare la ra-zionalità ed a non percepire fino in fondo quell’elemento intuitivo, miste-rioso e magmatico, che sta alla base di ogni opera d’arte. A proposito di sensazioni, credo non sia secondario neppure il fatto che la nostra artista lavori soprattutto con il legno: mate-riale che “parla” e che mette in moto i nostri sensi molto più di altri.Un’altra scelta recente di Serena mi pare significativa: quella di dedicare una parte della sua attività alla crea-zione di gioielli. Le sue sculture, cioè, diventano anche oggetti da portare, prodotti che abbelliscono, forme di ornamento del corpo. Un oggetto d’uso comune che diventa arte. Non è una novità. E’ una via praticata in diverse epoche, a diverse latitudini, da diverse civiltà. Ha a che fare con l’idea di portare il bello addosso, di tenerlo vicino, di regalare a se stessi un po’ della bellezza dell’oggetto che si espone, prestandosi a diventare luogo espositivo: il corpo che espone, quindi, e non solo che è perennemen-te esposto. Un pezzetto di eternità, di durevolezza, sostenuto ed appoggia-

foto di Nicola Pozzato

di Sandro Marchioro

Serena Fortin:emozioni nelle forme

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to a quanto di più deperibile ci sia: il nostro corpo, la nostra vita.Vale la pena di notare che non c’è differenza tra le opere scultoree vere e proprie e questi prodotti. Anche nel caso dei gioielli, infatti, il senso profondo delle forme astratte di Sere-na Fortin è che non sono per niente astratte. Curve, linee, sinuosità, in-cavi possono essere benissimo letti come riferimenti alla natura, ai suoi ghirigori creativamente necessari, al suo divenire inesorabile, al suo ma-nifestarsi: un’onda, le rigature d’una corteccia, la forma di una nuvola, il profilo di un colle o di una catena di monti, le sinuosità di un corpo. Quel-la di Serena non è arte astratta, è un’arte figurativa che fa finta di non esserlo, che suggerisce e suggestio-na più che affermare e raccontare. Ho visto poco delle opere di Sere-na. Ma quel poco basta: non per una mia particolare capacità intuiti-va ma soprattutto per la chiarezza delle cose che Serena vuole comuni-care. Una densità, quella dell’artista rodigina, che sarebbe molto bello poter vedere anche qui, nel territorio dove è nata e cresciuta: per quanto in Spagna si trovi bene e sia grata al paese che l’ha accolta e fatta star bene, vorremmo poter godere anche noi dell’arte di Serena, senza neces-sariamente diventare gelosi dei no-stri amatissimi amici spagnoli.

Piazza Cavour, 945011 ADRIA (Ro)Tel. 0426 41399

Fax 0426 902443

[email protected]

Hotel“Leon Bianco”(vicino al Teatro Comunale)

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Non ricordo di preciso il momento in cui ho conosciuto Elia. Ricordo però con certezza che fu fin da subito molto facile parlare con lui, entrare in confidenza col suo mondo. Quando due vite si incrociano, anche se per poco, le strade percorse, quelle che ci stanno appena dietro le spalle, tendono a pesare su ciò che ci si racconta, su ciò che si vuole mettere in evidenza e sembrare di fronte al nuovo amico. Ma questo era un at-teggiamento mio, non di Elia. Con gli occhi ed i capelli da putto angeli-cato che si ritrovava, come se fosse uscito da una tela di Raffaello, Elia sembrava vivere un eterno presente, una dimensione del tempo che non conosceva i conflitti e le tensioni tra ciò che siamo stati e ciò che siamo diventati. O almeno, per quel poco che l’ho frequentato, non ho avuto l’impressione che questa tensione producesse quell’andamento carsico che agisce in tutti noi, determinando il nostro presente. Sapevo del suo lavoro. Non ne abbiamo mai parlato, non so il perché. Era comunque evidente che c’era poco da dire, soprattutto perché quel ragazzo - uomo ormai giunto alla maturità (senza farsene nulla della maturità così come tutti noi la intendiamo) più che parlare dell’arte aveva l’istinto e la forza di chi l’arte la interpreta, la vive fin nelle fibre più pro-fonde del proprio essere. Non era tanto l’atteggiamento scapigliato e un

po’ maudit che ben conoscono tutti coloro che l’hanno praticato o avuto per amico; credo piuttosto sia più vicino al vero dire che Elia sentiva e viveva ogni aspetto della sua vita come se fosse amplificato, raddensato, carico di vitalità. Ho sempre avuto l’impressione che ogni evento, ogni incontro, ogni inevitabile passaggio della sua esistenza Elia lo vivesse come un cavo ad alto voltaggio trasporta una potente corrente elettrica; e quando si metteva davanti alla tela, ecco la scarica, la differenza di potenziale che liberava un’energia che prendeva l’aspetto di forme e di colori: dissolti, rabbiosi, caotici, immersi in una specie di brusio esisten-ziale che dice molto dei fondali della sua anima ma soprattutto, come capita ai grandi artisti, dell’anima di tutti noi. Stranamente, quando una vita si interrompe anzitempo come è capitato ad Elia, la cosa che tocca di più a chi lo conosceva, man mano che il tempo scorre, non è l’assenza, ma il peso della continua presenza. Come di tante cose da dire e da fare insieme che però non si sono mai liberate ed espresse e che stanno lì, vagano nello spazio angusto dei ricordi toc-cando spesso nervi scoperti. E che ci portiamo dietro senza la possibilità di condividere, facendoci un male cane, senza mai smettere di dolere.

Sandro Marchioro

ELIA

Mi piace pensare che Elia (Alessandro Greggio, Adria 1968 - Bologna 2005) non

si sia suicidato. Non perchè non ri-spetti chi decide l’opt out dal mondo, anzi, ho quasi stima di un gesto così

coraggioso e disperato, ma perchè ricordo un episodio in cui lui si addor-mentò davanti a me, seduto sul letto prima di coricarsi, mentre si slacciava le scarpe. Vidi che rimaneva nella stes-sa posizione, e non capivo, fino a che

non lo sentii russare. Allora lo posai sul letto, ma il suo dito non lasciava il laccio. Allora mi piace immaginare Elia che, nell’afa estiva di un agosto bolognese, fuma l’ultima sigaretta se-duto sul davanzale, e si addormenta

TRA LA CADUTA E LA FELICITàELIA E LA PITTURA UNIVERSALE

di Stefano W. Pasquini

Alessandro Greggio

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nei suoi pensieri, cadendo dalla finestra del suo appar-tamento vicino al Teatro Duse. Aveva disegnato fino a un minuto prima, perchè il gesto, il disegno, la pittura erano la sua vita, sin da quando da ragazzino organizzò la sua prima mostra personale nella sala comunale di Adria. Ri-cordo l’invidia generale, soprattutto degli studenti maschi, quando Elia arrivava in Accademia, al primo anno, e di-pingeva furibondo e sicuro di sè, magari usando solo tre colori, il bianco, il nero e l’arancione, mentre noi eravamo cauti e insicuri, indecisi sul da farsi. Elia fece scuola in quella scuola, ci fece capire che chissenefrega era un vali-do atteggiamento, sia rispetto all’arte che rispetto alla vita, alla faccia dei professori. Certo, l’Accademia di Bologna aveva già la sua atmosfera particolare, con disadattati di tutti i tipi, creativi e non, che gravitavano l’inverno di fian-co ai termosifoni caldi dei corridoi. Ed Elia era lì, seduto a ridere nei corridoi, sempre. Poi però entravi nell’aula di Pozzati e rimanevi ammaliato davanti a un suo nuovo, in-credibile pezzo. Ma quando l’aveva dipinto? Nel suo stu-dio di Strada Maggiore era la stessa cosa. Elia non c’era mai, lo vedevi (sempre) in giro o al Sesto Senso o in via del Pratello, a bere e a ridere fuori da qualche osteria, con amici sempre nuovi. Poi entravi nello scantinato del suo

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studio ed era pieno di quadri nuovi, magnifici e densi, nella lotta dispera-ta contro e dentro la pittura. Perchè la pittura era la vera sfida quotidiana di Elia. Non tanto il successo o l’in-successo variabile della sua carriera. Elia aveva capito che per arrivare da qualche parte, in questo angolo di provincia debole che è l’Italia degli anni 2000, bisogna piegarsi a dina-miche che a lui non piacevano. E non era il solo. Bologna e la sua tradizio-ne di cultura alternativa si sposavano bene con Elia, che non vedeva linea di confine tra arte e vita, nè tra cul-tura alta e cultura bassa. Un ameri-cano di Adria, insomma. Che come il suo amato Rauschenberg, e prima di lui Man Ray, aveva capito l’impor-tanza della materia nell’arte come rifiuto dell’elitarismo dell’arte stessa.

Così Elia rovistava tra l’immondizia per trovare ciò che lui trasformava in un diamante disperato ed autentico. Elia aveva assimilato completamente la cultura esistenzialista, ed anche il suo gusto musicale - la musica lo accompagnava sempre - ne era testi-mone. Come Sartre aveva insegnato, bisogna accettare di vivere disperati, e solo in questo modo si può accet-tare l’inutilità della nostra esistenza. La felicità così arriva inaspettata - con una nuova fidanzata, la vendita di un quadro o la proposta di una mo-stra - ma soprattutto nella pittura. La pittura come istanza universale, non individuale. La pittura che deve con-tinuare ad avere uno sviluppo nono-stante tutto, nonostante la sua - più volte annunciata - morte, nonostante il mercato, la moda, i trend che la con-

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tengono e le permettono di esistere. La pittura deve continuare. Ed Elia la continuava, alle volte con esaspera-zione, alle volte con il sacrificio di chi sa che si deve dimenticare le lezioni che gli sono state impartite e spesso non ce la fa. Allora tornava a un figu-

rativo un po’ impacciato, come dire non voglio farlo bene, ma non riesco nemmeno a non farlo. Oppure quan-do qualche amico gli commissionava un ritratto. Nell’atteggiamento gioco-so della sua vita Elia si prestava con allegria nel farsi commissionare qua-

dri, ma quello era lavoro e non arte. Così come i mobili che tutti gli ammi-ravano e commissionavano, e che gli hanno permesso di vivere a Bologna per oltre un decennio senza uno sti-pendio. Non appena i soldi stavano per finire, ecco un vecchio amico che

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crediti fotografici: Mario GreggioDario Lasagni

