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El Campanò de San Giuseppe 2013

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El Campanòde San Giuseppe 2013

EL CAMPANÒ

DE SAN GIUSEPPE

Rivista di storia, società, tradizioni

a cura della

Biblioteca intercomunale “Luigi Dal Ri” di Mori

2013

Editore:

Redazione presso: Biblioteca intercomunale “Luigi Dal Ri” di Mori Via Scuole n. 7 – Tel. 0464 916260 Fax 0464 910684 mail: [email protected]

La redazione: Katia Angeli Paola Caneppele Marco Guidotto Renato Mattei Edoardo Tomasi

“El Campanò de San Giuseppe” esce ogni anno in occasione della Ganzèga d’autunno a Mori

Anno XXVIII – 2013

Aut. Tribunale di Rovereto n. 122 del 3.4.1986

Direttore responsabile: Marco Guidotto

Tiratura n. 800 copie

Per i numeri arretrati rivolgersi alla Biblioteca intercomunale di Mori

La collaborazione alla rivista è aperta a tutti. La Redazione lascia agli Autori la responsabilità delle opinioni e dei giudizi espressi. È fatto divieto di riprodurre, anche parzialmente, articoli ed illustrazioni senza fare riferimento alla rivista ed agli Autori.

Per inviarci articoli o per segnalazioni: [email protected]

In copertina: il campanile della chiesa di Loppio si specchia nelle acque dell’antico porticciolo del palazzo Castelbarco. Dettaglio della

2010 da Ivo Cipriani.

Indice

5 Editoriale. di Flavio Bianchi

Storia. Epoca medioevale8 Torri di fuoco e colonne di fumo. Antichi sistemi di segnalazione militare in uso anche in Trentino. di Carlo Andrea Postinger

Storia. Epoca moderna14 Processo criminale celebrato a Brentonico nel 1599. a cura di Giorgio Benoni con la collaborazione di Vittorina Rizzi

Storia. Società e tradizioni22 Qualche notizia storica sulla “Festa degli alberi” a Mori e dintorni. di Edoardo Tomasi33 Memorie d’acqua in Val di Gresta. di Marta Villa38 Reperti storici da preservare nei pressi di Loppio. segnalazione di Renato Mattei

Personaggi46 Luigi Bombana scultore, 1913-2013. di Claudio Bombana, Mariano Angelini e Matilde Tranquillini63 Ernesto Berro un forestiero appassionato di questa terra grestana. di Maria Grazia Berro Girardelli

Attualità68 Interviste a migranti. di Marco Cimonetti e Marco Falceri

Album77 Donne e bambini in coda per una ciotola di minestra. a cura di Edoardo Tomasi81 Foto dei coscritti di Mori delle classi 1900-1915 dalla collezione di Angelo Bellini

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Editoriale

Ai tradizionali lettori del Campanò che l’anno scorso hanno sfogliato la rivista non

pubblicazione. Un cambiamento meditato e discusso dalla redazione, che tuttavia si è reso più che mai necessario per garantire una migliore qualità alle immagini ed un’impa-ginazione più snella ed accattivante.

Contestualmente la redazione si è attivata per cercare nuovi contributi anche tra

provenienza. Questo ha permesso di inserire argomenti di attualità e costume, fornendo im-portanti informazioni su uno spaccato della realtà poco conosciuto ed anche per questo di sicuro interesse.

L’impegno di una Pro Loco nell’essere testimone del territorio deve infatti neces-sariamente riconoscere che la cultura locale, in una società sempre più multifor-

-chita negli ultimi anni, deve tener conto che la tradizione ha bisogno di avvicinarsi ai giovani per trovare in loro nuovi testimoni, capaci di ravvivarla e trasmetterla. Come affermava G. Mahler “La tradizione è custodire il fuoco, non adorare le ce-neri” e pertanto ad ognuno deve essere lasciata la possibilità di portare il proprio pezzo di legna perché quel fuoco è vitale e serve a tutti.

È con questi peraltro ambiziosi obiettivi che la proloco Mori Val di Gresta ha de-ciso di proseguire la pubblicazione del Campanò, cercando di invogliare nuovi scrittori ad offrire il proprio apporto di testimonianze e nuovi lettori a scoprire il territorio di Mori.

Ci auguriamo che il nostro sforzo e il contributo di chi ha fornito gli interventi venga apprezzato e condiviso, perché il nostro obiettivo può dirsi raggiunto solo se questa pubblicazione nel suo piccolo, riesce a mantenere alto l’interesse per il territorio, stimolando i cittadini a riconoscerne le peculiarità, arricchirlo con i propri contributi personali impegnandosi magari in prima persona per tutelarlo e valorizzarlo.

Presidente della Pro Loco Mori - Val di Gresta

Flavio Bianchi

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TORRI DI FUOCO E COLONNE DI FUMO. ANTICHI SISTEMI DI SEGNALAZIONE MILITARE

IN USO ANCHE IN TRENTINO

di Carlo Andrea Postinger

«Guarda! Gondor ha acceso i suoi fuochi e invoca aiuto. La guerra è scoppiata.

» Forse non tutti sanno che la spettacolare immagine con cui J.R.R. Tolkien ne “Il Signore degli Anelli” (Il Ritorno del Re, cap. 1) descrive il susseguirsi dei segnali che preannunciano l’imminente battaglia dei Campi del Pelennor è ispirata a un metodo di comunicazione militare effettivamente in uso nel Medioevo, e diffuso anche nella prima età moderna, che permetteva di inviare allarmi e informazioni

-ce. Il sistema consisteva nel trasmettere da apposite installazioni – in genere si trattava di torri, anche isolate, ubicate in punti strategici selezionati – particolari segnalazioni luminose (di notte), di fumo o con bandiere (di giorno), ed even-tualmente anche sonore (campane o spari di artiglieria) che, rinviate da una po-stazione all’altra, raggiungevano castelli, borghi e città, assicurando in tal modo una pronta reazione in caso di pericolo. I vantaggi offerti da un simile dispositivo erano molteplici: le notizie viaggiavano infatti assai più celermente degli uomini (amici e nemici) costretti a percorrere alla modesta velocità consentita dai propri mezzi i tragitti prestabiliti; e potevano inoltre diffondersi lungo tutto il percorso e in più direzioni, non limitandosi a collegare solo due terminali come oggi avviene utilizzando ad esempio il telefono.

eminenti nelle valli principali e in alcune di quelle secondarie. Esistevano inoltre alcune torri isolate probabilmente usate come punti di triangolazione, quali nella valle dell’Adige la Torre Franca di Mattarello, la Torre di Santa Margherita nei

vicinanze di Mama d’Avio e di Borghetto. Bisogna tuttavia considerare che in re-altà la frammentazione politica del territorio nel Medioevo probabilmente limitava

-zione omogenea e di un saldo coordinamento, riducendone l’impiego alla tutela di circoscritti interessi feudali, anziché alla difesa dell’intero Principato, e soprat-tutto della sua popolazione. Bisogna in effetti attendere il 1511 e la sottoscrizio-

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ne del cosiddetto Landlibelll’armonica partecipazione dei Principati di Trento e Bressanone, delle città, delle comunità rurali, dell’aristocrazia e del clero, alla difesa territoriale comune guida-ta dall’imperatore Massimiliano I d’Asburgo. Risulta quindi interessante – perché riferito ad un’epoca precedente – quanto scriveva Gino Onestinghel che, narran-do i fatti della guerra veneto-tirolese del 1487, accennava a «Castel Beseno, che dominando tutta la pianura poteva (…) segnalare con fuochi e fumo tutto quan-to avveniva [in Vallagarina] al castello di Trento». L’autore spiegava inoltre che

il passaggio della fanteria, la strage degli uomini di Barbara Trapp, la costruzione del ponte; più tardi il passaggio delle artiglierie, la disposizione, il numero e la qualità delle forze veneziane trasportate al di qua». In Vallagarina certo sussistevano, soprattutto all’epoca dell’egemonia castrobar-cense, fra il Duecento e il Quattrocento, tutte le condizioni per il migliore funzio-namento locale di questo dispositivo: tra l’altro dal solo castello di Lizzana, che forse anche per questo Guglielmo Castelbarco scelse come propria residenza, erano visibili quasi tutti i castelli della destra Adige da Brentonico a Castellano. In proposito, dal momento che in passato si è creduto a un soggiorno di Dante Alighieri presso quel castello, suonano in un certo senso ancor più suggestive le terzine del canto ottavo dell’Inferno nelle quali il poeta, descrivendo il proprio arrivo con Virgilio sulle rive dello Stige, osserva i fuochi che dalle torri di vedetta segnalano il loro avvicinarsi alla Città di Dite:

Io dico, seguitando, ch’assai prima che noi fossimo al piè de l’alta torre, li occhi nostri n’andar suso a la cima

per due fiammette che i vedemmo porre, e un’altra da lungi render cenno,

tanto ch’a pena il potea l’occhio tòrre.E io mi volsi al mar di tutto ‘l senno; dissi: “Questo che dice? e che risponde

quell’altro foco? e chi son quei che ‘l fenno?.

(La Divina Commedia, Inferno, VIII, 1-9)

Bisogna notare che i diavoli accendono non una ma « », evidentemente per comunicare che gli estranei in arrivo sono appunto due: esisteva in effetti un codice di comunicazione preciso per fornire informazioni maggiori rispetto al semplice allarme. Per esempio nei presìdi costieri il numero dei fuochi doveva corrispondere al numero delle navi in avvicinamento; in tal

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caso era necessario evitare equivoci ed errori, come ricordano anche le istruzioni impartite nel 1449 alle vedette genovesi: «vigilino con attenzione e scrutino fuochi e fumi che fossero fatti da occidente, e se vedranno un fumo esser fatto di giorno

vederlo. E se vedranno tre falò fatti di notte anch’essi facciano tre fuochi insieme e contemporaneamente, ma divisi in modo che da lontano appaiano distinti, per evitare che a causa della vicinanza possano magari indurre in errore». Per inciso vale anzi qui la pena ricordare che un disegno del 1692 relativo a Lucca illustra anche un ingegnoso sistema di traguardi per riconoscere al buio la provenienza dei segnali. Ma tornando al Medioevo, un interessante documento circa i codici di segnalazione allora adottati risale già al 1260, e alle settimane precedenti la battaglia di Montaperti: «Se verrà avvistata gente nemica, qualunque sia il numero (...) si faccia un solo falò. Se invece verrà un piccolo drappello, duecento uomini o poco più (…) si facciano due falò contemporaneamente, e li si alzi e abbassi due volte. Ma se contro di noi verrà moltissima gente o un esercito numeroso, si facciano tre falò contemporaneamente, e li si alzi e li si abbassi per tre volte». Per quanto riguarda invece il Trentino si conosce il prospetto dei fuochi di se-gnalazione (Kreidenfeuer) della Contea principesca del Tirolo in uso assai più

parziale, limitata al territorio da Bolzano verso la valle dell’Adige, le valli di Non e Sole, le Giudicarie, la Valsugana e la valle del Sarca, quest’ultima completa di una «Instrutione et modo per dare gli segni opportuni et necessari (in caso di emergente invasione hostile, o presentaneo et estremo pericolo pubblico) con sbarro di Falconetto, o Mortaro, con Fuochi accesi, et Campana a martello». La rete partiva da due postazioni (Adlerberg e Ehrenberg) situate nel nord ovest del-la contea tirolese, toccava Kufstein e Lienz e attraversava le valli principali dell’in-tero territorio raggiungendone le estremità a Castel Ivano in Valsugana, Riva del Garda, Brentonico, Tione e Dimaro. Sull’asse nord-sud si avevano le principali diramazioni a Cornaiano di Appiano (verso la Val d’Isarco e la Valdadige), a San

a Trento (verso la Valsugana, le Giudicarie e il Lago di Garda). In particolare la Vallagarina riceveva il segnale dal Doss Trento (un’altra stazione presso il capo-luogo si trovava sul Dosso di Sant’Agata, a Povo), e lo ritrasmetteva attraverso Castel Beseno, il castello di Castellano e poi quelli di Rovereto e Brentonico. Di qui, grazie al castello di Gresta esso arrivava a Castel Penede, quindi a Riva e

-sità di punti incastellati presenti nella zona sono ben pochi i siti effettivamente

erano nel frattempo caduti in disuso (come Castel Barco o il castello di Lizzana), -

sultava evidentemente più opportuna la costruzione di un reticolo essenziale ma

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appare ancora più evidente circoscrivendo lo sguardo, in omaggio alla rivista che ospita queste pagine, alla valle del Cameras: essa infatti veniva praticamente “scavalcata” attraverso una triangolazione in quota Brentonico-Gresta-Penede che ignorava stazioni ormai vetuste e abbandonate (ma comunque in posizione ancora potenzialmente valida) quali il castello di Nomesino, il sottostante Castel Albano e, più a ovest, Castel Verde. Tutt’altra doveva essere probabilmente la situazione in epoche più remote, allorquando oltre a quelli citati punteggiavano questo pur limitato settore anche castelli dei quali oggi non rimangono che spo-radiche tracce, e talvolta solo frammentarie notizie documentarie, come i castelli di Somator, di Ravazzone e di Manzano o, sull’altro lato della valle, la Corona di Besagno, Castel Palt, Castel Corno di Mori e l’antico Castel Leone di Castione. A

vicinanze di Pannone quelli sul Dosso di Garda e al Castelletto di Varano, località tutte che ancora oggi si segnalano per la loro collocazione strategica, certamente funzionale alla vigilanza e al controllo del territorio e della viabilità.

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Immagine tratta da “Difesa e governo del paese: Il Landlibell Trentino-Tirolese del 1511”, Provincia Autonoma di Trento, Soprintendenza per i beni librari, archivistici, 2011.