Stefano W. PasquiniAlessandro Linzitto

chiamava per commissionare una libreria, un tavolino, un paravento. Oggetti bellissimi, di cui andava an-che orgoglioso, ma che non erano la pittura. Ricordo una lettera in cui mi scriveva che era stanco di attaccare oggetti sulla tela, che si voleva con-centrare sulla superficie della pittura. Eravamo da poco usciti dall’Accade-mia, erano i primi anni novanta, ed Elia avrebbe continuato ad attaccare oggetti sulla tela fino all’ultimo. Era più forte di lui, doveva unire pezzi della sua vita alla sua arte, come prima di lui avevano fatto Man Ray, Rauschenberg, Beuys, Basquiat. Ne-gli ultimi anni Elia si era fatto più se-rio, e i suoi quadri più completi, più maturi. Malgrado fosse arrivato alla quasi totale astrazione, il suo percor-so partiva come sempre dall’uomo, e a ben guardare tutti i suoi lavori han-no una figura - un uomo, a ricordar-ci che infine ciò che importa siamo noi. Il suo atteggiamento generoso, rispettoso dell’altro, non era altro che

parte di questa maniera umanista di vedere le cose, del pensare tutti nella stessa barca. Ci ho messo due decen-ni per capire come mai Elia si con-tornava delle persone più svariate di ogni natura e classe sociale, ed era proprio per questo atteggiamento co-eso, di unità di fondo, che ritrovo ora nei compagni di avventura della sua Adria. Non è facile essere un outsid-er, un artista, in Italia, e non so come Elia vivesse il provincialismo di una nazione che non si cura dei suoi ar-tisti. Allora lo spronavo, gli dicevo di partire per New York con un bigliet-to di sola andata. Lui non l’ha mai fatto, e tuttora mi fa male entrare in una galleria di Chelsea e vedere un pittore peggiore di lui. Per non par-lare del suo modo di fare fotografia. La manciata di fotografie scattate da Elia che ho avuto la fortuna di vedere hanno un che di magico ed origina-le, difficile da raccontare, ma ricordo questo suo scatto (ormai perduto) che mi arrivò a Londra e che racchiudeva

tutto il suo mondo: il Po, i suoi detriti, i rifiuti, i sassi, ed in mezzo una facci-na d’angelo di una bambolina, persa a mare da chissà quale disavventura d’infanzia. La cometa di Elia è stata una lezione di libertà per tutti, e mi auguro che questo - almeno nella sua arte - traspaia e arrivi anche alle nuo-ve generazioni.Elia era libero davvero, e quando si dimenticava di tutto il resto volava leggero col pennello sulla tela. La fe-licità di quei giorni in studio si può quasi toccare con mano in alcune del-le sue tele.La figura di Pierino/Pinocchio allo-ra diventava un soggetto preferito: l’idea del bambino che fa quel caz-zo che gli pare, ma prima di essere sgridato ti fa un sorriso, una smorfia d’angioletto, allora lo perdoni. E lo ami. Mi fa veramente malissimo pen-sare ai quadri che Elia non aveva an-cora fatto.Ne meritava ancora, di quella felicità.

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Nulla die sine linea, nessun giorno senza una li-nea, riferiva Plinio il Vecchio del celebre pittore Apelle1. Stando a quanto ci tramanda lo storico

romano, l’artista ellenico concepiva infatti la pittura come pratica necessariamente giornaliera e non come sempli-ce lavoro da eseguire liberamente, secondo ispirazione e sensibilità. Nell’opera di Elisa Rossi si coglie lo stesso approccio all’attività artistica come esercizio quotidiano, grazie a cui dipingere si è trasformato in un rito, tanto naturale nella spontaneità quanto religioso nella ripetizio-ne. In una conversazione Elisa mi ha raccontato come il gesto di pulire la stanza ed i pennelli siano le azioni con cui ha inizio quel tempo di odiata solitudine, ma anche di amata fetale sicurezza, che è la pittura. Per l’artista ve-neta, in quel momento di isolamento autoimposto non c’è

altro, nemmeno un posto piccolissimo per altri pensieri. La centralità della pratica rispetto al pensiero - o, se vo-lessimo, dell’agire sul concepire - fa inevitabilmente veni-re in mente l’approccio di cui ha parlato frequentemente Gerhard Richter, il quale carica l’azione del dipingere con una responsabilità viscerale e allo stesso tempo quasi civile: l’artista “deve credere in ciò che sta facendo, deve impegnarsi intimamente in prima persona per poter pra-ticare la pittura. Una volta che ne sarà ossessionato, egli arriverà al punto di credere di poter cambiare l’uomo con l’esercizio della pittura. Se venisse meno questo impegno morale non c’è nulla altro da fare che isolarlo, perché in fondo la pittura è pura follia”2.Non sapremo mai con certezza se Elisa Rossi abbia l’am-bizione di cambiare l’essere umano, ma di sicuro non le

Elisa Rossiesercizi di intimità

di Daniele Capra

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è estranea la volontà di tracciare delle immagini che rac-contano un universo sconosciuto, o che siamo abituati ad ignorare nel frastuono visivo in cui siamo immersi. La sua produzione è riconducibile a due distinte aree tematiche, sebbene intrinsecamente connesse: il ritratto del corpo femminile (di natura spiccatamente iconica) e la rappre-sentazione di merletti e ricami, gioielli (marcatamente più concettuale). In entrambe si avvertono il pathos parteci-pativo e un’aura trasognante di natura malinconica, che l’artista inevitabilmente ci invita a condividere.Le sue donne sono sempre sole, e sono immerse in un’at-mosfera di silenziosa e distillata intimità, per lo più in si-tuazioni domestiche come la cura del proprio corpo. Mol-to spesso di schiena, liberate della necessità del dover essere tutto ciò che il mondo loro impone, sembrano voler mostrare il corpo come ultimo elemento a baluardo della propria natura muliebre, in un frangente di spleen esi-stenziale che non hanno vergogna ad esibire. La natura

malinconica e l’inequivocabile vuoto interrogativo rendo-no il soggetto una sorta di intima ed aggiornata versione dell’apoxyómenos, l’atleta che si deterge il sudore dopo la fatica della gara, declinato però in versione femminile, antiretorica e postmoderna. Ma non è narrazione, non sono i piccoli gesti o le azioni di cui sono protagoniste queste donne ad essere centrali, quanto l’abbandono ad una meditata interiorità4, in una dimensione temporale indefinita, che all’osservatore è concesso di vedere con uno sguardo fugace e rubato. Lo spettatore diventa così inoffensivo voyeur, in cui forse non è estranea qualche forma di compiacimento erotico, che affoga però rapi-damente nell’inquietudine e nel male di vivere (benché i possenti cinquecenteschi Prigioni del salone affrescate dal Fasolo, in cui sono collocate le opere concepite per Villa Caldogno, sembrino essere trasformati nei lascivi biblici Vecchioni).Di tutt’altra natura sono invece le tele che raffigurano ri-

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NOTE

1 Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, cap. XXXV.2 G. Richter e H. U. Obrist, The Daily Practice of

Painting, Notes 1973, Mit Press, 1995, p. 78.3 Cfr. Sant’Agostino, De vera religione, cap. XXXIX,

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4 “Sospensione di giudizio”, S. T. Coleridge, Biogra-phia Literaria, cap.XIV.

cami, pizzi, merletti e centrini decorativi - ossia pratiche storicamente riconducibili al mondo femminile - nei quali è essenziale il lavoro attento e ripetitivo che raccontano. Ma il soggetto, essenzialmente una natura morta caratterizzata da un’atmosfera di metafisico “suspension of disbelieve” , passa in secondo piano rispetto all’esecuzione. A dispet-to della virtuosa immediatezza iconica, è proprio il tempo del dipingere il vero elemento creativo ed il motore con-cettuale di questi lavori: l’esercizio pittorico che richiede continua attenzione rappresenta nei fatti per l’artista il recu-pero dell’artigianalità propria del mondo femminile, in cui il tempo dilatato rende possibile un silenzioso monologo introspettivo. Inevitabilmente le lunghe tempistiche dell’ese-cuzione coincidono con i necessari spazi di riflessione, che spiegano come la pittura di Elisa Rossi sia essenzialmente esercizio di intimità. Ma nel contempo questi soggetti nar-rano le suggestioni di un mondo - quello dei ricami e dei merletti - ormai perduto, lontano, e che sembra appartenere solo alla memoria dei più anziani che sempre più ci sfugge. Attimi che si possono oramai solo evocare assaporando una proustiana Madeleine, o un dolcissimo Mon Chéri.

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Che Michelangelo Antonioni ab-bia lasciato un segno indelebile nel cinema italiano, con le sue

indagini sui sentimenti e sul rapporto fra individuo e ambiente circostante, è cosa risaputa: come sia nata que-sta capacità di indagine e che tipo di relazioni abbia stabilito con Ferrara, città natale del regista, e con il Del-ta del Po, ci ha aiutato a capirlo la nipote Elisabetta, figlia dell’unico fra-tello di Michelangelo, Carlo Alberto. Al Delta è infatti legato il suo primo vero lavoro, il celebre documentario “Gente del Po”, girato in condizioni difficili durante gli anni del secondo conflitto mondiale. “Michelangelo, allora sottufficiale dell’esercito, inizia a girare nel 1942 – spiega Elisabetta – e cerca di portare a termine il la-voro grazie all’interessamento di un amico che lavorava all’Istituto Luce”. Il cortometraggio di Antonioni, però, rompe totalmente con gli schemi del passato sia per le modalità con cui viene condotta la lavorazione sia per i contenuti della pellicola. “I Repubbli-chini – spiega ancora la nipote del re-gista – avevano trasportato a Venezia le pizze del documentario e quando mio zio riprende a girare nel 1947 se

ne ritrovano solo 300 metri; almeno altrettanti risulteranno perduti o irrime-diabilmente danneggiati, più proba-bilmente manomessi”. Il tema trattato, la vita di una famiglia sul fiume e i pescatori che abitavano nei casoni sulle terre estreme del Delta, era certa-mente troppo distante dalle atmosfere dei telefoni bianchi che sino ad allora avevano caratterizzato tutto il cinema italiano. A farne le spese, in un certo senso, anche il Delta del Po che perde una parte importante del lavoro lascia-to da uno dei più grandi cineasti ita-liani. La scena probabilmente più nota del documentario, infatti, il temporale sullo scanno, era solo una parte della pellicola che Antonioni aveva deciso di girare, nelle sue fasi finali, proprio dove gli ultimi lembi di pianura lascia-no il posto all’apprensione del mare. “Delle scene girate nel Delta, ad esem-pio – spiega Elisabetta – sono andate completamente perdute quelle dove la terra diventa palude, dove i bam-bini vengono messi in salvo sui tavoli all’interno dei casoni e le lenzuola ap-pese al soffitto per assorbire l’acqua”. “Nessuno dei protagonisti faceva l’at-tore, madre e figlia che vivono in bar-ca lo erano anche nella vita; la madre

era occupata presso la Cassa Mutua di Ferrara dove lavorava mio padre”. Michelangelo adotta un nuovo meto-do, mostra volti e facce che il cinema aveva fino ad allora ignorato, tratta temi innovativi e disegna trame non ancora percorse: precorre, in definiti-va, la nuova frontiera del neorealismo. Questa paternità, che in un certo sen-so egli stesso rivendicava, non gli fu mai riconosciuta e Michelangelo se ne dispiacque parlandone apertamente in una lettera privata indirizzata al pa-dre Carlo e al fratello Carlo Alberto. Il percorso di indagine psicologica sulla persona, sui suoi sentimenti, sul suo modo di collocarsi in una realtà che sente spesso estranea, inizia probabil-mente già con “Il grido”, un altro film girato in Polesine e che precede la fa-mosa trilogia dell’incomunicabilità. Le riprese erano inizialmente previste nel Delta, sull’Isola di Cà Venier, dove fu-rono portate a termine le fasi di prepa-razione delle lavorazioni; poi la piena del Po e le difficili condizioni dell’in-verno del 1956 costrinsero la troupe a spostarsi fra S. Maria Maddalena, Francolino e il ravennate. “Michelan-gelo aveva manifestato sin da giovane una predisposizione alla ricerca degli

Intervista a Elisabetta Antonioni, nipote del grande regista

L’occhio di Antonioni sul Delta

di Vainer Tugnolo

GENTE DEL PO Immagini tratte dal film di Michelangelo Antonioni.

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aspetti più nascosti della psiche uma-na; amava molto Pirandello e il suo punto di vista preferiva indirizzarlo so-prattutto sull’universo femminile; in tutti e tre i film della trilogia, ‘L’avventura’, ‘La notte’ e ‘L’eclisse’ la protagonista è una donna: oltre, naturalmente, a ‘Deserto rosso’. La sua stima e il suo rispetto, pienamente ricambiati, verso le donne e il loro mondo era totale”. Ne “Il grido” la riflessione viene però condotta attraverso la crisi e l’indagi-ne introspettiva condotta sulle vicende che coinvolgono un operaio e la sua famiglia. “Questo – afferma Elisabetta – gli procurò numerose critiche, anche di natura politica, che mio zio non comprese fino in fondo; ‘Il grido’ fu però un’opera che mise in luce molti aspetti peculiari nel modo di fare ci-nema di Michelangelo”. Nel film non è difficile infatti individuare il ruolo di una colonna sonora che accompagna il protagonista nello sviluppo dei suoi stati d’animo attraverso le nebbie di un paesaggio sfumato che fa da sfondo alle vicende: “Da ragazzo Antonioni suonava il violino – continua Elisabet-ta – e le colonne sonore hanno senza dubbio rappresentato un fattore chia-ve nel suo nuovo, personale, modo di

raccontare storie, personaggi e stati d’animo attraverso la macchina da presa”. “Alle musiche dei suoi film, pertanto, prestava sempre la massima attenzione rivelandosi molto esigen-te sul contributo che potevano dare al complesso della lavorazione; così come, d’altra parte, si occupava dei minimi particolari con attenzione qua-si maniacale”. Abile interprete della realtà e del mondo circostante, lettore molto attento e capace delle debolez-ze e delle fragilità delle relazioni uma-ne, il regista ferrarese non era solito frequentare molto l’ambiente del cine-ma: poco mondano, quasi schivo, lea-le nei giudizi, rari, nei confronti di ami-ci e colleghi: Michelangelo era molto più concentrato a cogliere le stranez-ze e le sfaccettature di una realtà che sapeva offrire continui, e interessanti, spunti di riflessione. “Nutriva una cu-riosa passione per i nomi di persona – prosegue Elisabetta Antonioni - tanto da raccogliere su un quaderno quelli che riteneva più originali e degni di nota”. “Inoltre ricordo che da ragaz-za, sul set di “Deserto Rosso”, mi mostrò un pezzo di legno che aveva recuperato in spiaggia: un pezzo di legno di una forma tale da sembrare

un paesaggio e che mio zio decise di collocare all’interno di quella che nel film era la camera da letto di Monica Vitti”. Proprio “Il grido”, nelle fasi del doppiaggio, aveva fornito l’occasione dell’incontro fra la Vitti e Antonioni: un sodalizio, non solo artistico, poi destinato a durare molti anni; ancora, nel film girato in Polesine, si ritrova il gusto del particolare, l’attenzione al dettaglio, negli arredi delle case dei protagonisti. Nelle scene all’aperto, invece, ecco il montaggio che fissa un momento accostando, e sovrap-ponendo, riprese girate in tempi e in luoghi diversi; o ancora l’uso di tutte le tonalità di grigio che consentono di “colorare” un grande film in bianco e nero. A questa capacità di indagine, e a un talento fuori dal comune, dobbia-mo anche la collocazione di un pae-se ideale, Goriano, in un mondo au-tentico, ma fatalmente onirico, come quello polesano: quasi inducendoci a catturare l’idea, e invitandoci a con-dividerla, di come Antonioni abbia voluto cogliere, al confine fra reale e immaginario, le contorsioni psicologi-che degli individui che non possono, o non vogliono, riconoscersi nell’am-biente che li circonda.

IL GRIDO Locandina e immagini durante le riprese del film. «Quarant’anni di insegna-mento all’estero, li ho or-mai compiuti. Non è poca cosa, ti pare? Conclusa ormai considero la mia vita, soddisfatto sotto certi aspetti, amareggiato per molti altri», così Romano Guarnieri, in una lettera da Amsterdam a don Giu-seppe De Luca in giorno di Pasqua del 1947. E quella sua vita, avventurosa e sin-golare, si sarebbe davvero conclusa otto anni dopo, il 29 ottobre del 1955 a Perugia. Quel giorno, uno dei rari ciclisti che circola-vano per la città piombò addosso, sbattendolo a terra, a un signore anzia-no, alto e appena curvo, con il basco calcato sui capelli bianchi, che aveva attraversato incautamente la strada, senza guardar-si intorno sotto la pioggia insistente sferzata dal ven-to. Ricoverato d’urgenza al policlinico di Perugia, Romano Guarnieri, perché di lui si trattava, morì qual-che giorno dopo. Non sappiamo quando e

come la notizia della sua scomparsa sia giunta ad Adria, ma sicuramente non doveva avere trovato

grande risonanza, non più degli avari trafiletti appar-si sui giornali. Romano Guarnieri aveva lasciato

il Polesine ancora sul finire dell’Ottocento e per la sua città natale era un illustre sconosciuto, tanto che, per quanto ne sappiamo, nes-suno mai pensò di intitolar-gli una strada o anche so-lamente un vicolo, magari una lapide. Nel 1963, nel numero unico del Set-tembre Adriese, Giuseppe Cordella aveva tracciato un sintetico profilo dell’uo-mo e dello strudioso, ma, a oltre cinquant’anni dalla morte, chi può davvero ri-cordarsi di lui? È vero che da Adria se n’era andato appena quindicenne, con ritorni sempre più rari nel tempo convulso della sua esistenza, ma è anche vero che l’uomo ha lasciato se-gni profondi nella storia e nella cultura europea. Era, dunque, nato ad Adria il 20 febbraio del 1883. I genitori erano il nobile Francesco De Guarnieri e Carolina Cordella, piccoli proprietari ed eredi en-trambi di due famiglie pro-fondamente radicate nella città polesana. E difatti, il

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di Sergio Garbato

Romano Guarnieriun grande polesano dimenticato

Da Adria all’Olanda in nome dell’italiano

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PERSONAGGI

nostro era primo cugino di due Guarnieri grandi musicisti, come il violinista Francesco e il più celebre direttore d’orchestra An-tonio. Ma, quasi per con-trappasso, Romano Guar-nieri, fin dalla più giovane età, era abitato dall’insof-ferenza e da un’ansia di conoscere che gli avreb-bero impedito di restare a lungo nello stesso luogo. Eccolo, nel 1898, iscrit-to in un liceo di Firenze, che abbandonò appena due anni dopo per ar-ruolarsi nell’esercito. E la sua inquietudine doveva pure mirare a qualcosa, se ancora ragazzo aveva frequentato i circoli socia-listi, venendo a contatto con Edmondo De Amicis e Andrea Costa, mentre, sotto le armi, aveva pro-fuso energie per insegna-re a leggere e scrivere ai commilitoni analfabeti. A Firenze ritornò nel 1901 con il grado di sottotenen-te del Genio e fu subito tra i fondatori della Socie-tà filosofica e tra i letterati della rivista «Leonardo», lettore di Croce (con cui avrebbe stabilito un lungo rapporto di stima recipro-ca), sodale dei Futuristi, amico di Papini, Prezzo-lini, Soffici, Palazzeschi, Marinetti, Ungaretti e Rebora (che gli avrebbe dedicato i «Canti anoni-mi»). Nel 1905, però, lasciò l’Italia per cercare fortuna all’estero, prima a Londra, poi ad Hannover,

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con l’intenzione di rag-giungere San Pietroburgo. Si sarebbe fermato invece in Olanda, destinata a diventare la sua seconda patria. In Olanda, infatti, gli sparsi fili dei suoi inte-ressi e della sua esistenza si intrecciarono, mentre si definivano più chiaramen-te i suoi interessi. L’arte e la letteratura, certamente, ma anche e soprattutto la filologia e lo studio delle lingue, o meglio dell’ap-prendimento delle lingue (per suo conto avrebbe im-parato francese, inglese, olandese, tedesco, rume-no, spagnolo e da ultimo lo svedese, quando ormai era settantenne). In Olan-da si sposò con Iete van Beuge e nacquero i suoi due figli Romana (1913) e Leonardo (1915), si lau-reò a Gronigen e diventò lettore e libero docente in diversi atenei (fra i suoi studenti ci sarebbe stato anche Huizinga), fino ad ottenere una cattedra di lingua italiana, istituita appositamente per lui a Utrecht. Ma la sua attività divenne sempre più frene-tica, divisa fra conferenze, collaborazioni a riviste, seminari, in un’opera di diffusione della cultura italiana che trovò ulterio-re riscontro anche nella fondazione, a partire dal 1914, di una quattoridi-ci di comitati della Dante Alighieri. I contatti con l’Italia e con gli artisti e intellettuali fiorentini non

erano però mai stati inter-rotti, tanto che nel 1915, Guarnieri partecipò a tal punto all’acceso interventi-smo che animava molti dei suoi primi conmpagni di strada, che lasciò l’Olan-da e rientrò in patria, per partire per il fronte come volontario. Ritornò all’Aja alla fine della guerra, ma la moglie, che non aveva condiviso il suo interventi-smo e non gli aveva per-donato la sua partenza, chiese il divorzio. Nel 1920, Guarnieri si era già trasferito a Voorburg e unito con Marie De Bos-son, ma, dopo avere gli ef-fetti letali della guerra alla quale aveva partecipato con tanto entusiasmo, era diventato pacifista ed europeista e un anno più tardi, dopo avere ottenuto la libera docenza, lo ritro-viamo insegnante di lette-ratura italiana a Amster-dam e in altri atenei. Nel 1926 aveva conosciuto Astorre Lupattelli, fondato-re e rettore dell’Università per stranieri di Perugia e aveva accettato con gioia di tenere un corso estivo di sei settimane per prin-cipianti di lingua italiana. A partire dal 1927 (nel frattempo la sua ex mo-glie Iete van Beuge si era risposata con l’architet-to Gaetano Minucci e si era trasferita con la figlia a Roma, dove nel 1933 l’avrebbe raggiunta anche il figlio), Guarnieri sareb-be regolarmente ritornato