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PROCESSO CRIMINALE CELEBRATO A BRENTONICO NEL 1599

a cura di Giorgio Benoni con la collaborazione di Vittorina Rizzi

Premessa: Sembrano, queste che seguono, pagine de “I Promessi Sposi”, ma -

zo del Manzoni infatti, le componenti vi sono tutte, nessuna esclusa. Medesima l’epoca, simili i personaggi, identiche le prepotenze verso i più deboli in ambedue gli iscritti. È un periodo quello in cui questi fatti accadono, nel quale, a quanto si racconta, la rocca di Gresta, è ridotta dai fratelli Antonio e Federico Castelbarco, che la abitano, in un covo di briganti.Proprio di due di questi si serve Porzia Avogadra, moglie di Federico, nel docu-mento chiamata “Signora di Gresta”, per riscuotere la decima parte del grano che alcuni ignari contadini, tra l’altro già soggetti a versare un quarto dello stes-

perché i Castelbarco avanzino questa pretesa, dato che il feudo di Gresta di cui sono dinasti, non arrivi in fondovalle, verso est, che alla cappella di S. Antonio e Sano sia parte del Vicariato di Mori da lunghi anni ormai. Non è da escludere, anzi è probabile, che la causa sia dovuta a quella lunga e famosa lite, durata

signori intrapresero nei confronti dei Principi Vescovi di Trento per la restituzione appunto di quei Vicariati, già appartenuti al loro Casato. Fatto sta, che estorta la decima con la minaccia delle armi ed esemplarmente puniti i due ribaldi, la vicen-da sia chiusa ma la barbara usanza di questa imposizione continuerà ad esiste-re, anzi, passati che furono sessantaquattro anni, Mori, Ala, Avio e Brentonico, ritorneranno ai Castelbarco, così che i baroni e poi conti di Gresta, quali unico ramo superstite dell’antica Famiglia, riscuoteranno questa volta, legittimamente,

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Trascrizione del frontespizio del documento conservato presso la Biblioteca comunale di Trento con collocazione BCT1 - 783

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N° 1425 1599

Processus criminalis formatus ex officio

Contra

LUDOVICUM Veronensem servitorem

In Castro Grestae et

Antonium a morario de Bre[n]tonico bannitum.

De ablatione… [illeggibile] facta

B[or]tolino de Traglinis [Tranquillini] et

Ant.o de Sanis dicto il Tortata de Murio.

Eravamo ai primi di luglio del 1599. Al Palù di Loppio nella regola di Mori c’era grande animazione per gover el forment, ligar su le cove, contar e squartar. El

de Mori ave-va già ligato cinque desene de formido ed aveva chiamato Bastiano de Lunardo

quarta, cioè la parte che gli spettava di diritto. Bortolin aveva anche un’ opa [un’o-pera] che lo aiutava, era Matheus Cobellus ovvero Cobel de Murio e c’erano pure la sua moier e la moier di un altro Tranquillini. Nel campo attiguo, pure Toni de Sano dicto il Tortata de Murio, era indaffarato nella raccolta e nella spartizione del formido sperando che dopo tante fadighe gli fosse consentito di non fare la fame.A vegliare sulla legalità di ogni operazione girava per le campagne Giorgius de Caballaris de Murio, chiamato comunemente Zorzo cavalar. Il “cavaliere” aveva infatti il compito di far rispettare i regolamenti della comunità. Era questa una scena apparentemente tranquilla sopra la quale però aleggiava una certa tensio-ne, quando a guastare ogni cosa sopraggiunsero due uomini armati dall’aspetto

dal venivano mandati dai Signori di Gresta a riscuotere la de-

cima, cioè la decima parte del grano che secondo loro spettava a Castel Gresta.Le cose precipitarono, la gioia e la speranza del raccolto si tramutarono in arro-ganza e violenza.In die lunj quinto mensis Julij 1599 il massaro Murij denunziò che furono rubati manipuli di biade ad Antonio di Sano detto il Tortata e a Borthilino Tranquillini in regola Murij, contrada dicta al palu. Immediatamente il cancelliere Paulo Zanino

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del castello di Brentonico e dei Quattro Vicariati degli illustrissimi Signori e Baroni Madruzzo inviò ai testimoni del fatto l’ordine di comparire davanti al Magistrato Lucatini (?) per fare dietro giuramento la loro deposizione. Tra l’otto luglio 1599 e il giorno dodici dello stesso mese vennero esaminati sopra il Dosso nella chiesa di S. Catherina e nel castello di Brentonico il contadino Antonio de Sano, l’ope-ra Matheo Cobello, lo squartadro Bast[ian]o de Tosel e il contadino B[or]tolin di Tranquillini.Per avere notizie sicure e veritiere a ognuno di loro venivano poste all’incirca le stesse domande: si voleva sapere in quale luogo si svolse il fatto, le persone presenti e i relativi ruoli, la quantità di frumento raccolto, in particolare veniva richiesto un dettagliato racconto dell’azione violenta.

Georgius Steffani Caballarij de Murio, che doveva presentarsi mi Paulo Zanino in die et loco praemissis . Que-sta la sua deposizione:“… io era andato al Palu, et visto un Lodovico Veronese qual credo sia bandito per quanto lui me ha detto, et sta in Gresta con la Signora Percia et con lui era

et ge disse Ludovico: horsu via che volemo la decima per la signora de Gresta, Bortolin ge disse, che no ge la voleva dar, et che la signora de Gresta no havea da far qui cosa alchuna, et quando la gove fusse pervenuta de justitia el ge la haveria data volentera, Ludovico disse, che la voleva per ogni modo. Matheo Cobello, ge aiutava a ligar il formento al B.tolin, disse: vorò veder, chi sarà quello che la vorrà tuor, all’hora Ludovico rispose: al cospetto de Dio vorò veder, chi sarà quello che no vorrà che la toglia et tut a un tempo dete mam a una cova de formento, et Math.o lasala li et ga meso mam per torghela et Lodovico ge la sbregò de mam et se tirò da parte cavando una pistolla fuori de seno et disse: habbi poche parole che putanaza farò... et Math.o si doleva con dir che quando

e a far le fadighe. Et poi disse: et ge tolse tal cove doppoi che tal formento era squartado dal squartadro Bastiam Tosel.Interrogato respondit: el ge tolse solo una cova, et no di meno, ge ne era de ligato trenta, et credo più cove. Interrogato respondit: tolta questa cove costoro cioè Ludovico et Toni andarno

la X.ma de quel formento. Il Tortata ge disse, che’l no ge la voleva dar et che se la signora ge havea ragion, el ge l’haveria data. Toni ge disse che la voleva, et il Tortata contrastava, che no ge la voleva dar, et Toni dete de mam a una cova et il Tortata ge dete de mam anche lui per torghela, et tirava l’uno et laltro et Toni ghe disse: fuori… de qui seno..., il Tortata ge disse: la volio. Toni ge rispose, si che la volio per..., all’hora il Tortata cedete et ge lassasse la cova.Interrogato rispose: le cove del Tortata no le numerai ma poteano essere per mio judicio circa trenta cove et ge tolsero però solo una, come ho detto.Interrogato che armi haveano Ludovico, et Toni respondit: havean doi schioppi per uno, cioe un longo, et un corto per chadauno, quel corto de Toni era de tre quarti, ma quel corto de Ludovico era una pistolla de tre quarti de cana.Interrogato respondit: questo Ludovico Veronese, ma no so de quali sia, ma el

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stava gia a Gargagnago ed il credo Pandolfo Senego. Interr. Respondit: per quanto ho inteso da mio barba Gio Fr.co cavalaro gia un anno su [da un anno è...] in Gardumo. Questo Ludovico è bandito per haver voluto sforzar in compagnia di altre persone alchune giovene in una casa sul Veronese.”Dalle dichiarazioni degli altri testimoni emergono ulteriori informazioni circa la violenza e le ingiustizie che dovevano sopportare i contadini:Toni detto il Tortata de Mori rispose: “… che quei logi [luoghi] non pagano la de-cima, ne mai io l’ho pagata et che no voleria pagarla neanche a loro, loro dissero che la volevano et io diceva che no voleva darghela, et loro continuavano dicen-

costoro armati ch’io no poteva contrastar con loro doi, et loro tolsero una cova de formido et la portarono via.”La quarta dovuta all’Arciprete di Mori era legalmente riconosciuta e veniva con-

dall’Arciprete. Bortolino Tranquillini rispose: “…uno di de questo mese de lui de qual preciso no me ricordo, siando dentro al palu regola de Mori, ch’io ligava del formento, chiamai Bastiam de Lunardo Tosel della Regola de Mori che si mise a squartar et tolse la quarta de quelle cove ch’io havea liga. Io ge hebbi ligado

.”Sia a lui che al Tortata i banditi di Gresta quale decima strapparono con la forza solo una cova, ma, come conferma Bastian Tosel squartadro ghe ne venivano di più.Bortolino subì la stessa violenza anche due anni prima, così egli racconta: “…che adesso da doi anni il Moro di Val Gardumo me tolse due cove de formento per decima per forza dicendo che la signora de Gresta lo havea mandato a tor

circa dese desene de formento ma l’anno passato al Maso ligai et menai via il formento et no vene alchuno a darmi fastidio ma pagai solamente la quarta se-condo il nuovo Solito.”A questo punto il documento riporta due proclami emanati dai Madruzzo, baroni dei Quattro Vicariati e familiari dell’omonimo Principe Vescovo di Trento, per ov-viare alle frequenti ladrerie e ai soprusi che venivano perpetrati all’interno dei loro

El proclamato emanato contra banditos publicato in Murio annis 1585, 1590 et 1591 in volumine proclamatorum de m.to ill.mo Barone de Madrucio.Et perchè la insolertia per man delli banditi di questa giurisdizione merita anchor piu particolar provisione accio obediscano ai loro bandi, che non rompano li gon-

-dito da questa giurisdizione de quatro Vicariati a tempo,et durando il suo bando

-vamente fusse stato bandito, et ordinato, et possi da chadauno esser senza pena ofeso et amazzato, et capitando in man della justitia per qual motivo si voglia, gli sii tagliato la testa talmente, che muori.

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El proclamato emanato dal molto illustrissimo…[illeggibile] contra archobu-sios e pubblicato in Murio sub die terzia octobris 1595 in volumine procla-matorum off.i.Per mandato dell’illustrissimo signor… [illeggibile] Fortunato Signor delli Castelli de Madruzzo Avio, Brentonico dei Quatro Vicariati… [illeggibile]. Vedendo che l’abuso in questa giurisdizione sua de quattro Vicariati causa molte volte di scandali, et ignominie, et volendo per ogni suo poter obiurare a ciò, reno-vando lo proclama altre volte in tal materia emanato, ordina, et si committe, che no sij persona alchuna di qual sorte, grado, o, condizione si voglia che adisca, over costumi per motivo alchun portar schioppi, over archobusi di sorte alchuna, soto pena per rispetto di schioppi, over arhobusi longi cioè de quarti tre de cana,

Et per rispetto di schioppi, over archobusi, che sijno mancho di quarti tre di cana -

[omissis].Ludovico Veronese e Antonio dal Moraro de Brentonico vennero riconosciuti col-

-to violenza per impossessarsi di alcune cove di frumento al palu di Loppio e di essere stati armati. I due banditi disattesero i provvedimenti contenuti nei procla-mi dei Madruzzo, ed in conformità a detti bandi sarà decretata la loro condanna.

presentare le loro difese.Per mandato del Mag.to del castello di Brentonico et quattro Vicariati per li illu-strissimi signoriet baroni de Madruzzo si citano,che comparino,et si presentino personalmente… [illeggibile] :Ant.o Festaro f.q. de Thomaso dal moraro de Brentonico altro noto bandito non dalla giurisdizione di detti quatro Vicariati per esser venuto in detta giurisdizione

-nato contra banditi.Ant.o predetto, et Ludovico Veronese servitore della illustrissima signora Percia di Grestaet chadaun de loro per esser venuti in la Regola,o sia propria de Mori, et in specie nel loco chiamato il palu tuti doi in compagnia armati de archobusi grandi, et pico-li, et per haver tolto, et portato via alchune cove de formento per forza a B.tolin di Tranquillini, et a Ant.o detto il Tortata di Sano di Mori in loro danno et giudizio, et come più diffusamente consta nel processo sopra cio formato, iuxta la forza della ragion, Statuti, et proclama penale a risponder, et far qualunque loro difesa che intendino di voler far…Die 14 Augusti 1599.Paulus Zaninus Canc.Die lunj 23 mensis suprascripti super platea Zoculi in Murio, me Paulo Zanino Cancellario alta voce proclamando citavit antedictos Antonium, et Ludovicum absentes… [illeggibile]Ferrarij in Zoculo, domino Marino de Marinis, Menegello Lanio de Molina, Fede-rico Rivabeni de Murio, et multis aliis testibus rogatis. Nell’ultima pagina del documento viene riportato il testo latino della condanna:

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fractione a quaecumque impune offendi et occidi possit, et valeat, et si venerit in festias (cattività,fermo, in mano della giustizia,) interim eodem caput a spatulis ampute-tur, ita ut naturaliter monitur…

se fosse stato arrestato tuttavia gli venisse amputata la testa dalle spalle, come naturalmente era stato ammonito…Loduvicus Veronensis pro delatione sclopporum, et ablatione per vim facta, con-demnatur in ducatis centum et ad restituendum manipolos ablatos, vel conve-nientem valorem, et donec non satisffeceri praemissis, banditum a Jurisditione quattuor vicariatuum…Joannes Baptista Busattus Commissarius.Lodovico Veronese per l’accusa di schioppi e la sottrazione fatta per forza, viene condannato a cento ducati e a restituire le cove tolte, oppure un corrispondente valore, e soddisfatte le cose premesse (gli ordini premessi), bandito dalla Giuri-sdizione dei Quattro Vicariati…

Giovanni Battista Busatto Commissario.