a Perugia per insegnare l’italiano a sempre più nu-merosi studenti, raggrup-pati in un’unica classe e senza distinzione di nazio-nalità. A questi corsi che si protrassero fino alla sua morte e al particolarissi-mo metodo che ne derivò, Guarnieri deve gran parte della sua fama postuma. Si trattava «di porre l’alun-no in grado di servirsi immediatamente della lin-gua, con una graduale co-noscenza della grammati-ca». L’esordio di ogni cor-so è noto: «Potete parlare italiano? – No, non posso parlare italiano. – Perché volete imparare l’italiano? – Perché voglio andare in Italia». Così si cominciava subito a parlare in italia-no e la lezione diventava corale, per quattro ore al giorno, tanto che gli stu-denti, al termine del primo mese, potevano già capire ed esprimersi nella nuova lingua. Intanto, proprio sul finire degli anni Venti, la prima adesione al fa-scismo si era trasformata in dissenso e, successiva-mente, con l’emanazione delle leggi razziali e l’in-vasione tedesca dei Paesi Bassi in aperta ostilità. Le conseguenze ebbero esiti drammatici: la sua nuova compagna, la scrittrice e traduttrice ebrea Carla Simons, alla quale si era unito fin dal 1927, venne deportata in Germania e morì in un campo di concentramento. Quanto

a Guarnieri, venne dap-prima internato e poi tra-sferito in Italia nel 1943, dove si rifiutò di aderire alla Repubblica di Salò ed entrò in contatto con elementi della Resistenza, finendo in carcere a Torino fino alla Liberazione. Nel dicembre del 1945, Ro-mano Guarnieri ritornò in Olanda con la sua ultima compagna, Alessandra Bouwmeester, facendosi artefice di importanti ac-cordi culturali con l’Italia, e nel contempo riprese la sua attività all’Università di Perugia. Negli ultimi giorni della sua esistenza stava curando, insieme con Enzo Amorini, la ri-stampa, aggiornata e arricchita, del suo «Me-todo di lingua italiana per stranieri» uscito per la prima volta nel 1941 e destinatoa essere ripub-blicato postumo nel 1956. A Romano Guarnieri, lo scorso aprile, l’Università per Stranieri di Perugia ha intitolato collocandovi anche un busto in bronzo, quell’aula in cui il profes-sore e studioso adriese aveva fatto le sue lezioni «corali» per tanti anni a numerose generazioni di studenti provenienti da ogni parte del mondo.

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da un tocco personale, tra l’altro molto apprezzato dagli appassio-nati dell’obiettivo e della “camera oscura”. Si può anche dire inoltre che in lui la fotografia ha trovato il manipolatore efficace che sa rende-re più interessanti le immagini colte dall’obiettivo. Per ottenere effetti speciali sulle riproduzioni fotogra-fiche, in perfetta simbiosi tra uomo e strumento di cui conosceva tutti i segreti, come un pittore del Rinasci-mento usava persino per ingredien-te il tuorlo d’uovo. Ad Adria, dove svolse l’attività commerciale dappri-ma presso la drogheria dei Fratelli Santi e poi nel proprio negozio di generi alimentari, fu padre fonda-tore del Foto Club sorto nel 1966. Il primo settembre di quell’anno in-fatti, presso la sua abitazione in via Alberto Mario, si riunirono cinque “innamorati della fotografia”, erano gli adriesi Giuseppe Mazzetto, ed i Signori Ceccotto Antenore, Maistro Giovanni, Vianello Lino e dott. Gio-vanni Zen. In quel momento, come recita lo Statuto originale ancora in vigore, venne costituito “un sodalizio (denominato Foto Club Adria) avente per scopo di riunire tutti gli appassio-nati della fotografia…”. Fu l’inizio di un’attività feconda e significativa per la città, che ha visto il piccolo grup-po crescere non solo nel numero de-gli aderenti, ma anche nella qualità delle opere, mietendo ad ogni Con-corso premi prestigiosi sia in Italia che all’Estero. Di questi successi Giu-seppe Mazzetto fu il maggiore desti-natario. A partire dal primo anno di attività del Foto Club si aggiudicò a Bovolone (Vr) il premio più ambìto, lasciando agli altri componenti del gruppo il secondo e terzo posto nella classifica. Appena due anni dopo, in occasione del “Premier Salon d’Art Photographique d’Ermont”, Mostra

fotografica inaugurata il 23 marzo 1968 presso la cittadina francese della Val d’Oise nel circondario pari-gino, in occasione del Gemellaggio con Adria, Giuseppe Mazzetto con-seguì la Medaglia d’argento. Nel frattempo la neonata Associazione pensò di aprire le porte ai giovani che per la verità giunsero numerosi. Tutti i soci, ma in particolare Maz-zetto, si dedicarono alla formazione delle nuove leve, trasmettendo pas-sione e segreti del mestiere, compo-nenti fondamentali per chi ha a che fare con la macchina fotografica.Questa sua propensione alla forma-zione dei giovani fotografi ha reso altamente meritoria l’opera del “de-cano” Giuseppe Mazzetto, divenuto ormai indispensabile punto di riferi-mento dei fotografi dilettanti adriesi. Di carattere un po’ riservato, sempre dinamico e disponibile alla collabo-razione con chi dimostrava interesse verso la “sua” arte, questo fotografo “sui generis” coltivò sempre in cuor suo un amore smisurato per la città e per la sua gente, specialmente quel-la più genuina dei quartieri popolari di Canareggio e Borgo XXV Luglio. Usando strumenti fotografici un po’ arcaici, sempre però di buona preci-sione, è riuscito a mettere insieme un vero e proprio patrimonio documen-tario locale che attraversa quasi tutto il secolo Ventesimo. Nel tempo ha usato strumenti quali: Vest Pocket Ko-dak Model B, formato 4x7 (inizio se-colo, a soffietto); Agfa Isolate mono-obiettivo, formato 6x6 (a soffietto); Minolta Autocord, biottica, formato 6x6. Per i filmati invece si affidò solo alla vecchia e cara “Canon” a passo 8. Per tutta la vita ha catturato immagini di eventi locali importanti di carattere civile e religioso, ora custodite in decine e decine di al-bums suddivisi per argomento con

minuziose annotazioni didascaliche. Rispetto alle immagini riguardanti gli eventi civili (Guerra, Liberazione, Al-luvione 1951, eventi giubilari della Croce Verde, Antichi Mestieri, ma anche Manifestazioni del “Settembre Adriese” quali: Galleggiante, Gare Sportive, ecc.) sono preponderanti quelle che documentano gli eventi religiosi celebrati in Adria nel seco-lo scorso, a partire dagli anni ’30. In questo settore ha accumulato un Archivio fotografico unico nel suo genere. Esso comprende l’ingresso di vescovi e parroci in cattedrale; ce-rimonie per celebrazioni centenarie con intervento di porporati, vescovi e prelati di altre diocesi; eventi re-ligiosi della parrocchia della Tomba retta dai Padri Cappuccini a partire dal 1914. Ed ancora altri eventi re-ligiosi di chiese e parrocchie cittadi-ne, Feste quinquennali del Crocifisso Miracoloso alla Tomba e della B. V. del Rosario in Cattedrale. Non van-no poi dimenticate le cerimonie Cen-tenarie del 1982 per la presenza in Adria delle Figlie della Carità (Ca-nossiane), delle Figlie di Sant’Ange-la Merici (1994) e per eventi legati alle Suore Serve di Maria Riparatrici. Per questo si può dire che Giuseppe Mazzetto ha messo insieme l’archi-vio fotografico a carattere religioso più importante della città e della dio-cesi. Tra le Mostre fotografiche da lui curate, spiccano soprattutto:- 1970 - La retrospettiva su Adria in

collaborazione con il Foto Club;- 1976 – 25° dell’Alluvione 1951

in collaborazione con il Foto Club;

- 1981 – 50° del Campanile della Tomba;

- 1982 – I° Centenario delle Suore Canossiane;

- 1983 – I° Centenario di consa-crazione della Cattedrale;

Fedele testimonedi un secolo di storia

GiuseppeMazzetto

di Aldo Rondina

Ha vissuto cent’anni coltivan-do in cuor suo una grande passione per la fotografia!

Questo, in estrema sintesi, potrebbe essere l’elogio funebre dedicato a Giuseppe Mazzetto, recentemente scomparso. Fu proprio la passione per la fotografia a renderlo fedele testimone di un intero secolo di sto-ria adriese. Un traguardo raggiunto serenamente, privilegiando sempre i grandi amori della sua lunga esi-stenza: la famiglia, il lavoro, la città che lo accolse quand’era ancora un ragazzo e la macchina fotografica, unico strumento di svago nelle poche ore di riposo. Fotografo dilettante e autodidatta, attraverso lunghe spe-rimentazioni apprese tecniche di sviluppo delle immagini tali da farle sempre distinguere tra tante. Si può dire che le sue foto fossero segnate

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STORIE

- 1984 – 2° Centenario dell’ulti-ma consacrazione della Basilica della Tomba e allestimento di una Mostra fotografica permanente presso la Basilica;

- 1991 – 80° di Fondazione della “Croce Verde”;

- 1994 – I° Centenario delle Suore Figlie di Sant’Angela Merici (An-geline);

- 1994 - 50° di Sacerdozio di mons. Lino Dalla Villa, Arciprete della Cattedrale;

- 1995 - 40° Anniversario della 2^ Guerra Mondiale in occasio-ne della presentazione del volu-me “Polesine 1944-45, Guerra e Liberazione”;

- 1993-1994-1995 – Rassegna annuale di foto raccolte tra gli anziani ospiti del “Centro Servizi Anziani di Adria” dal titolo “Una volta c’era...”;

- 1996 – Personale in occasione

del 30° di fondazione del Foto Club Adria.

Nel corso della sua lunga attività di fotografo dilettante Mazzetto ha partecipato a centinaia di Concorsi svolti in Italia ed all’Estero ottenen-do sempre risultati assai lusinghieri. Nella raccolta di trofei personali si possono contare: 8 medaglie d’oro ottenute quali primo premio; 18 me-daglie ottenute in seguito a parteci-pazione a Concorsi internazionali; 57 medaglie ottenute per la parte-cipazione a Concorsi Nazionali. A questi vanno aggiunte decine di coppe, placche e targhe conservate con la cura certosina del collezioni-sta. Gli attestati conseguiti proven-gono non solo dalle più importanti città e località italiane ma anche da vari Paesi europei, dall’Asia e dalle Americhe. Documenti preziosi che meritano da soli particolare at-tenzione perché, nel loro insieme,

vanno a formare una interessante rassegna di scrittura mondiale con la rappresentazione di alfabeti diversi tra i quali spiccano caratteri cirillici, giapponesi ed arabi. Tra tutti i Premi ricevuti tuttavia, il più prestigioso ed apprezzato dall’Autore rimase quel “riconoscimento speciale di abilità fotografica” rilasciatogli nel 1969 dal Settimanale “Oggi”, che lo scel-se tra le 23mila fotografie pervenute da ogni parte d’Italia. Un patrimonio così prezioso non può andare di-sperso. Gli Archivi locali potrebbero ospitare queste raccolte di grande valore messe insieme con grande attaccamento alla città ed all’arte fotografica da Giuseppe Mazzetto, il “Maestro dell’immagine” che ha salvato un secolo di storia cittadina e polesana.

Adria, Corso Vittorio Emanuele IIGiuseppe Mazzetto (terzo da sinistra), in occasione dell’inaugurazione della Mostra documentaria “Polesine 1944-45 - Guerra e Liberazione”, sabato 1 giugno 1996

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PASSATO REMOTO

di Andrea Pirani

Pittore di maioliche, poeta,uomo del rinascimento italiano

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PASSATO REMOTO

Ventiquattro gennaio 2007!!! Londra si sveglia coperta da una leggera coltre bianca...

ciò rende il paesaggio molto sugge-stivo, ma, per quanto ci riguarda, seppur affascinante, non è l’elemento di maggior interesse di quel giorno. Infatti è il giorno in cui l’Associazio-ne Xanto Avelli di Rovigo rappresen-ta la Città quando l’Ambasciatore italiano a Londra inaugura la prima mostra internazionale dedicata a Francesco Xanto Avelli da Rovigo. In quel momento l’Associazione rap-presenta una città forte per le creden-ziali che lo stesso Xanto le diede cin-quecento anni prima richiamandola costantemente nei suoi lavori, descrivendo la sua terra nata-le in modo assolutamente inequivoco: “Ne il mio natio paese immerge et inonda/l’Adice altero, tra le valli e’l monte/ Ch’in-nalza d’Este le fattezze conte/Con quanto d’Adria il sit’ orna et circon-da”. Ebbene, proprio grazie all’importanza che la Città di Rovigo assu-me sulla scena internazionale, l’Associazione Xanto Avelli ot-tiene in quei gior-ni i diritti che poi le consentiranno di pubblicare l’edizione italiana dell’opera che si caratterizzerà per la sua eccezionale veste grafica ma soprattutto per gli spunti che saprà offrire sotto diversi profili: storico e

umanistico oltre che artistico e, non a caso, in Inghilterra vince il primo premio della critica per il miglior catalogo artistico per l’anno 2007. Fu netta la percezione di ciò che stava accadendo in quei momenti: la valorizzazione di un patrimonio culturale che ci apparteneva e del quale ci sentivamo perciò parte in-tegrante, il consolidarsi di concetti quali memoria, radici, e quindi sen-so ed orgoglio di appartenenza ad una comunità. Una precisa conferma dell’importanza della conservazione e valorizzazione del patrimonio cul-turale per il recupero di una precisa identità per l’individuo, per la co-

munità ed il suo territorio. Non so se sia azzardato dire

che dopo questa espe-rienza il percorso che

ci portò successiva-mente all’acquisi-zione di un’opera di Xanto era in qualche modo già tracciato, ma di sicuro molte “strane coincidenze” segnarono il cammino che ci condusse alla felice conc lus ione di quello che ancora oggi viene definito

come un’impre-sa per Rovigo.

Basti pensare per esempio alle inaspet-

tate, ma fortunate e determinanti conoscenze

del dott. Ciaroni della Casa Antiquaria Altomani di Pesaro

e di Padre Negroni da Urbino, a seguito della ricerca che intrapresi

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REM

per ottenere riscontri della presenza della famiglia di Xanto nella Rovigo del 500. Di Xanto artista, poeta, uomo del rinascimento italiano, si è comunque detto e scritto molto, così delle sue opere, gelosamente cu-stodite nei più importanti musei del mondo, ma sulla storia della sua vita, dalle origini “rovighensi” alla quoti-dianità della sua esistenza poco o niente si è scritto e indagato, anche per le oggetive difficoltà di reperi-mento di fonti. Allora credo interes-sante oggi cominciare a soffermarsi su tali aspetti partendo dal seguente interrogativo: stiamo parlando di Francesco Santini da Rovigo detto Francesco Xanto Avelli? Beh! Molti elementi ci porterebbero in questa direzione, vediamoli (anche il Mal-let, soprattutto dopo i ritrovamenti di Padre Negroni, sembra oramai de-cisamente convinto di ciò). Poco pri-ma della sua scomparsa, ebbi infatti modo di parlare con Padre Negroni da Urbino il quale mi fece avere co-pia (tramite il Dott. Ciaroni di Pesa-ro) di estratti di preziosi documenti che egli aveva ritrovato. Nel giorno “8 gennaio 1531 Urbino c/o San Francesco, Angelo Buzi da Peglio abitante in Urbino, fa quietanza al magistro Francisco Santini de Rovi-go, civi Urbini, presenti, et stipulanti et recipienti (riceventi) per se e per eredi a nome di donna Finalissa, sua moglie, per la somma di 50 fiorini...” Da quanto emerge dal documento, Finalissa è la moglie di Santini, già vedova quando sposa il Santini, e si dichiarerà vedova del Santini da Rovigo intorno alla fine del quarto decennio del Secolo Decimo Sesto. Quanto sopra inoltre dimostra che nel 1531 il Santini era maestro e civi di Urbino, di rango quindi appena inferiore a quello di nobile e già in una buona posizione sociale ed eco-

nomica. Nell’agosto del 1530 inve-ce era ancora in bottega di Nicola di Gabriele Sbraghe (erroneamente chiamato Pellipario) e viene citato dal maestro nel gruppo degli sciope-ranti. Come dicevamo nel 1531 è già definito maestro: il primo piatto a noi pervenuto, siglato F.X.A.R è del 1530, mentre, probabilmente l’ulti-mo firmato, “Ero e Leandro”, attual-mente custodito presso il Museo dei Grandi Fiumi di Rovigo, è del 1540. E’ logico quindi supporre che lo sciopero, qui sopra accennato, con il conseguente disaccordo tra Nico-la di Gabriele e il Santini lavorante, abbia portato alla rottura del rappor-to di lavoro e che il Santini, da quel momento, abbia messo bottega in proprio, infatti, come abbiamo visto sopra, è nel ‘30 che compare la sua prima sigla.Il 7 agosto 1530 si denuncia infat-ti una vertenza sindacale aperta dai maestri e proprietari di bottega Federico di Giannantonio, Guido Merlini (Guido da Merlino), Guido da Casteldurante (Guido Duranti-no) Nicola di Gabriele, (Gabriele Sbraghe ex Pellippario) e Giovanni Maria di Mariano, venuti a cono-scenza di certi patti e convenzioni dei loro lavoranti di bottega per ottenere un aumento di stipendio e quindi costringere i padroni ad au-mentare i compensi in blocco. Questi lavoranti che tramavano lo sciopero erano Giovanni da Codignola (Coti-gnola), Pier Matteo Artoviti, Antonio di Lodovico Bochini, Pier Matteo di Casteldurante, Angelo Artovichi, Bicco Burnetta, Gian Battista Ange-lini, Francesco da Rovigo (Francesco Santini da Rovigo) e Michele da Fa-enza. Concordano tra di loro i capi bottega di non assumere nessuno di questi scioperanti ad una cifra supe-riore a quella che già percepivano,

se non con l’accordo degli altri ma-estri. Per i trasgressori del patto, una pena di 25 ducati d’oro da versare per metà alla fabbrica del Duomo di Urbino ecc. Come dice appunto Pa-dre Negroni nella rivista semestrale di Storia dell’Arte “Notizie da Pa-lazzo Albani 1/1985” Nicolò Pelli-pario: ceramista fantasma, pag.18, ”dovevano essere lavoranti qualifica-ti, giacchè tra essi si nota Francesco Santini da Rovigo (più noto come Francesco Xanto Avelli da Rovigo o Francesco Rovighense)”. Questi ele-menti, se da un lato lasciano pochi

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PASSATO REMOTO

dubbi sul fatto che quel Francesco Santini da Rovigo che lavora nella bottega di Nicola Sbraghe altri non sia che Francesco Xanto Avelli (ulteriore conferma potreb-be essere costituita dalla mancanza ad oggi di traccia che metta in relazione la Rovigo del cinquecento con la famiglia Avelli e, dal riscontro invece della presen-za della famiglia Santini tra i cittadini della Repubbli-ca di Venezia, tra coloro che potevano appartenere ”...anche alle città suddite... e in posizione agiata”), dall’altro stimolano ulteriori e interessanti riflessioni sul-la scelta di volersi (o doversi) modificare il nome in Fran-cesco Xanto Avelli. Uno spunto che ritengo molto inte-ressante potrebbe essere rappresentato dalla presenza in quel territorio di monasteri benedettini, camaldolesi e avellani (l’eremo di Fonte Avellana rappresentò per un lungo periodo uno dei centri monastici più importanti dell’Italia Centrale, avviatosi però alla decadenza nel XV secolo).Non si può escludere quindi che alla base di tali cambiamenti vi sia un coinvolgimento di tipo reli-gioso. O più comunemente potrebbe essere stata un’esi-genza di dover cambiare il proprio nome a seguito di una precipitosa e dolorosa fuga da Rovigo (“ove men-dici nell’altrui contrade avien ch’andiamo ad isfogar il pianto”) a seguito della compromissione della famiglia Santini nel susseguirsi delle dominazioni della Città in rapida successione da parte di Veneziani ed Estensi, in questo caso non va dimenticato che quei territori era-no popolati da rigogliosi noccioli (avellani). Che dire invece delle precoce cultura umanista di Xanto (del suo cosiddetto petrarchismo) che non sia già stato oggetto di riflessioni e di attente valutazioni da parte di eminen-ti storici come il Ballardini, il Cioci o lo stesso Mallet, soprattutto in riferimento ai quarantaquattro sonetti, di lode al Duca Francesco Maria I della Rovere, raccolti in un manoscritto ora custodito nella Biblioteca Vaticana? Come poteva la Rovigo del cinquecento concedere tali opportunità ad un ragazzotto sia pure di agiate condi-zioni? Una possibile risposta, che mi convince molto, viene da un recente convegno dove Sergio Garbato ipo-tizza che un ruolo determinante potrebbe averlo avuto a quel tempo la presenza della Scuola del Celio Rodigino. E se così fosse, ciò rappresenterebbe un’ulteriore confer-ma della forte esigenza di riscoperta dei “figli dimenti-cati” di questa terra (come Garbato spesso ci ricorda), quale opera indispensabile per una comunità che deve interpretare con consapevolezza il proprio ruolo oggi, e, soprattutto io credo, per la responsabilità che deve sentire verso le future generazioni.