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QUALCHE NOTIZIA STORICA SULLA “FESTA DEGLI ALBERI” A MORI E DINTORNI

di Edoardo Tomasi

Fino agli anni Settanta/Ottanta del secolo scorso, per intere generazioni di scolari e scolare, all’inizio della primavera c’era un appuntamento imperdibile quanto gradito: la “festa degli alberi”. Strano a dirsi, essa non trae origine dagli antichissimi riti silvestri ed al culto delle piante che varî popoli europei (greci, romani, celti ad esempio) ci hanno tramandato

arbor day, ossia la festa nazionale degli alberi istituita in Nebraska negli Stati Uniti d’America esattamente il 10 aprile 1872.In Italia attecchì (è proprio il caso di dirlo) con un certo ritardo rispetto all’America e la prima edizione si tenne a Torino nel 1898 sul Monte dei Cappuccini, grazie all’interessamento della neo-costituita associazione “Pro Montibus”. Convinto della bontà dell’iniziativa, l’allora Ministro della Pubblica istruzione, Guido Bac-

una circolare datata 27 giugno 1899. Nelle nostre zone - all’epoca facenti parte dell’impero austro-ungarico - le cose

a disposizioni governative. Rovereto ha il merito di essere stata la prima cittadina del Trentino ad adottare la “festa degli alberi” e la zona prescelta dalla “municipa-lità” fu dapprima quella dei “colli di Vallunga” per poi estendersi ad altre località (ad es.: Valscodella, colle di Miravalle, Costa Violina nei dintorni di Castel Dante, i Lavini di Marco, ecc.) con l’intento principale di difendere dall’erosione dei terreni resi geologicamente instabili da disboscamenti selvaggi e pastorizia diffusa. Fino a pochi anni fa, a più di un secolo di distanza, le caratteristiche macchie scure di vegetazione che si distinguevano nettamente da quelle più chiare del bosco ceduo naturale indicavano l’ampiezza dell’intervento e l’indubbio successo – al-meno a livello visivo – del rimboschimento. Purtroppo ora sappiamo quanto le piante di pino nero scelte per la riforestazione siano estranee all’ambiente natu-rale lagarino e siano divenute facili prede degli attacchi di parassiti che ne hanno

e la loro graduale sostituzione con latifoglie tipiche (roveri, frassini, carpini, aceri ad es.). Tuttavia, agli inizi del secolo scorso l’idea di “resuscitare” le antiche foreste sulle pendici vallive trovò entusiasti sostenitori ovunque: alcune testimonianze si tro-vano anche nelle straordinarie collezioni della Biblioteca Civica Tartarotti. Vi sono

opuscolo pubblicato nel 1901 che si intitola: “L’utilità dei boschi: parole dette dal

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Presidente della Società degli Amici della Scuola, prof. Agostino Bonomi, agli alunni della Civica Scuola Popolare di Rovereto il dì 13 maggio 1901 sui colli di Vallunga in occasione della [seconda edizione] Festa degli alberi”, di cui pubblichiamo l’immagi-ne della copertina, addirittura la partitura di un “Inno alla Festa degli alberi” composto dal maestro Giovanni Toss (1874-1928) nel 1900, canzone citata anche da Euge-nio Bizzarini nel suo memoriale pubblicato nella raccolta “All’ombra del Rovere: me-daglioni di vita roveretana” (edizione della Cassa Rurale di Rovereto, 1984) ed inti-tolato: “Una manifestazione d’italianità: la festa degli alberi”. Dunque è certo che già nel maggio del 1900 un’allegra comitiva formata da centinaia di alunni, insegnanti ed autorità con gonfaloni e tanto di accompagnamento della banda cittadina si diresse in Vallunga, per mettere a dimora le piantine nella zona che i rove-retani chiamano ancora oggi “bosco della città”. Via via altre comunità lagarine adottarono la “festa degli alberi” forse non solo per mettere in sicurezza dei pendii più soggetti al dilavamento dell’acqua piovana ma an-

economico incrementando la produzione di legname in zone incolte e altrimenti del tutto improduttive.

“Istituita con scopi altamente educativi e di pubblica utilità, per istillare nei nostri piccoli scolari la necessità di rispettare le piantagioni e in pari tempo per procu-rare loro una mezza giornata di divertimento all’aperto sulle bellissime colline che circondano la città nostra, la festa degli alberi si è affermata ormai come una festa pubblica.” Così scriveva nel 1910 su Vita Trentina Giuseppe Chini, a dieci anni dalla prima “piantumazione” sulle (allora) brulle colline in Vallunga. Aldo Gorfer nel suo pregevole studio intitolato “L’uomo e la foresta” (Manfrini edi-tore, 1988) riporta anche un particolare interessante:“Si narra che nel primo anteguerra, i maestri accompagnavano gli scolari vestiti di rosso bianco e verde in segno di italianità. Era il tempo della cultura irredenti-stica”. Questo risvolto patriottico trova conferma anche nella didascalia a pagina 28 del volume “Rovereto: immagini del passato” (Reverdito editore, 1973): “La festa si svolgeva in un clima di sereno patriottismo. Sui cespugli di biancospino in

della bandiera italiana”. Va dunque sfatata la convinzione di molti che ancor oggi

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attribuiscono l’invenzione della “festa degli alberi” al regime fascista.A Mori la prima “festa degli alberi” di cui si ha notizia si tenne lunedì 15 aprile 1912. Ne fanno fede gli articoli pubblicati da “L’eco del Baldo” il 20 aprile e da “L’Alto Adige” del 20-21 aprile. Curioso il confronto tra le due fonti: “L’eco del Baldo” è più sintetico e punta l’attenzione sul fatto che parteciparono “gli scolari maschi delle tre classi superiori coi rispettivi maestri, col rappresen-tante dell’Onorevole Municipio, coll’Ispettore scolastico e l’ispettore forestale. […] Procedeva la Musica Banda e poi seguivano gli scolari, maestri e numerosi in-

festa.”Altri dettagli nell’articolo pubblicato da “L’Alto Adige”, dove possiamo leggere il nome di chi si prese la responsabilità di organizzare il tutto:“Anche Mori, ad imitazione di altre città e borgate, volle dare inizio alla simpatica festa degli alberi ed il solerte nostro sorvegliante scolastico sig. Dante Zucchelli

sperare che si rinnoverà ancora negli anni a venire.”

14.30), il numero degli alunni (“circa 200 allegri scolari”) e gli accompagnatori (il Dirigente scolastico Stefano Sembenico, l’intero corpo docente, il catechista, personalità di Mori, il consigliere forestale Armani, molti altri invitati) tutti diretti in località Corno. Giunti sul posto, dopo i discorsi di rito, le fragili piantine furono assegnate ai ra-

… -letta, si radunarono tutti, scolari, insegnanti, invitati ed il corpo musicale ad una sontuosa merenda. Ogni scolaro ebbe pane, salame, prosciutto con vino, ed

Grisi, e confezionata magistralmente dal nostro pasticciere Francesco Miori. […] Il contegno e la disciplina dei nostri buoni scolari furono addirittura esemplari, e ne vada una meritata lode ai nostri operosi insegnanti. La festa lasciò la migliore impressione a tutta la cittadinanza.” “Alle sei si percorse la via del ritorno, sempre a tempo di marcia” testimonia “L’e-co del Baldo”. Visto il successo della prima edizione, la “festa degli alberi” divenne un appunta-

duramente anche il territorio di Mori, non a caso compreso nella “zona nera” quella cioè che ebbe a patire i danni maggiori.

tangibile di speranza in un futuro migliore a dei bambini che avevano ancora ne-gli occhi e nella mente gli orrori della guerra, fu riproposta anche la “festa degli alberi”. Grazie alla cortese segnalazione della signora Bianca Boninsegna possiamo of-frire ai lettori della nostra rivista questa splendida foto-ricordo per la “festa degli alberi” degli scolari di Mori Borgata accompagnati dal loro insegnante e da un

La foto non è datata ma potrebbe risalire agli anni Venti del secolo scorso se il

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Cescatti indicato sul passepartout fosse proprio il fotografo moriano Ottavio Ce-scatti, nato nel 1900. È probabile che la zona sia quella di Corno, considerando la presenza di tipici massi da frana e le vetuste piante (di castagno?) alle spalle del gruppo, ma saremmo ben lieti di avere informazioni più precise da chi per caso vi riconoscesse dei volti noti. Dopo l’annessione del Trentino all’Italia, l’organizzazione preposta [al governo

corpo speciale istituito il 16 maggio 1926 su basi militari-tecniche” scrive Aldo Gorfer nell’opera citata, precisando più oltre “il corpo era inquadrato nelle For-ze armate. In caso di mobilitazione gli venivano assegnate mansioni particolari. [omissis] In campo popolare, divulgativo e propagandistico, furono istituiti la Fe-sta degli alberi e i Boschi del Littorio.” Da altra fonte si ricava anche l’anno esatto in cui fu reintrodotta la “festa degli alberi” con la legge forestale Serpieri del 1923.

indette per la “festa degli alberi” di quell’anno e di due milioni di alberi piantati. Nel biennio 1927-28 le feste censite in tutta Italia furono 2516 e 4325 nel biennio successivo. Dunque con l’avvento del fascismo alla tradizionale “festa degli alberi” furono

con le direttive del regime. Una veloce scorsa tra gli articoli pubblicati tra il 1926 ed il 1932 ne “Il Brennero” - unica fonte disponibile e decisamente “di parte” - offre non solo una panorami-ca della liturgia seguita in quelle occasioni ma piuttosto ci fornisce il numero, la specie degli alberi e le località scelte per il rimboschimento.

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Sabato 1° maggio 1926MORI – Festa degli alberi

festa degli alberi.Ieri alle 13, si raccolsero nella Piazza Vittorio Emanuele, il Commissario Prefet-tizio Cav. Cavatorta, le scolaresche con vessillo accompagnate dagli insegnanti

-pieri ed un gruppo di persone, che, in corteo, mossero verso le pendici del Giovo, in località Corno, dopo che la banda ebbe suonato “Giovinezza”, la Direttrice Didattica sig.na Pia Cristofolini ed il cav. Cavatorta parlarono agli scolari dicendo,

I ragazzi quindi si sparsero su per il monte e poco dopo circa seicento pini ed

ed in Piazza Vittorio Emanuele III donde si era partiti dopo l’inno a “Mameli” [sic]

MORI – Festa degli alberiDomenica 24 corrente un corteo formato da tutta la scolaresca preceduto da una rappresentanza del corpo pompieri e dalla fanfara fascista, agli ordini del Diret-tore Didattico sig. Filippi si è recato festante nei pressi della frazione di Tierno dove in un appezzamento di terreno comunale vennero impiantati dagli scolari e scolare mille piantine fra abeti e larici. La bella festa è riuscita degna della nobile iniziativa sulla quale parlò agli inter-venuti numerosi, il Direttore Didattico esortando a rispettare e difendere i boschi che sono indizio di benessere nazionale, e chiuse il suo esordio leggendo il de-calogo di S. E. Luzzatti. Le parole chiare e sentite dell’oratore vennero accolte da vivi applausi. Per coronare la bella e gaia festa, dalla frazione di Tierno, sempre compatta in

un’abbondante merenda, servita a tutti gli invitati da cortesi e simpatiche signorine.La bella festa terminò fra la più schietta allegria, tutti compresi dell’alto sentimen-to che racchiuse e lasciò negli animi ottima soddisfazione.

MORI – La festa degli alberiCon una bellissima e riuscita cerimonia si è celebrata anche quest’anno la festa degli alberi. La scolaresca, partita incolonnata coi rispettivi docenti dal palazzo scolastico, ha raggiunto, sabato, la località “Inferno” soprastante la frazione di Tierno, dove erano state approntate le buche per l’interramento di numerose piante silvestri. Il direttore didattico, sig. Giovanni Filippi ha tenuto un discorso

-tagioni che si ripetono ogni anno per volontà del Governo nazionale in tutta Italia allo scopo di dare sempre maggiore incremento al patrimonio boschivo e silvitico nazionale.Agli scolari è stata quindi offerta una abbondante refezione a base di biscotti e vino, dono spontaneo e gradito dei frazionisti di Tierno che avevano invitato an-

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che delle graziose distributrici nelle persone delle signorine Francesca ed Ester Turella. Regnò il massimo entusiasmo e i piccoli lo dimostrarono chiudendo la bella fatica al canto degli inni patriottici.

FESTA degli alberiGli alunni delle nostre scuole elementari accompagnati dai rispettivi insegnanti si

-nico, d’un milite forestale e di diversi ammiratori, procedettero all’interramento di oltre 500 piantine di abete fornite dalla Milizia forestale. Il direttore didattico colse l’occasione per raccomandare, in un breve e chiaro discorso, ai giovani di amare e rispettare i boschi essendo questi una ricchezza

-ni al quale si deve se oggi l’Italia ha valorizzato questa grande ricchezza.Dopo aver consumato una refezione offerta dal Patronato scolastico, al canto degli inni nazionali fecero ritorno in paese.

Tralasciamo altri articoli, tutti più o meno dello stesso tenore e facciamo un salto

per diverse generazioni di scolari e sopravvisse anche al crollo del regime. Alle piantine messe a dimora dai ragazzi nati ancora nell’Ottocento, si aggiunsero man

se osserviamo con attenzione le pendici di Montalbano o le “Coste” di Tierno.

Tierno – Merenda sul prato antistante la chiesetta di S. Marco in una foto anonima e non datata conservata in Biblioteca a Mori. Dovrebbe trattarsi di una “festa degli alberi”

tenutasi negli anni Quaranta del secolo scorso.

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In quasi cento anni di storia la procedura ha subìto ben pochi cambiamenti: ca-ratteristica principale di ogni “festa degli alberi” che si rispetti - al di là dei discorsi d’occasione tenuti dalle autorità e l’allegro corteo di vocianti bambini e bambine diretto verso la collina in periferia - era la mitica “merenda” che veniva offerta

lunga “marcia di avvicinamento“ (sempre rigorosamente a piedi) oppure assetati per via della canicola e dello sforzo di cantare a squarciagola inni a tema impa-

imbottiti e bere qualcosa di fresco, o quasi. Prima però ognuno doveva prendere in consegna la propria piantina, allargare bene le piccole radici e posizionarla ove indicato.Il terreno era stato preparato giorni prima dagli agenti della forestale che avevano scavato delle buche ad una certa distanza l’una dall’altra: ai piccoli giardinieri ve-niva poi spiegato come interrare la pianticella ed al via del maestro tutti si davano un gran da fare per metterla a dimora correttamente. Gli esperti consigliavano di

-mo di umidità, elemento di vitale importanza per la sopravvivenza in terreni non proprio ideali. Qualcuno ricorda di aver messo attorno alla propria piantina una strisciolina di tessuto col nome, quasi a legare il proprio destino a quello dell’al-bero, ma quasi sempre al primo refolo di vento o dopo un forte acquazzone quel vincolo veniva spazzato via.Qualcun altro si prese l’impegno – sospinto dall’entusiasmo della novità - di se-guire la crescita di quella piccola foresta, provvedendo ad abbeverare le piantine nei periodi di siccità. Ma se molte di loro sono sopravvissute è merito del corpo forestale ed anche della fortuna.