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SAPORI E SAPERI

di Romolo Cacciatori

Una deliziaed un vanto per l’Italia,che tutto il mondoci invidia.Ma anche il Polesinedelle zone golenali,con specieanche pregiate,fa la sua parte.

Tartufo:Re della tavola,aristocratico,prezioso e...costosissimo

Nel mese di novembre arriva l’incontrastato “Re della tavola”, miste-rioso vegetale: iI tartufo. Prolifera nel buio della Terra sollecitando la fantasia e l’immaginazione dei buongustai, con valore simile alle

pepite d’oro. E se è vero che lo troviamo durante tutto l’anno, il periodo migliore per le sue qualità è fra novembre e gennaio, quando la brina sale dalla terra. Il tartufo è un fungo che si trova sottoterra, ha forma di tubero, è costituito da una massa carnosa (gleba), rivestita da una sorta di corteccia (perizio). É classificato in diverse specie ma le principali sono: il Tartufo bianco (Magnatum pico) il re dei tartufi, per profumi e sapore, da ottobre a dicem-bre è presente in Piemonte (Alba), nelle Marche (Acqualagna) e in Umbria; anche nel Polesine e nella zona di Barbarano Vicentino (forse di qualità non paragonabile...). Il pregiato Tartufo nero (Melanosporum Vittadini), pregiato di Norcia, dal profumo marcato gradevole, presente da novembre a marzo

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in Umbria e nelle Marche. Altre varietà sono: Bianchetto o Marzuolo (Albidium pico,o tuber borchii) presente in Piemonte, nell’Italia Centrale e nel Polesine da gennaio ad aprile. Lo Scorzone, (Aestivum Vitt) tartufo d’estate e il Tartufo invernale o Trifola nera (Brumale vitt.), presenti in molte regioni italiane, compreso Veneto. Tranne i primi due che non vogliono assolutamente essere cucinati gli al-tri partecipano alla cottura del cibo, insaporendolo. Que-sto diamante della terra, come lo definì Brillat-Savarin, ha avuto sempre fin dall’antichità grandi estimatori. I tartufi, furono riservati, nei secoli, alle tavole dei potenti, offerti come omaggio a nobili e sovrani, sempre ricercatissimi per la loro bontà e per la loro qualità afrodisiaca. I Greci ed i Romani ne andavano pazzi. Lo chiamavano “trufole terrae” (rigonfiamento della terra), da cui il dialettale trifo-la. Ma anche nel Medioevo, questo nobile tubero era ap-prezzato, particolarmente, in Italia. Si dice che Caterina de’ Medici oltre all’arte di presentare la tavola ed i cibi in tavola, portò al suo sposo il re di Francia Luigi anche que-sto nobile tubero ed il modo di apprezzarlo. La storia del tartufo in Italia e la su diffusione a livelli attuali, parte nel 1929 ad Alba da Giacomo Morra, albergatore e risto-ratore, che per primo ebbe l’intuizione di fare del tartufo un oggetto di culto dandogli il nome di “Tartufo d’Alba” e legandolo a momenti di richiamo turistico ed eno-gastro-nomico con la costituzione della “Fiera del Tartufo”, diven-tata sinonimo di Alba. Nel 1949 ebbe, inoltre, la brillante idea di regalare un esemplare importante all’attrice Rita Hayworth. Da allora grandi personaggi politici, artistici e della cronaca furono omaggiati con il prezioso tubero. Ora il tartufo è diventato un vero e proprio re della tavo-la e numerose sono le manifestazioni eno-gastronomiche legate a questo frutto della terra, in tutto il territorio nazio-nale, dove avviene la raccolta. Parlando di questo fungo abbiamo citato più volte: Alba, Norcia o Acqualagna, con il loro tartufo bianco e nero. In realtà questo tubero è fortemente presente anche nel Veneto e nel Delta del Po. Il comune di Papozze, per molti versi, ha contribuito a far conoscere questa sua eccellenza anche fuori dai confini della provincia. Tutta l’area golenale e soprattutto l’isola del Mezzano, famosa per la sua villa settecentesca e per la cappella dedicata a San Carlo Borromeo, a perenne ricordo della sosta a Papozze del grande vescovo nella notte tra il 7 e l’8 febbraio 1508, era una vera e propria miniera con splendidi tartufi di tutte le dimensioni. Perché proprio le golene? La risposta ci viene da Vittoria Barbie-ri, che dopo la scomparsa di Fortunata Soldati, l’ultima “Tona”, è rimasta la memoria storica dell’antico locale,

dove da sempre il tartufo è protagonista in tavola. Lei non ha dubbi, la zona era così ricca del prezioso fungo perché le spore vengono trasportate dal fiume Po, duran-te il suo viaggio dal Monviso al mare. Quando il centro abitato “Piazza Cantone” sorgeva tutto in golena, in un singolare abbraccio con il grande fiume, l’arte del “tartufi-no” o del “trifolaro” (cercatore di tartufi) era molto diffusa. Il “tartufino”, ancora oggi, non agisce da solo ma insieme al suo cane perfettamente addestrato, non necessariamen-te di razza. Anzi i così detti cani da pagliaio, dalle gene-alogie incerte e confuse, sono i più bravi, hanno infatti nel naso l’abitudine di cercare quel po’ di cibo che serve a sopravvivere. Il cane scorazza ed annusa e all’improvviso inizia a raspare e a guaire, arriva allora il padrone che con una zappetta di ferro e con grande attenzione allarga la piccola buca e con le mani estrae il tartufo e lo porta al naso per fiutare l’intenso e persistente profumo, e al fedele compagno subito un pezzo di pane. Ma negli anni ses-santa il centro abitato di Papozze venne interamente tra-sferito nella zona attuale, a cura e spese dello Stato, e le arginature, sino a tutti gli anni settanta, furono interessate da imponenti lavori di rinforzo e rialzo con conseguente pesante trasformazione dell’habitat golenale ed anche la proliferazione del tartufo diminuì. Da anni ormai le aree golenali e quelle a piano campagna, prossime alle argi-nature, godono di una certa tranquillità, e pertanto si è ricreato l’habitat ideale per la vita del tartufo. C’è qualche abitante molto intraprendente che ha anche fatto di più perché ha da anni impiantato una tartufaia con querce micorizzate, il risultato è sorprendente, raccoglie dell’otti-mo “scorzone” o tartufo nero estivo (Tuber Aestivum) e del “bianchetto” (Tuber Borchii). Va ovviamente ricordato che anche nelle tartufaie la raccolta avviene, come nelle aree aperte, con cane e zappetta.Dall’ottobre 2007 è ufficialmente nata l’”Accademia del tartufo del Delta del Po”, nell’ufficio del Notaio Livio Pen-zo di Adria; la sede manco a dire a Papozze. Il sogno dell’Accademia è quello di dare un contributo alla cono-scenza di questo territorio unico, attraverso le sue pecu-liarità e, nel caso specifico, il tartufo ci sembra un ottimo veicolo. É bello pensare e sperare che una nuova stagio-ne stia per avere inizio.All’Accademia possono aderire tutti coloro che condivido-no le finalità dello statuto, l’adesione è aperta anche ai ristoratori, i quali si devono impegnarsi di inserire nei loro menù piatti con tartufo. Come conservare il Tartufo appena colto: il tartufo bianco sicuramente è più facilmente deperibile, mentre per i vari

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SAPORI E SAPERI

tartufi neri l’operazione di conservazione, anche se per periodi limitati, è più attuabile. Le precauzioni da tenere sono varie e non sempre tutte in accordo fra di loro.Le pratiche più diffuse nella realtà familiare:• in acqua fresca corrente;•avvolto nella carta;•a bagnomaria ;• sotto burro;• in acqua salata;• sotto Marsala;•essiccato;• in un vaso chiuso;• immerso nella farina di mais;• immerso nel riso (solo se si fa un buon risotto);•nella cera, nella cenere o sotto sabbia (metodi fra i più antichi).Conservazioni attuate nell’industria: • liofilizzazione e/o congelamento;• trasformazione in paste nei tubetti, nei vasetti, nel patè, nelle terrine o sott’olio;•Creazione di olio e burro al tartufo per aiutare la cottu-ra dei cibi a base di tartufi “deboli”.Non parliamo poi delle sofisticazioni che possono essere attuate, una per tutte: racchiudere in un vaso tartufi di diversa qualità che in questo modo riescono a trasferirsi il profumo. Solo nel momento del consumo si potrà capire che non tutti sono dello stesso livello. Occhio anche ai vari oli al tartufo anche con qualche pezzettino del tubero presente, quasi sempre prodotti chimicamente.Abbinamento con Il vino: questo “Cibo degli Dei” deve essere accompagnato da vino altrettanto importante. La difficoltà nell’abbinamento sta, principalmente, nel fatto che il tartufo accompagna ma tende a sovrastare con i suoi profumi e i suoi sapori, il piatto. Quindi occorre te-nere presente che il vino deve fronteggiare con un buon corpo ma deve presentarsi con profumi naturali della ter-ra. Il tartufo nero è meno impegnativo dato che tende ad accompagnare in modo più discreto i piatti.Io credo che sugli abbinamenti ci siano delle “scuole di pensiero” che possiamo ricondurre alle Regioni in cui tro-viamo il tartufo bianco e che, quindi dominano la scena. Il Piemonte e le Marche dettano legge perché qui si trovano i tartufi bianchi di livello superiore: Alba ed Acqualagna si contendono il primato della qualità. La regola aurea imporrebbe un accostamento del vino al piatto cucinato, secondo principi generali, ignorando il tartufo. Abbiamo diverse proposte:in Piemonte, il vino proposto per tutto pasto, è essenzial-

mente un vino rosso di pieno corpo dal sapore asciutto e profumi erbacei (Nebiolo, Barolo, Barbera ma anche Ca-rema). Altre proposte che provengono da questa regione ma anche da altre che suggeriscono alcuni vini bianchi per gli antipasti, (Erbaluce della zona di Ivrea, Cortese di Gavi, Bianco del Metauro, Verdicchio nelle Marche o Or-vieto Umbro). Sono vini che ben si adattano agli antipa-sti, al pesce, e anche alle uova con il Tartufo. In Umbria, Toscana, Marche e Lazio è molto diffuso l’accostamento di questi piatti d’inizio con vini a base di Trebbiano men-tre i Rossi asciutti del luogo accompagnano poi il resto dei piatti. In questa ottica e secondo queste regole che non sono scritte ma sono applicate dove si consumano i tartufi bianchi più pregiati, cerchiamo anche noi veneti di abbinare il piatto di carne con tartufo bianco con un vino locale che potrebbe essere un Ripasso Valpolicella e se troviamo succulenza anche un Amarone potrebbe starci bene. Oppure, con il classico ovetto al tartufo o dei taglio-lini al burro al tartufo anche un Soave, un Gambellara o un Breganze bianco potrebbero fare la loro bella figura, magari scegliendoli con poca acidità. Per quanto riguar-da “gli stuzzichini del Buffet al tartufo”, basati su prodotti non impegnativi, consigliamo uno spumante morbido ed accattivante: Prosecco, naturalmente.