Cartolina d’epoca con sullo sfondo le brulle “coste di Tierno” circa sessant’anni fa (Grigolfoto - Mori)

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Col senno di poi la scelta di privilegiare il pino nero austriaco per quegli interventi mirati di rimboschimento non si è rivelata del tutto positiva. Introdotta come pian-

aride, all’epoca forse non si tenne nel debito conto che i suoi aghi, una volta caduti dai rami formano un tappeto pressoché impenetrabile che non consente ad altre piante di crescere e svilupparsi. Oltre a ciò, la chioma del pino nero è ber-saglio preferito della temibile processionaria, lepidottero voracissimo che riesce a distruggere intere foreste. Le piante indebolite diventano facile preda anche di altri parassiti, in particolare di due tipi di funghi (diplodia pinea e cenangium ferruginosum) che minano le radici con effetti letali. Abbiamo già visto che questi

della città” di Rovereto, con la graduale sostituzione del pino nero con latifoglie tipiche della nostra zona.

* * *

Nel territorio comunale di Mori resistono ancora (ma per quanto tempo?) ampie aree di pino nero, peraltro già in sofferenza circa 50 anni fa, come si legge in un articolo dell’ispettore superiore forestale dottor Vittorio Cattani, pubblicato nel numero di dicembre 1965 della rivista “I Quattro Vicariati e le zone limitrofe”. In quel periodo vi furono “risarcimenti nei vasti rimboschimenti effettuati tra il 1950 e 1960 in località Coste di Tierno: questi impianti sono stati assai danneggiati dalla

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Due foto panoramiche di Mori scattate a circa trent’anni di distanza tra loro. In entrambe si notano le macchie più scure di vegetazione dovute alla concentrazione degli impianti di pino

nero effettuati in varie edizioni della “festa degli alberi” dagli scolari di Mori.

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spesa presunta di lire 5.000.000: il lavoro avrà la durata di 3-4 anni.”Sopravvissuta a due guerre mondiali e dopo avere portato un evidente mutamento nel paesaggio silvestre dell’intero Trentino, la “festa degli alberi” piano piano perse d’importanza e di fatto venne sospesa verso gli anni Ottanta del secolo scorso,

partecipato quantomeno ad un’edizione di quella speciale festa all’aperto. Una legge nazionale, la n. 113 del 29 gennaio 1992 per incentivare gli spazi verdi urbani, introdusse l’obbligo per tutti i comuni di piantare un albero per ogni neonato, ma nel corso degli anni è stata scarsamente applicata. Di recente, con la legge n. 10 del 14 gennaio 2013 questo obbligo è stato confermato solo ai comuni sopra i quindicimila abitanti, inserendo nel conteggio, oltre alle nascite tradizionali, anche i bambini adottati. Un altro cambiamento riguarda i tempi: la piantumazione dovrà avvenire entro sei mesi (e non più dodici) dalla nascita o dall’adozione. Con questi provvedimenti il governo intende contrastare la costante perdita di zone verdi nelle zone urbane che secondo i calcoli dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) erode ben otto metri quadro al secondo. In questa sede è il caso di citare l’istituzione della “Giornata internazionale del-le Foreste” promossa dall’Assemblea delle Nazioni Unite, una circolare datata 13/11/2007 emanata dal Ministero della Pubblica Istruzione Dipartimento per l’I-struzione, Direzione Generale per lo Studente, circolare che a sua volta si rifà al decreto interministeriale del 4 agosto 2000, emanato dal Ministero delle politiche

sensibilizzare i giovani di età scolare sulle tematiche riguardanti la salvaguardia del territorio e la difesa del patrimonio forestale. Detto decreto reintroduce di fatto

marzo di ogni anno. Nella circolare si legge che “La necessità di sensibilizzare i più giovani alla sal-vaguardia delle specie autoctone arboree e forestali, attualmente in pericolo an-che per la forte incidenza degli incendi boschivi, ha portato a riscoprire in forma moderna un’antica tradizione, un tempo molto diffusa nelle scuole, che risale al 1902 [sic].Lo scopo è quello di promuovere una cultura dell’agricoltura sostenibile che con-senta la salvaguardia dell’ambiente rurale e del paesaggio, in coerenza con la programmazione didattico-formativa ed evitando il disinteresse verso il patrimo-nio naturale che spesso è alla base di tanti scempi ambientali e dello stesso fenomeno degli incendi.L’ iniziativa è volta a promuovere sia la conservazione che la tutela della diversi-tà biologica come elemento fondamentale per raggiungere un sano equilibrio tra comunità umane, ambiente naturale e agricoltura, attraverso una maggiore cono-scenza dei prodotti dei boschi e degli alberi.Gli istituti scolastici, avvalendosi della collaborazione tecnico-logistica del Corpo forestale dello Stato e degli Istituti di ricerca operanti nel settore, potranno sviluppare tra le scolaresche una più approfondita conoscenza del settore agricolo, ambientale, forestale ed alimentare, attraverso progetti formativi e iniziative

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di informazione sui prodotti dei boschi. Saranno gli stessi alunni a piantare, in occasione della celebrazione della festa, gli alberi in apposite aree pubbliche individuate d’intesa con i comuni interessati.

Un doveroso tributo di riconoscenza

Potrebbe sembrare che il rimboschimento delle pendici brulle ed incolte tra la Vallagarina ed il Sommolago fu merito esclusivo dell’intervento governativo, ma esistono almeno due eccezioni che mi sembra doveroso citatare in questa sede.

protagonista del celebre romanzo di Jean Giono “L’uomo che piantava gli alberi”. Tra il 1937 ed il 1952 nel Comune di Arco il pioniere dell’aviazione italiana, conte

brullo ed improduttivo per mettervi poi a dimora 50.000 piante in vegetazione

forestale intraprese da un privato, mosso unicamente dall’amore per il proprio paese natìo e intenzionato ad abbellirne i dintorni, dando nel contempo un lavoro sicuro a delle famiglie di concittadini che altrimenti non avrebbero avuto di che sbarcare il lunario.Altro personaggio che ha deciso di impegnarsi a fondo, mettendoci del suo per

-no al rischio di valanghe e d’estate agli smottamenti, è Augusto Girardelli. Appas-sionato della montagna, sportivo, cacciatore, promotore del turismo sull’altopiano

quando nel 1975 i casi della vita lo portarono a diventare proprietario di una parte importante di quella montagna erbosa, decide che deve fare qualcosa per essa. Uomo caparbio e gran lavoratore, riesce pian piano ad acquistare altri appez-zamenti di terreno impervio dove mette a dimora piante adatte a resistere alla

non solo ambientali e lo scetticismo di molti, prosegue nella sua azione. Nel 1977 riceve in dono 500 piantine di cirmolo e ne rimane affascinato, tanto da convincersi che sono quelle le piante ideali per rimboschire l’Altissimo. Grazie

montagna, acquistando e piantando personalmente decine di migliaia di cirmoli, piante che attecchiscono e punteggiano ora i prati dell’Altissimo. Questa ed altre interessante notizie si possono leggere nel libro intitolato “Un vita con entusia-

per festeggiare gli 80 anni del loro genitore.E con questa digressione sui due pionieri trentini che di loro iniziativa e senza chiedere nulla in cambio si sono accollati ingenti spese per inseguire un sogno, ignari emuli dell’uomo che piantava gli alberi, chiudo questa breve ricerca sulla “festa degli alberi” sperando di avere perlomeno suscitato un po’ di curiosità tra chi non ha mai avuto l’occasione di parteciparvi.

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MEMORIE D’ACQUA IN VAL DI GRESTA

di Marta Villa

Il progetto1 di valorizzazione della memoria della Val di Gresta legato alla dimen-sione dell’acqua nei suoi molteplici aspetti si è svolto nel 2012. Le ricerche hanno preso spunto da un evento che è riaf-

-po di donne di Ronzo-Chienis spacca-rono a picconate l’acquedotto per non

-deravano la loro acqua. Il fatto svela emblematicamente quanta problema-ticità sia legata da un punto di vista anche solo socio-culturale all’acqua. Questa fonte fondamentale costitui-sce anche continua fonte di minaccia (alluvioni ed erosione degli argini del Rio Gresta e sistemazione che si è fatta negli ultimi anni per gli argini del

dei centri abitati.

Il progetto “Memorie d’acqua in Val di Gresta” ha messo in evidenza che il fenomeno acqua in una valle agricola dai piccoli insediamenti umani, ricca nel suo territorio di molte testimonian-ze naturali ed antropiche legate a que-sto bene di primaria importanza, è si-curamente un tema che nel corso dei secoli ha generato interesse e proble-maticità sia riguardo lo studio in senso stretto, sia riguardo la fruizione quoti-diana e la gestione della risorsa. È ap-parso dunque interessante analizzare le reti, sociali, culturali ed ecologiche,

1 -ziato dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Trento e Rovereto, dai Comuni di Mori e Ronzo-Chienis, dalla Provincia Autonoma di Trento, dalla Comunità della Vallagarina, dal B.I.M. dell’Adige e dalla Cassa Rurale di Mori e Val di Gresta; ha visto la partecipazione della Pro Loco di Mori e Val di Gresta e della Pro Loco di Ronzo-Chienis e Val di Gresta.

Foto del Rio Gresta

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che l’acqua ha saputo intessere all’interno della comunità, composta da diverse frazioni che attualmente sono di pertinenza di due comuni distinti (Mori e Ronzo-

di indagine, alla messa in relazione dei dati per giungere invece alla fruizione del

coinvolgimento di ampi strati della popolazione: dagli amministratori, ai giovani cittadini, agli anziani, primi depositari della memoria della collettività, attraverso un

-tribuire anche alla progettualità futura. È utile ricordare che un progetto di ricerca e divulgazione in Val di Gresta della memoria della comunità legata al fenomeno acqua non è mai stato fatto. L’argomento è risultato estremamente attuale, infatti

-tità locale, della storia locale e dell’aggregazione territoriale. Il processo ha messo in luce che l’acqua è qualcosa che suscita criticità e problematicità, ma anche qualcosa che esacerba i sentimenti di difesa del proprio patrimonio e del “senso di località”. Essendo strettamente legata all’ecologia di un ambiente, ne misura lo stato di salute, anche in questo caso l’aspetto dell’indagine biologica ha permesso di far percepire agli abitanti lo stato di naturalità dei propri corsi d’acqua. La me-moria è una dimensione intima e nel contempo collettiva, la costruzione del suo processo di genesi e mantenimento è legata a molteplici fattori, la stessa scelta di cosa sia utile ricordare e cosa invece debba essere consegnato all’oblio è legata a strategie di potere e di difesa della propria costruzione identitaria. Risulta pertanto fondamentale scoprire, analizzare e rispettare queste forme di controllo sociale intimo della comunità, volte a proteggere se stessa e i propri componenti.

L’acqua, come si vedrà anche dalle diverse testimonianze di seguito riportate, è

con l’esterno ha saputo e dovuto gestire ed elaborare. La storia locale della Val di Gresta ci racconta ad esempio di un’acqua non pubblica, di proprietà lungo il corso dei secoli di chi possedeva la ricchezza ed essa stessa fonte di potere per chi la possedeva: un rapporto reciproco stretto e inscindibile. Questo tipo di rela-zione non è esclusivo di questo territorio, ma si inserisce all’interno della grande storia, dalla quale apprendiamo che l’acqua come bene pubblico è stata una con-quista molto tardiva dell’umanità: la Dichiarazione universale del Diritto all’Acqua è solo del 28 luglio 2010 per mano dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. La Dichiarazione ha sancito il diritto all’acqua potabile sicura e ai servizi igienici come un diritto umano essenziale al pieno godimento della vita e di tutti gli altri diritti umani: da ciò si evince quanto l’acqua sia essenzialmente una fonte di ne-cessità primaria e per tanto debba essere tutelata. Legato a questo diritto, trovia-mo il racconto raccolto da un importante studioso di storia locale, Giorgio Benoni di Valle San Felice, che dimostra come da sempre l’acqua sia legata al potere e la sua distribuzione avvenga secondo regole decise a priori da chi comanda o da chi ha il denaro per accaparrarsela. Giorgio Benoni, proprietario insieme al fratello del Ex Mulino Castelbarco a Valle San Felice ha spiegato che la distribu-zione dell’acqua nella contrada di La Rì a Valle San Felice era molto interessante

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acquedotto intorno al 1700. Le tubazioni erano in pietra e venivano forate presso il mulino Castelbarco di Valle San Felice. La famiglia Misturi, che voleva portarsi

-vava poco sopra l’abitato. Prima di entrare nelle case, l’acqua si fermava in una grossa vasca in pietra dove erano stati praticati tre fori a diverse altezze: il primo foro, quello più in basso, che anche in caso di siccità era sempre attivo, riforniva

il secondo foro, poco più in alto era destinato alla famiglia Bacilieri, che aveva

più in alto, era dedicato ad alimentare l’abbeveratoio dei contadini della contrada che lavoravano per questi signori. Questo acquedotto è stato utilizzato almeno

Il progetto è riuscito a raccogliere altre testimonianze importanti della vita quoti-diana della Val di Gresta, racconti che sono stati conservati nella memoria fami-liare e che grazie all’intervento degli alunni e delle insegnanti delle classi IV della Scuola Primaria di Mori e Ronzo-Chienis che hanno aderito al progetto, sono sta-

Il mulino Righi a Ronzo

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te consegnate alla comunità come patrimonio inestimabile e condivisibile e che qui vogliamo riportare così da permettere una divulgazione ancora più ampia.“Negli anni Sessanta – racconta una nonna - l’acqua a Ronzo-Chienis era abbon-dante. C’erano molte sorgenti: l’acqua de la bela siora presso il cimitero nuovo; l’acquedotto di Ronzo a nord del paese; l’acqua dell’albi sulla strada per Bordala; l’acqua de Verle sulla strada per lo Stivo, che si diceva fosse curativa e chi aveva ammalati andava a prenderla; l’acqua di Santa Barbara dove c’era una grande fontana per abbeverare gli animali che scendevano dal pascolo; l’acqua de Castil che era freddissima. A Piazera c’era una grande fontana per abbeverare il bestia-me e lavare il paiolo della polenta e i rami col belet, un miscuglio di sale, farina gialla e aceto. Per il bucato invece si andava al lavatoio di legno che si trovava vicino al mulino, sulla sponda destra del Rio Gresta”.E ancora: “Per quanto riguarda il pa-ese di Nomesino si racconta che la sorgente si trova in località Acqualù. Lì c’è una fontana dove le donne del paese andavano a lavare i panni e a prendere l’acqua per cucinare, lavarsi e bere. Alla fontana della piazza Vecia si abbeveravano gli animali delle stal-le, con la stessa acqua si irrigavano gli orti con i secchi. Oggi la fontana si trova in località Fontana, qui le donne lavavano i panni e le lenzuola con la cenere (lisciva)”.Un anziano di Nomesino ha ricordato: “Prima della Grande Guerra c’era una sorgente che sgorgava spontaneamente nel campo sopra l’attuale lavatoio. Tutti la bevevano, ma alcuni si ammalarono e morirono (fra questi anche la bisnonna). Allora gli Austriaci scavarono un tunnel e fecero una presa più profonda. Lì han-no costruito una grande fontana con la-vatoio che c’è ancora. Prima dovevano andare all’Acqualù a un chilometro dal paese sia per abbeverare il bestiame sia per il bucato”.

Una signora di Valle San Felice ha rac-contato: “Quando io ero piccola c’era una bella fontana grande in mezzo alla piazza; aveva due ferri di traverso per appoggiarci il crazidel. Chi doveva porta-re l’acqua lontano usava la zerla con due crazidei. Lì si abbeveravano gli animali, mentre a fare il bucato si andava alle lavandine che si trovavano prima del ponte e vicino al mulino, sia sopra che sotto la strada. Poi c’era una fontana più piccola

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Fontana a Valle San Felice

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qui in piazzetta, un’altra ai Finoti e una nella piazzetta della Rì. C’era una sorgen-te anche ai Rossini che era più buona e più fresca. C’era un’altra sorgente detta

andavano il sabato a lucidare i rami usando la marmolina, una speciale pietra che si sgretolava e andava benissimo per pulire. Ai miei tempi il Rio Gresta era molto ricco d’acqua: c’erano cascate e grandi pozze d’acqua dove i bambini facevano il bagno e si potevano pescare molte trote e inoltre a nord del paese c’era una pre-

Invece “A Varano ci sono due fontane e una pozza d’acqua chiamata el fontanel. La fontana in piazza c’è sempre stata: si andava a prendere l’acqua da bere, per lavare le stoviglie e per l’igiene personale. L’acqua in casa è arrivata solo dopo

che conduce al rio Gresta. Lì si lavavano i panni e chi faceva la liscia alle lenzuola poi doveva pulire tutta la fontana. D’inverno l’acqua sembrava molto più calda. Al fontanel invece si lavavano le pentole di rame e i secchi di ottone o rame con il belet, cioè farina gialla e aceto. Le mucche bevevano sia in piazza sia al lavatoio. Solo i maschi del paese si costruivano en fontam, cioè una diga per poi fare il bagno. Alla fontana di Gole c’era sempre poca acqua, ma non si è mai asciugata; bevevano le persone e gli animali al pascolo”.Dalle storie raccolte dalla viva voce dei protagonisti sono emerse anche tutte le espressioni dialettali legate all’acqua e alla relazione dell’uomo con essa. Molti luoghi dove l’acqua c’era o sgorgava avevano un nome preciso in vernacolo e questo toponimo è preziosissimo per individuare la geomorfologia di un preciso territorio: abbiamo quindi le moie, la giazzera, pra dal lac, il sass de l’acqua, la zona dei lagarini, la sorgente del breom, il fos dei albi, il boiom, acqualù, prai de

. Tutte queste espressioni descrivono determinati stati dell’acqua e permet-

l’elemento acquatico. La stessa radice preindoeuropea òr, legata all’acqua in generale, si ritrova ancora adesso in molti toponimi (Cà de l’òra, ad esempio), nomi di attrezzi legati all’acqua (come la comune Bot de l’òra che era presente in molte fucine idrauliche in Trentino e che è ancora funzionante presso la Fucina di

dal Lago di Garda, la famosa òra del Garda) o di feste religiose (candelora, ossia la benedizione delle candele con l’acqua santa)… e che magari ci potrebbe sve-lare la stessa origine del borgo di M-òr-i, anch’esso legato all’acqua abbondante e onnipresente in paese grazie ai numerosi Rii che scendono dalle montagne

-zionamento in una vasta porzione di territorio chiamata proprio Vallagarina (valle allagata, il lagaro medievale ovvero la zona acquitrinosa e paludosa).La memoria, se studiata con attenzione e rispetto, ha ancora molto da insegnare, soprattutto alle nuove generazioni e ai nuovi cittadini che possono, ascoltando la voce antica che ogni luogo racchiude, scoprire e amare la comunità dove si è

si osserva e si vive. Dall’altro lato però non bisogna dimenticare che è anche un patrimonio fragile, che necessita di continua cura e di una attenzione viva perché come purtroppo accade troppo spesso nel mondo, rischia di scomparire per sem-pre lasciando un vuoto equivalente ad una estinzione.

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REPERTI STORICI DA PRESERVARENEI PRESSI DI LOPPIO

segnalazione di Renato Mattei

Sul territorio della nostra frazione si possono tuttora osservare i resti di taluni vetusti manufatti rimasti a testimonianza del faticoso lavoro svolto dai nostri avi alcuni secoli fa. Ma a causa della mancata manutenzione, questi unici e preziosi cimeli sono in grave disfacimento se non addirittura scomparsi, causando in tal modo un grave danno al patrimonio storico ambientale locale. Nell’articolo che segue si vuole portare a conoscenza almeno una di queste situazioni, riguardanti la zona adiacente l’ex lago di Loppio.Fino al momento della scomparsa del lago stesso le strutture esistenti in questo sito ne erano parte integrante e, tramite la pesca, contribuivano in modo determinante al suo sfruttamento economico. Garantivano inoltre per mezzo dell’emissario, il rio Cameras, il corretto deflusso ed il mantenimento programmato del livello dell’acqua contenuta all’interno dell’alveo. Chi adesso transita sulla pista ciclabile o sulla strada statale nel tratto che corre dalla chiesa alla curva nei pressi della casa dei Dusi, giunto a metà percorso, nella campagna situata a nord, nota una macchia di cespugli con al centro una grossa pianta di pioppo. Solo pochi sanno che sotto quell’intricato groviglio giacciono le macerie di una singolare costruzione, da tempo crollata, una volta conosciuta con il toponimo di casetta dei pescatori o “Kafeehaus”, cioè casa del caffè.A qualche metro di distanza si notano ”la fossa”, il ponte ed i “vivèri”, questi due ultimi costruiti in marmo rosso di Verona. Dell’esistenza sul luogo di qualcuno dei sopracitati manufatti si hanno notizie datate ancora nel lontano 1600. In un testo, depositato presso l’Archivio Parrocchiale di Mori, troviamo descritto il tragitto percorso da una processione delle rogazioni, rito questo a carattere religioso un tempo celebrato per propiziare la caduta della pioggia nei periodi di siccità o implorare un buon raccolto per i prodotti della terra. Nello scritto si evidenzia la data del 4 maggio 1644 quando con una di queste processioni, partendo da Mori, si arrivò fino alla chiesetta posta, allora, sull’isola di S. Andrea. Nel ritorno giunti nei pressi del luogo sopra citato si precisa che

“si traversò con un ponte fatto di legno sopra il cameraso sotto subito la Peschera”

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9fornendo così la testimonianza che già a quella lontana data, sul posto, esisteva un qualche tipo di costruzione adatta alla cattura del pesce. La casetta dei pescatori viene riportata nella mappa del luogo e della Bordina datata 3 settembre 1814, disegnata da Giambattista Sartori di Brentonico. Poco tempo dopo quest’ultima data la zona che si estende dal lago a Mori fu oggetto di uno straordinario intervento di bonifica agraria che mutò completamente la geografia del posto. Si deve alla realizzazione di quest’opera la costruzione della ”fossa”, del ponte, dei “vivèri” e del tunnel sotterraneo, il quale partendo dai “vivèri” stessi, con una lunghezza di 400 metri circa, va a raggiungere le falde del monte Baldo per sfociare nel canale a cielo aperto.

contenuta nell’alveo del lago e la garanzia che la sua quota massima non superasse i 220 metri sul livello del mare. Fino ad allora quest’ultima era lasciata

Dipinto eseguito da Alessandro Sartori nel 1946 che ritrae la casetta dei pescatori,l’ormeggio della loro barca ed il ponte sotto il quale si trovava la darsena

dove erano ricoverate le barche dei Conti Castelbarco.

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ai capricci delle stagioni piovose subendone però le gravose conseguenze. Da

parecchio terreno da destinare all’agricoltura. Osservando le dimensioni della fossa, che di fatto è l’inizio dell’emissario, il rio Cameras, ci si chiede del perché della sua esagerata larghezza, 7 metri,

al fatto di dovervi, a suo tempo, far transitare le barche a remi onde poterle ormeggiare nei pressi della casetta dei pescatori durante lo scarico del pescato e delle reti. Queste ultime venivano in seguito stese ad asciugare al sole appese

il ciglio della fossa stessa. La casetta dei pescatori, da quest’ultimi abitata per otto mesi all’anno durante il periodo della pesca, era una torretta ottagonale della larghezza esterna di poco più di 6 metri, costruita su due piani fuori terra, dell’altezza complessiva di quasi 7 metri all’estradosso. Nel sottosuolo, al quale si accedeva tramite una scala in pietra orientata a nord, si trova ancora sepolta una vasca, costruita anch’essa in pietra rossa, dalla forma della struttura sovrastante. Ai tempi in cui nel lago si esercitava la pesca, stabilmente rifornita d’acqua corrente, vi si conservavano gli esemplari dei pesci più grossi catturati nelle reti, quali lucci, tinche, carpe, cavedani. Nel sottofondo della barca era ricavata un’intercapedine rifornita d’acqua dove i pesci, appena pescati, venivano

Inizio del tunnel del Cameras visto dall’interno;sullo sfondo uno scorcio delle vasche dei “vivèri”. (Foto di Ivo Cipriani)

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provvisoriamente alloggiati in attesa che giungessero ancora vivi alla loro nuova dimora. A questo punto bisognava aspettare che la loro particolare dimensione stimolasse l’interesse di qualche buongustaio e permettesse in tal modo di realizzare un introito superiore al normale. Il toponimo dato alla casetta deriva dall’uso che ne facevano i proprietari di sempre, i Conti di Castelbarco. La loro signorile dimora vi era direttamente collegata tramite un lungo viale, sovrastato da un alto e spazioso pergolato, del quale essi si servivano per recarsi alla darsena dove tenevano ormeggiate le loro imbarcazioni. Al ritorno dalle escursioni sul lago sovente si intrattenevano nella casetta per consumarvi il tè od il caffè, di qui il toponimo di ”Kafeehaus”. La darsena ubicata sotto il ponte alloggiava due imbarcazioni, una tutta in ferro chiamata “il barchettino” e l’altra la canoa a fondo piatto chiamata sandolino, quest’ultima era nella disponibilità dei giovani rampolli del casato per fare dell’agonismo. Le vasche dei “vivèri” furono costruite per

convogliando sia queste ultime che l’acqua all’interno della vasca posta a sud attraverso una fessura rettangolare intagliata nella parete della stessa. La ridotta dimensione della feritoia, 8 centimetri di altezza e 70 di lunghezza, imprimeva

pali venivano appese le reti da pesca ad asciugare.

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nuovamente ritorno nel lago. La vasca posta a nord serviva per trasbordarvi il pescato in attesa del possibile acquirente.

questo tipo sono stati costruiti anche in altri luoghi, ciò li rendono reperti unici nel loro genere, dando loro nel contempo una valenza storico-paesaggistica meritevole di essere tutelata. Di qui l’impellente necessità, come di recente si è fatto lodevolmente con il sito archeologico dell’isola di S. Andrea, della loro conservazione e messa a disposizione del pubblico. La fossa, il ponte ed i “vivèri” sono di proprietà della P.A.T. e sicuramente rappresentano una posizione strategica nel contesto del Sito di Interesse Comunitario dell’ex lago. Alla nostra Provincia spetta dunque l’onere di intervenire in fretta evitando che tutto ciò vada perduto. All’amministrazione Comunale locale, alla Pro Loco, alle Associazioni ed alle persone cui sta a cuore la salvaguardia delle testimonianze del nostro passato il compito di impegnarsi ulteriormente nell’intento di ottenere la loro messa in sicurezza prima che tutto scompaia per sempre.

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Casetta dei pescatori chiamata anche ”Kafeehaus”. Si notano i primi segnali del suo degrado.

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I “vivèri” già in grave stato di abbandono, visti dopo il prosciugamento del lago.