Ricette di ieri e di oggi:•Tagliatelle al tartufo•Crema di patate con uova di quaglia e tartufo•Faraona al tartufo, grande piatto, il più famoso, della

“Tona”•Uova al tegamino e tartufo•Zuppa di legumi e tartufo

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SAPORI E SAPERI

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Ricetta eseguita da Germana Lorenzetti

Crema di patatecon uova di quaglia e tartufo

preparazione: 60 minuticottura: 20-25 minutidifficoltà: media

ingredienti per 6 persone:1500 g di patatebrodo vegetale1 porro2 fogli di pasta sfoglia6 uova di quaglia1 uovo di gallina50 g di burro50 g di grana in scagliesale, olio, pepe q.b.

Affettare il porro, pelare e tagliare a pezzi piccoli le patate. In una pento-la scaldare l’olio e il burro, versare i porri e farli appassire a fuoco lento.Dopo 3 minuti aggiungere le patate e cucinare il tutto per ulteriori 3 minuti.

Versare il brodo vegetale caldo, ag-giustare di sale e pepe, portare ad ebollizione per 30 minuti, a cottura ultimata frullare il tutto sino ad ottene-re una crema densa.

Nel frattempo:- preriscaldare il forno a 200°;- stendere la pasta sfoglia e fare

dei dischi un po’ più ampi della circonferenza delle cocotte, per consentire la copertura totale;

- grattuggiare il formaggio grana;- preparare il tartufo in scaglie;- sbattere l’uovo di gallina.

Versare in ogni cocotta: la crema di patate, un uovo di quaglia, sale, pepe, un filo d’olio, alcune scaglie di grana e le scaglie di tartufo.

Infine chiuderle con la pasta sfoglia e spennellarle con l’uovo di gallina.

Mettere ogni cocotta sulla piastra da forno aggiungendo sulla stessa un dito di acqua, infornare il tutto per circa 25 minuti.

Togliere dal forno e servire accompa-gnando il piatto con un vino Nobile di Montepulciano. Buon appetito!

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PROGETTI

Una di queste micro iniziati-ve è la Biblioteca di Mimì: un’idea per recuperare, pre-

servare e condividere i documenti conservati nelle abitazioni dei priva-ti. Ogni persona infatti crea e pos-siede un archivio, un “magazzino” composto di documenti, fotografie, lettere, cartoline, vari materiali che si accumulano per trasformarsi da me-moria del presente a testimonianza del passato. Natalino Balasso, nella sua rubrica sullo scorso numero di REM, scrive che siamo occupati a riprodurre la realtà anziché viverla, “senza contare che una volta scatta-te migliaia di foto e dopo aver girato ore di filmati della nostra vita, dove lo troveremo il tempo per vedere tut-to?”. La Biblioteca di Mimì vuole an-dare oltre, valorizzando attraverso la pubblica fruizione il patrimonio di storia recente e cultura locale custo-dito dai legittimi proprietari, creando un punto d’incontro tra persone che mettono a disposizione i loro docu-menti e alcuni studiosi che le aiutino a organizzare un archivio privato ma condivisibile. Lo spirito di questo periodico svela molte affinità con le ambizioni della Biblioteca di Mimì: scavare nella storia del proprio ter-ritorio, dare voce a personaggi di-menticati, migliorare la percezione del mondo attraverso un impegno concreto e un’esaltazione delle ric-

chezze nascoste o meno appetibili dal punto di vista strettamente com-merciale. Anche questo progetto è una sfida, perché la sua utilità non è immediatamente misurabile e non si adegua ai metri più diffusi della società odierna: vogliamo però ac-cumulare esperienze, legami e forze per affrontare e magari contrastare lo stato di decadenza che vediamo avanzare o che ci ha già avvolti. Siamo qui dunque vostri ospiti per condividere le prime impressioni del nostro studio, incitati dal confronto con un pubblico sicuramente dispo-nibile all’ascolto. Il maggior ostacolo alla realizzazione del progetto sta nella naturale e comprensibile paura che i ricordi della propria vita e della famiglia vengano “estirpati” dal luo-go d’origine, impedendone il con-trollo affettivo ai diretti interessati. La

soluzione ci arriva dalla tecnologia informatica, in particolare dal web, strumento capace di farsi ponte tra la storia passata, la conservazione futu-ra e l’azione presente per raggiunge-re due obiettivi: il recupero di mate-riale trascurato o destinato all’oblio e la nascita di una consapevolezza diffusa, e quindi di un’iniziativa loca-le e personale, verso lo studio delle possibili fonti storiche che si costrui-scono sotto i nostri occhi. La Bibliote-ca di Mimì vorrebbe infatti stimolare un’attività di gruppo per individuare e selezionare documenti privati rite-nuti di interesse pubblico, acquisen-doli a domicilio in formato digitale, in collaborazione con le biblioteche civiche, nel ruolo di garante e di sup-porto istituzionale. Il coinvolgimento delle biblioteche vorrebbe assicurare una duplice veste di professionalità e affettività, che rappresentano l’ani-ma del progetto: all’indispensabile competenza tecnica per il recupero e la gestione dei documenti si deve aggiungere una spiccata sensibilità verso le persone che accolgono il gruppo in uno spazio intimo e riser-vato. Inoltre, le biblioteche da alcuni anni hanno costruito un connubio tra il radicamento sul territorio e l’aper-tura ad un contatto potenzialmente senza confini, tramite l’associazione in sistemi, presenti anche su Inter-net, che permettono di condividere

di Marcella Valbusa

“Memoria e Futuro” è un’associazione culturale senza fini di lucro nata per valorizzare la creatività progettuale dei citta-dini e le loro capacità di realizzare iniziative e progetti a carattere civico e culturale. Dalla convinzione che il Paese abbia un gran bisogno di una “rivoluzione progettuale dal basso”, di individui che vogliano comportarsi da cittadini attivi e intraprendenti e non rassegnarsi ad essere sudditi passivi, sono nati progetti di argomenti anche molto diversi, ma con tre elementi comuni: idee socialmente utili, giovani e tecnologia.

La biblioteca di Mimì

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I COLLABORATORI DI QUESTO NUMEROPROGETTI

ogni risorsa, dal patrimonio agli utenti. Sfruttando questa rete reale e virtuale, i documenti digitalizzati diventeranno subito consultabili da ogni utente e disponibili per ogni tipo di attività culturale, ma non solo, il proprietario del materiale origina-le potrà partecipare attivamente al suo archivio. La Biblioteca di Mimì vorrebbe perciò coinvolgere tutti co-loro che ritengono di possedere o di poter accedere ad archivi di interes-se pubblico, dai singoli privati alle associazioni, dalle aziende agli enti pubblici. Il progetto si propone di creare gruppi di lavoro locali, coor-dinati negli aspetti formativi e tecnici da una squadra di referenti di rete: le iniziative territoriali vengono po-tenziate dall’appoggio di personali-tà competenti che innesca un circolo virtuoso di rapporti umani e profes-sionali. Il nostro metodo di lavoro si sta appunto muovendo su due bina-

ri: da un lato la definizione di una procedura efficace e flessibile per il trattamento dei documenti, dall’altro la realizzazione e il mantenimento di una rete di contatti tra utenti del ser-vizio, operatori ed enti di riferimen-to. Attualmente il progetto è in fase di sperimentazione in una comunità locale ristretta per mettere alla pro-va il sistema teorico e per valutare tempi e costi dell’acquisizione dei documenti. Tutti gli sviluppi sono di-sponibili all’indirizzo: http://www.memoriaefuturo.it/memoriaefuturo/memoria-locale-documenti-privati-resi-pubblici/ dove trovate anche i nostri contatti e gli aggiornamenti su tutte le attività collegate. Aspettiamo i vostri commenti, le vostre curiosità e magari la domanda che ci farebbe più piacere: “Possiamo provarci an-che noi?”

Natalino Balasso è nato a Por-to Tolle nel 1960. È autore e atto-re di teatro, cinema, radio e tele-visione, ha debuttato in teatro nel 1991, in televisione a fine anni novanta, in cinema nel 2007 e ha scritto alcuni libri di narrativa fra cui “Il figlio rubato”, appena usci-to presso l’editore Kellermann.

Romolo Cacciatori è nato a Rovigo ma da molti anni risiede a Padova. Ha lavorato in di-verse aziende ricoprendo ruoli importanti nell’ambito dell’orga-nizzazione e della gestione ma-nageriale. A questa attività si è sempre accompagnato un grande interesse per il mondo dell’enoga-stronomia, diventando, tra l’altro, un grande conoscitore delle tradi-zioni culinarie della nostra regio-ne. È attualmente Presidente del Veneto e Consigliere Nazionale della “Chaine de Rotisseurs”, la più antica e diffusa associazione enogastronomia del Mondo, pre-sente in più di 84 paesi.

Daniele Capra è giornalista, critico d’arte, curatore indipen-dente di eventi artistici e culturali, insegnante di piano. Editor della rivista d’arte Exibart.com, della ri-vista culturale ed economica Nor-dest Europa del gruppo l’Espresso e membro del Comitato di pilotag-gio del “Comodamente” festival.

Milena Dolcetto, pubblicista, si è diplomata in pianoforte e musica vocale da camera al Conservato-rio “Venezze” di Rovigo. Collabo-ra con riviste musicali specializza-te, quotidiani (è corrispondente dal 1996 della pagina cultura e spettacoli de “Il Gazzettino”) ed enti teatrali. Ha pubblicato saggi: ”Insieme per cantare - l’esperien-za corale di Giorgio Mazzucato - Rovigo 1973 –1998” edito da Minelliana e tiene conferenze di

competenza musicologica.