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Pensiamo che ricordare Luigi Bombana nell’anno in cui ricorre il centenario della sua nascita, 1913, sia non solo importante e significativo ma anche necessario, poiché, a 44 anni dalla morte, Bombana rimane ancora indimenticato da quelli che l’hanno conosciuto, ma quasi totalmente ignorato dalle nuove generazioni. Nominato nel testo della “Storia dell’arte nel Trentino” di Nicolò Rasmo, per il “bel monumento ai caduti”, una delle poche opere d’arte del secolo scorso citate nel volume, Bombana, scultore sensibile e talentuoso, è e rimane un personaggio illustre fra i pochi della storia di Mori (e della Vallagarina), degno di essere ricordato per le molte realizzazioni artistiche lasciate anche alla propria comunità, continuatore della tradizione degli scultori locali (dai Benedetti ad Andrea Malfatti) e per il quale è doveroso tramandarne il ricordo ai posteri in modo tangibile e duraturo. Ventiquattro anni fa in occasione del ventennale della morte, 1969, fu organizzata dall’Associazione Culturale Muria una bellissima mostra antologica, un evento importante che coinvolse anche le istituzioni e tanti appassionati, e fu accolta splendidamente soprattutto da coloro che di Gigi Bombana conservavano il ricordo del contatto diretto (allora erano molti di più) con la sua carica umana. Ma negli anni successivi l’effetto di questo positivo impatto, si è via via affievolito. Ci siamo quindi sforzati in queste poche pagine, di rendere un sunto significativo della sua opera, cercando di farne emergere la profonda umanità, la passione, ma anche la maestria tecnica e soprattutto la straordinaria cultura e sensibilità artistica, proprio per divulgare la conoscenza di questo uomo che merita un posto da titolare nella storia della comunità e far conoscere l’esistenza di un patrimonio consistente di opere da vedere, apprezzare e valorizzare. Abbiamo rivolto un pensiero soprattutto ai nostri giovani che possano trarre esempio, in questi tempi cosi tremendamente scarsi di riferimenti positivi, da un ragazzo che all’età di 16 anni, forse già intimamente consapevole delle proprie potenzialità, frequentava serenamente ma anche responsabilmente le botteghe d’arte della regione, per affrancarsi nel suo lavoro che a poco a poco cresceva e diventava arte, e gli permetteva di scolpire a soli 19 anni due statue in grandezza naturale per la chiesa di S. Agnese a Tierno. Un ragazzo, un uomo, Luigi, figlio di una famiglia partita da zero dopo la prima guerra mondiale, che ha vissuto semplicemente ma pienamente il suo tempo. Persona di speciale sensibilità, ha sofferto particolarmente le tribolazioni del secondo conflitto mondiale, ma pur scosso e tormentato ha saputo reagire, sempre inseguendo un ideale professionale ed artistico con dignità, correttezza e coerenza intellettuale. Questo non gli ha precluso di interrogarsi (gli autoritratti), di credere di più e di “cavar fuori” da se stesso, dalle proprie intime convinzioni quella forza, quella originalità, quella genialità che emergono fugaci ma imperiose, poste nelle pieghe e nelle sfumature delle sue opere o nei tanti suoi progetti rimasti tali, a prescindere dalle avversità della vita, dalle forzate rinunce, dalla mediocrità, a volte l’ipocrisia, della committenza. Noi abbiamo cercato questo in lui, selezionando queste opere, con la speranza che il forte messaggio sia raccolto e meditato dalle nostre nuove generazioni che hanno ora e più che mai bisogno di credere.

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Biografia Luigi Bombana nasce a Mori l’11 maggio 1913, ultimo di tre fratelli. Cresce nella bottega artigiana del padre (bottaio, intagliatore) con il fratello Mario intagliatore e decoratore, ed acquisisce fin da subito la passione per il legno. Dopo la scuola elementare, frequenta la scuola d’arte di Ortisei diplomandosi in scultura, perfezionandosi poi anche presso le botteghe di alcuni scultori trentini: a Segonzano e Sover. Nel 1939 si iscrive e frequenta l’Accademia di belle arti di Torino (Albertina), ma allo scoppio della seconda guerra mondiale è richiamato sotto le armi. Le successive tragiche conseguenze degli eventi bellici, dopo l’8 settembre del 1943, la prigionia nei campi di lavoro tedeschi e russi, segneranno per sempre l’animo sensibile di Luigi con una costante vena di tristezza, a volte tormento, che caratterizzerà fortemente anche taluni aspetti della sua opera. Alla fine della guerra, riprende faticosamente la sua vita lavorativa, insegnando anche disegno alle scuole postelementari di Mori e in diversi altri corsi professionali. Nel 1951 si sposa con l’insegnante Irma Tomasi ed avrà tre figli. In questo periodo felice realizza numerose pregevoli opere destinate all’ambito locale e provinciale ma anche nazionale ed estero, frequenti sono i contatti con artisti ed appassionati, gli scambi e i viaggi culturali. Dopo il Concilio Vaticano II, le nuove disposizioni in materia di arte sacra limitarono progressivamente la sua attività, azzerando in pratica le commesse per la statuaria in legno. In questo periodo inizia i progetti per la realizzazione del monumento ai caduti di Mori, opera che si trascinerà nel tempo per vari anni e che, dopo alterne vicende, alcune dagli aspetti grotteschi, finirà per concludersi nel peggiore dei modi: cioè sarà realizzata quando ormai Luigi, triste ad amareggiato, si sarà già spento dopo lunga malattia due anni prima, il 2 dicembre 1969. La prematura morte gli ha impedito di produrre tante altre opere straordinarie, in tempi probabilmente anche più favorevoli.

Principali opere esistenti a Mori

Monumento ai caduti, in p.zza Cal di Ponte – Via Crucis presso la cappella della Casa di riposo – Bambin Gesù e Madonna Addolorata, Chiesa arcipretale – portale scolpito della chiesetta di Montalbano – Sacro Cuor di Gesù e Maria, chiesa di S. Agnese a Tierno – Pietà, stele ricordo per i caduti di Tierno – ritratto bassorilievo di Mons. Cesare Viesi.

Autori Testi, fotografia, impostazione grafica: Claudio Bombana, Mariano Angelini Documentazione storica: fam. Bombana, Matilde Tranquillini

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La famiglia di Luigi Bombana ritratta nel 1917, durante l’internamento in Boemia (Repubblica Ceca). Luigi (il secondo bambino da destra) ha 4 anni, con la mamma Luigia, il papà Ernesto Giovanni, i fratelli maggiori Mario ed Emilio. Al rientro a Mori alla fine della guerra troveranno anche loro la casa in Ghetto distrutta e saranno alloggiati in una baracca del Genio militare in loc. Poz di Sotto dove, successivamente, sarà costruita l’abitazione. Negli anni ‘50, dopo la seconda guerra mondiale, sarà aggiunto il laboratorio di scultura dove Luigi svolgerà tutta la sua attività.

Luigi Bombana nell’estate 1929, a 16 anni, si trovava presso il laboratorio dello scultore Enrico Battisti di Sover, in val di Cembra. Nell’immagine, Luigi in pantaloni chiari e berretto, si trova alla destra dello scultore Battisti; La foto è stata scattata davanti alla malga Stramaiolo durante una sosta nel viaggio di ritorno da Palù dei Mocheni, attraverso il passo Redebus, dove avevano consegnato la statua di S. Maria Maddalena. (Per gentile concessione del sig. Franco Battisti, nipote dello scultore).

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Foto n. 2 - Testa-ritratto di ufficiale, Monguelfo 1941 Dopo aver frequentato l’Accademia di Belle Arti a Torino (Accademia Albertina) Luigi fu richiamato sotto le armi allo scoppio della guerra nel 1940, riuscì in questo periodo comunque a lavorare, realizzando diversi busti ritratto di pregevole fattura. Foto n. 3 - Madonna addolorata, legno dipinto, Mori alt. cm 150 Realizzata nel 1958 fu collocata in un piccolo capitello a Montalbano. Ora si trova nell’arcipretale di Mori non esposta al pubblico. Opera di grande valore formale, originale nella composizione e nell’atteggiamento, dove dolore e sofferenza sono interpretati dalla sensibilità dell’artista in modo reale, appassionato, composto. Rimane una della opere più interessanti e significative di Luigi Bombana. (foto Grigolfoto di Giovita Grigolli) Foto n. 4 - Stazione Via Crucis, in legno, chiesa di Piazzo di Villalagarina, alt. cm 45 Gli incubi ricorrenti dei ricordi di guerra arricchiscono e completano spesso di significati le stazioni delle Via Crucis, tema che l’artista predilige particolarmente per la maggior libertà di esprimere i propri stati d’animo Foto n. 5 - Stazione Via Crucis in legno nella chiesa di Marco. Alt. cm 45 Ancora i ricordi strazianti dei traumi della guerra vissuti sulla propria pelle da Bombana, sono evidenti nella figura dello sgherro che sferza brutalmente il Cristo caduto sotto la croce intimandogli di proseguire (davai = avanti in russo): così come nel calvario del Cristo, anche nel calvario dell’umanità in guerra, quella, appunto, dei “poveri cristi”. Un condensato di eccezionale forza espressiva, armonia compositiva e maestria d’esecuzione, in un fluire di plastica spazialità per l’intero percorso della Via Crucis di Marco. Foto n. 6 stazione Via Crucis, terracotta, missione in Tanzania, alt. cm 40 Lo scultore ritrae se stesso nei panni del Cireneo. Sono frequenti nelle sue opere, gli autoritratti, tantissimi sono i disegni, volti non tanto a siglarne la paternità, ma come momento importante di auto-introspezione psicologica, di coinvolgimento e immedesimazione in un ruolo in quel momento emotivamente congeniale. Foto n. 7 - Crocifisso, bozzetto in gesso alt. cm 45 Opera alla quale Bombana era molto legato, da sempre rimasta in laboratorio o in casa. Emerge da essa un potente effetto plastico dove sapienza tecnica sedimentata ed impulsi emozionali hanno guidato la percezione tattile dello scultore ad un modellato pulsante, a volte nervoso, quasi istintivo, di grande espressività chiaroscurale. Una copia in bronzo si trova nell’ufficio del Sindaco nel Municipio di Mori. Foto n. 8 - Studio per Via Crucis, bozzetto in gesso alt. cm 55 Ancora un autoritratto in questo vigoroso bassorilievo, di grande armonia compositiva e perfetto equilibrio tra i vuoti e i pieni, figure qualificate da un segno forte, essenziale, coerentemente collocate nell’esatta spazialità. Foto n. 9 - S. Giuseppe falegname, bozzetto in gesso alt. cm 50, della statua eseguita in legno in grandezza naturale esistente presso la chiesa di Marco Si dice che il bozzetto, cioè l’idea prima, esprima la freschezza, senza condizionamenti, del migliore momento artistico creativo, forse più dell’opera vera e propria. Il sapiente modellato del bozzetto modula la luce che investe ed avvolge la figura animandola di tensione emotiva e vibrante plasticità. Foto n. 10 - Testa di Cristo per monumento funebre, bozzetto in gesso alt. cm 40 Assolutamente fuori dagli schemi, di rigore inquietante, indagatore, questo volto è un opera di straordinaria potenza espressiva. Foto n 11 -Testa ritratto dello scultore Angelini, creta altezza cm 40 La grande capacità introspettiva dell’artista in quest’opera matura, si evidenzia nell’espressione magistralmente resa dal modellato fresco ed efficace. Foto n. 12 – Altorilievo bronzeo est, monumento ai caduti di Mori, ancora in fase di lavorazione. Figure di grande compostezza e umanità, simboli del dolore, della morte, della tragedia. (foto Grigolfoto) Foto n.1 - Altorilievo bronzeo ovest, monumento ai caduti di Mori, in fase di modellazione in creta. Luigi Bombana nel suo laboratorio mentre plasma la grazia, l’innocenza, la gioia di vivere e la fiducia nel futuro di questa umanità rinascente che ritrova la pace e gode finalmente dei suoi valori migliori, dopo le tragedie della guerra. Questi due bambini, belli perché così devono essere, da collocare sul retro del monumento ai caduti, tra le piante e i fiori del giardino e la fontanella gorgogliante d’acqua, sorgente di vita, esprimono il pensiero lineare, puro, trasparente dell’artista creatore. (foto Grigolfoto) La foto nella pagina di presentazione raffigura un busto-ritratto di Luigi Bombana realizzata dallo scultore Mariano Angelini.

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ERNESTO BERROUN FORESTIERO APPASSIONATO

DI QUESTA TERRA GRESTANA

di Maria Grazia Berro Girardelli

Per far conoscere Ernesto Berro ai giovani e non, affezionati lettori del Campanò de San Giuseppe, dobbiamo fare un tuffo nel passato, esattamente nell’agosto 1937, quando per la prima volta mio padre arrivò a Valle S. Felice dalla pianura veneta, dove era nato e viveva, per trascorrere una breve va-canza con la sua diletta Ginetta. Arri-vò a Loppio con il trenino della MAR e, percorrendo a piedi il sentiero di Scale, arrivò alle prime pendici di questa valle di Gardumo. Farsi conoscere dai suoi abitanti gli fu facile poiché la sua Gina

da tenera età.-

der immortalò all’istante le trincee di San Vì, la croce di legno inserita nel-le roccette con lo sfondo dei ruderi del

che collega la Rì a San Felice (v. foto-

paesaggio che gli si presentava con il rumore d’acqua, il verde pendio e la conoscenza di questa gente semplice ma laboriosa.

valle ogni anno a Ferragosto. A quel tempo nessuno in paese era in possesso

immagini, date, appunti, racconti di tutto ciò che riguardava le vicende storiche. Ernesto Berro confrontava e annotava, inserendovi altre notizie dategli da Filidea Zanella, dal dott. Enrico Less, dal Gino Betin. È grazie a mio padre se possiamo

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Croce di legno di San Vì.

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battuto per allargare una cava di mar-

simile ad un piccolo fortilizio costruito su un dosso contornato di edera e ro-binie, dimora ideale per uccelli di pas-saggio, la cui cattura diventava facile perché vi restavano impigliati fra le reti e le frasche. Questo tipo di caccia era permessa nei secoli scorsi ed i Ca-stelbarco nella valle di Gardumo forse ne possedevano più d’uno, ma ora ne rimangono solo i resti con il contorno basilare di sassi.Ernesto Berro era sempre pronto alla chiamata del Gigi e fu così che scat-tò con la sua fedele macchina una foto in bianco e nero di una lastra di

calcare con scolpiti grappoli d’uva e spighe di grano che contornano una croce greca. Questa pietra, di ori-gine longobarda e risalente all’VIII secolo, era un pluteo, cioè una ba-laustra dell’antica chiesa di Valle e venne alla luce in seguito a scavi per l’acquedotto eseguiti sul sagrato. Di questa importante scoperta archeo-logica adesso solo le foto sono rima-ste a testimonianza, in quanto il ma-nufatto originale è “misteriosamente” scomparso.Negli anni ‘60, mio padre scriveva,

rivista “I Quattro Vicariati”, con gli occhi di chi “venendo da fuori” sa apprezzare la vita in queste vallate Il roccolo di via Campagna.

Ponte di “la Ri”. Anno 1937. Ginetta Stopazzola, due sorelle Benoni, Amalia Gelmini, Elsa Finotti.

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e raccontare le vicende storiche della terra trentina.Ancor oggi alcune famiglie di Valle S. Felice conservano con cura, nello scaffale a libreria delle proprie case, alcune riviste che mio padre illustrava per conoscere meglio la Val di Gresta.La vacanza era breve ma intensa di emozioni, ritornata al lavoro ricaricato e pronto a proseguire con nuove ri-cerche sul proprio paese, Legnago, capoluogo della bassa pianura vero-nese.Tanti sono i libri da lui scritti su vari argomenti, soprattutto storici, di cui gli ultimi due stampati postumi.A questo proposito, dal suo archivio

-ressanti fogli descrittivi della chiesetta di Sant’Anna di Valle, con annotazioni particolareggiate, dategli da Filidea

-ro degli affreschi, avvenuto nella pri-mavera del 2001, sarebbero state di grande aiuto. Ai posteri di questo paesello, Ernesto Berro ha lasciato inoltre le immagini di vita quotidiana e del giorno del patrono San Felice in un cortometraggio inseri-to in Internet nel 2010 in concomitanza dell’uscita del libro di Alessio Less Valle S. Felice e la sua Famiglia Cooperativa

Il giorno 26 aprile di quest’anno è stata intitolata a suo nome una piazza di Terra-negra di Legnago, dove mio padre ha vissuto per ben 40 anni.

Anno 1949. Affresco della morte di Sant’Anna nella chiesetta omonima a Valle S. Felice.

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INTERVISTE A MIGRANTI

di Marco Cimonetti e Marco Falceri

A nostro avviso si impone l’urgenza di affrontare la questione dell’integrazione anche a partire dall’attualità moriana. Nella nostra piccola borgata infatti vivono persone provenienti da tutti i continenti del globo: questo può apparire molto banale oggi, ma le migrazioni sono la “novità sociale” degli ultimi decenni e bisogna comprenderla soprattutto da un punto di visto storico. I dati statistici del resto confermano quanto appena affermato (cfr. L’immigrazione in Trentino – Rapporto annuale 2012, curato da Maurizio Ambrosini, Paolo Boccagni e Serena Piovesan, Collana Infosociale 45, Trento, dicembre 2012): gli immigrati residenti in Trentino sono 50.708, oltre il 10% della popolazione, ripartiti equamente tra

in netta progressione (+4,3%) e relativamente alla Vallagarina i “nuovi nati” sono

al 14.5%. Questi dati confermano, in linea con le tendenze registrate nel resto del paese, che i “nuovi italiani” rappresentano e costituiscono di fatto una parte considerevole del tessuto sociale.Da qui l’idea di quest’inchiesta, elaborata a “quattro mani” e incentrata proprio sul tema delle migrazioni, a completamento delle interviste sullo stesso tema pubblicate sul numero precedente del Campanò. Si tratta di quattro interviste, effettuate a migranti di prima e seconda generazione residenti nel Comune di Mori. Non abbiamo avuto evidentemente alcuna pretesa di affrontare un argomento così complesso in modo esaustivo, ma è stata nostra intenzione mettere in primo piano alcuni frammenti di un fenomeno ineludibile del nostro tempo. L’obiettivo è stato quello di evidenziare la “lunga durata” dei processi di integrazione nella società globale. In un primo momento si è stabilito, per osservare la portata e la complessità del fenomeno, di privilegiare gli aspetti del vissuto quotidiano, come le abitudini e la vita comunitaria, adottando una prospettiva di indagine basata sul confronto tra due generazioni di migranti. Successivamente, dopo aver preparato una traccia comune, sono state effettuate in forma anonima quattro interviste a migranti residenti nel Comune di Mori, sia di prima che di seconda generazione.Il nostro contributo a tale discussione aperta intende suggerire tre atteggiamenti fondamentali della ricerca di fronte al tema delle migrazioni. Per prima cosa è necessario considerare l’integrazione in una prospettiva di “lunga durata” del fenomeno migratorio, come abbiamo cercato di evidenziare attraverso le nostre quattro interviste. Secondo, è inevitabile rilevare l’importanza di un fattore di integrazione contingente ed “originario” come la lingua, perché la lingua non è soltanto la tradizione, ma è ad un tempo l’esperienza integrante dell’abitare

della testimonianza del migrante.

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Le testimonianze dei migranti sono una ricchezza non solamente economica ma anche culturale, perché contaminano la nostra civiltà collettiva e si disseminano in una molteplicità di viaggi, esperienze, racconti, fedi e credenze. Quando e in che modo sei giunto in Italia? Intervistato 1, uomo, 50 anni, del Pakistan. Arrivo in Italia molto tempo fa, nel 1981 ho lasciato il Pakistan, il mio paese, e sono andato in Libia dove ho lavorato per circa tredici anni. Dopo sono andato per sei mesi in Inghilterra, a Manchester, e in Olanda, ad Amsterdam, dove mi sono fermato per quattro anni a lavorare. Sono arrivato in Italia nel 1998 prima a Bolzano e poi mi sono trasferito a Mori per lavorare al ristorante Tre Pini, che nel dicembre 2012 ha chiuso. Ho cercato lavoro come aiuto cuoco, ma allora non c’era un buono sfondo perciò mi sono deciso per acquistare questo locale e ad iniziare questa attività. Certo, il Pakistan mi manca, però adesso ho dei bambini, due nati in Pakistan e due in Italia, e vivo con la mia famiglia qua, ai bambini piace andare a scuola e quindi stiamo molto bene qua.

Intervistato 2, uomo, 25 anni, dall’India del Nord. Sono in Italia da quasi dodici anni. Sono arrivato nell’estate del 2002, mio padre era già qua che lavorava da

io andavo in quarta elementare.

Intervistata 3, donna, 50 anni, dalla Moldavia. Ci sono arrivata per forza, era il 2004, c’era la crisi e non c’era lavoro. In Italia viveva mia sorella e volevamo raggiungerla. Doveva arrivare prima mio marito per cercare lavoro, ma poi non c’era lavoro per lui, allora mia sorella mi ha suggerito di venire perché come badante c’era facilità di trovare un impiego. Così sono partita, e ho lasciato il bambino che aveva due anni in Moldavia con mio marito. Il bambino è stato là con lui per quattro anni, dopodiché sono riusciti a raggiungerci grazie a una famiglia di Mori che ci ha dato una mano: ha trovato lavoro a mio marito, ci ha aiutato a “fare le carte” e ci ha permesso di ricongiungerci. La prima volta che

che si rompeva. Ci hanno dato un passaporto russo falso e ci hanno insegnato in albergo qualche parola di russo per i controlli. La seconda volta mi hanno rinchiuso in una scatola all’interno del furgone per tutto il viaggio. Prima di partire ero molto preoccupata, perché quella è gente senza scrupoli che pensa solo ai soldi. Avevo paura che invece di portarmi in Italia mi costringessero a lavorare sulla strada o cose di questo genere. Inoltre, per fare tutto il viaggio in una scatola

Quando gli chiedevo informazioni, prima di partire, loro mi rispondevano sempre: “non al telefono”. Mi avrebbero concesso qualche sosta in “luoghi sicuri” dove mi sarei sgranchita. Per fortuna sono arrivata. Che lavoro facevo in Moldavia? Non facevo nessun lavoro. Accudivo mia madre che era malata, poi, dopo la sua morte, sono stata con mio padre che ha sofferto molto. Mi sono sposata e ho avuto un bambino con mio marito, ma non riuscivamo ad andare avanti, così mi sono decisa a venire in Italia per cambiare il mio futuro. Soprattutto quello di mio

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Intervistata 4, donna, 25 anni, Ucraina. Sono nata nella zona dei Monti Carpazi e un bel giorno di dodici anni fa sono arrivata in Italia. I miei genitori sono separati. Mia madre lavorava all’estero e aveva trovato opportunità di lavoro in Italia, così dopo tre o quattro anni ha deciso di portare anche me e mia sorella. Ricordo ancora il viaggio in automobile, lunghissimo e senza tappe. Ora del mio paese d’origine mi manca tutto, per prima cosa la famiglia, anche se sto assieme a mia sorella e a mia madre, il resto della mia famiglia è rimasto da un’altra parte. Mi mancano anche le mie montagne, i Carpazi, che rispetto a queste montagne

semplicità della gente, che là è ancora molto contadina, mentre qui le cose girano più in fretta.

Dove vai a fare la spesa e qual è la tua opinione sulla cucina italiana?

Intervistato 1. La spesa per casa la faccio al Dipiù, magari ai Supermercati Trentini o alla Coop del Millennium Center. Mi piace cucinare e sono un cuoco. A mezzogiorno con i bambini faccio sempre la cucina italiana, ad esempio una pasta o una bistecca di pollo o qualcos’altro, la sera invece faccio la cucina del mio paese, come il biriani che è una specialità molto rinomata a base di carne e verdure. Cucino sempre piatti italiani, mi piacciono molto le lasagne e piacciono anche a mia moglie e a mio padre.

Intervistato 2. Ehm, non vado mai a fare la spesa e mi manca anche la passione per cucinare. Di solito a casa cucina sempre mia madre, sia piatti indiani che italiani. La cucina italiana secondo me è buona, direi ottima, sana.

Intervistato 3. Faccio la spesa all’Eurospin o a volte vado al Poli. Solitamente diamo un’occhiata ai prezzi e andiamo dove sono più convenienti. Mi piace la cucina italiana e penso che sia migliore rispetto alla nostra perché è molto più leggera. In Moldavia se dobbiamo fare da mangiare per una festa dobbiamo iniziare a cucinare due giorni prima! Insalata russa, carne in gelatina, gli involtini che sono i piatti tipici del mio paese. I miei piatti italiani preferiti sono la carbonara, i crauti, lo spezzatino e lasagne.

Intervistato 4. Solitamente, quando mi manca il sale o la pasta, vado a fare la spesa alla Coop. La passione per cucinare c’è, ma è la voglia che spesso manca. Quando mi capita di cucinare faccio da un classico come la pasta al pesto o gli spaghetti aglio e olio, al borsch, che è appunto il piatto tradizionale ucraino. Cerco di mantenere le mie origini anche nella cucina, ma ovviamente mi sento anche abbastanza italiana da questo punto di vista. Quella dell’Italia è una cultura culinaria molto varia e per me ancora tutta da scoprire.

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Come trascorri il tuo tempo libero?

Intervista 1. Mi piace trascorrerlo con la mia famiglia, non è possibile per me mangiare fuori o andare da qualche parte senza di loro. Andiamo insieme a trascorrere le vacanze o spesso prendiamo lshopping e i bambini vanno al McDonald.

Intervista 2giocavo spesso con gli amici a ping-pong o a pallavolo. Ora frequento l’università a Trento, così ho meno tempo per dedicarmi a questi sport. Per un anno ho giocato anche a calcio in una squadra, ma l’impegno era troppo perché prevedeva almeno tre allenamenti a settimana e quindi ho lasciato. Adesso purtroppo con l’università il tempo è poco e quindi faccio poco e niente.

Intervista 3. Sto a casa, pulisco e ascolto musica sia italiana che moldava che

riesco a vederli perché qua tra il bambino e il lavoro non trovo quasi mai il tempo.

Intervista 4Principalmente trascorro il mio tempo libero insieme con gli amici … il classico

compagnia.

Guardi televisione?

Intervista 1. Sì, guardo il telegiornale. I miei bambini guardano quasi sempre i cartoni animati o qualcos’altro in italiano. Nell’orario serale, dopo che mi cambio i vestiti, solitamente guardo la TV per circa un’ora o mezzora, sia canali italiani che del mio paese.

Intervista 2. La guardavo, adesso non è più come una volta che guardavo la TV indiana e anche quella italiana. Da quando frequento l’università ho cambiato ritmi, e di televisione ne guardo poca. Magari, se mi capita la sera ogni tanto

Intervista 4. Devo essere sincera, io non guardo molta televisione. Primo perché

non mi ispira particolarmente.

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Ci interessa sapere qualcosa sul tuo utilizzo della rete Internet.

Intervista 1. Ho l’abbonamento a Internet a casa, però non lo uso molto perché non ho molto tempo. Lo uso per comunicare con i miei familiari all’estero.

Intervista 2. Sì, ovviamente lo uso, la maggior parte del tempo sono collegato

ricerche.

Intervista 4. Uso spessissimo la rete Internet, anzi, sono praticamente sempre

russi, ce ne sono due in particolare relativi alla zona ucraina, per mantenermi in contatto e in modo abbastanza frequente con i miei amici.

La lettura.

Intervista 1. Mi piace leggere di tanto in tanto. Non leggo molta storia, di solito leggo e studio la religione del Corano. Studio anche la Bibbia.

Intervista 2. Leggevo, ma da quando frequento l’università è cambiato tutto. C’è stato un periodo in cui leggevo solo libri gialli.

Intervista 3. Leggere? Poco.