Sergio Garbato è una firma storica della pagina culturale del Resto del Carlino di Rovigo, città nella quale è nato ed in cui risie-de. E’ laureato in lingue e lettera-ture straniere ed ha insegnato per molti anni nella scuola superiore. E’ autore di moltissimi articoli, saggi, libri dedicati ai più svariati aspetti culturali della terra polesa-na (e non solo). E’ stato promo-tore e curatore di svariate mani-festazioni culturali in provincia di Rovigo ed in altre città del Veneto.

Germana Lorenzetti è nata a Mesola. Cuoca per passione, hobby a cui dedica gran parte del suo tempo libero. Ha frequen-tato i corsi AIS (Associazione Ita-liana Sommelier).

Stefano W. Pasquini è nato a Bologna nel 1969. É artista, cu-ratore e scrittore. Ha esposto in numerose gallerie, tra cui la Na-tional Portrait Gallery (Londra), Casco (Utrecht), ICA (Londra), Art in General (New York), Neon (Bo-logna), ONI (Boston), melepere (Verona). É autore di “Acciden-tal//Coincidental”, Newhouse, New York, 2008, ed editore del magazine “Obsolete Shit”.

Andrea Pirani è nato a Castel-massa nel 1950, è laureato in Scienze Politiche, indirizzo stori-co, presso l’Università degli Studi di Padova. In qualità di Dirigente alla Cultura del Comune di Rovi-go, alla fine degli anni novanta, ha contribuito alla nascita del Museo dei Grandi Fiumi assieme a Gabbris Ferrari e Raffaele Pe-retto. Ha promosso la costituzione di alcune associazioni di coope-razione decentrata e culturali. Dal 2006 è presidente dell’Associa-zione Xanto Avelli di Rovigo che

nasce per favorire la creazione del Distretto Culturale Polesano. Attualmente ricopre l’incarico di dirigente del settore Cultura del Comune di Rovigo.

Aldo Rondina è nato ad Adria nel 1937, da sempre si occupa di storia locale, collaborando con riviste e periodici locali con articoli rigurdanti l’ambiente pole-sano. Ha pubblicato molti volumi sulla storia del Polesine fra i qua-li, recentemente, “Adria. La città, le sue vie, la sua storia”, dove ha svolto un lungo lavoro di stu-dio degli avvenimenti che hanno attraversato le diverse epoche, restituendo nella sua preziosa ri-cerca il quadro storico oggi più completo della città etrusca.

Jahangiri Shahnaz è nata in Iran nel 1959. Vive in Italia dal 1988 con la sua famiglia. Ge-stisce a Porto Viro un negozio di tappeti persiani. É mediatrice cul-turale ed attiva nel volontariato.

Sergio Sottovia è nato a Cre-spino nel 1946. Pubblicista dal 1990, ha respirato l’aria sportiva dei campi di calcio, come gioca-tore dirigente della Fulgor Crespi-no. Benemerenza sportiva della Figc, del Coni e della Provincia di Rovigo, è stato cronista e can-tastorie per il Resto del Carlino e per Areasport Rovigo. Tuttora collabora con Delta Radio e con alcune testate venete. Ha pub-blicato la trilogia “Polesine gol” (circa 100 personaggi del calcio polesano) e la storia degli “Olim-pionici & Gentlemen” nel libro edito per i “50 anni del Panathlon Rovigo”.

Vainer Tugnolo è nato a Porto Viro. Laureato in economia e com-mercio, svolge una professione in ambito amministrativo. Opera nel

territorio del Delta del Po come Guida naturalistico-ambientale. E’ cofondatore dell’Associazione Culturale Magnacharta di Porto Tolle. Marcella Valbusa è nata a Ve-rona nel 1986. Laureata in Lettere Moderne e Contemporanee a Ve-rona, sta conseguendo un Master in Bibliotecario Documentalista presso l’Università di Padova. Dal 2005 lavora come biblioteca-ria in varie istituzioni della provin-cia di Verona e collabora con il Museo Etnografico del suo paese natale.

Margherita Vanore, Archi-tetto, è Professore Associato in Composizione Architettonica e Urbana presso l’Università IUAV di Venezia, dove insegna Proget-tazione per i Corsi di laurea in Scienze dell’Architettura e Magi-strale in Architettura per il Paesag-gio ed è referente dell’Unità di ri-cerca “Architettura e Archeologie dei Paesaggi della produzione”. Curatrice di varie mostre, conve-gni e seminari - tra cui nel 2009 il convegno internazionale “Luoghi dell’archeologia e usi contem-poranei”- è project coordinator di un workshop internazionale interfacoltà Erasmus Intensive Pro-gramme, giunto nel 2010 alla sua seconda edizione.

Roberta Veronese è nata ad Adria, laureata in Filosofia a Bo-logna, ha conseguito un Master in Studi Interculturali all’Università di Padova. Ha vissuto a lungo in Germania e a Parigi, ha recente-mente collaborato con l’Alto Com-missariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, attualmente vive a Roma.

Galleria di Palazzo Roverella ROVIGO14 novembre - 23 dicembre 2010

Orari di apertura della mostraLunedi non festivo CHIUSOmattino: da martedì a domenica 9.30-12.30pomeriggio: martedì, giovedì, sabato, domenica 17-20

Palazzo Roverella I Via Giuseppe Laurenti, 8 I Rovigo tel. 0425.460093 I fax 0425.27993e-mail: [email protected]

Visite guidate e laboratori didattici su prenotazione:Cedi-Turismo e Culturatel. 0425.21530 I fax 0425.26270e-mail: [email protected]

Iniziativa regionale realizzata in attuazione della L.R. 5.9.1984, n.51

TONOZANCANARO

Accademia dei Concordi

Con il patrocinio del

Comune diRovigo

Archivio StoricoTono Zancanaro

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BANCADRIA

BANCADRIA e la Cultura

Nel primo numero di REM ab-biamo ritenuto di rendere par-tecipi i lettori di come si andava

“concretizzando” la nuova banca nata a fine 2008, il 12 dicembre prossimo ne ricorre il secondo anniversario, a se-guito del processo di fusione tra le due storiche banche di credito cooperativo adriesi, la “Santa Maria Assunta” e la “Cattedrale”. In questa circostanza vo-gliamo parlare della “cultura”, di come e perché la nostra Banca collochi la “cultura” tra gli obiettivi della sua poli-tica aziendale, promuovendola e soste-nendola nelle sue più variegate espres-sioni. Tante sono le ragioni per questo nostro impegno. La prima, in assoluto, è data dalla stessa natura cooperativistica della Banca e trova espressione nello Statuto Sociale che all’articolo 2 te-stualmente recita: “...la Banca persegue il miglioramento delle condizioni mora-li, culturali ed economiche dei Soci e degli appartenenti alle comunità locali”,

dove la successione cronologica degli aggettivi non è certo casuale. Lo stes-so articolo 2 poi continua e termina: “...promuovendo lo sviluppo della coope-razione, l’educazione al risparmio e alla previdenza, nonché la coesione sociale e la crescita responsabile e sostenibile del territorio nel quale opera”. Un’altra significativa ragione la si trova nel “pro-getto cultura” della Banca, un conteni-tore dinamico di eventi e di attività fina-lizzate a vivacizzare le comunità locali e ad esaltarne le tipicità e le peculiarità. Eventi ed iniziative che promuovono, tra l’altro, la pubblicazione e la presen-tazione di libri di autori locali, le mostre di pittura, i concerti, la scuola. Parti-colare, forse unica e per questo degna di specifica menzione, la presenza della nostra Banca quale partner di un Istituto

di Alta Formazione Artistica e Cultura-le quale è il Conservatorio di musica di Adria “A. Buzzolla”. Altra ragione non meno importante è data dal modo in cui noi intendiamo fare banca, dove questa non sia più vista come mero erogatore di credito, o di contributo, ma quale soggetto in grado, con la propria azio-ne, di incidere sul tessuto economico e sociale, indirizzando le iniziative e gli interventi per uno sviluppo sostenibile ed a misura d’uomo. “Progetto cultura”, “Nuova banca” sono solo slogan, sono le etichette che abbiamo dato alle nostre scelte e, quindi, ai nostri comportamen-ti. Tutto ciò, comunque, per confermare che Bancadria vuole per davvero essere e crescere come “banca del territorio”, meglio ancora come “banca sul territo-rio”.

di Giovanni VianelloPresidente Bancadria

Foto di Mattia Mincuzzi

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Il pittore adriese Elvio Mainardi interpreta Bancadria

regala e regalati un abbonamento a

Abbonamento a 4 numeri € 20,00 - sul C/C postale 13325311 intestato a Spinello Paolo - IBAN IT10L0760112200000013325311

www.remweb.itRedazione, pubblicità e abbonamenti: tel. 0426.21500

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Una mostra al Septem Mària Museum / Ostello AmolaraVia Capitello 2, Adria (RO)

Dal 5 al 26 dicembre 2010Aperto venerdì, sabato e domenica dalle 17.00 alle 22.00, le domeniche e l’8 dicembre anche dalle 11.00 alle 13.00.

Chiusura 26 dicembre ore 18.00. Info: tel. 347.1024043 - 0426.21500

Una mostra a cura di Stefano W. Pasquini

con la collaborazione di REM, Cristiano Pinna e Chiara Astolfi.

Septem Mària Museum / Ostello Amolara

Dal 5 al 26 dicembre 2010

per la durata della mostra un'opera di Elia sarà esposta ad Adria da:

Argenteria 925 V e V

Argenti

Bar Cavour

Bar da Pina

Bar Ribose

Bar Sottoscala

Berti e Maestri

Cloè Abbigliamento

Different Cafè

Erboristeria Efedra

Foto Ottica Masarà

Il Pozzo dei Desideri

Istituto di Estetica Laura

Kookaburra

Liberty Cafè

Libreria Apogeo

Osteria Al Tolà

Osti Trend

Pub l’Orso

Ristorante Molteni

Robin Hood Sport

Tipografia Medici

Alessandro Greggio

RovigoFerrara

Padova

Adria centro

Ostello “Amolara”s.s. Romea

Ariano Polesine

Canal Bianco

Sul sito www.psq1.com/elia trovate un archivio di opere di Elia. Se siete in possesso di opere

o disegni di Elia siete pregati di fotografarli e inviare una copia a: [email protected]

L’Ostello Amolaraè anche ristorante e albergo.Per informazioni:tel. 0426.943035www.amolara.it

TuRISMO & CuLTuRA

si progetta & si lavora in cooperativa

Piazzale San Bartolomeo, 18 - Rovigo

Tel. 0425.21530 - 26270

www.turismocultura.it

un grande GRAZIE!alla famiglia Greggio

Page 48: REM 2 (2010) - Elia e la pittura universale

w w w. b a n c a d r i a . i tSede in C.so Mazzini, 60 - 45011 Adria (Ro) - Tel. 0426 941911

Pesca - Turismo Pesca d’altura

Vallicoltura Itticoltura

Molluschicoltura Attrezzatura

f inetic premia il meritof inetic