Intervista 4. Leggo spesso i giornali e spesso e volentieri i libri. Per quanto riguarda i libri, tralasciando quelli che studio per gli esami all’università che sto frequentando, ne leggo all’incirca uno ogni tre mesi. Sono molto vicina alla letteratura del mio paese d’origine, mi piacciono tantissimo le poesie ucraine.

Il tuo rapporto con la religione.

Intervista 1. Il mio paese d’origine è per metà cristiano e per metà musulmano, ed è così anche in molti altri paesi, in Pakistan non ci sono problemi di convivenza e sono presenti sia le chiese che le moschee. Sono musulmano praticante e, anche qua, per andare a pregare frequento i luoghi di culto, come la moschea di Rovereto.

Intervista 2. Diciamo che sono credente e praticante di un ramo dell’Induismo, ovvero la religione del Sikhismo.

Intervista 3. Sono religiosa. Cristiano ortodossa, anche se in Italia mi sento più vicina al cattolicesimo. Almeno io, mio marito non so. Le cerimonie ortodosse sono molto più lunghe, sei ore sempre in piedi, e ti chiedono soldi in continuazione, mentre qua si può andare in Chiesa anche solo per un’ora, a pregare. Vai

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volentieri, perché c’è un rapporto più intimo. Il messaggio religioso è uguale e anche molte preghiere sono simili, ma mi trovo meglio con il modo di praticare la religione qua in Italia.

Intervista 4. Di religione sono cristiana ortodossa perché sono nata in uno stato ortodosso. Ma non ho un grande legame con la religione.

Hai frequentato scuole in Italia? Come hai imparato l’italiano?

Intervista 1. Inizialmente, quando sono arrivato in Italia nel 1998 sono andato a scuola a Bolzano, una scuola solo di lingua. Dopo ho frequentato i corsi di italiano all’istituto Don Milani di Rovereto. Ho appreso la lingua quando ho incominciato a lavorare nei ristoranti insieme agli italiani, prima non capivo tutto al 100% ma negli

Intervista 2. Sì, ho frequentato le scuole in Italia e mi sono trovato sempre molto bene. Sono arrivato qua in quarta elementare se mi ricordo bene, o in terza, ho fatto normalmente il mio percorso di studi e adesso studio alla facoltà di Economia dell’Università di Trento.

Intervista 3. L’ho imparato per forza da sola a casa con un dizionario italiano-moldavo. Me lo portavo a dormire sotto il cuscino e parola per parola, giorno dopo giorno, sono migliorata. Guardare la TV aiuta un po’ e dopo tre settimane già capivo tutto e poi lentamente ho iniziato a parlare. Non ho frequentato corsi di italiano per stranieri perché lavoravo e non avevo tempo. All’inizio infatti ricordo che è stata dura. Ad esempio una volta mi è successo un episodio curioso: stavo accudendo un vecchietto che aveva 84-85 anni, ed ero appena giunta in Italia e non parlavo ancora tanto bene l’italiano. Lui continuava a farmi domande: “di dove sei? Quanti anni hai?” Io capivo tutto e gli rispondevo, quando ad un certo

bacio? Allora lui si arrabbiò. Eh, avevo capito tutto.

Intervista 4. Fino alla seconda media andavo a scuola in Ucraina, poi sono arrivata in Italia per frequentare la terza media. Non è stato semplicissimo, prima di tutto perché non conoscevo la lingua. Quando sono entrata a scuola alcune cose mi erano del tutto nuove ed incomprensibili, come l’aula per la musica. Le mie compagne di classe mi facevano dei bigliettini e cartellini con il disegno del sole e con la didascalia per farmi comprendere le cose, anche i professori mi hanno aiutato tantissimo e ho trovato massima disponibilità da parte loro. Comunque, la scuola non penso sia facile neppure per un italiano.

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Che tipi di lavoro hai svolto in Italia?

Intervista 1. Da quando sono arrivato qui ho sempre svolto lavori nell’ambito della cucina e della ristorazione. Nel mio paese d’origine invece non ho mai lavorato perché studiavo.

Intervista 2. Da sempre io studio e basta, ma lavoro spesso anche, perché i miei genitori hanno un’attività, un ristorante, dove talvolta faccio il cameriere ma soprattutto sto alla cassa.

Intervista 3. Badante, donna delle pulizie. Mi piace stare con gli anziani e con i bambini perché mi calmano e mi rilassano.

Intervista 4Ho fatto diverse stagioni estive, lavorando nell’ambito della ristorazione, ma ho anche insegnato a dei corsi di aggiornamento l’uso di un programma per tenere la contabilità. In questo periodo sto facendo l’interprete, faccio traduzioni.

La cittadinanza: cosa rappresenta per te, anche e soprattutto in relazione al tema dell’integrazione?

Intervista 1. Essendo nato in Pakistan mi sento ancora oggi cittadino pakistano. Nei prossimi mesi farò domanda per la cittadinanza italiana, visto che sono quasi dieci anni che risiedo qua. Grazie a Dio ora è tutto a posto e in generale devo dire che mi trovo molto bene qua. C’è molto rispetto, e non ricordo di aver vissuto episodi negativi.

Intervista 2. È una bella domanda. Io mi sento un italiano e tra un po’ di tempo dovrei avere la cittadinanza italiana. In realtà è soltanto un documento, che tra un po’ dovrei acquisire perché dopo dieci anni di soggiorno in Italia te lo danno, anche se già da tempo devo ammettere che mi sento italiano.

Intervista 3. Io non ho la cittadinanza italiana, ho quella rumena. Da un punto di vista pratico non cambia niente con quella italiana. Però, soprattutto per il bambino che vivrà qua, sarebbe bello potesse avere la cittadinanza italiana, ad esempio potrebbe andare a votare. Poi è molto importante avere le “carte in regola”, io che i primi anni ero qui come clandestina lo so bene. Una volta sono andata a chiedere informazioni alla polizia di Rovereto per far arrivare qua in Italia mio

almeno così pensavo, il passaporto e i documenti di soggiorno. Mi è cascato il mondo! Cosa faccio? Senza quei documenti ero di nuovo nella situazione di prima. Per fortuna, poche ore dopo, mi ha chiamato il negozio dove avevo fatto la spesa il giorno prima dicendomi che avevano loro i miei documenti. Ero rinata!

tengo i miei documenti.

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Intervista 4. Un conto è il discorso di essere considerata italiana, infatti mi sento italiana e la cittadinanza è per me una “carta” che mi rappresenta, un altro discorso però è quello di essere nata in un paese che non appartiene all’Europa, come l’Ucraina. Questo è un aspetto davvero complicato, sia a livello istituzionale che personale è dura. Nella mia esperienza di integrazione ricordo, ad esempio, alcuni episodi di intolleranza. Quando ero appena giunta in Italia e frequentavo la terza media, mentre mangiavo alla mensa scolastica, una compagna mi ha insultata davanti a tutti. Ugualmente, se adesso lavoro in un bar, magari mi può capitare di ricevere degli insulti non appena i clienti vengono a conoscenza della

italiani ma anche con i miei connazionali. Perciò mi sono inevitabilmente adeguata all’”italianizzazione”.

Ti interessi della vita economica e politica dell’Italia?

Intervista 1. Mi interesso delle questioni italiane e anche del Pakistan, adesso però non mi sto interessando molto della politica italiana, ad esempio in fatto di voto ancora non mi interesso. Intervista 2. Mah, devo dire che la politica non mi interessa molto, l’economia sì, e spesso leggo le notizie sui giornali locali come «L’Adige» e «Il Trentino». Ultimamente però i personaggi della politica mi sono abbastanza indifferenti. Che idea mi sono fatto della società italiana? L’Italia è proprio un bel paese, eh, a parte la politica che non fa il suo lavoro e non sta andando molto bene negli ultimi tempi. Speriamo che si riprenda! Personalmente mi sento più italiano che indiano perché sono cresciuto qua e ho tutto qua.

Intervista 3. Si, ma non ho il tempo di seguirla, perché il calcio e i cartoni animati monopolizzano lo schermo. Ma per il resto non ho un’idea particolare sui politici italiani.

Intervista 4. Certo, tantissimo. Studio economia all’università. Attualmente purtroppo non c’è una parte che potrebbe soddisfarmi a livello politico.

Tenendo conto della tua esperienza di migrante, ora ti senti abbastanza integrato nella comunità locale?

Intervista 1. La mia famiglia, i miei bambini che hanno la possibilità di studiare, i documenti qua. Sì, devo ammettere che io qua ho trovato l’equilibrio.

Intervista 2. Tanto, anzi tantissimo. Non ho mai avuto problemi né con gli enti pubblici né con le persone che ho incontrato, forse nel tempo, ma è una cosa che riguarda la mia esperienza che risale oramai a più di dieci anni fa, quando

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Intervista 3. Sì, sto bene. Ogni tanto sembra di sì e ogni tanto un po’ meno. Magari quando ti capita che sei lì che lavori, dai sempre tutto e ti senti dire: “quella lì è venuta a rubare il lavoro”, o frasi simili, e ci rimani male, mi è successo personalmente e ci sono rimasta male. Io non porto via il lavoro a nessuno! Adesso con la famiglia per cui lavoro sto benissimo, ma ho lavorato anche in altri posti e lì molte volte siamo tutti stranieri, stranieri, stranieri … Certo, sono anch’io straniera ma non tutti gli stranieri sono uguali, anche tra i nostri ci sono i buoni e i cattivi come tra gli italiani, e ogni tanto, quando ti dicono su solo perché sei straniera, ci stai proprio male. Ma bisogna farsi coraggio e andare avanti. Comunque, adesso che siamo a Mori ci troviamo bene. Considero casa mia sia Mori che la Moldavia. Quando sono qua soffro perché i miei parenti rimangono là, adesso che vado in Moldavia (ndr. l’intervistata parte il giorno seguente per la Moldavia) mi preoccupo, perché lasciamo a Mori la famiglia per cui lavoriamo. Per me adesso loro sono come una famiglia.

Intervista 4sport, i centri di accoglienza, etc. Ma secondo me il discorso sull’integrazione non deve limitarsi soltanto alle istituzioni, perché bisogna intenderlo come qualche cosa che possa regolare la persona, oltre la presenza delle istituzioni.

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DONNE E BAMBINI IN CODA PER UNA CIOTOLA DI MINESTRA

FOTO D’ARCHIVIO DELLA CITTÀ DI LUGO E DALLA COLLEZIONE DI ANGELO BELLINI

a cura di Edoardo Tomasi

Nel corso della terza edizione della Ganzèga, quindi nell’autunno 1999, una folta rappresentanza della città di Lugo di Romagna ricambiò la visita che pochi mesi prima una delegazione di Mori aveva effettuato per riallacciare un legame di

L’argomento è stato più volte affrontato in questa rivista, per cui dò per scontato che sia noto ai nostri cortesi lettori, invitando chi invece non conoscesse i motivi di questa sorta di “gemellaggio” a leggere l’agile testo pubblicato per l’occasione in coedizione tra Comitato Turistico Locale e la Biblioteca di Mori nel 1999. Si intitola «La cucina economica di Lugo tra “le macerie e la miseria” di Mori (1919)», a cura di Aldo Miorelli e dello scrivente: riassume in poche pagine i motivi che

rientrati da un lungo esilio forzato in terre straniere. Ricordo che proprio quando stavo per dare il “visto si stampi” alla seconda bozza,

alla grande guerra, provenienti da una raccolta privata lasciatale in eredità da un parente scomparso da poco, di nome Marcello Marchiori: tra di esse, con

realizzato per ospitare la “cucina economica” generosamente donata dal Comitato “Per Mori redenta” costituitosi a Lugo su sollecitazione di Giulia Montanari, una donna straordinaria di cui abbiamo già scritto nel Campanò del 2009. Osservando

e l’Asilo Peratoner, quindi a pochi passi dalla biblioteca!A quella prima foto (qui pubblicata a pag.79) che ritenevo essere unica nel suo genere, è ora possibile aggiungerne altre tre inedite, scattate quasi di certo nello stesso giorno e dal medesimo fotografo, di cui ora sappiamo pure il cognome: Caravita di Lugo. Le ha trovate di recente la collega bibliotecaria di Lugo, Ivana Pagani, la stessa che 14 anni fa avevo contattato per chiedere maggiori informazioni sulla vicenda della “cucina economica”. Ben sapendo che l’argomento è sempre d’attualità per la biblioteca di Mori, Ivana me ne ha subito inviata copia via posta elettronica.Grazie a questa seconda, fortunata circostanza, siamo ora in grado di mostrarvi altre persone, soprattutto anziane e bambini, in paziente e rassegnata attesa di

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un mestolo di cibo caldo per alleviare i morsi feroci della fame. Si sa che la mensa lughese aprì i battenti il 22 aprile 1919, con una distribuzione giornaliera di 500

come detto. “Secondo il criterio seguito per l’assegnazione delle porzioni” - si legge in un

bisognose del paese, ... le altre persone furono scelte tra le famiglie dei contadini che, occupate unicamente ai lavori dei campi distrutti e devastati, non possono ora godere di alcuna entrata pecuniaria sino ai prossimi raccolti.” Molto interessante l’interno della cucina, con le grandi caldaie ed i secchi fumanti:

appeso sotto un ritratto. È assai probabile che tra i giovani “redenti” vi fosse qualcuno degli uomini o delle donne che parecchi anni dopo si trovarono assieme alla tradizionale festa dei

e stentato.

Bellini, collezionista e poeta di Mori, pubblichiamo una prima serie di foto di gruppo di moriani riuniti nelle rispettive feste di classe, dal 1900 al 1915 (manca solo la classe 1902). Purtroppo non conosciamo i loro nomi e vi saremmo grati se ci aiutaste a dare un’identità a queste persone. Chi riconoscesse un parente o un vecchio amico

consentirà di proseguire le ricerche tuttora in corso. Basta rivolgersi in biblioteca, lì c’è sempre posto anche per la vostra storia.

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provengono dalla collezione di Angelo Bellini.

La Pro Loco Mori Val di Gresta ringrazia gli inserzionisti

per la loro sensibilità

Mori (Tn) dal 20 settembre al 06 ottobre 2013